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aggiornamento al 14.03.2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 14.03.2019

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IN EVIDENZA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOGestione associata delle funzioni essenziali, l’obbligo per i piccoli Comuni è incostituzionale. Per i comuni sotto i 5 mila abitanti è incostituzionale l'obbligo assoluto di gestire congiuntamente, mediante unione o convenzione, le funzioni essenziali (07.03.2019 - link a www.giurdanella.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPiccoli comuni, incostituzionale la norma sulla gestione associata delle funzioni fondamentali. Gli enti possono sottrarsi se dimostrano che non realizza risparmi.
La disposizione che impone ai comuni con meno di 5.000 abitanti di gestire in forma associata le loro funzioni fondamentali (trasporto pubblico, polizia municipale ecc.) è incostituzionale là dove non consente ai comuni di dimostrare che, in quella forma, non sono realizzabili economie di scala e/o miglioramenti nell’erogazione dei beni pubblici alle popolazioni di riferimento.
Lo ha affermato la Corte costituzionale con la sentenza 04.03.2019 n. 33 in riferimento all’art. 14, comma 28 del decreto-legge 31.05.2010, n. 78.
Secondo la Corte, l’obbligo imposto ai comuni sconta un’eccessiva rigidità perché dovrebbe essere applicato anche in tutti quei casi in cui:
   a) non esistono comuni confinanti parimenti obbligati;
   b) esiste solo un comune confinante obbligato, ma il raggiungimento del limite demografico minimo comporta il coinvolgimento di altri comuni non in situazione di prossimità;
   c) la collocazione geografica dei confini dei comuni (per esempio in quanto montani e caratterizzati da particolari fattori antropici, dispersione territoriale e isolamento) non consente di raggiungere gli obiettivi normativi.
Si tratta di situazioni dalla più varia complessità che però -secondo la sentenza- meritano attenzione perché il sacrificio imposto all’autonomia comunale non realizza quei risparmi di spesa cui è finalizzata la normativa stessa.
La sentenza, inoltre, richiama l’attenzione sul fatto che, rispetto al disegno costituzionale, l’assetto organizzativo dell’autonomia comunale italiana è da sempre relegato “a mero effetto riflesso di altri obiettivi”. Una doverosa cooperazione da parte del sistema degli attori istituzionali, direttamente o indirettamente coinvolti, dovrebbe invece assicurare il raggiungimento del difficile obiettivo di una equilibrata, stabile e organica definizione dell’assetto fondamentale delle funzioni ascrivibili all’autonomia locale.
A questo proposito la sentenza ricorda come in altri Paesi (ad esempio in Francia) sono state trovate risposte strutturali al problema della polverizzazione dei comuni, spesso attuando la differenziazione sul piano non solo organizzativo ma anche funzionale.
La Corte ha infine dichiarato l’illegittimità delle norme della legge regionale Campania sulla individuazione della dimensione territoriale ottimale e omogenea per lo svolgimento delle funzioni fondamentali, in quanto approvate in assenza della necessaria concertazione con i Comuni interessati (articolo ItaliaOggi Sette del 04.03.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOI piccoli comuni possono sottrarsi alla gestione associata delle funzioni fondamentali se dimostrano che non realizza risparmi.
La disposizione che impone ai Comuni con meno di 5.000 abitanti di gestire in forma associata le loro funzioni fondamentali (trasporto pubblico, polizia municipale, ecc.) è incostituzionale là dove non consente ai Comuni di dimostrare che, in quella forma, non sono realizzabili economie di scala e/o miglioramenti nell’erogazione dei beni pubblici alle popolazioni di riferimento.
Lo ha affermato la Corte costituzionale con la sentenza 04.03.2019 n. 33 (relatore Luca Antonini) in riferimento all’art. 14, comma 28, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78. Secondo la Corte, l’obbligo imposto ai Comuni sconta un’eccessiva rigidità perché dovrebbe essere applicato anche in tutti quei casi in cui:
   a) non esistono Comuni confinanti parimenti obbligati;
   b) esiste solo un Comune confinante obbligato, ma il raggiungimento del limite demografico minimo comporta il coinvolgimento di altri Comuni non in situazione di prossimità;
   c) la collocazione geografica dei confini dei Comuni (per esempio in quanto montani e caratterizzati da particolari fattori antropici, dispersione territoriale e isolamento) non consente di raggiungere gli obiettivi normativi.
Si tratta di situazioni dalla più varia complessità che però -secondo la sentenza- meritano attenzione perché il sacrificio imposto all’autonomia comunale non realizza quei risparmi di spesa cui è finalizzata la normativa stessa.
La sentenza, inoltre, richiama l’attenzione sul fatto che, rispetto al disegno costituzionale, l’assetto organizzativo dell’autonomia comunale italiana è da sempre relegato “a mero effetto riflesso di altri obiettivi”. Una doverosa cooperazione da parte del sistema degli attori istituzionali, direttamente o indirettamente coinvolti, dovrebbe invece assicurare il raggiungimento del difficile obiettivo di una equilibrata, stabile e organica definizione dell’assetto fondamentale delle funzioni ascrivibili all’autonomia locale. A questo proposito la sentenza ricorda come in altri Paesi (ad esempio in Francia) sono state trovate risposte strutturali al problema della polverizzazione dei Comuni, spesso attuando la differenziazione sul piano non solo organizzativo ma anche funzionale.
La Corte ha infine dichiarato l’illegittimità delle norme della legge regionale Campania sulla individuazione della dimensione territoriale ottimale e omogenea per lo svolgimento delle funzioni fondamentali, in quanto approvate in assenza della necessaria concertazione con i Comuni interessati.
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Norme impugnate: Art. 14, c. 26°, 27°, 28°, 29°, 30° e 31°, del decreto-legge 31/05/2010, n. 78, convertito, con modificazioni, in legge 30/07/2010, n. 122, anche come modificato dall'art. 19, c. 1°, del decreto-legge 06/07/2012, n. 95, convertito, con modificazioni, in legge 07/08/2012, n. 135, e dell'art. 1, c. 110° e 111°, della legge della Regione Campania 07/08/2014, n. 16.
Oggetto: Enti locali - Comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, ovvero a 3.000 abitanti - Previsto esercizio obbligatorio in forma associata delle funzioni fondamentali tassativamente stabilite dalla legge - Conseguente sottrazione degli organi gestionali all'indirizzo politico degli organi rappresentativi - Lesione del principio di responsabilità politica degli organi elettivi. Enti locali - Norme della Regione Campania - Previsto esercizio in forma associata delle funzioni fondamentali dei Comuni, ai sensi del d.l. n. 78/2010, convertito, con modificazioni, in legge n. 122/2010, all'interno degli ambiti territoriali ottimali coincidenti con i sistemi territoriali di sviluppo di cui alla legge regionale n. 13/2008.

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7.2.– Le prime questioni, aventi ad oggetto l’art. 14, commi 28, 28-bis, 29, 30 e 31 del d.l. n. 78 del 2010, sono per un verso infondate, e per l’altro parzialmente fondate solo riguardo al comma 28 del citato art. 14, nei termini di seguito indicati, in relazione all’art. 3, nel combinato disposto con gli artt. 5, 97 e 118 Cost.
7.3.– Quanto all’infondatezza, peraltro, il riferimento al parametro di cui all’art. 95 Cost., appare non conferente, attesa la sua riferibilità solo all’indirizzo politico del Governo.
In ogni caso, se da un lato è indubbio che «[p]er quel che riguarda in particolare gli enti locali territoriali è un dato definitivamente acquisito come la loro autonomia vada in primo luogo intesa quale potere di indirizzo politico-amministrativo» (sentenza n. 77 del 1987), tuttavia, dall’altro, nell’ordinamento, come ricordato, già da tempo sono previsti gli istituti della unione e della convenzione, che stabiliscono modalità di attuazione delle scelte di indirizzo politico di ciascun ente tramite la mediazione di specifiche strutture comuni.
Se quindi esistesse, come sembra ritenere l’ordinanza ed espressamente afferma la difesa dei ricorrenti, un vincolo costituzionale per cui in un unico soggetto istituzionale debbono sempre coincidere la funzione di indirizzo politico e quella dell’indirizzo amministrativo, la sua violazione discenderebbe direttamente dalla previsione della forma associativa in sé stessa, a prescindere dal fatto che questa risulti obbligatoriamente imposta.
Sarebbe, infatti, la stessa forma associativa, costituendo –secondo la metafora proposta dalla difesa dei ricorrenti– un «sistema di governo locale acefalo», a risultare lesiva, nel contesto dell’autonomia comunale, dell’archetipo del principio rappresentativo e delle sue necessarie implicazioni: l’essere cioè in grado di ricevere dalla comunità locale un proprio indirizzo politico e di tradurlo in scelte di politica amministrativa.
Tale conclusione appare palesemente insostenibile, posto che le forme associative risultano pur sempre una proiezione degli enti stessi, come affermato da questa Corte in più occasioni (sentenze n. 456 e n. 244 del 2005 e n. 229 del 2001).
Anche nella più stringente delle stesse, l’unione di Comuni, che è provvista di propri organi, il meccanismo della rappresentanza di secondo grado appare compatibile con la garanzia del principio autonomistico, dal momento che, anche in questo caso, non può essere negato che venga «preservato uno specifico ruolo agli enti locali titolari di autonomia costituzionalmente garantita, nella forma della partecipazione agli organismi titolari dei poteri decisionali, o ai relativi processi deliberativi, in vista del raggiungimento di fini unitari nello spazio territoriale reputato ottimale» (sentenza n. 160 del 2016).
L’art. 32 del t.u. enti locali prevede, infatti, che il consiglio dell’unione sia «composto da un numero di consiglieri definito nello statuto, eletti dai singoli consigli dei comuni associati tra i propri componenti», nonché che sia assicurata «la rappresentanza di ogni comune» e «garantita la rappresentanza delle minoranze». Tanto basta a renderlo rappresentativo degli enti che vi partecipano, che rimangono capaci di tradurre il proprio indirizzo politico in una reale azione di influenza sull’esercizio in forma associata delle funzioni.
Da ultimo, va rilevato che non è pertinente il richiamo alla sentenza n. 52 del 1969, dove l’affermazione per cui «la sfera di autonomia sarebbe compromessa se agli enti ai quali essa è riconosciuta e garantita fosse sottratta del tutto la disponibilità degli strumenti necessari alla sua esplicazione», avveniva in realtà in un giudizio relativo alla disciplina legislativa –in ogni caso non censurata dalla pronuncia– che demandava all’autorità statale la selezione per concorso e la nomina dei segretari generali della Provincia.
7.4.– Tanto chiarito, le questioni vertono essenzialmente, più che sulle forme associative in sé considerate –della cui legittimità costituzionale, come si è visto, non è possibile dubitare–, sull’obbligo che di queste viene imposto.
Rispetto a questo più limitato profilo, tuttavia, occorre considerare che la disciplina censurata (in particolare, il comma 28 dell’art. 14 del d.l. n. 78 del 2010) lascia all’autonomia degli enti locali interessati l’alternativa tra due istituti (convenzione e unione), i cui caratteri costitutivi e funzionali consentono agli enti stessi di modulare il rispetto della norma con valutazioni proprie dell’indirizzo politico.
Infatti, questi possono optare tra la modalità convenzionale (a sua volta declinabile in varie alternative di organizzazione delle competenze e degli uffici) e quella dell’unione, comportante una più stretta integrazione quale conseguenza del conferimento delle funzioni e delle connesse risorse finanziarie.
È pur vero che l’ente che abbia individuato il modello convenzionale potrebbe però successivamente perdere la facoltà di proseguire in tale forma associativa ove non ne dimostri la efficacia, venendo così obbligato a utilizzare il modello dell’unione (comma 31-bis dell’art. 14 del d.l. n. 78 del 2010).
In tal caso, tuttavia, la minore concessione all’autonomia comunale trova fondamento nella finalità della disciplina, che è diretta a porre rimedio ai problemi strutturali di efficienza –e in particolare a quello della mancanza di economie di scala– dei piccoli Comuni.
In quest’ottica il titolo che fonda un tale intervento statale è già stato ravvisato, come detto, da questa Corte, nella «potestà statale concorrente in materia di coordinamento della finanza pubblica» (sentenze n. 44 e n. 22 del 2014).
Ciò è avvenuto con riguardo alle competenze regionali, ma nella medesima prospettiva esso è riferibile alla esposta limitazione dell’autonomia comunale e tanto comporta, fra l’altro, che, salvo quanto si preciserà in relazione al comma 28 del citato art. 14 del d.l. n. 78 del 2010, debbano dichiararsi infondate le censure relative ai successivi commi 28-bis, 29, 30 e 31 del medesimo articolo.
7.5.– Tuttavia, rimane pur vero che, secondo la giurisprudenza costituzionale, gli interventi statali in materia di coordinamento della finanza pubblica che incidono sull’autonomia degli enti territoriali devono svolgersi secondo i canoni di proporzionalità e ragionevolezza dell’intervento normativo rispetto all’obiettivo prefissato (ex plurimis sentenza n. 22 del 2014).
Da questo verso le censure del giudice rimettente sono parzialmente fondate, ma solo relativamente al comma 28 dell’art. 14 del d.l. n. 78 del 2010, in riferimento all’art. 3 Cost., nel combinato disposto con gli artt. 5, 97 e 118 Cost., rispetto ai principi autonomistico, di buon andamento, di differenziazione e adeguatezza, con assorbimento di ogni altro profilo di censura.
La previsione generalizzata dell’obbligo di gestione associata per tutte le funzioni fondamentali (ad esclusione della lett. l del comma 27) sconta, infatti, in ogni caso un’eccessiva rigidità, al punto che non consente di considerare tutte quelle situazioni in cui, a motivo della collocazione geografica e dei caratteri demografici e socio ambientali, la convenzione o l’unione di Comuni non sono idonee a realizzare, mantenendo un adeguato livello di servizi alla popolazione, quei risparmi di spesa che la norma richiama come finalità dell’intera disciplina.
La norma del comma 28 dell’art. 14 del d.l. n. 78 del 2010, infatti, pretende di avere applicazione anche in tutti quei casi in cui: a) non esistono Comuni confinanti parimenti obbligati; b) esiste solo un Comune confinante obbligato, ma il raggiungimento del limite demografico minimo comporta la necessità del coinvolgimento di altri Comuni non posti in una situazione di prossimità; c) la collocazione geografica dei confini dei Comuni non consente, per esempio in quanto montani e caratterizzati da particolari «fattori antropici», «dispersione territoriale» e «isolamento» (sentenza n. 17 del 2018), di raggiungere gli obiettivi cui eppure la norma è rivolta.
Si tratta di situazioni dalla più varia complessità che però meritano attenzione, perché in tutti questi casi, solo esemplificativamente indicati, in cui l’ingegneria legislativa non combacia con la geografia funzionale, il sacrificio imposto all’autonomia comunale non è in grado di raggiungere l’obiettivo cui è diretta la normativa stessa; questa finisce così per imporre un sacrificio non necessario, non superando quindi il test di proporzionalità (ex plurimis sentenze n. 137 del 2018, n. 10 del 2016, n. 272 e n. 156 del 2015).
Va peraltro rilevato che un ulteriore sintomo delle criticità della normativa risulta dall’estenuante numero dei rinvii dei termini originariamente previsti, che, come evidenziato dal giudice rimettente, coprendo un arco temporale di quasi un decennio, dimostrano l’esistenza di situazioni oggettive che, in non pochi casi, rendono di fatto inapplicabile la norma.
Il menzionato comma 28 è pertanto illegittimo nella parte in cui non prevede la possibilità, in un contesto di Comuni obbligati e non, di dimostrare, al fine di ottenere l’esonero dall’obbligo, che a causa della particolare collocazione geografica e dei caratteri demografici e socio ambientali, del Comune obbligato, non sono realizzabili, con le forme associative imposte, economie di scala e/o miglioramenti, in termini di efficacia ed efficienza, nell’erogazione dei beni pubblici alle popolazioni di riferimento.
Si tratta di un’attenzione a particolari situazioni differenziate che già ha trovato nella normativa censurata una parziale, ma non sufficiente, considerazione, che si rinviene laddove la stessa riconosce due casi meritevoli di totale esonero dall’obbligo –le isole monocomune e il Comune di Campione d’Italia– in base a una ratio univocamente ricollegabile alla inesigibilità dell’obbligo per le peculiari connotazioni anche geografiche di tali enti locali.
Inoltre, lo stesso meccanismo disciplinato al comma 31-bis del citato art. 14, prevede, come ricordato, ove l’ente abbia valutato di optare per l’attuazione dell’obbligo associativo mediante convenzione, una successiva verifica della sua effettiva efficacia, mediante una fase di interlocuzione procedimentale dell’ente locale con il Ministero dell’interno; solo all’esito negativo di tale interlocuzione, cioè allorquando il Comune non ha comprovato il conseguimento di «significativi livelli di efficacia ed efficienza nella gestione», scatta l’obbligo della unione.
Tali esoneri dall’obbligo e la necessaria interlocuzione con gli enti locali, già prefigurati dalla normativa impugnata, sono quindi da estendere come qui indicato, in modo da evitare che la rigidità della disciplina possa condurre, irragionevolmente, a effetti contrari alle finalità che la giustificano.
Peraltro, va precisato che la portata della decisione non coinvolge tutte quelle diverse situazioni in cui le normative impongono obblighi di gestione associata di funzioni e/o servizi alla generalità dei Comuni, e quindi sono riferibili a tutti gli enti locali appartenenti a un determinato ambito territoriale, senza che si distingua tra Comuni obbligati e non.
Spetterà, da un lato, ai giudici comuni trarre dalla decisione i necessari corollari sul piano applicativo, avvalendosi degli strumenti ermeneutici a loro disposizione, e, dall’altro, al legislatore provvedere a disciplinare, nel modo più sollecito e opportuno, gli aspetti che richiedono apposita regolamentazione (sentenze n. 88 del 2018 e n. 113 del 2011).
7.6.– Tale conclusione induce peraltro a richiamare l’attenzione sui gravi limiti che, rispetto al disegno costituzionale, segnano l’assetto organizzativo dell’autonomia comunale italiana, dove le funzioni fondamentali risultano ancora oggi contingentemente definite con un decreto-legge che tradisce la prevalenza delle ragioni economico finanziarie su quelle ordinamentali. Un aspetto essenziale dell’autonomia municipale è quindi risultato relegato a mero effetto riflesso di altri obiettivi: infatti, nella legge 05.05.2009, n. 42 (Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione), l’individuazione (provvisoria) delle funzioni fondamentali (art. 21, comma 3) è stata meramente funzionale a permettere la disciplina del cosiddetto federalismo fiscale; nel d.l. n. 78 del 2010 (in via ancora provvisoria), e nel d.l. n. 95 del 2012 (in via non più provvisoria), essa è stata strumentale a vincolare, per motivi di spending review, i piccoli Comuni all’esercizio associato delle funzioni stesse.
A seguito dell’infelice esito dei vari tentativi, pur esperiti nell’ultimo quindicennio, di approvazione della cosiddetta Carta delle autonomie locali, il problema della dotazione funzionale tipica, caratterizzante e indefettibile, dell’autonomia comunale non è, quindi, stato mai stato risolto ex professo dal legislatore statale, come invece avrebbe richiesto l’impianto costituzionale risultante dalla riforma del Titolo V della Costituzione. Una «fisiologica dialettica», improntata a una «doverosa cooperazione» (sentenza n. 169 del 2017), da parte del sistema degli attori istituzionali, nelle varie sedi direttamente o indirettamente coinvolti, dovrebbe invece assicurare il raggiungimento del pur difficile obiettivo di una equilibrata, stabile e organica definizione dell’assetto fondamentale delle funzioni ascrivibili all’autonomia locale.
Sarebbe questo, peraltro, l’ambito naturale dove anche considerare i limiti –da tempo rilevati– dell’ordinamento base dell’autonomia locale, per cui le stesse funzioni fondamentali –nonostante i principi di differenziazione, adeguatezza e sussidiarietà di cui all’art. 118, Cost.– risultano assegnate al più piccolo Comune italiano, con una popolazione di poche decine di abitanti, come alle più grandi città del nostro ordinamento, con il risultato paradossale di non riuscire, proprio per effetto dell’uniformità, a garantire l’eguale godimento dei servizi, che non è certo il medesimo tra chi risiede nei primi e chi nei secondi.
Non appare inutile, al riguardo, ricordare che riusciti interventi strutturali in risposta al problema della polverizzazione dei Comuni sono stati realizzati in altri ordinamenti, spesso attuando la differenziazione non solo sul piano organizzativo ma anche su quello funzionale. Ciò è avvenuto, ad esempio, in quello francese, dove il problema è stato risolto sia con la promozione di innovative modalità di associazione intercomunale, sia attraverso formule di accompagnamento alle fusioni; in forme diverse, ma sempre con interventi di tipo organico, risposte sono state fornite anche in Germania, nel Regno Unito e in molti altri Stati europei (basti ricordare Svezia, Danimarca, Belgio, Olanda).
7.7.– La seconda censura, relativa alla violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 3 della Carta europea dell’autonomia locale, deve ritenersi assorbita nella dichiarazione di fondatezza del comma 28 dell’art. 14 del d.l. n. 78 del 2010 di cui al precedente punto 7.5 e infondata per le medesime ragioni di cui al precedente punto 7.4 in relazione ai restanti commi dello stesso articolo.
8.– Infine, il TAR rimettente pone sulle norme censurate anche le questioni di legittimità costituzionale per violazione degli artt. 133, secondo comma, Cost., in relazione all’istituzione di nuovi Comuni, e degli artt. 114 e 119 Cost., con riferimento all’autonomia organizzativa e finanziaria degli enti locali. Secondo il giudice a quo, infatti, sebbene attraverso l’esercizio associato di quasi tutte le funzioni fondamentali, imposto per legge, «gli enti interessati non risultino formalmente estinti», non permarrebbe, in ogni caso, in capo al Comune quel «“nucleo minimo” di attribuzioni» tale da consentire la sua qualificazione costituzionale in termini di ente autonomo. Per le funzioni fondamentali opererebbe quindi «una riserva costituzionale di esercizio individuale».
Pertanto, poiché le norme censurate hanno disposto «la traslazione di tutte queste funzioni ad un soggetto nuovo o diverso, spogliandone il precedente titolare», ai fini dell’art. 133, secondo comma, Cost., tale situazione non sarebbe «distinguibile dall’estinzione dell’ente locale per fusione o incorporazione», oltre ad essere mancata la «previsione del coinvolgimento delle popolazioni interessate» richiesta dalla medesima norma costituzionale.
8.1.– Le questioni sono infondate.
Innanzitutto, anche in forza di quanto già rilevato nel punto 7.3, si deve escludere l’esistenza di una «riserva costituzionale di esercizio individuale» delle funzioni fondamentali, che renderebbe illegittimi gli stessi istituti associativi degli enti locali a prescindere dalla loro obbligatorietà.
La prospettazione è quindi palesemente insostenibile e non rimane che ribadire le conclusioni della sentenza n. 44 del 2014, avente ad oggetto disposizioni relative all’esercizio in forma associata di tutte le funzioni da parte dei Comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti, mediante la costituzione di una unione di Comuni. L’intervento del legislatore statale, infatti, riguarda le modalità di esercizio delle funzioni fondamentali, per cui «non presenta alcuna attinenza con la disciplina che regola l’istituzione di nuovi Comuni o la modifica delle loro circoscrizioni», e «non prevede la fusione dei piccoli Comuni, con conseguente modifica delle circoscrizioni territoriali» (sentenza n. 44 del 2014).
9.– Il TAR rimettente solleva, da ultimo, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 110 e 111, della legge reg. Campania n. 16 del 2014, motivando la non manifesta infondatezza «[p]er le medesime ragioni e per contrasto con gli stessi parametri costituzionali di cui al punto precedente» (indicati al punto 2.3. del Ritenuto in fatto), aggiungendo che nell’individuare gli ambiti ottimali per l’esercizio delle funzioni fondamentali la legge avrebbe fatto generico riferimento ai cosiddetti sistemi territoriali di sviluppo, previsti a loro volta in ambito urbanistico dalla legge della Regione Campania 13.10.2008, n. 13 (Piano Territoriale Regionale), «senza in merito svolgere adeguata istruttoria attraverso il necessario coinvolgimento degli enti locali interessati».
9.1.– L’Avvocatura generale dello Stato ha formulato un’espressa eccezione di inammissibilità con riferimento a tali questioni, perché solo enunciate nell’ordinanza e in alcun modo sviluppate e motivate.
9.2.– L’eccezione non è fondata: l’ordinanza ravvisa il dubbio di legittimità costituzionale richiamando le «medesime ragioni» e gli «stessi parametri costituzionali di cui al punto precedente», relativo alle censure all’art. 14, commi da 26 a 31, del d.l. n. 78 del 2010, per contrasto con gli artt. 3, 5, 95, 97, 114, 117, primo comma –in relazione all’art. 3 della Carta europea dell’autonomia locale– e sesto comma, e 118 Cost.
Come affermato da questa Corte, «[l]a motivazione tramite rinvio “interno” è ammissibile (sentenze n. 68 del 2011 e n. 438 del 2008), purché sia chiara la portata della questione» (sentenza n. 83 del 2016) ed è ciò che ricorre nel caso di specie, atteso che le ragioni di non manifesta infondatezza alle quali si fa riferimento sono sufficientemente illustrate e che le disposizioni regionali costituiscono attuazione di quelle statali parimenti censurate (in particolare, dell’art. 14, comma 30, del d.l. n. 78 del 2010, come convertito).
Oltre agli argomenti richiamati mediante il suddetto rinvio, l’ordinanza aggiunge una specifica motivazione che, sia pur sintetica, è comunque univocamente riferita alle norme della legge regionale.
9.3.– La questione è fondata in relazione agli artt. 5, 114 e 97 Cost.
Ai fini della individuazione da parte delle Regioni della dimensione territoriale ottimale e omogenea per lo svolgimento in forma obbligatoriamente associata delle funzioni fondamentali, il comma 30 dell’art. 14 del d.l. n. 78 del 2010, come sostituito dall’art. 19 del d.l. n. 95 del 2012, non impone alle Regioni stesse l’adozione della fonte legislativa ma, in ogni caso, prescrive la «previa concertazione con i comuni interessati nell’ambito del Consiglio delle autonomie locali».
Di tale concertazione non vi è traccia alcuna né nella legge, né nei lavori preparatori. Dagli stessi, invece, è possibile rilevare che nel disegno di legge di iniziativa della Giunta regionale, Reg.Gen. 505-bis, non erano presenti disposizioni aventi ad oggetto l’attuazione dell’art. 14, comma 30, del d.l. n. 78 del 2010. Solo nel corso dell’esame della II Commissione permanente è stato approvato l’art. 37-bis, il cui contenuto è poi stato trasfuso nel maxi emendamento (commi 110 e 111 dell’art. 1, sostitutivo degli articoli da 1 a 52 del disegno di legge) sul quale è stata posta la fiducia. Dai resoconti sommari dei lavori della II Commissione non risultano elementi che facciano emergere una concertazione con i Comuni interessati nell’ambito del Consiglio delle autonomie locali (che peraltro in Campania non è ancora stato costituito) o con altre modalità.
Né la legge regionale censurata ha previsto un procedimento bifasico, in cui la fonte primaria indicasse criteri generali, demandando poi la concreta individuazione dell’ambito territoriale a un atto amministrativo adottato all’esito della concertazione con i Comuni interessati, secondo una tecnica normativa che è stata adottata da altre Regioni: per esempio, legge della Regione Veneto, 27.04.2012, n. 18 (Disciplina dell’esercizio associato di funzioni e servizi comunali) e legge della Regione Emilia-Romagna, 21.12.2012, n. 21 (Misure per assicurare il Governo territoriale delle funzioni amministrative secondo i principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza).
L’art. 1, commi 110 e 111, della legge reg. Campania n. 16 del 2014 è quindi in contrasto con gli artt. 5 e 114 Cost., nel combinato disposto con l’art. 97 Cost., non risultando dimostrato che l’individuazione ivi contenuta della dimensione territoriale ottimale e omogenea per lo svolgimento delle funzioni fondamentali, di cui al comma 28 dell’art. 14 del d.l. n. 78 del 2010, sia stata preceduta dalla concertazione con i Comuni interessati.
Il contenuto precettivo del richiamato comma 30 dell’art. 14 del d.l. 78 del 2010, infatti, nell’imporre la concertazione con gli enti locali, integra il principio, affermato da questa Corte nella sentenza n. 229 del 2001, del necessario coinvolgimento, «per le conseguenze concrete che ne derivano sul modo di organizzarsi e sul modo di esercitarsi dell’autonomia comunale», degli enti locali infraregionali nelle determinazioni regionali che investono l’allocazione di funzioni tra i diversi livelli di governo, «anche di natura associativa».
Ne deriva, in caso di mancata concertazione con gli enti locali, una lesione dell’autonomia comunale riconosciuta e garantita dagli artt. 5 e 114 Cost.
Inoltre, appare del tutto evidente che la costituzione di un sistema locale efficacemente strutturato, al punto da conseguire risparmi di spesa, costituisce un obiettivo non conseguibile una volta pretermessa la voce dei Comuni, circostanza che configura un ingiustificato difetto di istruttoria, anche in considerazione dell’art. 97 Cost.
Restano assorbite le ulteriori censure.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
   1)
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 28, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, in legge 30.07.2010, n. 122, come modificato dall’art. 19, comma 1, del decreto-legge 06.07.2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con modificazioni, in legge 07.08.2012, n. 135, nella parte in cui non prevede la possibilità, in un contesto di Comuni obbligati e non, di dimostrare, al fine di ottenere l’esonero dall’obbligo, che a causa della particolare collocazione geografica e dei caratteri demografici e socio ambientali, del Comune obbligato, non sono realizzabili, con le forme associative imposte, economie di scala e/o miglioramenti, in termini di efficacia ed efficienza, nell’erogazione dei beni pubblici alle popolazioni di riferimento (Corte Costituzionale, sentenza 04.03.2019 n. 33).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAssociazionismo a rischio k.o.. Ieri alla Consulta udienza sul dl 78/2010.
La Consulta ha discusso ieri in udienza la questione di legittimità costituzionale dell'art. 14 del cosiddetto decreto Calderoli (dl n. 78/2010), che imponeva ai comuni sotto i 5.000 abitanti (3.000 se montani) di mettere insieme le funzioni fondamentali. E, per quanto la decisione dei giudici delle leggi sia ovviamente top secret fino al deposito delle motivazioni, tra i ricorrenti filtra un cauto ottimismo sul fatto che almeno una delle ben 11 questioni di legittimità costituzionale sollevate dal TAR Lazio-Roma, Sez. I-ter (con ordinanza 20.01.2017 n. 1027) possa essere accolta dalla Corte.
A rivolgersi al Tar per la disapplicazione del decreto legge, è stato un gruppo di comuni campani (Liveri in provincia di Napoli, Dragoni, Baia e Latina in provincia di Caserta, Buonalbergo in provincia di Benevento e Teora in provincia di Avellino) sostenuti dall'Asmel, l'Associazione per la sussidiarietà e la modernizzazione degli enti locali. Secondo i ricorrenti, il dl 78, sottraendo gli organi gestionali all'indirizzo politico degli organi rappresentativi, contrasterebbe con il principio di responsabilità politica degli organi elettivi.
I comuni campani si sono rivolti al Tar per chiedere la disapplicazione della circolare dell'allora ministro dell'interno Angelino Alfano che prevedeva il commissariamento degli enti (con invio di un commissario ad acta) inadempienti all'obbligo di gestione in forma associata delle funzioni fondamentali.
La Consulta si esprimerà anche sulla legittimità della legge regionale campana n. 16/2014 che prevedeva l'esercizio delle funzioni associate da parte dei comuni all'interno di Ambiti territoriali ottimali (Ato) coincidenti con i sistemi regionali di sviluppo. Un'articolazione irragionevole, secondo i comuni ricorrenti, in quanto i sistemi territoriali di sviluppo attengono a logiche di sviluppo urbanistico che poco hanno a che fare con gli Ato.
La sentenza sarà redatta dal giudice Luca Antonini, docente di diritto costituzionale e grande esperto di ordinamento delle autonomie, nonché padre della legge delega sul federalismo fiscale, n. 42/2009 (e dei relativi decreti attuativi) durante l'ultimo governo Berlusconi (articolo ItaliaOggi del 09.01.2019).

 

IN EVIDENZA

SEGRETARI COMUNALIAlla nomina dei segretari comunali serve più imparzialità.
La sentenza 22.02.2019 n. 23 della Corte costituzionale  (si veda anche Il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 25 febbraio e l'analisi di ieri) pone la questione dirimente dei compiti di verifica della legalità e di assistenza agli organi istituzionali, in cui coesistono gruppi di maggioranza e di minoranza, in capo al segretario comunale. Questi compiti richiedono alcune condizioni in grado di rendere sostenibile un ruolo così complesso, a maggior ragione in un Paese come il nostro patologicamente caratterizzato da sacche rilevanti di illegalità.
Il punto di equilibrio principale per la categoria rilevato dalla Corte è quello che ribadisce l'esistenza di una figura unica nazionale quale dirigente pubblico scelto mediante concorso pubblico e garantito dall'appartenenza al ministero dell'Interno; al tempo stesso, una figura apicale rispetto all'organizzazione dell'ente locale, con rilevanti funzioni di supporto alla politica, di piena partecipazione alle scelte e al perseguimento degli obiettivi dell'ente oltre che di garanzia. È questo il «non irragionevole punto di equilibrio tra le ragioni dell'autonomia degli enti locali, da una parte, e le esigenze di un controllo indipendente sulla loro attività, dall'altro».
Occorre verificare le modalità di individuazione del segretario alla luce delle argomentazioni portate dalla Corte, sia nella fase di accesso all'albo professionale sia nella scelta da parte di ogni amministrazione. Anzitutto, l'accesso all'albo professionale deve continuare ad avvenire con modalità conformi ai principi costituzionali di «imparzialità e buon andamento», in modo da assicurare la qualità del personale a cui affidare il ruolo apicale.
Non solo; la Corte fornisce indirettamente alcuni suggerimenti anche sulla scelta del segretario nei singoli enti. «Lo statuto burocratico e funzionale che lo caratterizza resta segnato da aspetti tra loro in apparenza dissonanti. Da un lato funzionario statale assunto per concorso, ma dall'altro preposto allo svolgimento effettivo delle sue funzioni attraverso una nomina relativamente discrezionale del sindaco (…) La scelta del segretario, infatti, pur fiduciaria e condotta intuitu personae, presuppone l'esame dei curricula di coloro che hanno manifestato interesse alla nomina e richiede quindi non solo la valutazione del possesso dei requisiti generalmente prescritti, ma anche la considerazione, eventualmente comparativa, delle pregresse esperienze tecniche, giuridiche e gestionali degli aspiranti».
La Corte, con un significativo inciso, indica la necessità di garantire una nomina procedimentalizzata che sia coerente con i principi costituzionali di imparzialità dell'amministrazione pubblica. In questa ottica, suggerisce un modello costituzionalmente orientato di «fiduciarietà temperata», con modalità «relativamente discrezionali» ma non tali da sconfinare nell'assoluta arbitrarietà.
È necessario quindi rivedere il procedimento formale di scelta del segretario, che deve passare per una corretta comparazione dei curricula, a carattere non concorsuale ma finalizzata a individuare il candidato più idoneo (anche mutuando la giurisprudenza prevalente in materia di incarichi a contratto ex articolo 110 del Tuel). In ogni caso la sentenza della Corte sarà probabilmente seguita da interpretazioni e decisioni giurisprudenziali innovative, con le quali saranno evidenziate eventuali anomalie in relazione alla nomina del segretario.
La pronuncia della Corte, seppur ben argomentata, non appare del tutto convincente in quanto non evidenzia in modo chiaro e univoco le criticità che abbiamo illustrato. La tesi della Corte, basata su un non irragionevole bilanciamento tra legalità ed efficienza, tra autonomia locale e controllo da parte dello Stato, richiede a nostro avviso una disciplina più equilibrata e matura che ci consenta di non ricadere in quello che è stato definito «spoil system all'italiana».
In effetti, la sentenza stessa fornisce la chiave per la definizione dei correttivi necessari: da un lato, infatti, individua un ruolo apicale e «quasi manageriale» come presupposto per una legittima scelta di natura fiduciaria; dall'altro, allude a una valutazione «eventualmente comparativa» in sede di scelta del segretario da parte del singolo ente. Tuttavia, analizza con una certa timidezza le previsioni in materia del testo unico, senza indicare esplicitamente alcune palesi carenze.
Occorre superare una volta per tutte le criticità esistenti, se vogliamo dare senso compiuto alla tesi della Corte e mettere a disposizione delle autonomie personale motivato e qualificato. In questo senso la sentenza in esame può anche risultare condivisibile nelle sue conclusioni sostanziali a patto che siano recepite le indicazioni, dirette o indirette, in essa contenute e che il segretario venga messo in condizione di essere realmente il vertice apicale degli enti, in un assetto complessivo più equilibrato e finalmente ragionevole (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.02.2019).

SEGRETARI COMUNALIDopo la Consulta, ruolo «apicale» del segretario da riscrivere.
Nella sentenza 22.02.2019 n. 23 (si veda Il Quotidiano degli enti locali e della Pa di ieri) la Corte costituzionale riconosce la centralità della figura del segretario in un contemperamento del rapporto fra due esigenze non facilmente conciliabili: il riconoscimento dell'autonomia degli enti locali e la necessità di garantire strumenti di controllo della loro attività.
La Corte affronta il nodo fondamentale della scelta del segretario alla luce delle sue attribuzioni «multiformi»: neutrali, di controllo e di certificazione, da una parte, ma dall'altra di gestione quasi manageriale e di supporto propositivo all'azione degli organi comunali. Si parla più volte di «non irragionevolezza» della disciplina, ammettendo implicitamente che sarebbe opportuno renderla «ragionevole». È evidente che una pronuncia del genere, anche se ricca di spunti, non risolva le tante criticità che hanno generato la questione. Sarebbe necessario correggere la disciplina, per assicurare meglio il contemperamento fra le esigenze citate sopra. La decisione della Corte potrebbe essere un utile punto di partenza per una corretta rivisitazione della figura del segretario.
La tesi della Consulta
La Corte Costituzionale riconosce la funzione apicale del segretario e le sue caratteristiche manageriali, confermando che il principio di legalità non può essere messo in contrasto con le esigenze di una maggiore efficienza gestionale. Legalità ed efficienza non appaiono in contraddizione tra loro, ma elementi da considerare unitariamente in conformità ai principi di «imparzialità e buon andamento» previsti dall'articolo 97 della Costituzione.
La Corte riconosce al segretario un ruolo attivo e propositivo; il presupposto per la temporaneità degli incarichi risiede nella presenza di un rapporto di diretta contiguità tra organo politico e dirigente e nell'apicalità del ruolo, che consente alla Corte di scostarsi persino dal proprio precedente orientamento. «Apicalità e immediatezza di rapporto col vertice del Comune non richiedono necessariamente una sua personale adesione agli obiettivi politico-amministrativi del sindaco». La conclusione della Corte è tassativa: «Si è insomma in presenza di compiti la cui potenziale estensione non rende irragionevole la scelta legislativa, che permette al sindaco neoeletto di non servirsi necessariamente del segretario in carica».
Il problema del «ruolo apicale»
La «non irragionevolezza» della scelta legislativa deve basarsi su un’attenta verifica della potenziale estensione dei compiti citati dalla Corte. Al segretario sono attribuite funzioni di controllo della legalità (articolo 97, comma 2 del Tuel), ma anche un ruolo ulteriore di natura gestionale che sembra giustificare la fiduciarietà della nomina (articolo 97, comma 4); tuttavia, questa estensione di compiti resta in alcuni casi meramente «potenziale». «Innanzitutto, nei Comuni con popolazione inferiore ai centomila abitanti (articolo 97, comma 4, lettera e, del Tuel, che rinvia all'articolo 108, comma 4), il segretario può essere nominato (anche) direttore generale. In tal caso, è chiamato a svolgere funzioni di attuazione degli indirizzi e degli obbiettivi stabiliti dagli organi di governo dell'ente, dovendone predisporre il piano dettagliato, e a lui rispondono, nell'esercizio delle loro attività, i dirigenti dell'ente».
In questo modo la Corte Costituzionale sembra sconfessare l'orientamento consolidato della magistratura contabile, in base al quale in quella fascia di Comuni le funzioni direzionali non possono essere assegnate al segretario. Ad esempio la Corte dei conti ha affermato che «con la legge n. 191/2009, articolo 2, comma 186, lettera d), modificata dalla legge 42/2010, articolo 1-quater, lettera d), e stata limitata la possibilità della nomina di un direttore generale ai Comuni con popolazione superiore ai 100mila abitanti» (Corte dei Conti, sezione giurisdizionale. Toscana, sentenza 217/2018). Anche laddove il segretario comunale non sia nominato direttore, il Tuel gli attribuisce il compito di sovrintendere allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti, coordinandone l'attività. È dunque consigliabile superare questa ambiguità, che ha ingenerato molte incertezze interpretative e giudiziarie.
Ma il nodo giuridico più interessante è costituito dagli enti con più di 100mila abitanti. «Come è evidente, nei casi in cui sia nominato anche direttore generale, la specificità della figura del segretario comunale si accentua, considerando che il direttore generale è revocabile ad nutum previa deliberazione della giunta comunale e che la durata del suo incarico, come del resto quella del segretario, non può comunque eccedere quella del mandato del sindaco (articolo 108 del Tuel). (…) Non si può trascurare come il doppio incarico contribuisca ad accrescere il carattere fiduciario della stessa funzione di segretario e comunque a confermarne quella peculiarità, che lo sottrae all'automatica applicazione dei principi elaborati da questa Corte in tema di spoils system».
Sotto questo profilo la sentenza pare lacunosa, limitandosi a prefigurare «separati destini» per incarichi assegnati in realtà alla stessa figura e non occupandosi dell'ipotesi alternativa prevista dall'articolo 108. Se al segretario viene affiancato un direttore esterno, viene meno il presupposto essenziale della scelta fiduciaria: non si comprende infatti quale contiguità politica sia connaturata a un ruolo connotato da compiti di controllo della legalità, non pienamente riconducibile ad una effettiva apicalità. Ciò discende dalle premesse della stessa sentenza: «Il segretario comunale è certamente figura apicale e altrettanto certamente intrattiene con il sindaco rapporti diretti, senza intermediazione di altri dirigenti o strutture amministrative».
I prossimi passi
Non vi possono essere dunque ambiguità nelle norme di legge o di regolamento sull'attribuzione dei compiti di natura apicale. Occorre quindi delineare in modo più netto il ruolo apicale del segretario negli enti locali di ogni dimensione, superando l'asimmetria degli assetti direzionali previsti dalla disciplina attuale. Il legislatore deve soffermarsi sulla necessità di rivisitazione delle funzioni del segretario, e il prossimo contratto collettivo dovrà riconoscere il ruolo di vertice indicato dalla Corte Costituzionale; nella convinzione che non sia accettabile uno squilibrio macroscopico tra i contenuti dell'incarico e la sua temporaneità (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 26.02.2019).

SEGRETARI COMUNALISpoils system legittimo per i segretari comunali. Il ruolo ibrido fra garanzia e gestione manageriale giustifica il meccanismo
Il segretario comunale è un funzionario statale assunto per concorso, ma è anche un manager che ha bisogno di un rapporto fiduciario con il sindaco. Per questa ragione è legittimo lo spoils system che lega il suo incarico al mandato del vertice politico dell’ente: nel suo caso non scatta l’incostituzionalità, che invece caratterizza le norme nazionali e regionali che fanno decadere con il sindaco altri vertici amministrativi negli enti locali.

La Corte costituzionale si è dovuta orientare nella natura ibrida dei segretari comunali per arrivare a questa conclusione, espressa nella sentenza 22.02.2019 n. 23 (redattore Zanon). Natura ibrida figlia dell’evoluzione che ha caratterizzato i segretari comunali, che hanno resistito ma si sono modificati nell’evoluzione amministrativa della Repubblica.
Il segretario comunale è al riparo dai rovesci della politica per quanto riguarda il suo status. Funzionario dello Stato, assunto per concorso, non può essere revocato nel corso del mandato, a meno che non violi gravemente i propri doveri d’ufficio, e non perde status giuridico ed economico quando perde il posto, perché rimane in disponibilità presso l’agenzia nazionale dei segretari. La sua nomina, però, è nella discrezione del sindaco, con cui lavora fianco a fianco per gli aspetti gestionali dell’ente. Per cui è legittimo che i due concludano insieme la loro esperienza (articolo Il Sole 24 Ore del 23.02.2019).

SEGRETARI COMUNALISegretari, spoils system ok. Incarichi e revoche hanno natura fiduciaria. La Consulta dà copertura costituzionale alla riforma Bassanini.
Ok allo spoils system dei segretari comunali.
Con la
sentenza 22.02.2019 n. 23
(relatore Nicolò Zanon) la Consulta dà copertura costituzionale alla riforma Bassanini che ha assoggettato incarichi e revoche dei segretari comunali alle scelte «fiduciarie» del sindaco.
La sentenza rigetta la questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice del lavoro di Brescia in merito all'articolo 99, commi 1, 2 e 3, del dlgs 267/2000, ai sensi della quale il sindaco nomina il segretario comunale per un periodo corrispondente a quella del mandato del sindaco, con automatica cessazione dell'incarico al termine del mandato stesso. La sentenza evidenzia che lo spoils system dei segretari comunali si inserisce in un contesto di riforma che intende accentuare l'autonomia degli enti locali, caratterizzato dalla «diffusa convinzione secondo cui, negli enti locali, le scelte politiche e quelle gestionali risulterebbero spesso frammiste, e la responsabilità amministrativa finirebbe col diventare un elemento della stessa responsabilità politica del sindaco eletto direttamente, deducendosene così la necessità di attribuire a quest'ultimo l'individuazione dei suoi più stretti collaboratori amministrativi, fra i quali vien fatto rientrare il segretario comunale».
Tuttavia, la Consulta ha dimenticato di valorizzare il principio di separazione delle funzioni politiche da quelle gestionali, che è anche alla base della consolidata (dal 2007) giurisprudenza costituzionale, secondo la quale sono incostituzionali le norme che impongono la decadenza automatica dei dirigenti connessa al mandato politico, con la sola eccezione dei dirigenti di massimo vertice dei ministeri. La Consulta ammette che lo status dei segretari è «segnato da aspetti tra loro in apparenza dissonanti»: infatti, da un lato è «funzionario statale assunto per concorso, ma dall'altro preposto allo svolgimento effettivo delle sue funzioni attraverso una nomina relativamente discrezionale del sindaco», che non può revocarlo ad nutum, ma la cui attività è connessa alla durata del mandato sindacale.
Lo spoils system sarebbe legittimo costituzionalmente perché, similmente ai vertici ministeriali, «il segretario comunale è certamente figura apicale e altrettanto certamente intrattiene con il sindaco rapporti diretti, senza intermediazione di altri dirigenti o strutture amministrative». La sentenza, però, ammette che questa apicalità, a differenza di quella richiesta per i vertici ministeriali, non richiede una «personale adesione» del segretario agli obbiettivi politico-amministrativi del sindaco. Che infatti lo sceglie non per via diretta, ma comunque con una selezione «eventualmente comparativa, delle pregresse esperienze tecniche, giuridiche e gestionali degli aspiranti».
Tanto sarebbe bastato per evidenziare l'incostituzionalità dello status dei segretari definito dal Tuel. Con dubbia coerenza, però, la sentenza ritiene che le funzioni di collaborazione e di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi comunali, fanno sì che il segretario intervenga nel procedimento di formazione degli atti, sia, se richiesto, nella fase più propriamente decisoria, in relazione a tutti gli aspetti giuridici legati al più efficace raggiungimento del fine pubblico. Ciò comporta, quindi «un ruolo attivo e propositivo del segretario comunale. Esse infatti gli consentono di coadiuvare e supportare sindaco e giunta nella fase preliminare della definizione dell'indirizzo politico-amministrativo e non possono quindi non influenzarla». Tuttavia, ogni dirigente o responsabile di servizio ha, più ancora del segretario comunale il compito di istruire e supportare gli organi elettivi nell'elaborazione delle proposte degli atti di loro competenza e per di più adottano direttamente quelli esecutivi degli indirizzi. Per queste figure, tuttavia, non si dubita che lo spoils system sia incostituzionale.
Né persuade la sentenza quando collega lo spoils system all'accentuata fiduciarietà dell'incarico al segretario, allorché sia anche destinatario dell'incarico di direttore generale. A parte che ciò riguarda ormai solo poche centinaia di enti locali (comuni con oltre 100 mila abitanti e province), le due funzioni restano comunque distinte, sul piano giuridico e della regolazione del rapporto di lavoro
(articolo ItaliaOggi del 23.02.2019).

SEGRETARI COMUNALI: Legittimo lo SPOIL SYSTEM dei segretari comunali.
Non è incostituzionale la disposizione del testo unico degli enti locali secondo cui il segretario comunale resta in carica per un periodo corrispondente a quello del sindaco che lo ha nominato e cessa automaticamente dall’incarico al termine del mandato di quest’ultimo.

Lo ha stabilito la Corte costituzionale nella sentenza 22.02.2019 n. 23 (relatore Nicolò Zanon) dichiarando non fondata una questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Brescia, che dubitava del meccanismo descritto, per supposta violazione dei principi costituzionali di imparzialità e continuità dell’azione amministrativa (articolo 97 Costituzione).
I giudici costituzionali hanno messo in luce che l’evoluzione della normativa sul segretario comunale, prima e dopo l’entrata in vigore della Costituzione, è ispirata da concezioni assai diverse, alla ricerca di punti di equilibrio fra due esigenze non facilmente conciliabili: il riconoscimento dell’autonomia degli enti locali, da una parte; la necessità di garantire adeguati strumenti di controllo della loro attività, dall'altra.
Anche attualmente, lo statuto burocratico e funzionale che caratterizza il segretario comunale è segnato da aspetti in apparenza dissonanti.
Da un lato egli è funzionario statale assunto per concorso, ma dall’altro è preposto allo svolgimento effettivo delle sue funzioni attraverso una nomina relativamente discrezionale del sindaco. Non può essere revocato liberamente durante il mandato (salvo che per violazione dei doveri d’ufficio) ma è, appunto, destinato a cessare automaticamente dalle proprie funzioni al mutare del sindaco (salvo conferma), eppure anche in questo caso è garantito nella stabilità del suo status giuridico ed economico e del suo rapporto d’ufficio, rimanendo iscritto all’albo nazionale dei segretari comunali dopo la mancata conferma e restando perciò a disposizione per successivi incarichi presso altri comuni.
Il segretario comunale, spiega la sentenza, è titolare di attribuzioni multiformi: neutrali, di controllo di legalità e di certificazione, da una parte, ma, dall’altra, di gestione quasi manageriale e di supporto propositivo all’azione degli organi comunali, capaci di orientare le scelte dell’ente nella fase preliminare della definizione dell’indirizzo amministrativo di quest’ultimo.
Tutte queste ragioni impediscono di applicare al segretario comunale quella giurisprudenza restrittiva che ha più volte dichiarato costituzionalmente illegittime disposizioni di leggi statali o regionali che prevedevano meccanismi di spoils system, cioè di decadenza automatica da un incarico amministrativo non apicale né fiduciario, al solo mutare dell’organo politico di riferimento.
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Norme impugnate: Art. 99, c. 1°, 2° e 3°, del decreto legislativo 18/08/2000, n. 267.
Oggetto: Impiego pubblico - Segretari comunali e provinciali - Nomina del segretario comunale da parte del sindaco e dipendenza funzionale dal capo dell'amministrazione - Durata dell'incarico corrispondente al mandato del sindaco che ne ha disposto la nomina - Decadenza automatica dall'incarico - Assoggettamento al regime degli incarichi fiduciari.
Contrasto tra le funzioni del segretario comunale e il suo ruolo di garante della conformità legale, statutaria e regolamentare degli atti dell'ente con la nomina e la dipendenza funzionale da parte del soggetto politico.
Dispositivo: non fondatezza - inammissibilità.
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3.– La decisione della questione di legittimità costituzionale relativa alla previsione dell’automatica decadenza del segretario comunale al cessare del mandato del sindaco richiede invece, preliminarmente, una sintetica descrizione dell’evoluzione della normativa in materia.
3.1.– La figura del segretario comunale, all’indomani dell’unificazione, trova disciplina nella legge 20.03.1865, n. 2248 (Per l’unificazione amministrativa del Regno d’Italia), che all’art. 10 dell’allegato A disponeva che ogni Comune, oltre al consiglio e alla giunta, avesse un segretario, dipendente del Comune, e un ufficio comunale, con funzioni di certificazione e controllo. L’art. 87 del medesimo allegato A stabiliva che il segretario fosse nominato dal consiglio comunale e l’art. 18, terzo comma, del Decreto 08.06.1865, n. 2321 (col quale è approvato il Regolamento per l’esecuzione della Legge sull’amministrazione comunale e provinciale), precisava che egli dovesse essere scelto fra gli abilitati all’esercizio della professione, conseguita per esami presso le prefetture.
La successiva legge 30.12.1888, n. 5865 (che modifica la legge comunale e provinciale), all’art. 2, provvede ad una stabilizzazione del suo incarico, prevedendo che il segretario comunale nominato per la prima volta «dura in ufficio due anni», mentre le conferme successive devono essere date per almeno sei anni. La disposizione aggiunge che «non può essere licenziato prima del termine pel quale fu nominato, senza deliberazione motivata presa dal Consiglio comunale con l’intervento di almeno due terzi dei consiglieri».
Il regio decreto 12.02.1911, n. 297 (che approva l’annesso regolamento per l’esecuzione della legge comunale e provinciale) stabilisce che per la sua nomina è obbligatorio il pubblico concorso (art. 94) confermando che gli esami per il conseguimento della relativa patente d’idoneità hanno luogo periodicamente presso le prefetture (art. 72).
Nel periodo fascista, il regio decreto legge 17.08.1928, n. 1953 (Stato giuridico ed economico dei segretari comunali) muta significativamente la situazione. Da figura comunale, il segretario viene trasformato in funzionario statale, soggetto alle disposizioni sullo stato giuridico degli impiegati civili dello Stato. Dal punto di vista delle funzioni, continua a essere organo di certificazione e di controllo di legalità sull’attività dei Comuni, ma tale ruolo è ora essenzialmente svolto per conto del Ministero dell’interno, in vista di una compressione delle autonomie locali. Previo superamento di un pubblico concorso, è nominato dal prefetto della provincia o, per i Comuni maggiori, con «decreto reale promosso dal Ministro per l’Interno» (art. 3). Al termine del primo anno di servizio, il prefetto può «conferire la nomina definitiva» (art. 7). Nel caso in cui «l’esperimento» del primo anno non fosse stato ritenuto soddisfacente, il segretario veniva dispensato dal servizio, a meno che il prefetto non intendesse «prorogare per un altro anno la durata dell’esperimento» (ancora art. 7).
Lo stato giuridico dei segretari comunali e provinciali viene ulteriormente organizzato dalla legge 27.06.1942, n. 851 (Modificazioni al testo unico della legge comunale e provinciale, approvato con R. decreto 03.03.1934, n. 383, concernenti il nuovo stato giuridico dei segretari comunali e provinciali), che, all’art. 1, modificando l’art. 176 del r.d. n. 383 del 1934, prevede la loro iscrizione in un ruolo nazionale diviso in gradi e la nomina «con decreto del Ministro per l’interno».
3.2.– Nell’ordinamento repubblicano si susseguono interventi di riforma, che organizzano variamente il ruolo e la carriera dei segretari comunali e provinciali, senza tuttavia modificare, in un primo momento, il procedimento di nomina e il loro stato giuridico di funzionari statali (legge 08.06.1962, n. 604, recante «Modificazioni allo stato giuridico e all’ordinamento della carriera dei segretari comunali e provinciali», e decreto del Presidente della Repubblica 23.06.1972, n. 749, recante «Nuovo ordinamento dei segretari comunali e provinciali»).
La stessa legge 08.06.1990, n. 142 (Ordinamento delle autonomie locali) non modifica la natura di funzionario pubblico del segretario comunale, né interviene direttamente sulle procedure per la sua nomina. Indica, tuttavia, i criteri per una successiva riforma: la creazione di un «organismo collegiale» territorialmente articolato, presieduto dal Ministro dell’interno, «composto pariteticamente dai rappresentanti degli enti locali», preposto alla tenuta dell’albo dei segretari comunali e provinciali e chiamato a esercitare nei loro confronti «funzioni d’indirizzo e di amministrazione». Significativamente, la legge prevede altresì che una successiva normativa dovrà indicare le «modalità di concorso degli enti locali» alla nomina e revoca del segretario.
In un contesto riformatore che aveva appena visto l’introduzione dell’elezione popolare diretta dei sindaci, con la legge 25.03.1993, n. 81 (Elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale), queste evocate modalità di concorso degli enti locali trovano effettivamente realizzazione con la modifica disposta dall’art. 1, comma 84, della legge 28.12.1995, n. 549 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), in virtù della quale nomina e revoca del segretario comunale sono disposte «d’intesa con il sindaco».
Tra le funzioni, si affacciano poteri gestionali e di supporto all’attività degli organi d’indirizzo: l’art. 52, comma 3, della legge n. 142 del 1990 prevede che il segretario «sovraintende allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti e ne coordina l’attività, cura l’attuazione dei provvedimenti, è responsabile dell’istruttoria delle deliberazioni, provvede ai relativi atti esecutivi e partecipa alle riunioni della giunta e del consiglio».
Per contro, il successivo art. 53, comma 1, della legge n. 142 del 1990 attribuisce al segretario il compito di esprimere un parere «sotto il profilo di legittimità» per ogni proposta di deliberazione da sottoporre alla giunta e al consiglio, parere che si aggiunge a quello reso sulla regolarità tecnica e contabile da parte del responsabile del servizio interessato e del responsabile di ragioneria. La previsione di tale parere di legittimità, non vincolante ma obbligatoriamente richiesto al segretario comunale e da inserire nelle relative deliberazioni, introduce una fase necessaria del procedimento di formazione degli atti. Nel contesto di quella fase di riforme, l’innovazione appare il risultato di una mediazione fra le opposte istanze di chi avrebbe preferito un più penetrante visto di legittimità, in funzione di controllo sull’attività degli enti locali, e di chi, al contrario, temeva che simili forme di vigilanza avrebbero messo a rischio l’autonomia di Comuni e Province.
Oggetto di controverse valutazioni –indispensabile baluardo di legalità per alcuni, per altri fonte di un potere interdittivo e d’intralcio sull’attività dei sindaci–, la previsione di un tale parere viene soppressa ad opera della legge 15.05.1997, n. 127 (Misure urgenti per lo snellimento dell’attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo), anch’essa significativamente intervenuta a distanza di pochi anni dall’introduzione dell’elezione popolare diretta dei sindaci.
È proprio la legge n. 127 del 1997, del resto, a determinare un rilevante mutamento della complessiva fisionomia del segretario comunale. Essa riconosce ai sindaci il potere di nominarlo in autonomia, fra gli iscritti al relativo albo, cui si continua peraltro ad accedere tramite concorso pubblico. L’innovazione, coerente con il contesto riformatore del periodo, trascina con sé la necessità di attenuare il legame che il segretario comunale mantiene con l’apparato statale: e così si spiega anche la previsione per cui l’albo dei segretari viene affidato alla gestione di una neo-istituita agenzia, pur soggetta alla vigilanza del Ministero dell’interno, ma avente personalità giuridica di diritto pubblico e dotata di autonomia organizzativa, gestionale e contabile, articolata anche per sezioni regionali e composta da rappresentanti delle autonomie locali. Il segretario comunale viene esplicitamente definito dipendente di tale agenzia e, attraverso questa scelta, la sua diretta dipendenza dal Ministero dell’interno viene interrotta o, quanto meno, “filtrata” dalla presenza dell’agenzia.
In coerenza con un contesto riformatore che intende accentuare l’autonomia degli enti locali, è la stessa legge n. 127 del 1997 a introdurre (all’art. 17, comma 70) il principio messo in discussione dall’ordinanza di rimessione, secondo cui la durata dell’incarico di segretario comunale, a parte i casi di revoca per violazione dei doveri d’ufficio, corrisponde a quella del mandato del sindaco che lo ha nominato, salvo conferma. In quel contesto, il principio è anche frutto della diffusa convinzione secondo cui, negli enti locali, le scelte politiche e quelle gestionali risulterebbero spesso frammiste, e la responsabilità amministrativa finirebbe col diventare un elemento della stessa responsabilità politica del sindaco eletto direttamente, deducendosene così la necessità di attribuire a quest’ultimo l’individuazione dei suoi più stretti collaboratori amministrativi, fra i quali vien fatto rientrare il segretario comunale.
La complessiva disciplina così elaborata confluisce nel decreto legislativo n. 267 del 2000, che all’art. 99 contiene la disposizione censurata.
Intervengono successivamente ulteriori modifiche, che incidono sia sul rapporto di lavoro, sia sulle funzioni assegnate al segretario comunale.
Rispetto al primo profilo, in particolare, il decreto legge 31.05.del 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n. 122, sopprime la ricordata agenzia autonoma per la gestione dell’albo dei segretari comunali e provinciali, stabilendo che ad essa succeda, a titolo universale, il Ministero dell’interno, con conseguente trasferimento di risorse strumentali e personale. Dopo lo slancio autonomista che aveva nutrito le riforme della seconda metà degli anni novanta del secolo scorso, il segretario comunale torna così ad essere, quanto al rapporto d’ufficio, un funzionario del Ministero dell’interno. Essendo però nominato dal sindaco, e trovandosi funzionalmente alle dipendenze del Comune, instaura contemporaneamente con quest’ultimo il proprio rapporto di servizio: situazione, quindi, in cui l’amministrazione datrice di lavoro (non più l’agenzia, ma il Ministero dell’interno) continua a non coincidere con quella che ne utilizza le prestazioni. E la giurisprudenza di legittimità e quella amministrativa sottolineano concordemente che il segretario comunale, benché dipenda personalmente dal sindaco, intrattenendo un rapporto funzionale con l’amministrazione locale, resta tuttavia un funzionario statale, e il suo status giuridico, ancorché particolare, è interamente disciplinato dalla legislazione statale (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 11.08.2016, n. 17065; Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenza 05.04.2005, n. 1490).
Dal secondo punto di vista, quello delle funzioni, rispetto a quelle complessivamente previste dal d.lgs. n. 267 del 2000, la legislazione le arricchisce: così, in particolare, la legge n. 190 del 2012, nonché il decreto legislativo 14.03.del 2013, n. 33 (Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni), attribuiscono al segretario comunale, di norma, il ruolo di responsabile della prevenzione della corruzione e quello di responsabile della trasparenza.
Da ultimo, merita ricordare che la legge 07.08.2015, n. 124 (Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche) aveva inteso procedere alla soppressione della figura del segretario comunale. Tra i principi e criteri direttivi cui il Governo avrebbe dovuto attenersi figurava, infatti, sia il mantenimento della diversa figura del direttore generale di cui all’art. 108 del d.lgs. n. 267 del 2000, sia, appunto, la soppressione del segretario comunale e di quello provinciale, con «attribuzione alla dirigenza […] dei compiti di attuazione dell’indirizzo politico, coordinamento dell’attività amministrativa e controllo della legalità dell’azione amministrativa; mantenimento della funzione rogante in capo ai dirigenti apicali aventi i prescritti requisiti» (art. 11, comma 1, lettera b, numero 4). Peraltro, la stessa norma faceva «obbligo per gli enti locali di nominare comunque un dirigente apicale con compiti di attuazione dell’indirizzo politico, coordinamento dell’attività amministrativa e controllo della legalità dell’azione amministrativa».
L’intervenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale di alcune delle disposizioni contenute nella legge n. 124 del 2015 (sentenza n. 251 del 2016), nella parte in cui prevedevano che i decreti legislativi attuativi fossero adottati previa acquisizione del parere, anziché previa intesa, in sede di Conferenza unificata o in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, ha infine interrotto, per i profili che qui rilevano, il compimento della riforma.
4.– Pur limitando l’attenzione alle trasformazioni succedutesi a partire dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, l’evoluzione della normativa relativa al segretario comunale appare ispirata da concezioni spesso diverse e da disegni riformatori non sempre coerenti. E se in tale complessa evoluzione una linea di continuità è rintracciabile, essa consiste nella incessante ricerca di punti di equilibrio fra due esigenze non facilmente conciliabili: il riconoscimento dell’autonomia degli enti locali, da una parte, e la necessità, dall’altra, di garantire adeguati strumenti di controllo della loro attività.
Nella stessa disciplina vigente –un aspetto significativo della quale è ora posto all’attenzione di questa Corte– si mantiene il carattere peculiare, e non sempre univocamente delineato, della figura del segretario comunale, frutto della ricordata evoluzione.
Lo statuto burocratico e funzionale che lo caratterizza resta segnato da aspetti tra loro in apparenza dissonanti. Da un lato funzionario statale assunto per concorso, ma dall’altro preposto allo svolgimento effettivo delle sue funzioni attraverso una nomina relativamente discrezionale del sindaco; non revocabile ad nutum durante il mandato (salvo che per violazione dei doveri d’ufficio), ma destinato a cessare automaticamente dalle proprie funzioni al mutare del sindaco (salvo conferma), eppure anche in tal caso garantito nella stabilità del suo status giuridico ed economico e del suo rapporto d’ufficio, permanendo iscritto all’albo dopo la mancata conferma e restando perciò a disposizione per successivi incarichi; decaduto «automaticamente dall’incarico con la cessazione del mandato del sindaco», come si esprime la legge, ciononostante chiamato a continuare nelle sue funzioni per un periodo non breve, non inferiore a due e non superiore a quattro mesi, in attesa di eventuale conferma, a garanzia della stessa continuità dell’azione amministrativa; titolare di attribuzioni multiformi, come si dirà meglio: neutrali, di controllo e di certificazione, da una parte, ma dall’altra di gestione quasi manageriale e di supporto propositivo all’azione degli organi comunali.
5.– Alla luce di tali peculiarità e tenendo conto della giurisprudenza costituzionale in materia di meccanismi di spoils system, la questione sollevata sull’art. 99, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 267 del 2000, non è fondata.
5.1.– Questa Corte ha più volte affermato l’incompatibilità con l’art. 97 Cost. di disposizioni di legge, statali o regionali, che prevedono meccanismi di revocabilità ad nutum o di decadenza automatica dalla carica, dovuti a cause estranee alle vicende del rapporto instaurato con il titolare, non correlati a valutazioni concernenti i risultati conseguiti da quest’ultimo nel quadro di adeguate garanzie procedimentali (sentenze n. 52 e n. 15 del 2017, n. 20 del 2016, n. 104 e n. 103 del 2007), quando tali meccanismi siano riferiti non al personale addetto agli uffici di diretta collaborazione con l’organo di governo (sentenza n. 304 del 2010) oppure a figure apicali, per le quali risulti decisiva la personale adesione agli orientamenti politici dell’organo nominante, ma a titolari di incarichi dirigenziali che comportino l’esercizio di funzioni tecniche di attuazione dell’indirizzo politico (sentenze n. 269 del 2016, n. 246 del 2011, n. 81 del 2010 e n. 161 del 2008).
Ebbene, per quanto sia qui in questione una decadenza automatica che la disposizione sospettata d’incostituzionalità collega esclusivamente ad una causa indipendente dalle modalità di esecuzione dell’incarico (la cessazione per qualsiasi causa del mandato del sindaco, conseguente a dimissioni, elezione del nuovo sindaco ecc.), il complessivo statuto e le diverse funzioni affidate dalla legge al segretario comunale restituiscono l’immagine di un incarico non paragonabile a quelli sui quali questa Corte è finora intervenuta con le pronunce di accoglimento ricordate.
Per questo, non è possibile l’applicazione al caso di specie dei principi che la giurisprudenza costituzionale ormai costante ha elaborato in tema di limiti all’applicazione dei meccanismi di spoils system.
5.2.–
Il segretario comunale è certamente figura apicale e altrettanto certamente intrattiene con il sindaco rapporti diretti, senza intermediazione di altri dirigenti o strutture amministrative.
Il dato, pur importante, non è tuttavia di univoco significato, come molti di quelli riferibili al segretario comunale, e trova immediato contraltare nel rilievo che
apicalità e immediatezza di rapporto col vertice del Comune non richiedono necessariamente una sua personale adesione agli obbiettivi politico-amministrativi del sindaco. La scelta del segretario, infatti, pur fiduciaria e condotta intuitu personae, presuppone l’esame dei curricula di coloro che hanno manifestato interesse alla nomina e richiede quindi non solo la valutazione del possesso dei requisiti generalmente prescritti, ma anche la considerazione, eventualmente comparativa, delle pregresse esperienze tecniche, giuridiche e gestionali degli aspiranti.
Neppure quest’ultimo aspetto risulta, a sua volta, risolutivo. Quel che più conta, infatti, è che, nel caso di specie,
il carattere fiduciario insito nell’atto di nomina non si esaurisce con esso, come accadrebbe se, dopo la nomina, il segretario si limitasse ad esercitare le sole funzioni di certificazione, di controllo di legalità o di attuazione di indirizzi altrui.
Tali compiti appartengono certo al nucleo originario e tradizionale della funzione segretariale, come del resto i compiti di verbalizzazione, rogito –su richiesta dell’ente– dei contratti nei quali quest’ultimo è parte, autenticazione delle scritture private e degli atti unilaterali, nell’interesse dell’ente stesso.
Ma, oltre a questo primo gruppo di attribuzioni,
al segretario comunale sono anche affidate dalla legge cruciali funzioni di collaborazione e di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi comunali in ordine alla conformità dell'azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti (art. 97, comma 2, del d.lgs. n. 267 del 2000) nonché funzioni consultive, referenti e di assistenza alle riunioni del consiglio e della giunta (art. 97, comma 4, lettera a, del d.lgs. n. 267 del 2000). Pur soppresso il parere di legittimità più sopra menzionato, gli resta attribuita la redazione, se l’ente non ha responsabili dei servizi, del parere di regolarità tecnica su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla giunta e al consiglio dell’ente che non costituisca mero atto d’indirizzo (art. 49 del d.lgs. n. 267 del 2000).
Si tratta di funzioni che contribuiscono anch’esse ad assicurare la conformità dell’azione dell’ente alle leggi, allo statuto e ai regolamenti, in piena coerenza con il ruolo del segretario quale controllore di legalità. Esse contengono, tuttavia, anche un quid pluris, alludendo ad un suo ruolo ulteriore.
Come ha messo efficacemente in luce l’Avvocatura generale dello Stato,
l’assistenza del segretario alle riunioni degli organi collegiali del Comune, con funzioni consultive, referenti e di supporto, non ha il mero scopo di consentire la verbalizzazione, ma anche quello di permettergli di intervenire, sia nel procedimento di formazione degli atti, sia, se richiesto, nella fase più propriamente decisoria, in relazione a tutti gli aspetti giuridici legati al più efficace raggiungimento del fine pubblico.
Allo stesso modo,
il parere di regolarità tecnica su ogni proposta di deliberazione sottoposta a giunta e consiglio si configura quale intervento preliminare volto a sottolineare se e in che modo la proposta pone le corrette premesse per il raggiungimento dell’interesse pubblico volta a volta tutelato dalla legge.
Si tratta di competenze che presuppongono anche un ruolo attivo e propositivo del segretario comunale. Esse infatti gli consentono di coadiuvare e supportare sindaco e giunta nella fase preliminare della definizione dell’indirizzo politico-amministrativo e non possono quindi non influenzarla: non già nel senso di indicare o sostenere obbiettivi specifici, piuttosto nella direzione di mostrare se quegli obbiettivi possono essere legittimamente inclusi fra i risultati che gli organi di direzione politico-amministrativa intendono raggiungere, indicando anche, nel momento stesso in cui la decisione deve essere assunta, i percorsi preclusi, o anche solo resi più difficoltosi, dalla necessità di rispettare leggi, statuto e regolamenti.
Si è insomma in presenza di compiti la cui potenziale estensione non rende irragionevole la scelta legislativa, che permette al sindaco neoeletto di non servirsi necessariamente del segretario in carica.
Un terzo gruppo di funzioni del segretario comunale è di carattere eminentemente gestionale. Innanzitutto, nei Comuni con popolazione inferiore ai centomila abitanti (art. 97, comma 4, lettera e, del d.lgs. n. 267 del 2000, che rinvia all’art. 108, comma 4, del medesimo d.lgs.), il segretario può essere nominato (anche) direttore generale. In tal caso, è chiamato a svolgere funzioni di attuazione degli indirizzi e degli obbiettivi stabiliti dagli organi di governo dell’ente, dovendone predisporre il piano dettagliato, e a lui rispondono, nell’esercizio delle loro attività, i dirigenti dell’ente. Ma anche laddove un direttore generale non vi sia, o comunque il segretario comunale non sia nominato tale, il d.lgs. n. 267 del 2000 richiede a quest’ultimo di sovrintendere allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti, coordinandone l’attività (art. 97, comma 4, del d.lgs. n. 267 del 2000). Funzioni di gestione gli sono affidate, infine, quando sia nominato responsabile di servizio (art. 97, comma 4, lettera d, del d.lgs. n. 267 del 2000), ciò che accade particolarmente nei Comuni di piccole dimensioni, ove non vi è personale idoneo ad assumere compiti dirigenziali.
Come è evidente,
nei casi in cui sia nominato anche direttore generale, la specificità della figura del segretario comunale, già da riconoscergli in virtù delle complessive funzioni svolte, si accentua, considerando in particolare che il direttore generale è revocabile ad nutum previa deliberazione della giunta comunale e che la durata del suo incarico, come del resto quella del segretario, non può comunque eccedere quella del mandato del sindaco (art. 108 del d.lgs. n. 267 del 2000). In disparte la ovvia possibilità di distinguere le differenti funzioni spettanti al medesimo soggetto nelle sue distinte vesti di segretario o direttore, e di prefigurare pertanto per esse separati destini, non si può trascurare come il doppio incarico contribuisca, nelle ipotesi date, ad accrescere il carattere fiduciario della stessa funzione di segretario e comunque a confermarne quella peculiarità, che lo sottrae all’automatica applicazione dei principi elaborati da questa Corte in tema di spoils system.
Allo stesso modo,
a tale automatica applicazione osta la disposizione del d.lgs. n. 267 del 2000 che prevede, infine e significativamente, che l’elenco dei compiti che possono essere affidati al segretario comunale sia “aperto” e perciò modellato anche sulle specifiche esigenze del Comune, disponendo che egli eserciti ogni altra funzione attribuitagli dallo statuto o dai regolamenti o conferitagli dal sindaco (art. 97, comma 4, lettera d, del d.lgs. n. 267 del 2000).
6.– In definitiva, la soluzione censurata dall’ordinanza di rimessione si presenta come riflesso di un non irragionevole punto di equilibrio tra le ragioni dell’autonomia degli enti locali, da una parte, e le esigenze di un controllo indipendente sulla loro attività, dall’altro. Da questo punto di vista, tenendo conto delle ricordate peculiarità delle funzioni del segretario comunale, la previsione della sua decadenza alla cessazione del mandato del sindaco non raggiunge la soglia oltre la quale vi sarebbe violazione dell’art. 97 Cost., non traducendosi nell’automatica compromissione né dell’imparzialità dell’azione amministrativa, né della sua continuità.
Non è quindi fondata la questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 99, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 267 del 2000 (Corte Costituzionale, sentenza 22.02.2019 n. 23).

 

IN EVIDENZA

PUBBLICO IMPIEGOTornano on-line gli stipendi dei dirigenti pubblici (ma non le dichiarazioni dei redditi).
Gli stipendi dei dirigenti pubblici devono tornare on-line. Ma non le dichiarazioni dei redditi e i dati patrimoniali, a meno che si tratti di segretari generali, capi di gabinetto o dell'ufficio legislativo. Per questa élite della dirigenza ministeriale la trasparenza deve essere totale.
La Consulta chiude con un giudizio salomonico l'infinita battaglia di carte bollate che ha opposto la dirigenza pubblica agli obblighi di mostrare on-line redditi e patrimoni, imposti sei anni fa dal primo dei decreti attuativi della legge Severino (articolo 14, comma 1-bis, del decreto legislativo 33/2013). Salomonico ma soddisfacente per i dirigenti che hanno ingaggiato la lotta, e che puntavano proprio sullo stop ai patrimoni. Anche se fra i singoli diretti interessati non manca chi storce il naso di fronte al “gossip retributivo” ingaggiato dalla pubblicazione dei compensi. I dirigenti si vedono in ogni caso riconosciuto il principio che avevano invocato, cioè l'irragionevolezza di un trattamento che non distingue un ministro da un dirigente comunale.
La sentenza della Consulta (la sentenza 21.02.2019 n. 20: presidente Lattanzi, redattore Zanon) si è mossa su un crinale stretto. Da un lato c'e il principio della trasparenza, che deve aprire ai cittadini l'accesso più ampio possibile si dati della Pubblica amministrazione, e dall'altro quello alla riservatezza, che deve tutelare i dati sensibili. La legge anticorruzione ha imposto a tutti, dal più noto fra i politici al più oscuro fra i dirigenti, di pubblicare dichiarazioni dei redditi e dati patrimoniali, suoi e dei parenti se questi danno il consenso. Tanta equità non è piaciuta ai dirigenti: e quelli del Garante della Privacy, esperti del tema, hanno bussato al Tar arrivando fino in Corte costituzionale. E mentre il risiko giuridico si sviluppava, hanno impugnato anche le istruzioni attuative scritte dall'Anac, che dopo una lunga partita a scacchi ai tribunali amministrativi si è arresa sospendendo gli obblighi di pubblicazione.
Il primo effetto della sentenza di ieri, quindi, è il ritorno sui siti di tutte le amministrazione delle tabelle con gli stipendi dei loro 140mila dirigenti, insieme ai rimborsi delle spese di missione. Le dichiarazioni dei redditi e gli elenchi dei patrimoni, invece, andranno ripubblicati da poche decine di persone, che occupano i vertici amministrativi dei ministeri. Si tratta di quelli nominati con decreto del Quirinale o di Palazzo Chigi, su proposta del ministro, per i ruoli di segretario generale o di dirigente di "strutture complesse". Per individuarli bisogna scorrere i commi 3 e 4 dell'articolo 19 del Testo unico del pubblico impiego (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 22.02.2019).

PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenti pubblici, incostituzionale l'obbligo generalizzato di pubblicare on-line i dati su reddito e patrimonio: vale solo per gli “apicali”.
Cade l’obbligo di pubblicare on-line i dati personali sul reddito e sul patrimonio dei dirigenti pubblici diversi da quelli che ricoprono incarichi apicali.
Con la sentenza 21.02.2019 n. 20 (relatore Nicolò Zanon) la Corte costituzionale ha infatti dichiarato illegittima la disposizione che estendeva a tutti i dirigenti pubblici gli stessi obblighi di pubblicazione previsti per i titolari di incarichi politici.
La pubblicazione riguarda, in particolare, i compensi percepiti per lo svolgimento dell’incarico e i dati patrimoniali ricavabili dalla dichiarazione dei redditi e da apposite attestazioni sui diritti reali sui beni immobili e mobili iscritti in pubblici registri, sulle azioni di società e sulle quote di partecipazione a società.
Questi dati, in base alla disposizione censurata, dovevano essere diffusi attraverso i siti istituzionali e potevano essere trattati secondo modalità che ne avessero consentito l’indicizzazione, la rintracciabilità tramite i motori di ricerca web e anche il loro riutilizzo.
La Corte ha ritenuto irragionevole il bilanciamento operato dalla legge tra due diritti: quello alla riservatezza dei dati personali, inteso come diritto a controllare la circolazione delle informazioni riferite alla propria persona, e quello dei cittadini al libero accesso ai dati e alle informazioni detenuti dalle pubbliche amministrazioni.
Secondo i giudici costituzionali, il legislatore, nell’estendere tutti i descritti obblighi di pubblicazione alla totalità dei circa 140.000 dirigenti pubblici (e, se consenzienti, ai loro coniugi e parenti entro il secondo grado), ha violato il principio di proporzionalità, cardine della tutela dei dati personali e presidiato dall’articolo 3 della Costituzione. Pur riconoscendo che gli obblighi in questione sono funzionali all’obiettivo della trasparenza, e in particolare alla lotta alla corruzione nella Pubblica amministrazione, la Corte ha infatti ritenuto che tra le diverse misure appropriate non è stata prescelta, come richiesto dal principio di proporzionalità, quella che meno sacrifica i diritti a confronto.
In vista della trasformazione della Pa in una “casa di vetro”, il legislatore può prevedere strumenti che consentano a chiunque di accedere liberamente alle informazioni purché, però, la loro conoscenza sia ragionevolmente ed effettivamente collegata all’esercizio di un controllo sia sul corretto perseguimento delle funzioni istituzionali sia sull’impiego virtuoso delle risorse pubbliche.
Ciò vale certamente per i compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica nonché per le spese relative ai viaggi di servizio e alle missioni pagate con fondi pubblici, il cui obbligo di pubblicazione viene preservato, dalla sentenza, per tutti i dirigenti pubblici. Non così per gli altri dati relativi ai redditi e al patrimonio personali, la cui pubblicazione era imposta, senza alcuna distinzione, per tutti i titolari di incarichi dirigenziali.
Si tratta, infatti, di dati che non sono necessariamente e direttamente collegati all’espletamento dell’incarico affidato. Inoltre, la loro pubblicazione non può essere sempre giustificata - come avviene invece per i titolari di incarichi politici - dalla necessità di rendere conto ai cittadini di ogni aspetto della propria condizione economica e sociale allo scopo di mantenere saldo, durante il mandato, il rapporto di fiducia che alimenta il consenso popolare.
A ciò si aggiunga che la pubblicazione di quantità così massicce di dati –senza alcuna distinzione tra i dirigenti, in relazione al ruolo, alle responsabilità e alla carica ricoperta– non agevola affatto la ricerca di quelli più significativi, anche a fini anticorruttivi, e rischia, anzi, di generare “opacità per confusione” oltre che di stimolare forme di ricerca tendenti unicamente a soddisfare mere curiosità.
Poiché non spetta alla Corte costituzionale indicare una diversa soluzione più idonea a bilanciare i diritti antagonisti, la sentenza garantisce, insieme al diritto alla privacy, la tutela minima delle esigenze di trasparenza amministrativa individuando nei dirigenti apicali delle amministrazioni statali (previsti dall’articolo 19, commi 3 e 4, del decreto legislativo n. 165 del 2001) coloro ai quali sono applicabili gli obblighi di pubblicazione imposti dalla disposizione censurata.
Secondo la Corte, l’attribuzione a questi dirigenti di compiti di elevatissimo rilievo –propositivi, organizzativi, di gestione (di risorse umane e strumentali) e di spesa– rende non irragionevole che, solo per loro, siano mantenuti, allo stato, gli obblighi di trasparenza di cui si discute.
Spetterà ora al legislatore ridisegnare -con le necessarie diversificazioni e per tutte le pubbliche amministrazioni, anche non statali- il complessivo panorama dei destinatari degli obblighi di trasparenza e delle modalità con cui devono essere attuati, nel rispetto del principio di proporzionalità posto a presidio della privacy degli interessati.
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Norme impugnate: Art. 14, c. 1°-bis e 1-ter, del decreto legislativo 14/03/2013, n. 33.
Oggetto: Impiego pubblico - Riservatezza - Trasparenza - Obblighi di pubblicazione di documenti e informazioni concernenti i titolari di incarichi dirigenziali - Pubblicazione dei compensi - Pubblicazione degli emolumenti percepiti.
Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale - non fondatezza - inammissibilità.

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5.– Così prospettata, la questione è parzialmente fondata, nei termini che saranno di seguito precisati, per violazione, sia del principio di ragionevolezza, sia del principio di eguaglianza, limitatamente all’obbligo imposto a tutti i titolari di incarichi dirigenziali, senza alcuna distinzione fra di essi, di pubblicare le dichiarazioni e le attestazioni di cui alla lettera f) del comma 1 dell’art. 14 del d.lgs. n. 33 del 2013.
5.1.– Nella versione originaria, il citato art. 14 del d.lgs. n. 33 del 2013, al comma 1, già imponeva alle amministrazioni interessate la pubblicazione di una serie di documenti e informazioni, ma tale obbligo si riferiva solo ai titolari di incarichi politici di livello statale, regionale e locale. I documenti e le informazioni da pubblicare, in relazione a questi ultimi, erano (e restano):
   a) l’atto di nomina o di proclamazione, con l’indicazione della durata dell’incarico o del mandato elettivo;
   b) il curriculum;
   c) i compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica e gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici;
   d) i dati relativi all’assunzione di altre cariche, presso enti pubblici o privati, e i relativi compensi a qualsiasi titolo percepiti;
   e) gli altri eventuali incarichi con oneri a carico della finanza pubblica e l’indicazione dei compensi spettanti;
   f) i documenti previsti dall’art. 2 della legge n. 441 del 1982, ossia, per quanto qui d’interesse, una dichiarazione concernente i diritti reali su beni immobili e su beni mobili iscritti in pubblici registri, le azioni di società, le quote di partecipazione a società e l’esercizio di funzioni di amministratore o di sindaco di società, nonché la copia dell’ultima dichiarazione dei redditi soggetti all’imposta sui redditi delle persone fisiche (IRPEF), con obblighi estesi al coniuge non separato e ai parenti entro il secondo grado, ove gli stessi vi abbiano consentito e salva la necessità di dare evidenza al mancato consenso.
I destinatari originari di questi obblighi di trasparenza sono titolari di incarichi che trovano la loro giustificazione ultima nel consenso popolare, ciò che spiega la ratio di tali obblighi: consentire ai cittadini di verificare se i componenti degli organi di rappresentanza politica e di governo di livello statale, regionale e locale, a partire dal momento dell’assunzione della carica, beneficino di incrementi reddituali e patrimoniali, anche per il tramite del coniuge o dei parenti stretti, e se tali incrementi siano coerenti rispetto alle remunerazioni percepite per i vari incarichi.
La novella di cui al d.lgs. n. 97 del 2016 aggiunge all’art. 14 del d.lgs. n. 33 del 2013 cinque nuovi commi, tra i quali, appunto, quello censurato, che estende gli obblighi di pubblicazione ricordati, per quanto qui interessa, ai titolari di incarichi dirigenziali a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli attribuiti discrezionalmente dall’organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione.
In tal modo, la totalità della dirigenza amministrativa è stata sottratta al regime di pubblicità congegnato dall’art. 15 del d.lgs. n. 33 del 2013 –che per essi prevedeva la pubblicazione dei soli compensi percepiti, comunque denominati– ed è stata attratta nell’orbita dei ben più pregnanti doveri di trasparenza originariamente riferiti ai soli titolari di incarichi di natura politica.
5.2.– In nome di rilevanti obiettivi di trasparenza dell’esercizio delle funzioni pubbliche, e in vista della trasformazione della pubblica amministrazione in una “casa di vetro”, il legislatore ben può apprestare strumenti di libero accesso di chiunque alle pertinenti informazioni, «allo scopo di tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione degli interessati all’attività amministrativa e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche» (art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 33 del 2013).
Resta tuttavia fermo che il perseguimento di tali finalità deve avvenire attraverso la previsione di obblighi di pubblicità di dati e informazioni, la cui conoscenza sia ragionevolmente ed effettivamente connessa all’esercizio di un controllo, sia sul corretto perseguimento delle funzioni istituzionali, sia sul corretto impiego delle risorse pubbliche.
Proprio da questo punto di vista, risultano non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione all’obbligo imposto a ciascun titolare di incarico dirigenziale di pubblicare i dati di cui alla lettera c) dell’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 33 del 2013, e dunque i compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica, nonché gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici.
La disciplina anteriore alla novella operata dal d.lgs. n. 97 del 2016 già contemplava la pubblicità dei compensi, comunque denominati, relativi al rapporto di lavoro dirigenziale, proprio per agevolare la possibilità di un controllo diffuso, da parte degli stessi destinatari delle prestazioni e dei servizi erogati dall’amministrazione, posti così nelle condizioni di valutare, anche sotto il profilo in questione, le modalità d’impiego delle risorse pubbliche.
Il regime di piena conoscibilità di tali dati risulta proporzionato rispetto alle finalità perseguite dalla normativa sulla trasparenza amministrativa, con conseguente esclusione della prospettata violazione degli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione a tutti i parametri interposti evocati.
Si tratta, infatti, di consentire, in forma diffusa, il controllo sull’impiego delle risorse pubbliche e permettere la valutazione circa la congruità –rispetto ai risultati raggiunti e ai servizi offerti– di quelle utilizzate per la remunerazione dei soggetti responsabili, a ogni livello, del buon andamento della pubblica amministrazione.
Quanto ai restanti parametri costituzionali (artt. 2 e 13 Cost.) evocati dal rimettente, in disparte la stringatezza delle argomentazioni utilizzate a sostegno delle censure, non si vede come la pubblicazione di tali dati possa mettere a rischio la sicurezza o la libertà degli interessati, danneggiandone la dignità personale: si tratta, infatti, dell’ostensione di compensi o rimborsi spese direttamente connessi all’espletamento dell’incarico dirigenziale.
Di qui, la non fondatezza delle questioni sollevate anche in riferimento agli artt. 2 e 13 Cost.
5.3.– A diverse conclusioni deve pervenirsi con riferimento agli obblighi di pubblicazione indicati nella lettera f) del comma 1 dell’art. 14 del d.lgs. n. 33 del 2013, in quanto imposti dal censurato comma 1-bis dello stesso articolo, senza alcuna distinzione, a carico di tutti i titolari di incarichi dirigenziali.
Anche per essi, oltre che per i titolari di incarichi politici, è ora prescritta la generalizzata pubblicazione di dichiarazioni e attestazioni contenenti dati reddituali e patrimoniali (propri e dei più stretti congiunti), ulteriori rispetto alle retribuzioni e ai compensi connessi alla prestazione dirigenziale.
Si tratta, in primo luogo, di dati che non necessariamente risultano in diretta connessione con l’espletamento dell’incarico affidato. Essi offrono, piuttosto, un’analitica rappresentazione della situazione economica personale dei soggetti interessati e dei loro più stretti familiari, senza che, a giustificazione di questi obblighi di trasparenza, possa essere sempre invocata, come invece per i titolari di incarichi politici, la necessità o l’opportunità di rendere conto ai cittadini di ogni aspetto della propria condizione economica e sociale, allo scopo di mantenere saldo, durante l’espletamento del mandato, il rapporto di fiducia che alimenta il consenso popolare.
L’Avvocatura generale dello Stato, nelle proprie memorie, giustifica le disposizioni censurate, evidenziando che, in riferimento ai titolari d’incarichi dirigenziali, il legislatore avrebbe correttamente adottato misure «ampie e rigorose» al fine, soprattutto, di contrastare il fenomeno della corruzione nella pubblica amministrazione, anche in considerazione dei numerosi moniti in tal senso provenienti da rilevanti organizzazioni internazionali e dalla stessa Unione europea, e delle rilevazioni internazionali che hanno classificato l’Italia tra i Paesi in cui è più elevata la percezione della corruzione (da intendersi anche come carenza di trasparenza).
Tale giustificazione appare plausibile, ma non conclusiva.
L’Avvocatura generale ha anche opportunamente ricordato che, in virtù delle numerose clausole di garanzia della tutela dei dati personali previste dallo stesso d.lgs. n. 33 del 2013, le pubbliche amministrazioni, nel richiedere ai propri dirigenti la trasmissione dei dati di cui ora si tratta per fini di pubblicità istituzionale, consentono l’oscuramento dei dati sensibili e giudiziari, nonché di quelli valutati non pertinenti rispetto alle finalità di trasparenza perseguite.
A tale cautela risulta essersi uniformata l’autorità datrice di lavoro nei confronti dei ricorrenti nel giudizio a quo, ai quali è stato richiesto di oscurare, nella dichiarazione dei redditi destinata alla pubblicazione, alcuni dati considerati “eccedenti”: codice fiscale; scelta del destinatario relativa all’otto e al cinque per mille dell’IRPEF; ammontare delle spese sanitarie; riepilogo delle spese; sottoscrizioni autografe del dichiarante.
Occorre tuttavia valutare se e in che misura –al netto di queste operazioni di preventiva scrematura, pure imposte dalla legge– la conoscenza indiscriminata del residuo, pur sempre ampio, ventaglio di informazioni e dati personali di natura reddituale e patrimoniale contenuti nella documentazione oggetto di pubblicazione appaia necessaria e proporzionata rispetto alle finalità perseguite dalla legislazione sulla trasparenza.
Ebbene, la disposizione censurata non risponde alle due condizioni richieste dal test di proporzionalità: l’imposizione di oneri non sproporzionati rispetto ai fini perseguiti, e la scelta della misura meno restrittiva dei diritti che si fronteggiano.
Viola perciò l’art. 3 Cost., innanzitutto sotto il profilo della ragionevolezza intrinseca, imporre a tutti indiscriminatamente i titolari d’incarichi dirigenziali di pubblicare una dichiarazione contenente l’indicazione dei redditi soggetti all’IRPEF nonché dei diritti reali su beni immobili e su beni mobili iscritti in pubblici registri, delle azioni di società, delle quote di partecipazione a società e dell’esercizio di funzioni di amministratore o di sindaco di società (con obblighi estesi al coniuge non separato e ai parenti entro il secondo grado, ove gli stessi vi consentano e fatta salva la necessità di dare evidenza, in ogni caso, al mancato consenso).
5.3.1.– L’onere di pubblicazione in questione risulta, in primo luogo, sproporzionato rispetto alla finalità principale perseguita, quella di contrasto alla corruzione nell’ambito della pubblica amministrazione.
La norma impone la pubblicazione di una massa notevolissima di dati personali, considerata la platea dei destinatari: circa centoquarantamila interessati (senza considerare coniugi e parenti entro il secondo grado), secondo le rilevazioni operate dall’ARAN e citate dal Garante per la protezione dei dati personali (nel parere reso il 03.03.2016 sullo schema di decreto legislativo che, successivamente approvato dal Governo, come d.lgs. n. 97 del 2016, ha introdotto la disposizione censurata).
Non erra il giudice rimettente laddove, considerata tale massa di dati, intravede un rischio di frustrazione delle stesse esigenze di informazione veritiera e, quindi, di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche, poste a base della normativa sulla trasparenza.
La pubblicazione di quantità così massicce di dati, infatti, non agevola affatto la ricerca di quelli più significativi a determinati fini (nel nostro caso particolare, ai fini di informazione veritiera, anche a scopi anticorruttivi) se non siano utilizzati efficaci strumenti di elaborazione, che non è ragionevole supporre siano a disposizione dei singoli cittadini.
Sotto questo profilo, la disposizione in esame finisce per risultare in contrasto con il principio per cui, «nelle operazioni di bilanciamento, non può esservi un decremento di tutela di un diritto fondamentale se ad esso non fa riscontro un corrispondente incremento di tutela di altro interesse di pari rango» (sentenza n. 143 del 2013). Nel caso in esame, alla compressione –indiscutibile– del diritto alla protezione dei dati personali non corrisponde, prima facie, un paragonabile incremento né della tutela del contrapposto diritto dei cittadini ad essere correttamente informati, né dell’interesse pubblico alla prevenzione e alla repressione dei fenomeni di corruzione.
Tutt’al contrario, la stessa autorità preposta alla lotta al fenomeno della corruzione, segnala, non diversamente da quella preposta alla tutela dei dati personali, che il rischio è quello di generare “opacità per confusione”, proprio per l’irragionevole mancata selezione, a monte, delle informazioni più idonee al perseguimento dei legittimi obiettivi perseguiti.
Sono le stesse peculiari modalità di pubblicazione imposte dal d.lgs. n. 33 del 2013 ad aggravare il carattere, già in sé sproporzionato, dell’obbligo di pubblicare i dati di cui si discute, in quanto posto a carico della totalità dei dirigenti pubblici.
L’indicizzazione e la libera rintracciabilità sul web, con l’ausilio di comuni motori di ricerca, dei dati personali pubblicati, non è coerente al fine di favorire la corretta conoscenza della condotta della pubblica dirigenza e delle modalità di utilizzo delle risorse pubbliche. Tali forme di pubblicità rischiano piuttosto di consentire il reperimento “casuale” di dati personali, stimolando altresì forme di ricerca ispirate unicamente dall’esigenza di soddisfare mere curiosità.
Si tratta di un rischio evidenziato anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Alla luce dello sviluppo della tecnologia informatica e dell’ampliamento delle possibilità di trattamento dei dati personali dovuto all’automatizzazione, la Corte EDU si è soffermata sulla stretta relazione esistente tra tutela della vita privata (art. 8 CEDU) e protezione dei dati personali, interpretando anche quest’ultima come tutela dell’autonomia personale da ingerenze eccessive da parte di soggetti privati e pubblici (Corte EDU, Grande camera, sentenze 16.02.2000, Amann contro Svizzera, e 06.04.2010, Flinkkilä e altri contro Finlandia).
In una significativa pronuncia (sentenza 08.11.2016, Magyar contro Ungheria), la Grande camera della Corte EDU ha osservato come l’interesse sotteso all’accesso a dati personali per fini di interesse pubblico non può essere ridotto alla “sete di informazioni” sulla vita privata degli altri («The public interest cannot be reduced to the public’s thirst for information about the private life of others, or to an audience’s wish for sensationalism or even voyeurism»: § 162).
5.3.2.– Anche sotto il secondo profilo, quello della necessaria scelta della misura meno restrittiva dei diritti fondamentali in potenziale tensione, la disposizione censurata non supera il test di proporzionalità.
Esistono senz’altro soluzioni alternative a quella ora in esame, tante quanti sono i modelli e le tecniche immaginabili per bilanciare adeguatamente le contrapposte esigenze di riservatezza e trasparenza, entrambe degne di adeguata valorizzazione, ma nessuna delle due passibile di eccessiva compressione.
Alcune di tali soluzioni –privilegiate, peraltro, in altri ordinamenti europei– sono state ricordate anche dal giudice rimettente: ad esempio, la predefinizione di soglie reddituali il cui superamento sia condizione necessaria per far scattare l’obbligo di pubblicazione; la diffusione di dati coperti dall’anonimato; la pubblicazione in forma nominativa di informazioni secondo scaglioni; il semplice deposito delle dichiarazioni personali presso l’autorità di controllo competente.
Quest’ultima soluzione, del resto, era quella adottata prima del d.lgs. n. 97 del 2016, nell’ambito di una disciplina (art. 13, commi 1 e 3, del d.P.R. 16.04.2013, n. 62, contenente «Regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell’articolo 54 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165», e tuttora vigente) che impone ai titolari d’incarichi dirigenziali l’obbligo di fornire alle amministrazioni di appartenenza, con onere di aggiornamento annuale, le informazioni sulla propria situazione reddituale e patrimoniale, che però non erano rese pubbliche (se non su apposita istanza), e, comunque, non con le modalità previste dal d.lgs. n. 33 del 2013 e in precedenza illustrate.
Non spetta a questa Corte indicare la soluzione più idonea a bilanciare i diritti antagonisti, rientrando la scelta dello strumento ritenuto più adeguato nella ampia discrezionalità del legislatore.
Tuttavia, non si può non rilevare sin d’ora –e in attesa di una revisione complessiva della disciplina– che vi è una manifesta sproporzione del congegno normativo approntato rispetto al perseguimento dei fini legittimamente perseguiti, almeno ove applicato, senza alcuna differenziazione, alla totalità dei titolari d’incarichi dirigenziali.
5.4.– La disposizione censurata, come si è più volte sottolineato, non opera alcuna distinzione all’interno della categoria dei dirigenti amministrativi, vincolandoli tutti all’obbligo di pubblicazione dei dati indicati. Il legislatore non prevede alcuna differenziazione in ordine al livello di potere decisionale o gestionale. Eppure, è manifesto che tale livello non può che influenzare, sia la gravità del rischio corruttivo –che la disposizione stessa, come si presuppone, intende scongiurare– sia le conseguenti necessità di trasparenza e informazione.
La stessa legislazione anticorruzione presuppone distinzioni tra i titolari d’incarichi dirigenziali: l’art. 1, comma 5, lettera a), della legge n. 190 del 2012, infatti, obbliga le pubbliche amministrazioni centrali a definire e trasmettere al Dipartimento della funzione pubblica un piano di prevenzione della corruzione che fornisca «una valutazione del diverso livello di esposizione degli uffici al rischio di corruzione» e indichi «gli interventi organizzativi volti a prevenire il medesimo rischio».
A questa stregua, è corretto l’insistito rilievo del giudice rimettente, che sottolinea come la mancanza di qualsivoglia differenziazione tra dirigenti risulti in contrasto, ad un tempo, con il principio di eguaglianza e, di nuovo, con il principio di proporzionalità, che dovrebbe guidare ogni operazione di bilanciamento tra diritti fondamentali antagonisti.
Il legislatore avrebbe perciò dovuto operare distinzioni in rapporto al grado di esposizione dell’incarico pubblico al rischio di corruzione e all’ambito di esercizio delle relative funzioni, prevedendo coerentemente livelli differenziati di pervasività e completezza delle informazioni reddituali e patrimoniali da pubblicare.
Con riguardo ai titolari di incarichi dirigenziali, la stessa Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), nell’atto di segnalazione n. 6 del 20.12.2017, ha ritenuto di suggerire al Parlamento e al Governo una modifica normativa che operi una graduazione degli obblighi di pubblicazione proprio in relazione al ruolo, alle responsabilità e alla carica ricoperta dai dirigenti.
Non prevedendo invece una consimile graduazione, la disposizione censurata si pone in contrasto con l’art. 3 Cost.
6.– Questa Corte non può esimersi, tuttavia, dal considerare che una declaratoria d’illegittimità costituzionale che si limiti all’ablazione, nella disposizione censurata, del riferimento ai dati indicati nell’art. 14, comma 1, lettera f), lascerebbe del tutto privi di considerazione principi costituzionali meritevoli di tutela.
Sussistono esigenze di trasparenza e pubblicità che possono non irragionevolmente rivolgersi nei confronti di soggetti cui siano attribuiti ruoli dirigenziali di particolare importanza.
Ha osservato l’Avvocatura generale dello Stato che «è proprio il fatto di essere permanentemente e stabilmente al servizio delle pubbliche amministrazioni, con funzioni gestionali apicali», a costituire la giustificazione del regime aperto, di massima trasparenza, per i gestori della cosa pubblica.
Sorge, dunque, l’esigenza di identificare quei titolari d’incarichi dirigenziali ai quali la disposizione possa essere applicata, senza che la compressione della tutela dei dati personali risulti priva di adeguata giustificazione, in contrasto con il principio di proporzionalità.
È evidente, a questo proposito, che le molteplici possibilità di classificare i livelli e le funzioni, all’interno della categoria dei dirigenti pubblici, anche in relazione alla diversa natura delle amministrazioni di appartenenza, impediscono di operare una selezione secondo criteri costituzionalmente obbligati.
Non potrebbe essere questa Corte, infatti, a ridisegnare, tramite pronunce manipolative, il complessivo panorama, necessariamente diversificato, dei destinatari degli obblighi di trasparenza e delle modalità con le quali tali obblighi debbano essere attuati.
Ciò spetta alla discrezionalità del legislatore, al quale il giudice costituzionale, nel rigoroso rispetto dei propri limiti d’intervento, non può sostituirsi.
Nondimeno, occorre assicurare, allo stato, la salvaguardia di un nucleo minimo di tutela del diritto alla trasparenza amministrativa in relazione ai dati personali indicati dalla disposizione censurata, in attesa di un indispensabile e complessivo nuovo intervento del legislatore.
Da questo punto di vista, l’art. 19 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), nell’elencare gli incarichi di funzioni dirigenziali, ai commi 3 e 4 contiene indicazioni normative che risultano provvisoriamente congruenti ai fini appena indicati.
Tali commi individuano due particolari categorie di incarichi dirigenziali, quelli di Segretario generale di ministeri e di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali (comma 3) e quelli di funzione dirigenziale di livello generale (comma 4).
Le competenze spettanti ai soggetti che ne sono titolari, come elencate al precedente art. 16 del d.lgs. n. 165 del 2001, rendono manifesto lo svolgimento, da parte loro, di attività di collegamento con gli organi di decisione politica, con i quali il legislatore presuppone l’esistenza di un rapporto fiduciario, tanto da disporre che i suddetti incarichi siano conferiti su proposta del ministro competente.
L’attribuzione a tali dirigenti di compiti –propositivi, organizzativi, di gestione (di risorse umane e strumentali) e di spesa– di elevatissimo rilievo rende non irragionevole, allo stato, il mantenimento in capo ad essi proprio degli obblighi di trasparenza di cui si discute.
Come si è detto, l’intervento di questa Corte non può che limitarsi all’eliminazione, dalla disposizione censurata, dei profili di più evidente irragionevolezza, salvaguardando provvisoriamente le esigenze di trasparenza e pubblicità che appaiano, prima facie, indispensabili.
Appartiene alla responsabilità del legislatore, nell’ambito dell’urgente revisione complessiva della materia, sia prevedere eventualmente, per gli stessi titolari degli incarichi dirigenziali indicati dall’art. 19, commi 3 e 4, modalità meno pervasive di pubblicazione, rispetto a quelle attualmente contemplate dal d.lgs. n. 33 del 2013, sia soddisfare analoghe esigenze di trasparenza in relazione ad altre tipologie di incarico dirigenziale, in relazione a tutte le pubbliche amministrazioni, anche non statali.
In definitiva, l’art. 14, comma 1-bis, del d.lgs. n. 33 del 2013, deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 3 Cost., nella parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di cui all’art. 14, comma 1, lettera f), dello stesso decreto legislativo, anche per tutti i titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall’organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione, anziché solo per i titolari degli incarichi dirigenziali previsti dall’art. 19, commi 3 e 4, del d.lgs. n. 165 del 2001.
Restano assorbiti tutti gli altri profili di censura.
7.– Vanno, infine, dichiarate inammissibili le questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto il comma 1-ter dell’art. 14 del d.lgs. n. 33 del 2013.
La disposizione prevede l’obbligo di pubblicazione degli «emolumenti complessivi» percepiti da ogni dirigente della pubblica amministrazione a carico della finanza pubblica: a parere del rimettente, tale pubblicazione costituirebbe un dato aggregato che contiene quello di cui al comma 1, lettera c), dello stesso articolo e che potrebbe, anzi, corrispondere del tutto a quest’ultimo, laddove il dirigente non percepisca altro emolumento se non quello corrispondente alla retribuzione per l’incarico assegnato.
Le questioni sono inammissibili, in quanto i provvedimenti impugnati nel giudizio principale non sono stati adottati in applicazione del comma 1-ter, ma del solo precedente comma 1-bis dell’art. 14 citato.
Per costante giurisprudenza costituzionale, sono inammissibili, per difetto di rilevanza, le questioni sollevate su disposizioni di cui il giudice rimettente non deve fare applicazione (ex multis, sentenze n. 36 del 2016 e n. 192 del 2015; ordinanze n. 57 del 2018 e n. 38 del 2017).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
   1)
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1-bis, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33 (Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni), nella parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di cui all’art. 14, comma 1, lettera f), dello stesso decreto legislativo anche per tutti i titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall’organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione, anziché solo per i titolari degli incarichi dirigenziali previsti dall’art. 19, commi 3 e 4, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche) (Corte Costituzionale, sentenza 21.02.2019 n. 20).

 

IMPORTANTE:

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAAccesso civico messo all’angolo. I dati dei defunti e le pratiche edilizie restano coperti. Lo dicono due pareri del garante privacy. Infermieri, no agli invii massivi all’Ordine.
Foia in un angolo. Il Freedom of information act (dlgs 33/2013), la normativa sull'accesso civico generalizzato, non consente di accedere indiscriminatamente ai dati dei pazienti defunti e neppure alle pratiche edilizie comunali.
A spiegarlo il garante della privacy, con due pareri gemelli ad altrettante richieste relative ala prima ad una richiesta di accesso ai dati di una azienda sanitaria locale e ad un comune.
DATI DEI DEFUNTI
Il primo caso è stato quello di una istanza a una azienda sanitaria di un accesso civico ai dati sanitari di un paziente deceduto, e questo relativamente a un fatto di presunta malasanità. L'istanza è stata formulata ai sensi dell'articolo 5 del dlgs 33/2013. La documentazione richiesta conteneva informazioni particolarmente riservate: ricovero, sintomi, anamnesi, diagnosi, esami effettuati, alcuni particolarmente invasivi, terapia, farmaci somministrati, credo professato.
Nel merito il garante ha affermato che questo tipo di informazioni non sono accessibili con il Foia (provvedimento n. 2 del 10.01.2019).
L'accesso civico non si può usare nei casi di divieto di accesso o divulgazione previsti dalla legge «e tra questo, spiega l'autorità presieduta da Antonello Soro, rientra il caso del divieto di diffusione» di dati relativi alla salute previsto dal Codice della privacy. A latere il garante ha ricordato in Italia le persone decedute continuano a godere delle tutele previste dalla disciplina in materia di protezione dei dati personali anche dopo l'applicazione del Regolamento Ue 2016/679 (Gdpr). Nel Gdpr, infatti, sono tutelati solo i dati delle persone fisiche viventi, ma gli stati dell'Unione avevano la possibilità di intervenire.
È quello che ha fatto l'Italia con il dlgs 101/2018: pertanto, grazie a questo intervento, i diritti relativi ai dati personali dei defunti (ed anche l'accesso) possono essere esercitati da chi ha un interesse proprio, o agisce a tutela dell'interessato, in qualità di suo mandatario, o per ragioni familiari meritevoli di protezione. Da quanto appena detto discende anche che ci sono altre strade per avere accesso ai dati sanitari (sempre che ne ricorrano i presupposti) senza scomodare il Foia, che non ha alcuna possibilità di applicazione.
SCILA E CILA
Lo stesso è capitato in un caso di richiesta di accesso civico generalizzato ai dati personali completi contenuti nei titoli abilitativi edilizi Scia e Cila e cioè, rispettivamente Segnalazioni certificate di inizio attività e Comunicazioni inizio lavori asseverata.
Nel caso specifico il comune aveva dato copia delle pratiche edilizie, ma solo in sintesi con dati aggregati, depurati di quelli personali. In materia il garante ha quindi sottolineato che la completa conoscenza delle informazioni riportate nelle Scia e nelle Cila, può comportare un'invasione alla vita privata, poiché si rivelerebbero data e luogo di nascita, codici fiscali, residenza, e-mail, pec, numeri di telefono fisso e cellulare, documentazione tecnica sugli interventi. Il risultato sottolinea il garante sarebbe stata la duplicazione delle banche dati comunali.
Il garante ha, anche in questo caso, concluso ricordando che il no all'«accesso civico generalizzato» non impedisce di accedere ai documenti amministrativi con altri strumenti (ad esempio accesso documentale in base alla legge 241/1990, sussistendone i presupposti). Il garante nella sua decisione (provvedimento 03.01.2019 n. 1) ha tenuto conto anche del fatto che la società richiedente è una società che realizza campagne di marketing e web marketing, nonché la fornitura di servizi di gestione dei programmi di fidelizzazione e affiliazione commerciale, autrice di istanza a tappeto di accesso civico. Come dire che il possibile utilizzo per finalità di marketing non è perfettamente collimante con lo scopo della norma sull'accesso civico generalizzato.
In effetti l'articolo 5 del dlgs 33/2013 considera l'accesso civico quale strumento per il controllo dell'attività e delle spese della pubblica amministrazione e per la partecipazione al dibattito pubblico. Peraltro, a dimostrare la difficile interpretazione e applicazione della normativa, la Funzione pubblica, con la circolare 2/2017 ha espressamente previsto come possibile motivazione dell'accesso civico generalizzato le finalità commerciali.
INFERMIERI
Con nota del 16.01.2019 il Garante ha affermato che le strutture sanitarie non possono trasmettere in modo massivo i dati di tutto il loro personale infermieristico all'Ordine professionale di riferimento.
Nel caso specifico gli ordini volevano fare controlli incrociati e scoprire abusivi. Ma la legge non attribuisce agli Ordini competenze per generalizzate attività di raccolta di informazioni riferite al personale infermieristico. Deve, invece, essere il datore di lavoro ad accertare, all'atto dell'assunzione e nel corso del rapporto di lavoro, che un infermiere sia dotato dei requisiti necessari per prestare servizio e che sia iscritto all'apposito albo professionale.
BREXIT
In caso di Hard Brexit il Regno Unito diventerà un paese terzo dal 30.03.2019.
Lo ha precisato il Comitato europeo della protezione dei dati (newsletter del garante della privacy 450 del 25 febbraio). Di conseguenza, il trasferimento di dati personali dal See (Spazio economico europeo) verso il Regno Unito dovrà basarsi su uno dei seguenti strumenti: clausole-tipo di protezione dei dati o clausole di protezione dei dati ad hoc, norme vincolanti d'impresa, codici di condotta e meccanismi di certificazione e strumenti specifici di trasferimento a disposizione delle autorità pubbliche. In assenza di clausole-tipo di protezione dei dati o di altre garanzie adeguate, si possono utilizzare alcune deroghe a determinate condizioni
(articolo ItaliaOggi del 26.02.2019).

EDILIZIA PRIVATAPrivacy: no all’accesso civico generalizzato su pratiche SCIA e CILA.
Non è possibile accedere ai dati personali completi contenuti nei titoli abilitativi edilizi (SCIA e CILA) sulla base di una mera richiesta di accesso civico generalizzato.

Lo ribadisce il Garante per la protezione dei dati personali nel parere (provvedimento 03.01.2019 n. 1) fornito a un Comune dell’Emilia Romagna in merito alla decisione di respingere parzialmente una richiesta di accesso civico alle Segnalazioni Certificate di Inizio Attività (SCIA) e alle Comunicazioni Inizio Attività Asseverata (CILA), presentata da una impresa privata.
La richiesta di copia completa delle pratiche edilizie era stata presentata una prima volta al Comune, che aveva però risposto fornendo solamente una sintesi con dati aggregati, depurati di quelli personali, al fine di non arrecare un possibile pregiudizio alla privacy delle persone interessate. L’impresa, supportata dal Difensore civico regionale dell’Emilia Romagna, aveva contestato la decisione e chiesto il riesame della pratica. Il Garante privacy aveva invece sostenuto la correttezza della scelta dell’amministrazione cittadina. L’impresa aveva poi ripresentato la domanda, ma il Garante è nuovamente intervenuto sulla vicenda, anche al fine di evitare pericolosi precedenti che incoraggino possibili trattamenti illeciti di dati personali.
Nel proprio parere, l’Autorità ha innanzitutto chiarito che, diversamente da quanto indicato per altre pratiche edilizie, come i permessi a costruire, la normativa non prevede lo stesso regime di conoscibilità per la CILA e la SCIA, come per quelle utilizzate nel caso di opere di manutenzione straordinaria, di restauro o di risanamento conservativo.
Il Garante ha quindi sottolineato che la generale conoscenza delle informazioni riportate nelle SCIA e nelle CILA, considerando la quantità e qualità dei dati personali contenuti -come data e luogo di nascita, codici fiscali, residenza, e-mail, pec, numeri di telefono fisso e cellulare, documentazione tecnica sugli interventi- avrebbe potuto determinare un’interferenza ingiustificata e sproporzionata nei diritti e libertà dei soggetti controinteressati. Tutto ciò, in violazione anche del principio di minimizzazione previsto dal Regolamento europeo sulla privacy (Gdpr), con possibili ripercussioni negative sul piano relazionale, professionale, personale e sociale.
Nel corso dell’istruttoria, il Garante ha inoltre rilevato che l’impresa richiedente -che ha tra le sue attività quella di conduzione di campagne di marketing e web marketing, nonché la fornitura di servizi di gestione dei programmi di fidelizzazione e affiliazione commerciale- aveva presentato la stessa domanda in maniera sistematica, per più periodi, a diversi enti locali. L’accoglimento della richiesta di accesso civico avrebbe tra l’altro potuto esporre al pericolo di duplicazione di banche dati di soggetti pubblici da parte di soggetti privati, in assenza del consenso dei soggetti interessati o degli altri presupposti di liceità del trattamento.
L’Autorità, ha così confermato, anche alla luce della normativa e delle stesse linee guida Anac, la correttezza dell’operato del Comune, nel valutare l’esistenza di un possibile pregiudizio concreto alla protezione dei dati delle persone interessate -ad esempio i proprietari, gli usufruttuari e tecnici incaricati- e fornendo di conseguenza solo una sintesi delle pratiche richieste. Ha comunque rimarcato che tale decisione sull’“accesso civico generalizzato” non impedisce di accedere ai documenti amministrativi completi a chi dimostri di avere un interesse qualificato (commento tratto da www.garanteprivacy.it).
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PREMESSO
Con la nota in atti il Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza del Comune di San Cesario sul Panaro ha chiesto al Garante il parere previsto dall’art. 5, comma 7, del d.lgs. n. 33 del 14.03.2013, nell’ambito del procedimento relativo a una richiesta di riesame di un provvedimento di diniego di una richiesta di accesso civico.
Nello specifico, dagli atti risulta che è stata presentata istanza di accesso civico alla «copia nel formato detenuto da questa amministrazione (o in sub-ordine in forma riassuntiva), contenente i dati del committente, descrizione dell’intervento, località del cantiere e tecnico progettista, delle Segnalazioni Certificate di Inizio Attività (SCIA) e possibilmente anche delle Comunicazioni Inizio Attività Asseverata (CILA) concernenti l’attività degli interventi edili da attuarsi nel territorio comunale, presentate nel mese di settembre 2018».
L’amministrazione ha negato l’accesso civico ai dati personali richiesti alla luce del limite, previsto dall’art. 5-bis, comma 2, lett. a), del d.lgs. n. 33/2013, relativo all’esistenza di un pregiudizio concreto alla protezione dei dati personali dei soggetti interessati, richiamando in proposito il contenuto del parere già fornito dal Garante al medesimo Comune su altra richiesta di accesso civico identica, sotto il profilo soggettivo e oggettivo, alla presente (provv. n. 360 del 10/08/2017, in www.gpdp.it, doc. web n. 6969290).
Quanto alle restanti informazioni, il Comune ha fornito al soggetto istante i dati relativi alle SCIA e CILA presentate all’ente nel periodo richiesto (senza comunicare dati personali), ossia la tipologia di titolo edilizio (SCIA o CILA), la descrizione dell’intervento (es.: manutenzione straordinaria, installazione insegna; intervento miglioramento sismico, nuovo accesso carraio, variante in corso d’opera per ristrutturazione edilizia; opere interne; variante in corso d’opera, ecc.), le informazioni relative all’effettuazione dell’intervento nel comune o in una sua frazione.
Il soggetto istante, non ritenendosi soddisfatto dal riscontro ricevuto –lamentando di non aver ricevuto gli ulteriori dati personali (nomi, cognomi e indirizzi)– ha presentato richiesta di riesame del provvedimento di diniego dell’accesso civico al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza, rappresentando, a sostegno delle proprie richieste, fra l’altro, che:
   - «nel procedimento amministrativo adottato [è] stato messo in atto un pregiudizio concreto da parte del Comune di San Cesario sul Panaro soprattutto in riferimento ai limiti previsti dall’art. 5-bis del riformato D.Lgs. 33/2013, nei confronti del diritto alla protezione dei dati personali. Tale disposizione non può essere interpretata come limite all’esercizio del diritto di accesso, in quanto il legislatore ha tassativamente individuato i limiti e le eccezioni a tale diritto nell’art. 5-bis del riformato D.Lgs. 33/2013; in questa direzione, il richiamo agli orientamenti interpretativi espressi dalle Linee Guida ANAC»;
   - «In osservanza delle Linee Guida ANAC, l’amministrazione destinataria dell’istanza deve effettuare un bilanciamento tra il diritto di accesso alle informazioni e il diritto alla riservatezza del soggetto cui i dati afferiscono e, qualora l’esigenza informativa possa essere soddisfatta anche senza implicare il trattamento di dati personali, “il soggetto destinatario dell’istanza […] dovrebbe in linea generale scegliere le modalità meno pregiudizievoli per i diritti dell’interessato, privilegiando l’ostensione di documenti con l’omissione dei ‘dati sensibili’ in esso presenti”»;
   - «omettendo l’indirizzo completo dove vengono svolti gli interventi edili […] viene meno la proporzionalità nella conoscenza dei titoli edilizi, occorre quindi riconoscere un margine di conoscibilità anche ai soggetti non interessati, il quale deve essere bilanciato –in concreto– con l’effettivo pregiudizio alla protezione dei dati personali. In tal senso, come si ricava dalla stessa disciplina europea sulla protezione dei dati (Regolamento (UE) 2016/679), la tutela del dato personale deve essere applicata alla luce del principio di proporzionalità nel bilanciamento con altri diritti e valori fondamentali, tra cui rientra quello alla trasparenza amministrativa e all’accesso ai documenti»;
   - «occorr[e] riconoscere ai titoli edilizi un margine di conoscibilità anche ai soggetti non interessati, alla luce del principio della proporzionalità nel bilanciamento con altri diritti e valori fondamentali, tra cui rientra quello alla trasparenza amministrativa e all’accesso ai documenti realizzando quel controllo “diffuso” sull’attività edilizia che il legislatore ha inteso garantire»;
   - «Nella risposta del Comune di San Cesario sul Panaro si trova invece uno sbilanciamento a favore del richiedente: oscurando i dati (nomi, cognomi e il numero civico dell’indirizzo) rendono di fatto l’Accesso Civico Generalizzato senza alcun valore di legge, come si può evincere nell’allegato dove si può constatare che difficilmente è rintracciabile il cantiere dell’intervento edile»;
   - «[i]l Difensore Civico Regionale […] per un’analoga richiesta di Accesso Civico Generalizzato, esprime parere favorevole per il rilascio dei documenti senza omettere i nominativi dei Committenti e dei Tecnici progettisti: “...... non si profila la sussistenza di un pregiudizio concreto all’interesse privato alla protezione dei dati personali. Infatti, il regime di pubblicità dei titoli in materia di edilizia è connotato da un ambito particolarmente esteso, come è dimostrato dalla necessaria pubblicazione nell’albo pretorio del provvedimento di rilascio del permesso di costruire ai sensi dell’art. 20, co. 6, del d.P.R. 380/2001. Inoltre, fino alla novella del 2016, rientravano tra gli obblighi di pubblicazione previsti dal decreto 33/2013 i provvedimenti finali dei procedimenti relativi ad autorizzazioni e concessioni, ai quali viene equiparata la segnalazione certificata di inizio attività (cfr. orientamento ANAC n. 11 del 21.05.2014); dal particolare regime di pubblicità di tali atti deriva la impossibilità di qualificare come “controinteressati” dei soggetti i cui dati si riferiscono]”».
OSSERVA
1. Il caso sottoposto al Garante
Il caso sottoposto all’attenzione del Garante è identico, sotto il profilo soggettivo (stesso soggetto istante) e oggettivo (stessa tipologia di dati e documenti richiesti ma riferiti a mesi diversi), a quello per il quale è stato reso il parere contenuto nel citato provvedimento n. 360/2017, peraltro richiesto proprio dal medesimo Comune di San Cesario sul Panaro (confermato dai successivi provvedimenti n. 361 del 18/08/2017, in www.gpdp.it, doc. web n. 6969198; n. 364 dell’01/09/2017, ivi, doc. web n. 6979959; n. 359 del 22/05/2018, ivi, doc. web n. 9001943; n. 426 del 19/07/2018, ivi, doc. web n. 9027184; n. 453 del 13/09/2018, ivi, doc. web n. 9050702; n. 517 del 19/12/2018 in corso di pubblicazione).
Ciò nonostante il predetto Comune sottopone nuovamente al Garante la questione, alla luce dei due pareri resi sulla stessa questione dal Difensore civico regionale dell’Emilia Romagna (di cui uno successivo al provv. di questa Autorità n. 360/2017) e dell’insistenza nella richiesta del soggetto istante di ottenere alla luce dei predetti pareri –tramite l’istituto dell’accesso civico generalizzato di cui all’art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 33/2013– le informazioni e i dati personali, contenuti in tutte le Segnalazioni Certificate di Inizio Attività (SCIA) e le Comunicazioni Inizio Attività Asseverata (CILA) presentate al Comune nel mese di settembre 2018.
In tale quadro, questa Autorità ritiene utile ribadire ancora una volta la propria posizione, con le precisazioni di cui si dirà, in materia di accesso civico ai dati personali contenuti nelle SCIA e nelle CILA, confermando gli orientamenti già espressi nei citati pareri (in part. provv. n. 360/2017), le cui motivazioni, per esigenze di chiarezza espositiva, vengono riportate nuovamente in questa sede, dando conto –a ulteriore sostegno delle osservazioni già formulate– anche dell’intervenuta applicazione, dal 25.05.2018, del Regolamento europeo sulla protezione dei dati personali n. 679 del 2016, nonché delle modifiche apportate al Codice in materia di protezione dei dati personali dal d.lgs. n. 101 del 10/08/2018.
Ciò allo scopo di evitare orientamenti contrastanti e interpretazioni della disciplina vigente in materia di trasparenza e accesso civico non conformi alla disciplina in materia di protezione dei dati personali, che rischiano di creare pericolosi precedenti e di incoraggiare possibili trattamenti illeciti di dati personali, con le conseguenze ora previste dall’art. 83 del Regolamento europeo (inflizione di «sanzioni amministrative pecuniari») e dall’ art. 2-decies, comma 1, del Codice («inutilizzabilità dei dati [...] personali trattati in violazione della disciplina rilevante in materia di trattamento dei dati personali»), oltre che dall’art. 82 del Regolamento, quanto al diritto al risarcimento del danno.
2. I dati personali contenuti nelle SCIA e nella CILA
I casi in cui è necessario presentare la SCIA o la CILA interessano un insieme molto variegato di interventi edilizi –riguardanti, in generale, attività di manutenzione straordinaria, di restauro o di risanamento conservativo (sia «leggero» che «pesante»); di ristrutturazione edilizia («semplice», «leggera» o «pesante»); «di nuova costruzione in esecuzione di strumento urbanistico attuativo»; di «eliminazione delle barriere architettoniche (pesanti)»; ovvero specifiche ipotesi di varianti a permessi di costruire previste dalla legge, etc.– disciplinati a livello statale, fra l’altro, dal citato D.P.R. n. 380/2001 (recante il «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia»), nonché dal più recente d.lgs. 25/11/2016, n. 222 (recante «Individuazione di procedimenti oggetto di autorizzazione, segnalazione certificata di inizio di attività (SCIA), silenzio-assenso e comunicazione e di definizione dei regimi amministrativi applicabili a determinate attività e procedimenti, ai sensi dell’articolo 5 della legge 07.08.2015, n. 124»).
A titolo esemplificativo, si spazia da interventi riguardanti la semplice apertura o chiusura di un vano finestra, alla costruzione di una recinzione, al frazionamento o accorpamento di unità abitative, fino a operazioni più importanti come il rifacimento di tetti o solai, oppure o la ristrutturazione generale di un intero fabbricato.
Le informazioni e i dati, anche di carattere personale, da presentare all’ente competente e contenuti nei predetti titoli abilitativi edilizi (CILA e SCIA) sono molteplici e di diverso genere e natura. Il riferimento è, ad esempio, a nominativi, data e luogo di nascita, codici fiscali, residenza, e-mail, p.e.c., numeri di telefono fisso e cellulare riferiti al/i titolare/i dell’intervento in qualità di proprietario, comproprietario, usufruttuario, amministratore di condominio o dei loro rappresentanti; a informazioni sulla tipologia di intervento; alla data di inizio e di fine dello stesso; all’ubicazione, dati catastali e destinazione d’uso dell’immobile oggetto dell’intervento edilizio; al carattere oneroso o gratuito dell’intervento, con allegata eventuale ricevuta dei versamenti effettuati; alla “entità presunta del cantiere”; ai dati dei tecnici incaricati (direttori dei lavori e altri tecnici) e dell’impresa esecutrice dei lavori (riportati nell’allegato «soggetti coinvolti»); nonché, fra l’altro, al prospetto di calcolo preventivo del contributo di costruzione e agli elaborati grafici dello stato di fatto e progetto (come allegati).
È possibile avere un quadro generale del volume e della complessità dei predetti dati e informazioni consultando i moduli, molto articolati, per la presentazione della SCIA e della CILA riportati nell’allegato 2, intitolato «Modulistica edilizia», dell’Accordo del 04/05/2017 in sede di Conferenza Unificata «tra il Governo, le Regioni e gli Enti locali concernente l’adozione di moduli unificati e standardizzati per la presentazione delle segnalazioni, comunicazioni e istanze. Accordo, ai sensi dell’articolo 9, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 28/08/1997, n. 281» (Repertorio atti n. 46/CU, in G.U. n. 128 del 05/06/2017 - Suppl. Ordinario n. 26).
3. Inesistenza di un regime di pubblicità dei dati personali contenuti nelle SCIA e nelle CILA
Occorre preliminarmente ribadire che non esiste un obbligo di pubblicazione da parte delle pp.aa. delle Segnalazioni certificate di inizio di attività-SCIA o delle Comunicazioni di inizio lavori asseverata-CILA presentate all’ente, né in forma integrale né in forma riassuntiva. Per i dati personali ivi contenuti il legislatore non ha infatti previsto alcun regime di pubblicità.
Sotto tale profilo, non è quindi possibile concordare con quanto affermato nel parere reso dal Difensore civico regionale dell’Emilia Romagna del 26/04/2017, citato anche dal soggetto istante, laddove si sostiene in generale che «il regime di pubblicità dei titoli in materia di edilizia è connotato da un ambito particolarmente esteso, come è dimostrato dalla necessaria pubblicazione nell’albo pretorio del provvedimento di rilascio del permesso di costruire ai sensi dell’art. 20, co. 6, del d.P.R. 380/2001» e che «fino alla novella del 2016, rientravano tra gli obblighi di pubblicazione previsti dal decreto 33/2013 i provvedimenti finali dei procedimenti relativi ad autorizzazioni e concessioni, ai quali viene equiparata la segnalazione certificata di inizio attività (cfr. orientamento ANAC n. 11 del 21.05.2014)».
Ciò in quanto la disposizione contenuta nell’art. 20, comma 6, del d.P.R. n. 380/2001 è una norma di settore attinente al solo «procedimento per il rilascio del permesso di costruire», che rappresenta un titolo edilizio diverso dalla CILA e dalla SCIA. La predetta disposizione, che non è ripetuta (né richiamata) per i procedimenti relativi agli altri titoli edilizi (CILA o SCIA), inoltre, non prevede neanche la pubblicazione del provvedimento sull’albo pretorio nella sua integrità, ma della mera «notizia» dell’«avvenuto rilascio del permesso di costruire» (i cui estremi sono peraltro «indicati nel cartello esposto presso il cantiere, secondo le modalità stabilite dal regolamento edilizio»). Alla CILA e alla SCIA –disciplinate nel medesimo d.P.R. n. 380/2001 (testo unico in materia edilizia)– non è di conseguenza in nessun modo applicabile il limitato regime di pubblicità previsto per la “notizia” dell’avvenuto rilascio del permesso di costruire.
Quanto all’abrogato art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 33/2013, lo stesso non prevedeva l’obbligo di pubblicazione on-line dei “provvedimenti integrali”, con tutti i dati personali ivi contenuti, relativi ai titoli edilizi dei procedimenti di “autorizzazione o concessione”, ma solo di una «scheda sintetica» degli elementi previsti dalla disposizione, ossia «il contenuto, l’oggetto, la eventuale spesa prevista e gli estremi relativi ai principali documenti contenuti nel fascicolo relativo al procedimento». Il richiamo al ricordato articolo, quindi, non è idoneo ad affermare l’esistenza di un «regime di pubblicità […] connotato da un ambito particolarmente esteso», come invece rappresentato dal difensore civico, di tutti i titoli abilitativi in materia di edilizia.
Alla luce di tali considerazioni, come già precedentemente evidenziato nel parere n. 360/2017, non è quindi possibile condividere le conseguenze a cui arriva il Difensore civico regionale, laddove sostiene che «con riferimento all’oggetto dell’istanza di accesso in questione [i.e. accesso civico a dati personali contenuti nelle SCIA e nelle CILA], non si profila la sussistenza di un pregiudizio concreto all’interesse privato alla protezione dei dati personali» e che «dal particolare regime di pubblicità di tali atti deriva la impossibilità di qualificare come “controinteressati” [i] soggetti i cui dati personali sono contenuti negli atti oggetto dell’istanza di accesso», per cui sarebbe «facoltà dell’amministrazione comunale trasmettere al richiedente […] i documenti relativi alle Segnalazioni Certificate di Inizio Attività (SCIA) ed alle Comunicazioni di Inizio Attività Asseverata (CILA)».
La predetta interpretazione è in contrasto con la normativa in materia di accesso civico e di protezione dei dati personali, alla luce delle quali l’amministrazione cui è indirizzata la richiesta di accesso civico è invece “tenuta” a coinvolgere i soggetti controinteressati, individuati ai sensi dell’art. 5-bis, comma 2 (art. 5, comma 5, del d.lgs. n. 33/2013) e a rifiutare l’ostensione dei dati, fra l’altro, «se il diniego è necessario per evitare un pregiudizio concreto alla tutela [della] protezione dei dati personali, in conformità con la disciplina legislativa in materia» [art. 5-bis, comma 2, lett. a)], intendendo per “dato personale” «qualsiasi informazione riguardante una persona fisica identificata o identificabile («interessato»)» (art. 4, par. 1, n. 1, del Regolamento europeo).
4. Sull’effettuazione del bilanciamento fra trasparenza amministrativa e diritto alla protezione dei dati personali
Analoghe considerazioni possono essere ripetute in relazione a quanto riportato nel secondo parere, reso dal Difensore civico regionale dell’Emilia-Romagna, successivamente al provvedimento di questa Autorità n. 360/2017.
In particolare, il Difensore civico, alla luce della sentenza del TAR Marche, n. 923/2014, ha rappresentato che «anche rispetto a tali titoli edilizi [SCIA e CILA] occorre quindi riconoscere un margine di conoscibilità anche ai soggetti non interessati, il quale deve essere bilanciato –in concreto– con l’effettivo pregiudizio alla protezione dei dati personali. In tal senso, come si ricava dalla stessa disciplina europea sulla protezione dei dati (Regolamento (UE) 2016/679), la tutela del dato personale deve essere applicata alla luce del principio di proporzionalità nel bilanciamento con altri diritti e valori fondamentali, tra cui vi rientra quello alla trasparenza amministrativa e all’accesso ai documenti. Viceversa, nel parere del Garante [n. 360/2017], non si trova alcun riferimento a tale bilanciamento (ovvero alla possibilità di risoluzione del conflitto attraverso l’oscuramento dei dati personali), né tanto meno si indaga sulla natura dei dati contenuti nella SCIA (dati comuni, sensibili, ecc.). In conclusione, il pregiudizio concreto alla tutela della protezione dei dati personali, posto fra i motivi alla base del diniego, non viene concretamente specificato né dal Comune né dal Garante, non sussistendo, nelle relative motivazioni, alcun riferimento alle concrete conseguenze negative e pregiudizi concreti che potrebbero derivare all’interessato dalla conoscibilità del dato da parte di chiunque».
Le sopra menzionate osservazioni sono riprese anche dal soggetto istante nella richiesta di riesame, laddove si sostiene, a sostegno del diritto a ottenere l’accesso civico generalizzato ai dati personali, che «occorr[e] riconoscere ai titoli edilizi un margine di conoscibilità anche ai soggetti non interessati, alla luce del principio della proporzionalità nel bilanciamento con altri diritti e valori fondamentali, tra cui rientra quello alla trasparenza amministrativa e all’accesso ai documenti realizzando quel controllo “diffuso” sull’attività edilizia che il legislatore ha inteso garantire» e che «Nella risposta del Comune di San Cesario sul Panaro si trova invece un sbilanciamento a favore del richiedente: oscurando i dati (nomi, cognomi e il numero civico dell’indirizzo) rendono di fatto l’Accesso Civico Generalizzato senza alcun valore di legge, come si può evincere nell’allegato dove si può constatare che difficilmente è rintracciabile il cantiere dell’intervento edile».
Al riguardo, occorre in primo luogo evidenziare la non pertinenza del richiamo alla sentenza del TAR, Marche-Ancona n. 923/2014, effettuata dal Difensore civico a sostegno delle proprie argomentazioni, in quanto quest’ultima aveva a oggetto una richiesta di accesso al “permesso di costruire” (che comunque è un titolo edilizio diverso rispetto alla CILA e alla SCIA) presentata ai sensi della diversa legge n. 241 del 07/08/1990 sull’accesso ai documenti amministrativi –e non tramite l’istituto dell’accesso civico generalizzato di cui all’art. 5, comma 2, d.lgs. n. 33/2013– da un soggetto che, nel caso di specie, aveva comunque dimostrato di possedere l’interesse qualificato (ossia diretto, concreto e attuale) previsto dalla legge. È in tale contesto, quindi, che va letto l’inciso, contenuto nella sentenza, nel quale il giudice sostiene il diritto di «visionare gli atti del procedimento» relativo al “permesso di costruire” da parte di chiunque abbia «interesse», che non può trovare un’applicazione estensiva in altri istituti (accesso civico) e ad altri titoli edilizi (SCIA e CILA).
In relazione, invece, alla tesi, avanzata sia dal difensore civico che dal soggetto istante, basata evidentemente su una errata rappresentazione dei fatti, secondo la quale non sarebbe stato effettuato il bilanciamento fra gli interessi sottostanti, poiché «la tutela del dato personale deve essere applicata alla luce del principio di proporzionalità nel bilanciamento con altri diritti e valori fondamentali, tra cui vi rientra quello alla trasparenza amministrativa e all’accesso ai documenti» e che pertanto «Nella risposta del Comune di San Cesario sul Panaro si trov[erebbe] invece uno sbilanciamento a favore del richiedente: oscurando i dati (nomi, cognomi e il numero civico dell’indirizzo) rend[endo] di fatto l’Accesso Civico Generalizzato senza alcun valore di legge», si evidenzia quanto segue.
La normativa statale in materia di trasparenza e accesso civico è chiara nello stabilire i presupposti (soggettivi e oggettivi) per l’esercizio del diritto di accesso civico –effettuando il bilanciamento fra gli interessi e valori fondamentali sopra descritti (trasparenza amministrativa e diritto alla protezione dei dati personali)– laddove prevede che «chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione ai sensi del presente decreto», a meno che ciò non comporti un pregiudizio concreto alla tutela dell’interesse alla protezione dei dati personali, in conformità con la disciplina legislativa in materia (artt. 5, comma 2; 5-bis, comma 2, lett. a, del d.lgs. n. 33/2013).
Questo significa che, laddove una pubblica amministrazione riceva una richiesta di accesso civico a dati personali (o a documenti che ne contengano), e gli stessi non siano oggetto di pubblicazione obbligatoria, la stessa è tenuta in primo luogo a verificare se dall’ostensione dei predetti dati possa derivare un pregiudizio concreto alla protezione dei dati personali del/i soggetto/i a cui gli stessi si riferiscono, e in tal caso a rifiutarne l’accesso civico (cfr. a tal proposito anche il par. 8.1. delle Linee guida dell’ANAC).
Per effettuare la valutazione descritta, l’amministrazione cui è indirizzata la richiesta di accesso civico è tenuta a coinvolgere i soggetti controinteressati (art. 5, comma 5, del d.lgs. n. 33/2013), anche al fine di consentigli di presentare eventuale motivata opposizione. Tali motivazioni costituiscono «un indice della sussistenza di un pregiudizio concreto, la cui valutazione però spetta all’ente e va condotta anche in caso di silenzio del controinteressato», tenendo, altresì, in considerazione i criteri contenuti nelle richiamate Linee guida dell’ANAC in materia di accesso civico (in particolare par. 8.1 intitolato «I limiti derivanti dalla protezione dei dati personali»).
Per tale motivo, nello specifico caso sottoposto all’attenzione di questa Autorità, non è condivisibile la tesi per la quale ci sarebbe stato uno «sbilanciamento» a danno del soggetto istante nel provvedimento di diniego del Comune, solo perché –oscurando i dati personali (nomi, cognomi e indirizzo) dei controinteressati– «la tutela del dato personale» non sarebbe stata «applicata alla luce del principio di proporzionalità nel bilanciamento con altri diritti e valori fondamentali, tra cui vi rientra quello alla trasparenza amministrativa e all’accesso ai documenti».
Come già evidenziato in altre sedi, non è possibile accordare una generale prevalenza della trasparenza o del diritto di accesso civico “generalizzato” a scapito di altri diritti ugualmente riconosciuti dall’ordinamento (quali quello alla riservatezza e alla protezione dei dati personali), in quanto, procedendo in tal modo, si vanificherebbe proprio il necessario bilanciamento degli interessi in gioco che richiede un approccio equilibrato nella ponderazione dei diversi diritti coinvolti, tale da evitare che i diritti fondamentali di eventuali controinteressati possano essere invece gravemente pregiudicati dalla messa a disposizione a terzi –non adeguatamente ponderata– di dati, informazioni e documenti che li riguardano (cfr. provv. n. 521/2016, cit.).
In caso contrario, vi sarebbe infatti il rischio di generare comportamenti irragionevoli in contrasto, per quanto attiene alla tutela della riservatezza e del diritto alla protezione dei dati personali, con la disciplina internazionale ed europea in materia (art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell´uomo e delle libertà fondamentali; artt. 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea, Dir. 95/46/CE, Reg. (UE) 27/4/2016 n. 2016/679).
5. Sulla valutazione nel caso di specie circa l’esistenza di un pregiudizio concreto alla tutela della protezione dei dati personali
Quanto alla valutazione, nel caso in esame, circa l’esistenza di un pregiudizio concreto alla tutela della protezione dei dati personali dei soggetti controinteressati, derivante dal riconoscimento di un accesso civico generalizzato ai propri dati e informazioni contenuti nelle SCIA e nelle CILA, si ricorda ancora una volta che deve essere tenuta in considerazione la circostanza per la quale –a differenza dei documenti a cui si è avuto accesso ai sensi della l. n. 241 del 07/08/1990– i dati e i documenti che si ricevono a seguito di una istanza di accesso civico divengono «pubblici e chiunque ha diritto di conoscerli, di fruirne gratuitamente, e di utilizzarli e riutilizzarli ai sensi dell’articolo 7», sebbene il loro ulteriore trattamento vada in ogni caso effettuato nel rispetto dei limiti derivanti dalla normativa in materia di protezione dei dati personali (art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 33/2013).
Di conseguenza, è anche alla luce di tale amplificato regime di pubblicità dell’accesso civico che va valutata l’esistenza di un possibile pregiudizio concreto alla protezione dei dati personali dei soggetti controinteressati (che peraltro non risultano essere stati coinvolti nel presente procedimento di accesso civico impedendogli di presentare un’eventuale opposizione), in base al quale decidere se rifiutare o meno l’accesso civico alle informazioni e ai documenti richiesti.
La valutazione dell’ostensione di dati personali nell’ambito del procedimento di accesso civico, deve inoltre essere effettata anche nel rispetto dei principi indicati dall’art. 5 del Regolamento europeo, fra cui quello di «minimizzazione dei dati», secondo il quale i dati personali devono essere adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario rispetto alle finalità per le quali sono trattati (art. 5, par. 1, lett. c), in modo che non si realizzi un’interferenza ingiustificata e sproporzionata nei diritti e libertà delle persone cui si riferiscono tali dati (cfr. anche art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali; art. 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e della giurisprudenza europea in materia).
In tale contesto, pertanto si ritiene che, ai sensi della normativa vigente e delle indicazioni contenute nelle Linee guida dell’ANAC, conformemente ai precedenti orientamenti di questa Autorità, il Comune, abbia correttamente respinto l’istanza di accesso civico ai dati personali richiesti. Ciò in quanto, la relativa ostensione, unita al particolare regime di pubblicità prima richiamato dei dati oggetto di accesso civico, può effettivamente arrecare ai soggetti controinteressati, a seconda delle ipotesi e del contesto in cui le informazioni fornite possono essere utilizzate da terzi, proprio quel pregiudizio concreto alla tutela della protezione dei dati personali previsto dall’art. 5-bis, comma 2, lett. a), del d.lgs. n. 33/2013.
Va, infatti, evidenziato che la generale conoscenza dei dati e delle informazioni personali contenute nelle SCIA e nelle CILA, considerando la quantità e qualità dei dati personali coinvolti (cfr. supra par. 2), può determinare un’interferenza ingiustificata e sproporzionata nei diritti e libertà dei soggetti controinteressati –in violazione del ricordato principio di minimizzazione dei dati (art. 5, par. 1, lett. c, del Regolamento europeo)– con possibili ripercussioni negative sul piano relazionale, professionale, personale e sociale.
Ciò anche tenendo conto delle ragionevoli aspettative di confidenzialità dei soggetti controinteressati in relazione al trattamento dei propri dati personali al momento in cui questi sono stati raccolti dall’amministrazione, nonché della non prevedibilità, al momento della raccolta dei dati, delle conseguenze derivanti dalla eventuale conoscibilità da parte di chiunque dei dati richiesti tramite l’accesso civico (cfr. par. 8.1 delle Linee guida dell’ANAC in materia di accesso civico, cit.).
Questo anche considerando la circostanza, non dirimente ma comunque sintomatica (e non oggetto di contestazione), che nel caso esaminato, il richiedente l’accesso è comunque una impresa privata, la XX, che, dall’istruttoria effettuata dal Comune e dai precedenti esaminati dal Garante, risulta avere effettuato con carattere sistematico analoghe richieste di accesso civico a diversi enti locali e ha tra le sue attività «prevalente» e «secondaria», rispettivamente, la «Gestione database, attività delle banche dati» e lo «Studio e realizzazione di spazi pubblicitari (banner) da pubblicizzare sui propri siti web, per informare, motivare e servire il mercato. Attività di conduzione di campagne di marketing, social media e web marketing. Servizi di gestione dei programmi di fidelizzazione e affiliazione commerciale».
L’insieme delle considerazioni sopra esposte è, pertanto, idonea a configurare, l’esposizione dei soggetti controinteressati a un pregiudizio concreto, ed estremamente probabile, alla tutela della protezione dei propri dati personali, in conformità con la disciplina vigente (cfr. provv. n. 360/2017, cit.). Ciò anche considerando la sistematicità delle richieste di accesso civico effettuate da parte del soggetto istante alle SCIA e alle CILA di diversi enti locali e il pericolo di duplicazione di banche dati di soggetti pubblici da parte di soggetti privati in assenza del consenso dei soggetti interessati o degli altri presupposti di liceità del trattamento previsti dall’art. 6, par. 1, del Regolamento europeo; con il possibile rischio di “usi impropri” e/o di “riutilizzo” e trattamento ulteriore dei dati personali per finalità non compatibili con quelle per le quali i dati personali sono stati inizialmente raccolti, in contrasto con quanto previsto dall’art. 6, comma 4, del Regolamento europeo.
Come già osservato in passato, inoltre, si ribadisce che le informazioni di dettaglio contenute nelle SCIA e nelle CILA impediscono di poter accordare anche un eventuale accesso civico ai sensi dell’art. 5-bis, comma 4, del d.lgs. n. 33/2013; oscurando, ad esempio, i dati identificativi (nome e cognome) del committente o del tecnico progettista. Tale accorgimento, infatti, non elimina la possibilità che i soggetti interessati siano identificati indirettamente tramite gli ulteriori dati di contesto contenuti nella documentazione richiesta (cfr. quanto riportato nel par. 4 del parere n. 360/2017).
A tale riguardo, occorre infatti ricordare che –ai sensi del Regolamento europeo– «si considera identificabile la persona fisica che può essere identificata, direttamente o indirettamente, con particolare riferimento a un identificativo come il nome, un numero di identificazione, dati relativi all’ubicazione, un identificativo on-line o a uno o più elementi caratteristici della sua identità fisica, fisiologica, genetica, psichica, economica, culturale o sociale» (art. 4, par. 1, n. 1).
Appare invece conforme alla normativa in materia di protezione dei dati personali la soluzione adottata dal Comune di San Cesario sul Panaro, che –allo scopo di soddisfare comunque le esigenze informative alla base dell’accesso civico e di «favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico» (art. 5, comma 2, del d. lgs. n. 33/2013)– ha fornito i dati relativi alle SCIA e CILA, senza comunicare “dati personali”, e precisamente: la tipologia di titolo edilizio (SCIA o CILA), una descrizione dell’intervento (es.: manutenzione straordinaria, installazione insegna; intervento miglioramento sismico, nuovo accesso carraio, variante in corso d’opera per ristrutturazione edilizia; opere interne; variante in corso d’opera, ecc.), le informazioni relative all’effettuazione dell’intervento nel comune o in una sua frazione.
6. Sulla possibilità per coloro che dimostrino un interesse qualificato di ottenere informazioni e dati personali più dettagliati ai sensi della legge n. 241/1990
Fermo restando quanto evidenziato nei precedenti paragrafi, resta, in ogni caso, salva la possibilità per il soggetto istante di accedere eventualmente alla documentazione e ai dati personali richiesti, laddove, invece, formulando una diversa domanda di accesso agli atti amministrativi ai sensi degli artt. 22 ss. della l. n. 241/1990, dimostri di possedere «un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso».
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Al riguardo si legga anche:
  
Garante Privacy: no all’accesso civico generalizzato su pratiche SCIA e CILA. Non è possibile accedere ai dati personali completi contenuti nei titoli abilitativi edilizi sulla base di una mera richiesta di accesso civico generalizzato (26.02.2019 - link a www.casaeclima.com).

IN EVIDENZA

INCARICHI PROFESSIONALIParcella a rischio se non è dettagliata nelle voci di spesa. L’ente pubblico effettua spese solo se esiste l’impegno contabile.
Acque ancor agitate per le retribuzioni dei professionisti che ottengano incarichi da pubbliche amministrazioni: la Corte di Cassazione, Sez. I civile, con ordinanza 11.03.2019 n. 6919 afferma che gli enti locali possono effettuare spese solo se esiste un dettagliato impegno contabile. È stata quindi respinta la richiesta di un architetto progettista e direttore lavori che voleva essere retribuito per una struttura espositiva realizzata nell’interesse di un Comune.
L’amministrazione si è difesa affermando di aver previsto la copertura finanziaria dell’intera opera, ma di aver esaurito i fondi, avendo modificato il progetto originario. La Cassazione ritiene che questa motivazione sia sufficiente a negare il pagamento, perché l’ente avrebbe dovuto identificare le diverse voci che compongono l’opera (spese generali, tecniche, per compensi professionali...), e i mezzi per farvi fronte. Secondo i giudici, qualora manchi la dettagliata previsione di spesa, al professionista non rimangono che due strade: o rivolgersi (in proprio) al singolo amministratore, funzionario o dipendente che ha consentito la fornitura del servizio, oppure non eseguire la prestazione.
L’orientamento della Cassazione si presta a più critiche: innanzitutto impone al professionista un’indagine approfondita sulla contabilità del committente; inoltre, è vero che l’articolo 191 del Dlgs 267/2000 impone una rigida contabilità ai Comuni, ma è anche vero che l’articolo 194 della stessa norma prevede la possibilità di ottenere un riconoscimento di “debito fuori bilancio” se si accerti e dimostri che la prestazione professionale abbia arrecato un’utilità e un arricchimento per l’ente.
Inoltre esistono vari elementi di elasticità per le retribuzioni dei professionisti, quali ad esempio il contratto condizionato all’ottenimento del finanziamento: una norma del codice degli appalti ostacola le prestazioni con pagamento subordinato al finanziamento (articolo 24, comma 8-bis, del Dlgs 50/2016), ma solo per gli appalti comunitari e, sottolinea il Consiglio di Stato (5138/2018), privi di forma scritta.
Oltretutto, il caso deciso dalla Cassazione 6919/2019 fa eco ad altri precedenti (22481/2018) che non danno nemmeno rilievo a una riduzione di alcune voci nel corso dei lavori e all’innalzamento di altre, quali quelle per competenze professionali: diventa quindi irrilevante che l’ente abbia reperito le risorse per pagare il professionista con dei risparmi in corso d’opera (peraltro, probabilmente ottenuti grazie all’impegno proprio del progettista direttore dei lavori).
In sintesi, l’orientamento della Cassazione è improntato ad assoluta rigidità a tutela della finanza locale, giungendo addirittura a escludere la possibilità che il professionista ottenga dal giudice il riconoscimento di un indebito arricchimento dell’ente locale. Altre volte, invece, proprio attraverso il riconoscimento dell’utilità conseguita dall’ente locale, si è ottenuta una delibera di pagamento, seppur per debito fuori bilancio e quindi con il rischio di giudizi di responsabilità contabile per i pubblici amministratori (articolo Il Sole 24 Ore del 12.03.2019).
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MASSIMA
8. Tanto premesso, le censure -che possono essere esaminate congiuntamente per la loro connessione- sono complessivamente fondate.
8.1. L'art. 191, comma 1, T.U.E.L. dispone che gli enti locali possono effettuare spese solo se sussiste l'impegno contabile registrato sul competente intervento o capitolo del bilancio di previsione e l'attestazione della copertura finanziaria, comunicati dal responsabile del servizio al terzo interessato che -ferma l'obbligazione a carico dell'amministratore, funzionario o dipendente dell'ente che abbia consentito la fornitura del bene o servizio in violazione della norma (comma 4)- ha facoltà, in mancanza della comunicazione suddetta, di non eseguire la prestazione.
8.2. Per quanto qui interessa, la norma chiude un risalente percorso sviluppatosi a partire dagli artt. 284 e 288 del r.d. 03.03.1934, n. 383 (T.U. della legge comunale e provinciale) e scandito dall'art. 23 del di. 02.03.1989, n. 66 (conv., con modif., dalla legge 24.04.1989, n. 144), inserito nel titolo IV dedicato al risanamento finanziario delle gestioni locali, e quindi dall'art. 55 della legge 08.06.990, n. 142 (ordinamento delle autonomie locali), in attuazione del principio costituzionale di buon andamento dell'amministrazione di cui all'art. 97 Cost.
Dette previsioni -e, in particolare, l'art. 191 T.U.E.L., che ne riassume da ultimo la portata precettiva-, nell'imporre l'indicazione dell'ammontare delle spese e dei mezzi per farvi fronte, a pena di nullità delle relative deliberazioni adottate in violazione di legge (si v. al riguardo Sez. U, 10.06.2005, n. 12195, Sez. U, 28.06.2005, n. 13831 e successive conformi), tutelano, con tutta evidenza, il preminente interesse pubblico all'equilibrio economico-finanziario delle amministrazioni locali in un quadro di certezza della spesa secondo le previsioni di bilancio e di trasparenza dell'azione amministrativa.
8.3. Tale essendo il quadro normativo di riferimento, sì come presidiato dall'orientamento rigoroso a più riprese espresso da questa Corte (tra le molte: Sez. 1, 28.12.2010, n. 26202, sulla radicale nullità della delibera non munita di copertura finanziaria e del conseguente contratto di conferimento dell'incarico professionale; Sez. 1, 02.12.2016, n. 24655, sulla necessaria cogenza del principio di equilibrio di bilancio anche a fronte della tutela del diritto, di rango costituzionale, all'assistenza socio-sanitaria; Sez. U, 18.12.2014, n. 26657 e Sez. 1, 20.03.2018, n. 6970, sulla generale inderogabilità della previa provvista finanziaria), erra la Corte di appello nel ritenere (p. 7 della sentenza) il diritto del Ca. al compenso richiesto indebitamente inciso in conseguenza della modifica del progetto originario (e, deve aggiungersi, dell'adozione della delibera giuntale n. 39/2007 cit.), come sostenuto dall'appellante Ca. e dallo stesso ribadito anche nella presente sede di legittimità.
La Corte di appello, infatti, recependo meccanicamente gli assunti dell'appellante e senza confrontarsi con il detto quadro normativo come interpretato da questa Corte, ha infondatamente ritenuto che le delibere comunali anteriori a quella del 2007 avessero rispettato l'art. 191 T.U.E.L. mercé la mera indicazione dell'impegno di spesa di lire 2.200.000.000 «comprensive dei costi per la realizzazione dell'opera pubblica e dei compensi spettanti al professionista» (p. 6), assumendo apoditticamente la sussistenza della prova del conferimento dellfincarico (e dell'impegno di spesa) senza tuttavia spiegarne le ragioni e soffermandosi solo sull'aspetto della determinabilità del compenso alla stregua delle tariffe professionali.
8.4. Ora, secondo il controricorrente Ca., l'importo complessivo degli onorari per il primo e secondo stralcio dei lavori assicurava ampiamente la previsione di spesa occorrente per il compenso dovuto al professionista in seguito complessivamente quantificato dall'ordine degli architetti (cfr. pp. 8-9 del controricorso) e «dalla lettura di tutte le delibere di conferimento incarico (...), è riscontrabile l'indicazione dell'ammontare dei compensi dovuti al professionista, contemplati nelle voci "spese generali" e "somme a disposizione" e l'indicazione dei mezzi per farvi fronte come risulta dai quadri economici dell'opera in precedenza riprodotti» (p. 11).
Ma una siffatta modalità di indicazione della spesa, con la quale si coacervano indistintamente le spese tecniche senza la precisa preventiva indicazione di quelle per gli onorari professionali, non soddisfa affatto la prescrizione dell'art. 191, comma 1, T.U.E.L., dovendosi ribadire l'insegnamento -da ultimo compiutamente espresso da Sez. 1, 24.09.2018, n. 22481 sulla scorta dei principi via via affermati dalla giurisprudenza di legittimità, cui si è fatto sinteticamente cenno in precedenza- secondo il quale «
La delibera comunale di conferimento di incarico ad un professionista deve indicare l'ammontare della spesa, mediante l'identificazione e la distinzione delle diverse voci che la compongono (spese generali, tecniche, per compensi professionali, ecc.), ed i mezzi per farvi fronte, ugualmente identificati e distinti analiticamente, cosi da creare un doppio e congiunto (non alternativo) indice di riferimento che vincola l'operato dell'ente locale in relazione alle spese stabilite anticipatamente, in ragione dell'interesse pubblico all'equilibrio economico e finanziario, e quindi al buon andamento della P.A.», che -prosegue la citata decisione in motivazione- «in caso contrario la previsione normativa risulterebbe aggirata; invero non è sufficiente che sussistano i mezzi economici, comunque previsti, anche se a seguito di un risparmio di spesa, perché sia giustificato il loro utilizzo per spese che non siano state previste e stabilite anticipatamente».

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: RIFIUTI - AMIANTO – D.M. 06.09.1994 – Applicazione – Strutture suscettibili di utilizzazione collettiva – Utilizzazione in atto – Non è richiesta.
Circa la disciplina di cui di cui al d.m. 06.09.1994 (Normative e metodologie tecniche di applicazione dell’art. 6, comma 3, e dell’art. 12, comma 2, della legge 27.03.1992 n. 257, relativa alla cessazione dell’impiego dell’amianto) l'art. 1a) recita testualmente che <<la potenziale pericolosità dei materiali di amianto dipende dall’eventualità che siano rilasciate fibre aerodisperse nell’ambiente che possono venire inalate dagli occupanti. Il criterio più importante è la friabilità dei materiali>>.
Sicché, risulta infondata la censura in ordine alla dedotta violazione della normativa in tema cessazione dell’impiego dell’amianto in conseguenza del fatto che <<i capannoni coperti dalle lastre in eternit oggetto dell’ordinanza impugnata sono ubicati in una tenuta agricola di notevole estensione (14 ettari), interamente recintata, inaccessibile da terze persone, in una zona disabitata ed i fabbricati sono chiusi con cancelli e lucchetti di sicurezza>>.
Ciò che infatti rileva ai fini dell’applicazione della su indicata normativa è che si tratti comunque di strutture suscettibili di <<utilizzazione collettiva in cui sono in opera manufatti e/o materiali contenenti amianto dai quali può derivare una esposizione a fibre aerodisperse>>.
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... per l’annullamento dell’ordinanza n. 1 del 30.11.2016 del Comune di Castel Giorgio (Area Tecnica), irritualmente notificata in allegato alla raccomandata n. 15230114710-2 il 17.04.2018, con cui si è disposto la messa in sicurezza di coperture in cemento amianto (eternit) in località ... n. 13 in Contrada ... 13, nel Comune di Castel Giorgio (TR).
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1. Con il ricorso in epigrafe si chiede l’annullamento del provvedimento con il quale il Comune di Castel Giorgio ha disposto la messa in sicurezza di coperture in cemento amianto (eternit) di alcuni manufatti di proprietà della sig.ra Si.Le., odierna ricorrente.
2. L’impugnativa è stata affidata ai seguenti motivi:
   I. Violazione di legge in relazione alla disciplina del combinato disposto delle norme di cui al D.M. 06.09.1994 in merito alle metodologie tecniche di applicazione dell’art. 6, comma 3, e dell’art. 12, comma 2, della legge 27.03.1992 n. 257, per errata interpretazione ed applicazione normativa.
Riferisce la ricorrente che <<i capannoni coperti dalle lastre in eternit oggetto dell’ordinanza impugnata sono ubicati in una tenuta agricola di notevole estensione (14 ettari), interamente recintata, inaccessibile da terze persone, in una zona disabitata ed i fabbricati sono chiusi con cancelli e lucchetti di sicurezza. Inoltre, le lastre di eternit non sono in materiale friabile, bensì compatto ed in quanto tali non possono subire danneggiamenti se non per opera vandalica dell’uomo o per eventi calamitosi naturali come accaduto ed al quale evento si è prontamente provveduto, peraltro senza richiedere indennizzi dalla comunità>>.
Ne conseguirebbe l’insussistenza di alcun rischio alla salute nei confronti di lavoratori e/o occupanti come richiesto dalla citata disciplina normativa.
   II. Violazione di legge in relazione al richiamato Titolo IX, capo 3° del D.Lgs. 81/2008, per errata interpretazione ed applicazione normativa.
Adduce la ricorrente che <<il campo di applicazione del decreto citato, infatti, riguarda esclusivamente le imprese ed i lavoratori che provvedono alla bonifica di siti contenenti amianto e, pertanto, la normativa esplicitamente richiamata non è antecedente logico, né giuridico dell’ordinanza contestata>>.
   III. Violazione di legge in relazione alla disciplina di cui agli artt. 7, 8 e 10 della legge 241/1990, nonché alla ratio legis che ne sta a fondamento, per impedimento alla partecipazione del procedimento amministrativo e violazione del contraddittorio. Violazione art. 3 della Costituzione e art. 1 della Legge 241/1990 per sperequazione di trattamento di situazioni identiche.
Lamenta la ricorrente la violazione delle garanzie procedimentali di cui agli artt. 7, 8 e 10 della legge 241/1990, non avendo <<mai ricevuto notizia, comunicazione o notifica di atti prodromici all’emissione del provvedimento impugnato>>, come pure del sopralluogo eseguito dalla U.S.L. il 04.05.2016, nonché degli esiti del medesimo.
   IV. Violazione di legge in relazione all’art. 10 della legge 265/1999 per irritualità della notificazione del provvedimento amministrativo.
Sostiene la ricorrente che il provvedimento impugnato <<avrebbe dovuto essere notificato con l’apposita procedura e non portato a conoscenza della ricorrente con una semplice raccomandata postale, per giunta allegato ad una lettera, ingenerando confusione nella medesima>>.
   V. Violazione di legge in relazione all’art. 3, comma 1, della legge 241/1990 per carenza di motivazione conseguente all’inesistenza dei presupposti per l’adozione del provvedimento.
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1. È materia del contendere la legittimità del provvedimento con il quale il Comune di Castel Giorgio ha disposto la messa in sicurezza di coperture in cemento amianto (eternit) di alcuni manufatti di proprietà dell’odierna ricorrente.
2. Nel merito il ricorso è infondato e va respinto.
3. Dalle premesse del provvedimento impugnato risulta infatti che l’indice di degrado delle coperture in eternit dei fabbricati di parte ricorrente <<risulta pari a 30 e che tale indice prevede la messa in sicurezza mediante sopracopertura, incapsulamento o rimozione come descritto dalla D.G.R. n. 129 del 01/02/2010 entro il termine di 3 (tre) anni dall’accertamento>>.
4. Non colgono pertanto nel segno le doglianze (terzo e quinto motivo di ricorso) relative all’asserita violazione delle garanzie procedimentale ed al paventato difetto di motivazione e/o istruttoria del provvedimento impugnato, le cui risultanze appaiono invero coerenti con la disposta valutazione dello stato di conservazione delle coperture di cemento-amianto, la quale è stata correttamente condotta attraverso l’ispezione dei manufatti e l’applicazione dell’Indice di Degrado (I.D) di cui alla deliberazione della Giunta Regionale 01.02.2010, n. 129 (rimasta inoppugnata), il cui allegato A riporta l’algoritmo che la Regione Umbria ha deciso di adottare per la valutazione obbligatoria delle coperture esterne in cemento amianto.
5. E ciò coerentemente alla disciplina di cui di cui al d.m. 06.09.1994 (Normative e metodologie tecniche di applicazione dell’art. 6 comma 3, e dell’art. 12, comma 2, della legge 27.03.1992 n. 257, relativa alla cessazione dell’impiego dell’amianto), il cui art. 1a) recita testualmente che <<la potenziale pericolosità dei materiali di amianto dipende dall’eventualità che siano rilasciate fibre aerodisperse nell’ambiente che possono venire inalate dagli occupanti. Il criterio più importante è la friabilità dei materiali>>.
6. Sempre per l’infondatezza, deve giungersi in ordine alla dedotta violazione della normativa in tema cessazione dell’impiego dell’amianto (primo motivo di ricorso) in conseguenza del fatto che <<i capannoni coperti dalle lastre in eternit oggetto dell’ordinanza impugnata sono ubicati in una tenuta agricola di notevole estensione (14 ettari), interamente recintata, inaccessibile da terze persone, in una zona disabitata ed i fabbricati sono chiusi con cancelli e lucchetti di sicurezza>>.
7. Ciò che infatti rileva ai fini dell’applicazione della su indicata normativa è che si tratti comunque di strutture suscettibili di <<utilizzazione collettiva in cui sono in opera manufatti e/o materiali contenenti amianto dai quali può derivare una esposizione a fibre aerodisperse>> (cfr., premesse al d.m. 06.09.1994), indipendentemente dal fatto che esse si trovino, allo stato, inutilizzate.
8. Parimenti destituita di fondamento, è l’affermazione di parte ricorrente (secondo motivo), con cui si contesta l’applicazione al caso di specie della disciplina di cui al titolo IX, capo 3°, del d.lgs. 81/2008, trattandosi invero di normativa il cui ambito di applicazione concerne <<tutte le rimanenti attività lavorative che possono comportare, per i lavoratori, un’esposizione ad amianto, quali manutenzione, rimozione dell’amianto o dei materiali contenenti amianto, smaltimento e trattamento dei relativi rifiuti, nonché bonifica delle aree interessate>> ed è quindi perfettamente attinente al caso di specie, in cui è stata ordinata <<la messa in sicurezza mediante sopracopertura, incapsulamento o rimozione>> delle coperture di cemento-amianto dei fabbricati di parte ricorrente, la quale dovrà essere effettuata dalle apposite ditte specializzate, coerentemente a detta disciplina normativa.
9. Sempre per l’infondatezza, deve infine concludersi in ordine all’asserita irritualità della notifica del provvedimento impugnato, trattandosi di rilievo puramente formale insuscettibile di inficiare nella sostanza la legittimità delle valutazioni e determinazioni assunte dall’amministrazione intimata nei confronti dell’odierna ricorrente.
10. In conclusione il ricorso va rigettato siccome infondato (TAR Umbria, sentenza 18.02.2019 n. 75 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATAIl Comune risarcisce chi acquista un edificio abusivo. CASSAZIONE. L’acquirente si può rivalere sull’ente locale che ha agito in maniera negligente.
Il Comune può essere citato in giudizio per il risarcimento danni quando l’acquirente si accorga di aver acquistato un edificio privo del permesso di costruire e della licenza di abitabilità.

Lo affermano le Sezioni unite civili della Corte di Cassazione, con ordinanza 19.02.2019 n. 4889.
Si apre così una nuova strada per gli acquirenti, che già possono agire nei confronti del venditore per difformità edilizie (articolo 1490 del Codice civile) e difetti statici (articolo 1669 del Codice civile) e che ora possono rivalersi verso l’ente locale per abusi edilizi non repressi.
Il caso più frequente è quello di immobili acquistati dopo aver genericamente verificato l’esistenza del permesso di costruire e della licenza di abitabilità. Dopo l’acquisto, si può avere l’amara sorpresa di irregolarità edilizie (con ordini di demolizione, sanzioni pecuniarie), per parziale o totale a abusività dell’immobile: il bene si può rivelare, in questi casi, inidoneo all’uso e non commerciabile.
Altro caso frequente è quello del Comune che esiga la regolarizzazione di unità immobiliari a distanza di molti decenni dalla costruzione, applicando un orientamento del Consiglio di Stato (adunanza plenaria, 9/2017) che consente di sanzionare abusi di diversi decenni prima. Il principio espresso dalla Cassazione con la sentenza 4889/2019 consente all’acquirente di reagire alla sanzione per abusi remoti, chiedendo al Comune il risarcimento del danno causato dall’incolpevole affidamento su una situazione che il Comune stesso ha tollerato per inerzia e negligenza.
Il caso specifico esaminato dalla Cassazione riguarda un edificio realizzato a Latina, con difformità che erano state oggetto di ordinanza di demolizione. Anche se il ricorso al Tar era stato respinto (sentenza 46/2018), l’acquirente ha chiesto al Comune, dinanzi il Tribunale civile, i danni per comportamento inerte e negligente nei confronti di precedenti abusi edilizi: se il Comune fosse stato vigile nel reprimere l’abuso, la vendita non sarebbe avvenuta.
Anche in diversi altri casi l’ente locale è stato ritenuto responsabile per aver causato danni per mera negligenza: così quando ha generato concrete aspettative sul rilascio di un titolo edilizio, dapprima approvando il permesso di costruire, ma negandone il rilascio quando i lavori erano ormai imminenti (Tar Lecce 261/2019); ancora, quando il Comune ha annullato un titolo edilizio sulla base una lettura errata di propri atti di pianificazione (Cassazione 1162/2015), o quando ha rilasciato erroneamente un certificato di destinazione urbanistica (Cassazione 6595/2011).
Questo dovere di vigilanza del Comune integra un sistema di recente innovato con il codice della crisi d’impresa (Dlgs 14/2019), che impone la forma della scrittura privata autenticata, con fideiussione del costruttore, per vizi strutturali degli immobili da costruire: i difetti oggetto di tale garanzia sono quelli che possono causare una rovina totale o parziale (crepe, pavimenti irregolari, umidità), cui ora si aggiunge anche la possibilità di chiedere al Comune il risarcimento danni per negligente controllo degli abusi edilizi (articolo Il Sole 24 Ore del 26.02.2019).
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SENTENZA
FATTI DI CAUSA
An.Ca. ha chiesto la condanna al risarcimento dei danni ex art. 2043 c.c. del Comune di Cisterna di Latina al quale ha addebitato di aver omesso la dovuta vigilanza circa il rispetto delle prescrizioni urbanistiche, da parte della S.r.l. St.Im., nella realizzazione di un fabbricato.
L'attore ha esposto, in particolare, di aver acquistato un appartamento facente parte di detto fabbricato, facendo affidamento sia sulla conformità a legge ed alla vigente disciplina urbanistica dei relativi titoli abilitativi -permesso di costruire e licenza di abitabilità- emessi dal convenuto, sia sulla conformità del bene ai medesimi titoli, ma di aver scoperto, in seguito, che l'immobile era affetto da svariate irregolarità edilizie ed urbanistiche, tanto gravi da renderlo parzialmente abusivo, inidoneo all'uso ed incommerciabile.
Nel contraddittorio del Comune e della Società St.Im., chiamata in giudizio, il GI dell'adito Tribunale di Latina, con ordinanza del 03.07.2017, ha rinviato la causa per la precisazione delle conclusioni, avendo ritenuto la controversia devoluta in tesi alla giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo, in quanto connessa con l'attività provvedimentale della p.A. An.Ca. ha, quindi, proposto regolamento preventivo di giurisdizione, chiedendo dichiararsi la giurisdizione del Giudice Ordinario. Il Comune ha resistito con controricorso, mentre la società costruttrice non ha svolto difese.
Il Procuratore Generale ha concluso per la declaratoria della giurisdizione del giudice ordinario. Le parti costituite hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il regolamento preventivo in esame pone la questione dell'individuazione del giudice dotato di giurisdizione sulla controversia che il privato introduca, adducendo che la p.A., nell'omettere la dovuta sorveglianza ed i controlli prescritti dall'art. 27 del d.P.R. n. 380 del 2001 nei confronti di un terzo costruttore e nell'emettere i provvedimenti abilitativi, lo abbia indotto a acquistare una parte dell'edificio realizzato, confidando incolpevolmente sulla relativa regolarità urbanistico-edilizia, rivelatasi inesistente.
2. La questione, come postula il ricorrente ed afferma il PG nelle sue conclusioni, va risolta al lume della giurisprudenza di questa Corte regolatrice (Cass. SU. nn. 6594-6596 del 2011; n. 1162 del 2015; n. 17586 del 2015; n. 12799 del 2017; n. 1654 del 2018; n. 33364 del 2018) a mente della quale
in tema di riparto della giurisdizione, l'attrazione (ovvero la concentrazione) della tutela risarcitoria dinanzi al giudice amministrativo può verificarsi soltanto qualora il danno patito dal soggetto sia conseguenza immediata e diretta della dedotta illegittimità del provvedimento che egli ha impugnato, non costituendo il risarcimento del danno ingiusto una materia di giurisdizione esclusiva ma solo uno strumento di tutela ulteriore e di completamento rispetto a quello demolitorio.
La tesi è coerente coi principi affermati dalla Corte Cost. con le sentenze n. 292 del 2000 e 281 del 2004 (in riferimento alle disposizioni di cui al D.Lgs. n. 80 del 1998 art. 35, come sostituito dalla L. 2015 del 2000, oggi art. 7, c.p.a.) che hanno posto in evidenza come la devoluzione al giudice amministrativo, oltre che del controllo di legittimità dell'azione amministrativa, anche (ove configurabile) del risarcimento del danno, sia funzionale allo scopo di evitare al privato la necessità di instaurare un successivo e separato giudizio innanzi al giudice ordinario.
3. Ora, se è bensì vero che, come ricorda il Comune in seno alla memoria, la menzionata giurisprudenza è stata elaborata in riferimento ad ipotesi connotate dal pregresso annullamento di un provvedimento amministrativo favorevole ed ampliativo, ciò non esclude che i danneggiati abbiano in quei casi dedotto la lesione della loro integrità patrimoniale ai sensi dell'art. 2043 c.c., rispetto alla quale l'esercizio del potere amministrativo non rilevava in sé, ma per l'efficacia causale del danno-evento da affidamento incolpevole.
Parimenti, ciò che viene in rilievo nella presente controversia non è la legittimità dei titoli abilitativi relativi alla costruzione della Società Stella -che il Comune sottolinea, più volte, non esser stati impugnatima la situazione di diritto soggettivo, rappresentata dalla conservazione dell'integrità del patrimonio che il ricorrente assume esser stata lesa per avere acquistato una parte di quella costruzione sull'affidamento riposto sull'azione del Comune, rivelatasi invece negligente ed inerte, sicché i provvedimenti menzionati rilevano solo se ed in quanto idonei a fondare tale affidamento, e la relativa tutela risarcitoria non richiede la previa instaurazione di un giudizio innanzi al giudice amministrativo che accerti l'illegittimità di atti e comportamenti tenuti dall'amministrazione.
In altri termini,
la questione involta dalla domanda concerne l'apprezzamento del comportamento tenuto dalla p.A. non come espressione dell'esercizio di un potere, bensì nella sua oggettività a determinare il legittimo affidamento del privato, e così a cagionargli un danno, nella specie rappresentato dal ricorrente in svariate irregolarità edilizie ed urbanistiche dell'immobile acquistato.
4. Così convenendo, ne consegue che:
   a) le argomentazioni svolte dal Comune in riferimento al giudizio impugnatorio (con esito negativo, come dallo stesso riferito) dell'ordinanza di demolizione -emessa nei confronti del ricorrente e della Società St.-, di interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire, sono già in astratto irrilevanti, e tanto più lo sono in concreto, in quanto estranei ai fatti dedotti a sostegno della domanda;
   b) l'art. 7, co 1, c.p.a. non è richiamato a proposito, non venendo in rilievo una controversia relativa all'esercizio del potere amministrativo, né con riferimento ad un provvedimento né con riguardo ad un atto né in relazione ad un comportamento mediatamente riconducibile all'esercizio di quel potere;
   c) il vantato diritto al risarcimento del danno non concerne, ai sensi del comma 5 dell'appena citato art. 7, un diritto soggettivo riconducibile alle controversie attratte nelle materie di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, secondo la previsione dell'art. 133 dello stesso codice (anche con riferimento specifico alla materia dell'edilizia di cui alla lett. f);
   d) del tutto fuori tema è il richiamo alla giurisdizione generale di legittimità di cui al comma 4 dell'art. 7 c.p.a. ed alla disposizione dell'art. 30 c.p.a. in tema di risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi, trattandosi, appunto, di una pura azione aquiliana, per violazione del principio dell'affidamento incolpevole;
   e) le contestazioni relative alla posizione, di terzietà o meno, del Ca. rispetto ai titoli abilitativi, al tempo del rilascio dell'agibilità (che si afferma assentita per silentium in epoca successiva all'acquisto), ed all'esistenza del danno attengono al giudizio di merito.
5.
Va, in conclusione, affermata la giurisdizione del giudice ordinario innanzi al quale le parti vanno rimesse, anche, per la statuizione delle spese del presente regolamento.

IN EVIDENZA

PUBBLICO IMPIEGOLicenziato chi registra colleghi. Rischia chi detiene (non autorizzato) le conversazioni. La conclusione a cui si giunge esaminando due pronunce della Corte di Cassazione.
Rischia il licenziamento il dipendente che registra occultamente conversazioni tra colleghi.
È questa la conclusione a cui si giunge sulla base delle due pronunce, di segno opposto, pubblicate dalla Cassazione lo scorso maggio, a distanza di sei giorni l'una dall'altra. La legittimità delle registrazioni occulte di conversazioni tra colleghi e la loro utilizzabilità in giudizio sono da tempo oggetto di opposti orientamenti giurisprudenziali, come emerge anche dalle due recenti pronunce in commento.
Con la sentenza 10.05.2018 n. 11322, la Cassazione ha confermato l'illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato a un lavoratore per aver consegnato al datore di lavoro, nell'ambito di un procedimento disciplinare, una chiavetta Usb contenente registrazioni di conversazioni tra colleghi durante l'orario di lavoro, a loro insaputa, e per averne effettuate altre, anche video, in assenza della loro autorizzazione.
Poiché la registrazione costituisce trattamento di dati personali, ai fini della decisione la Cassazione ha esaminato la contestazione, anzitutto, sulla base della normativa sulla privacy. Secondo la Suprema corte, le registrazioni sarebbero state effettuate dal lavoratore al solo fine di tutelare la propria posizione, messa a rischio da contestazioni disciplinari «non proprio cristalline» e da un contesto di conflitto con i colleghi: il che costituirebbe trattamento legittimo, ancorché in assenza del consenso e a insaputa degli interessati, in quanto funzionale alla tutela di un diritto.
Il lavoratore avrebbe inoltre adottato tutte le cautele per non diffondere le registrazioni e il trattamento che ne è derivato sarebbe stato pertinente e non eccedente le finalità difensive che lo hanno giustificato. Oltre a queste motivazioni, la Cassazione ha richiamato anche il principio giurisprudenziale secondo cui la registrazione fonografica di un colloquio da parte di chi vi assiste o partecipa, rientrando tra le riproduzioni meccaniche di cui all'art. 2712 c.c., ha natura di prova ammissibile, nel processo sia civile che penale (Cass. civ. n. 27424/2014 e Cass. pen. n. 31342/2011).
La Cassazione ha così confermato l'illegittimità del recesso e, in accoglimento del ricorso incidentale del lavoratore, ha applicato la tutela reintegratoria di cui all'art. 18, comma 4, dello Statuto dei Lavoratori in quanto l'addebito, ancorché materialmente sussistente, è stato ritenuto privo di illiceità.
Con l'ordinanza 16.05.2018 n. 11999, pronunciata in una fattispecie simile, la Suprema corte è giunta invece ad una conclusione opposta, confermando la legittimità del licenziamento per giusta causa intimato a un lavoratore per aver registrato occultamente una conversazione telefonica tra il datore di lavoro e un collega, nonché altre conversazioni avvenute durante una riunione aziendale. Anche in questo caso, le registrazioni -secondo la prospettazione del lavoratore- erano giustificate da finalità di tutela dei propri diritti, ossia nell'ottica di sporgere querela per le condotte mobbizzanti subite.
La Cassazione, però, ha ritenuto illegittima la condotta del lavoratore per due ordini di ragioni: da un lato, ha richiamato l'opposto orientamento giurisprudenziale secondo cui la registrazione di conversazioni tra presenti all'insaputa dei conversanti configura una grave violazione del diritto alla riservatezza, tale da legittimare il licenziamento (Cass. civ. n. 16629/2016); dall'altro lato, ha ritenuto carenti di prova -e dunque assenti- le condotte mobbizzanti addotte dal lavoratore per giustificare la finalità difensiva delle registrazioni.
Com'è evidente, la linea di confine tra registrazioni occulte legittime o illegittime è molto sottile. La valutazione dipende da diversi fattori e deve pertanto essere condotta caso per caso: certo, il lavoratore dovrà curarsi, soprattutto, di fornire idonee prove della finalità difensiva alla base delle registrazioni e di farne ponderato utilizzo, vista la posta in gioco
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.11.2018).

NOVITA' NEL SITO

Inserito nel sito il seguente nuovo DOSSIER:
   ● L.R. 31/2014 (Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato).

dite la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO

EDILIZIA PRIVATA: M. Bottone, Il piano casa Campania autorizza il mutamento di destinazione d'uso a prescindere? (03.03.2019).

UTILITA'

ENTI LOCALI - PATRIMONIOInformazione e prevenzione: on-line la mappa dei rischi naturali dei Comuni italiani.
Per ogni Comune italiano, Provincia e Regione è possibile visualizzare diversi indici sulla pericolosità (sismica, idrogeologica, da frane, vulcanica) e anche quelli relativi a esposizione e vulnerabilità (demografia, struttura e stato degli edifici e delle abitazioni) (26.02.2019 - link a www.casaeclima.com).
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Sito web: http://www4.istat.it/it/mappa-rischi

SICUREZZA LAVOROD.lgs. 09.04.2008, n. 81 - Testo coordinato con il D.Lgs. 03.08.2009, n. 106 - TESTO UNICO SULLA SALUTE E SICUREZZA SUL LAVORO (febbraio 2019 - tratto da www.ispettorato.gov.it).

EDILIZIA PRIVATA: RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: LE AGEVOLAZIONI FISCALI (Agenzia delle Entrate, febbraio 2019).

EDILIZIA PRIVATA: LE AGEVOLAZIONI FISCALI PER IL RISPARMIO ENERGETICO (Agenzia delle Entrate, febbraio 2019).

VARI: BONUS MOBILI ED ELETTRODOMESTICI (Agenzia delle Entrate, febbraio 2019).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTILinee guida sull’Accettazione degli atti di aggiornamento del Catasto Edilizio Urbano (Do.C.Fa.) - Versione 1.0 (Agenzia delle Entrate, Direzione Regionale della Lombardia, Ufficio Attività immobiliari e Consulta Regionale dei Collegi dei Geometri e Geometri Laureati della Lombardia, 16.01.2019).

SICUREZZA LAVOROD.lgs. 09.04.2008, n. 81 - Testo coordinato con il D.Lgs. 03.08.2009, n. 106 - TESTO UNICO SULLA SALUTE E SICUREZZA SUL LAVORO (gennaio 2019 - tratto da  www.ispettorato.gov.it).

APPALTIIL CASELLARIO INFORMATICO - Regolamento per la gestione del Casellario Informatico dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, ai sensi dell’art. 213, comma 10, d.lgs. 18.04.2016, n. 5 - VADEMECUM (ANCE, novembre 2018).

SINDACATI & ARAN

PUBBLICO IMPIEGOSentenza Corte Costituzionale per trattenuta del 2,5% sulla retribuzione del personale in regime di TFR (C.S.A. di Milano, 03.12.2018).
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Premesso che il personale assunto nella P.A. entro il 31.12.2000 usufruisce del trattamento di fine servizio (TFS) contribuendo con una trattenuta del 2,5% sull’80% della retribuzione lorda, mentre per il personale assunto nella P.A. dall’01.01.2001 o per coloro che sono stati assunti in precedenza ed hanno optato per il regime del TFR non è stata prevista alcuna rivalsa, con la conseguenza che la retribuzione netta per i dipendenti in regime di TFR risultava superiore agli altri dipendenti in regime di TFS.
In questo modo, si rischiava seriamente di contrastare col principio di parità di trattamento previsto per i dipendenti del pubblico impiego, che impone di remunerare in modo uguale i lavoratori che svolgono uguali mansioni.
Quindi, per ristabilire un regime paritario, il D.C.P.M. del 20.12.1999, ha introdotto un meccanismo di riduzione della retribuzione lorda dei dipendenti pubblici in regime di TFR, in misura pari al contributo previdenziale abolito.

Con sentenza 22.11.2018 n. 213 la Corte Costituzionale ha consolidato la giurisprudenza vigente in materia mettendo definitivamente una pietra tombale sulla questione. (...continua).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOOggetto: art. 12 CCNL 21.05.2018 Funzioni Locali (ARAN, nota 21.11.2018 n. 17688 di prot.).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:  B.U.R. Lombardia, serie avvisi e concorsi n. 11 del 13.03.2019, "Direzione generale Territorio e protezione civile - Avviso di approvazione dell’integrazione del piano territoriale regionale ai sensi della l.r. 31/2014" (comunicato regionale 20.02.2019 n. 23). 
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Al riguardano, si leggano anche:
   ● Consumo di suolo: integrazione del PTR ai sensi della l.r. n. 31 del 2014 (20.02.2019 - link a www.regione.lombardia.it).
   La Legge regionale per la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato (20.02.2019 - link a www.regione.lombardia.it).
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ELABORATI DI PIANO: (documentazione a seguire elencata nella deliberazione C.R. 19.12.2018 n. 411 e tratta dal sito www.regione.lombardia.it cliccando qui)
Relazioni
   − Progetto di Piano
   − Criteri per l’attuazione della politica di riduzione del consumo di suolo
   − Analisi socio-economiche e territoriali
Tavole
   Tavola degli Ambiti territoriali omogenei
      01. Ambiti territoriali omogenei Tavole di analisi regionali
   Elementi identitari del sistema paesistico-ambientale
      02.A1 Morfologia ed elementi costitutivi della struttura fisica
      02.A2 Elementi di valore emergenti
      02.A3 Elementi identitari del sistema rurale
      02.A4 Elementi originari della struttura territoriale
   Elementi identitari del sistema insediativo e infrastrutturale
      02.A5 Evoluzione dei processi insediativi
      02.A6 Densità e caratteri insediativi
      02.A7 Sistema infrastrutturale esistente e di progetto
      02.A8 Polarità PTCP e sistema di relazioni
   Caratteristiche qualitative dei suoli
      03.B Qualità dei suoli agricoli
   Suolo urbanizzato e consumo di suolo
      04.C1 Superficie urbanizzata e superficie urbanizzabile
      04.C2 Caratterizzazione degli Ambiti di trasformazione
      04.C3 Incidenza della rigenerazione sul suolo urbanizzato
Tavole di progetto regionali
   Valori del suolo e indirizzi del piano
      05.D1 Suolo utile netto
      05.D2 Valori paesistico-ambientali
      05.D3 Qualità agricola del suolo utile netto
      05.D4 Strategie e sistemi della rigenerazione
   Tavole di analisi e di progetto della Città Metropolitana e delle Province
      06. Caratteri e criteri per la riduzione del consumo di suolo e la rigenerazione Provincia di Bergamo
      06. Caratteri e criteri per la riduzione del consumo di suolo e la rigenerazione Provincia di Brescia
      06. Caratteri e criteri per la riduzione del consumo di suolo e la rigenerazione Provincia di Como
      06. Caratteri e criteri per la riduzione del consumo di suolo e la rigenerazione Provincia di Cremona
      06. Caratteri e criteri per la riduzione del consumo di suolo e la rigenerazione Provincia di Lecco
      06. Caratteri e criteri per la riduzione del consumo di suolo e la rigenerazione Provincia di Lodi
      06. Caratteri e criteri per la riduzione del consumo di suolo e la rigenerazione Provincia di Mantova
      06. Caratteri e criteri per la riduzione del consumo di suolo e la rigenerazione Città Metropolitana di Milano
      06. Caratteri e criteri per la riduzione del consumo di suolo e la rigenerazione Provincia di Monza e della Brianza
      06. Caratteri e criteri per la riduzione del consumo di suolo e la rigenerazione Provincia di Pavia
      06. Caratteri e criteri per la riduzione del consumo di suolo e la rigenerazione Provincia di Sondrio
      06. Caratteri e criteri per la riduzione del consumo di suolo e la rigenerazione Provincia di Varese

ELABORATI DI VAS:
(documentazione a seguire tratta dal sito www.consiglio.regione.lombardia.it cliccando qui)
   − Rapporto Ambientale (comprensivo dello screening relativo alla Valutazione di incidenza)
   − Sintesi non tecnica del Rapporto Ambientale
   − Allegato: Strategia regionale di sostenibilità ambientale (SRSA). Processo di territorializzazione nella integrazione del PTR ai fini della applicazione della l.r. 31/2014
   − Piano di monitoraggio

SICUREZZA LAVORO: G.U. 11.03.2019 n. 59 "Adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) n. 2016/425 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 09.03.2016, sui dispositivi di protezione individuale e che abroga la direttiva 89/686/CEE del Consiglio" (D.Lgs. 19.02.2019 n. 17).

ENTI LOCALI - PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 10 dell'08.03.2019, "Modifiche e integrazioni alla legge regionale 30.12.2009, n. 33 (Testo unico delle leggi regionali in materia di sanità): abrogazione del Capo III ‘Norme in materia di attività e servizi necroscopici, funebri e cimiteriali’ del Titolo VI e introduzione del Titolo VI-bis ‘Norme in materia di medicina legale, polizia mortuaria, attività funebre" (L.R. 04.03.2019 n. 4).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 9 del 26.02.2019, "Applicabilità delle disposizioni dell’art. 83 della l.r. 12/2005 (sanzioni paesaggistiche)" (comunicato regionale 21.02.2019 n. 24).
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Si leggano, in merito, i riferimenti normativo-giurisprudenziali ivi menzionati:
   ● L.R. 28.12.2018 n. 17, art. 27
   ● L.R. 11.03.2005 n. 12, art. 83
   ● Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, sentenza 17.09.2009 - Ricorso n. 10249/03 - Scoppola c. Italia
   ● Convenzione Europea dei diritti dell’uomo (CEDU), art. 7, par. 1
   ● Corte Costituzionale, sentenza 20.07.2016 n. 193

   ● L. 24.11.1981 n. 689, art. 1
   ● Costituzione della Repubblica Italiana, artt. 9 e 117

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 22.02.2019 n. 45, suppl. ord. n. 8, "Approvazione del modello unico di dichiarazione ambientale per l’anno 2019" (D.P.C.M. 24.12.2019).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 8 del 21.02.2019, "Mozione concernente le modifiche al regolamento regionale 7/2017 «Regolamento recante criteri e metodi di rispetto per il principio dell’invarianza idraulica ed idrologica ai sensi dell’articolo 58-bis della legge regionale 12/2005»" (deliberazione C.R. 05.02.2019 n. 434).

APPALTI: G.U. 14.02.2019 n. 38, suppl. ord. n. 6/L, "Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza in attuazione della legge 19.10.2017, n. 155" (D.Lgs. 12.01.2019 n. 14).
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Di particolare interesse, si legga:
  
● Art. 372. Modifiche al codice dei contratti pubblici di cui al decreto legislativo 18.04.2016, n. 50.

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: G.U. 13.02.2019 n. 37 "Individuazione della procedure di revisione, integrazione e apposizione della segnaletica stradale destinata alle attività lavorative che si svolgono in presenza di traffico veicolare" (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, decreto 22.01.2019).

AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI - EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 12.02.2019 n. 36 "Testo del decreto-legge 14.12.2018, n. 135, coordinato con la legge di conversione 11.02.2019, n. 12, recante: «Disposizioni urgenti in materia di sostegno e semplificazione per le imprese e per la pubblica amministrazione»".
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Di particolare interesse, si leggano:
   ● Art. 5. Norme in materia di semplificazione e accelerazione delle procedure negli appalti pubblici sotto soglia comunitaria
   ● Art. 6. Disposizioni in merito alla tracciabilità dei dati ambientali inerenti rifiuti
   ● Art. 8-bis. Misure di semplificazione per l’innovazione
   ● Art. 11. Adeguamento dei fondi destinati al trattamento economico accessorio del personale dipendente della pubblica amministrazione
   ● Art. 11-bis. Misure di semplificazione in materia contabile in favore degli enti locali
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Si leggano anche:
   ● Decreto Semplificazioni, in Gazzetta la Legge di conversione. La Legge 11.02.2019, n. 12 è in vigore dal 13.02.2019 (13.02.2019 - link a www.casaeclima.com).
   ● Il decreto Semplificazioni è legge. Cambia l'art. 80 del Codice Appalti. Introdotta una norma di semplificazione e accelerazione delle procedure negli appalti pubblici sotto soglia comunitaria, intervenendo sull'articolo 80 del Codice in materia di motivi di esclusione (07.02.2019 - link a www.casaeclima.com).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAOggetto: Approvazione del regolamento regionale “Disciplina e regimi amministrativi degli scarichi di acque reflue domestiche e di acque reflue urbane, disciplina dei controlli degli scarichi e delle modalità di approvazione dei progetti degli impianti di trattamento delle acque reflue urbane, in attuazione dell'articolo 52, commi 1, lettere A) , F-bis) e 3, nonché dell'articolo 55, comma 20, della l.r. 12.12.2003, n. 26” - (richiesta di parere alla Commissione Consiliare) (deliberazione G.R. 28.01.2019 n. 1167).
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Segui i lavori in Consiglio Regionale cliccando qui.

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICACriteri di individuazione degli interventi pubblici e di interesse pubblico o generale di rilevanza sovracomunale per i quali non trovano applicazione le soglie di riduzione del consumo di suolo (art. 2, comma 4, L.R. 31/2014) – (Richiesta di parere alla Commissione Consiliare) (Regione Lombardia, deliberazione G.R. 14.01.2019 n. 1141).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAProposta di criteri di individuazione degli interventi pubblici e di interesse pubblico o generale di rilevanza sovracomunale per i quali non trovano applicazione le soglie di riduzione del consumo di suolo (art. 2, comma 4, L.R. 31/2014) – (Richiesta di parere alla Commissione Consiliare) (Regione Lombardia, deliberazione G.R. 24.10.2016 n. 5741).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICIOggetto: Revisione della disciplina sull’apposizione della segnaletica stradale (ANCE di Bergamo, circolare 12.03.2019 n. 73).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Tutela degli acquirenti di immobili da costruire - Modifiche (ANCE di Bergamo, circolare 11.03.2019 n. 72).

LAVORI PUBBLICIOggetto: La Legge 30.12.2018, n. 145 recante “bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021” e le Linee Guida ANAC n. 4/2019 di attuazione del D.Lgs. 50/2016 in materia di affidamenti diretti nel settore dei lavori (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, circolare 25.02.2019 n. 352).

SICUREZZA LAVORO: Oggetto: Pompaggio del calcestruzzo in cantiere – Procedure non sicure (ANCE di Bergamo, circolare 22.02.2019 n. 61).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Decreto Sicurezza – chiarimenti ministeriali novità per gli impianti gestione rifiuti e piani di emergenza (ANCE di Bergamo, circolare 22.02.2019 n. 58).

APPALTI: Oggetto: Raddoppio delle maggiorazioni sulle sanzioni: ulteriori chiarimenti (ANCE di Bergamo, circolare 22.02.2019 n. 54).

COMPETENZE PROGETTUALICOMPETENZE PROFESSIONALI INGEGNERI ED ARCHITETTI – OPERE E SISTEMAZIONI IDRAULICHE – SENTENZA CONSIGLIO DI STATO, 21.11.2018 N. 6593 – COMPETENZA ESCLUSIVA DEGLI INGEGNERI PER I CALCOLI IDRAULICI E SULLA PROGETTAZIONE DI OPERE IDRAULICHE FLUVIALI – INCOMPETENZA DEGLI ARCHITETTI IN TEMA DI PROGETTAZIONE DI OPERE IDRAULICHE - CONSIDERAZIONI  (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, circolare 20.02.2019 n. 351).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Nuova comunicazione dei dati relativi agli interventi edilizi e tecnologici che accedono alle detrazioni fiscali per le ristrutturazioni edilizie che comportano risparmio energetico e/o l’utilizzo delle fonti rinnovabili di energia (ANCE di Bergamo, circolare 15.02.2019 n. 50).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAOggetto: versamento degli importi sanzioni amministrative legge 447/1995 inquinamento acustico (Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare - Direzione Generale per i rifiuti e l’inquinamento - Divisione IV, Inquinamento atmosferico, acustico, elettromagnetico, nota 14.02.2019 n. 2824).

APPALTI: Oggetto: Aggiornamenti in tema di appalti pubblici (ANCE di Bergamo, circolare 12.02.2019 n. 48).

ATTI AMMINISTRATIVI: Applicazione imposta di bollo: a domanda l’Agenzia delle Entrate risponde.

Il tributo non è dovuto per il rilascio dei duplicati informatici di un documento amministrativo informatico redatto secondo le regole del Codice dell’amministrazione digitale.
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Quesito
Il duplicato informatico di un documento amministrativo informatico redatto secondo le regole previste dal Codice dell’amministrazione digitale (Cad) va assoggettato all’imposta di bollo?
Risposta
Dalla lettura della disciplina dell’imposta di bollo dettata dal Dpr 642/1972 emerge che la nozione di “copia” (o duplicato) è giuridicamente e autonomamente definita e la copia conforme rappresenta autonomo presupposto di imposizione rispetto al documento originale. Pertanto, fatte salve le ipotesi espressamente previste dalla legge, le copie conformi devono essere assoggettate all’imposta di bollo (16 euro). In altri termini, il presupposto per l’applicazione dell’imposta di bollo si realizza quando sulle copie è presente la dichiarazione di conformità all’originale redatta da chi rilascia la copia.
Per quanto concerne il documento informatico, il Cad prevede espressamente che i relativi duplicati hanno lo stesso valore giuridico, a ogni effetto di legge, del documento informatico da cui sono tratti (
articolo 1, comma 1, lettera i-quinquies, e articolo 23-bis, Dlgs 82/2005). Inoltre, anche dal punto di vista tecnico, il duplicato informatico è identico e indistinguibile dall’originale.
Da quanto detto, risulta che il presupposto dell’imposta di bollo si realizza solo per le copie informatiche di documenti informatici munite di dichiarazione di conformità all’originale.
Per i duplicati informatici di documenti amministrativi informatici non è, invece, prevista alcuna dichiarazione di conformità all’originale, e, dunque, il rilascio di questi documenti non realizza il presupposto dell’imposta di bollo.
In conclusione, quindi, per il rilascio dei duplicati informatici di un documento amministrativo informatico non deve essere applicata l’imposta di bollo
[Agenzia delle Entrate, risposta 12.02.2019 n. 45 (OGGETTO: Imposta di bollo sul duplicato informatico di un documento amministrativo informatico prodotto in conformità alle disposizioni del Codice dell’Amministrazione Digitale. Interpello Art. 11, legge 27.07.2000, n. 212) - commento tratto da e link a www.fiscooggi.it].

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOOggetto: Reddito di lavoro dipendente - Competenze erogate per collaudo tecnico-amministrativo a dirigenti ministeriali - art. 24 d.lgs. n. 165 del 2001 e art. 51, co. 1, del TUIR - Interpello articolo 11, comma 1, lettera a), legge 27.07.2000, n. 212 (Agenzia delle Entrate, risposta 12.02.2019 n. 37).
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Il Ministero istante conferisce o designa il proprio personale, anche dirigenziale, per lo svolgimento di incarichi aggiuntivi, in particolare per collaudo tecnico amministrativo, presso enti vari.
Tutti gli enti, nel caso in cui il personale incaricato o designato rivesta la qualifica dirigenziale, provvede, come previsto dall’art. 24 del decreto legislativo n. 165 del 2001, a versare in appositi capitoli in conto entrata dello Stato, l’importo del compenso per l’incarico svolto dal dirigente, al lordo fiscale e previdenziale.
L’Amministrazione istante procede poi ad erogare al dirigente che ha svolto il relativo incarico il 50 per cento dell’importo affluito al capitolo di entrata, mentre il restante 50 per cento incrementa il fondo per la retribuzione di posizione e di risultato che viene, successivamente, erogato agli altri dirigenti, compreso quello che ha svolto l’incarico, quale incremento della retribuzione di risultato. (... continua).

APPALTI: Oggetto: legge 09.08.2018 n. 96 di conversione del D.L. 12.07.2018, n. 87, recante “Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese” – art. 38-bis D.Lgs. n. 81 del 2015 – somministrazione fraudolenta – indicazioni operative (Ispettorato Nazionale del Lavoro, circolare 11.02.2019 n. 3/2019).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Indicazioni sul Responsabile Tecnico per le imprese iscritte all’Albo (ANCE di Bergamo, circolare 08.02.2019 n. 47).

VARI: Oggetto: Variazione del tasso di interesse legale per l’anno 2019 (ANCE di Bergamo, circolare 08.02.2019 n. 45).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: AMIANTO: relazione annuale tramite applicativo Ge.M.A. entro il 28 febbraio (ANCE di Bergamo, circolare 08.02.2019 n. 40).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Nuova disciplina regionale in materia di emissioni in atmosfera (ANCE di Bergamo, circolare 25.01.2019 n. 24).

APPALTI: Oggetto: art. 1, comma 445 lett. d) e f), L. n. 145/2018 – maggiorazioni sanzioni (Ispettorato Nazionale del Lavoro, circolare 14.01.2019 n. 2/2019).
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Si legga anche: Oggetto: art. 1, comma 445, lett. e), L. n. 145/2018 – maggiorazioni sanzioni. Nota integrativa alla circolare n. 2/2019 (nota 05.02.2019 n. 1148 di prot.).

APPALTI: Oggetto: Costituzione in mora – Infrazione n. 2018/2273 (Commissione Europea, nota 24.01.2019 - 2018/2273 - C(2019) 452 final).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Compendio di normativa ambientale. Edizione num. 9 – anno 2019 (ANCE di Bergamo, circolare 11.01.2019 n. 5).

URBANISTICAApprovazione dell’Integrazione del PTR e proroga del Documento di Piano del PGT (Regione Lombardia, Infocomuni gennaio 2019 n. 1).

APPALTI: Oggetto: nota operativa su nomina commissari di gara ex artt. 77 e 78 d.lgs. n. 50/2016 e ss.mm.ii. (ANCI, 14.12.2018).

ENTI LOCALI - LAVORI PUBBLICI - PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTILegge di Bilancio 2019 - Prima nota di lettura sui contenuti (ANCI-IFEL, dicembre 2018).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOGestione associata delle funzioni essenziali, l’obbligo per i piccoli Comuni è incostituzionale. Per i comuni sotto i 5 mila abitanti è incostituzionale l'obbligo assoluto di gestire congiuntamente, mediante unione o convenzione, le funzioni essenziali (07.03.2019 - link a www.giurdanella.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Bottone, Il piano casa Campania autorizza il mutamento di destinazione d'uso a prescindere? (03.03.2019).

AMBIENTE-ECOLOGIAMUD 2019: slitta al 22 giugno la scadenza.
Il D.P.C.M. 24.12.2018 introduce alcune limitate modifiche alle informazioni da trasmettere che riguardano le dichiarazioni presentate dai soggetti che svolgono attività di recupero e trattamento dei rifiuti e i Comuni. Non vi sono modifiche per quanto riguarda i produttori (26.02.2019 - link a www.casaeclima.com).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATARifiuti, istituito il Registro elettronico nazionale per la tracciabilità.
La Legge Semplificazioni, oltre a sopprimere il Sistri e l'obbligo di versare i contributi previsti, introduce un primo tassello del nuovo sistema di tracciabilità istituendo il Registro elettronico nazionale (26.02.2019 - link a www.casaeclima.com).

EDILIZIA PRIVATAGarante Privacy: no all’accesso civico generalizzato su pratiche SCIA e CILA. Non è possibile accedere ai dati personali completi contenuti nei titoli abilitativi edilizi sulla base di una mera richiesta di accesso civico generalizzato (26.02.2019 - link a www.casaeclima.com).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: P. Collevecchio, Indicazioni operative sull'attuazione del Regolamento europeo sulla protezione dei dati nei comuni (GDPR) (20.02.2019 - tratto da www.legautonomie.it).
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L’ing. Pietro Collevecchio, collaboratore di Leganet e DPO in diversi Comuni del Lazio e delle Marche, traccia in questo articolo, in maniera chiara e puntuale, l’intero processo da seguire per dare piena attuazione al Regolamento europeo per la protezione dei dati personali (GDPR) in vigore dal 25.05.2018.
Richiamata in sintesi la complessa e delicata normativa in materia, l’autore descrive in termini operativi le fasi del processo e i soggetti cui compete la relativa attuazione. Conclude con l’esigenza di organizzare adeguate iniziative di formazione del personale e richiama l’attenzione sulle sanzioni previste in caso di inadempimento.
Legautonomie presenta con questa pubblicazione una guida utile per molti Comuni tuttora impegnati nelle operazioni di adeguamento.
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Sommario: 1. Il GDPR - 2. Finalità: assicurare il diritto alla protezione dei dati personali - 3. Le figure di riferimento - 3.1 Il Data Controller o Titolare del trattamento - 3.2 Il Data Processor o Responsabile del trattamento - 3.3 Il Data Protection Officer o Responsabile della protezione dei dati - 4. Il processo di attuazione - 4.1 Individuazione di ruoli e responsabilità - 4.2 Mappatura dei processi - 4.3 Analisi di sicurezza dei sistemi - 4.4 Registro delle attività di trattamento - 4.5 Privacy policy - 4.6 Regolamento  comunale sulla protezione dei dati personali - 5. La formazione: esigenza imprescindibile - 6. Pubblicazione e controlli - 7. Attenti alle sanzioni.

APPALTI: A. Nicodemo, Il contratto di avvalimento tra diritto interno e comunitario: uno, nessuno e centomila (20.02.2019 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Il contratto di avvalimento, troppi volti allo specchio. Al di là del dibattito giurispudenziale, il metodo da osservare nell’indagine sulla natura giuridica dell’istituto. 2. L’origine dell’istituto dell'avvalimento nel diritto comunitario e il suo recepimento nel nostro ordinamento: la norma e le relative interpretazioni. 3. Il contratto di avvalimento tra i contratti tipici e contratti atipici: osservazioni e proposte interpretative. 3.1. (segue) Gli ulteriori elementi caratterizzanti il contratto di avvalimento alla luce della disciplina civilistica. 4. Il contratto di avvalimento e la differenza tra avvalimento di garanzia e avvalimento operativo. 5. I contenuti del contratto di avvalimento alla luce delle disposizioni civilistiche e del D.Lgs. n. 50 del 2016. 6. Le carenze del contratto di avvalimento e l’inapplicabilità del soccorso istruttorio. 7. Conclusioni.

PUBBLICO IMPIEGO: F. Goffi, Diritto di critica del lavoratore e licenziamento disciplinare (nota di commento a ordinanza 03.12.2018 n. 31155 Corte di Cassazione, Sez. lavoro) (12.02.2019 - link a www.filodiritto.com).

APPALTIDifferenza tra proposte migliorative e varianti negli appalti pubblici: chiarimenti.
Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, le soluzioni migliorative possono esplicarsi in modo libero ovvero incidere su tutti gli aspetti tecnici lasciati aperti a diverse soluzioni sulla base del progetto posto a fondamento della gara (08.02.2019 - link a www.casaeclima.com).

APPALTI: F. F. Guzzi, Responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione: l’Adunanza Plenaria fa un ulteriore passo in avanti verso la parificazione della PA al contraente privato anche nella fase della procedura di evidenza pubblica (06.02.2019 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Fatto. 2. La responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione secondo il Collegio remittente (ordinanza del Consiglio di Stato n. 515 del 24.11.2017). 3. La responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione alla luce dell’intervento dell’Adunanza Plenaria n. 5/2018. 4. Osservazioni conclusive.

APPALTICodice dei contratti: il testo della lettera di Bruxelles all'Italia di messa in mora.
Il 24 gennaio la Commissione europea ha inviato lettere di costituzione in mora a 15 Stati membri, tra cui l'Italia, esortandoli a conformarsi alle norme Ue su appalti pubblici e concessioni (06.02.2019 - link a www.casaeclima.com).
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Oggetto: Costituzione in mora – Infrazione n. 2018/2273 (Commissione Europea, nota 24.01.2019 - 2018/2273 - C(2019) 452 final).

LAVORI PUBBLICI: P. Vipiana, La disciplina del dibattito pubblico nel regolamento attuativo del Codice degli appalti, tra anticipazioni regionali e suggestioni francesi (23.01.2019 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. La previsione del dibattito pubblico a livello nazionale da parte del Codice degli appalti. 2. La previa introduzione del dibattito pubblico a livello regionale. 3. L’istituto del débat public operante in Francia. 4. La disciplina del dibattito pubblico dettata dal regolamento attuativo del Codice degli appalti. 5. I singoli aspetti della disciplina: a) l’oggetto del dibattito pubblico e i soggetti interessati ad esso; b) la Commissione nazionale per il dibattito pubblico; c) le modalità di svolgimento del dibattito pubblico; d) gli effetti del dibattito pubblico. 6. Osservazioni conclusive sulla disciplina del dibattito pubblico contenuta nel regolamento attuativo del Codice degli appalti.

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: M. Cecchetti, La riforma dei procedimenti di valutazione d’impatto ambientale tra d.lgs. n. 104 del 2017 e Corte costituzionale n. 198 del 2018 (09.01.2019 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Il contesto, gli obiettivi e l’approccio regolatorio della riforma. – 2. Le novità dei contenuti normativi del d.lgs. n. 104 del 2017 alla luce delle relazioni tra i diversi soggetti coinvolti. – 3. I rapporti tra Stato e Regioni e la sentenza n. 198/2018 della Corte costituzionale. – 4. I rapporti tra soggetto proponente e Amministrazione procedente. – 5. I rapporti tra Amministrazione procedente e altre Amministrazioni. – 6. I rapporti tra Amministrazioni e pubblico interessato. – 7. I rapporti tra livello decisionale politico, strutture amministrativo-burocratiche e organismi di supporto a carattere tecnico-scientifico.

ATTI AMMINISTRATIVI: L. Bisoffi, Semplificazione del procedimento amministrativo e tutela degli interessi sensibili: alla ricerca di un equilibrio (09.01.2019 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. La delicatezza del rapporto fra semplificazione e interessi sensibili: la ponderazione fra interessi costituzionalmente protetti. 2. L’equilibrio nella disciplina della conferenza di servizi. 3. L’equilibrio nella disciplina del silenzio assenso dopo la riforma Madia: spunti per l’analisi e il confronto tra le diverse norme. 4. In particolare: l’equilibrio tra semplificazione del procedimento e tutela dell’ambiente. 5. Il principio di precauzione come criterio interpretativo (segue). 6. Considerazioni finali.

ENTI LOCALI - APPALTI: F. Dimita, Il blocco dei programmi di spesa dell’ente locale, nell’ambito dei controlli di legittimità-regolarità della Corte dei conti (09.01.2019 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: Premessa - 1. La pronuncia che impone il blocco dei programmi di spesa nell’ambito del controllo di legittimità-regolarità sui bilanci e sui rendiconti degli enti locali. - 2. Individuazione dei limiti della preclusione dell’attuazione dei programmi di spesa, avuto riguardo alla natura ed alle finalità della spesa oggetto del “blocco”. - 3. Il bilancio come bene pubblico e la necessità di preservarne l’equilibrio.

CONSIGLIERI COMUNALI: M. Tocci, NECESSITÀ DELLO SCIOGLIMENTO DEL CONSIGLIO COMUNALE IN CASO DI IMPOSSIBILITÀ DELLA PRIMA CONVOCAZIONE (tratto da www.ambientediritto.it - fascicolo n. 1/2019).
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Sommario: 1. Il principio di diritto alla luce dei fatti sottesi 2. Un interrogativo decisivo: la seconda convocazione del consiglio comunale è sempre necessaria? 3. I precedenti 4. Nessuna lesione del diritto alla surroga degli aspiranti consiglieri comunali 5. In conclusione: una nuova causa di scioglimento del consiglio comunale?   

APPALTI: M. Terrei, GLI ACQUISTI INFRA 40.000 EURO E LE PIATTAFORME ELETTRONICHE DI NEGOZIAZIONE (tratto da www.ambientediritto.it - fascicolo n. 1/2019).
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Sommario: 1. Introduzione. - 2. L’uso della Posta Elettronica Certificata nelle procedure d’appalto. - 3. I termini nelle procedure d’appalto. - 4. Le informazioni e le comunicazioni nella Direttiva 24/2014/UE. - 5. Le informazioni e le comunicazioni nel Codice dei Contratti D.lgs. 50/2016. - 6. Il Codice dei Contratti e il suo rapporto con il Codice dell’Amministrazione Digitale. - 7. La segretezza degli invii nelle procedure di appalto. - 8. Strumenti telematici di negoziazione. - 9. La segretezza degli invii e il MePA. - 10. Il comunicato dell’ANAC del 30.10.2018. - 11. Conclusioni.

ENTI LOCALIRegolamento delle prestazioni del personale della Polizia locale a carico di soggetti privati per lo svolgimento di manifestazioni ed eventi sul territorio comunale (ANCI, quaderno n. 17 di gennaio 2019).

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALIAggiornamento 2018 al Piano Nazionale Anticorruzione - LE NOVITÀ DI INTERESSE PER GLI ENTI LOCALI  (ANCI, quaderno n. 16 del dicembre 2018).

ATTI AMMINISTRATIVI: S. Di Pietro, La tutela della privacy tra esigenze di trasparenza e nuove regole di riservatezza (Amministrativamente n. 9-10/2018).
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Sommario: 1. La complessa articolazione della trasparenza nel contesto normativo italiano. 2. I limiti della trasparenza a favore del diritto alla tutela dei dati personali, sensibili e super sensibili. 3. Nuovi adempimenti: il Regolamento europeo 679/2016. 4. Vecchi e nuovi equilibri: l’importanza dei principi di proporzionalità e ragionevolezza.

APPALTI: A. M. Colarusso, L’annullamento dell’aggiudicazione, in sede giurisdizionale e in autotutela, e la sorte del contratto pubblico (Amministrativamente n. 9-10/2018).

APPALTI: V. Lambertz, Il risarcimento danni nella pubblica amministrazione per fatto illecito della concessionaria (Amministrativamente n. 9-10/2018).
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Sommario: 1. Introduzione; 2. Il fatto; 3. L’applicabilità dell’articolo 2049 c.c. ed elementi fondamentali; 3a Il rapporto di preposizione e il rapporto concessorio; 3b. Il fatto illecito; 3c. La connessione tra incombenze e danno; 4. Conclusioni.

APPALTI: F. Armenante, In principio è la rotazione (Amministrativamente n. 9-10/2018).
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Sommario: 1. Premesse; 2. I primi orientamenti giurisprudenziali alla luce del nuovo codice: ratio e portata applicativa del principio di rotazione degli affidamenti e degli inviti; 3. L’estensione della rotazione alle concessioni e i primi scrutini di costituzionalità; 4. Gli indirizzi “aggiornati” delle Linee guida dell’ANAC e le relative faq; 5. Questioni controverse: le procedure aperte sul mercato elettronico, la legittimazione processuale, la tutela risarcitoria dell’operatore pretermesso; 6. Riflessioni conclusive: i limiti dei mercati ristretti e l’alternativa dell’accordo-quadro.

ATTI AMMINISTRATIVI: M. Asprone e G. Greco, Lo ius poenitendi e il rapporto con la tutela dell’affidamento (Amministrativamente n. 7-8/2018).

ATTI AMMINISTRATIVI: F. Lorè, Il ruolo del Responsabile della protezione dei dati personali nella pubblica amministrazione alla luce del Regolamento generale sulla protezione dei dati personali UE 2016/679 (Amministrativamente n. 7-8/2018).
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Sommario: 1. Dal codice in materia di protezione dei dati personali al nuovo regolamento europeo. 2. Le “linee guida sui responsabili della protezione dei dati”. 4. il ruolo del responsabile per la protezione dei dati personali all’interno (o all’esterno) di un ente pubblico. 5. le competenze del responsabile per la protezione dei dati personali. 8. il ruolo del responsabile per la protezione dei dati personali alla luce delle recenti disposizioni in materia di trasparenza amministrativa. 9. i compiti del rpd. 10. conclusioni degli accordi stipulati da tali regioni e lo stato. – 5. osservazioni conclusive.

ENTI LOCALI: F. Pinto, Tutela dell’affidamento e scelte strategiche nella dismissione delle partecipazioni nelle società pubbliche (Amministrativamente n. 5-6/2018).
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Sommario: 1. Le società a partecipazione pubblica, tra istituti di natura pubblicistica e soggetti privati. – 2. La ratio del Decreto Legislativo n. 175 del 19.08.2016 e il suo contesto interpretativo – 3. Le condizioni per la dismissione delle partecipazioni pubbliche nel Decreto Legislativo n. 175 del 19.08.2016, tra “incidenza determinante” e obbligo di legge: C. Conti, Puglia, n. 75/2018/PAR del 16.05.2018 – 4. Il procedimento di liquidazione delle quote in concreto e la tutela dell’affidamento nella giurisprudenza costituzionale: C.Cost. n. 116 del 17.04.2018.
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Abstract
Il contributo ha ad oggetto la dismissione delle quote di partecipazione nelle società pubbliche da parte degli Enti Locali. L’esatta ricostruzione delle modalità di dismissione delle quote delle società partecipate appare, allo stato attuale, estremamente problematica, anche dopo l’entrata in vigore della riforma che ha organicamente regolato la presenza delle pubbliche amministrazioni all’interno dei moduli societari contenuta nel decreto legislativo n. 175 del 19.08.2016, il Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica. Gli artt. 4 e 20 del decreto n. 175 definiscono, novellando le fonti precedenti, alcune fattispecie di liquidazione ex lege di società pubbliche e di dismissioni di partecipazione non strategiche sulla base di una valutazione discrezionale. Tuttavia, molti nodi sono ancora irrisolti sui presupposti concreti della dismissione, su alcune tipologie speciali di società comunali, e sulla posizione e il legittimo affidamento dei soci privati. Una risposta parziale ad alcuni quesiti viene dalla giurisprudenza più recente della Corte dei Conti e della Corte Costituzionale.

EDILIZIA PRIVATA: A. Tortora, La valenza del parere tardivo della soprintendenza ex art. 146, comma 8, del d.lgs. n. 42/2004 (Amministrativamente n. 5-6/2018).
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Sommario: 1. Premessa 2. Brevi cenni sul procedimento ordinario e su quello semplificato di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica. 3. Gli effetti del parere tardivo del Soprintendente nell’interpretazione giurisprudenziale 4. Considerazioni conclusive.
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Abstract
Negli ultimi anni, nell’ambito delle autorizzazioni paesaggistiche, un tema molto dibattuto in dottrina e giurisprudenza è stato quello della validità del parere vincolante e obbligatorio della Soprintendenza espresso oltre il termine procedimentale stabilito dall’art. 146, comma 8, del D.L.vo n. 42/2004. La soluzione a tale problematica è di dirimente importanza per le conseguenze che ne derivano in termini di valutazione e comparazione tra gli interessi pubblici primari di tutela ambientale e del paesaggio e gli interessi dei soggetti privati che intendono realizzare un progetto edificatorio in zona vincolata. Dopo un periodo di forte incertezza, caratterizzato da numerosi e frequenti contrasti, di recente si è attestata come prevalente la terza tesi illustrata, secondo cui il parere reso tardivamente dalla Soprintendenza è liberamente valutabile dall’Amministrazione procedente e perde, insieme con la propria efficacia vincolante, valenza di arresto procedimentale, assumendo connotazione strumentale rispetto al provvedimento comunale conclusivo del procedimento.

CONSIGLIERI COMUNALI: F. Pinto, Il Presidente del Consiglio comunale tra «neutralità politica» e corretto funzionamento dell'organo consiliare (Amministrativamente n. 5-6/2018).
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Sommario: 1. – Il Presidente del Consiglio comunale nel sistema della forma di governo delle autonomie locali. – 2. L'istituto della revoca del Presidente, tra previsioni statutarie e motivazioni istituzionali. – 3. Revoca del Presidente e interdittive antimafia.
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Abstract
Il contributo ha ad oggetto la figura del Presidente del Consiglio comunale. L'art. 39 del Testo Unico sugli EE.LL., d.lgs. 18.08.2000, n. 267, prevede che i consigli provinciali e comunali –nei Comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti– debbano essere presieduti da un Presidente eletto tra in consiglieri. La figura può essere poi disciplinata, nei Comuni minori, sulla base dell’autonomia statutaria. Quella del Presidente del Consiglio comunale ha costituto una figura di assoluta novità nel sistema. Nelle motivazioni che hanno portano alla creazione della nuova figura va, inoltre, annoverata la necessità di fare del Consiglio un organo (anche) capace di contrapporsi al sindaco. Le sue funzioni sono finalizzate a garantire la regolarità delle sedute, la parità tra le parti e alla massima trasparenza dei comportamenti, il tutto nel quadro del rigoroso rispetto delle norme che reggono il funzionamento dei Consiglio. La giurisprudenza e la dottrina hanno avuto così occasione di precisare nel tempo i fondamenti e i caratteri della sua revoca da parte del Consiglio, variamente configurando le ragioni “istituzionali” (contrapposte a quelle “politiche”) di essa e la nozione di “perdita di neutralità politica”. Nelle pronunce più recenti, il tema ha finito per intrecciarsi, soprattutto al Sud, con quello delle interdittive antimafia e dei rapporti di parentela del Presidente in contesto territoriali con forte presenza di criminalità organizzata.

ATTI AMMINISTRATIVI: A. Tortora, Il nuovo regolamento europeo per la protezione dei dati (GDPR) e la figura del Data Protection Officer (DPO): incidenza sulla attività della pubblica amministrazione (Amministrativamente n. 5-6/2018).
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Sommario: 1. Introduzione – 2. I principi introdotti dal Regolamento GDPR – 3. Il Responsabile della protezione dei dati (RPD) – 4. Incidenza del RGPD sulla Pubblica Amministrazione – 5. Conclusioni.
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Abstract
In materia di protezione dei dati personali, il nuovo obiettivo dell’Unione è quello di assicurare un livello coerente ed elevato di protezione delle persone fisiche e rimuovere gli ostacoli alla circolazione dei dati personali all’interno dell’Unione, implementando il livello di protezione dei diritti e delle libertà delle persone fisiche con riguardo al trattamento di tali dati in modo equivalente in tutti gli Stati membri. E dunque, per assicurare un livello coerente di protezione delle persone fisiche in tutta l’Unione e prevenire disparità che possono ostacolare la libera circolazione dei dati personali nel mercato interno, si è ritenuto necessario (ed opportuno) disciplinare la materia con lo strumento normativo del Regolamento, direttamente applicabile su tutto il territorio europeo, che si propone di introdurre e cristallizzare nuovi principi generali della materia, utili sempre a sopperire l’eventuale carenza (oppure non chiarezza) delle disposizioni adottate a livello nazionale.

APPALTI: F. Pinto, Di chi è la colpa? Riflessioni in materia di appalti (Amministrativamente n. 5-6/2018).
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Sommario: 1. Un problema (assai) difficile trattato in modo (troppo) semplice. – 2. Corruzione e società bambine: ridimensionare un dato e uscire da un inganno. – 3. Il legislatore nella società complessa: lo Stato e il mercato. – 4. Le esperienze straniere e la peculiarità del sistema italiano: una sintesi (quasi) impossibile. – 5. L’Autorità Nazionale Anti Corruzione: lo strano caso del soft-law. – 6 Le Centrali di Committenza. – 6.1 La sanità come esempio di efficienza. – 6.2 Le centrali locali come un’idea non realizzata. – 6.3 La CONSIP come esempio di inefficienza. – 7. Il grande ammalato: l’Amministrazione pubblica. – 7.1 Investire nell’Amministrazione. – 7.2 L’anomala funzione del giudice.
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Abstract
Il contributo ha ad oggetto l’analisi di alcune «cause» della cattiva gestione degli appalti nel nostro Paese. In primo luogo, vengono analizzate alcune dinamiche attuali del rapporto tra Stato e mercato nelle società complesse attuali e sottoposti a critica alcuni luoghi comuni in tema di corruzione e attività amministrativa. Un’attenzione particolare viene rivolta al fenomeno del soft-law introdotto dall’ANAC in tema di appalti pubblici. Infine, le dinamiche messe in evidenza come cause di inefficienza vengono analizzate nell’ambito della disciplina delle centrali di committenza, in particolare in ambito sanitario.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: M. Asprone, Le criticità relative all’accesso agli atti nell’impiego pubblico di natura privata nella giurisprudenza (Amministrativamente n. 3-4/2018).
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Abstract
Nel 2016 il Supremo Consesso di giustizia amministrativa è stato chiamato a decidere sull’appello proposto dalla società Poste Italiane s.p.a. avverso la sentenza dei giudici di prime cure che, accogliendo il ricorso in primo grado, avevano annullato la procedura selettiva indetta dalla suddetta società per un posto di “Capo Squadra” presso il CMP di Bologna. Tra le doglianze manifestate dal ricorrente, dipendente di livello “D” in servizio presso la stessa filiale vi era il diniego dell’ostensione da parte di Poste Italiane s.p.a. degli atti concernenti detta procedura selettiva; in particolare il ricorrente aveva preliminarmente richiesto alla società di esibire gli elaborati relativi alle prove scritte di selezione, con riferimento a quelli depositati da lui stesso e dagli altri candidati, risultati vincitori o idonei, dei documenti contenenti i criteri valutativi adottati e dei verbali della commissione esaminatrice.

URBANISTICA: F. Pinto, Di nuovo sul concetto di lottizzazione (abusiva) (Amministrativamente n. 3-4/2018).
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Sommario:
1. – Cambiare prospettiva. – 2. Le origini. – 3. Lo strumento esecutivo e la sua necessità. – 4. Le zone urbanizzate. – 5. L’inesistenza della figura in astratto e la necessità dell’accertamento in fatto. – 6. La “rilettura” della giurisprudenza. – 7. La logica sostanzialistica.
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Abstract
Il contributo ha ad oggetto l'istituto della cd. lottizzazione abusiva, ed in particolare il collegamento tra l'istituto nel diritto urbanistico e gli strumenti di pianificazione esecutiva. Nell'evoluzione della disciplina, la lottizzazione si qualificava come un processo positivo di raccordo tra il precedente tessuto urbano e il nuovo, che solo la rete, che avrebbe dovuto crearsi attraverso l’edificazione di strade e servizi, quali quello fognario ed elettrico, avrebbero consentito e che, anzi, si presentava come assolutamente indispensabile per volontà del legislatore. Di qui l’esigenza di una pianificazione di secondo livello –rispetto a quella generale e di primo livello disegnata dal Piano Regolatore– che veniva prevista dall’art. 13 della legge urbanistica del 1942, volta a disciplinare il presupposto dell’edificazione, comunemente riassunta nel termine di piano particolareggiato o, più in generale, di strumento esecutivo. La considerazione del livello di pianificazione e realizzazione della rete infrastrutturale in concreto diventa criterio distintivo per la qualificazione delle fattispecie della lottizzazione abusiva.

APPALTI: G. Durano, La prevenzione dei fenomeni corruttivi e la disciplina del subappalto nel d.lgs. n. 50/2016 (Amministrativamente n. 1-2/2018).
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Sommario: Sommario: 1. Premessa. – 2. Il Nuovo Codice dei Contratti Pubblici: il d.lgs. n. 50/2016 – 3. Il codice dei contratti pubblici a la disciplina del subappalto. – 4. Cenni conclusivi.
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Abstract
Le discipline normative in ottica di anticorruzione (mediante l’istituzione di strumenti di prevenzione della corruzione) pervadono molteplici settori delle attività economiche, che devono essere ispirate ai principi concorrenziali e di parità di trattamento di derivazione comunitaria. Così, anche nel Codice dei Contratti pubblici, recepito nel nostro ordinamento con il D.lgs. n. 50/2016, hanno trovato ampio spazio strumenti e normative aventi una funzione anticorruzione, considerato che anche tale disciplina è stata nel tempo negativamente influenzata dal diffondersi di fenomeni corruttivi. La presa di coscienza di una “nuova” multiforme fisionomia del concetto di corruzione, riconducibile nell’alveo degli aspetti più patologici e occulti della maladministration, ha imposto al Legislatore moderno di approntare opportuni strumenti preventivi, consapevole che gli strumenti giuridici possono avere una loro utilità se vengono emanate quelle che Beccaria avrebbe definito leggi non paurose ma “prevenitrici dei delitti”.

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: L. Ferrara, La frammentazione della disciplina della rigenerazione urbana, tra micro interventi di sussidiarietà orizzontale e grandi progetti nazionali (Amministrativamente n. 1-2/2018).
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Sommario: 1. Rigenerazione urbana, baratto amministrativo ed interventi di partenariato sociale nel nuovo Codice dei contratti pubblici. – 2. La gestione consortile delle aree verdi urbane e degli immobili di origine rurale. – 3. La disciplina delle opere di interesse locale. – 4. I profili fiscali e tributari. - 5. La rigenerazione urbana dei siti di interesse strategico nazionale. Il caso del sito di Bagnoli.
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Abstract
Il contributo ha ad oggetto la disamina di alcuni modelli di «rigenerazione urbana» introdotti negli ultimi anni. Il nuovo codice dei contratti pubblici ha ricollocato alcuni istituti di «micro» rigenerazione urbana, tra cui l'affidamento a cittadini di spazi urbani, edifici e aree verdi, tra gli interventi di partenariato pubblico privato previsti nella parte IV. Tuttavia, a fronte degli strumenti più innovativi, la disciplina delle riqualificazioni e trasformazioni urbane con gli strumenti tradizionali del diritto urbanistico viene messa alla prova dalle discipline peculiari di bonifica e rigenerazione di alcuni grandi siti di interesse nazionale, come l'area di Bagnoli-Coroglio.

ATTI AMMINISTRATIVI: A. Amodio, Il principio di trasparenza e il procedimento amministrativo: dal diritto di accesso documentale al diritto di accesso civico (Amministrativamente n. 1-2/2018).
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Sommario: 1. Il principio di trasparenza nell’evoluzione normativa. 2. La trasparenza come “need to know”: il diritto di accesso documentale. 3. La trasparenza come “right to know”: il diritto di accesso civico. 4. L’accesso civico “semplice” e l’accesso civico “generalizzato”: alcune considerazioni nel confronto tra le due forme di disclosure. 5. Conclusioni: la pubblica amministrazione da “palazzo” a “casa di cristallo”?
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Abstract
Il principio di trasparenza, con riguardo all’accessibilità di documenti, dati e informazioni in possesso della pubblica amministrazione, ha conosciuto nel nostro ordinamento un’evoluzione del tutto peculiare, passando dal “need to know” dell’accesso documentale di cui alla legge n. 241/1990, al “right to know” dell’accesso civico di cui al decreto legislativo n. 33/2013. In circa un quarto di secolo, si è cioè assistito a un progressivo ampliamento della sua funzione: dalla sostanziale esclusiva tutela di situazioni giuridiche soggettive, alle più ampie finalità di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche, nonché di tutelare i diritti dei cittadini e promuovere la partecipazione democratica degli stessi all’attività amministrativa e al dibattito pubblico. In particolare, il contributo ha una finalità ricognitiva dello stato dell'arte della normativa vigente e delle principali posizioni emerse in materia con riguardo agli istituti dell’accesso documentale e dell’accesso civico “semplice” e “generalizzato”, nonché i riflessi che tale disciplina della trasparenza proietta sulla gestione e organizzazione della pubblica amministrazione, chiamata in breve tempo a trasformarsi (forse e finalmente) da “palazzo” a “casa di cristallo”.

QUESITI & PARERI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Tetto spesa polizia locale.
Domanda
Le assunzioni delle polizia locale avvalendosi della deroga di cui all’art. 35-bis del d.l. 113/2018, devono comunque rispettare il “tetto” di spesa di personale in valore assoluto?
Risposta
Le assunzioni extra di polizia municipale, effettuate ai sensi dell’articolo 35-bis del decreto sicurezza, non possono essere fatte in deroga ai vincoli di spesa di personale contenuti nell’articolo 1, commi 557 e 562, della legge 296/2006, che, ricordiamo, per i Comuni oltre i mille abitanti è dato dalla media delle spese di personale del triennio 2011/2013, mentre per i Comuni fino a mille abitanti dal “tetto” del 2008.
Questa è la conclusione cui giungono i magistrati contabili della Lombardia con due diverse, ma identiche nei contenuti, deliberazioni: la n. 49/2019/PAR (depositata il 13.02.2019) e la n. 61/2019/PAR (depositata il 26.02.2019).
Il dubbio posto dagli Enti richiedenti il parere nasce nell’osservare che nella formulazione dell’articolo 35-bis del decreto legge 113/2018 viene previsto espressamente che le assunzioni possono essere fatte “… fermo restando il conseguimento degli equilibri di bilancio …” ma non anche il rispetto dei vincoli in materia di spesa di personale contenuti nell’articolo 1, commi 557 e 562, della legge 296/2006, e, pertanto, si chiede se il valore della spesa destinata alle assunzioni di personale appartenente alla polizia municipale possa essere fatta in deroga ai predetti vincoli di spesa di personale.
Nelle deliberazioni in esame viene chiarito che i vincoli imposti dal legislatore statale sulla spesa del personale rappresentano un principio di coordinamento della finanza pubblica, salvo eventuali deroghe previste dalla legge.
Pertanto, le assunzioni extra di polizia municipale, che i Comuni intendono effettuare avvalendosi del decreto sicurezza, devono avvenire nel rispetto dei vincoli di spesa di personale contenuti nell’articolo 1, commi 557 e 562, della legge 296/2006.
Il summenzionato principio vale anche nel caso in cui all’assunzione si provveda tramite l’istituto della mobilità (14.03.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTIAffidamento nell’ambito dei 40mila euro e confronto tra preventivi/offerte.
Domanda
Nell’ambito di un procedimento di acquisizione di una commessa di esiguo importo (nell’ordine di 15mila euro), il RUP –in assenza di regolamentazione interna– ha proposto l’avvio di un procedimento semplificato ai sensi dell’articolo 36, comma 2, lett. a), con richiesta di diversi preventivi senza, però, procedere alla definizione di criteri per la valutazione delle offerte presentate.
A detta del RUP, visto che si tratta di un procedimento semplificato e di una ipotesi che ammette anche l’affidamento diretto, nel caso di specie non sarebbe necessario fissare dei criteri di valutazione. Come responsabile del servizio ho, momentaneamente, sospeso il procedimento e vorremmo avere dei chiarimenti in merito.
Risposta
Il legislatore, come noto, con il nuovo codice dei contratti ha espresso una “prevalutazione” sull’adeguatezza dei procedimenti di acquisto utilizzabili in ambito ultra e sotto soglia comunitaria. A tal proposito, per effetto di tale “prevalutazione” ha individuato dei procedimenti estremamente semplificati caratterizzati, in particolare, dalla possibilità di affidamento diretto (per importi inferiori ai 40mila euro) per poi strutturare della procedure ad invito con la individuazione di un numero minimo di competitori.
Nel caso sottoposto all’attenzione –in assenza di specifiche particolari declinate in un regolamento interno della stazione appaltante– il RUP ha proposto piuttosto che l’affidamento diretto una procedura semplificata ad inviti e quindi la prospettiva di far competer e più soggetti/operatori economici.
Ora, pur vero che le prerogative della stazione appaltante si potevano esplicitare anche attraverso l’affidamento diretto, tra l’altro, anche con grande libertà sulla motivazione ma è altrettanto vero che nel momento in cui la procedura anche informale venisse strutturata innestando un meccanismo a competizione (il confronto e quindi la scelta tra più proposte tecnico/economiche) è del tutto evidente che “a monte” della procedura occorre fissare le regole partecipative e di competizione per ossequiare i tradizionali canoni di pubblicità, trasparenze e soprattutto pari condizioni di trattamento.
Pertanto si ritiene corretta la decisione del responsabile di servizio –che firma a valenza esterna ed impegna la stazione appaltante– di sospendere un procedimento di cui comunque risponde, fermo restando le responsabilità non solo interne del RUP.
A tal proposito è di sicuro rilievo –e di indubbi utilità pratica– un recentissimo parere espresso dall’ANAC in sedi di precontenzioso che affronta un caso del tutto simile.
Nel parere reso con la deliberazione n. 75 del 07.02.2019 si legge che “la semplificazione della procedura degli affidamenti di importo inferiore a 40.000,00 euro, introdotta dal d.lgs. n. 56/2017 allo scopo di consentire alla stazione appaltante di agire in modo più snello e flessibile con aumentati margini di autonomia gestionale, non ha intaccato l’obbligo del rispetto dei principi di cui all’art. 30, comma 1, d.lgs. n. 50/2016 (cfr. TAR Piemonte Torino 22.03.2018, n. 353), stante il chiaro tenore letterale del comma 1 dell’art. 36.
Ciò implica che, in caso di consultazione di più operatori economici, i principi di libera concorrenza, non discriminazione e trasparenza impongono alla stazione appaltante di predefinire e rendere noti a tutti i soggetti interessati tramite l’atto iniziale della procedura, oltre alle caratteristiche delle opere, dei beni, dei servizi che si intendono acquistare, l’importo massimo stimato dell’affidamento e i requisiti di partecipazione, anche i criteri per la selezione degli operatori economici e delle offerte
”.
Indicazioni che ben potrebbero essere indicate in un regolamento interno e/o in un indirizzo di carattere generale adottato dallo stesso Segretario comunale e/o dai responsabili di servizio in sede di conferenza di servizi (13.03.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa rilevazione periodica per l’anno 2019 sulle pubblicazioni obbligatorie in amministrazione trasparente.
Domanda
Ogni anno, in questo periodo, il Nucleo di Valutazione effettua una verifica sulle pubblicazioni obbligatorie inserite nella sezione di Amministrazione Trasparente del nostro sito web istituzionale, ma non abbiamo ancora ricevuto nessuna indicazione in merito. È già stato adottato qualche atto in materia?
Risposta
Ciascun Organismo Indipendente di Valutazione (da ora OIV), o altro organismo con funzioni analoghe (Nucleo di Valutazione, di seguito NdV) nel prossimo mese di aprile dovrà :
   • verificare l’avvenuta pubblicazione da parte dell’amministrazione in cui opera delle categorie di dati, informazioni e documenti individuati dall’Autorità Nazionale Anti Corruzione ;
   • valutarne la qualità in termini di completezza, aggiornamento e formato ;
   • assegnare un “voto” al livello di pubblicazione.
Tale verifica, che ha per oggetto il corretto assolvimento degli obblighi di trasparenza [articolo 14, comma 4, lettera g), del Decreto legislativo n. 150/2009], interessa le amministrazioni e gli enti destinatari del decreto legislativo n. 33 del 2013 e, pertanto, amministrazioni pubbliche, enti pubblici economici, ordini professionali, società ed enti di diritto privato in controllo pubblico, società partecipate dalle pubbliche amministrazioni, agli enti privati di cui all’art. 2-bis, comma 3, secondo periodo, del d.lgs. 33/2013
Per il 2019, l’Autorità Nazionale Anti Corruzione (di seguito ANAC) ha adottato la deliberazione n. 141 del 27.02.2019, rubricata “Attestazioni OIV o strutture con funzioni analoghe, sull’assolvimento degli obblighi di pubblicazione al 31.03.2019 e attività di vigilanza dell’Autorità”.
Tale provvedimento fornisce precise indicazioni su “cosa e come fare” ai soggetti destinatari degli adempimenti di trasparenza e ai rispettivi OIV/NdV.
In particolare, l’Autorità ha individuato le specifiche categorie di dati su cui effettuare il controllo e i relativi criteri; ha approvato la modulistica (griglie di rilevazione e schemi per le verifiche e l’attestazione) ed ha definito il timing degli adempimenti. Non solo. Con la stessa deliberazione, l’Autorità ha fornito le prime indicazioni sull’attività di vigilanza che intende effettuare nel corso del 2019, anche a seguito dell’analisi degli esiti delle attestazioni.
Per le pubbliche amministrazioni, l’ANAC ha disposto che l’attività di monitoraggio debba concentrarsi sulle seguenti sotto sezioni di Amministrazione Trasparente:
   1) Provvedimenti (art. 23);
   2) Bilanci (art. 29);
   3) Pagamenti dell’amministrazione (artt. 4-bis, 33, 36 e 41);
   4) Opere pubbliche (art. 38);
   5) Pianificazione e governo del territorio (art. 39);
   6) Informazioni ambientali (art. 40).
In buona sostanza, l’OIV/NdV deve effettuare entro il 30.04.2019 –data ultima per la pubblicazione dell’attestazione finale– tre attività propedeutiche al rilascio dell’attestazione:
   • verificare l’avvenuta pubblicazione di ciascun dato/informazione/documento previsto nella griglia allegata alla citata deliberazione ANAC;
   • controllare la completezza, l’aggiornamento ed il formato di tipo aperto di ciascun dato/informazione/documento (sul significato di completezza; aggiornamento e formato aperto, si rinvia al Documento tecnico sui criteri di qualità della pubblicazione dei dati, Allegato 2 alla deliberazione dell’Autorità n. 50 del 04.07.2013);
   • assegnare il relativo punteggio con l’indicazione di un valore, in relazione al grado di adempimento da parte dell’amministrazione o ente soggetto a controllo.
Tali verifiche, che saranno effettuate con il supporto del Responsabile della Prevenzione della Corruzione e della Trasparenza (RPCT) e, qualora necessario, dei responsabili della trasmissione e della pubblicazione dei documenti, devono essere effettuate con riferimento a quanto pubblicato al 31.03.2019.
Ciò significa, com’è ovvio, che l’OIV/NdV non potrà prendere in considerazione dati ed informazioni che dal sistema informatico risultino pubblicati oltre il 31.03.2019.
Tale precisazione è doverosa per evidenziare agli operatori che c’è poco tempo a disposizione per integrare o rettificare le pubblicazioni attualmente consultabili nelle sotto sezioni oggetto della rilevazione.
A conclusione del monitoraggio, l’organismo dovrà attestare –utilizzando l’apposito modello fornito dall’ANAC– di avere effettuato la verifica prevista, con le modalità indicate nella deliberazione n. 141, del 27.02.2019.
L’attestazione dell’OIV/NdV dovrà essere pubblicata, entro il 30.04.2019, nella sezione del sito web istituzionale di Amministrazione trasparente > Controlli e rilievi sull’Amministrazione > OIV o altri organismi con funzioni analoghe.
Ultima raccomandazione : nessun invio è previsto all’ANAC (11.03.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI: Verbalizzazione delle sedute consiliari. Interventi di singoli consiglieri.
   1) L’interpretazione delle norme sul funzionamento del consiglio comunale, tra cui rientrano quelle in merito alla verbalizzazione delle sedute del consiglio, compete unicamente all’organo che le ha elaborate, quindi allo stesso organo consiliare.
   2) Qualora il regolamento preveda che il verbale di deliberazione contenga gli elementi principali dei singoli interventi effettuati dagli amministratori locali, pare non coerente con tale previsione che la delibera comunale, con riferimento a tali interventi, si limiti ad un rinvio alla registrazione audio allegata alla stessa.

Il Comune chiede un parere in merito alla verbalizzazione delle sedute del consiglio e della giunta comunale. In particolare, desidera sapere se sia legittimo che la delibera comunale, con riferimento ai singoli interventi effettuati dagli amministratori locali, si limiti ad un rinvio alla registrazione audio allegata alla stessa e, qualora venga richiesto di “procedere ad una verbalizzazione scritta perfettamente conforme ad ogni parola utilizzata” dal consigliere/assessore durante l’intervento, possa considerarsi legittimo richiedere allo stesso di “fornire copia del testo scritto del proprio intervento in formato word”.
L’articolo 8 dello statuto comunale, rubricato “Deliberazioni degli organi collegiali”, al comma 2, prevede che: “L’istruttoria e la documentazione delle proposte di deliberazione avvengono attraverso i responsabili degli uffici; la verbalizzazione degli atti e delle sedute del consiglio e della giunta è curata dal segretario comunale, secondo le modalità e i termini stabiliti dal regolamento per il funzionamento del consiglio”.
Stante la previsione statutaria dell’Ente segue che le norme contenute nel regolamento per il funzionamento del consiglio comunale nella parte relativa alla verbalizzazione delle sedute consiliari si applicano anche alla verbalizzazione delle sedute giuntali.
L’articolo 21 di tale regolamento, rubricato “Processi verbali”, recita: “1. I verbali delle adunanze sono compilati dal Segretario comunale, coadiuvato dalla Segreteria e costituiscono prova autentica delle deliberazioni adottate dal Consiglio, può avvalersi della registrazione con mezzi elettronici. I consiglieri devono chiedere espressamente al Segretario comunale l’inserimento integrale dei propri interventi consegnandone copia del testo scritto.
2. Per le deliberazioni concernenti persone, deve farsi constare dal verbale che si è proceduto alla votazione per scrutinio segreto.
3. Tutti i verbali di deliberazione devono indicare il testo integrale della parte dispositiva costituente la proposta, il numero dei voti resi pro e contro la proposta stessa e la proclamazione fatta dal Sindaco, nonché l’indicazione dei nominativi dei consiglieri che hanno effettuato interventi durante la discussione riportandone per sintesi gli elementi più significativi.
4. Dal verbale dovranno infine risultare: a) il giorno, l’ora e il luogo dell’adunanza; b) il nome ed il cognome di chi presiede il consiglio comunale, del Segretario e degli eventuali scrutatori; c) se si tratta di sessione ordinaria o sessione straordinaria; d) l’oggetto della proposta su cui il Consiglio è chiamato a deliberare; e) il verbale delle adunanze deve contenere il numero dei Consiglieri presenti alla votazione sui singoli argomenti, con l’indicazione del nome di quelli che si sono astenuti e di quelli contrari.
5. Non sono inserite nel verbale le dichiarazioni ingiuriose, contrarie alle leggi, all’ordine pubblico e al buon costume e di protesta contro i provvedimenti adottati.
6. Ogni consigliere può pretendere che nel verbale si facciano constare le motivazioni del suo voto.
7. I verbali sono sottoscritti dal Presidente della seduta e dal Segretario
”.
Premesso che l’interpretazione delle norme sul funzionamento del consiglio comunale compete unicamente all’organo che le ha elaborate, quindi allo stesso organo consiliare, di seguito si esprimono, in via meramente collaborativa, delle considerazioni che possano essere di utilità all’Ente nella soluzione della questione posta.
Con riferimento al primo quesito posto afferente alla possibilità che il verbale di deliberazione rinvii, quanto ai singoli interventi consiliari, alla registrazione che verrebbe allegata allo stesso, si ritiene di fornire risposta negativa. Ad un tanto sembra ostare la previsione di cui all’articolo 21, comma 3, nella parte in cui dispone che il verbale di deliberazione deve tra l’altro riportare “l’indicazione dei nominativi dei consiglieri che hanno effettuato interventi durante la discussione riportandone per sintesi gli elementi più significativi”.
Dal tenore letterale della disposizione citata deriva, infatti, che il verbale non può limitarsi ad un semplice rinvio degli interventi effettuati dai consiglieri dovendo contenere gli elementi principali dello stesso. Benché la riproduzione degli interventi, ancorché in maniera succinta, non rientri tra gli elementi essenziali che, in generale, il verbale deve contenere
[1], pur tuttavia tale essenzialità può essere imposta da una specifica previsione regolamentare sul punto, come nel caso in esame.
Con riferimento al secondo quesito posto relativo alle modalità di riproduzione dell’intervento integrale di un consigliere soccorre il disposto di cui al comma 1 dell’articolo 21 del regolamento sul funzionamento del consiglio nella parte in cui prevede che: “I consiglieri devono chiedere espressamente al Segretario comunale l’inserimento integrale dei propri interventi consegnandone copia del testo scritto.”
La previsione regolamentare richiede unicamente la consegna di un testo scritto da parte del consigliere non specificando che lo stesso debba essere presentato su supporto informatico. Nel silenzio della previsione regolamentare sul punto si ritiene rientri nella discrezionalità del consigliere interessato aderire ad un’eventuale richiesta di presentazione del proprio intervento scritto anche mediante consegna di idoneo dispositivo digitale.
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[1] In tal senso si veda TAR Pescara, Abruzzo, sez. I, sentenza del 14.01.2010, n. 56 la quale recita: “Il processo verbale relativo agli interventi effettuati dai singoli consiglieri non è essenziale ai fini della valida esistenza di un atto deliberativo assunto dal Consiglio comunale, essendo essenziali, ai sensi dei principi generali che disciplinano la validità dell'atto amministrativo collegiale, solo la data di adozione, l'indicazione dei presenti e degli assenti, il contenuto dispositivo e l'esito della votazione”  (08.03.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

APPALTIVantaggi gara telematica seduta pubblica virtuale.
Domanda
Quali vantaggi presenta una procedura di gara svolta attraverso le piattaforme telematiche?
Risposta
Le gare svolte mediante piattaforme telematiche, al di là dell’obbligo normativo stabilito dalle spending review e dell’autonomia negoziale che l’art. 37 del d.lgs. 50/2016 riconosce agli enti che le utilizzano, presentano alcuni vantaggi che a livello pratico si traducono in un’effettiva semplificazione in termini organizzativi e procedurali.
Oltre alla facilità nell’invitare gli operatori economici, alla riduzione del rischio derivante dalla cattiva conservazione o dalla tardiva consegna dei plichi da parte dell’ufficio protocollo, alla possibilità di nominare alcuni componenti interni della commissione giudicatrice, in quanto ai sensi dell’art. 77 del codice le gare telematiche sono considerate come gare “non complesse”, il vantaggio maggiore è sicuramente costituito dalla seduta pubblica virtuale.
La giurisprudenza si è pronunciata più volte su questo aspetto delle gare telematiche, definito in modo puntuale nella sentenza del TAR Campania, Napoli, sez. I sent. n. 725 del 02.02.2018, dove «il principio di pubblicità delle sedute deve essere rapportato non ai canoni storici che hanno guidato l’applicazione dello stesso, quanto piuttosto alle peculiarità e specificità che l’evoluzione tecnologica ha consentito di mettere a disposizione delle procedure di gara telematiche, in ragione del fatto che la piattaforma elettronica che ha supportato le varie fasi di gara assicura l’intangibilità del contenuto delle offerte (indipendentemente dalla presenza o meno del pubblico) posto che ogni operazione compiuta risulta essere ritualmente tracciata dal sistema elettronico senza possibilità di alterazioni; in altri termini, è garantita non solo la tracciabilità di tutte le fasi, ma proprio l’inviolabilità delle buste elettroniche contenenti le offerte e l’incorruttibilità di ciascun documento presentato» (Consiglio di Stato Sezione V 21.11.2017 n. 5388; Consiglio di Stato sez. III 25.11.2016 n. 4990; Consiglio di Stato sez. III 03.10.2016 n. 4050).
Tale garanzia di trasparenza, imparzialità e immodificabilità delle offerte nelle procedure telematiche è tale da prevalere anche qualora nella lex specialis l’amministrazione aggiudicatrice si sia autovincolata alla seduta pubblica fisica, senza poi darvi seguito, in ragione dell’irrilevanza dell’omissione (TAR Puglia, Bari, sez. III sent. n. 1112 del 02.11.2017).
Altro aspetto positivo delle procedure di gara telematiche è la deroga allo “stand still”, ovvero il termine dilatorio per la stipula del contratto dei trentacinque giorni dall’invio della comunicazione di aggiudicazione, che non si applica, ai sensi dell’art. 32, co. 10, lett. b) nel caso di acquisti effettuati tramite il mercato elettronico nel sotto soglia.
Rilevante, inoltre, in termini di semplificazione la possibilità di formalizzare il rapporto negoziale, quale titolo giuridico che legittima il pagamento della prestazione, nel caso di approvvigionamenti effettuati tramite il Mepa, direttamente sulla piattaforma, mediante sottoscrizione digitale di un contratto generato in automatico dal sistema stesso, con disapplicazione nel caso di forniture e servizi, ai sensi dell’art. 13 della legge n. 52/2012, dell’obbligo di richiedere i diritti di segreteria (06.03.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Parere in merito all'applicazione dell'art. 23-ter, comma 2, del d.P.R. 380/2001 in tema di cambio di destinazione d'uso – Comune di Velletri (Regione Lazio, nota 06.03.2019 n. 175831 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Oggetto: Parere in merito al rapporto tra strumento urbanistico generale e piano di assetto della rete distributiva - Comune di Rieti (Regione Lazio, nota 05.03.2019 n. 174004 di prot.).

INCARICHI PROFESSIONALIIncarichi legali: come assolvere l’obbligo di pubblicazione.
Domanda
Gli incarichi di patrocinio legale si pubblicano ancora nella sezione consulenti e collaboratori, come prevede l’art. 15 del d.lgs. 33/2013?
Risposta
L’articolo 15, del decreto Trasparenza (decreto legislativo 14.03.2013, n. 33), impone la pubblicazione degli incarichi di consulenza e di collaborazione nella relativa sottosezione del sito istituzionale. Le sanzioni per la mancata pubblicazione sono piuttosto pesanti, comportando una procedimentio disciplinare ed una sanzione pari all’importo pagato dal dirigente/responsabile di servizio che ha affidato l’incarico. L’Autorità Anticorruzione (ANAC) si è espressa in merito alle pubblicazione degli incarichi legali, con la Faq Trasparenza 6.6, emanata in vigenza del vecchio codice dei contratti pubblici (d.lgs. 163/2006).
In sintesi, ritiene che i singoli incarichi di patrocinio siano inquadrabili come consulenze e dunque da pubblicare nella relativa sottosezione, mentre l’affidamento della complessiva gestione del servizio di assistenza legale, ivi inclusa la difesa giudiziale sia qualificabile come appalto di servizi e, quindi, le relative informazioni siano da pubblicare nella sottosezione “bandi di gara e contratti”, secondo le disposizioni dell’art. 37, del d.lgs. 33/2013.
Detta posizione è coerente con la giurisprudenza del Consiglio di Stato, espressa nella sentenza n. 2730/2012, nella quale si sostiene che la difesa in giudizio è prestazione d’opera professionale e che la selezione dell’avvocato, pur non soggiacendo all’obbligo di espletamento di una procedura comparativa di stampo concorsuale, è soggetta ai principi generali dell’azione amministrativa in materia di imparzialità, trasparenza e adeguata motivazione onde rendere possibile la decifrazione della congruità della scelta fiduciaria posta in atto rispetto al bisogno di difesa da appagare.
Nella Faq. 6.5, l’ANAC, considerata l’eterogeneità di detti incarichi, rimette a ciascuna amministrazione l’individuazione delle fattispecie non riconducibili alle categorie degli incarichi di collaborazione e consulenza, dandone adeguata motivazione.
Certo, qualificare un incarico di difesa in giudizio, quale consulenza non è indolore in quanto sarà poi soggetti ai limiti procedurali e di valore stabiliti per le stesse, come interpretati dalla magistratura contabile (art. 3, comma 56, legge 244/2007, art. 6, comma 7, d.l. 78/2010, art. 1, comma 173, della legge 266/2005).
Il nuovo codice dei contratti (d.lgs. 18.04.2016, n. 50), ha portato nell’alveo degli appalti la rappresentanza legale di un cliente da parte di un avvocato. L’articolo 17 è, infatti, esplicito nel definire anche detta rappresentanza “appalto”, pur escludendo l’applicazione del codice per le procedure di affidamento, fermo restando i principi generali indicati nell’articolo 4. Nella nozione europea, infatti, non vi è distinzione tra appalto di servizi e prestazione d’opera, come rinvenibile nella tradizione giuridica italiana normata nel Codice civile.
Le linee guida ANAC n. 12, approvate con delibera n. 907 del 24.10.2018, in materia di affidamento di incarichi legali, pur sottoponendo detti affidamenti ai principi di cui all’articolo 4 Codice dei Contratti (affidamento servizi esclusi), qualificano la rappresentanza legale come contratto d’opera, sul solco del parere reso dal Consiglio di Stato.
Di diverso avviso è, invece, la magistratura contabile, la quale qualifica come appalto di servizi il patrocino legale (Corte dei Conti, Sezione regionale di controllo per l’Emilia-Romagna, delibere n. 74-153/2017, 4-35-82-105-144/2018).
Nella citata deliberazione n. 144, interessante è quanto affermato in ordine agli obblighi di trasparenza:
Questa sezione ritiene che il citato articolo, lì ove riferisce l’obbligo genericamente agli “incarichi di collaborazione o consulenza”, debba necessariamente considerarsi riferito anche agli incarichi di patrocinio legale affidati all’esterno; tale lettura trova un riscontro da parte dell’ANAC, sia pure limitatamente a quanto espresso in sede di FAQ in materia di trasparenza (FAQ 6.6). Ciò, ovviamente precedentemente rispetto alla riconduzione degli stessi, ad opera del codice dei contratti pubblici, agli appalti di servizi, in quanto ora devono conseguentemente essere pubblicati, ai sensi dell’art. 37 del codice d.lgs. n.33/2013, nella sottosezione (di “Amministrazione trasparente”) dedicata ai Bandi di gara e contratti.
Conclusivamente, si ritiene che, motivando adeguatamente, anche con riferimento alla Faq 6.5 e alla menzionata delibera n. 144, gli incarichi di patrocinio legale vadano correttamente pubblicati nella sottosezione “Bandi di gara e contratti”, a norma dell’articolo 29, del codice dei contratti ora vigente, acquisendo il relativo Codice Identificativo di Gara (CIG) (05.03.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALIRelazione di fine mandato. Le scadenze per la sua predisposizione, pubblicazione ed invio alla corte dei conti.
Domanda
L’amministrazione comunale del mio ente è in scadenza nei prossimi mesi, essendo stata eletta nel 2014. Quali sono i termini per la predisposizione, l’invio alla Corte dei conti e la pubblicazione della relazione di fine mandato?
Risposta
Come noto l’obbligo di predisporre la relazione di fine mandato è stato introdotto dall’art. 4 del d.lgs. 149/2011. Il comma 2 stabilisce che essa venga redatta dal responsabile del servizio finanziario o dal segretario generale e sia poi sottoscritta dal presidente della provincia o dal sindaco non oltre il sessantesimo giorno antecedente la data di scadenza del mandato. Entro e non oltre quindici giorni dopo la sottoscrizione della relazione, essa dovrà risultare certificata dall’organo di revisione dell’ente locale e, nei tre giorni successivi la relazione e la certificazione devono essere trasmesse dal presidente della provincia o dal sindaco alla competente sezione regionale di controllo della Corte dei conti.
E’ poi previsto che la relazione e la certificazione siano pubblicate sul sito istituzionale dell’ente entro i sette giorni successivi alla data di certificazione da parte dall’organo di revisione, con l’indicazione della data di trasmissione alla sezione regionale di controllo della Corte dei conti. Il dubbio che si pone per molti operatori degli enti locali attiene alla modalità di conteggio dei sessanta giorni dalla data di scadenza del mandato. Sul punto è intervenuta la Corte dei conti con deliberazione della Sezione Autonomie n. 15/2016.
In particolare la Corte, nell’interpretare la norma di legge, afferma che debba ‘ritenersi che il mandato del Sindaco o del Presidente della Provincia abbia inizio con la proclamazione tanto è vero che tali organi, appena proclamati eletti, hanno il potere di compiere atti ed assumere provvedimenti immediatamente, senza attendere alcuna legittimazione successiva da parte del Consiglio’.
Pertanto, alla luce di ciò i sessanta giorni vengono conteggiati proprio con riferimento alla suddetta data di proclamazione degli eletti da parte dell’adunanza dei presidenti di seggio. Per gli enti che sono andati ad elezione il 25/05/2014 e per i quali la proclamazione è avvenuta il giorno successivo (26/05), la relazione dovrà essere predisposta entro il 27 marzo prossimo. Analogamente per gli enti che sono andati al ballottaggio il 08/06/2014, per i quali la proclamazione è avvenuta il 09/06/2014, il termine per la predisposizione della relazione è fissato per il 10 aprile prossimo.
Il successivo comma 4 del medesimo articolo 4 del d.lgs. 149/2011 definisce il contenuto della relazione. Il modello da utilizzare è stato poi approvato con d.m. Interno del 26/04/2013. In merito agli obblighi di pubblicazione sul sito dell’ente si evidenzia come la legge si limiti a fissarne la data: la pubblicazione dovrà infatti avvenire entro i sette giorni successivi alla data di certificazione effettuata dall’organo di revisione, con l’indicazione della data di trasmissione alla sezione regionale di controllo della Corte dei conti.
Non viene specificato dove la relazione debba essere pubblicata. Non dice nulla al riguardo neppure il d.lgs. 33/2013 in materia di trasparenza degli enti locali. Nel silenzio della norma si ritiene opportuno che la relazione sia pubblicata all’interno della sezione ‘Amministrazione trasparente’ del sito web istituzionale, nella sottosezione ‘Organizzazione’ > ‘Organi di indirizzo politico-amministrativo’. È inoltre opportuno per una maggiore trasparenza e visibilità, prevederne la pubblicazione anche all’interno della home page del sito.
Infine attenzione alle sanzioni: il comma 6 prevede infatti che in caso di mancato adempimento dell’obbligo di redazione e di pubblicazione nel sito dell’ente, della relazione di fine mandato, al sindaco e, qualora non abbia predisposto la relazione, al responsabile del servizio finanziario o al segretario generale è ridotto della metà, con riferimento alle tre successive mensilità, rispettivamente, l’importo dell’indennità di mandato e degli emolumenti. Il sindaco è inoltre tenuto a dare notizia della mancata pubblicazione della relazione, motivandone le ragioni, nella home page del sito medesimo (04.03.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOInvio PTFP sindacati.
Domanda
Il Piano triennale dei fabbisogni di un comune va inviato per informazione preventiva ai sindacati?
Risposta
L’art. 6 del d.lgs. 165/2001 prevede al comma 4 che “nell’adozione degli atti di cui al presente comma, è assicurata la preventiva informazione sindacale, ove prevista nei contratti collettivi nazionali”.
La risposta, quindi, va cercata all’interno del CCNL 21.05.2018 delle Funzioni Locali e a nostro parere non vi è alcuna indicazione esplicita a tal proposito. Quindi la risposta al quesito è negativa.
Riteniamo, inoltre, che non sia possibile individuare eventuali diverse “aperture” nella direzione dell’obbligo di informazione preventiva in altri contesti del CCNL citato, ma che l’elenco delle materie oggetto di informazione, contrattazione o confronto sia tassativo.
Ricordiamo, inoltre, proprio per fare un esempio di un CCNL che ha previsto una relazione sindacale che nel Comparto Istruzione e Ricerca all’art. 68 comma 10 vi è scritto: Sono oggetto di informazione […] “il piano dei fabbisogni di personale”.
Quindi, in quel contratto è stata voluta la relazione sindacale, nel CCNL Funzioni Locali, evidentemente no (28.02.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI FORNITURE  ESERVIZIRapporti tra rotazione e acquisti extra mercato elettronico fino a 5mila euro.
Domanda
In uno degli ultimi contributi pubblicati sulla rivista si faceva riferimento alle indicazioni espresse sull’innalzamento della soglia (fino a 5mila euro) per cui il RUP non ha alcun obbligo di procedere con l’acquisto attraverso il mercato elettronico.
Vorremmo dei chiarimenti sui rapporti tra questa opzione e il vincolo della rotazione considerato che le linee guida n. 4 dell’ANAC ammettono delle deroghe nel caso di micro acquisti.
Risposta
Come si puntualizza nel quesito il legislatore della legge di bilancio (legge 145/2019) ha introdotto alcune semplificazioni in tema di procedimenti di acquisto. In particolare, per ciò che in questa sede interessa con il comma 130 ha modificato la legge finanziaria n. 296/2006 innalzando la soglia di “franchigia” rispetto al generale obbligo degli acquisti di beni e servizi in ambito sottosoglia dal mercato elettronico.
Dal primo gennaio 2019, in effetti, il RUP (in quanto soggetto competete a proporre i procedimenti di acquisto) potrebbe suggerire (o direttamente avviare qualora coincidesse con la figura del dirigente/responsabile del servizio) acquisti extra mercato per importi fino ai 5mila euro (importi inferiori da intendersi al netto dell’IVA).
La determinazione di affidamento (e già prima, se il procedimento non si sostanziasse in un affidamento diretto) non richiede neppure particolari motivazioni considerato che è intervenuta nel caso di specie una “prevalutazione” del legislatore.
Ciò che il RUP deve evitare, evidentemente, è da un lato il frazionamento della commessa (entro l’anno finanziario) nel secondo caso chiarire i rapporti con la rotazione.
A sommesso avviso, nel momento in cui il RUP procedesse con un acquisto extra mercato elettronico deve aver presente il fabbisogno dell’anno. Pertanto, se ha cognizione modo dettagliato del fabbisogno e questo superasse l’importo di cui si parla non è corretto –ad avviso di chi scrive– frazionare l’acquisto perché azione corretta è quella di procedere con una gara (pur informale, pur nei termini di una procedura negoziata semplificata o, ancora, in una procedura aperta). Qualora, nonostante quanto appena evidenziato, il RUP di determinasse con l’utilizzo dell’opzione è chiaro che la stessa non potrà essere reiterata per violazione della norma.
Con riferimento ai rapporti con la rotazione il RUP a sommesso parere, deve rammentare che la rotazione costituisce criterio cardine dal quale ci si può discostare solo con adeguata motivazione (al netto delle previsioni di deroga entro i mille euro). Pertanto si tratta di assunzione di precise responsabilità. Nel caso di un primo acquisto entro i 5mila euro e poi successiva procedura negoziata semplificata, il problema è quello se si possa o meno invitare il primo affidatario.
Ciò può avvenire solamente con adeguata motivazione nella determina a contrattare. Problemi non si pongono nel caso in cui la competizione risulti formalmente (con una adeguato avviso pubblico). È bene rammentare, infine, che l’ANAC nel sottoporre a consultazione la modifica delle linee guida n. 4 (in funzione di adeguamento alle modifiche apportate dalla legge di bilancio 145/2018) ha richiesto agli stakeholders riflessioni anche su questo aspetto ovvero sui rapporti tra rotazione e acquisti extra mercato elettronico fino a 5mila euro con alcune considerazioni.
Sotto si riporta integralmente la puntualizzazione espressa dall’autorità anticorruzione (e le preoccupazioni di una eventuale deroga al criterio dell’alternanza: “Altra esigenza di modifica che deriva dalla novella introdotta con la richiamata legge di bilancio potrebbe attenere alla soglia di rilevanza individuata per il ricorso alla rotazione. Al punto 3.7 delle Linee guida n. 4, è stabilito che negli affidamenti di importo inferiore a 1.000 euro, è consentito derogare all’applicazione del principio di rotazione, con scelta, sinteticamente motivata, contenuta nella determinazione a contrarre o in atto equivalente. La soglia scelta per la suddetta deroga era stata individuata con riferimento alla soglia prevista dalla normativa vigente per il ricorso al mercato elettronico della pubblica amministrazione, ad altri mercati elettronici istituiti ai sensi del medesimo articolo 328 o al sistema telematico messo a disposizione dalla centrale regionale di riferimento per lo svolgimento delle relative procedure. Il comma 130 dell’art. 1 della citata legge 145/2018 prevede la modifica dell’articolo 1, comma 450, della legge 27.12.2006, n. 296, con innalzamento della relativa soglia a 5.000 euro. Andrebbe pertanto valutata l’opportunità di innalzare a 5.000 euro anche la soglia introdotta nelle Linee guida n. 4 con riferimento all’obbligo di rotazione. Tale modifica comporterebbe sicuramente una semplificazione, ma al tempo stesso, avrebbe un impatto significativo su un numero estremamente elevato di affidamenti di piccolo importo (sarebbe circa 4 milioni il numero medio annuo di affidamenti di importo inferiore a 5.000 euro)” (27.02.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa tempistica di pubblicazione degli atti sul web.
Domanda
Siamo un comune di circa 10mila abitanti e il nostro Segretario comunale –Responsabile per la Prevenzione della Corruzione e della Trasparenza– ci sollecita spesso la pubblicazione dei documenti e dei dati che obbligatoriamente devono essere inseriti e aggiornati tempestivamente nella nostra sezione web di Amministrazione Trasparente. Non abbiamo chiaro però il concetto di tempestività.
In concreto, quanti giorni abbiamo per pubblicare tali dati?
Risposta
Il Decreto Trasparenza (d.lgs. 14.03.2013, n. 33), definisce l’oggetto degli obblighi di pubblicazione e stabilisce anche la frequenza di pubblicazione.
È previsto l’aggiornamento con cadenza annuale per i dati che per loro natura non sono soggetti a frequenti modifiche (dichiarazioni dei titolari di incarichi e cariche, partecipazioni pubbliche…) o la cui durata è tipicamente annuale: pubblicazione del conto annuale del personale (articolo 16, del d.lgs. 33/2013) e dei dati relativi agli enti pubblici vigilati, agli enti di diritto privato in controllo pubblico e alle partecipazioni in società di diritto privato (articolo 22).
Diversamente, la pubblicazione deve essere tempestiva nei casi in cui l’efficacia del provvedimento discende proprio dalla pubblicazione dei dati e delle informazioni. Questo è il caso, ad esempio, degli incarichi di collaborazione o consulenza a soggetti esterni per i quali è previsto un compenso (articolo 15), oppure delle concessioni di contributi / sussidi e vantaggi economici di importo superiore a mille euro, per anno solare, al medesimo beneficiario (articolo 26).
Altra circostanza in cui i dati e le informazioni devono essere pubblicate tempestivamente, si ha quando la stessa natura dell’atto implica una sua immediata pubblicazione, come il caso dei bandi di concorso per l’assunzione di personale (articolo 19) o i bandi di gara per forniture, servizi, lavori e concessioni (articolo 37).
Quando, invece, la normativa non definisce esplicitamente il termine di pubblicazione e di aggiornamento, vige il principio generale dettato dall’articolo 8, del d.lgs. 33/2013, secondo il quale: “i documenti contenenti atti oggetto di pubblicazione obbligatoria ai sensi della normativa vigente sono pubblicati tempestivamente sul sito istituzionale dell’amministrazione”.
Ciò premesso, venendo al tema posto nel quesito in merito al concetto di tempestività, va detto che si tratta di un concetto relativo che può dar luogo anche ad interpretazioni notevolmente difformi.
In merito, l’Autorità Nazionale Anti Corruzione (di seguito ANAC) non ha mai definito con precisione l’esatta tempistica delle pubblicazioni tempestive, nemmeno con la determinazione n. 1310/2016, nella quale sono stati riportati i tempi di pubblicazione stabiliti dal legislatore per ogni dato soggetto ad obbligo di pubblicazione nella sezione web di Amministrazione Trasparente (su base annuale, trimestrale o semestrale o tempestivamente).
Recentemente, con la delibera n. 1074 del 21.11.2018 –aggiornamento al Piano Nazionale Anticorruzione 2018– l’ANAC si è espressa ritenendo di non vincolare le amministrazioni in tal senso, preferendo rimettere all’autonomia organizzativa degli enti l’interpretazione del concetto di tempestività, sulla base delle caratteristiche dimensionali di ciascun ente e con riferimento allo scopo della norma. In particolare, ai comuni di piccole e medie dimensioni (fino a 15.000 abitanti) è riconosciuta la possibilità di “interpretare il concetto di tempestività e fissare termini secondo principi di ragionevolezza e responsabilità, idonei ad assicurare, nel rispetto dello scopo della normativa sulla trasparenza, la continuità, la celerità e l’aggiornamento costante dei dati”.
Pertanto, sarà cura del Responsabile per la Prevenzione della Corruzione fissare tali termini, indicandoli nel Piano per la Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (PTPCT), nella sezione dedicata alla Trasparenza, definendo con precisione il concetto di tempestività, riferito sia ai tempi di pubblicazione che a quelli di aggiornamento.
Tali tempi, come suggerito dall’ANAC, non dovranno tendenzialmente essere superiori al semestre.
Ecco di seguito il passaggio che si suggerisce di inserire nel PCPCT che dovrà essere approvato dalla Giunta: “La pubblicazione di dati, informazioni e documenti è tempestiva quando viene effettuata entro n. ..… giorni dalla disponibilità definitiva di dati, informazioni e documenti” (26.02.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PATRIMONIOContributo investimenti L. 145-2018.
Domanda
Sono assessore ai LL.PP. in un comune di 7.100 abitanti. La legge di bilancio ci ha assegnato 70mila euro per interventi sul patrimonio comunale. Quali sono gli interventi che si possono realizzare? Con quali tempi e procedure?
Risposta
Il quesito del lettore fa riferimento alle somme stanziate dall’art. 1, commi da 107 a 114, della legge 145/2018 (legge di bilancio 2019). Tali somme sono finalizzate alla realizzazione di investimenti per la messa in sicurezza di scuole, strade, edifici pubblici e patrimonio comunale, nel limite complessivo di 400 milioni di euro, purché non siano già interamente finanziati da altri soggetti.
Per chiarire le tipologie di spese finanziabili è intervenuto nelle scorse settimane il Ministero dell’Interno con la pubblicazione sul proprio sito di 27 faq il cui testo integrale è reperibile qui. In particolare, la faq n. 12 precisa che in ogni caso non sono finanziabili gli interventi di manutenzione ordinaria. Il contributo non può pertanto essere destinato a spese correnti.
Gli interventi da realizzare devono essere aggiuntivi rispetto a quanto già previsto nella prima annualità del piano triennale delle opere pubbliche dell’ente beneficiario. I lavori devono essere affidati ai sensi degli articoli 36, comma 2, lettera b), e 37, comma 1, del Codice degli appalti e dovranno essere avviati entro il termine perentorio del 15 maggio prossimo. In virtù della deroga introdotta dal comma 912, per il solo 2019, l’affidamento potrà avvenire, pertanto:
   1 .per importi fino a 40mila euro con affidamento diretto anche senza previa consultazione di due o più operatori economici;
   2 .per importi pari o superiori a 40 mila euro e fino a 150 mila euro tramite affidamento diretto previa consultazione, se esistenti, di tre operatori economici;
   3. per importi pari o superiori a 150 mila euro e inferiori a 350 mila euro, mediante procedura negoziata, previa consultazione, sempre ove esistenti, di almeno 10 operatori economici.
I tempi per l’avvio dei lavori sono evidentemente molto stretti. Per gli enti che hanno approvato il bilancio di previsione prima dell’entrata in vigore della legge 145/2018 si rende inoltre necessario adottare apposita variazione che ne preveda gli stanziamenti al titolo IV dell’entrata e al titolo II della spesa. E’ possibile procedere con deliberazione della giunta comunale, adottata in via d’urgenza con i poteri del consiglio, ai sensi dell’art. 175, comma 4, del TUEL motivata proprio con l’urgenza di affidare e avviare l’intervento.
Cosa succede se l’ente non rispetta la scadenza del 15 maggio? La risposta è contenuta nel comma 111: esso prevede la revoca del contributo, in tutto o in parte, disposta con decreto del Ministero dell’Interno entro il 15.06.2019. L’ammontare complessivo delle somme revocate sono assegnate, con il medesimo decreto, ai comuni che hanno iniziato l’esecuzione dei lavori in data antecedente alla scadenza del 15 maggio, dando priorità ai comuni con data di inizio dell’esecuzione dei lavori meno recente e non oggetto di recupero. I comuni beneficiari di tale ulteriore riparto sono tenuti ad iniziare l’esecuzione dei lavori entro il 15 ottobre prossimo.
Le somme sono erogate dal Ministero dell’Interno per il 50 per cento previa verifica dell’avvenuto inizio dell’esecuzione dei lavori attraverso il sistema di monitoraggio BDAP-MOP, e per il restante 50 per cento previa trasmissione al Ministero dell’Interno del certificato di collaudo o del certificato di regolare esecuzione rilasciato dal direttore dei lavori.
Infine la legge impone agli enti di dare la massima pubblicità all’intervento realizzato: essi devono rendere nota la fonte di finanziamento, l’importo assegnato e la finalizzazione del contributo nel proprio sito internet, nella sezione «Amministrazione trasparente». Il sindaco deve infine fornire tali informazioni al consiglio comunale nella prima seduta utile (25.02.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Limite spesa lavoro flessibile.
Domanda
La condizione per poter utilizzare il 100% della spesa sostenuta nell’anno 2009 per assunzioni flessibili è l’obbligo di riduzione della spesa previsto dall’art. 1, comma 557, della l. 296/2006 da intendersi riferito al rispetto della spesa del triennio 2001/2013 di cui al comma 557-quater?
Risposta
Il comma 557-quater, dell’art. 1, della legge 27.12.2006, n. 296 (legge finanziaria 2007), è stato aggiunto dal comma 5-bis, dell’art. 3, del d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla legge 11.08.2014, n. 114 e recita quanto segue: "1.557-quater. Ai fini dell’applicazione del comma 557, a decorrere dall’anno 2014 gli enti assicurano, nell’ambito della programmazione triennale dei fabbisogni di personale, il contenimento delle spese di personale con riferimento al valore medio del triennio precedente alla data di entrata in vigore della presente disposizione".
Dal momento che la norma è del 2014, il triennio precedente è quello che comprende gli anni 2011, 2012 e 2013.
La norma che disciplina il “tetto” di spesa per il lavoro flessibile (pari al 100% della spesa del 2009) è quella stabilita all’art. 9, comma 28, del decreto-legge n. 78/2010, convertito nella legge 30.07.2010, n. 122 che, per la parte che ci interessa, dispone: "Le limitazioni previste dal presente comma non si applicano agli enti locali in regola con l’obbligo di riduzione delle spese di personale di cui ai commi 557 e 562 dell’articolo 1 della legge 27.12.2006, n. 296, e successive modificazioni, nell’ambito delle risorse disponibili a legislazione vigente".
Pertanto, la risposta al quesito non può che essere affermativa (21.02.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PATRIMONIO: Gestione di impianti sportivi nel nuovo codice dei contratti, diverse modalità contrattuali.
Domanda
Diverse strutture pubbliche sportive comunali sono in scadenza, alla luce del nuovo codice dei contratti quali sono i sistemi che si possono utilizzare per l’affidamento del servizio di gestione degli impianti sportivi?
L’art. 90, co. 25, l. 289/2002, relativo alla preferenza a favore di società e associazioni sportive dilettantistiche è ancora applicabile?
Risposta
Per consolidato orientamento giurisprudenziale la gestione di impianti sportivi assume i caratteri tipici di un servizio pubblico. La nozione di servizio pubblico è omologa a quella di servizio di interesse generale di derivazione comunitaria, quale attività di produzione di beni e servizi che si distinguono dalle comuni attività economiche, perché perseguono una finalità di interesse generale che ne giustifica l’assoggettamento ad un regime giuridico differenziato (c’è obbligo di pubblico servizio quando il mercato non soddisfa da solo la necessità). La dottrina è giunta ad individuare gli indici di riconoscimento della pubblicità del servizio, identificandoli nella coesistenza di alcuni presupposti, quali:
   • l’attività deve consistere in una prestazione;
   • per la gestione del servizio deve esistere un’organizzazione stabile con un controllo pubblico che assicuri un livello minimo di erogazione;
   • l’attività deve essere diretta ad una generalità di cittadini e presentare il carattere dell’universalità (il servizio deve essere reso a tutti i soggetti che ne facciano richiesta a prescindere dal loro status).
Nel caso della gestione di impianti sportivi comunali trattasi di un servizio pubblico locale ai sensi dell’art. 112 del d.lgs. n. 267/2000, dove l’utilizzo del patrimonio si fonda con la promozione dello sport, che unitamente all’effetto socializzante ed aggregativo, diventa uno strumento di miglioramento della qualità della vita a beneficio non solo per la salute dei cittadini ma anche per la vitalità sociale della comunità (es. culturale, di sviluppo, turistico, di immagine del territorio, ecc.). Con riferimento poi alla “natura” del bene, gli impianti sportivi di proprietà comunale appartengono al patrimonio indisponibile dell’ente, ai sensi dell’art. 826 del c.c., essendo destinati al soddisfacimento dell’interesse della collettività allo svolgimento delle attività sportive.
Prima di individuare le differenti forme contrattuali da utilizzare per l’affidamento in gestione di un impianto sportivo alla luce del nuovo codice, come correttamente fatto dall’ANAC nella delibera n. 1300 del 14.12.2016, a cui si fa espresso rinvio, occorre comprendere la distinzione tra servizi pubblici locali a rilevanza economica e privi di rilevanza economica.
Ai fini della qualificazione di un servizio pubblico locale sotto il profilo della rilevanza economica, occorre verificare in concreto se l’attività da espletare presenti o meno il connotato della “redditività”, anche solo in via potenziale. Il servizio ha rilevanza economica quando da quella attività, chi la gestisce, ha la possibilità potenziale di coprire tutti i costi (la contribuzione a copertura dei costi è indice di rilevanza economica ponendo il servizio in una situazione di appetibilità per gli operatori). Inoltre, per qualificare un servizio pubblico come avente rilevanza economica o meno si deve prendere in considerazione non solo la tipologia del servizio, ma anche la soluzione organizzativa che l’ente locale, quando può scegliere, sente più appropriata per rispondere alle esigenze dei cittadini.
Al contrario, un servizio è privo di rilevanza economica quando è strutturalmente antieconomico, perché potenzialmente non remunerativo (il mercato privato non è in grado o non è interessato a fornire quella prestazione).
Nel caso specifico la redditività di un impianto sportivo deve essere valutata caso per caso, con riferimento ad elementi quali, costi e modalità di gestione, tariffe per l’utenza (libere o imposte), quote sociali, attività praticate, oneri manutentivi, attività accessorie, obiettivi della gestione sociale, e sulla base di un realistico piano finanziario.
Pertanto fatta questa preliminare introduzione, si possono individuare principalmente tre distinte modalità di affidamento:
   • per gli impianti con rilevanza economica mediante concessione di servizi ai sensi degli artt. 164 e s.s. del codice ed in quanto ricorrano gli elementi indicati dal legislatore per la qualificazione della “concessione” (art. 3, co. 1, lett. vv)) e s.s.);
   • per la gestione di impianti sportivi privi di rilevanza economica (art. 164, co. 3, del d.lgs. 50/2016) mediante appalto di servizi, in quanto l’utilità finale non è resa ad una popolazione indifferenziata, ma direttamente all’ente locale e in assenza di rischio operativo;
   • per l’uso associativo del bene privo di rilevanza economica, mediante concessione amministrativa dell’impianto da affidare sempre con procedura ad evidenza pubblica (impianti di piccolissime dimensione dove non è ipotizzabile una gestione economica del servizio).
Da ultimo si segnala che la via preferenziale di cui all’art. 90 della l. 289/2002, normativa superata, può essere operante solo come valorizzazione dell’associazionismo in un contesto sociale e progettuale, quale elemento di valutazione nell’offerta economicamente più vantaggiosa (20.02.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI: Misure per Antiriclaggio e prevenzione della corruzione: un possibile collegamento?
Domanda
La nuova normativa in materia di antiriclaggio obbliga il comune al collegamento con il sistema anticorruzione dell’Ente e quindi all’introduzione di specifiche disposizioni all’interno del PTPCT?
Risposta
Il 19.11.2018 sono state pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale n. 269 le “istruzioni sulla comunicazione di dati e informazioni concernenti le operazioni sospette da parte degli uffici delle pubbliche amministrazioni”, del 23.04.2018, dell’Unità di Informazione Finanziaria per l’Italia (UIF) istituita presso la Banca d’Italia.
Con esse sono state dettate specifiche linee guida per le pubbliche amministrazioni, chiamate ad adottare le necessarie procedure interne per l’attuazione delle misure di antiriciclaggio. In particolare sono stati definiti quegli specifici indicatori di anomalia nel contesto della pubblica amministrazione, la cui mancanza aveva determinato, fino ad oggi, le principali difficoltà nell’applicazione della vigente normativa di settore, il d.lgs. 21.11.2007, n. 231.
Quest’ultimo, come di recente modificato dal d.lgs. 25.05.2017, n. 90, prevedeva infatti all’art. 10, comma 4, che la UIF adottasse, al fine di consentire lo svolgimento di analisi finanziarie mirate a far emergere fenomeni di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo, apposite istruzioni recanti “i dati e le informazioni da trasmettere, le modalità e i termini della relativa comunicazione nonché gli indicatori per agevolare la rilevazione delle operazioni sospette”.
Con l’entrata in vigore del decreto legislativo 90/2017, il raggio di azione entro il quale le pubbliche amministrazioni possono muoversi, effettuando i dovuti controlli e l’eventuale comunicazione alla UIF, è stato circoscritto alle specifiche aree di competenza richiamate all’art. 10, comma 1, del d.lgs. 231/2017:
   a) procedimenti finalizzati all’adozione di provvedimenti di autorizzazione o concessione;
   b) procedure di scelta del contraente per l’affidamento di lavori, forniture e servizi secondo le disposizioni di cui al codice dei contratti pubblici;
   c) procedimenti di concessione ed erogazione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari, nonché attribuzioni di vantaggi economici di qualunque genere a persone fisiche ed enti pubblici e privati.
Con riferimento a ciascuno dei suddetti ambiti –che è bene notare– coincidono perfettamente con i settori a maggior rischio corruttivo individuati dalla legge “anticorruzione” della legge Severino (legge 06.11.2012, n. 190), la UIF, nelle proprie istruzioni, detta specifici indicatori di anomalia connessi:
   a) con l’identità o il comportamento del soggetto a cui è riferita l’operazione;
   b) con le modalità di esecuzione delle operazioni, e declinati per:
      – il settore appalti e contratti pubblici
      – il settore finanziamenti pubblici
      – il settore immobili e commercio.
Le pubbliche amministrazioni, ai sensi dell’art. 10, comma 4, del decreto legislativo 231/2017, “nel quadro dei programmi di formazione continua del personale realizzati in attuazione dell’articolo 3 del decreto legislativo 01.12.2009, n. 178, adottano misure idonee ad assicurare il riconoscimento, da parte dei propri dipendenti delle fattispecie meritevoli di essere comunicate ai sensi del presente articolo.”
Codifica di aree e procedimenti a rischio, individuazione di un responsabile (qui antiriciclaggio, alias “gestore”), formazione tecnica del personale, obbligo di comunicazioni ad un’autorità centrale, indicatori di comportamenti illeciti: sono tanti i punti di contatto che avvicinano la normativa “antiriciclaggio” a quella dell’“anticorruzione” della legge Severino.
Ciò fa, conseguentemente, propendere per una gestione ed un coordinamento unitario degli adempimenti di legge, richiesti dal legislatore nei due diversi ambiti; con la possibilità di arricchire il piano di prevenzione della corruzione e della trasparenza di una nuova sezione, i cui contenuti potrebbero ben intrecciarsi ai principi del risk assessment e risk management, sui quali muove l’intero PTPCT.
Per rispondere al quesito, è bene rilevare, comunque, che nessun obbligo di collegamento è previsto dalla legge, essendo, quindi, lasciato all’ente la possibilità di definire i confini e le modalità per l’effettuazione del controllo sul riciclaggio e sul finanziamento al terrorismo.
Il legislatore non ha, peraltro, stabilito per le pubbliche amministrazioni alcuna sanzione per mancata attuazione delle disposizioni “antiriciclaggio”; è unicamente previsto all’art. 10, comma 6, d.lgs. 231/2007, che l’inosservanza delle norme assume rilievo ai fini dell’articolo 21, comma 1-bis, del d.lgs. 30.03.2001, n. 165, determinandosi responsabilità dirigenziale con conseguente eventuale decurtazione dell’indennità di risultato.
Per concludere, ciò che è valso e vale per l’applicazione della legge “anticorruzione” vale per la materia dell’“antiriciclaggio”: solo una forte volontà politica degli organi di indirizzo e di governo delle pubbliche amministrazioni –che, eventualmente, giochino anche la carta delle complementarietà delle disposizioni normative– può consentire una piena attuazione degli utili strumenti messi a disposizione dal legislatore (19.02.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - VARI: Body cam.
Domanda
È possibile utilizzare le cd “body cam” per il servizio di Polizia locale?
Risposta
Negli ultimi anni lo sviluppo tecnologico permette a chiunque di riprendere situazioni e registrare immagini con estrema facilità. Le telecamere hanno dimensioni ridotte e prestazioni elevate con costi ormai quasi irrisori.
Tra questi dispositivi ci sono le cd “body cam”: sono dispositivi che si indossano sulla divisa e sono molto utili nell’ambito della sicurezza, anche per l’effetto preventivo e deterrente. Il soggetto che sa di essere ripreso, nella maggior parte dei casi, modifica il proprio comportamento affinché rientri in un ambito più “civile”. Si pensi che le più evolute “body cam” consentono di trasmettere i dati in tempo reale alla centrale operativa.
Insomma senza doversi addentrare troppo in questioni tecniche, tali dispositivi hanno una estrema facilità d’uso e prestazioni sia visive che di modalità di impiego che possono essere definite utili in molteplici situazioni.
Per quanto riguarda i vincoli e le corrette procedure amministrative per l’utilizzo da parte dei Comandi di Polizia e dei singoli operatori di tali body cam, la questione è incentrata sia sulla tutela dei soggetti ripresi, sia sulla legittimità per gli operatori di polizia stessi ad indossarle.
Sulla materia si è espresso il “Garante sulla privacy” con parere del 31.07.2014, facendo rientrare l’ipotesi di utilizzo di tali apparecchiature nell’art. 53 del D.lgs. 196/2003 (ora nel D.lgs. 51/2008).
Sulla scorta di tale indirizzo, si ritiene dunque che l’utilizzo delle “body cam” debba essere disciplinato dal regolamento comunale sulla videosorveglianza, che deve prevedere al suo interno apposite disposizioni sull’uso di tali dispositivi.
In tal senso il regolamento dovrà prevedere un responsabile del trattamento e, conseguentemente, un provvedimento che disciplini specificatamente l’utilizzo di tali dispositivi. Tale provvedimento dovrà individuare le situazioni e le circostanze di attivazione della “body cam” e i soggetti che possono autorizzare l’avvio (non si esclude possa essere l’operatore stesso). Altresì dovrà stabilire quali siano i soggetti preposti a visionare le riprese ed incaricati a prelevare e conservare i dati, nonché le metodologie di conservazione e cancellazione.
È essenziale, infine, che delle operazioni di registrazione e la conseguente acquisizione dei dati, ne sia dato formalmente atto ai sensi degli artt. 348, 354 e 357 del c.p.p., nel caso si tratti di fatti di rilievo penale. Nel caso di accertamenti di natura amministrativa, allo stesso modo, ne sarà dato atto con verbale ex art. 13 della L. 689/1981 (15.02.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Tassazione pensioni complementari.
Domanda
Le pensioni complementari integrative dei dipendenti pubblici sono tassate come quelle dei privati?
Risposta
Le regole in materia di previdenza complementare pagano il conto di quella che dal punto di vista giuridico viene definita dicotomia delle fonti del diritto.
La riforma Maroni del 2005 ha riscritto e novellato la previdenza complementare con il d.lgs. 252/2005, tuttavia, non essendo occorsa l’armonizzazione con il pubblico impiego, dette regole non sono mai valse per i lavoratori pubblici, ma soltanto per i lavoratori dipendenti di aziende private. Questo almeno fino alla Legge di Bilancio del 2018 che ha introdotto dei correttivi e livellato alcune differenze.
La disparità di trattamento tra lavoratori privati e pubblici si faceva sentire in diversi ambiti: si pensi alla diversa libertà di destinazione delle quote di TFR nella modalità di finanziamento della previdenza complementare, alle diverse regole di accesso alle prestazioni pensionistiche (anticipazioni), al diverso limite di deducibilità fiscale dei contributi versati a previdenza complementare, e, in particolare, al diverso regime di tassazione delle prestazioni previdenziali.
In questo ultimo caso, le differenze producevano una disparità di trattamento al limite della legittimità costituzionale.
In tema di tassazione delle prestazioni, le regole applicate ai dipendenti pubblici erano quelle contenute nel d.lgs. 124/1993 che prevedevano l’assoggettamento a tassazione progressiva (IRPEF a scaglioni).
Le pensioni complementari dei privati sono assoggettate, dal 2005, ad una tassazione a titolo di imposta del 15%, ridotta di una quota pari allo 0,30% per ogni anno eccedente il 15° di partecipazione a forme di previdenza complementare, fino ad un massimo di 6 punti percentuali di riduzione.
La legge di Bilancio del 2018, al comma 156, fa valere anche per i lavoratori pubblici, le regole in materia di tassazione delle prestazioni, contenute nel d.lgs. 252/2005.
La riforma non ha coinvolto il passato e i montanti già accumulati, ma solo il futuro, talché:
   • posizione maturata dal 01/2018: assoggettate a una tassazione a titolo d’imposta del 15% ridotta di una quota pari allo 0,30% per ogni anno eccedente il 15° di partecipazione a forme di previdenza complementare, con il limite massimo del 6%.
   • posizione maturata prima del 01/2018: assoggettate a tassazione progressiva (14.02.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI: Esclusione per gravi illeciti professionali.
Domanda
Il nostro ente sta appaltando un servizio ed attualmente è in fase di ammissione/esclusione dei concorrenti; il seggio di gara ha rilevato che un consigliere di amministrazione dell’impresa si è reso responsabile di gravi illeciti professionali diverso tempo fa ma, da notare, non nell’attuale ruolo bensì quale rappresentante di un impresa oramai cessata.
Secondo il seggio di gara –che ha trasmesso gli atti al RUP per l’adozione dei provvedimenti– l’impresa dovrebbe essere esclusa anche in base a quanto chiarito nelle linee guida ANAC n. 6 che ritiene che i “gravi illeciti” professionali non debbano solo riguarda l’appaltatore (o il subappaltatore) ma anche i vari soggetti indicati nel comma 3 dell’articolo 80.
Che ne pensa? Secondo il RUP, in questo caso, si sta estendendo l’interpretazione della disposizione del comma 5 e ciò non sarebbe corretto.
Risposta
La questione posta ha, oggettivamente, un certo rilievo pratico anche alla luce del costante orientamento giurisprudenziale che statuisce l’impossibilità da parte del RUP (o se si preferisce da parte della stazione appaltante) di estendere l’ambito applicativo delle cause di esclusione (ora, semplificando, riconducibili in sostanza all’articolo 80 del codice dei contratti). In tema, pertanto, vige il classico principio di tassatività.
L’articolo 80, come anche affermato da recente giurisprudenza, presenta delle “declaratorie” vincolati per la stazione appaltante (commi 1 e 2 dell’articolo) ed altre, si direbbe, “discrezionali” ovvero che impongono una determinata attività istruttoria al RUP.
Si richiama l’attività istruttoria del RUP in quanto soggetto –come da giurisprudenza costante e da indicazioni dei bandi tipo ANAC– deputato e competente ad adottare i provvedimenti intermedi di ammissione ed esclusione (salvo che nel bando non siano stati esplicitamente assegnati, tali prerogative, ad altri soggetti ed in particolare al dirigente/responsabile del servizio).
Il comma 5, ed in particolare la lett. c) ha, pertanto, un ambito applicativo –anche nella sua nuova formulazione– chiaramente delimitato all’appaltatore ed al subappaltatore (si pensi al comma 7 della norma).
Il comma 3, che estende una serie di ipotesi inibenti la partecipazione alla competizione di gara ad una serie di “soggetti” deve intendersi riferito (con il correlato ambito applicativo) alle sole ipotesi escludenti di cui ai commi 1 e 2 dell’articolo in commento e non anche al comma 5.
Pertanto, a sommesso parere, la posizione dubitativa espressa dal RUP pare essere quella maggiormente corretta rispetto alle “richieste/impostazione” del seggio di gara.
In questo senso anche recente conferma del TRGA di Bolzano con la sentenza n. 14/2019. La sentenza ha pregio e rilievo anche perché ribadisce il contrasto tra le linee guida n. 6 dell’ANAC (che detta modelli virtuosi “applicativi/interpretativi” in tema di gravi illeciti professionali) che non sono vincolanti ma la cui interpretazione, ovvero il preteso collegamento tra il comma 5 ed il comma 3 dell’articolo 80 è stato ritenuto in contrasto con il dettato normativo (13.02.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

URBANISTICADiritto di superficie. Estinzione. Conseguenze.
Se la costituzione del diritto di superficie è stata fatta per un tempo determinato, allo scadere del termine il diritto di superficie si estingue e il proprietario del suolo acquista, a titolo originario, la proprietà della costruzione edificata dal superficiario.
A questi, salvo diversa previsione nel titolo di concessione del diritto, non spetta alcun indennizzo per l’opera realizzata.

Il Comune, sentito anche per le vie brevi, chiede un parere in merito alle possibili azioni da intraprendere a tutela del proprio diritto di proprietà su un terreno oggetto di diversi contratti di diritto di superficie a tempo determinato, attesa l’intenzione dell’Ente di disporre liberamente dello stesso.
Al fine di comprendere la fattispecie in riferimento risulta necessario ripercorrere le tappe principali che hanno caratterizzato l’area in oggetto e che di seguito si sintetizzano:
   - nell’anno 1979 il Comune stipulò un contratto di diritto di superficie in favore di un privato di durata decennale, oggetto di due rinnovi a distanza decennale l’uno dall’altro e, pertanto, sino alla fine dell’anno 2008
[1]. Sulla base di tali contratti il privato collocò sull’area in riferimento una struttura prefabbricata utilizzata “a punto di sosta e ristoro per gli escursionisti di montagna”;
   - nell’anno 2009 il Comune stipulò con altro soggetto un contratto avente ad oggetto la medesima area denominato “contratto di diritto di superficie” e avente durata novennale
[2].
Attesa l’avvenuta estinzione dell’ultimo contratto stipulato dall’Ente, questi intenderebbe rientrare nella piena proprietà del fondo sul quale grava tuttora il manufatto prefabbricato installato “nei primi anni ottanta”.
In via preliminare si osserva che i contratti stipulati dall’Ente, consistenti nella costituzione di un diritto di superficie sull’area di proprietà comunale, trovano la loro norma di riferimento nell’articolo 952 del codice civile il quale recita: “Il proprietario può costituire il diritto di fare e mantenere al disopra del suolo una costruzione a favore di altri, che ne acquista la proprietà.
Del pari può alienare la proprietà della costruzione già esistente, separatamente dalla proprietà del suolo
”.
Il successivo articolo 953 stabilisce, poi, che: “Se la costituzione del diritto è stata fatta per un tempo determinato, allo scadere del termine il diritto di superficie si estingue e il proprietario del suolo diventa proprietario della costruzione”.
Dal tenore letterale dell’articolo 952 cod. civ. la dottrina ha individuato due differenti situazioni: di diritto di superficie, inteso come ius aedificandi, nel caso in cui il superficiario acquisisca il diritto di costruire e mantenere sul suolo la proprietà di un edificio, e di diritto di proprietà superficiaria nel caso di alienazione da parte del concedente di una costruzione già esistente separatamente dalla proprietà del suolo.
Quanto al disposto di cui all’articolo 953 cod. civ. esso comporta che, come nel caso in esame, il decorso del termine di durata comporta l’estinzione del diritto di superficie: “ne consegue che riprende vigore il principio dell’accessione, con conseguente acquisto automatico della proprietà a favore del titolare del fondo
[3].
Da quanto sopra segue che l’originario contratto stipulato dall’Ente rientra nella prima tipologia contrattuale descritta all’articolo 952 cod. civ. atteso che lo stesso ha comportato la costituzione di uno ius aedificandi in favore del privato.
Tale diritto di superficie si è sicuramente estinto in data 31.12.2008 e, in conformità a quanto disposto dall’articolo 953 cod. civ., il Comune è conseguentemente rientrato nella piena proprietà dell’area e dell’immobile sulla stessa insistente. A tale riguardo si precisa che: “Il venire meno del diritto di superficie, per decorso del termine contrattualmente previsto, costituisce acquisto a titolo originario, ai sensi dell'art. 953 c.c., della proprietà del fabbricato edificato sul suolo oggetto del diritto di superficie. La richiamata norma codicistica prevede, infatti, che, se la costituzione del diritto di superficie è stata fatta per un tempo determinato, alla scadenza del termine il diritto si estingue e il proprietario del suolo diventa proprietario della costruzione. L'acquisto della proprietà del fabbricato edificato sul suolo oggetto di concessione avviene così a titolo originario, in virtù degli effetti del contratto, avente causa lecita di costituzione del diritto di superficie, a suo tempo stipulato, e non per l'atto ricognitivo degli effetti di tale contratto alla scadenza dello stesso.”
[4].
Dall’analisi dell’articolo 953 cod civ. in commento si deve altresì precisare che l’estinzione del diritto di superficie per decorso del termine, salvo diversa previsione nel titolo di concessione del diritto –che nel caso di specie risulta mancare– non comporta legalmente alcun obbligo di indennizzo a favore del superficiario. In questo senso è la dottrina dominante la quale ritiene che “nel silenzio della legge, […] il corrispettivo sia dovuto solo se pattuito espressamente
[5].
Anche la giurisprudenza ha affermato che: “In materia di diritto di superficie a tempo determinato […] se non è consentito all'autonomia negoziale delle parti derogare agli effetti dell'accessione automatica che si determina all'atto di estinzione del diritto, è invece consentito provvedere convenzionalmente circa il carattere di gratuità o meno della devoluzione prevista dall'art. 953 c.c., nonché circa l'attribuzione delle spese richieste dalla demolizione della costruzione e circa la configurazione di un diritto del superficiario sui materiali da costruzione quale ius ad rem o mero diritto di credito, e non quale espressione di uno ius in re non più esistente
[6].
Né è possibile fare ricorso alle disposizioni di cui agli articoli 934 e seguenti del cod. civ. che si propongono essenzialmente di regolare i conflitti di interessi relativi alla proprietà delle opere edificate su fondo altrui e, tra queste, in particolare, l’articolo 936 cod. civ.
[7] relativo alle “opere fatte da un terzo con materiali propri” stante l’assenza del carattere di terzietà del superficiario rispetto al proprietario del fondo.
Come affermato da consolidata giurisprudenza, infatti, “l’art. 936 c.c., può trovare applicazione solo quando l’autore delle opere sia realmente terzo rispetto al proprietario del suolo; non sia cioè legato a lui, né ad altri a cui il proprietario abbia concesso il godimento del fondo, da alcun rapporto negoziale che gli abbia attribuito il diritto di costruire”
[8].
Nel ribadire che l’articolo 953 cod. civ. non prevede un corrispettivo da parte del proprietario del suolo in favore del superficiario per l’acquisto della proprietà della costruzione segue che il Comune, rientrato nella piena proprietà dell’area e acquisita a titolo originario anche quella del manufatto sulla stessa insistente, non debba versare alcun indennizzo al superficiario in mancanza, come già rilevato, di una specifica previsione contrattuale sul punto.
Per completezza espositiva si segnala peraltro l’orientamento di certa dottrina, di carattere minoritario, la quale ritiene che “laddove la superficie sia costituita a titolo oneroso, al superficiario possa essere riconosciuta, anche nel silenzio del titolo, una indennità, per evitare un ingiustificato arricchimento del proprietario
[9].
Sulla scorta di tale dottrina potrebbe porsi la questione della debenza da parte dell’Ente in favore del soggetto che ha realizzato/posizionato la struttura prefabbricata sull’area in riferimento di un indennizzo a titolo di indebito arricchimento. Al riguardo, tuttavia, analizzando le diverse scadenze dei contratti stipulati dal Comune si ritiene che siano comunque decorsi i termini per la proposizione dell’azione di indebito arricchimento nei confronti dell’Ente.[10] Infatti, anche considerando solo la scadenza dell’ultimo contratto stipulato dal Comune con il “costruttore” del manufatto immobiliare, termine fissato al 31.12.2008, l’eventuale azione di indebito arricchimento si sarebbe prescritta in data 31.12.2018.
[11]
Alla luce di quanto sopra affermato il Comune, quale soggetto proprietario dell’area e del manufatto sulla stessa esistente, potrà liberamente disporre degli stessi, eventualmente richiedendo la restituzione delle chiavi o quant’altro necessario per il concreto utilizzo della struttura prefabbricata.
In caso di esito infruttuoso di un tanto, stante la situazione conflittuale che si genererebbe, sarebbe cura del legale eventualmente interpellato dall’Ente individuare le specifiche azioni giudiziarie da intraprendere a tutela della proprietà.
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[1] Per precisione il contratto originario aveva scadenza al 31.12.1988; il primo rinnovo ha comportato la fissazione della scadenza contrattuale al 31.12.1998 e il secondo rinnovo al 31.12.2008.
[2] Per precisione tale contratto aveva decorrenza dal 01.03.2009 e scadenza al 28.02.2018.
[3] P. Gallo, “Il diritto di superficie”, Notiziario giuridico telematico, reperibile sul seguente sito internet: www.notiziariogiuridico.it.
[4] Comm. trib. regionale Emilia-Romagna, Bologna, sez. XIII, pronuncia del 25.01.2016.
[5] R. Caterina, Commentario del codice civile, Della proprietà, a cura di A. Jannarelli e F. Macario, Utet giuridica, 2012. Nello stesso senso, M. Iaselli, “Superficie”, in AltalexPedia, voce agg. al 21.07.2017; F. Melone, “Il diritto di superfice a tempo determinato ex artt. 952 e 953 del codice civile”, in www.ildirittoamministrativo.it
[6] Cassazione civile, sez. I, sentenza del 27.02.1980, n. 1369.
[7] L’articolo 936 cod. civ. recita: “Quando le piantagioni, costruzioni od opere sono state fatte da un terzo con suoi materiali, il proprietario del fondo ha diritto di ritenerle o di obbligare colui che le ha fatte a levarle.
Se il proprietario preferisce di ritenerle, deve pagare a sua scelta il valore dei materiali e il prezzo della mano d'opera oppure l'aumento di valore recato al fondo.
Se il proprietario del fondo domanda che siano tolte, esse devono togliersi a spese di colui che le ha fatte. Questi può inoltre essere condannato al risarcimento dei danni.
Il proprietario non può obbligare il terzo a togliere le piantagioni, costruzioni od opere, quando sono state fatte a sua scienza e senza opposizione o quando sono state fatte dal terzo in buona fede.
La rimozione non può essere domandata trascorsi sei mesi dal giorno in cui il proprietario ha avuto notizia dell'incorporazione”.
[8] Cassazione civile, sez. III, sentenza del 28.05.2009, n. 12550. Nello stesso senso, tra le altre, Cassazione civile, sez. II, sentenza del 29.01.1997, n. 895 e Cassazione civile, sentenza n. 1369/1980 citata in nota 6.
[9] R. Caterina, Commentario del codice civile, citata in nota 5.
[10] Al riguardo si ricorda che l’azione di arricchimento ingiustificato è sottoposta all’ordinario termine di prescrizione decennale di cui all’articolo 2946 cod. civ., che, ai sensi dell’articolo 2935 cod. civ., inizia a decorrere dal giorno in cui può essere fatto valere il diritto alla ripetizione. Il dies a quo, pertanto, decorre dal momento in cui una parte si è impoverita mentre l’altra si è arricchita: nel nostro caso tale momento coinciderebbe con l’acquisto a titolo originario della proprietà del fabbricato da parte del Comune.
[11] Sempre che non siano intervenute cause interruttive della prescrizione. Al riguardo si ricorda che ai sensi dell’articolo 2943 cod. civ: “La prescrizione è interrotta dalla notificazione dell'atto con il quale si inizia un giudizio, sia questo di cognizione ovvero conservativo o esecutivo.
È pure interrotta dalla domanda proposta nel corso di un giudizio.
[…]
La prescrizione è inoltre interrotta da ogni altro atto che valga a costituire in mora il debitore […]”.
Il successivo articolo 2944 cod. civ. recita, poi, che: “La prescrizione è interrotta dal riconoscimento del diritto da parte di colui contro il quale il diritto stesso può essere fatto valere”
(06.02.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

PATRIMONIOOggetto: Quesito in merito ai requisiti professionali dei dirigenti preposti agli uffici di protezione civile comunali (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della Protezione Civile, nota 25.01.2019 n. 4329 di prot.).

CONSIGLIERI COMUNALIConflitto di interessi di un amministratore locale.
   
1) Le cause di incompatibilità o ineleggibilità che possono investire gli amministratori locali incidono direttamente sul diritto di elettorato passivo, tutelato dall’art. 51 della Costituzione; segue che le norme che introducono cause ostative all’espletamento del mandato elettivo sono di stretta interpretazione, e non è ammessa l’interpretazione analogica delle stesse.
   2) La disposizione di cui all’articolo 78 TUEL, secondo la quale l’amministratore locale non deve prendere parte alla discussione e alla votazione delle deliberazioni in cui lo stesso ha un interesse proprio (o di parenti o affini sino al quarto grado), è espressione di un obbligo generale di astensione dei membri di collegi amministrativi che vengano a trovarsi in posizione di conflitto di interessi in quanto portatori di interessi personali, diretti o indiretti, in contrasto potenziale con quello pubblico. Con riferimento specifico all’approvazione dei provvedimenti normativi o di carattere generale la norma ha disciplinato l’obbligo di astensione in modo tale che la sua violazione possa verificarsi solo in presenza di un interesse immediato, diretto e specifico dell’amministratore (o dei suoi parenti o affini) e non di un interesse genericamente non definito.

Il Comune, sentito anche per le vie brevi, chiede un parere in merito alla posizione rivestita da un assessore comunale, che ha svolto l’attività di revisore dei conti presso un consorzio partecipato dall’Ente medesimo, sotto il profilo dell’esistenza di possibili cause di incompatibilità o di conflitto di interessi per lo stesso.
In particolare, premesso che il soggetto in riferimento è stato eletto consigliere comunale nel giugno 2017 e ha cessato di essere revisore del consorzio a luglio 2018, atteso che il Comune ha approvato nel mese di ottobre 2018 il bilancio consolidato con i bilanci dei propri organismi ed enti strumentali e delle società controllate e partecipate relativo all’esercizio 2017
[1], nel cui novero è compreso il consorzio nel quale lo stesso ha prestato l’attività di revisore, l’Ente desidera sapere se, sul presupposto dell’eventuale esistenza di una qualche forma di incompatibilità/conflitto di interessi in capo all’amministratore locale, la delibera consiliare di cui sopra (cfr. delibera di ottobre 2018) possa risultare affetta da qualche vizio di legittimità.
Sentito il Servizio finanza locale, con riferimento alla fattispecie in esame, si formulano le seguenti considerazioni giuridiche generali.
In primis, pare che per il soggetto di cui si discute non venga in rilevo alcuna causa di incompatibilità prevista dalla legge: ciò sia dal punto di vista della carica di amministratore locale sia sotto quello dell’aver svolto l’attività di revisore dei conti per il consorzio.
In particolare, si ricorda come un esame delle eventuali cause di incompatibilità o ineleggibilità che possono investire gli amministratori locali deve essere effettuato in chiave di stretta interpretazione, rifuggendo da qualsiasi tipo di estensione analogica delle stesse, atteso che le cause ostative all’espletamento del mandato elettivo incidono direttamente sul diritto di elettorato passivo, alla luce della riserva di legge in materia posta dall’articolo 51 della Costituzione.
Premesso un tanto, sotto il primo profilo pare non ricorrano i presupposti per l’applicazione di alcuna delle fattispecie indicate all’articolo 63 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267
[2]. Tra queste si cita, escludendosene l’applicazione, quella di cui al comma 1, num. 3), secondo la quale non può ricoprire la carica di consigliere comunale “il consulente legale, amministrativo e tecnico che presta opera in modo continuativo in favore delle imprese di cui ai numeri 1) e 2) del presente comma” (l’impresa nel caso di specie sarebbe rappresentata dal consorzio).
Come rilevato dal Ministero dell’Interno in un proprio parere
[3] che affrontava una questione analoga a quella in esame [4], non si può infatti qualificare l’organo di revisione quale consulente amministrativo o tecnico del consorzio.
Ad analoghe conclusioni si perviene analizzando la posizione del soggetto in riferimento sotto il profilo dell’incarico di revisore dei conti del consorzio. Al riguardo la norma da prendere astrattamente in esame è l’articolo 236 del TUEL
[5] ai sensi del quale: “1. Valgono per i revisori le ipotesi di incompatibilità di cui al primo comma dell'articolo 2399 del codice civile [6], intendendosi per amministratori i componenti dell'organo esecutivo dell'ente locale.
2. L'incarico di revisione economico-finanziaria non può essere esercitato dai componenti degli organi dell'ente locale e da coloro che hanno ricoperto tale incarico nel biennio precedente alla nomina, dal segretario e dai dipendenti dell'ente locale presso cui deve essere nominato l'organo di revisione economico-finanziaria e dai dipendenti delle regioni, delle province, delle città metropolitane, delle comunità montane e delle unioni di comuni relativamente agli enti locali compresi nella circoscrizione territoriale di competenza.
3. Omissis
”.
In particolare non ricorrono i presupposti per l’applicazione del comma 1 del citato articolo 236 TUEL
[7], mancando il requisito del controllo tra consorzio e comune richiesto dall’articolo 2399, primo comma, lett. b), cod. civ. ivi richiamato [8].
Quanto all’ulteriore questione afferente la legittimità o meno della delibera assunta dal consiglio comunale, con la partecipazione del consigliere in argomento, avente ad oggetto l’approvazione del bilancio consolidato dell’ente con i bilanci dei propri organismi ed enti strumentali e delle società controllate e partecipate, in via preliminare si ricorda che non compete a questo Ufficio esprimersi in merito alla legittimità degli atti degli enti locali, stante l’avvenuta soppressione del regime dei controlli ad opera della riforma costituzionale n. 3/2001.
Pur tuttavia, di seguito si effettuano una serie di valutazioni giuridiche sulla tematica in riferimento che si ritiene possano essere di utilità all’Ente che ha posto il quesito.
In particolare la norma da prendere in considerazione è l’articolo 78, comma 2, TUEL il quale recita: “Gli amministratori di cui all'articolo 77, comma 2, devono astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado. L'obbligo di astensione non si applica ai provvedimenti normativi o di carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado”.
Alla luce delle considerazioni in appresso indicate pare che nel caso di specie manchino le condizioni per ritenere sussistente l’obbligo di astensione del consigliere comunale in relazione all’approvazione della predetta delibera.
In via generale si ricorda che la giurisprudenza
[9] ha più volte affermato che la norma in commento è espressione di un obbligo generale di astensione dei membri di collegi amministrativi che vengano a trovarsi in posizione di conflitto di interessi in quanto portatori di interessi personali, diretti o indiretti, in contrasto potenziale con quello pubblico.
Con riferimento specifico all’approvazione dei provvedimenti normativi o di carattere generale, al cui interno deve ricondursi anche la fattispecie in esame, la norma ha disciplinato l’obbligo di astensione in modo tale che la sua violazione possa verificarsi solo in presenza di un interesse immediato, diretto e specifico dell’amministratore (o dei suoi parenti o affini) e non di un interesse genericamente non definito.
Quanto alla delibera di approvazione del bilancio consolidato con i bilanci dei propri organismi ed enti strumentali e delle società controllate e partecipate, assunta dal consiglio comunale, si rileva che esso, ai sensi del principio applicato n. 4/4 di cui al decreto legislativo 23.06.2011, n. 118, consiste in “un documento contabile a carattere consuntivo che rappresenta il risultato economico, patrimoniale e finanziario del «gruppo amministrazione pubblica» […]. Il bilancio consolidato è quindi lo strumento informativo primario di dati patrimoniali, economici e finanziari del gruppo inteso come un’unica entità economica distinta dalle singole società e/o enti componenti il gruppo, che assolve a funzioni essenziali di informazione, sia interna che esterna, funzioni che non possono essere assolte dai bilanci separati degli enti e/o società componenti il gruppo né da una loro semplice aggregazione”.
Il Servizio finanza locale sull’argomento ha precisato come trattasi di un documento che consiste principalmente in un “assemblaggio” tecnico di bilanci di esercizio singolarmente approvati ed opportunamente adattati secondo regole tecniche precise per permetterne il consolidamento.
Attesa la natura del bilancio consolidato in uno con le funzioni ad esso proprie
[10], considerato il fatto che il bilancio consolidato viene redatto sulla base dei documenti contabili trasmessi dagli enti partecipati, i quali costituiscono documenti “perfetti” nel senso che si tratta di atti già approvati nelle rispettive sedi (per quel che rileva in questa sede, approvati dagli organi competenti del consorzio), produttivi di effetti e non impugnabili dagli amministratori dell’ente capogruppo (il Comune), parrebbe seguire l’inesistenza di un interesse immediato e diretto del consigliere comunale con riferimento all’approvazione della delibera in argomento.
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[1] L’approvazione consiliare, pertanto, benché intervenuta quando il consigliere comunale non era più revisore dei conti del consorzio, afferiva, tuttavia, a documenti contabili del consorzio sui quali lo stesso aveva svolto la sua attività di revisore dei conti.
[2] Né di quelle contenute all’articolo 60 TUEL le quali benché volte a individuare specifiche ipotesi di ineleggibilità, qualora sopraggiungano nel corso del mandato trovano applicazione in forza dell’estensione contenuta all’articolo 63, comma 1, num. 7) TUEL.
[3] Ministero dell’Interno, parere del 25.05.2010.
[4] Si trattava di un componente dei revisori dei conti di un consorzio tra comuni eletto consigliere comunale in uno degli enti locali facenti parte del consorzio.
[5] Tale norma si applica al consorzio in forza del rinvio contenuto all’articolo 2, comma 2, TUEL il quale recita: “Le norme sugli enti locali previste dal presente testo unico si applicano, altresì, salvo diverse disposizioni, ai consorzi cui partecipano enti locali, con esclusione di quelli che gestiscono attività aventi rilevanza economica ed imprenditoriale e, ove previsto dallo statuto, dei consorzi per la gestione dei servizi sociali”. Peraltro si ricorda che l’articolo 24 (Disciplina in materia di revisione economico-finanziaria degli enti locali) della legge regionale 17.07.2015, n. 18 stabilisce che: “In materia di revisione economico-finanziaria degli enti locali si applica la normativa statale, salvo quanto previsto dalla legge regionale”.
[6] L’articolo 2399, primo comma, del cod. civ. recita: “Non possono essere eletti alla carica di sindaco e, se eletti, decadono dall'ufficio:
   a) omissis;
   b) il coniuge, i parenti e gli affini entro il quarto grado degli amministratori della società, gli amministratori, il coniuge, i parenti e gli affini entro il quarto grado degli amministratori delle società da questa controllate, delle società che la controllano e di quelle sottoposte a comune controllo;
   c) omissis”.
[7] Non si prende, invece, in esame la fattispecie contemplata al comma 2 dell’articolo 236 TUEL nella parte in cui sancisce che l’incarico di revisione economico-finanziaria non possa essere esercitato dai componenti degli organi dell’ente locale atteso che essa introduce una causa di incompatibilità per il revisore contabile che sia amministratore nel medesimo ente (consorzio) nel quale esercita il proprio mandato elettivo.
[8] La relazione di controllo tra Comune e consorzio andrebbe, infatti, valutata alla luce dell’articolo 2359 del cod. civ. il quale stabilisce che: “Sono considerate società controllate:
   1) le società in cui un'altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell'assemblea ordinaria;
   2) le società in cui un'altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un'influenza dominante nell'assemblea ordinaria;
   3) le società che sono sotto influenza dominante di un'altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa”.
[9] Tra le altre, TAR Piemonte, Torino, sez. I, sentenza del 24.10.2014, n. 1623; Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 28.01.2011, n. 693.
[10] A tal riguardo, il punto 1 dell’Allegato 4/4 al D.Lgs. 118/2011 stabilisce che il bilancio consolidato deve consentire di: “a) sopperire alle carenze informative e valutative dei bilanci degli enti che perseguono le proprie funzioni anche attraverso enti strumentali e detengono rilevanti partecipazioni in società […]; b) attribuire alla amministrazione capogruppo un nuovo strumento per programmare, gestire e controllare con maggiore efficacia il proprio gruppo comprensivo di enti e società; c) ottenere una visione completa delle consistenze patrimoniali e finanziarie di un gruppo di enti e società che fa capo ad un'amministrazione pubblica, incluso il risultato economico”
  (25.01.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

GIURISPRUDENZA

APPALTI: Partecipazione alla gara pubblica di impressa in concordato con continuità aziendale.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Requisiti di partecipazione – Capacità finanziaria – Art. 84, d.lgs. n. 50 del 2016 - Epoca della gara – Individuazione.
  
Contratti della Pubblica amministrazione – Raggruppamento temporaneo di imprese – Inversione dei ruoli di mandante e mandataria – Art. 48, d.lgs. n. 50 del 2016 – Limiti.
  
Contratti della Pubblica amministrazione – Raggruppamento temporaneo di imprese – Impresa in concordato con continuità aziendale – Mandataria – Esclusione.
  
Contratti della Pubblica amministrazione – Gara – Partecipazione – Ricorso per ammissione a concordato – Partecipazione a gara pubblica – Limiti.
  
L’art. 84, d.lgs. n. 50 del 2016 là dove, come requisito speciale di capacità finanziaria, consente, negli appalti di valore superiore ai 20 milioni di euro, di richiedere ai concorrenti di fornire parametri economico-finanziari significativi certificati da società di revisione e che attestino l’esposizione finanziaria all’”epoca della gara”, è compatibile con una clausola del disciplinare che richiede al concorrente di documentare un patrimonio netto positivo risultante dall’ultimo bilancio approvato secondo la normativa vigente; in tal caso “l’epoca della gara” da prendere in considerazione deve considerare i tempi e modi previsti dal codice civile e dalla statuto per l’approvazione del bilancio e non coincide con il “giorno” di presentazione della domanda di partecipazione in gara (1).
  
La possibilità, per i concorrenti in Raggruppamento temporaneo di imprese, di modificare la propria composizione per ragioni organizzative prevista dall’art. 48, d.lgs. n. 50 del 2016, non legittima una inversione dei ruoli di mandante e mandataria posta in essere al solo e dichiarato scopo di evitare la dichiarazione di anomalia dell’offerta; in tal caso si tratterebbe di una modifica sostanziale dell’offerta finalizzata ad eludere la sanzione espulsiva (2).
  
L’art. 186-bis, comma 7, legge fallimentare (r.d. n. 267 del 1942) vieta all’impresa in concordato con continuità aziendale di assumere il ruolo di mandataria di Raggruppamento temporaneo di imprese (2).
  
L’art. 186-bis della legge fallimentare (r.d. n. 267 del 1942), là dove consente che, anche dopo la presentazione di un ricorso per ammissione al concordato, una impresa possa essere autorizzata dal Tribunale fallimentare a partecipare ad una gara di appalto, deve essere coordinato sistematicamente con la disciplina dell’evidenza pubblica; la partecipazione dell’impresa non deve andare a discapito delle regole dell’evidenza pubblica; la posizione di impresa che ha formulato istanza di “concordato in bianco” (suscettibile di evolvere tanto in concordato di continuità che liquidatorio), il quale necessita di significativi tempi di legge per la sua definizione, è incompatibile con la fase di aggiudicazione di una gara pubblica; il concorrente, in tale fase, deve essere in grado, negli ordinari termini di legge di 60 giorni dall’aggiudicazione, di presentare la documentazione prevista dall’art. 186 bis ai fini della stipulazione del contratto e di prestare le necessarie garanzie (2).
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   (1) L’art. 84 consente alla stazione appaltante due alternative: o la richiesta di dati economico-finanziari significativi e certificati, ovvero la dimostrazione di una cifra di affari realizzata nei migliori cinque anni sugli ultimi dieci.
Si tratta, come ovvio vista la ratio della disposizione, di dati che, proprio perché devono essere “significativi”, non possono certo essere interpretati quali valori una tantum, che la parte può fare in modo di esibire “all’epoca in cui partecipa alla gara” intesa, secondo parte ricorrente, come il momento specifico di presentazione della domanda; è fin troppo ovvio come i dati civilistici di bilancio siano ampiamente suscettibili di oscillazione nel tempo in base a scelte anche di corto respiro della governance societaria, ma non per questo diventino tutti espressione di un “parametro economico-finanziario significativo”, cui invece si riferisce il senso della previsione di legge.
Il bilancio è espressione di un dato significativo non in quanto fotografa il risultato di un singolo giorno o viene redatto in momenti a scelta dell’interessato, ma in quanto, rispettoso delle scadenze di legge (art. 2364 c.c.) e delle previsioni dello statuto che la società non può scegliere di volta in volta di adattare, fotografa un andamento annuale, e dunque significativo nel tempo; esso deve evidenziare una attività economica che, nel complesso ed in un certo arco di tempo ha prodotto risultati positivi e non una scelta una tantum funzionale allo specifico obiettivo di consentire la partecipazione alla gara. Peraltro la legge pone quale requisito alternativamente idoneo a valutare la solidità economico-finanziaria di un concorrente la cifra di affari “per cinque anni” su un arco temporale di dieci, anche in tal caso evocando dati sintomatici di una certa continuità.
In questo contesto l’espressione “all’epoca in cui partecipa alla gara” riferita ai dati economico-finanziari, non può che essere intesa nel senso che il dato deve essere espresso da valori di bilancio i quali, seguendo a loro volta la normativa di riferimento, risultino coevi al periodo della gara; a tal proposito non può quindi che farsi riferimento all’ultimo bilancio approvato secondo le cadenze di legge e di statuto. Né vale obiettare che ciò escluderebbe i concorrenti costituitisi nello stesso anno della gara, posto che la normativa contempla ampiamente l’avvalimento di garanzie.
   (2) Ai sensi dell’art. 186-bis, r.d. n. 267/1942: “L'ammissione al concordato preventivo non impedisce la partecipazione a procedure di assegnazione di contratti pubblici, quando l'impresa presenta in gara… una relazione di un professionista in possesso dei requisiti di cui all'articolo 67, terzo comma, lettera d), che attesta la conformità al piano e la ragionevole capacità di adempimento del contratto…., l'impresa in concordato può concorrere anche riunita in raggruppamento temporaneo di imprese, purché non rivesta la qualità di mandataria e sempre che le altre imprese aderenti al raggruppamento non siano assoggettate ad una procedura concorsuale.”
Ai sensi dell’art. 110, comma 5, d.lgs. n. 50 del 2016, “L'ANAC, sentito il giudice delegato, può subordinare la partecipazione, l'affidamento di subappalti e la stipulazione dei relativi contratti alla necessità che il curatore o l'impresa in concordato si avvalgano di un altro operatore in possesso dei requisiti di carattere generale, di capacità finanziaria, tecnica, economica, nonché di certificazione, richiesti per l'affidamento dell'appalto, che si impegni nei confronti dell'impresa concorrente e della stazione appaltante a mettere a disposizione, per la durata del contratto, le risorse necessarie all'esecuzione dell'appalto e a subentrare all'impresa ausiliata nel caso in cui questa nel corso della gara, ovvero dopo la stipulazione del contratto, non sia per qualsiasi ragione più in grado di dare regolare esecuzione all'appalto o alla concessione, nei seguenti casi: a) se l'impresa non è in regola con i pagamenti delle retribuzioni dei dipendenti e dei versamenti dei contributi previdenziali e assistenziali; b) se l'impresa non è in possesso dei requisiti aggiuntivi che l'ANAC individua con apposite linee guida.”
Non vi è ragione alcuna, pur in assenza di un esplicito coordinamento dell’art. 186-bis della l. fallimentare con il nuovo codice dei contratti pubblici, per ritenere implicitamente abrogato il divieto, del quale non sussiste, oltre ad alcuna abrogazione esplicita, neppure alcuna oggettiva incompatibilità con il nuovo codice.
Onde fugare ogni dubbio sul significato dell’art. 186-bis l.f, basti ricordare, da ultimo, Cass. SU n. 33013/2018 (la sentenza menziona il coordinamento tra il d.lgs. n. 163/2006 e l’art. 186-bis della legge fallimentare; con il d.lgs. n. 50 del 2016, tuttavia, non vi sono, come detto, novità significative) secondo cui: “Nel caso di specie, il d.lgs. n. 50 del 2016, art. 80 (Codice dei contratti pubblici) richiede, per l'accesso alle procedure ad evidenza pubblica, la necessaria sussistenza di una serie di requisiti i quali, secondo una consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato, (Ad. Plen. sent. n. 8 del 2015), devono essere posseduti dai candidati non solo alla data di scadenza del termine per la presentazione della richiesta di partecipazione alla procedura di affidamento, ma anche per tutta la durata della procedura stessa fino all'aggiudicazione definitiva e alla stipula del contratto, nonché per tutto il periodo di esecuzione dello stesso, senza soluzione di continuità.
Alla luce di questa premessa sistematica, si deve procedere ad una lettura coordinata del d.lgs. n. 163 del 2006, art. 38, comma 1, lett. a) (citato in motivazione dal Consiglio di Stato), e dell'art. 186-bis, comma 6 l.fall. dalla quale emerge che le stazioni appaltanti escludono dalla partecipazione alla procedura d'appalto un operatore economico che si trovi in stato di fallimento, di liquidazione coatta, concordato preventivo, salvo il caso di concordato con continuità aziendale (cfr. d.lgs. n. 163 del 2006, art. 38, comma 1, lett. a); art. 186-bis, comma 5, l.fall.); tuttavia la regola, secondo la quale i soggetti in concordato in continuità possono partecipare a procedure di assegnazione, non si applica nel caso in cui l'impresa in concordato sia la mandataria in raggruppamento temporaneo di imprese.
In tale ipotesi, opera l'esclusione dalle procedure concorsuali per carenza dei requisiti soggettivi richiesti dalla norma. L'applicazione di tali norme, di stretta interpretazione legislativa, esclude addirittura il potere discrezionale in capo alla p.a., fondandosi sul divieto imposto ex lege, dettato in virtù d.lgs. n. 163 del 2006, citato art. 38 e art. 186-bis, comma 6, l.fall..
”.
La ratio dell’esclusione per il caso della specifica posizione di mandataria della società in concordato si comprende agevolmente: nell’economia di un’ATI la mandataria è il punto di riferimento ineludibile della stazione appaltante e deve garantire la corretta esecuzione dell’appalto anche per le mandanti; la società in concordato con continuità aziendale (sempre ammesso e non concesso che a tale condizione sia assimilabile la posizione di Astaldi) è una società che, ex lege, per concorrere alle gare necessita di specifiche attestazioni di ragionevole capacità di adempimento del contratto in proprio e può, a determinate condizioni, anche essere obbligata a farsi garantire da un altro operatore; in mancanza del divieto si verificherebbe il paradosso che l’impresa che per legge necessita di essere garantita da terzi, sempre per legge, dovrebbe essere a sua volta responsabile in solido (con funzione sostanzialmente di garanzia) dell’esecuzione non solo della propria quota di obbligazioni ma di tutto l’oggetto dell’appalto (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 07.03.2019 n. 260 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: E' legittima la scelta di non invitare il gestore uscente ad una procedura negoziata avente ad oggetto un servizio in continuità con quello precedente.
Premesso che quello in esame è un appalto sotto soglia e che la procedura su cui nello specifico si controverte non è aperta, bensì negoziata, va confermato il principio di carattere generale in virtù del quale va riconosciuta l’obbligatorietà del principio di rotazione per le gare di lavori, servizi e forniture negli appalti cd. “sotto soglia”.
In particolare, il principio di rotazione -che per espressa previsione normativa deve orientare le stazioni appaltanti nella fase di consultazione degli operatori economici da invitare a presentare le offerte- trova fondamento nell’esigenza di evitare il consolidamento di rendite di posizione in capo al gestore uscente (la cui posizione di vantaggio deriva dalle informazioni acquisite durante il pregresso affidamento e non invece –come ipotizzato dall’appellante– dalle modalità di affidamento, di tipo “aperto”, “ristretto” o “negoziato”), soprattutto nei mercati in cui il numero di operatori economici attivi non è elevato.
Pertanto, anche al fine di dissuadere le pratiche di affidamenti senza gara –tanto più ove ripetuti nel tempo– che ostacolino l’ingresso delle piccole e medie imprese e di favorire, per contro, la distribuzione temporale delle opportunità di aggiudicazione tra tutti gli operatori potenzialmente idonei, il principio in questione comporta, in linea generale, che ove la procedura prescelta per il nuovo affidamento sia di tipo ristretto o “chiuso” (recte, negoziato), l’invito all’affidatario uscente riveste carattere eccezionale.
Rileva quindi il fatto oggettivo del precedente affidamento in favore di un determinato operatore economico, non anche la circostanza che questo fosse scaturito da una procedura di tipo aperto o di altra natura.
Per l’effetto, ove la stazione appaltante intenda comunque procedere all’invito del precedente affidatario, dovrà puntualmente motivare tale decisione, facendo in particolare riferimento al numero (eventualmente) ridotto di operatori presenti sul mercato, al grado di soddisfazione maturato a conclusione del precedente rapporto contrattuale ovvero al peculiare oggetto ed alle caratteristiche del mercato di riferimento (in tal senso, si veda anche la delibera 26.10.2016, n. 1097 dell’Autorità nazionale anticorruzione, linee-guida n. 4).
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Il motivo non può trovare accoglimento.
Premesso infatti che quello in esame è un appalto sotto soglia e che la procedura su cui nello specifico si controverte non è aperta, bensì negoziata, va confermato il principio di carattere generale –su cui, da ultimi, Cons. Stato, V, 13.12.2017, n. 5854 e VI, 31.08.2017, n. 4125– in virtù del quale va riconosciuta l’obbligatorietà del principio di rotazione per le gare di lavori, servizi e forniture negli appalti cd. “sotto soglia”.
In particolare, il principio di rotazione -che per espressa previsione normativa deve orientare le stazioni appaltanti nella fase di consultazione degli operatori economici da invitare a presentare le offerte- trova fondamento nell’esigenza di evitare il consolidamento di rendite di posizione in capo al gestore uscente (la cui posizione di vantaggio deriva dalle informazioni acquisite durante il pregresso affidamento e non invece –come ipotizzato dall’appellante– dalle modalità di affidamento, di tipo “aperto”, “ristretto” o “negoziato”), soprattutto nei mercati in cui il numero di operatori economici attivi non è elevato.
Pertanto, anche al fine di dissuadere le pratiche di affidamenti senza gara –tanto più ove ripetuti nel tempo– che ostacolino l’ingresso delle piccole e medie imprese e di favorire, per contro, la distribuzione temporale delle opportunità di aggiudicazione tra tutti gli operatori potenzialmente idonei, il principio in questione comporta, in linea generale, che ove la procedura prescelta per il nuovo affidamento sia di tipo ristretto o “chiuso” (recte, negoziato), l’invito all’affidatario uscente riveste carattere eccezionale.
Rileva quindi il fatto oggettivo del precedente affidamento in favore di un determinato operatore economico, non anche la circostanza che questo fosse scaturito da una procedura di tipo aperto o di altra natura.
Per l’effetto, ove la stazione appaltante intenda comunque procedere all’invito del precedente affidatario, dovrà puntualmente motivare tale decisione, facendo in particolare riferimento al numero (eventualmente) ridotto di operatori presenti sul mercato, al grado di soddisfazione maturato a conclusione del precedente rapporto contrattuale ovvero al peculiare oggetto ed alle caratteristiche del mercato di riferimento (in tal senso, si veda anche la delibera 26.10.2016, n. 1097 dell’Autorità nazionale anticorruzione, linee-guida n. 4).
Nel caso su cui si verte, dunque, la stazione appaltante aveva solo due possibilità: non invitare il gestore uscente o, in caso contrario, motivare attentamente le ragioni per le quali riteneva di non poter invece prescindere dall’invito.
La scelta di optare per la prima soluzione è dunque legittima, né in favore della soluzione contraria valgono considerazioni di tutela della concorrenza: invero, l’obbligo di applicazione del principio di rotazione negli affidamenti sotto-soglia è volto proprio a tutelare le esigenze della concorrenza in un settore nel quale è maggiore il rischio del consolidarsi, ancor più a livello locale, di posizioni di rendita anticoncorrenziale da parte di singoli operatori del settore risultati in precedenza aggiudicatari della fornitura o del servizio.
In particolare, per effetto del principio di rotazione l’impresa che in precedenza ha svolto un determinato servizio non ha più alcuna possibilità di vantare una legittima pretesa ad essere invitata ad una nuova procedura di gara per l’affidamento di un contratto pubblico di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria, né di risultare aggiudicataria del relativo affidamento (ex multis, Cons. Stato, V, 13.12.2017, n. 5854; V, 31.08.2017, n. 4142).
Neppure può trovare accoglimento l’ulteriore profilo di censura secondo cui, nel caso di specie, il principio di rotazione non avrebbe potuto comunque trovare applicazione in ragione della non perfetta omogeneità tra le prestazioni oggetto dell’affidamento e quelle in precedenza rese da Co. s.p.a. in qualità di affidatario uscente.
Invero, la stessa circostanza che l’odierna appellante rivendichi la propria qualità di “gestore uscente” dà la misura dei limiti oggettivi di tale argomento, dal momento che in tanto può avere un senso spendere nel processo una tale circostanza, in quanto il nuovo affidamento nel quale si intende subentrare sia consustanziale al precedente.
In ogni caso, l’eccezione non è fondata.
Non è infatti sostenibile, alla luce delle risultanze di causa, che l’affidamento su cui attualmente si controverte presenti una sostanziale alterità qualitativa (ossia afferente la natura delle prestazioni richieste) rispetto al precedente affidamento assegnato a Co. s.p.a. nel 2016, alterità che del resto neppure viene individuata, almeno nei suoi contenuti essenziali, dall’appellante.
Al riguardo, non è pertinente il richiamo (a pag. 18 dell’atto di appello) fatto da Co. a quanto riportato nelle difese della stazione appaltante, per cui “tra la prima e la seconda gara è stato modificato, cosa di non poco conto, l’oggetto della gara”, dal momento che le stesse non fanno riferimento ad un’eventuale differenza tra la gara del 2016 assegnata a Co. ed a quella su cui attualmente si verte –differenza che si sarebbe dovuto riscontrare, nell’ottica argomentativa dell’appellante– bensì attengono, quanto alla prima, alla procedura negoziata di cui alla determinazione n. 112 del 15.05.2017, del tutto irrilevante in quanto di lì a poco annullata in autotutela.
Sul punto, già nel corso del precedente grado di giudizio la Stazione Zoologica di Napoli aveva chiarito che con la determinazione n. 112 del 2017 era stata bandita una “procedura negoziata per l’affidamento del servizio di portierato/reception per la sede di Napoli, la sede di Portici ed il servizio di ronda per il laboratorio in via ... n. 127 – Ischia”, poi annullata d’ufficio con determina n. 143 del 14.06.2017 in ragione, tra l’altro, della ritenuta contrarietà del bando con l’art. 51 del d.lgs. n. 50 del 2016, nella parte in cui la lettera di invito aveva inteso affidare, mediante lotto unico, sia i servizi di vigilanza che i servizi di portierato e reception, così precludendo l’accesso ai soggetti privi di licenza ex art. 134 Tulps.
In ragione di ciò, con successiva determina n. 327 del 29.11.2017, la stazione appaltante bandiva una nuova gara con oggetto quantitativamente ridotto rispetto alla precedente –in ciò stava la differenza denunciata dall’appellante– in quanto limitata al servizio di portierato/reception per la sede di Napoli e Portici (con “stralcio”, dunque, del servizio di ronda per il laboratorio di Ischia).
La specifica contestazione non è pertanto conferente con l’oggetto della controversia.
Sulla questione deve comunque concludersi, in termini generali, che –se è corretto affermare che l’applicazione del disposto di cui all’art. 36, comma primo del d.lgs. n. 50 del 2016, proprio perché volta a tutelare la dimensione temporale della concorrenza, logicamente presuppone una specifica situazione di continuità degli affidamenti, tale per cui un determinato servizio, una volta raggiunta la scadenza contrattuale, potrebbe essere ciclicamente affidato mediante un nuova gara allo stesso operatore– ciò non implica però che i diversi affidamenti debbano essere ognuno l’esatta “fotocopia” degli altri.
In breve, ciò che conta è l’identità (e continuità), nel corso del tempo, della prestazione principale o comunque –nel caso in cui non sia possibile individuare una chiara prevalenza delle diverse prestazioni dedotte in rapporto (tanto più se aventi contenuto tra loro non omogeneo)– che i successivi affidamenti abbiano comunque ad oggetto, in tutto o parte, queste ultime.
In questi termini di grandezza va dunque letta la norma di legge in precedenza richiamata, ad escludere cioè che la procedura di selezione del contraente si risolva in una mera rinnovazione –in tutto o in parte, e comunque nei suoi contenuti qualificanti ed essenziali– del rapporto contrattuale scaduto, dando così luogo ad una sostanziale elusione delle regole della concorrenza a discapito degli operatori più deboli del mercato cui, nel tempo, sarebbe sottratta la possibilità di accedere ad ogni prospettiva di aggiudicazione (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.03.2019 n. 1524 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sul cambio abusivo di destinazione d’uso dell’immobile da negozio a luogo di culto, senza opere, da parte di una associazione di promozione sociale.
La compatibilità urbanistica, con tutte le destinazioni d’uso omogenee previste dal D.M. n. 1444 del 1968, della sede delle associazioni di promozione sociale e dei locali nei quali si svolgono le relative attività (ex art. 32, comma 4, della legge n. 383 del 2000), nonché secondo Cass. 449/1985, 24852/2015, 34812/2017 delle attività di culto, non esonera dall’obbligo di richiedere e ottenere un conforme titolo edilizio, non rilevando nel vigente ordinamento giuridico, ai fini della valutazione del regime autorizzatorio applicabile, la qualificazione soggettiva del privato proponente.
Difatti, il citato art. 32 della legge n. 383 del 2000 pone una compatibilità ex lege della sede e dei locali dell’associazione di promozione sociale con qualsiasi zona omogenea di PRG, ma poi la concreta modificabilità del precedente uso, ancorché senza opere, quando non sia tra categorie funzionali omogenee, deve essere assentita in un apposito titolo edilizio, mediante il quale l’Amministrazione possa, oltre che verificare i presupposti allegati dal richiedente circa la riconducibilità della situazione proprio al paradigma del citato art. 32, o ad altre ipotesi di astratta compatibilità, anche verificare l’eventuale maggiore incidenza sotto il profilo urbanistico-edilizio del nuovo uso, ai fini del calcolo della differenza dei relativi oneri, unitamente alla necessità di procedere all’accertamento del rispetto di tutte le prescrizioni sia di natura edilizia che urbanistica che rendano idoneo l’immobile in relazione al nuovo utilizzo.
Pertanto, in mancanza del necessario titolo edilizio, appare assolutamente giustificata l’applicazione della sanzione ripristinatoria prevista dal D.P.R. n. 380 del 2001, laddove, come nella fattispecie oggetto del presente contenzioso, sia stata abusivamente mutata la destinazione d’uso originariamente assentita.
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La parte ricorrente si qualifica associazione di promozione sociale che dal 2004 svolge le sue attività nell’immobile, ottenuto in locazione dalla proprietaria, sito in Mestre, P.le Madonna Pellegrina, in zona residenziale di completamento B1, avente destinazione d’uso commerciale;
Con l’ordinanza 06.11.2018 il Comune di Venezia contestava alla predetta Associazione l’avvenuto cambio abusivo di destinazione d’uso dell’immobile da negozio a luogo di culto, senza opere, disponendo di conseguenza il rispristino dell’uso legittimo o la conformazione mediante idoneo titolo.
Con il ricorso, si assume l’illegittimità dell’ordinanza, in quanto il contestato mutamento abusivo –da esercizio commerciale ad attività culturale ed esercizio del culto islamico– non potrebbe dirsi sussistente, tenuto conto che la natura di associazione di promozione sociale della ricorrente le consentirebbe di localizzare la propria sede e i locali ove si svolgono le sue attività in qualsiasi zona del territorio comunale e indipendentemente dalla destinazione legittima impressa «ab origine» all’immobile.
Al riguardo il Collegio osserva che la compatibilità urbanistica, con tutte le destinazioni d’uso omogenee previste dal D.M. n. 1444 del 1968, della sede delle associazioni di promozione sociale e dei locali nei quali si svolgono le relative attività (ex art. 32, comma 4, della legge n. 383 del 2000), nonché secondo Cass. 449/1985, 24852/2015, 34812/2017 delle attività di culto, non esonera dall’obbligo di richiedere e ottenere un conforme titolo edilizio, non rilevando nel vigente ordinamento giuridico, ai fini della valutazione del regime autorizzatorio applicabile, la qualificazione soggettiva del privato proponente (cfr. TAR Toscana, III, 20.12.2012, n. 2105); difatti, il citato art. 32 della legge n. 383 del 2000 pone una compatibilità ex lege della sede e dei locali dell’associazione di promozione sociale con qualsiasi zona omogenea di PRG, ma poi la concreta modificabilità del precedente uso, ancorché senza opere, quando non sia tra categorie funzionali omogenee, deve essere assentita in un apposito titolo edilizio, mediante il quale l’Amministrazione possa, oltre che verificare i presupposti allegati dal richiedente circa la riconducibilità della situazione proprio al paradigma del citato art. 32, o ad altre ipotesi di astratta compatibilità, anche verificare l’eventuale maggiore incidenza sotto il profilo urbanistico-edilizio del nuovo uso, ai fini del calcolo della differenza dei relativi oneri, unitamente alla necessità di procedere all’accertamento del rispetto di tutte le prescrizioni sia di natura edilizia che urbanistica che rendano idoneo l’immobile in relazione al nuovo utilizzo (cfr. TAR Campania, Napoli, VIII, 24.05.2016, n. 2635; altresì, TAR Puglia, Bari, III, 20.05.2016, n. 691, nonché la stessa giurisprudenza invocata sulla compatibilità della attività di culto con ogni destinazione).
Pertanto, in mancanza del necessario titolo edilizio, appare assolutamente giustificata l’applicazione della sanzione ripristinatoria prevista dal D.P.R. n. 380 del 2001, laddove, come nella fattispecie oggetto del presente contenzioso, sia stata abusivamente mutata la destinazione d’uso originariamente assentita (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 05.03.2019 n. 286 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Alla Corte costituzionale la legge regionale veneta che consente, nell’ambito del “piano casa”, la deroga alle altezze di cui al d.m. 1444 del 1968.
La Sesta Sezione del Consiglio di Stato solleva questione di legittimità costituzionale della norma che, nell’ambito della disciplina della Regione Veneto sul “piano casa”, stabilisce che gli ampliamenti e le ricostruzioni degli edifici esistenti possano avvenire anche in deroga alle disposizioni in materia di altezze di cui al d.m. n. 1444 del 1968.
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Alla Corte costituzionale la legge regionale veneta che consente, nell’ambito del “piano casa”, la deroga alle altezze di cui al d.m. 1444 del 1968.
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Edilizia – Disposizioni statali in materia di altezze – Legge Regione Veneto – Deroga alle altezze – Questione non manifestamente infondata di costituzionalità.
È rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 8-bis, della legge regionale del Veneto 08.07.2009, n. 14 (Intervento regionale a sostegno del settore edilizio e per favorire l'utilizzo dell'edilizia sostenibile e modifiche alla legge regionale 12.07.2007, n. 16 in materia di barriere architettoniche), in riferimento all’art. 117, secondo comma lett. l) e terzo comma, della Costituzione, nella parte in cui consente le deroghe alle disposizioni in materia di altezze previste dal d.m. 1444 del 1968 (1).

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   (1) I. – Con l’ordinanza in rassegna la Sesta Sezione del Consiglio di Stato -chiamata a pronunciarsi sulla ammissibilità di un intervento edilizio di demolizione e ricostruzione con ampliamento, attuativo della normativa regionale sul c.d. “piano casa” e comportante il rialzamento del quaranta per cento dell’edificio esistente– ha sollevato questione di legittimità costituzionale della disposizione della legge regionale veneta che consente la deroga “alle disposizioni in materia di altezze previste dal decreto ministeriale n. 1444 del 1968”.
La fattispecie che ha condotto alla rimessione alla Corte costituzionale può essere così sintetizzata:
   − il contenzioso avviato dinanzi al Tar per il Veneto ha ad oggetto un intervento di demolizione e ricostruzione con incremento volumetrico, attuativo della disciplina del c.d. “piano casa” di cui alla legge regionale del Veneto n. 14 del 2009, intervento contestato dal confinante, tra l’altro, nella parte in cui prevede un’altezza del nuovo edificio superiore al 40 per cento rispetto all’edificio preesistente, ritenendo parte ricorrente che l’incremento di altezza risulti illegittimo;
   − la contestazione riguarda l’applicazione dell’art. 9, comma 8-bis, della legge regionale n. 14 del 2009, che consente un incremento di altezza fino al 40 per cento dell’“edificio esistente”; si contesta che il progettista abbia sì calcolato il 40% dell’altezza dell’edificio esistente, ma, anziché sommare detta percentuale allo stesso edificio che ha generato l’incremento, l’abbia aggiunta all’altezza dell’immobile più alto della zona;
   − il Tar per il Veneto, sez. II, con sentenza n. 944 del 2017, ha sul punto accolto il ricorso, evidenziando che non può considerarsi come “edificio esistente” l'edificio circostante più alto, come invece erroneamente ritenuto dal Comune, poiché “l'edificio esistente è l'edificio che è oggetto di ampliamento”;
   − interposto appello avverso la citata sentenza, il Consiglio di Stato, ha ritenuto di sollevare d’ufficio la questione di legittimità costituzionale della norma regionale della cui applicazione si controverte tra le parti.
   II. – Nella fattispecie in esame viene in considerazione il “piano casa” di cui alla legge regionale veneta 08.07.2009, n. 14 e, in particolare, la disposizione di cui all’art. 9, comma 8-bis, frutto di inserimento nel corpo normativo originario ad opera della legge regionale 29.11.2013, n. 32, che consente la deroga alla disciplina delle altezze degli edifici di cui al d.m. n. 1444 del 1968 e richiama altresì la norma statale di cui all’art. 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001.
Appare utile richiamare le disposizioni legislative evocate, per una esatta comprensione della questione di legittimità costituzionale sollevata:
      a) d.m. 02.04.1968, n, 1444, art. 8 “limiti di altezza degli edifici”: “Le altezze massime degli edifici per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue:
1) Zone A): per le operazioni di risanamento conservativo non è consentito superare le altezze degli edifici preesistenti, computate senza tener conto di soprastrutture o di sopraelevazioni aggiunte alle antiche strutture; per le eventuali trasformazioni o nuove costruzioni che risultino ammissibili, l'altezza massima di ogni edificio non può superare l'altezza degli edifici circostanti di carattere storico-artistico.
2) Zone B): l'altezza massima dei nuovi edifici non può superare l'altezza degli edifici preesistenti e circostanti, con la eccezione di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche, sempre che rispettino i limiti di densità fondiaria di cui all'art. 7.
3). Zone C): contigue o in diretto rapporto visuale con zone del tipo A): le altezze massime dei nuovi edifici non possono superare altezze compatibili con quelle degli edifici delle zone A) predette.
4) Edifici ricadenti in altre zone: le altezze massime sono stabilite dagli strumenti urbanistici in relazione alle norme sulle distanze tra i fabbricati di cui al successivo art. 9
”;
      b) art. 2-bis d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (introdotto dal decreto-legge 21.06.2013, n. 69 convertito dalla legge 09.08.2013, n. 98), rubricato “deroghe in materia di limiti di distanza tra fabbricati”: “Ferma restando la competenza statale in materia di ordinamento civile con riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme del codice civile e alle disposizioni integrative, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell'ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali”;
      c) art. 9, comma 8-bis, legge regionale Veneto 08.07.2009, n. 14 (introdotto dalla legge regionale 29.11.2013, n. 32): “Al fine di consentire il riordino e la rigenerazione del tessuto edilizio urbano già consolidato ed in coerenza con l'obiettivo prioritario di ridurre o annullare il consumo di suolo, anche mediante la creazione di nuovi spazi liberi, in attuazione dell'articolo 2-bis del D.P.R. n. 380/2001 gli ampliamenti e le ricostruzioni di edifici esistenti situati nelle zone territoriali omogenee di tipo B e C, realizzati ai sensi della presente legge, sono consentiti anche in deroga alle disposizioni in materia di altezze previste dal decreto ministeriale n. 1444 del 1968 e successive modificazioni, sino ad un massimo del 40 per cento dell'altezza dell'edificio esistente”.
   III. – Nell’ordinanza in rassegna la sesta sezione del Consiglio di Stato giunge a sollevare questione di costituzionalità dell’art. 9, comma 8-bis, della l.r. n. 14 del 2009 sulla base del seguente percorso argomentativo:
      d) con l'introduzione, nel t.u. edilizia, dell'art. 2-bis da parte dell'art. 30, comma 1, lettera a), del decreto-legge 21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni,
dall'art. 1, comma 1, della legge 09.08.2013, n. 98, l’ordinamento ha sostanzialmente recepito l'orientamento della giurisprudenza costituzionale, inserendo nel testo unico sull'edilizia i principi fondamentali della vincolatività, anche per le Regioni e le Province autonome, delle distanze legali e più in generale delle previsioni stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968 e dell'ammissibilità delle deroghe, solo a condizione che siano inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio;
      e) la deroga alla disciplina dei parametri in tema di densità, di altezze e di distanze, realizzata dagli strumenti urbanistici, deve quindi ritenersi legittima sempre che faccia riferimento ad una pluralità di fabbricati e sia fondata su previsioni planovolumetriche che evidenzino, cioè, una capacità progettuale tale da definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni considerate come fossero un edificio unitario;
      f) appare non coerente, rispetto alle indicazioni interpretative offerte dalla giurisprudenza costituzionale e ribadite dal disposto di cui all'art. 2-bis TUE, il mancato riferimento della norma impugnata a quella tipologia di atti menzionati nel testo del d.m. n. 1444 del 1968 richiamato, cui va riconosciuta la possibilità di derogare al regime delle altezze e delle distanze:
         f1) la stessa giurisprudenza costituzionale ha stabilito con riferimento alle distanze -sebbene con una considerazione che pare potersi estendere anche qui alle altezze stante l’analogia del testo del d.m. e la generalità della previsione letterale dell’art. 2-bis (ben più ampia della mera rubrica)- che la deroga alle distanze minime potrà essere contenuta, oltre che in piani particolareggiati o di lottizzazione, in ogni strumento urbanistico equivalente sotto il profilo della sostanza e delle finalità, purché caratterizzato da una progettazione dettagliata e definita degli interventi;
         f2) ne consegue che devono ritenersi ammissibili le deroghe predisposte nel contesto dei piani urbanistici attuativi, in quanto strumenti funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio, secondo quanto richiesto, al fine di attivare le deroghe in esame, dall'art. 2-bis del TUE, in linea con l'interpretazione nel tempo tracciata dalla Corte costituzionale;
      g) tali stringenti presupposti della deroga, non si rivengono nel testo della norma regionale in contestazione:
         g1) il riferimento agli ampliamenti ed alle ricostruzioni di edifici esistenti situati nelle zone territoriali omogenee di tipo B e C, nell’espressione utilizzata dal legislatore regionale veneto, appare infatti in contrasto con il puntuale contenuto che dovrebbe assumere una previsione siffatta, risultando destinata a legittimare deroghe al di fuori di una adeguata pianificazione urbanistica;
         g2) l'assenza di precise indicazioni, in coerenza con quanto già evidenziato dalla giurisprudenza costituzionale, non consente di attribuire agli interventi in questione un perimetro di azione necessariamente coerente con l'esigenza di garantire omogeneità di assetto a determinate zone del territorio; infatti, la dizione della norma si presta, sul piano semantico, a legittimare (come avvenuto nel caso di specie) anche interventi diretti a singoli edifici, in aperto contrasto con le indicazioni interpretative offerte in precedenza;
         g3) in tale ottica appare pertanto non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della norma censurata, in quanto legittima deroghe alla disciplina delle altezze dei fabbricati al di fuori dell'ambito della competenza regionale concorrente in materia di governo del territorio, a fronte del principio contenuto nell’art. 2-bis cit., ed in violazione del limite dell'ordinamento civile assegnato alla competenza legislativa esclusiva dello Stato;
      h) va altresì richiamata la valenza generale del d.m. 02.04.1968 n. 1444 che, essendo stato emanato su delega dell'art. 41- quinquies, della legge 17.08.1942 n. 1150, inserito dall'art. 17 della legge 06.08.1967 n. 765, ha efficacia e valore di legge, sicché sono comunque inderogabili le sue disposizioni in tema di limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati:
         h1) le relative disposizioni in tema di distanze tra costruzioni non vincolano solo i Comuni, tenuti ad adeguarvisi nell'approvazione di nuovi strumenti urbanistici o nella revisione di quelli esistenti, ma sono immediatamente operanti nei confronti dei proprietari frontisti; tale conclusione vale, analogamente, per le altezze, poiché scopo delle norme regolamentari concernenti l'altezza degli edifici non è soltanto la tutela dell'igiene pubblica, ma, insieme, quella del decoro e dell'indirizzo urbanistico dell'abitato;
         h2) la giurisprudenza è da tempo orientata in modo univoco ad affermare che il decreto ministeriale in questione (ascrivibile secondo una preminente teoria all'atipica categoria dei regolamenti delegati o liberi) ha efficacia di legge, cosicché le sue disposizioni, anche in tema di limiti inderogabili di altezza dei fabbricati, prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, alle quali si sostituiscono per inserzione automatica, con conseguente loro diretta operatività nei rapporti tra privati;
         h3) a fronte della riconosciuta valenza del d.m. 1444, confermata dalla consolidata giurisprudenza costituzionale, gli spazi di derogabilità appaiono ammissibili, in capo al legislatore regionale, nei limiti dettati dal legislatore statale, dotato di competenza in tema appunto di principi fondamentali in materia di governo del territorio; orbene, nel caso di specie il legislatore regionale appare aver oltrepassato detti limiti, nella parte in cui consente le indicate deroghe al di fuori dell’ammesso ambito di “definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali”.
   IV. – Per completezza si segnala quanto segue:
      i) sulla disciplina del c.d. “piano casa” si veda:
         i1) in dottrina F. CARINGELLA, M. PROTTO (a cura di), Il piano casa – Commento organico all’Intesa Stato-Regioni del 31.03.2009 e a tutte le leggi regionali, Roma 2009 ed ivi, in particolare: R. GIANI, Conferenza Stato-Regioni ed enti locali- Intesa del 31.03.2009 (pp. 5 ss.) e M. RAGAZZO, Il piano casa del Veneto (pp. 173 ss.);
         i2) in giurisprudenza, Cons. Stato, sez. IV 26.07.2017, n. 3680 sul piano caso della regione Veneto e sui requisiti del silenzio assenso previsto dal d.l. n. 70 del 2011; sez. IV, 19.04.2017, n. 1828 (in Foro it., 2017, III, 652), sul piano casa della regione Campania, sulla inderogabilità del d.m. n. 1444 del 1968 e sui requisiti del silenzio assenso previsto dal d.l. n. 70 del 2011; sez. IV, 05.09.2016, n. 3805, sul piano casa della regione Campania, sui requisiti del silenzio-assenso e sulla autotutela nei confronti di un titolo edilizio formatosi per silenzio assenso;
      j) sulla legge regionale Veneto 08.07.2009, n. 14 si veda l’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale del Tar per il Veneto, sez. II, 12.12.2018, n. 1166 (oggetto della News US n. 14 del 18.01.2019, cui si rinvia per ampi riferimenti di dottrina e giurisprudenza), relativa alle previsioni regionali che consentono la deroga alle distanze dai confini stabilite dagli strumenti urbanistici e dai regolamenti locali;
      k) sulla disciplina introdotta dal decreto-legge n. 69 del 2013 (che ha inserito nel Testo unico dell’edilizia l’art. 2-bis) si vedano:
         k1) in dottrina: A. DI MARIO, Standard urbanistici e distanze tra costruzioni tra stato e regioni dopo il «decreto del fare» in Urbanistica e appalti, 2013, 1121 ss.; F. DI LASCIO, Il decreto “del fare”: il rilancio dell’economia in Giornale dir. amm., 2013, 12, 1143; A. SCONOCCHIA BIFANI, Deroghe alle distanze fra costruzioni alle luce del d.l. 21.06.2013, n. 69 in Riv. giur. edilizia 2014, 16; D. CHINELLO, Le semplificazioni in materia edilizia nel “decreto del fare” in Immobili e proprietà, 2014, I, 12; S. MORELLI, Edilizia e urbanistica – la proprietà edilizia nella dialettica tra formante statale e formante regionale in Giur. it, 2018, 7, 1575;
         k2) la disciplina in esame è stata interpretata restrittivamente dalla Corte costituzionale, che è intervenuta ripetutamente dichiarando l'illegittimità di disposizioni regionali che stabilivano distanze inferiori, senza dare rilievo alle condizioni stabilite dalla legge statale: cfr. le sentenze 24.02.2017, n. 41, 03.11.2016, n. 231, 20.07.2016, n. 185, 15.07.2016, n. 178, tutte in Foro it., 2017, I, 2566; Corte cost. 21.05.2014, n. 134 in Foro it., 2014, I, 2009; Corte cost., 23.01.2013, n. 6 in Foro it., 2013, I, 737;
      l) sulla efficacia giuridica del d.m. n. 1444 del 1968 si vedano:
         l1) nell’ambito della giurisprudenza costituzionale:
            l1.1) Corte cost., 24.02.2017, n. 41 cit. secondo cui “nel delimitare i rispettivi ambiti di competenza —statale in materia di «ordinamento civile» e concorrente in materia di «governo del territorio»— questa corte ha individuato il punto di equilibrio nell’ultimo comma dell’art. 9 d.m. n. 1444 del 1968, più volte ritenuto dotato di particolare «efficacia precettiva e inderogabile» (sentenza n. 185 del 2016, cit., ma anche sentenze n. 114 del 2012, id., 2012, I, 3265, e n. 232 del 2005, cit.), in quanto richiamato dall’art. 41-quinquies l. 17.08.1942 n. 1150 (legge urbanistica), introdotto dall’art. 17 l. 06.08.1967 n. 765 (modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17.08.1942 n. 1150).
Pertanto, è stata giudicata legittima la previsione regionale di distanze in deroga a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche» (ex plurimis, sentenza n. 231 del 2016, cit.).
In definitiva, le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono consentite «se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio» (sentenza n. 134 del 2014, id., 2014, I, 2009; analogamente, sentenze n. 178, n. 185, n. 189, n. 231 del 2016, citate), poiché «la loro legittimità è strettamente connessa agli assetti urbanistici generali e quindi al governo del territorio, non, invece, ai rapporti tra edifici confinanti isolatamente considerati» (sentenza n. 114 del 2012, cit.; nello stesso senso, sentenza n. 232 del 2005, cit.)
”;
            l1.2) Corte cost., 20.07.2016, n. 185 cit. secondo cui il decreto-legge n. 69 del 2013 “recepisce la ricordata giurisprudenza di questa corte, inserendo nel testo unico sull’edilizia i principî fondamentali della vincolatività, anche per le regioni e le province autonome, delle distanze legali stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968 e dell’ammissibilità delle deroghe solo a condizione che siano «inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio»”;
            l1.3) Corte cost., 15.07.2016, n. 178 cit. che ribadisce che il d.m. n. 1444 del 1968 è dotato “di efficacia precettiva e inderogabile”;
            l1.4) Corte cost., 10.05.2012, n. 114 in Foro it., 2012, I, 3265 secondo cui l’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 costituisce “principio inderogabile che integra la disciplina privatistica delle distanze”;
         l2) pronunce della giurisprudenza amministrativa:
            l2.1) Cons. Stato, sez. IV, 02.12.2013, n. 5732, in Foro amm. – CdS, 2013, 12, 3378 (s.m.) secondo cui “il d.m. 02.04.1968 n. 1444, essendo stato emanato su delega dell'art. 41-quinquies, l. 17.08.1942 n. 1150, inserito dall'art. 17, l. 06.08.1967 n. 765, ha efficacia e valore di legge, sicché sono comunque inderogabili le sue disposizioni in tema di limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati”;
            l2.2.) Cons. Stato, sez. IV, 12.07.2002, n. 3931, che parla, a proposito dell’art. 9 del d.m. n. 1444 di “prescrizione avente carattere di assolutezza ed inderogabilità, risultante da fonte normativa statuale, sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici locali”;
         l3) nell’ambito della giurisprudenza civile:
            l3.1) Cass. civ., sez. un. 07.07.2011, n. 14953 in Vita not., 2012, 258, Riv. giur. edilizia, 2011, I, 1197, secondo cui “le norme tecniche di attuazione di un piano regolatore (nella specie, del comune di Viareggio) che impongano il rispetto della distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate soltanto per i tratti di esse dotati di finestre, con conseguente esonero per quelli ciechi, contrastano con il disposto dell'art. 9, n. 2, d.m. 02.04.1968 n. 1444, che prescrive l'osservanza di tale distacco con riferimento all'intera estensione della parete, sicché esse vanno disapplicate e sostituite, previa inserzione automatica, con la diversa disposizione della norma statale, direttamente applicabile nei rapporti con i privati”;
            l3.2) Cass. civ., sez. un., 01.07.1997, n. 5889 in Giust. civ., 1997, I, 2075, Corriere giur., 1997, 1310, con nota di GIOA, Arch. civ., 1997, 1090 secondo cui invece “il d.m. 02.04.1968 n. 1404 (emanato in esecuzione della norma sussidiaria dell'art. 41-quinquies l. 17.08.1942 n. 1150, introdotto dalla l. 06.08.1967 n. 765) che all'art. 9 prescrive in tutti i casi la distanza minima assoluta di metri dieci tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, impone determinati limiti edilizi ai comuni nella formazione o revisione degli strumenti urbanistici ma non è immediatamente operante anche nei rapporti fra i privati”.
      m) sul concetto di “edificio esistente”, la cui altezza non può essere superata, nella previsione dell’art. 8 del d.m. n. 1444 del 1968:
         m1) Cons. Stato, sez. IV, 09.09.2014, n. 4553 sul concetto di edifici “circostanti”, “confinanti” e “limitrofi”, ai fini della valutazione delle altezze ammissibili;
         m2) Cons. Stato, sez. IV, 14.05.2014, n. 2469 secondo cui “l’art. 8 del d.m. n. 1444/1968 nello stabilire le altezze massime degli edifici per le diverse zone territoriali, prevede espressamente per le zone B, come quella qui in rilievo, che l’altezza massima dei nuovi edifici non può superare l’altezza degli edifici preesistenti e circostanti, <con l’eccezione di edifici che formano oggetto di piani particolareggiati o di lottizzazioni convenzionate con previsioni plano volumetriche>” e tale norma deve essere interpretata nel senso che “occorre fare riferimento all’altezza degli edifici limitrofi e non al più vasto ambito territoriale che identifica la zona (Cons. Stato Sez. IV 02/11/2010 n. 731)”;
         m3) l’art. 8 del d.m. n. 1444 del 1968 secondo cui in zona A “per le eventuali trasformazioni o nuove costruzioni che risultino ammissibili, l'altezza massima di ogni edificio non può superare l'altezza degli edifici circostanti di carattere storico-artistico”;
         m4) Tar per il Veneto, sez. II, 21.04.2016, n. 429 affronta il caso di edificio oggetto di sopraelevazione, in applicazione della legge regionale n. 14 del 2009, che già prima della sopraelevazione stessa risultava più alto dell’edificio storico-artistico confinante; la tesi del ricorrente era nel senso che, in detta ipotesi, il limite sopra citato non potesse trovare applicazione; il Tar per il Veneto ha invece concluso nel senso che “la tesi secondo la quale il limite d’altezza degli edifici circostanti di carattere storico-artistico non sarebbe applicabile alle sopraelevazioni di edifici già più alti, non è condivisibile. Infatti, come è stato osservato (cfr. Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale 22.03.2006 n. 107), le disposizioni che disciplinano l’edificabilità nei centri storici sono finalizzate a tutelare non solo il valore di singoli manufatti architettonici, ma la conservazione in sé del contesto e dell’integrità dei complessi urbanistici ed architettonici in un’ottica di completezza dell’insieme, e quindi dell’assetto viario preesistente, delle altezze e dei caratteri figurativi degli edifici. Pertanto sembra corretto ritenere che, ove si ammettesse l’inesistenza di qualsiasi limite alla sopraelevazione degli edifici già più alti di quelli circostanti di carattere storico artistico, verrebbero compromesse sia le finalità di tutela degli edifici vincolati in termini di prospettiva, di luce, di condizioni di ambiente e di decoro, sia quelle di conservazione dei caratteri originari del centro storico, e in tale ottica, come condivisibilmente afferma il Comune nelle proprie difese, anche una sopraelevazione contenuta risulta in realtà idonea a comportare un aggravamento del contesto. Ne discende che la prima censura, con la quale la parte ricorrente lamenta l’erronea applicazione dell’art. 8, primo comma, n. 1), del d.m. 02.04.1968, n. 1444, per non aver considerato che l’edificio da sopraelevare è già più alto di quello vincolato deve essere respinta” (Consiglio di Stato, Sez. VI, ordinanza 01.03.2019 n. 1431 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Alla Corte costituzionale la legge regionale Veneto che consente la deroga sulla distanze tra edifici.
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Edilizia – Distanze – Veneto – Art. 9, comma 8-bis, l.reg. n. 14 del 2009 – Deroghe alle disposizioni in materia di altezze previste dal d.m. n. 1444 del 1968 – Violazione 117, commi 2, lett. l), e 3, Cost. – Rilevanza e non manifesta infondatezza.
E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 8-bis, l.reg. Veneto 08.07.2009, n. 14 (Intervento regionale a sostegno del settore edilizio e per favorire l'utilizzo dell'edilizia sostenibile e modifiche alla legge regionale 12.07.2007, n. 16 in materia di barriere architettoniche), in riferimento all’art. 117, commi 2, lett. l), e 3, Cost., nella parte in cui consenta le deroghe alle disposizioni in materia di altezze previste dal d.m. n. 1444 del 1968 (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che l’art. 9, comma 8-bis, l.reg. Veneto 08.07.2009, n. 14, nella parte in cui consente le deroghe alle disposizioni in materia di altezze previste dal d.m. n. 1444 del 1968, è in contrasto con i principi della legislazione statale, dettati dallo stesso d.m. e dall’art. 2-bis, d.P.R. n. 380 del 2001, con conseguente violazione dell’art. 117, commi 2, lett. l), e 3 Cost., in specie laddove non si prevede che le consentite deroghe debbano operare nell'ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali.
Ha ricordato la Sezione che con l'introduzione dell'art. 2-bis del TUE, da parte dell'art. 30, comma 1, lett. a), d.l. 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della l. 09.08.2013, n. 98, l’ordinamento ha sostanzialmente recepito l'orientamento della giurisprudenza costituzionale, inserendo nel testo unico sull'edilizia i principi fondamentali della vincolatività, anche per le Regioni e le Province autonome, delle distanze legali e più in generale delle previsioni stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968 e dell'ammissibilità delle deroghe, solo a condizione che siano «inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio» (cfr. ad es. sentenze nn. 185 del 2016 e 189 del 2016).
La norma statuisce quanto segue: “Ferma restando la competenza statale in materia di ordinamento civile con riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme del codice civile e alle disposizioni integrative, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell'ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali“.
La deroga alla disciplina dei parametri in tema di densità, di altezze e di distanze, realizzata dagli strumenti urbanistici deve quindi ritenersi legittima sempre che faccia riferimento ad una pluralità di fabbricati e sia fondata su previsioni planovolumetriche che evidenzino, cioè, una capacità progettuale tale da definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni considerate come fossero un edificio unitario.
Alla luce delle considerazioni svolte, appare non coerente, rispetto alle indicazioni interpretative offerte dalla giurisprudenza costituzionale e ribadite dal disposto di cui all'art. 2-bis t.u. edilizia, il mancato riferimento della norma impugnata a quella tipologia di atti menzionati nel testo del d.m. n. 1444 del 1968, cui va riconosciuta la possibilità di derogare al regime delle altezze e delle distanze.
Inoltre, la stessa giurisprudenza costituzionale ha stabilito, con riferimento alle distanze sebbene con una considerazione che pare potersi estendere anche qui alle altezze stante l’analogia del testo del d.m. e la generalità della previsione letterale dell’art. 2 bis (ben più ampia della mera rubrica), che la deroga alle distanze minime potrà essere contenuta, oltre che in piani particolareggiati o di lottizzazione, in ogni strumento urbanistico equivalente sotto il profilo della sostanza e delle finalità, purché caratterizzato da una progettazione dettagliata e definita degli interventi (sentenza n. 6 del 2013).
Ne consegue che devono ritenersi ammissibili le deroghe predisposte nel contesto dei piani urbanistici attuativi, in quanto strumenti funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio, secondo quanto richiesto, al fine di attivare le deroghe in esame, dall'art 2-bis del TUE, in linea con l'interpretazione nel tempo tracciata da questa Corte (sentenze nn. 231, 189, 185 e 178 del 2016 e n. 134 del 2014).
Tali peculiari elementi presupposti della deroga non si rivengono nell’art. 9, comma 8-bis, l.reg. Veneto n. 14 del 2009. Il riferimento agli ampliamenti ed alle ricostruzioni di edifici esistenti situati nelle zone territoriali omogenee di tipo B e C, nell’espressione utilizzata dal legislatore regionale veneto al comma 9 bis in oggetto, appare infatti in contrasto con lo stringente contenuto che dovrebbe assumere una previsione siffatta, risultando destinata a legittimare deroghe al di fuori di una adeguata pianificazione urbanistica (Consiglio di Stato, Sez. VI, ordinanza 01.03.2019 n. 1431 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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ORDINANZA
2.1 Sempre in via preliminare, emergono i presupposti per la rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale della norma regionale oggetto di applicazione e controversa nell’interpretazione fra le parti in causa.
2.2 I fatti di causa, che appaiono sostanzialmente incontroversi fra le parti, concernono un intervento di edilizia abitativa realizzato in Castelfranco Veneto dalla società An., con appalto dei lavori alla ditta Ce. s.r.l., relativo ad un edificio residenziale degli anni cinquanta di cui è stata progettata la demolizione e ricostruzione accedendo alle facoltà premiali introdotte con la normativa regionale veneta relativa al cosiddetto “piano-casa” (ll.rr. nn. 14 del 2009, 13 del 2011 e 32 del 2013), compreso un ampliamento del fabbricato.
Con una serie di ricorsi proposti dalla odierna parte appellata, contitolare di un confinante complesso condominiale, venivano impugnati gli atti adottati dal Comune interessato in relazione al predetto intervento.
All’esito del giudizio di prime cure il Tar Veneto, riuniti i ricorsi, dichiarato inammissibile l’ultimo (in quanto avente ad oggetto un atto meramente confermativo) e respinti per il resto gli altri gravami, accoglieva in parte qua le domande di parte ricorrente, in specie annullando gli atti impugnati limitatamente alla parte in cui il comune di Castelfranco si è determinato erroneamente riguardo la verifica dell'altezza del costruendo edificio. Ciò in accoglimento delle censure dedotte da parte ricorrente con riferimento alla corretta applicazione del comma 8-bis dell'art. 9 della legge regionale n. 14 del 2009; secondo il Tar tale norma, di riferimento per il caso di specie, non consente di considerare come edificio esistente l'edificio circostante più alto, come invece erroneamente imputato dai Giudici di prime cure al comune di Castelfranco.
2.3 Anche le censure dedotte coi vizi di appello, richiamati nella narrativa in fatto, si basano sulla contestata applicazione della norma regionale predetta, di cui occorre pertanto richiamare il tenore letterale: “Al fine di consentire il riordino e la rigenerazione del tessuto edilizio urbano già consolidato ed in coerenza con l'obiettivo prioritario di ridurre o annullare il consumo di suolo, anche mediante la creazione di nuovi spazi liberi, in attuazione dell'articolo 2-bis del D.P.R. n. 380/2001 gli ampliamenti e le ricostruzioni di edifici esistenti situati nelle zone territoriali omogenee di tipo B e C, realizzati ai sensi della presente legge, sono consentiti anche in deroga alle disposizioni in materia di altezze previste dal decreto ministeriale n. 1444 del 1968 e successive modificazioni, sino ad un massimo del 40 per cento dell'altezza dell'edificio esistente”.
3.1 Ebbene, ritiene il Collegio che la previsione legislativa all’esame non si sottragga alla questione di legittimità costituzionale per contrasto con l’art. 117, comma 2 lett. l) e comma 3, della Costituzione, quale di seguito rilevata d’ufficio ai sensi dell’art. 23, comma 3, della legge n. 87/1953.
3.2 Si precisa, al riguardo, che la questione è senz’altro rilevante, non potendosi dubitare dell’ammissibilità di questioni di legittimità costituzionale attinenti a leggi di cui il giudice a quo debba fare diretta applicazione ai fini della decisione della causa in relazione al thema decidendum (e, nel giudizio d’appello, al devolutum). Ipotesi, questa, che esattamente ricorre nella fattispecie, risultando con i motivi d’appello devoluti al presente grado questioni che non possono essere decise indipendentemente dall’applicazione della citata disposizione di legge regionale, posta da tutte la parti, pubblica e private, a fondamento sia dei provvedimenti adottati, sia delle tesi dedotte in giudizio in ordine all’ammissibilità o meno dell’intervento progettato.
3.2 In punto di non manifesta infondatezza,
ritiene il Collegio che la citata disposizione, nella parte in cui consenta le deroghe alle disposizioni in materia di altezze previste dal noto d.m. 1444 cit. sia in contrasto con i principi della legislazione statale, dettati dallo stesso d.m. e dall’art. 2-bis dPR 380/2001, con conseguente violazione dell’art. 117, comma 2, lett. l) e 3 Cost., in specie laddove non si prevede che le consentite deroghe debbano operare nell'ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali.
3.3 Come noto, con l'introduzione dell'art. 2-bis del TUE, da parte dell'art. 30, comma 1, lettera a), del decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 09.08.2013, n. 98, l’ordinamento ha sostanzialmente recepito l'orientamento della giurisprudenza costituzionale, inserendo nel testo unico sull'edilizia i principi fondamentali della vincolatività, anche per le Regioni e le Province autonome, delle distanze legali e più in generale delle previsioni stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968 e dell'ammissibilità delle deroghe, solo a condizione che siano «inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio» (cfr. ad es. sentenze nn. 185 del 2016 e 189 del 2016).
La norma statuisce quanto segue: “Ferma restando la competenza statale in materia di ordinamento civile con riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme del codice civile e alle disposizioni integrative, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell'ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali“.
La deroga alla disciplina dei parametri in tema di densità, di altezze e di distanze, realizzata dagli strumenti urbanistici deve quindi ritenersi legittima sempre che faccia riferimento ad una pluralità di fabbricati e sia fondata su previsioni planovolumetriche che evidenzino, cioè, una capacità progettuale tale da definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni considerate come fossero un edificio unitario (artt. 8 lett. B nel caso di specie e 9, ultimo comma, del d.m. n. 1444 del 1968).
3.4 Alla luce delle considerazioni svolte,
appare non coerente, rispetto alle indicazioni interpretative offerte dalla giurisprudenza costituzionale e ribadite dal disposto di cui all'art. 2-bis t.u. edilizia, il mancato riferimento della norma impugnata a quella tipologia di atti menzionati nel testo del d.m. n. 1444 del 1968 richiamato, cui va riconosciuta la possibilità di derogare al regime delle altezze e delle distanze.
Inoltre,
la stessa giurisprudenza costituzionale ha stabilito, con riferimento alle distanze sebbene con una considerazione che pare potersi estendere anche qui alle altezze stante l’analogia del testo del d.m. e la generalità della previsione letterale dell’art. 2-bis (ben più ampia della mera rubrica), che la deroga alle distanze minime potrà essere contenuta, oltre che in piani particolareggiati o di lottizzazione, in ogni strumento urbanistico equivalente sotto il profilo della sostanza e delle finalità, purché caratterizzato da una progettazione dettagliata e definita degli interventi (sentenza n. 6 del 2013).
Ne consegue che
devono ritenersi ammissibili le deroghe predisposte nel contesto dei piani urbanistici attuativi, in quanto strumenti funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio, secondo quanto richiesto, al fine di attivare le deroghe in esame, dall'art 2-bis del TUE, in linea con l'interpretazione nel tempo tracciata da questa Corte (ex multis, sentenze nn. 231, 189, 185 e 178 del 2016 e n. 134 del 2014).
3.5 Peraltro, tali peculiari elementi presupposti della deroga non si rivengono del testo della norma regionale in contestazione.
Il riferimento agli ampliamenti ed alle ricostruzioni di edifici esistenti situati nelle zone territoriali omogenee di tipo B e C, nell’espressione utilizzata dal legislatore regionale veneto al comma 9-bis in oggetto, appare infatti in contrasto con lo stringente contenuto che dovrebbe assumere una previsione siffatta, risultando destinata a legittimare deroghe al di fuori di una adeguata pianificazione urbanistica.
L'assenza di precise indicazioni, in coerenza con quanto già evidenziato dalla richiamata giurisprudenza costituzionale, non consente di attribuire agli interventi in questione un perimetro di azione necessariamente coerente con l'esigenza di garantire omogeneità di assetto a determinate zone del territorio; infatti, la dizione della norma si presta, sul piano semantico, a legittimare (come avvenuto nel caso di specie) anche interventi diretti a singoli edifici, in aperto contrasto con le indicazioni interpretative offerte in precedenza.
In tale ottica appare pertanto non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della norma censurata, in quanto legittima deroghe alla disciplina delle altezze dei fabbricati al di fuori dell'ambito della competenza regionale concorrente in materia di governo del territorio, a fronte del principio contenuto nell’art. 2-bis cit., ed in violazione del limite dell'ordinamento civile assegnato alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.
3.6
In materia va altresì richiamata, a fini di completezza e di estensione dei principi predetti allo specifico tema delle altezze, la valenza generale del d.m. 02.04.1968 n. 1444 che, essendo stato emanato su delega dell'art. 41-quinquies, l. 17.08.1942 n. 1150, inserito dall'art. 17, l. 06.08.1967 n. 765, ha efficacia e valore di legge, sicché sono comunque inderogabili le sue disposizioni in tema di limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. IV, 02.12.2013, n. 5732).
Le relative disposizioni in tema di distanze tra costruzioni non vincolano solo i Comuni, tenuti ad adeguarvisi nell'approvazione di nuovi strumenti urbanistici o nella revisione di quelli esistenti, ma sono immediatamente operanti nei confronti dei proprietari frontisti; tale conclusione vale, analogamente, per le altezze, poiché scopo delle norme regolamentari concernenti l'altezza degli edifici non è soltanto la tutela dell'igiene pubblica, ma, insieme, quella del decoro e dell'indirizzo urbanistico dell'abitato (cfr. in termini ad es. Cons. Stato, sez. IV, 12.07.2002, n. 3931).
Analogamente la giurisprudenza è da tempo orientata in modo univoco ad affermare che
il decreto ministeriale in questione (ascrivibile secondo una preminente teoria all'atipica categoria dei regolamenti delegati o liberi) ha efficacia di legge, cosicché le sue disposizioni, anche in tema di limiti inderogabili di altezza dei fabbricati, prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, alle quali si sostituiscono per inserzione automatica, con conseguente loro diretta operatività nei rapporti tra privati (cfr. a partire da Cass ss.uu. 01.07.1997 n. 5889, nonché ad es. Cass., sez. II, 14.03.2012, n. 4076 e Cass., sez. un., 07.07.2011, n. 14953).
A fronte della riconosciuta valenza del d.m. 1444, confermata dalla consolidata giurisprudenza costituzionale (cfr. sentenze 114/2012, 282/2016, 185/2016, 178/2016, 41/2017), gli spazi di derogabilità appaiono ammissibili, in capo al legislatore regionale, nei limiti dettati dal legislatore statale, dotato di competenza in tema appunto di principi fondamentali in materia di governo del territorio; orbene, nel caso di specie il legislatore regionale appare aver oltrepassato detti limiti, nella parte in cui consente le indicate deroghe al di fuori dell’ammesso ambito di “definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali”.
4. Sussistendo tutti i presupposti per sollevare questione incidentale di legittimità costituzionale ai sensi dell’art. 23 l. 11.03.1953, n. 87, la questione, quale sopra sollevata, deve essere devoluta alla Corte Costituzionale, cui gli atti del presente giudizio vanno pertanto immediatamente trasmessi, previa sospensione del presente giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 8-bis, della legge regionale del Veneto 08.07.2009, n. 14 (Intervento regionale a sostegno del settore edilizio e per favorire l'utilizzo dell'edilizia sostenibile e modifiche alla legge regionale 12.07.2007, n. 16 in materia di barriere architettoniche), in riferimento all’art. 117, secondo comma lett. l) e terzo comma, della Costituzione, nei sensi e nei termini di cui al punto 3.2 della parte motiva della presente ordinanza.
Dispone la sospensione del presente giudizio sino alla decisione della Corte Costituzionale sulla questione di legittimità costituzionale quale sopra sollevata.

URBANISTICA: Reato di lottizzazione abusiva in presenza dell'autorizzazione della P.A. - Configurabilità - Artt. 30 e 44 d.PR. n. 380/2001 - Fattispecie.
Il reato di lottizzazione abusiva è configurabile anche in presenza dell'autorizzazione della P.A., nel caso in cui quest'ultima contrasti con gli strumenti urbanistici vigenti (precisandosi che il giudice, ove ravvisi tale contrasto, può accertare l'abusività dell'intervento prescindendo da qualunque giudizio sull'autorizzazione, senza necessità di operare alcuna disapplicazione del provvedimento amministrativo).
Nella specie, sono state ritenuta integrate le violazione, dei combinati disposti degli artt. 30, comma 1, e 44, lett. c), d.P.R. n. 380/2001, attraverso l'approvazione di un nuovo schema di lottizzazione convenzionata da parte del Comune, che consentiva la realizzazione di un intervento edificatorio in pieno contrasto sia con la variante al PRG sia con la finalità di utilità pubblica individuate dalla stessa amministrazione comunale e, cioè, quella di creare strutture socio-assistenziali per anziani consentendo, di fatto, la realizzazione di edifici che per natura giuridica e tipologia potevano qualificarsi come residenziali.

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Lottizzazione abusiva - Natura di reato a consumazione alternativa integrabile anche a titolo di sola colpa - Concorso materiale - Difetto di autorizzazione - Contrasto con le prescrizioni della legge o degli strumenti urbanistici - Giurisprudenza.
Il reato di lottizzazione abusiva è un reato a consumazione alternativa, potendosi realizzare sia per il difetto di autorizzazione sia per il contrasto con le prescrizioni della legge o degli strumenti urbanistici, è può essere integrato anche a titolo di sola colpa (principio affermato in relazione ad una fattispecie di acquisto, come autonome residenze o private, di unità immobiliari facenti parte di complesso turistico-alberghiero: Sez. 3, n. 17865/2009, PM. in proc. Quarta e altri).
Sicché, appare pacifica l'ammissibilità di un concorso materiale tra l'art. 44, lett. b) ed il reato di lottizzazione abusiva, previsto dall'art. 44, comma primo, lett. c), del d.PR. 06.06.2001, n. 380. Pertanto, è evidente che la realizzazione di unità abitative eseguite mediante tali atti amministrativi, illegittimi ed illeciti per contrasto con gli strumenti urbanistici e con le norme nazionali e regionali, integra la violazione di lottizzazione abusiva.

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Lottizzazione abusiva - Configurabilità anche senza la costruzione di edifici o altri interventi che, singolarmente considerati, richiedano il permesso di costruire - Lottizzazione negoziale - Interpretazione giuridica del termine "frazionamento".
Il reato di lottizzazione abusiva, non soltanto quella negoziale, può configurarsi anche senza la costruzione di edifici o altri interventi che, singolarmente considerati, richiedano il permesso di costruire, come nel caso del picchettamento e della delimitazione dei terreni o della modifica dell'originaria destinazione d'uso degli edifici (Cass., Sez. 3, n. 38799 del 16/9/2015, De Paola, con numerosi precedenti conformi).
Con specifico riferimento alla lottizzazione negoziale, la terminologia utilizzata nell'articolo 30, comma 1, per descriverla (in particolare, il termine "frazionamento"), è stata letta dalla giurisprudenza nel senso che tale attività non deve necessariamente avvenire attraverso un'apposita operazione catastale che preceda le vendite o, comunque, gli atti di disposizione (v. Sez. 3, n. 6180 del 04/11/2014 (dep. 2015), Di Stefano e precedenti conformi), potendosi anche realizzare mediante ogni altra forma di suddivisione di fatto, atteso che il termine "frazionamento" deve ritenersi utilizzato dal legislatore in modo atecnico e, pertanto, riferito a qualsiasi attività giuridica che abbia per effetto la suddivisione in lotti di una più ampia estensione territoriale, comunque predisposta od attuata ed anche se avvenuta in forma non catastale, attribuendone la disponibilità ad altri al fine di realizzare una non consentita trasformazione urbanistica o edilizia del territorio, tanto che può configurarsi, perciò, lottizzazione negoziale anche nell'ipotesi in cui venga stipulato un solo atto di trasferimento a più acquirenti, i quali pervengano nella disponibilità e/o nel godimento di quote di un terreno indiviso (Sez. 3, n. 6080/2008), Casile e altri).

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Lottizzazione abusiva - Limiti alla buona fede - Connessione tra le persone fisiche e persona giuridica - Onere della prova.
In tema di lottizzazione abusiva non può essere invocata la buona fede quando vi sia una intima connessione tra le persone fisiche e la società per conto della quale hanno agito, che non può pertanto definirsi estranea al reato e che ha evidentemente svolto il ruolo di mero strumento operativo attraversò il quale gli associati hanno posto in essere l'attività lottizzatoria.
Per cui, non può considerarsi terza estranea al reato ed al processo la persona giuridica che sia costituita per schermare una condotta attraverso la quale il reo agisca come effettivo titolare dei beni. Inoltre, la partecipazione della persona giuridica al processo penale di cognizione può essere assicurata, nel rispetto dei principi convenzionali, attraverso l'applicazione estensiva di norme interne.

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Attività lottizzatoria - Configurabilità mediante qualsiasi utilizzazione del suolo, anche in presenza di un'autorizzazione a lottizzare - Convenzione lottizzatoria e permesso di costruire.
In tema di lottizzazione abusiva la successiva edificazione del territorio è solo lo scopo cui tende l'attività lottizzatoria, la quale può configurarsi anche prima che tale scopo venga effettivamente raggiunto.
Per cui, l'attività lottizzatoria si configura, mediante qualsiasi utilizzazione del suolo che, indipendentemente dalla entità del frazionamento fondiario e dal numero dei proprietari, preveda la realizzazione, contemporanea o successiva, di una pluralità di edifici a scopo residenziale, turistico o industriale, che postulino l'attuazione di opere di urbanizzazione primaria o secondaria, occorrenti per le necessità dell'insediamento; attraverso ogni intervento sul territorio tale da comportare una nuova definizione dell'assetto preesistente in zona non urbanizzata o non sufficientemente urbanizzata, per cui esiste la necessità di attuare le previsioni dello strumento urbanistico generale attraverso la redazione e la stipula di una convenzione lottizzatoria adeguata alle caratteristiche dell'intervento di nuova realizzazione, ovvero allorquando detto intervento non potrebbe essere in nessun caso realizzato, poiché, per le sue connotazioni oggettive, si pone in contrasto con previsioni di zonizzazione e/o localizzazione dello strumento generale di pianificazione, che non possono esser modificati da piani urbanistici attuativi; quando venga posta in essere qualsiasi attività che oggettivamente comporti anche solo il pericolo di una urbanizzazione non prevista o diversa da quella programmata; in presenza di condotta che tenda a consolidare le trasformazioni già attuate mediante modifiche, migliorie o integrazioni del preesistente, posto che l'aggressione alla sistemazione del suolo si protrae finché perdurano comportamenti che compromettono la scelta di destinazione e di uso riservata alla competenza pubblica.
Inoltre, il reato di lottizzazione abusiva può configurarsi anche in presenza di un'autorizzazione a lottizzare, quando l'esecuzione dell'intervento edilizio sia eseguito in difformità da quanto autorizzato ovvero quando l'autorizzazione rilasciata sia illecita o illegittima per contrasto con la normativa di settore e gli strumenti urbanistici.
La lottizzazione abusiva si distingue, peraltro, dal semplice abuso edilizio, dovendosi tenere conto della funzione intrinseca della lottizzazione, la quale assolve al compito di dare attuazione allo strumento generale di pianificazione urbanistica, ove questo esista, o di formulare comunque un piano particolareggiato di urbanizzazione.
Nella convenzione lottizzatoria, infatti, si stabilisce un programma concreto di realizzazione delle opere di urbanizzazione mediante il versamento dei relativi contributi pecuniari o mediante la esecuzione diretta delle opere e la cessione delle aree necessarie da parte del privato lottizzatore.
Ne deriva che quando la nuova costruzione realizzata dal privato non presuppone opere di urbanizzazione primarie o secondarie e quindi non implica una pianificazione urbanistica, essa richiede certamente il previo permesso di costruire (a tutela dell'interesse pubblico al preventivo controllo di tutti gli interventi trasformativi dell'assetto territoriale), ma non necessita anche di un'autorizzazione lottizzatoria, giacché in tal caso, mancando appunto una lottizzazione, non è pregiudicata la riserva pubblica di pianificazione urbanistica.

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Confisca urbanistica in assenza della sentenza di condanna da parte del giudice penale - Il proscioglimento per intervenuta prescrizione non osta alla confisca del bene lottizzato - Poteri di confisca del giudice di primo grado - Art. 578-bis cod. proc. pen..
La confisca urbanistica non esige una sentenza di condanna da parte del giudice penale, posto che il rispetto delle garanzie previste dalla CEDU richiede solo un pieno accertamento della responsabilità personale di chi è soggetto alla misura ablativa.
Per cui, il proscioglimento per intervenuta prescrizione non osta alla confisca del bene lottizzato se il giudice ha accertato la sussistenza del reato di lottizzazione abusiva nelle sue componenti oggettive e soggettive, assicurando alla difesa il più ampio diritto alla prova e al contraddittorio. Inoltre, l'art. 578-bis cod. proc. pen. regola solo la fase dell'impugnazione ma da ciò, non può inferirsi il divieto per il giudice di primo grado di disporre la confisca nel caso in cui dichiara prescritto il reato nonostante l'avvenuto accertamento della lottizzazione illecita.
Sicché, la confisca in caso di reato prescritto, può essere ordinata anche dal giudice di primo grado nel caso sia stata accertata la lottizzazione.

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Limite al potere del giudice di disporre la confisca dei terreni lottizzati - Provvedimenti giurisdizionali del giudice amministrativo passati in giudicato.
Il potere del giudice di disporre la confisca dei terreni lottizzati trova un limite nei provvedimenti giurisdizionali del giudice amministrativo passati in giudicato che abbiano espressamente affermato la legittimità della concessione o della autorizzazione edilizia ed il conseguente diritto del cittadino alla realizzazione dell'opera (Sez. 3, n. 38700/2018, De Simone; Sez. 2, n. 50189/2015, Comune Di Golfo Aranci e altri) (Core di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.02.2019 n. 8350 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: Diniego di iscrizione nella white list di società che ha costituito associazione antiraket.
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Informativa antimafia - White list – Iscrizione – Verifica presupposti - Criteri – Gli stessi criteri che presiedono l’informativa antimafia
  
Informativa antimafia - White list – Iscrizione – Diniego - Per infiltrazione mafiosa – Società che ha costituito associazione antiraket – Irrilevanza ex se.
  
Il diniego di iscrizione nell'elenco dei fornitori, prestatori di servizi ed esecutori (white list) non soggetti a tentativo di infiltrazione mafiosa é disciplinato dagli stessi principi che regolano l’interdittiva antimafia, in quanto si tratta di misure volte alla salvaguardia dell'ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della Pubblica amministrazione (1).
  
Non è ostativo al diniego di iscrizione alla whait liste la circostanza che la società che ha presentato la relativa istanza abbia costituito una associazione antiracket (2).
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   (1) Cons. St., sez. I, 01.02.2019, n. 337; id. 21.09.2018, n. 2241.
Ha chiarito la Sezione (24.01.2018, n. 492) che le disposizioni relative all'iscrizione nella cd. white list formano un corpo normativo unico con quelle dettate dal codice antimafia per le relative misure antimafia (comunicazioni ed informazioni), tanto che, come chiarisce l'art. 1, comma 52-bis, l. n. 190 del 2012, introdotto dall'art. 29, comma 1, d.l. n. 90 del 2014 convertito, con modificazioni, dalla l. n. 114 del 2014, "l'iscrizione nell'elenco di cui al comma 52 tiene luogo della comunicazione e dell'informazione antimafia liberatoria anche ai fini della stipula, approvazione o autorizzazione di contratti o subcontratti relativi ad attività diverse da quelle per la quali essa è stata disposta"; “l'unicità e l'organicità del sistema normativo antimafia vietano all'interprete una lettura atomistica, frammentaria e non coordinata dei due sottosistemi -quello della cd. white list e quello delle comunicazioni antimafia- che, limitandosi ad un criterio formalisticamente letterale e di cd. stretta interpretazione, renda incoerente o addirittura vanifichi il sistema dei controlli antimafia”.
Anche in relazione al diniego di iscrizione nella white list –iscrizione che presuppone la stessa accertata impermeabilità alla criminalità organizzata– è sufficiente il pericolo di infiltrazione mafiosa fondato su un numero di indizi tale da rendere logicamente attendibile la presunzione dell’esistenza di un condizionamento da parte della criminalità organizzata.
Ha aggiunto la Sezione che la normativa antimafia è espressione della potestà di cui all’art. 117, comma 1, lett. h) …. “ordine pubblico e sicurezza” ed e) … “tutela della concorrenza…” Cost., in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale 1 alla CEDU, sul presupposto che la formula elastica adottata dal legislatore per la disciplina delle interdittive antimafia –che consente di procedere in tal senso anche solo su base indiziaria– deve ritenersi quale corretto bilanciamento dei valori coinvolti. Infatti, se da una parte è opportuno fornire adeguata tutela alla libertà di esercizio dell’attività imprenditoriale, dall’altra non può che considerarsi preminente l’esigenza di salvaguardare l’interesse pubblico al presidio del sistema socio-economico da qualsivoglia inquinamento mafioso (Cons. St., sez. III, 09.10.2018, n. 5784).
Non vi sono dubbi che l’esigenza di tutela della libertà di tutti i cittadini e di salvaguardia della convivenza democratica sono finalità perfettamente coincidenti con i principi della CEDU, ed anche la formula “elastica” adottata dal legislatore nel disciplinare l’informativa interdittiva antimafia su base indiziaria ha il suo fondamento nella ragionevole esigenza del bilanciamento tra la libertà di iniziativa economica riconosciuta dall’art. 41 Cost. e l’interesse pubblico alla salvaguardia dell’ordine pubblico e alla prevenzione dei fenomeni mafiosi che, del resto, mediante l’infiltrazione nel tessuto economico e nei mercati, compromettono anche –oltre alla sicurezza pubblica– il valore costituzionale di libertà economica, indissolubilmente legato alla trasparenza e alla corretta competizione nelle attività con cui detta libertà si manifesta in concreto nei rapporti tra soggetti dell’ordinamento.
Ha ancora chiarito la Sezione (n. 5784 del 2018) che per quanto poi concerne la "presunzione di non colpevolezza", il giudizio, fondato secondo il criterio del "più probabile che non", costituisce un regola che si palesa "consentanea alla garanzia fondamentale della presunzione di non colpevolezza", di cui all’art. 27, comma 2, Cost., cui è ispirato anche il punto 2 del citato art. 6 CEDU, in quanto "non attiene ad ipotesi di affermazione di responsabilità penale" (Cass. civ., sez. I, 30.09.2016, n. 19430).
Da molto tempo, infatti, le consorterie di tipo mafioso hanno esportato fuori dai tradizionali territori di origine l’uso intimidatorio della violenza ed hanno creato vere e proprie holding. Si tratta di quelle aree opache nelle quali notoriamente i proventi di attività illecite vengono reinvestiti in imprese formalmente estranee (perché intestate a prestanome “puliti”) e dispersi in una miriade di società collegate da vincoli di vario tipo con l’organizzazione criminale.
Il legislatore, allontanandosi dal modello della repressione penale, ha conseguentemente impostato l'interdittiva antimafia come strumento di interdizione e di controllo sociale, al fine di contrastare le forme più subdole di aggressione all'ordine pubblico economico, alla libera concorrenza ed al buon andamento della Pubblica amministrazione. Il carattere preventivo del provvedimento prescinde, quindi, dall'accertamento di singole responsabilità penali, essendo il potere esercitato dal Prefetto espressione della logica di anticipazione della soglia di difesa sociale, finalizzata ad assicurare una tutela avanzata nel campo del contrasto alle attività della criminalità organizzata (Cons. St., sez. III, 30.01.2015, n. 455; 23.02.2015, n. 898).
   (2) Ha affermato la Sezione che la costituzione di una associazione antiracket è un nuovo strumento utilizzato dalla mafia per insinuarsi nell’economia del Paese: accreditarsi l’opinione pubblica e le forze dell’ordine, passando per vittima della criminalità organizzata, di cui, invece, si muovono le fila. Passare per vittima di un reato può essere un ottimo espediente per celare di essere, invece, tra i mandanti dello stesso (
Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 20.02.2019 n. 1182 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso al fascicolo di causa di un terzo estraneo al giudizio.
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Accesso ai documenti - Fascicolo di causa giudiziaria - Istanza di soggetto che intende proporre opposizione di terzo - Diniego.
Deve essere respinta l'istanza di accesso al fascicolo processuale di un soggetto che non ha manifestato l'intenzione di costituirsi in giudizio (1).
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L'accesso agli atti e ai documenti processuali sfugge alla disciplina dettata dagli artt. 22 ss., l. 07.08.1990, n. 241, non avendo essi natura di documento amministrativo (cfr., per un’ampia disamina, il decreto del Presidente del Cga 21.06.2018, n. 32).
Ebbene, mentre l’accesso ai provvedimenti del giudice è assicurato a chiunque vi abbia interesse (art. 7 disp. att. c.p.a.; art. 744 c.p.c.), l’accesso agli atti e ai documenti di parte è, allo stato, regolato dall’art. 17, comma 3, d.P.C.M. 16.02.2016, n. 40, recante le regole tecnico-operative per l'attuazione del processo amministrativo telematico, in base al quale “L'accesso (al fascicolo processuale telematico) è altresì consentito ai difensori muniti di procura, agli avvocati domiciliatari, alle parti personalmente nonché, previa autorizzazione del Giudice, a coloro che intendano intervenire volontariamente nel giudizio”.
L’accesso di terzi al fascicolo processuale deve essere assicurato dal giudice, che nell’ambito della giustizia amministrativa non può che essere il Collegio, essendo eccezionali i poteri di decisione attribuiti all’organo monocratico (il Presidente).
La necessità di consentire agli interessati di interloquire sull’istanza consiglia, in difetto di una diversa regolamentazione procedimentale, che le parti siano sentite in camera di consiglio, così come è stato disposto nell’odierna vicenda (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, decreto collegiale 18.02.2019 n. 296 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: Giurisdizione giudice amministrativo nella controversia per l’annullamento della revoca dell’autorizzazione al subentro dell’esecutrice di lavori.
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Giurisdizione – Contratti della Pubblica amministrazione – Subentro – Autorizzazione – Revoca – Impugnazione – Giurisdizione giudice amministrativo.
La domanda di annullamento della revoca dell’autorizzazione al subentro dell’esecutrice di lavori rientra nell’ambito della giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo, secondo quanto disposto dal comma 1 dell’art. 7 c.p.a., costituendo la revoca espressione di un potere amministrativo autoritativo, frutto di una valutazione tipicamente amministrativa (1).
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   (1) Ha aggiunto il Tar che ugualmente rientra nell’ambito della giurisdizione amministrativa la relativa domanda risarcitoria.
Non sussiste, invece, la giurisdizione amministrativa con riguardo alla richiesta di risarcimento del danno formulata nei confronti dei convenuti funzionari comunali sussistendo la giurisdizione del giudice ordinario, in base a quanto affermato dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, nel loro ruolo di giudice dei conflitti di giurisdizione ex art. 111, ultimo comma, Cost., a partire dall’ordinanza n. 13659 del 2006, secondo cui “ai fini della risoluzione del problema processuale non rileva stabilire se il F. abbia agito quale organo dell'Università, ovvero, a causa del perseguimento di finalità private, si sia verificata la cd. "frattura" del rapporto organico. Nell'uno, come nell'altro caso, l'azione risarcitoria è proposta nei confronti del funzionario in proprio, e, quindi, nei confronti di un soggetto privato, distinto dall'amministrazione, con la quale, al più, può risultare solidalmente obbligato (art. 28 Cost.). La questione di giurisdizione, infatti, dalla quale esulano le altre sopra accennate, va risolta esclusivamente sulla base dell'art. 103 Cost., che non consente di ritenere che il giudice amministrativo possa conoscere di controversie di cui non sia parte una pubblica amministrazione, o soggetti ad essa equiparati”.
Tale lettura è stata di recente confermata anche dall’ordinanza n. 19677 del 2016, con cui le SS.UU. della Corte di Cassazione, nel richiamare l’ordinanza del 2006 e quelle n. 5914 del 2008, n. 11932 del 2010 e n. 5408 del 2014, hanno ribadito che “presupposto della giurisdizione amministrativa secondo la Carta costituzionale è, …omissis…, che la tutela giurisdizionale coinvolgente le situazioni giuridiche nella giurisdizione di legittimità ed in quella esclusiva debba avere luogo con la partecipazione in posizione attiva o passiva della pubblica amministrazione o del soggetto che, pur non facendo parte dell'apparato organizzatorio di essa, eserciti le attribuzioni dell'Amministrazione, così ponendosi come pubblica amministrazione in senso oggettivo”, e hanno rilevato che “il profilo della giurisdizione amministrativa in questi termini trova conferma nel codice del processo amministrativo, atteso che, …omissis…, l'art. 7, comma 1, nell'individuare la giurisdizione del giudice amministrativo sulle controversie nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie, di diritti soggettivi, riferisce tali controversie a ‘l'esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo’ e le dice riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all'esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni…omissis… Tale precisazione evidenzia in modo indubitabile che la controversia riguarda quelle forme di esercizio del potere in quanto poste in essere dall'Amministrazione, il che non lascia dubbi sul fatto che soggettivamente la controversia esige che una delle parti sia la pubblica amministrazione e l'altra il soggetto che faccia la questione sull'interesse legittimo o sul diritto soggettivo. Il dubbio sulla possibilità che la controversia possa riguardare la lesione di interessi legittimi o di diritti soggettivi fra tale soggetto e colui che agisca per l'Amministrazione con nesso di rappresentanza organica è, pertanto, chiaramente fugato. Lo è ancora di più quando si legge il comma 2 dello stesso articolo, là dove esso proclama che per pubbliche amministrazioni, ai fini del presente codice, si intendono anche i soggetti ad esse equiparati o comunque tenuti al rispetto dei principi del procedimento amministrativo: è nuovamente palese che ci si riferisce al profilo oggettivo della pubblica amministrazione o di chi ad essa è equiparato” (Tar Veneto, sez. III, 28.08.2018, n. 871) (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 14.02.2019 n. 847 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' illegittimo il diniego di nulla-osta paesaggistico per la realizzazione di una piscina interrata pertinenziale in zona agricola laddove la Soprintendenza, nell’escludere la realizzabilità della piscina in zona agricola e nel richiederne lo spostamento in zona residenziale senza alcuna motivazione che evidenziasse la sussistenza di possibili ragioni di tale scelta sul piano della complessiva conformazione estetico-culturale dell’area, si è arrogata un potere di natura urbanistica, di competenza di altra autorità.
Va rammentato che “la tutela paesaggistica, siccome garantita dall'art. 9 della Costituzione, si giustifica non per il dato fisico in sé, ma per i valori estetico-culturali di cui esso è portatore”.
I poteri volti all’accertamento della compatibilità urbanistica e paesaggistica di un’opera, ancorché incidenti sul medesimo ambito territoriale, appartengono ad autorità diverse e soprattutto sono funzionali alla cura di interessi diversi (il primo all’ordinato governo del territorio, il secondo alla tutela della identità estetico-culturale dei siti).
Tale conclusione, sostenuta da autorevole dottrina in sede di inquadramento teorico generale dei cc.dd. interessi differenziati rispetto all’urbanistica, appare ormai pacifica anche a seguito del suo recepimento da parte della giurisprudenza costituzionale: “L'ambito materiale cui ricondurre le competenze relative ad attività che presentano una diretta od indiretta rilevanza in termini di impatto territoriale, va ricercato non secondo il criterio dell'elemento materiale consistente nell'incidenza delle attività in questione sul territorio, bensì attraverso la valutazione dell'elemento funzionale, nel senso della individuazione degli interessi pubblici sottesi allo svolgimento di quelle attività, rispetto ai quali l'interesse riferibile al “governo del territorio” e le connesse competenze non possono assumere carattere di esclusività, dovendo armonizzarsi e coordinarsi con la disciplina posta a tutela di tali interessi differenziati.”.
Come già costantemente evidenziato da questo TAR, in adesione al richiamato indirizzo esegetico, rispetto a tale, corretta impostazione delle relative competenze, un esercizio del potere paesaggistico avente contenuti unicamente urbanistici “appare in contrasto con le finalità per cui il potere stesso è attribuito dalla legge all’amministrazione, in quanto quest’ultima opera una sovrapposizione non consentita fra profilo paesaggistico e profilo urbanistico, di competenza di altre autorità. Il bene-interesse tutelato dai rispettivi poteri amministrativi è, all’evidenza, diverso (….)”; “diversamente dalla materia urbanistica, in materia paesaggistica l’amministrazione non ha potere conformativo del diritto di proprietà immobiliare, giacché il vincolo paesaggistico ha natura dichiarativa –di caratteristiche estetico-culturali connaturali al bene- e non costitutiva”.

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La Soprintendenza, nell’escludere la realizzabilità della piscina in zona agricola, e nel richiederne lo spostamento in zona residenziale senza alcuna motivazione che evidenziasse la sussistenza di possibili ragioni di tale scelta sul piano della complessiva conformazione estetico-culturale dell’area, si è arrogata un potere di natura urbanistica, di competenza di altra autorità.
Si aggiunga peraltro alle superiori riflessioni che, come pure dedotto in ricorso, per costante indirizzo giurisprudenziale (cui aderisce questo TAR almeno a partire dalla sentenza n. 1253/2012, nella quale si è affermato che “una piscina costituisce in generale opera pertinenziale che non implica consumo dei suoli per le sue caratteristiche”), anche da un punto di vista urbanistico la realizzazione di piscine interrate in zona agricola è conforme alla disciplina di piano.
Tanto che la giurisprudenza pacificamente riconosce l’assentibilità, in quanto pertinenziale rispetto ad edificio residenziale (elemento incontestato nella fattispecie dedotta, e peraltro risultante documentalmente), della piscina realizzata in zona agricola, finanche in sede di sanatoria: il che a fortiori induce a ritenere legittima la sua realizzazione in sede di rilascio del titolo abilitativo.
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3. Il ricorso è fondato.
In disparte il profilo relativo alla dedotta illegittimità del provvedimento impugnato per avere prescritto la traslazione della piscina in zona B2 (laddove il ricorrente ha documentato che nessuna porzione della proprietà interessata al progetto possiede tale qualificazione), ciò che appare dirimente –sul piano sostanziale- è che anche ove la prescrizione medesima avesse inteso riferirsi alla zona qualificata come B3, essa sarebbe affetta dal dedotto sviamento.
La Soprintendenza ha infatti condizionato la compatibilità paesaggistica della piscina per un verso –in modo del tutto conforme al relativo paradigma normativo, e alla causa del relativo potere– a modifiche progettuali (non impugnate) incidenti sull’aspetto estetico-culturale dell’opera (“le pareti ed il fondo vengano rifinite con intonaco costituito da sabbia e cemento additivato con resina epossidica, nelle giuste proporzioni e ultimati con ‘pastella di cemento’ colorata con ossidi minerali nella tonalità delle terre naturali o, in alternativa, con malta colorata preconfezionata cementizia osmotica nello stesso colore del terreno circostante””); e, per altro verso, alla contestata traslazione in diversa zona urbanistica.
Quest’ultima prescrizione, oltre a non essere motivata, e ad essere comunque –ove in tesi motivata per implicito- di dubbia ragionevolezza e logicità sotto il profilo della cura dell’interesse pubblico (alla tutela del paesaggio) cui è correlata la causa del potere esercitato (alla luce del fatto che essa comporterebbe uno spostamento di soli metri 1,30), appare in ogni caso viziata da un uso del potere preordinato alla cura di interessi diversi (nella specie, urbanistici) rispetto a quello portato dalla norma attributiva.
Va infatti rammentato che “la tutela paesaggistica, siccome garantita dall'art. 9 della Costituzione, si giustifica non per il dato fisico in sé, ma per i valori estetico-culturali di cui esso è portatore” (TAR Sicilia, Palermo, sentenza n. 150/2015).
I poteri volti all’accertamento della compatibilità urbanistica e paesaggistica di un’opera, ancorché incidenti sul medesimo ambito territoriale, appartengono ad autorità diverse e soprattutto sono funzionali alla cura di interessi diversi (il primo all’ordinato governo del territorio, il secondo alla tutela della identità estetico-culturale dei siti).
Tale conclusione, sostenuta da autorevole dottrina in sede di inquadramento teorico generale dei cc.dd. interessi differenziati rispetto all’urbanistica, appare ormai pacifica anche a seguito del suo recepimento da parte della giurisprudenza costituzionale: “L'ambito materiale cui ricondurre le competenze relative ad attività che presentano una diretta od indiretta rilevanza in termini di impatto territoriale, va ricercato non secondo il criterio dell'elemento materiale consistente nell'incidenza delle attività in questione sul territorio, bensì attraverso la valutazione dell'elemento funzionale, nel senso della individuazione degli interessi pubblici sottesi allo svolgimento di quelle attività, rispetto ai quali l'interesse riferibile al “governo del territorio” e le connesse competenze non possono assumere carattere di esclusività, dovendo armonizzarsi e coordinarsi con la disciplina posta a tutela di tali interessi differenziati.” (Coste cost., sentenza n. 383/2005).
Come già costantemente evidenziato da questo TAR, in adesione al richiamato indirizzo esegetico, rispetto a tale, corretta impostazione delle relative competenze, un esercizio del potere paesaggistico avente contenuti unicamente urbanistici “appare in contrasto con le finalità per cui il potere stesso è attribuito dalla legge all’amministrazione, in quanto quest’ultima opera una sovrapposizione non consentita fra profilo paesaggistico e profilo urbanistico, di competenza di altre autorità. Il bene-interesse tutelato dai rispettivi poteri amministrativi è, all’evidenza, diverso (….)” (sentenza n. 7195/2010); “diversamente dalla materia urbanistica, in materia paesaggistica l’amministrazione non ha potere conformativo del diritto di proprietà immobiliare, giacché il vincolo paesaggistico ha natura dichiarativa –di caratteristiche estetico-culturali connaturali al bene- e non costitutiva (Corte costituzionale, sentenze 55 e 56 del 1968)” (sentenza n. 2727/2012).
La Soprintendenza, nell’escludere la realizzabilità della piscina in zona agricola, e nel richiederne lo spostamento in zona residenziale senza alcuna motivazione che evidenziasse la sussistenza di possibili ragioni di tale scelta sul piano della complessiva conformazione estetico-culturale dell’area, si è arrogata un potere di natura urbanistica, di competenza di altra autorità.
4. Si aggiunga peraltro alle superiori riflessioni che, come pure dedotto in ricorso, per costante indirizzo giurisprudenziale (cui aderisce questo TAR almeno a partire dalla sentenza n. 1253/2012, nella quale si è affermato che “una piscina costituisce in generale opera pertinenziale che non implica consumo dei suoli per le sue caratteristiche”), anche da un punto di vista urbanistico la realizzazione di piscine interrate in zona agricola è conforme alla disciplina di piano.
Tanto che la giurisprudenza pacificamente riconosce l’assentibilità, in quanto pertinenziale rispetto ad edificio residenziale (elemento incontestato nella fattispecie dedotta, e peraltro risultante documentalmente), della piscina realizzata in zona agricola, finanche in sede di sanatoria (TAR Puglia, Lecce, sez. I, sentenza n. 931/2018): il che a fortiori induce a ritenere legittima la sua realizzazione in sede di rilascio del titolo abilitativo.
Non vale poi considerare, in relazione alla specifica fattispecie dedotta, la circostanza che alcune delle pronunce richiamate in ricorso si riferiscono a piscine prefabbricate, dal momento che le piscine interrate (quale quella oggetto del presente giudizio) presentano un impatto paesaggistico sicuramente minore.
Il provvedimento, per la parte qui in considerazione, è dunque doppiamente illegittimo: sia perché costituisce esercizio del potere di valutazione paesaggistica facendosi carico, con sviamento dalla causa tipica di detto potere, di una valutazione di tipo esclusivamente urbanistico (primo motivo di ricorso); sia perché quest’ultima valutazione è comunque in contrasto con il relativo paradigma normativo alla stregua dell’indirizzo giurisprudenziale che si è richiamato (secondo motivo).
5. Il ricorso è pertanto fondato e come tale deve essere accolto (TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, sentenza 14.02.2019 n. 433 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 36, comma 3, D.P.R. 380/2001, a norma del quale: “Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata.”, prevede infatti una fattispecie di silenzio-rigetto.
Ciò sta a significare che, in caso di decorso del termine indicato senza che la p.a. adotti un provvedimento espresso, il diniego sull’istanza del privato deve intendersi perfezionato per silentium. Tale provvedimento implicito, di carattere negativo, tiene luogo di un provvedimento espresso: potrà essere impugnato, oppure potrà costituire oggetto di autotutela; ma non potrà ritenersi mancante, né la p.a. potrà considerarsi inerte sull’istanza.
Anche la giurisprudenza si esprime del resto in tal senso: “Ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380/2001, ove il Comune non si pronunci espressamente entro il termine di 60 giorni dal ricevimento dell'istanza, la stessa si intende respinta. Su quest'ultima, infatti, si forma una fattispecie tipica, prevista dal legislatore, di silenzio-diniego, il quale va impugnato mediante la proposizione di motivi aggiunti o ricorso autonomo. Il silenzio-diniego può, infatti, essere impugnato dall'interessato in sede giurisdizionale per il tramite dell'azione di annullamento, alla stregua di un provvedimento esplicito, con la differenza però che il diniego, in quanto tacito, non è censurabile per difetto di motivazione, di cui è strutturalmente carente per previsione legislativa, ma solo per il suo contenuto di rigetto. Allo stesso modo, del silenzio-diniego non sono contestabili gli altri difetti formali propri degli atti, quali i vizi del procedimento, la mancanza di pareri o del preavviso dei motivi ostativi all'accoglimento”.
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Le considerazioni che precedono non vengono intaccate dalla circostanza dell’avvenuta emissione del preavviso di diniego ex art. 10-bis L. 241/1990 da parte del Comune.
Tale iniziativa della p.a. vale infatti ad aprire un’interlocuzione endoprocedimentale con il privato, ma non esclude il permanere della piena funzionalità del silenzio-significativo che, come nella fattispecie di causa, sia legislativamente previsto.
In altre parole, in caso di silenzio-significativo, la p.a. non è tenuta alla comunicazione ex art. 10-bis L. 241/1990; se la pone in essere, ciò non incide sulle possibili modalità di conclusione del procedimento, che rimangono fissate nell’alternativa tra l’adozione di un atto espresso o l’inerzia alla quale consegue la formazione del provvedimento per silentium.
Invero, in caso di silenzio-significativo la p.a. non è vincolata alla comunicazione del preavviso di cui all’art. 10-bis; tuttavia, ove proceda in tal senso, il termine per il perfezionamento del silenzio provvedimentale verrà assoggettato all’interruzione prevista dalla disposizione de qua, e ricomincerà pertanto a decorrere nuovamente in seguito al deposito delle osservazioni dell’interessato o alla scadenza del termine entro il quale detto deposito avrebbe dovuto essere posto in essere. Una volta decorso interamente il termine dal nuovo dies a quo senza che la p.a. abbia emesso un atto esplicito, si intenderà formato il silenzio rigetto, o il silenzio-assenso.
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La domanda di accertamento dell’obbligo del Comune a provvedere positivamente sull’istanza del privato deve essere respinta.
Il G.A. può infatti emettere una siffatta pronuncia, ai sensi dell’art. 31, comma 3 c.p.a., solo nel caso in cui il silenzio della p.a. integri un silenzio-inadempimento, e cioè sia privo di una equiparazione normativa a un provvedimento espresso, positivo (silenzio-assenso), o negativo (silenzio-rigetto, ipotesi prevista dall’art. 36 D.P.R. 380/2001).
Detta disposizione processuale non è dunque applicabile nel caso di specie, laddove si è in presenza di un silenzio-significativo di tipo negativo (silenzio-rigetto o silenzio-diniego), a tutti gli effetti equiparato a un provvedimento di rigetto esplicito. Come tale, l’atto sarà autonomamente impugnabile ai sensi dell’art. 29 c.p.a., ma avverso lo stesso non potrà essere spesa l’azione di accertamento (e condanna) prevista dal citato art. 31 c.p.a..
In tal senso si esprime, in termini inequivocabili e ai quali il Collegio ritiene di aderire, la giurisprudenza: “L'inerzia serbata dal Comune sulla domanda di accertamento di conformità ha natura di silenzio-significativo di respingimento della domanda, come tale tipizzata dalla legge, con la conseguenza che avverso siffatto silenzio, avente natura di atto tacito di diniego, il rimedio appropriato è costituito non già dall'azione ex artt. 31 e 117 c.p.a., bensì dall'ordinaria azione impugnatoria […].”
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1. Il primo motivo di ricorso, con il quale si chiedeva l’annullamento del silenzio-rifiuto (o silenzio-inadempimento) mantenuto dalla p.a. a fronte della domanda di accertamento in sanatoria proposta dal Se., è infondato.
L’inerzia del Comune di Corsano, oggetto del presente giudizio, non va infatti inquadrata negli artt. 2 e 3 L. 241/1990, ma nelle fattispecie di silenzio-significativo negativo.
L’art. 36, comma 3, D.P.R. 380/2001, a norma del quale: “Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata.”, prevede infatti una fattispecie di silenzio-rigetto.
Ciò sta a significare che, in caso di decorso del termine indicato senza che la p.a. adotti un provvedimento espresso, il diniego sull’istanza del privato deve intendersi perfezionato per silentium. Tale provvedimento implicito, di carattere negativo, tiene luogo di un provvedimento espresso: potrà essere impugnato, oppure potrà costituire oggetto di autotutela; ma non potrà ritenersi mancante, né la p.a. potrà considerarsi inerte sull’istanza. Non è dunque configurabile, nel caso di specie, un “silenzio-inadempimento” in capo al Comune di Corsano.
Anche la giurisprudenza, in termini che il Collegio ritiene di condividere, si esprime del resto in tal senso: “Ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380/2001, ove il Comune non si pronunci espressamente entro il termine di 60 giorni dal ricevimento dell'istanza, la stessa si intende respinta. Su quest'ultima, infatti, si forma una fattispecie tipica, prevista dal legislatore, di silenzio-diniego, il quale va impugnato mediante la proposizione di motivi aggiunti o ricorso autonomo. Il silenzio-diniego può, infatti, essere impugnato dall'interessato in sede giurisdizionale per il tramite dell'azione di annullamento, alla stregua di un provvedimento esplicito, con la differenza però che il diniego, in quanto tacito, non è censurabile per difetto di motivazione, di cui è strutturalmente carente per previsione legislativa, ma solo per il suo contenuto di rigetto. Allo stesso modo, del silenzio-diniego non sono contestabili gli altri difetti formali propri degli atti, quali i vizi del procedimento, la mancanza di pareri o del preavviso dei motivi ostativi all'accoglimento.” (TAR Campania, Napoli, Sez. III, 03.08.2018 n. 5296).
Le considerazioni che precedono non vengono intaccate dalla circostanza dell’avvenuta emissione del preavviso di diniego ex art. 10-bis L. 241/1990 da parte del Comune di Corsano. Tale iniziativa della p.a. vale infatti ad aprire un’interlocuzione endoprocedimentale con il privato, ma non esclude il permanere della piena funzionalità del silenzio-significativo che, come nella fattispecie di causa, sia legislativamente previsto. In altre parole, in caso di silenzio-significativo, la p.a. non è tenuta alla comunicazione ex art. 10-bis L. 241/1990; se la pone in essere, ciò non incide sulle possibili modalità di conclusione del procedimento, che rimangono fissate nell’alternativa tra l’adozione di un atto espresso o l’inerzia alla quale consegue la formazione del provvedimento per silentium.
Ritiene infatti il Collegio di aderire all’orientamento giurisprudenziale secondo cui, in caso di silenzio-significativo, la p.a. non è vincolata alla comunicazione del preavviso di cui all’art. 10-bis; tuttavia, ove proceda in tal senso, il termine per il perfezionamento del silenzio provvedimentale verrà assoggettato all’interruzione prevista dalla disposizione de qua, e ricomincerà pertanto a decorrere nuovamente in seguito al deposito delle osservazioni dell’interessato o alla scadenza del termine entro il quale detto deposito avrebbe dovuto essere posto in essere. Una volta decorso interamente il termine dal nuovo dies a quo senza che la p.a. abbia emesso un atto esplicito, si intenderà formato il silenzio rigetto, o il silenzio-assenso (in tal senso: TAR Veneto, Venezia, Sez. III, 07.05.2008 n. 1256; TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 02.12.2015 n. 2819).
Nel caso di specie, in seguito all’interruzione intervenuta per effetto della comunicazione ex art. 10-bis L. 241/1990, il termine decorreva ex novo integralmente senza che la p.a. adottasse un atto espresso. Pertanto, ai sensi del combinato disposto tra l’art. 10-bis L. 241/1990 e l’art. 36, comma 3, D.P.R. 380/2001, veniva a perfezionarsi il silenzio-diniego oggetto del presente giudizio.
La doglianza proposta dal ricorrente risulta pertanto destituita di fondamento.
2. Per le ragioni che precedono, anche la domanda di accertamento dell’obbligo del Comune a provvedere positivamente sull’istanza del privato deve essere respinta.
Il G.A. può infatti emettere una siffatta pronuncia, ai sensi dell’art. 31, comma 3 c.p.a., solo nel caso in cui il silenzio della p.a. integri un silenzio-inadempimento, e cioè sia privo di una equiparazione normativa a un provvedimento espresso, positivo (silenzio-assenso), o negativo (silenzio-rigetto, ipotesi prevista dall’art. 36 D.P.R. 380/2001).
Detta disposizione processuale non è dunque applicabile nel caso di specie, laddove si è in presenza di un silenzio-significativo di tipo negativo (silenzio-rigetto o silenzio-diniego), a tutti gli effetti equiparato a un provvedimento di rigetto esplicito. Come tale, l’atto sarà autonomamente impugnabile ai sensi dell’art. 29 c.p.a., ma avverso lo stesso non potrà essere spesa l’azione di accertamento (e condanna) prevista dal citato art. 31 c.p.a..
In tal senso si esprime, in termini inequivocabili e ai quali il Collegio ritiene di aderire, la giurisprudenza: “L'inerzia serbata dal Comune sulla domanda di accertamento di conformità ha natura di silenzio-significativo di respingimento della domanda, come tale tipizzata dalla legge, con la conseguenza che avverso siffatto silenzio, avente natura di atto tacito di diniego, il rimedio appropriato è costituito non già dall'azione ex artt. 31 e 117 c.p.a., bensì dall'ordinaria azione impugnatoria […].” (TAR Campania, Napoli, Sez. III, 29.08.2011 n. 4244; cfr: TAR Lazio, Roma, Sez. III, 02.04.2014 n. 3650).
La domanda di accertamento spiegata dal ricorrente deve pertanto essere respinta.
...
4. Il ricorso, per le ragioni indicate ai punti precedenti, va pertanto rigettato in toto.
5.
In considerazione della mancata costituzione del Comune di Corsano, risultato vincitore della causa, non può farsi applicazione, nel caso di specie, del principio della soccombenza, che imporrebbe di onerare il ricorrente delle spese di causa.
E’ infatti principio costantemente affermato in giurisprudenza quello secondo cui “pur essendo espressione di un potere officioso del giudice, la condanna alle spese in favore della parte vittoriosa che non si sia difesa e non abbia, quindi, sopportato il corrispondente carico, non può essere disposta ed è assimilabile ad una pronuncia resa in mancanza del suddetto potere
(Cassazione Civile, Sez. III, 26.06.2018, n. 16786).
Viene pertanto disposta la compensazione tra le parti delle spese della fase di merito (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 14.02.2019 n. 256 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il contratto di comodato, invocato per giustificare l’utilizzo di volumetria che pertiene ad altri lotti, non costituisce titolo idoneo al trasferimento della cubatura.
Al fine di disporre validamente tale dislocazione, è infatti necessario provvedervi con un contratto ad effetti reali, di solito consistente in una apposizione di “servitus non aedificandi” o comunque in un atto trascritto avente il contenuto indicato dall’art. 2643, comma 1, n. 2-bis c.c..
Il comodato, contratto tipico che produce effetti unicamente obbligatori e soltanto transitori (in quanto dotato di termine ultimo di efficacia o, in difetto, risolubile “ad nutum”), non integra uno strumento idoneo al trasferimento della capacità edificatoria del terreno.
Quanto sopra, integrante un principio di ordine generale, vale a maggior ragione nel caso di specie. Il contratto di comodato prodotto, infatti, stabilisce testualmente, all’art. 9, che il comodatario è autorizzato a utilizzare, sul terreno oggetto del contratto, la volumetria che afferisce a quello stesso fondo. Non vi è alcuna disposizione contrattuale che preveda o autorizzi il trasferimento di tale capacità edificatoria verso altri fondi. Peraltro, in virtù dell’art. 11, è imposta l’interpretazione restrittiva delle facoltà di uso attribuite al comodatario.
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3. Anche il secondo motivo di ricorso, con il quale si chiedeva l’annullamento del silenzio rigetto, è infondato.
Il rigetto adottato, sia pure per silentium, dal Comune di Corsano, deve infatti ritenersi legittimo.
Il contratto di comodato, invocato dalla parte ricorrente per giustificare l’utilizzo di volumetria che pertiene ad altri lotti, non costituisce titolo idoneo al trasferimento della cubatura. Al fine di disporre validamente tale dislocazione, è infatti necessario provvedervi con un contratto ad effetti reali, di solito consistente in una apposizione di “servitus non aedificandi” o comunque in un atto trascritto avente il contenuto indicato dall’art. 2643, comma 1, n. 2-bis c.c.. Il comodato, contratto tipico che produce effetti unicamente obbligatori e soltanto transitori (in quanto dotato di termine ultimo di efficacia o, in difetto, risolubile “ad nutum”), non integra uno strumento idoneo al trasferimento della capacità edificatoria del terreno.
Quanto sopra, integrante un principio di ordine generale, vale a maggior ragione nel caso di specie. Il contratto di comodato prodotto dal Se., infatti, stabilisce testualmente, all’art. 9, che il comodatario è autorizzato a utilizzare, sul terreno oggetto del contratto, la volumetria che afferisce a quello stesso fondo. Non vi è alcuna disposizione contrattuale che preveda o autorizzi il trasferimento di tale capacità edificatoria verso altri fondi. Peraltro, in virtù dell’art. 11, è imposta l’interpretazione restrittiva delle facoltà di uso attribuite al comodatario.
Per tutto quanto precede, anche tale ulteriore motivo di ricorso è destituito di fondamento.
4. Il ricorso, per le ragioni indicate ai punti precedenti, va pertanto rigettato in toto.
5.
In considerazione della mancata costituzione del Comune di Corsano, risultato vincitore della causa, non può farsi applicazione, nel caso di specie, del principio della soccombenza, che imporrebbe di onerare il ricorrente delle spese di causa.
E’ infatti principio costantemente affermato in giurisprudenza quello secondo cui “pur essendo espressione di un potere officioso del giudice, la condanna alle spese in favore della parte vittoriosa che non si sia difesa e non abbia, quindi, sopportato il corrispondente carico, non può essere disposta ed è assimilabile ad una pronuncia resa in mancanza del suddetto potere
(Cassazione Civile, Sez. III, 26.06.2018, n. 16786).
Viene pertanto disposta la compensazione tra le parti delle spese della fase di merito (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 14.02.2019 n. 256 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La Corte di giustizia UE ritiene legittima la disciplina processuale dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a. a condizione che i vizi degli atti siano conoscibili dagli interessati.
La Corte di giustizia UE afferma la compatibilità con il diritto europeo della disciplina processuale nazionale relativa alla immediata impugnazione, entro un breve termine decadenziale, delle ammissioni ed esclusioni dalle procedure di gara (art. 120, comma 2-bis, c.p.a.), a condizione che i vizi di legittimità degli atti siano conoscibili dagli interessati:
  
CURIA - ordinanza C-54/18;
  
Corte giust. comm. ue, Sez. IV, ordinanza 14.02.2019, C-54/18
(commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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La Corte di giustizia UE afferma la compatibilità con il diritto europeo della disciplina processuale nazionale relativa alla immediata impugnazione, entro un breve termine decadenziale, delle ammissioni ed esclusioni dalle procedure di gara (art. 120, comma 2-bis, c.p.a.), a condizione che i vizi di legittimità degli atti siano conoscibili dagli interessati.
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Corte di giustizia dell’Unione europea, Sez. IV, ordinanza 14.02.2019, C- 54/18 – Cooperativa Animazione Valdocco
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Giustizia amministrativa – Contratti pubblici – Rito speciale in materia di ammissioni ed esclusioni – Onere di immediata impugnazione – Termine di trenta giorni dalla comunicazione – Legittimità – Condizioni.
  
Giustizia amministrativa – Contratti pubblici – Rito speciale in materia di ammissioni ed esclusioni – Onere di immediata impugnazione dell’ammissione di altri concorrenti – Termine di trenta giorni dalla comunicazione – Preclusione alla successiva contestazione delle ammissioni – Legittimità – Condizioni.
   La direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del 21.12.1989, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva 2014/23/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014, e in particolare i suoi articoli 1 e 2-quater, letti alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, deve essere interpretata nel senso che essa non osta ad una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, che prevede che i ricorsi avverso i provvedimenti delle amministrazioni aggiudicatrici recanti ammissione o esclusione dalla partecipazione alle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici debbano essere proposti, a pena di decadenza, entro un termine di 30 giorni a decorrere dalla loro comunicazione agli interessati, a condizione che i provvedimenti in tal modo comunicati siano accompagnati da una relazione dei motivi pertinenti tale da garantire che detti interessati siano venuti o potessero venire a conoscenza della violazione del diritto dell’Unione dagli stessi lamentata (1).
  
La direttiva 89/665, come modificata dalla direttiva 2014/23, e in particolare i suoi articoli 1 e 2-quater, letti alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, deve essere interpretata nel senso che essa non osta ad una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, che prevede che, in mancanza di ricorso contro i provvedimenti delle amministrazioni aggiudicatrici recanti ammissione degli offerenti alla partecipazione alle procedure di appalto pubblico entro un termine di decadenza di 30 giorni dalla loro comunicazione, agli interessati sia preclusa la facoltà di eccepire l’illegittimità di tali provvedimenti nell’ambito di ricorsi diretti contro gli atti successivi, in particolare avverso le decisioni di aggiudicazione, purché tale decadenza sia opponibile ai suddetti interessati solo a condizione che essi siano venuti o potessero venire a conoscenza, tramite detta comunicazione, dell’illegittimità dagli stessi lamentata (2).
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   (1-2) I. – Con l’ordinanza in rassegna (in www.lamministrativista.it del 19.02.2019, con nota di S. TRANQUILLI) la Corte di giustizia dell’UE –chiamata a pronunciarsi in sede di rinvio pregiudiziale dal Tar per il Piemonte, sez. I, con l’ordinanza 17.01.2018, n. 88 (in Foro. It., 2018, III, 85, nonché oggetto della News US in data 01.02.2018,)– ha ritenuto non in contrasto con il diritto europeo la disciplina processuale interna che impone la immediata impugnazione, entro un termine decadenziale, delle ammissioni ed esclusioni dalle procedure di gara, a condizione però che tali provvedimenti siano conosciuti o conoscibili dagli interessati, così che gli stessi possano apprezzarne gli eventuali profili di illegittimità, anche rispetto al diritto europeo.
   II. – La fattispecie che ha portato al rinvio pregiudiziale, da parte del Tar per il Piemonte, alla Corte di giustizia UE può essere così sintetizzata:
   − un Consorzio intercomunale per la gestione di servizi sociali ha bandito una gara per l’affidamento del servizio di assistenza domiciliare, da aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, alla quale hanno partecipato otto concorrenti;
   − la stazione appaltante ha pubblicato sul profilo del committente e comunicato individualmente agli operatori economici l’atto di ammissione dei concorrenti alla procedura, ha poi svolto la procedura selettiva ed ha quindi aggiudicato la gara alla prima graduata;
   − l’impresa seconda graduata, che non aveva posto in essere alcuna impugnativa dell’atto di ammissione dei concorrenti alla procedura, ha gravato l’aggiudicazione davanti al Tar per il Piemonte, proponendo censure avverso gli atti di gara e l’aggiudicazione e lamentando altresì la mancata esclusione del RTI risultato aggiudicatario, per assenza in capo alle ditte mandanti di requisiti di partecipazione; in particolare la ricorrente ha contestato: la presentazione da parte del RTI aggiudicatario di una cauzione provvisoria di importo inferiore a quanto previsto dalla normativa di gara, ritenendo che sul punto non fosse peraltro attivabile il soccorso istruttorio (1° motivo); la carenza in capo a due mandanti del RTI di requisiti di fatturato nella misura richiesta (2° e 3° motivo); attribuzione dei punteggi in relazione all’offerta tecnica dell’aggiudicatario (4° motivo); il mancato svolgimento della verifica di anomalia (5° motivo) e, infine, l’illegittima composizione della commissione di gara (6° motivo);
   − sono stati presentati motivi aggiunti, che riproducono sostanzialmente le censure già articolate nel ricorso introduttivo del giudizio, mentre non risulta proposto ricorso incidentale;
   − la stazione appaltante e il controinteressato hanno eccepito la irricevibilità del ricorso, in quanto proposto avverso l’aggiudicazione definitiva, mentre, vertendo su questioni di ammissione alla procedura, avrebbe dovuto essere proposto entro il termine di 30 giorni dalla comunicazione dell’atto di ammissione dei concorrenti alla gara, ai sensi dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a.;
   − il Tar ha pronunciato sentenza non definitiva nella quale ha, in primo luogo, esaminato e respinto le censure avverso le operazioni di gara e l’aggiudicazione, in particolare ritenendo infondati i motivi 1°, 4°, 5° e 6° sopra indicati; passando poi all’esame dei motivi 2° e 3°, attinenti alla carenza in capo a società mandanti del RTI di requisiti di fatturato specifico richiesti a pena di esclusione per partecipare alla procedura di gara, il collegio, dopo aver premesso che l’applicazione dell’art. 120, comma 2 bis, c.p.a. avrebbe condotto in relazione a dette doglianze alla declaratoria di irricevibilità per tardività del ricorso, ha stabilito di procedere, con separata ordinanza, al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, con conseguente sospensione del giudizio, ritenendo rilevante e decisiva la questione di compatibilità della suddetta normativa con il diritto europeo;
   − dando seguito a quanto previsto nella sentenza non definitiva, con l’ordinanza n. 88 del 17.01.2018 il Tar per il Piemonte, sez. I, ha quindi rimesso la questione di compatibilità comunitaria alla Corte UE.
In particolare il Tar ha posto alla Corte di giustizia UE i seguenti quesiti interpretativi:
      a) “se la disciplina europea in materia di diritto di difesa, di giusto processo e di effettività sostanziale della tutela, segnatamente, gli articoli 6 e 13 della CEDU, l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e l’art. 1 Dir. 89/665/CEE, 1 e 2 della Direttiva, ostino ad una normativa nazionale, quale l’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., che impone all’operatore che partecipa ad una procedura di gara di impugnare l’ammissione/mancata esclusione di un altro soggetto, entro il termine di 30 giorni dalla comunicazione del provvedimento con cui viene disposta l’ammissione/esclusione dei partecipanti”;
      b) “se la disciplina europea in materia di diritto di difesa, di giusto processo e di effettività sostanziale della tutela, segnatamente, gli articoli 6 e 13 della CEDU, l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e l’art. 1 Dir. 89/665/CEE, 1 e 2 della Direttiva, osti ad una normativa nazionale quale l’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., che preclude all’operatore economico di far valere, a conclusione del procedimento, anche con ricorso incidentale, l’illegittimità degli atti di ammissione degli altri operatori, in particolare dell’aggiudicatario o del ricorrente principale, senza aver precedentemente impugnato l’atto di ammissione nel termine suindicato”.
   III. – Nell’ordinanza in rassegna la Corte di giustizia UE giunge alla elaborazione delle massime riportate sulla base del seguente percorso argomentativo:
   − sulla prima questione:
      c) ai sensi dell'art. 2-quater della direttiva 89/665, gli Stati membri possono stabilire termini per presentare un ricorso avverso una decisione presa da un'amministrazione aggiudicatrice nel quadro di una procedura di aggiudicazione di un appalto disciplinata dalla direttiva 2014/24, aggiungendo che il termine in parola deve essere di almeno dieci giorni civili dal giorno successivo all’invio della comunicazione, se la spedizione è avvenuta per fax o per via elettronica, oppure di almeno quindici giorni, se la spedizione è avvenuta con altri mezzi di comunicazione o di almeno dieci giorni civili a decorrere dal giorno successivo alla data di ricezione della decisione dell'amministrazione aggiudicatrice, precisando altresì che la comunicazione della decisione dell'amministrazione aggiudicatrice ad ogni offerente o candidato è accompagnata da una relazione sintetica dei motivi pertinenti;
      d) dallo stesso tenore letterale dell'art. 2-quater della direttiva 89/665 si evince quindi che un termine di 30 giorni, come quello di cui trattasi nel procedimento principale, in cui i ricorsi contro i provvedimenti delle amministrazioni aggiudicatrici recanti ammissione o esclusione dalla partecipazione alle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici disciplinati dalla direttiva 2014/24 devono essere proposti, a decorrere dalla loro comunicazione alle parti interessate, a pena di decadenza, è, in linea di principio, compatibile con il diritto dell'Unione, a condizione che tali provvedimenti siano accompagnati da una relazione dei motivi pertinenti;
      e) l’art. 1, par. 1, della direttiva 89/665 impone agli Stati membri l'obbligo di garantire che le decisioni prese dalle amministrazioni aggiudicatrici possano essere oggetto di un ricorso efficace e quanto più rapido possibile:
         e1) la fissazione di termini di ricorso a pena di decadenza consente di realizzare l'obiettivo di celerità perseguito dalla direttiva 89/665, obbligando gli operatori a contestare entro termini brevi i provvedimenti preparatori o le decisioni intermedie adottate nell'ambito del procedimento di aggiudicazione di un appalto;
         e2) nel definire le modalità procedurali dei ricorsi giurisdizionali gli Stati membri devono garantire che non sia compromessa né l'efficacia della direttiva 89/665 né i diritti conferiti ai singoli dal diritto dell'Unione, in particolare il diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale, sancito dall'articolo 47 della Carta, il che presuppone che i termini prescritti per proporre siffatti ricorsi inizino a decorrere solo dalla data in cui il ricorrente abbia avuto o avrebbe dovuto avere conoscenza dell'asserita violazione di dette disposizioni;
      f) ne consegue che una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, che prevede che i ricorsi avverso i provvedimenti delle amministrazioni aggiudicatrici recanti ammissione o esclusione dalla partecipazione alle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici debbano essere proposti, a pena di decadenza, entro un termine di 30 giorni a decorrere dalla loro comunicazione agli interessati è compatibile con la direttiva 89/665 solo a condizione che i provvedimenti in tal modo comunicati siano accompagnati da una relazione dei motivi pertinenti, tale da garantire che i suddetti interessati siano venuti o potessero venire a conoscenza della violazione del diritto dell'Unione dagli stessi lamentata;
      g) il giudice del rinvio osserva tuttavia che l'offerente che intenda impugnare un provvedimento di ammissione di un concorrente deve proporre il proprio ricorso entro un termine di 30 giorni a decorrere dalla sua comunicazione, vale a dire in un momento in cui egli spesso non è in grado di stabilire se abbia realmente interesse ad agire, non sapendo se alla fine il suddetto concorrente sarà l'aggiudicatario oppure se sarà egli stesso nella posizione di ottenere l'aggiudicazione; occorre rammentare al riguardo che:
         g1) l'art. 1, par. 3, della direttiva 89/665 impone agli Stati membri di garantire che le procedure di ricorso siano accessibili, secondo modalità che gli Stati membri possono determinare, per lo meno a chiunque abbia o abbia avuto interesse a ottenere l'aggiudicazione di un determinato appalto e sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione;
         g2) quest'ultima disposizione è applicabile, segnatamente, alla situazione di qualunque offerente che ritenga che un provvedimento di ammissione di un concorrente a una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico sia illegittimo e rischi di cagionargli un danno, in quanto simile rischio è sufficiente a giustificare un immediato interesse ad impugnare detto provvedimento, indipendentemente dal pregiudizio che può inoltre derivare dall' assegnazione dell'appalto ad un altro candidato;
         g3) la decisione di ammettere un offerente a una procedura d'appalto configura un atto che, in forza dell'art. 1, par. 1, e dell'art. 2, par. 1, lett. b), della direttiva 89/665, può costituire oggetto di ricorso giurisdizionale autonomo;
   − sulla seconda questione:
      h) la direttiva 89/665 deve essere interpretata nel senso che essa non osta, in linea di principio, ad una normativa nazionale che prevede che ogni ricorso avverso una decisione dell'amministrazione aggiudicatrice debba essere proposto nel termine all'uopo previsto e che qualsiasi irregolarità del procedimento di aggiudicazione invocata a sostegno di tale ricorso vada sollevata nel medesimo termine a pena di decadenza talché, scaduto tale termine, non sia più possibile impugnare detta decisione o eccepire la suddetta irregolarità, purché il termine in parola sia ragionevole;
      i) tale interpretazione è fondata sulla considerazione secondo cui la realizzazione completa degli obiettivi perseguiti dalla direttiva 89/665 sarebbe compromessa se ai candidati e agli offerenti fosse consentito far valere, in qualsiasi momento del procedimento di aggiudicazione, infrazioni alle norme di aggiudicazione degli appalti, obbligando quindi l'amministrazione aggiudicatrice a ricominciare l'intero procedimento al fine di correggere tali infrazioni; un comportamento del genere, potendo ritardare senza una ragione obiettiva l'avvio delle procedure di ricorso che la direttiva 89/665 impone agli Stati membri di porre in essere, è tale da nuocere all'applicazione effettiva delle direttive dell'Unione in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici;
      j) ne discende che la direttiva 89/665, e in modo del tutto particolare il suo art. 2-quater, deve essere interpretata nel senso che essa non osta, in linea di principio, a che, in difetto di un ricorso avverso una decisione di un' amministrazione aggiudicatrice entro il termine di 30 giorni previsto dalla normativa italiana, non sia più possibile per un offerente eccepire l'illegittimità di tale decisione nell'ambito di un ricorso diretto contro un atto successivo;
      k) non può tuttavia escludersi che, in particolari circostanze o in considerazione di talune delle loro modalità, l’applicazione delle norme di decadenza possa pregiudicare i diritti conferiti ai singoli dal diritto dell'Unione, segnatamente il diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale, sancito dall'articolo 47 della Carta:
         k1) ciò accade quando le norme di decadenza stabilite dal diritto nazionale siano applicate in modo tale che l'accesso, da parte di un offerente, ad un ricorso avverso una decisione illegittima gli sia negato, sebbene egli, sostanzialmente, non potesse essere a conoscenza di detta illegittimità se non in un momento successivo alla scadenza del termine di decadenza;
         k2) d’altra parte ricorsi efficaci contro le violazioni delle disposizioni applicabili in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici possono essere unicamente garantiti qualora i termini imposti per proporre tali ricorsi inizino a decorrere solo dalla data in cui il ricorrente abbia avuto o avrebbe dovuto avere conoscenza della presunta violazione di dette disposizioni;
      l) spetta al giudice del rinvio verificare se, nelle circostanze di cui al procedimento principale, l’impresa ricorrente sia effettivamente venuta o sarebbe potuta venire a conoscenza, grazie alla comunicazione da parte dell'amministrazione aggiudicatrice del provvedimento di ammissione del raggruppamento temporaneo di imprese aggiudicatario, ai sensi dell'articolo 29 del codice dei contratti pubblici, dei motivi di illegittimità del suddetto provvedimento dalla stessa lamentati, vertenti sul mancato deposito di una cauzione provvisoria dell'importo richiesto e sull'omessa dimostrazione della sussistenza dei requisiti di partecipazione, e se essa sia stata quindi posta effettivamente in condizione di proporre un ricorso entro il termine di decadenza di 30 giorni di cui all'articolo 120, comma 2-bis, del codice del processo amministrativo:
         l1) detto giudice deve in particolare garantire che, nelle circostanze del procedimento principale, l'applicazione combinata delle disposizioni dell'art. 29 e dell'art 53, commi 2 e 3, del codice dei contratti pubblici, che disciplinano l'accesso alla documentazione delle offerte e la sua divulgazione, non escludesse del tutto la possibilità per la ricorrente di venire effettivamente a conoscenza dell'illegittimità del provvedimento di ammissione del raggruppamento di imprese aggiudicatario dalla stessa lamentata e di proporre un ricorso, a decorrere dal momento in cui la medesima ne ha avuto conoscenza, entro il termine di decadenza di cui all'articolo 120, comma 2-bis, c.p.a.;
         l2) il giudice nazionale deve fornire alla normativa interna che è chiamato ad applicare un'interpretazione conforme agli obiettivi della direttiva 89/665; qualora tale interpretazione non sia possibile, esso deve disapplicare le disposizioni nazionali contrarie a tale direttiva, dal momento che l'art. 1, par. 1, della stessa è incondizionato e sufficientemente preciso per essere fatto valere nei confronti di un'amministrazione aggiudicatrice.
   IV. – Per completezza si segnala quanto segue:
      m) sul rito super accelerato dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a. in dottrina si segnalano in particolare i seguenti scritti: M.A. SANDULLI, Nuovi limiti al diritto di difesa introdotti dal d.lgs. n. 50 del 2016 in contrasto con il diritto eurounitario e la Costituzione in www.lamministrativista.it 04.05.2016; M. LIPARI, La tutela giurisdizionale e “precontenziosa” nel nuovo codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50 del 2016) in Federalismi.it 11.05.2016; G. VELTRI, Il contenzioso nel nuovo codice dei contratti pubblici: alcune riflessioni critiche in Giustizia amministrativa – Dottrina 26.05.2016; G. SEVERINI, Il nuovo contenzioso sui contratti pubblici, in Giustamm.it, giugno 2016, che sottolinea la necessità di rimediare alla ipertrofia di un contezioso postumo e retrospettivo incentrato sulla presenza in limine dei requisiti partecipativi; R. CAPONIGRO, Il rapporto tra tutela della concorrenza e interesse alla scelta del miglior contraente nell’impugnazione degli atti di gara in Giustizia amministrativa – Dottrina, 14.06.2016; R. DE NICTOLIS, Il nuovo codice dei contratti pubblici in Urbanistica e appalti, 2016, 5, 503; E. FOLLIERI, Le novità sui ricorsi giurisdizionali amministrativi nel Codice dei contratti pubblici in Urbanistica e appalti, 2016, 8-9, 873; E.M. BARBIERI, Lo speciale contenzioso sulle ammissioni e sulle esclusioni nelle gare di appalto pubblico secondo il nuovo codice degli appalti in Nuovo notiziario giur., 2016, 331; G. GRECO, Il contenzioso degli appalti pubblici tra deflazione e complicazione in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 2016, 971; A.G. PIETROSTEFANI, Piena conoscenza, termine per impugnare ed effettività della tutela nel rito <super accelerato> ex art. 120, co. 2-bis, c.p.a. in Federalismi.it, 29.03.2017; A. DI CAGNO, Il nuovo art. 120, comma 2-bis, cpa: un'azione senza interesse o un interesse senza azione? in Dir. e processo amm., 2017, 2123; L. BERTONAZZI, Limiti applicativi del nuovo giudizio di cui all’art. 120, comma 2-bis, c.p.a. e sua compatibilità con la tutela cautelare, in Dir. proc. ammin. 2017, 714 ss.; G. LA ROSA, Il ricorso incidentale nel rito “super-accelerato” di cui all’art. 120, commi 2-bis e 6-bis, c.p.a. in Urbanistica e appalti, 2018, 2, 175; I. LAGROTTA, Il rito <super accelerato> in materia di appalti tra profili di (in)compatibilità costituzionale e conformità alla normativa comunitaria in Federalismi.it, 28.03.2018; G. LO SAPIO, Rito superaccelerato e tecniche di “giuridificazione” degni interessi in Urbanistica e appalti, 2018, 4, 507; S. TADDEUCCI, L’art. 120 comma 2-bis del c.p.a. dinanzi alla Corte di Giustizia: dubbi sulla fondatezza della questione in Italiappalti.it, 17.07.2018; P. DE BERARDINIS, Rito ex art. 120, comma 2-bis, c.p.a. e ricorso incidentale in Giustizia Amministrativa – Dottrina, 13.11.2018; M. LIPARI, La decorrenza del termine di ricorso nel rito superspeciale di cui all’art. 120, co. 2-bis e 6-bis, del CPA: pubblicazione e comunicazione formale del provvedimento motivato, disponibilità effettiva degli atti di gara, irrilevanza della “piena conoscenza”; l’ammissione conseguente alla verifica dei requisiti in Giustizia amministrativa – Dottrina, 17.12.2018;
      n) sulla costituzionalità della disciplina dell’art. 120, comma 2-bis, cit. si vedano le remissioni alla Corte costituzionale operate da Tar per la Puglia–Bari, sez. III, ordinanza 20.06.2018, n. 903 (oggetto della News US in data 10.07.2018) e Tar per la Puglia–Bari, sez. III, ordinanza 20.07.2018, n. 1097 (oggetto della News US in data 30.07.2018);
      o) sulla decorrenza del termine di impugnazione:
         o1) l’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., com’è noto, prevede l’impugnazione degli atti di ammissione ed esclusione nel termine di trenta giorni decorrente dallo loro pubblicazione sul profilo del committente, ai sensi dell’art. 29, comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016; l’art. 29 cit. è stato fatto oggetto di importanti modifiche ad opera del d.lgs. 19.04.2017, n. 56 (c.d. correttivo al Codice dei contratti pubblici); in particolare adesso il suddetto art. 20, comma 1, al secondo, terzo e quarto periodo prevede quanto segue: “al fine di consentire l'eventuale proposizione del ricorso ai sensi dell' articolo 120, comma 2-bis, del codice del processo amministrativo, sono altresì pubblicati, nei successivi due giorni dalla data di adozione dei relativi atti, il provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni all'esito della verifica della documentazione attestante l'assenza dei motivi di esclusione di cui all'articolo 80, nonché la sussistenza dei requisiti economico-finanziari e tecnico-professionali. Entro il medesimo termine di due giorni è dato avviso ai candidati e ai concorrenti, con le modalità di cui all'articolo 5-bis del decreto legislativo 07.03.2005, n. 82, recante il Codice dell'amministrazione digitale o strumento analogo negli altri Stati membri, di detto provvedimento, indicando l'ufficio o il collegamento informatico ad accesso riservato dove sono disponibili i relativi atti. Il termine per l'impugnativa di cui al citato articolo 120, comma 2-bis, decorre dal momento in cui gli atti di cui al secondo periodo sono resi in concreto disponibili, corredati di motivazione”;
         o2) secondo un primo orientamento interpretativo, in difetto di tale pubblicazione il rito super accelerato non è tout court applicabile (in tal senso Tar per la Campania–Napoli, sez. IV, 20.12.2016, n. 5852); a risultati non diversi giunge la lettura che, in caso di mancata pubblicazione, fa decorrere il termine per impugnare dalla comunicazione dell’aggiudicazione, con applicazione del relativo rito (Tar per la Basilicata 13.01.2017, n. 24, Tar per la Puglia–Bari, 05.04.2017, n. 340, Tar per la Campania–Napoli, sez. VIII, 05.05.2017, n. 2420); nel senso della necessità della pubblicazione per rendere operativo il rito speciale: Tar Campania-Napoli, sez. VIII, 18.01.2018, n. 394, Tar Sicilia-Palermo, sez. III, 31.08.2018, n. 1862; Cons. Stato, sez. V, 10.04.2018, n. 2176;
         o3) secondo altre interpretazioni la mancata pubblicazione è sostituibile solo dalla comunicazione individuale (Tar per il Lazio–Roma – sez. III, 09.05.2017, n. 5545), ovvero determina l’applicazione delle normali regole sulla conoscenza dell’atto oggetto di impugnazione (Tar per la Toscana, sez. I, 18.04.2017, n. 582), o, infine, esclude l’onere di immediata impugnazione non precludendo però la facoltà di una immediata impugnazione dell’ammissione prima dell’aggiudicazione (Tar per il Molise, 4 ottobre 2017, n. 332); Tar per la Campania–Napoli, sez. I, 22.03.2018 n. 1866, che valorizza la conoscenza comunque acquisita del provvedimento;
         o4) Tar per il Lazio–Roma, sez. III-quater, 22.08.2017, n. 9379 trae dalla previsione della pubblicazione delle ammissioni/esclusioni quale dies a quo del termine per impugnare la conclusione della non decorrenza del temine stesso dalla conoscenza acquisita attraverso la partecipazione di un rappresentante della concorrente alla seduta di gara che ha disposto le ammissioni o esclusioni stesse; sul punto si veda Cons. Stato, sez. VI, 13.12.2017, n. 5870, che ha affermato il principio secondo cui, sebbene l’art. 120, comma 2-bis, c.p.a. “faccia riferimento, ai fini della decorrenza dell'ivi previsto termine d'impugnazione di trenta giorni, esclusivamente alla pubblicazione del provvedimento di ammissione o esclusione sul profilo telematico della stazione appaltante ai sensi dell'art. 29, comma 1, d.lgs. n. 50/2016, ritiene il Collegio che ciò non implichi l'inapplicabilità del generale principio sancito dall'art. 41, comma 2, cod. proc. amm. e riaffermato nel comma 5, ultima parte, dell'art. 120 cod. proc. amm., per cui, in difetto della formale comunicazione dell'atto -o, per quanto qui interessa, in difetto di pubblicazione dell'atto di ammissione sulla piattaforma telematico della stazione appaltante-, il termine decorre dal momento dell'avvenuta conoscenza dell'atto stesso, purché siano percepibili i profili che ne rendano evidente la lesività per la sfera giuridica dell'interessato in rapporto al tipo di rimedio apprestato dall'ordinamento processuale”; di segno opposto è invece Cons. Stato, III, 26.01.2018, n. 565 secondo cui “l’onere di impugnazione dell’altrui ammissione è ragionevolmente subordinato alla pubblicazione degli atti della procedura, perché diversamente l’impresa sarebbe costretta a proporre un ricorso <al buio>”; anche per il Tar Puglia–Bari, sez. III, 15.10.2018, n. 1297, la presenza del rappresentante dell’impresa alla seduta di gara è idonea a determinare la piena conoscenza del provvedimento;
      p) sul tradizionale orientamento in forza del quale un atto amministrativo deve essere tempestivamente contestato in sede giurisdizionale solo se immediatamente lesivo, si veda, in relazione all’onere di immediata impugnazione del bando di gara, la recente pronuncia dell’Adunanza plenaria del 26.04.2018, n. 4 (in Vita not., 2018, 661 e Foro amm., 2018, 586 ed oggetto della News US del 10.05.2018 cui si rinvia per ampi riferimenti di dottrina e di giurisprudenza), secondo cui “le clausole del bando di gara che non rivestano portata escludente devono essere impugnate unitamente al provvedimento lesivo e possono essere impugnate unicamente dall’operatore economico che abbia partecipato alla gara o manifestato formalmente il proprio interesse alla procedura”; con tale pronuncia, escludendo l’onere di tempestiva impugnazione delle clausole del bando non immediatamente lesive, la Plenaria ha negato l’autonoma tutelabilità di un diritto alla legittimità della procedura di gara sganciato dalla spettanza dell’utilità finale, in linea con l’orientamento tradizionale; quanto al nuovo rito c.d. “super accelerato” di cui ai commi 2-bis e 6-bis dell’art. 120 del c.p.a. la Plenaria ne riconosce la rilevante portata innovativa e concorda sul fatto che con la detta prescrizione normativa il legislatore abbia inteso espressamente ed eccezionalmente riconoscere autonoma rilevanza ad un interesse procedimentale (quello legato alla corretta formazione della platea dei concorrenti) riconoscendo ad esso una rapida protezione giurisdizionale; non ritiene tuttavia che dallo stesso possano trarsi considerazioni espressive di un principio generale;
      q) sui caratteri dell’interesse a ricorrere nel processo amministrativo, con specifico riferimento al c.d. interesse strumentale e per l’affermazione secondo cui gli assetti delle giurisdizioni nazionali e della stessa Unione europea, configurano il ricorso al giudice amministrativo come ricorso nell’interesse di una parte e mai come ricorso volto al rispetto formale delle regole, a prescindere da ogni interesse, si veda Cons. Stato, Ad. plen., ordinanza 11.05.2018, n. 6 (in Foro it., 2018, III, 429, con nota di SIGISMONDI ed oggetto della News US del 22.05.2018 con ampi riferimenti di dottrina e di giurisprudenza, cui si rinvia anche avuto riguardo ai più recenti approdi della Corte costituzionale in punto di impossibilità di configurare la tutela dell’interesse meramente strumentale dell’impresa che non abbia partecipato ad una gara), secondo cui “va rimesso alla Corte di Giustizia Ue il seguente quesito interpretativo: se l’articolo 1, paragrafi 1, terzo comma, e 3, della direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del 21.12.1989, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11.12.2007, possa essere interpretato nel senso che esso consente che allorché alla gara abbiano partecipato più imprese e le stesse non siano state evocate in giudizio (e comunque avverso le offerte di talune di queste non sia stata proposta impugnazione) sia rimessa al Giudice, in virtù dell’autonomia processuale riconosciuta agli Stati membri, la valutazione della concretezza dell’interesse dedotto con il ricorso principale da parte del concorrente destinatario di un ricorso incidentale escludente reputato fondato, utilizzando gli strumenti processuali posti a disposizione dell’ordinamento, e rendendo così armonica la tutela di detta posizione soggettiva rispetto ai consolidati principi nazionali in punto di domanda di parte (art. 112 c.p.c.), prova dell’interesse affermato (art. 2697 cc), limiti soggettivi del giudicato che si forma soltanto tra le parti processuali e non può riguardare la posizione dei soggetti estranei alla lite (art. 2909 cc)”;
      r) sulla definitività dell’esclusione, ove non impugnata con il rito super accelerato, con conseguente preclusione alla impugnazione dell’aggiudicazione, per difetto di legittimazione, si vedano:
         r1) Corte di giustizia UE, sez. VIII, 21.12.2016, C- 355/15, GesmbH (in Gazzetta forense, 2017, 80, con nota di GILIBERTI, nonché oggetto della News US del 04.01.2017 ai cui approfondimenti si rinvia), la quale ha affermato che “l’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del 21.12.1989, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11.12.2007, dev’essere interpretato nel senso che esso non osta a che a un offerente escluso da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico con una decisione dell’amministrazione aggiudicatrice divenuta definitiva sia negato l’accesso ad un ricorso avverso la decisione di aggiudicazione dell’appalto pubblico di cui trattasi e la conclusione del contratto, allorché a presentare offerte siano stati unicamente l’offerente escluso e l’aggiudicatario e detto offerente sostenga che anche l’offerta dell’aggiudicatario avrebbe dovuto essere esclusa”;
         r2) tuttavia, in assenza di una esclusione “definitiva”, la successiva Corte di giustizia dell’UE, sez. VIII, 10.05.2017, C-131/16, Archus (in Foro amm., 2017, 999 e Riv. giur. edilizia, 2017, I, 533, nonché oggetto della News US del 19.05.2017 ai cui approfondimenti si rinvia), ha precisato che “la direttiva 92/13/CE del Consiglio, del 25.02.1992, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle norme comunitarie in materia di procedure di appalto degli enti erogatori di acqua e di energia e degli enti che forniscono servizi di trasporto nonché degli enti che operano nel settore delle telecomunicazioni, come modificata dalla direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11.12.2007, deve essere interpretata nel senso che, in una situazione come quella di cui al procedimento principale, in cui una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico ha dato luogo alla presentazione di due offerte e all’adozione, da parte dell’amministrazione aggiudicatrice, di due decisioni in contemporanea recanti rispettivamente rigetto dell’offerta di uno degli offerenti e aggiudicazione dell’appalto all’altro, l’offerente escluso, che ha presentato un ricorso avverso tali due decisioni, deve poter chiedere l’esclusione dell’offerta dell’offerente aggiudicatario, in modo tale che la nozione di «un determinato appalto», ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 92/13, come modificata dalla direttiva 2007/66, può, se del caso, riguardare l’eventuale avvio di una nuova procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico”;
         r3) già con la sentenza 05.04.2016 C- 689/13, Puligienica, (in Foro it., 2016, IV, 324, con nota di SIGISMONDI oggetto della News US del 07.04.2016 cui si rinvia per gli approfondimenti), in linea con la sentenza 04.07.2013, n. 100, Fastweb, (in Foro it., 2015, IV, 311, con nota di CONDORELLI), la Corte di Giustizia aveva chiarito che “l’articolo 1, paragrafi 1, terzo comma, e 3, della direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del 21.12.1989, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11.12.2007, deve essere interpretato nel senso che osta a che un ricorso principale proposto da un offerente, il quale abbia interesse a ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto e che sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione del diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici o delle norme che traspongono tale diritto, e diretto a ottenere l’esclusione di un altro offerente, sia dichiarato irricevibile in applicazione di norme processuali nazionali che prevedono l’esame prioritario del ricorso incidentale presentato dall’altro offerente”;
      s) sulla tutelabilità dell’interesse strumentale nell’ordinamento nazionale e comunitario si segnala quanto segue:
         s1) nel senso della impossibilità di configurare la tutela del c.d. interesse strumentale nell’attuale ordinamento del processo amministrativo nazionale, caratterizzato dalla peculiare disciplina delle condizioni delle azioni (in particolare interesse ad agire e legittimazione), strumentale alla realizzazione del giusto processo ex art. 111 Cost., si vedano: Cons. Stato, Ad. plen., 27.04.2015, n. 5 (specie §§ 5 ss., e 9.2. ss., in Foro it., 2015, III, 265, con nota di TRAVI; Riv. dir. proc., 2015, 1256, con nota di FANELLI; Giur. it., 2015, 2192 con nota di FOLLIERI; Dir. proc. ammin., 2016, 205, con nota di PERFETTI e TROPEA); Cons. Stato, sez. V, 22.01.2015, n. 272, in Foro it., 2015, III, 345; Cons. Stato, Ad. plen., 25.02.2014, n. 9 in Foro it., 2014, III, 429, con nota di SIGISMONDI, Dir. proc. amm., 2014, 544, con nota di BERTONAZZI, Urbanistica e appalti, 2014, 1075 (m), con nota di FANTINI, Giornale dir. amm., 2014, 918 (m), con note di FERRARA, BARTOLINI, Nuovo notiziario giur., 2014, 550, con nota di BARBIERI; le citate sentenze sono tutte nel senso:
I) di non consentire la tutela del c.d. interesse strumentale perché in contrasto con le esigenze di evitare l’abuso del processo ed il sindacato su poteri non ancora esercitati dalla stazione appaltante;
II) di considerare il processo quale risorsa scarsa da attingere solo dopo essere stato superato il filtro delle condizioni dell’azione in cui è insito un giudizio di meritevolezza della pretesa;
III) di esigere che il processo sia volto a tutelare interessi concreti ed attuali e non futuri ed incerti, di mero fatto quando non emulativi, per giunta rimessi ad una incoercibile nuova determinazione dell’Amministrazione;
         s2) successivamente alla pubblicazione della sentenza della Corte di giustizia Puligienica, le conclusioni cui è pervenuta la sentenza GesmbH, sono state anticipate dal Consiglio di Stato in una sequela di pronunce, fra cui si segnalano: Cons. Stato, sez. IV, 11.10.2016, n. 4180; Cons. Stato, sez. IV, 25.08.2016, n. 3688; Cons. Stato, sez. IV, 20.04.2016, n. 1560; per tali arresti, è inammissibile per difetto di legittimazione l’impugnativa dell’impresa che non abbia partecipato ab imis alla procedura, ovvero sia stata legittimamente esclusa dalla gara, dato che tale soggetto, per effetto dell'esclusione o della mancata presentazione della domanda, rimane privo non soltanto del titolo a partecipare alla gara ma anche a contestarne gli esiti e la legittimità delle scansioni procedimentali; il suo interesse protetto, invero, da qualificare interesse di mero fatto o strumentale, non è diverso da quello di qualsiasi operatore del settore che, non avendo partecipato alla gara, non ha titolo a impugnare gli atti, essendo portatore di un interesse di mero fatto alla caducazione dell'intera selezione, al fine di poter presentare la propria offerta in ipotesi di riedizione della nuova gara; Cons. Stato sez. III, 26.08.2016, n. 3708, secondo cui non potrebbe ammettersi l’impugnativa dell’aggiudicazione di una gara da parte di un’impresa che certamente da un tale annullamento non potrebbe ricavare alcun vantaggio (anche di ordine strumentale in quanto relativo alla possibilità di ripetizione della gara), perché non ha partecipato alla medesima gara, o non ha proposto censure nei confronti di tutte le imprese che la precedono in graduatoria (ovvero non le ha evocate in giudizio) e di cui si lamenta, però la illegittimità della mancata esclusione; tali conclusioni potrebbero tuttavia necessitare una rimeditazione alla luce della sentenza della Corte di giustizia Archus cit.;
         s3) in dottrina R. DE NICTOLIS, Codice del processo amministrativo, IV ed., Milano, 2017, 759 ss, 2056 ss., nega in radice che l’interesse strumentale sia configurabile quale interesse legittimo; G. SIGISMONDI, Ricorso incidentale escludente: l’ultimo orientamento della Corte di giustizia porta all’emersione di un contrasto più profondo, in Foro it., 2016, IV, 336, secondo cui il punto di maggiore criticità nell’indirizzo a base della sentenza Puligienica, consiste nel fatto che esso “…si pone in contrasto diretto con i principî di fondo del nostro ordinamento processuale, del quale vengono disgregati la coerenza interna e i principî fondanti".
Si pone allora una seria questione di compatibilità tra la prospettiva comunitaria e il sistema di principî (e per certi aspetti di valori) definito dalla Costituzione italiana (che disegna il diritto alla tutela giurisdizionale e il principio di azionabilità nei confronti delle decisioni dell’amministrazione in chiave espressamente soggettiva e in modo non condizionato dalla materia): un problema che sta emergendo in modo sempre più consistente, nonostante la dichiarata autonomia riconosciuta agli Stati membri nella definizione delle proprie regole processuali.
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MASSIMA
«Rinvio pregiudiziale – Appalti pubblici – Procedure di ricorso – Direttiva 89/665/CEE – Articoli 1 e 2-quater – Ricorso contro i provvedimenti di ammissione o esclusione degli offerenti – Termini di ricorso – Termine di decadenza di 30 giorni – Normativa nazionale che esclude la possibilità di eccepire l’illegittimità di un provvedimento di ammissione nell’ambito di un ricorso contro gli atti successivi – Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – Articolo 47 – Diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva»
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Per questi motivi, la Corte (Ottava Sezione) dichiara:
   1) La direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del 21.12.1989, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva 2014/23/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014, e in particolare i suoi articoli 1 e 2-quater, letti alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, deve essere interpretata nel senso che essa non osta ad una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, che prevede che i ricorsi avverso i provvedimenti delle amministrazioni aggiudicatrici recanti ammissione o esclusione dalla partecipazione alle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici debbano essere proposti, a pena di decadenza, entro un termine di 30 giorni a decorrere dalla loro comunicazione agli interessati, a condizione che i provvedimenti in tal modo comunicati siano accompagnati da una relazione dei motivi pertinenti tale da garantire che detti interessati siano venuti o potessero venire a conoscenza della violazione del diritto dell’Unione dagli stessi lamentata.
   2) La direttiva 89/665, come modificata dalla direttiva 2014/23, e in particolare i suoi articoli 1 e 2-quater, letti alla luce dell’articolo 47 della Cartadei diritti fondamentali dell’Unione europea, deve essere interpretata nel senso che essa non osta ad una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, che prevede che, in mancanza di ricorso contro i provvedimenti delle amministrazioni aggiudicatrici recanti ammissione degli offerenti alla partecipazione alle procedure di appalto pubblico entro un termine di decadenza di 30 giorni dalla loro comunicazione, agli interessati sia preclusa la facoltà di eccepire l’illegittimità di tali provvedimenti nell’ambito di ricorsi diretti contro gli atti successivi, in particolare avverso le decisioni di aggiudicazione, purché tale decadenza sia opponibile ai suddetti interessati solo a condizione che essi siano venuti o potessero venire a conoscenza, tramite detta comunicazione, dell’illegittimità dagli stessi lamentata.

PUBBLICO IMPIEGO: Falsa attestazione presenza in servizio.
Il ricorso di un dipendente comunale avverso la sentenza di condanna per truffa aggravata, per aver falsamente attestato in varie occasioni a propria presenza in servizio, è stato respinto dalla Corte di Cassazione, Sez. II penale, con la sentenza 13.02.2019 n. 7005.
La questione non è rivolta esclusivamente al danno patrimoniale, che potrebbe essere anche di pochi euro, ma sono determinanti, oltre al valore economico del danno, anche gli ulteriori effetti pregiudizievoli cagionati alla persona offesa dalla condotta delittuosa complessivamente valutata.
È importante anche l'incidenza dell'accertata condotta delittuosa sull'organizzazione dell'ente interessato, che ben potrebbe aver subito pregiudizio rilevante per effetto delle pur minime assenze de quibus, poiché esse (e il danno che ne consegue a carico della Pa interessata) vanno valutate non soltanto sotto un profilo quantitativo, in riferimento al quantum di retribuzione in ipotesi indebitamente percepito dal deceptor, ma anche in quanto mettano in pericolo l'efficienza degli uffici: le singole assenze, infatti, incidono sull'organizzazione dell'ufficio, alterando la preordinata dislocazione delle risorse umane, nella quale il singolo funzionario non può ingerirsi, modificando arbitrariamente le prestabilite modalità di prestazione della propria opera quanto agli specifici orari di presenza.
La dislocazione degli impiegati nei singoli uffici, infatti, è predisposta dai dirigenti a ciò preposti curando l'utile e razionale impiego delle risorse disponibili, per assicurare la proficuità (anche in favore dell'utenza) dello svolgimento della quotidiana attività amministrativa, certamente messa a repentaglio dalle personali iniziative di quei dipendenti che mutino a proprio piacimento i prestabiliti orari di presenza in ufficio (con il rischio di creare nocive scoperture ed inutili accavallamenti, e comunque fornendo una prestazione diversa da quella doverosa, non soltanto per durata, ma anche quanto all'orario di inizio e di fine) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 25.02.2019).
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MASSIMA
2. Questa Corte (Sez. 5, sentenza n. 8426 del 17/12/2013, dep. 2014, Rv. 258987 - 01) ha già osservato che
la falsa attestazione del pubblico dipendente relativa alla sua presenza in ufficio, riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, integra il reato di truffa aggravata ove il soggetto si allontani senza far risultare, mediante timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza, sempre che questi ultimi siano economicamente apprezzabili, osservando che anche una indebita percezione di poche centinaia di euro, corrispondente alla porzione di retribuzione conseguita in difetto di prestazione lavorativa, costituisce un danno economicamente apprezzabile per l'amministrazione pubblica.
2.1.
L'affermazione può essere condivisa, ma con la precisazione che la speciale tenuità del danno arrecato alla PA potrebbe al più legittimare il riconoscimento della circostanza attenuante di cui all'art. 62, comma 1, n. 4, c.p. (tenuto anche conto dell'entità del profitto percepito), non certo impedire la configurabilità del reato.
2.2. Questa Corte (Sez. 6, sentenza n. 30177 del 04/06/2013, Rv. 256643) ha già chiarito che,
anche ai fini della configurabilità della circostanza attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità, rilevano, oltre al valore economico del danno, anche gli ulteriori effetti pregiudizievoli cagionati alla persona offesa dalla condotta delittuosa complessivamente valutata (fattispecie relativa ad una truffa commessa in danno di Poste Italiane S.p.A. attraverso l'utilizzo abusivo dei cartellini di ingresso e la conseguente alterazione dei dati sulle presenze in ufficio, in cui è stata esclusa l'attenuante, richiamando la grave lesione del rapporto fiduciario determinata dalla condotta delittuosa).
2.3. Osserva, in proposito, il collegio che
assume all'uopo rilievo anche l'incidenza dell'accertata condotta delittuosa sull'organizzazione dell'ente interessato, che ben potrebbe aver subito pregiudizio rilevante per effetto delle pur minime assenze de quibus, poiché esse (ed il danno che ne consegue a carico della PA interessata) vanno valutate non soltanto sotto un profilo quantitativo, in riferimento al quantum di retribuzione in ipotesi indebitamente percepito dal deceptor, ma anche in quanto mettano in pericolo l'efficienza degli uffici: le singole assenze incidono, infatti, sull'organizzazione dell'ufficio, alterando la preordinata dislocazione delle risorse umane, nella quale il singolo funzionario non può ingerirsi, modificando arbitrariamente le prestabilite modalità di prestazione della propria opera quanto agli specifici orari di presenza.
La dislocazione degli impiegati nei singoli uffici è, infatti, predisposta dai dirigenti a ciò preposti curando l'utile e razionale impiego delle risorse disponibili, al fine di assicurare la proficuità (anche in favore dell'utenza) dello svolgimento della quotidiana attività amministrativa, certamente messa a repentaglio dalle personali iniziative di quei dipendenti che mutino a proprio piacimento i prestabiliti orari di presenza in ufficio (con il rischio di creare nocive scoperture ed inutili accavallamenti, e comunque fornendo una prestazione diversa da quella doverosa, non soltanto per durata, ma anche quanto all'orario di inizio e di fine).
2.4.
Di qui, il profitto consistente nell'essersi sottratto ai doveri di ufficio e nell'indebita percezione di apprezzabile retribuzione (cfr. f. 6 dell'ordinanza impugnata), ed il danno patito dalla PA.
Il primo motivo risulta, pertanto, manifestamente infondato.
...
5. Il quarto motivo è manifestamente infondato.
Come già correttamente chiarito dal Tribunale,
è, infatti, configurabile il concorso materiale tra il reato di truffa aggravata e quello di false attestazioni o certificazioni previsto dall'art. 55-quinquies D.Lgs. 30.03.2001, n. 165 (Sez. 3, Sentenza n. 47043 del 27/10/2015, Rv. 265223 — 01: fattispecie in tema di indebito utilizzo dei badges attestanti la presenza in ufficio da parte di dipendenti comunali).

EDILIZIA PRIVATA: Mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante - Nozione di destinazione d'uso - Connotazione del bene immobile a precisi scopi di interesse pubblico - Organizzazione e gestione del territorio comunale - Carichi urbanistici.
La destinazione d'uso è un elemento che qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione. Essa individua il bene sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona.
L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello stesso vengono realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando appunto il complessivo assetto territoriale.
Il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante è dunque solo quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, tenuto conto che nell'ambito delle stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma non diversi regimi urbanistico - contributivi, stanti le sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell'ambito della medesima categoria.

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Mutamento di destinazione d'uso senza opere - Necessità di S.C.I.A. o permesso di costruire - Destinazione d'uso funzionale - Condizioni - Artt. 31, 44, D.P.R. n. 380/2001.
Il mutamento di destinazione d'uso senza opere è attualmente assoggettato a S.C.I.A., purché intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una stessa categoria omogenea.
Sicché, deve ritenersi consentita la modifica di destinazione d'uso funzionale, purché non comporti una oggettiva modificazione dell'assetto urbanistico ed edilizio del territorio e non incida sugli indici di edificabilità, che non determini, cioè, un aggravio del carico urbanistico, inteso come maggiore richiesta di servizi cosiddetti secondari, come ad esempio gli spazi pubblici destinati a parcheggio e le esigenze di trasporto, smaltimento di rifiuti e viabilità derivante dalla diversa destinazione impressa al bene
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.02.2019 n. 6366 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Come più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità, in tema di reati edilizi, il direttore dei lavori riveste una posizione di garanzia circa la regolare esecuzione delle opere, con la conseguente responsabilità per le ipotesi di reato configurate, dalla quale può andare esente solo ottemperando agli obblighi di comunicazione e rinuncia all'incarico previsti dall'art. 29, comma secondo, del d.P.R. n. 380 del 2001, sempre che il recesso dalla direzione dei lavori sia stato tempestivo, ossia sia intervenuto non appena l'illecito edilizio si sia evidenziato in modo obiettivo, o non appena abbia avuto conoscenza che le direttive impartite erano state disattese o violate, essendo stato chiarito che, proprio per la posizione di "garante" assunta dal direttore dei lavori e per il suo precipuo obbligo di vigilare sulla corretta esecuzione delle opere, questi risponde penalmente anche allorché si disinteressi dei lavori, pur senza formalizzare o formalizzandole in ritardo, le proprie dimissioni; dunque, l'assenza dal cantiere non esclude la penale responsabilità per gli abusi commessi dal direttore dei lavori, sul quale ricade l'onere di vigilare sulla regolare esecuzione delle opere edilizie e il dovere di contestare le irregolarità riscontrate, se del caso rinunziando all'incarico.
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2.2. Ribadita la configurabilità dei reati dal punto di vista oggettivo, deve parimenti ritenersi immune da censure l'attribuzione degli stessi al ricorrente.
In tal senso, è stata infatti ragionevolmente valorizzata la posizione di Ro., che era quella di direttore dei lavori, dovendosi in proposito evidenziare che, come più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. in termini Sez. 3, n. 14504 del 20/01/2009, Rv. 243474), in tema di reati edilizi, il direttore dei lavori riveste una posizione di garanzia circa la regolare esecuzione delle opere, con la conseguente responsabilità per le ipotesi di reato configurate, dalla quale può andare esente solo ottemperando agli obblighi di comunicazione e rinuncia all'incarico previsti dall'art. 29, comma secondo, del d.P.R. n. 380 del 2001, sempre che il recesso dalla direzione dei lavori sia stato tempestivo, ossia sia intervenuto non appena l'illecito edilizio si sia evidenziato in modo obiettivo, o non appena abbia avuto conoscenza che le direttive impartite erano state disattese o violate, essendo stato chiarito (Sez. 3, n. 38924 del 7/11/2006, Rv. 235465) che, proprio per la posizione di "garante" assunta dal direttore dei lavori e per il suo precipuo obbligo di vigilare sulla corretta esecuzione delle opere, questi risponde penalmente anche allorché si disinteressi dei lavori, pur senza formalizzare o formalizzandole in ritardo, le proprie dimissioni; dunque, l'assenza dal cantiere non esclude la penale responsabilità per gli abusi commessi dal direttore dei lavori, sul quale ricade l'onere di vigilare sulla regolare esecuzione delle opere edilizie e il dovere di contestare le irregolarità riscontrate, se del caso rinunziando all'incarico (così Sez. 3, n. 7406 del 15/01/2015, Rv. 262423).
Orbene, alla luce di tali premesse ermeneutiche, l'ascrivibilità delle condotte illecite all'odierno ricorrente non presta il fianco alle censure difensive, avendo i giudici di merito, con argomentazioni tutt'altro che illogiche, evidenziato che delle difformità delle opere, e in particolare del mancato adeguamento della struttura all'intervento restrittivo del responsabile del procedimento, doveva essere chiamato a rispondere senz'altro il direttore dei lavori, che per le sue capacità tecniche connesse con la veste assunta, aveva precisi doveri di indirizzo e di controllo durante l'esecuzione delle attività esecutive, essendo senz'altro legittimato in ogni momento, ove necessario, a confrontarsi con la P.A., non tanto per sostituirsi al committente, ma piuttosto per verificare la compatibilità dei lavori in corso di esecuzione con i titoli legittimanti l'intervento edilizio.
Non può condividersi in tal senso la lettura difensiva volta sostanzialmente a "minimizzare" i compiti del direttore dei lavori, dovendosi ribadire che questi ha il dovere di sovraintendere dall'inizio alla fine alle attività edilizie, curandone la coerenza rispetto agli atti autorizzativi e ai relativi elaborati tecnici presupposti.
L'affermazione della penale responsabilità di Ro. resiste dunque alle obiezioni difensive, risultando generiche le censure in ordine alla presunta violazione dell'art. 5 cod. pen. (e non 4 come erroneamente indicato nel ricorso), posto che nel caso di specie alcuna incertezza interpretativa era configurabile, riferendosi il breve passaggio motivazionale della sentenza impugnato citato dal ricorrente non all'esistenza di una situazione di confusione generata dagli organi tecnici che in ipotesi avrebbe potuto creare dubbi sull'iter tecnico-amministrativo da seguire, ma alla "difficoltà, probabilmente interpretativa" nella fase esecutiva, che eventualmente avrebbe potuto crearsi laddove, a seguito del sopravvenuto intervento limitativo del responsabile del procedimento, si fosse operata una conseguente revisione integrale del progetto per garantire la stabilità dell'opera.
Piuttosto, rispetto alla valutazione dell'elemento psicologico, è sufficiente richiamare la natura anche colposa delle fattispecie per cui si è proceduto (discorso questa che, come si vedrà di qui a breve, riguarda anche la contestazione di cui al capo Aw), per ritenere pienamente integrati anche dal punto di vista soggettivo i reati addebitati al direttore dei lavori, alla luce almeno dell'accertata violazione dei doveri di vigilanza sullo stesso incombenti.
Allo stesso modo, non può sottacersi che parimenti generiche sono le doglianze difensive in ordine alla presunta realizzazione delle opere abusive nella fase temporale compresa tra la comunicazione dell'ultimazione dei lavori da parte di Ro. (luglio 2013) e l'epoca del sopralluogo della P.G. (marzo 2014), avendo sul punto la Corte territoriale ragionevolmente osservato come, in assenza peraltro di evidenze probatorie di segno contrario, fosse del tutto inverosimile che siano avvenute in un tempo così ristretto la differente strutturazione degli ambienti, rispetto peraltro a due distinti livelli, l'interclusione degli spazi inutilizzabili e la realizzazione delle opere tecniche accessorie, trattandosi di interventi che richiedevano ben altri tempi di esecuzione, coinvolgendo l'opera nel suo complesso, per cui non è immaginabile che tale attività sia stata compiuta solo dopo che Ro. aveva terminato il suo incarico, prolungatosi peraltro per 5 anni.
2.3. Tanto premesso, deve tuttavia precisarsi, quanto all'imputazione cristallizzata al capo Aw della rubrica, che i fatti delineati dagli elementi probatori acquisiti devono essere più correttamente inquadrati non nella fattispecie delittuosa di cui all'art. 181, comma 1-bis, del d.lgs. n. 42 del 2004, ma in quella contravvenzionale di cui al comma 1 del medesimo art. 181.
Deve infatti evidenziarsi che, con la sentenza della Corte costituzionale n. 56 del 23.03.2016, è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 181, comma 1-bis, del d.lgs. n. 42 del 22.01.2004, nella parte in cui prevede «:a) ricadano su immobili od aree che, per le loro caratteristiche paesaggistiche siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori; b) ricadano su immobili od aree tutelati per legge ai sensi dell'articolo 142 ed».
Per effetto dell'intervento della Consulta, dunque, la natura delittuosa della condotta illecita permane ormai soltanto con riguardo alla seconda parte della lettera b), concernente gli interventi che abbiano comportato un aumento dei manufatti superiore al trenta per cento della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa, un ampliamento della medesima superiore a settecentocinquanta metri cubi, ovvero ancora abbiano comportato una nuova costruzione con una volumetria superiore ai mille metri cubi; quanto, invece, alla prima parte della stessa lett. b), così come alla lett. a), sopra citate, le relative ipotesi mantengono comunque rilevanza penale, ma vengono attratte nel comma 1 del medesimo art. 181 e, pertanto, sono punite con le pene previste dall'art. 44, comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 380/2001, proprie delle fattispecie contravvenzionali, al pari della "comune" esecuzione di lavori di qualsiasi genere su beni paesaggistici senza la prescritta autorizzazione o in difformità di essa.
In definitiva, con la sentenza n. 56 del 2016, talune condotte di reato sono state private della natura delittuosa, per assumere quella contravvenzionale, cioè quella che possedevano fino all'emanazione della legge n. 308/2004, che aveva appunto inserito il predetto comma 1-bis all'art. 181 del d.lgs. 42/2004. Come già chiarito da questa Corte (cfr. Sez. 3, n. 38691 dell'11/07/2017, Rv. 271301), gli effetti in bonam partem della pronuncia manipolativa della Corte costituzionale, stante l'invalidità originaria della norma, sono destinati, sin dalla pubblicazione delle sentenza, a riverberarsi sia nei giudizi ancora in corso, sia nella fase esecutiva, ovviamente entro il limite dei rapporti ormai esauriti.
Ciò posto, nel caso di specie, la declaratoria di incostituzionalità della norma incriminatrice assume senz'altro rilievo, dovendosi cioè escludere che le opere realizzate abbiano superato i limiti dimensionali prima indicati, avendo la stessa sentenza impugnata specificato che l'aumento della volumetria "rasenta il 30% del progetto originale", affermazione questa che non consente di ritenere comprovato il requisito dell'aumento superiore al 30% della volumetria della costruzione originaria, imposto dalla previsione delittuosa del reato de quo, né potendosi ritenere superati gli ulteriori parametri volumetrici sopra richiamati.
Ne consegue che il fatto contestato al capo Aw, alla luce delle consistenze volumetriche desumibili dalle sentenze di merito, deve essere inquadrato non nella più grave fattispecie delittuosa di cui all'art. 181, comma 1-bis, del d.lgs. 42/2004, ma in quella contravvenzionale di cui al comma 1 del citato art. 181 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.02.2019 n. 6359).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Nozione di acque meteoriche di dilavamento - Contaminazioni con altre sostanze o materiali inquinanti - Qualificazione come acque reflue industriali - Assenza della prescritta autorizzazione - Configurabilità del reato ambientale - Responsabilità dell'amministratore - Direttore tecnico - Artt. 74, 113, 124, c. 1, e 137, c. 1, d.Lgs. n. 152/2006.
Le acque meteoriche di dilavamento sono costituite dalle sole acque che, cadendo al suolo per effetto di precipitazioni atmosferiche, si depositano su un suolo impermeabilizzato, dilavando le superfici e attingendo indirettamente i corpi recettori, senza subire contaminazioni di sorta con altre sostanze o materiali inquinanti, come avvenuto nel caso di specie (acque meteoriche contaminate con i materiali stoccati sul piazzale dello stabilimento dell'impresa).
Di qui la coerente esclusione dell'incidenza in materia della competenza regionale fissata dall'art. 113 del d.Lgs. n. 152 del 2006, avendo tale competenza ad oggetto, per espresso dettato normativo, soltanto le acque meteoriche di dilavamento, le acque di prima pioggia e le acque di lavaggio di aree esterne.
In conclusione, in tema di tutela penale dall'inquinamento, le acque meteoriche da dilavamento sono costituite dalle sole acque piovane che, cadendo al suolo, non subiscono contaminazioni con sostanze o materiali inquinanti, poiché, altrimenti, esse vanno qualificate come reflui industriali ai sensi dell'art. 74, lett. h), del d.Lgs. n. 152 del 2006
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.02.2019 n. 6260 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nozione di opera precaria - Manufatti precari e assenza di titolo abilitativo - Presupposti - Artt. 3, 6, 44, lett. c), 93, 94 e 95 d.P.R. n. 380/2001 - Art. 181, c. 1, d.lgs. n. 42/2004
L'opera precaria, per la sua stessa natura e destinazione non comporta effetti permanenti e definitivi sull'originario assetto del territorio tali da richiedere il preventivo rilascio di un titolo abilitativo, sicché, l'intervento precario deve necessariamente possedere alcune specifiche caratteristiche.
Pertanto, la sua precarietà non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all'opera dall'utilizzatore e sono irrilevanti le caratteristiche costruttive i materiali impiegati e l'agevole amovibilità, infatti, l'opera deve avere una intrinseca destinazione materiale ad un uso realmente precario per fini specifici, esigenze contingenti e limitati nel tempo, per cui, deve essere destinata ad una sollecita eliminazione alla cessazione dell'uso
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.02.2019 n. 5821 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Intervento abusivo - Violazioni urbanistiche/paesaggistiche e verifica della particolare tenuità del fatto - Elementi.
In materia di violazioni urbanistiche e paesaggistiche, la consistenza dell'intervento abusivo (tipologia di intervento, dimensioni e caratteristiche costruttive) costituisce solo uno dei parametri di valutazione utilizzabili ai fini della verifica della particolare tenuità del fatto, assumendo rilievo anche altri elementi, quali, ad esempio, la destinazione dell'immobile, l'incidenza sul carico urbanistico, l'eventuale contrasto con gli strumenti urbanistici e l'impossibilità di sanatoria, il mancato rispetto di vincoli (idrogeologici, paesaggistici, ambientali, etc.), l'eventuale collegamento dell'opera abusiva con interventi preesistenti, il rispetto o meno di provvedimenti autoritativi emessi dall'amministrazione competente (ad es. l'ordinanza di demolizione), la totale assenza di titolo abilitativo o il grado di difformità dallo stesso, le modalità di esecuzione dell'intervento, ritenendo anche indice sintomatico della non particolare tenuità del fatto la contestuale violazione di più disposizioni quale conseguenza dell'intervento abusivo, come nel caso in cui siano contestualmente violate, mediante la realizzazione dell'opera, anche altre disposizioni finalizzate alla tutela di interessi diversi (norme in materia di costruzioni in zone sismiche, di opere in cemento armato, di tutela del paesaggio e dell'ambiente, a quelle relative alla fruizione delle aree demaniali).
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DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Eliminazione dell'opera abusiva - Effetti - Cessazione della permanenza - Applicazione della causa di non punibilità e assenza dei presupposti - Motivazione implicita in presenza di dati obiettivamente preclusivi - Art. 131-bis cod. pen..
L'eliminazione dell'opera abusiva, attraverso la sua demolizione o la rimessione in pristino dello stato dei luoghi, implicando la cessazione della permanenza, può consentire, a condizioni esatte, l'applicazione della causa di non punibilità introdotta dall'art. 131-bis cod. pen. (Cass. Sez. 3, n. 4123 del 11/07/2017 (dep. 2018), PG. in proc. Zoccarato).
Tuttavia, l'assenza dei presupposti per l'applicabilità dell'art. 131-bis cod. pen. può essere rilevata anche con motivazione implicita (Sez. 3, n. 48317 del 11/10/2016 Scopazzo), ovviamente in presenza di dati obiettivamente preclusivi di una valutazione di particolare tenuità del fatto, ritenendo quindi del tutto adeguata la motivazione espressa che valorizzi l'assenza anche di uno solo dei requisiti richiesti dall'art. 131-bis cod. pen. (Sez. 3, n. 34151 del 18/06/2018, Foglietta e altro)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.02.2019 n. 5821 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Illecita gestione di rifiuti - Configurabilità del reato - Verifica del titolo abilitativo - Distinzione tra requisiti e condizioni incidenti - Carenza dei requisiti e delle condizioni per le iscrizioni o comunicazioni - Modalità di esercizio dell'attività - Artt. 184, 216, 256, 258 d.lgs. n. 152/2006.
Con l'art. 256, d.lgs. 152/2006 opera una distinzione tra requisiti e condizioni incidenti sulla medesima sussistenza del titolo abilitativo e quelli che, invece, riguardano unicamente le modalità di esercizio della medesima attività. Per cui, nell'ipotesi di carenza dei requisiti e delle condizioni richiesti per le iscrizioni o comunicazioni, il reato di cui all'art. 256, comma 4, d.lgs. 152/2006 è configurabile nei soli casi in cui tale carenza sia attinente alle modalità di esercizio dell'attività, mentre, nella diversa ipotesi in cui essa si risolva nella sostanziale inesistenza del titolo abilitativo, si configura una illecita gestione che certamente sussiste quando oggetto dell'attività sono rifiuti diversi da quelli indicati nelle comunicazioni ed iscrizioni.
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RIFIUTI - Svolgimento di attività di gestione in forma semplificata - Condizioni prescritte all'atto della richiesta iniziale o nella richiesta di rinnovo - Attività ad un controllo della Pubblica Amministrazione - Effetti della prosecuzione in difformità.
In tema di rifiuti, lo svolgimento di attività di gestione in forma semplificata, art. 216 d.lgs. 152/2006, al di fuori delle condizioni prescritte all'atto della richiesta iniziale o nella richiesta di rinnovo, fa insorgere il pericolo, che il legislatore ha voluto prevenire, richiedendo l'assoggettamento dell'attività ad un controllo della Pubblica Amministrazione, divenendo conseguentemente illegale ai sensi dell'art. 256, comma primo, lett. a), d.lgs. n. 152 del 2006, la prosecuzione in difformità dal titolo o dalle condizioni indicate nella richiesta, di rinnovo o di rilascio iniziale (Sez. 3, n. 2401 del 05/10/2017 (dep. 2018), Mascheroni).
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RIFIUTI - Nozione della messa in riserva - Attività prodromica al recupero dei rifiuti - Giurisprudenza.
La messa in riserva costituisce un'attività prodromica al recupero dei rifiuti, come si ricava dalle definizioni di "stoccaggio" di cui all'art. 183, lett. aa), d.lgs. 152/2006, il quale individua come tale "le attività di smaltimento consistenti nelle operazioni di deposito preliminare di rifiuti di cui al punto D15 dell'allegato B alla parte quarta del presente decreto, nonché le attività di recupero consistenti nelle operazioni di messa in riserva di rifiuti di cui al punto R13 dell'allegato C alla medesima parte quarta" e nella definizione di "recupero", definito, sempre, nell'art. 183, alla lett. t), come "qualsiasi operazione il cui principale risultato sia di permettere ai rifiuti di svolgere un ruolo utile, sostituendo altri materiali che sarebbero stati altrimenti utilizzati per assolvere una particolare funzione o di prepararli ad assolvere tale funzione, all'interno dell'impianto o nell'economia in generale" (Sez. 3, n. 7160 del 15/12/2016 (dep. 2017), Bozza) (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.02.2019 n. 5817 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Scarichi e rifiuti liquidi - Abusivo smaltimento su suolo di effluenti provenienti dal proprio allevamento - Disciplina applicabile - RIFIUTI - Reflui da considerarsi rifiuti allo stato liquido - Artt. 101 e 256 D.Lgs. n. 152/2006 - Giurisprudenza.
La disciplina sui reflui trova applicazione solo se il collegamento fra ciclo di produzione e recapito finale sia diretto ed attuato, senza soluzione di continuità, mediante una condotta o altro sistema stabile di collettamento, atteso che l'art. 183, lett. h), del d.lgs. 152/2006 definisce quale scarico, che rimanda alla normativa sui reflui, solo l'immissione effettuata tramite un sistema stabile e diretto di collettannento.
Consegue che in assenza di diretta immissione nel suolo, nel sottosuolo o nella rete fognaria mediante una condotta o un sistema stabile di collettamento i reflui sono da considerarsi rifiuti allo stato liquido, soggetti alla distinta disciplina dell'art. 256 D.Lgs. n. 152 del 2006
(Cass. Sez. 3, n. 6998/2018; Sez. 3, n. 16623/2015 D'Aniello)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.02.2019 n. 5813 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Alla Corte costituzionale la norma veneta che prevede la riscossione del contributo di costruzione solo se determinato contestualmente al rilascio del titolo.
Il Tar per il Veneto rimette alla Corte costituzionale la q.l.c. della norma regionale veneta (art. 2, comma 3, l.r. 16.03.2015, n. 4) che, nel prevedere la possibilità per l’ente locale di riscuotere il contributo di costruzione solo se determinato contestualmente al rilascio del titolo, impedisce retroattivamente le azioni necessarie alla riscossione delle richieste di conguaglio il cui importo non è stato determinato contestualmente al rilascio del titolo.
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Il Tar per il Veneto rimette alla Corte costituzionale la q.l.c. della norma regionale veneta (art. 2, comma 3, l.r. 16.03.2015, n. 4) che, nel prevedere la possibilità per l’ente locale di riscuotere il contributo di costruzione solo se determinato contestualmente al rilascio del titolo, impedisce retroattivamente le azioni necessarie alla riscossione delle richieste di conguaglio il cui importo non è stato determinato contestualmente al rilascio del titolo.
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Edilizia – Legge regionale – Contributo per il rilascio del permesso di costruire – Questione non manifestamente infondata di costituzionalità
È rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli artt. 3, 5, 97, 114, 117, 118 e 119 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 3, della Legge Regionale della Regione Veneto 16.03.2015, n. 4, nella parte in cui prevede che resta fermo quanto già determinato dal comune, in relazione alla quota del costo di costruzione, solo qualora la determinazione del contributo sia avvenuta all’atto del rilascio del permesso di costruire e non con una successiva richiesta di conguaglio (1).
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   (1) I. – Con l’ordinanza in epigrafe, il Tar per il Veneto ha rimesso alla Corte costituzionale, in relazione agli artt. 3, 5, 97, 114, 117, 118 e 119 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale della disciplina del contributo di costruzione contenuta nell’art. 2, comma 3, della legge regionale della Regione Veneto 16.03.2015, n. 4, nella parte in cui introduce un regime differenziato e derogatorio della disciplina statale di cui all’art. 16, comma 9, d.p.r. n. 380 del 2001 (t.u. edilizia).
In particolare, l’art. 16, comma 9, del citato d.p.r. prevede, con una norma cedevole, che le disposizioni del testo unico, attuative dei principi di riordino in esso contenuti, operano direttamente nei riguardi delle regioni a statuto ordinario, fino a quando esse non si adeguano ai principi medesimi. Con l’art. 2, comma 3, della legge veneta del 2015, il legislatore regionale è intervenuto sul regime anteriore all’entrata in vigore della medesima legge regionale e, quindi, sulla disciplina transitoria di fonte regionale prevedendo che il contributo di costruzione determinato dal comune rimanga fermo solo qualora la determinazione del contributo sia avvenuta all’atto del rilascio del permesso di costruire e non con una successiva richiesta di conguaglio.
Nel caso di specie, il Comune resistente, nel 2014, rettificava la determinazione del contributo di costruzione stabilito nel 2008. Con l’atto introduttivo del giudizio, la società ricorrente chiedeva, tra l’altro, sulla base della l.r. n. 4 del 2015, l’accertamento negativo del diritto del Comune di pretendere il conguaglio del costo di costruzione e l’annullamento dell’atto di intimazione emanato.
   II. – Premessa la ricostruzione del quadro normativo di riferimento, il Collegio osserva che:
      a) la controversia in ordine alla spettanza e alla liquidazione del contributo per gli oneri di urbanizzazione ha ad oggetto l’accertamento di un rapporto di credito e non è, pertanto, soggetta alle regole delle azioni impugnatorie–annullatorie degli atti amministrativi e ai rispettivi termini di decadenza;
      b) in relazione alla rilevanza della q.l.c. ai fini della definizione del giudizio,
         b1) l’art. 2, comma 3, l.r. Veneto, 16.03.2015, n. 4, prevede che “Resta fermo quanto già determinato dal comune, in relazione alla quota del costo di costruzione, prima dell'entrata in vigore della presente legge in diretta attuazione del comma 9 dell'articolo 16 del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, purché la determinazione sia avvenuta all'atto del rilascio del permesso di costruire e non con una successiva richiesta di conguaglio”;
         b2) la richiesta di conguaglio è stata inviata dall’amministrazione il 04.12.2014 e la legge regionale è entrata in vigore il 04.04.2015;
         b3) tuttavia, la disposizione, pur non qualificandosi espressamente come retroattiva, deve ritenersi applicabile anche ai casi in cui la richiesta di conguaglio da parte dell’amministrazione sia stata effettuata prima della sua entrata in vigore;
         b4) infatti, con essa, il legislatore regionale, nel mantenere ferme le sole determinazioni con cui si è fatta diretta applicazione della normativa statale che siano avvenute contestualmente al rilascio del permesso di costruire e non con successivi conguagli, ha escluso l’ammissibilità del conguaglio che miri a recuperare l’importo del contributo nella misura minima prevista dalla legislazione statale se non contestuale al rilascio del titolo edilizio;
         b5) la norma ha pertanto portata retroattiva, nel senso che inibisce il conguaglio non contestuale al rilascio del titolo edilizio anche se la relativa richiesta, come nel caso di specie, è avvenuta anteriormente all’entrata in vigore della legge regionale del 2015;
      c) sempre in punto di rilevanza, la norma non appare suscettibile di alcuna interpretazione costituzionalmente orientata atteso che essa esclude espressamente l’applicazione della disposizione di principio di fonte statale per i rapporti conseguenti alle determinazioni e liquidazioni del contributo che siano state erroneamente effettuate, impedendo, così, l’applicazione diretta della norma di principio dettata dal legislatore statale in materia di legislazione concorrente a tutela di esigenze unitarie di prelievo e violando l’autonomia di entrata e di spesa dei Comuni;
      d) vi sono dubbi sulla compatibilità costituzionale della norma in relazione agli artt. 3, 5, 117, terzo comma, 119, primo, secondo e quarto comma della Costituzione, in quanto:
         d1) con l’art. 2, comma 3, l.r. n. 4 del 2015, il legislatore ha esercitato la propria potestà legislativa in violazione della norma di principio contenuta nell’art. 16, comma 9, d.p.r. n. 380 del 2001, così violando l’art. 117, terzo comma, ultimo periodo, Cost., che riserva al legislatore statale la determinazione dei principi fondamentali delle materie di legislazione concorrente; il legislatore regionale ha, infatti, disciplinato i rapporti ancora pendenti sorti nel periodo vigente anteriormente alla sua entrata in vigore sottraendo all’applicazione della norma statale quei rapporti in cui, all’atto del rilascio del titolo, l’amministrazione erroneamente aveva omesso di dare applicazione della norma statale di principio;
         d2) l’art. 16, comma 9, d.p.r. n. 380 del 2001, nel dettare i criteri di determinazione del contributo di costruzione, contribuisce a definire il contenuto dell’onere economico gravante sul soggetto che intenda esercitare lo ius aedificandi, così concorrendo a determinare l’effettiva portata e la caratterizzazione positiva del principio di onerosità del permesso di costruire, che, secondo la giurisprudenza costituzionale, costituisce un principio fondamentale della materia di competenza concorrente “governo del territorio”; “la disposizione di cui al comma 9 dell’art. 16 DPR 380/2001, nella parte in cui individua i parametri per la determinazione del contributo, nella sua componente relativa al costo di costruzione, appare riconducibile a tale categoria di norme di principio, poiché concorrendo a definire il contenuto dell’onere economico gravante sul soggetto che intenda esercitare lo ius aedificandi, ne integra un aspetto essenziale”;
         d3) l’art. 16, comma 9, d.p.r. n. 380 del 2001, costituisce anche principio di coordinamento della finanza pubblica ai sensi dell’art. 119, secondo comma, Cost. e dell’art. 117, terzo comma, Cost., in quanto la definizione di criteri uniformi di determinazione della prestazione imposta per l’intero territorio nazionale mira, da un lato, a garantire a tutti i cittadini parità di condizioni nell’esercizio dello ius aedificandi, dall’altro, ai Comuni una quota minima di compartecipazione ai benefici derivanti dall’esercizio dell’attività edificatoria; il contributo di costruzione costituisce, per la giurisprudenza maggioritaria, un corrispettivo di diritto pubblico, avente carattere generale e non tributario di cui è titolare il Comune che rilascia il titolo edilizio, rientrando, quindi, nel novero delle risorse autonome di cui i Comuni, secondo quanto prevede l’art. 119, secondo comma, Cost., sono titolari; alle disposizioni di legge statale che definiscono i criteri per la quantificazione delle prestazioni imposte spettanti ai Comuni dovrebbe riconoscersi natura di principi di coordinamento della finanza pubblica, poiché anche da esse dipende l’autonomia di entrata e di spesa riconosciuta agli enti territoriali, nonché la concreta possibilità di assolvere alle funzioni ad essi attribuite, atteso che il quarto comma dell’art. 119 Cost., esclude che essi possano ricevere, in via ordinaria, ulteriori risorse rispetto a quelle previste dal medesimo articolo;
         d4) l’art. 16, comma 9, d.p.r. n. 380 del 2001, nel prevedere che “Le disposizioni, anche di dettaglio, del presente testo unico, attuative dei principi di riordino in esso contenuti operano direttamente nei riguardi delle regioni a statuto ordinario, fino a quando esse non si adeguano ai principi medesimi”, contiene una disciplina transitoria e cedevole, mediante la quale le disposizioni di dettaglio, attuative di norme di principio contenute nel medesimo d.p.r. trovano immediata applicazione fino all’adeguamento da parte delle Regioni; le norme statali di dettaglio, espressione di principi generali, mirano ad evitare che l’inerzia regionale ponga nel nulla l’individuazione dei principi fondamentali delle materie di legislazione concorrente, che è riservata al legislatore statale, così preservando la suddetta riserva e garantendo l’uniforme disciplina nazionale in conformità con gli stessi; l’art. 2, comma terzo, l.r. n. 4 del 2015, introducendo un regime differenziato di determinazione del contributo di costruzione rispetto a quello applicabile sull’intero territorio nazionale per talune fattispecie (quelle per le quali il contributo fosse stato determinato secondo parametri diversi da quello minimo previsti dall’art. 16, comma 9, d.p.r. n. 380 del 2001), si è posto contro quelle esigenze di uniforme regolamentazione presidiate dagli artt. 118, commi primo e quinto, della Costituzione, rendendo definitiva la violazione della norma di principio che il mancato tempestivo adeguamento della legislazione regionale aveva prodotto;
         d5) la disposizione regionale, escludendo che i Comuni possano pretendere con una richiesta di conguaglio il pagamento del contributo nella misura minima prevista dalla legge statale, incide e viola il principio di equiordinazione tra enti territoriali previsto dall’art. 114 Cost., nonché l’autonomia di entrata e di spesa riconosciuta ai Comuni dall’art. 119, commi primo, secondo e quarto, Cost., e il principio di buona amministrazione previsto dall’art. 97 Cost.; la norma regionale, in particolare, nell’escludere il diritto dei Comuni di pretendere il pagamento del contributo nella misura determinata dalla legge statale, incide su un credito già acquisito al patrimonio comunale per effetto del rilascio del permesso di costruire, viola l’autonomia di entrata e di spesa riservata ai Comuni e impedisce ai Comuni di far valere e riscuotere nella loro interezza crediti già acquisiti al patrimonio in assenza di alcuna valutazione sulla sostenibilità economica di tale rinuncia;
         d6) la norma invade, inoltre, la sfera di potestà legislativa esclusiva nella disciplina dell’ordinamento civile riservata al legislatore statale dall’art. 117, secondo comma, lett. l), Cost.; infatti, con la disposizione in esame il legislatore statale ha dettato una disciplina speciale per gli atti di determinazione e liquidazione del contributo di costruzione già emessi, sottraendo ai Comuni il potere di rideterminare l’importo già liquidato in base alla disciplina regionale previgente, prendendo posizione sulla natura, autoritativa o paritetica, degli atti con cui l’amministrazione determina e liquida l’importo del contributo di costruzione e sull’ammissibilità, e le relative condizioni, della rideterminazione del suddetto importo.
In particolare, la legge regionale ha manifestato una chiara opzione per la tesi che esclude la modificabilità della liquidazione del contributo di costruzione effettuata dal Comune contestualmente al rilascio del titolo; i rapporti obbligatori, già instaurati alla data della sua entrata in vigore, vengono sottoposti a una disciplina peculiare, mediante la quale la pretesa creditoria del Comune viene ridotta nel quantum rispetto al suo contenuto legale, ove non esercitata in tale misura fin dal momento della sua originaria quantificazione ed è riconosciuta una tutela dell’affidamento del privato del tutto avulsa dalla verifica dei profili di conoscibilità della normativa applicabile.
Il legislatore regionale ha, quindi, dettato disposizioni che incidono sul regime giuridico di un rapporto obbligatorio di contenuto essenzialmente pecuniario e soggetto alle disposizioni di diritto privato, invadendo una competenza riservata dall’art. 117, secondo comma, Cost., alla potestà legislativa statale;
         d7) la norma non può, inoltre, ritenersi conforme ai principi di uguaglianza e ragionevolezza, in quanto disciplina diversamente rapporti obbligatori di fonte legale, integralmente definiti nel loro contenuto, per effetto della medesima legge, in funzione della circostanza, meramente casuale, che il Comune abbia o non abbia fatto corretta applicazione della legge vigente in sede di rilascio del titolo.
   III. – Per completezza si segnala che:
      e) sulla natura della prestazione contributiva e della relativa obbligazione, sul momento in cui si deve determinare il contributo, sulla rettificabilità del contributo, Cons. Stato, Ad. plen., 30.08.2018, n. 12 (in Foro it., 2018, III, 618, con nota di TRAVI – BORGIANI, nonché oggetto della News US, in data 17.09.2018, alla quale si rinvia per ulteriori approfondimenti), secondo cui, tra l’altro:
         e1) “gli atti con i quali la pubblica amministrazione determina e liquida il contributo di costruzione, previsto dall’art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001, non hanno natura autoritativa, non essendo espressione di una potestà pubblicistica, ma costituiscono l’esercizio di una facoltà connessa alla pretesa creditoria riconosciuta dalla legge al Comune per il rilascio del permesso di costruire, stante la sua onerosità, nell’ambito di un rapporto obbligatorio a carattere paritetico e soggetta, in quanto tale, al termine di prescrizione decennale, sicché ad essi non possono applicarsi né la disciplina dell’autotutela dettata dall’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990 né, più in generale, le disposizioni previste dalla stessa legge per gli atti provvedimentali manifestazioni di imperio”;
         e2) “la pubblica amministrazione, nel corso di tale rapporto, può pertanto sempre rideterminare, sia a favore che a sfavore del privato, l’importo di tale contributo, in principio erroneamente liquidato, richiedendone o rimborsandone a questi la differenza nell’ordinario termine di prescrizione decennale (art. 2946 c.c.) decorrente dal rilascio del titolo edilizio, senza incorrere in alcuna decadenza, mentre per parte sua il privato non è tenuto ad impugnare gli atti determinativi del contributo nel termine di decadenza, potendo ricorrere al giudice amministrativo, munito di giurisdizione esclusiva ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. f), c.p.a., nel medesimo termine di dieci anni, anche con un’azione di mero accertamento”;
         e3) “l’amministrazione comunale, nel richiedere i detti importi con atti non aventi natura autoritativa, agisce quindi secondo le norme di diritto privato, ai sensi dell’art. 1, comma 1-bis, della l. n. 241 del 1990, ma si deve escludere l’applicabilità dell’art. 1431 c.c. a questa fattispecie, in quanto l’errore nella liquidazione del contributo, compiuto dalla pubblica amministrazione, non attiene ad elementi estranei o ignoti alla sfera del debitore ed è quindi per lui in linea di principio riconoscibile, in quanto o riguarda l’applicazione delle tabelle parametriche, che al privato sono o devono essere ben note, o è determinato da un mero errore di calcolo, ben percepibile dal privato, errore che dà luogo alla semplice rettifica”;
         e4) “la tutela dell’affidamento e il principio della buona fede, che in via generale devono essere osservati anche dalla pubblica amministrazione nell’attuazione del rapporto obbligatorio, possono trovare applicazione ad una fattispecie come quella in esame nella quale, ordinariamente, la predeterminazione e l’oggettività dei parametri da applicare al contributo di costruzione, di cui all’art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001, rendono vincolato il conteggio da parte della pubblica amministrazione, consentendone a priori la conoscibilità e la verificabilità da parte dell’interessato con l’ordinaria diligenza, solo nella eccezionale ipotesi in cui tali conoscibilità e verificabilità non siano possibili con l’ordinaria diligenza richiesta al debitore, secondo buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.), nell’ottica di una leale collaborazione volta all’attuazione del rapporto obbligatorio e al soddisfacimento dell’interesse creditorio vantato dal Comune”;
         e5) il contributo di costruzione è una prestazione patrimoniale imposta, di natura non tributaria, a carico del privato, a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione e in proporzione all'insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae, senza alcun vincolo di scopo in relazione alla zona interessata alla trasformazione urbanistica e indipendentemente dalla concreta utilità che il privato può conseguire dal titolo edificatorio e dalle spese effettivamente occorrenti per la realizzazione delle opere stesse. La circostanza che un'obbligazione patrimoniale abbia una fonte pubblicistica non esclude che le vicende del rapporto siano assoggettate anche alle ordinarie regole civilistiche;
         e6) l'atto del comune che stabilisce la misura del contributo è un mero atto di liquidazione, a carattere ricognitivo e contabile, in quanto il contributo, nelle sue due diverse componenti, è dovuto in base a criteri puntuali predeterminati (cfr. art. 16 d.p.r. n. 380 del 2001), con la conseguenza che il suo concreto ammontare è il risultato soltanto di un'operazione aritmetica, mentre il fatto costitutivo dell’obbligazione è il rilascio del titolo edilizio. La determinazione del contributo non avrebbe pertanto carattere provvedimentale e l'atto del comune non sarebbe neppure passibile di autotutela;
         e7) sebbene il credito dell’amministrazione, per la sua particolare finalità, sia assistito da particolari sanzioni e da speciali procedure coattive di riscossione ciò non contrasta con la fondamentale natura del rapporto obbligatorio paritetico inerente al momento del pagamento del contributo e accessorio al rilascio del permesso di costruire;
      f) prima dell’intervento dell’Adunanza plenaria potevano registrarsi tre orientamenti principali sul tema della rettifica del contributo di costruzione e sulle condizioni che un comune deve rispettare per correggere errori del proprio atto di determinazione del contributo:
         f1) un primo orientamento (Cons. giust. amm. reg. sic., 15.06.2007, n. 422; Id., 18.05.2007, n. 373; Id., 21.03.2007, n. 244, in Foro amm. – Cons. Stato, 2007, 1063; Id., 02.03.2007, n. 64, in Giurisdiz. amm., 2007, I, 412; Cons. Stato, sez. IV, 28.11.2012, n. 6033, in Giurisdiz. amm., 2012, I, 1631; Cons. Stato, sez. V, 04.05.1992, n. 360, in Riv. giur. ed., 1992, I, 624) riconosceva che il contributo di costruzione fosse oggetto di un rapporto obbligatorio sottoposto in quanto tale al termine ordinario di prescrizione (art. 2946 c.c.), decorrente dalla data del rilascio del titolo.
Tuttavia, la liquidazione iniziale del contributo operata dal comune sarebbe suscettibile di modifica in peius esclusivamente in caso di mero errore di calcolo, che, di per sé, comporterebbe solo l’esigenza di una rettifica, con preclusione per il comune di ricorrere all’istituto dell’autotutela amministrativa. L’amministrazione rimarrebbe, tuttavia, vincolata alla propria liquidazione in quanto l’errore, in base al principio enunciato dall’art. 1431 c.c., non potrebbe essere riconoscibile per il privato che è indotto a prestare affidamento nella determinazione del contributo operata dall’amministrazione;
         f2) un secondo orientamento (cfr. in particolare, Cons. Stato, sez. IV, 27.09.2017, n. 4515; Cons. Stato, sez. IV, 12.06.2017, n. 2821), pur muovendo dalla natura paritetica del rapporto, afferma che, trattandosi di un rapporto di debito-credito di natura paritetica, la rettifica sarebbe sempre possibile, entro il termine decennale di prescrizione, perché, per un verso, il procedimento sarebbe svincolato dal rispetto delle condizioni di esercizio dell’autotutela amministrativa e, per altro verso, la rideterminazione del contributo dovuto secondo rigidi parametri regolamentari o tabellari costituirebbe un atto dovuto;
         f3) un terzo orientamento (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 21.12.2016, n. 5402; manifesta preferenza per tale ricostruzione anche l’ordinanza di rimessione all’Adunanza plenaria resa da Cons. giust. amm. reg. sic., 27.03.2018, n. 175, oggetto della News US in data 03.04.2018) sostiene la natura pubblicista del rapporto nascente dalla determinazione del contributo, trattandosi di prestazione patrimoniale imposta di carattere non tributario, per affermare la conseguente applicabilità in astratto delle regole dell’autotutela amministrativa;
      g) sulla disciplina pubblicistica delle sanzioni per il ritardato pagamento del contributo di costruzione, Cons. Stato, Ad. plen., sentenza 07.12.2016, n. 24 (in Foro it., 2017, III, 129, in Giornale dir. amm., 2017, 528 (m), con nota di CUTINI, in Riv. giur. edilizia, 2017, I, 104, e in Riv. amm., 2017, 274, nonché oggetto della News US in data 03.01.2017 alla quale si rinvia per ulteriori approfondimenti), secondo cui, tra l’altro:
         g1) “l’amministrazione comunale ha il pieno potere di applicare, nei confronti dell’intestatario di un titolo edilizio, la sanzione pecuniaria prescritta dalla legge per il caso di ritardo ovvero di omesso pagamento degli oneri relativi al contributo di costruzione anche ove, in caso di pagamento dilazionato di detto contributo, abbia omesso di escutere la garanzia fideiussoria in esito alla infruttuosa scadenza dei singoli ratei di pagamento ovvero abbia comunque omesso di svolgere attività sollecitatoria del pagamento presso il debitore principale”;
         g2) il contributo di costruzione rappresenta una compartecipazione del privato alla spesa pubblica occorrente alla realizzazione delle opere di urbanizzazione; la ragione di tale compartecipazione è da ricollegare sul piano eziologico al surplus di opere di urbanizzazione che l’amministrazione comunale è tenuta ad affrontare in relazione al nuovo intervento edificatorio del richiedente il titolo edilizio; il contributo ha, pertanto, natura di prestazione patrimoniale imposta, d’indole non tributaria ma di carattere generale (prescindendo totalmente dalle singole opere di urbanizzazione che devono in concreto eseguirsi e venendo altresì determinato indipendentemente sia dall’utilità che il concessionario ritrae dal titolo edificatorio, sia dalle spese effettivamente occorrenti per realizzare dette opere); quand’anche risultino trasfuse in apposita convenzione urbanistica, le prestazioni da adempiere da parte dell’amministrazione comunale e del privato intestatario del titolo edilizio non sono tra loro in posizione sinallagmatica; da ciò discende che il soggetto obbligato sia tenuto a corrispondere il contributo di costruzione nel rispetto dei termini convenuti e che l’amministrazione comunale deve eseguire le opere di urbanizzazione in coerenza, anche sul piano temporale, allo sviluppo edilizio del territorio, nell’ambito di un rapporto che è qualificabile in termini di diritto pubblico;
         g3) non sussiste alcuna base normativa che correli il potere sanzionatorio del comune al previo esercizio dell’onere di sollecitazione del pagamento presso il debitore principale ovvero presso il fideiussore. Il sistema di pagamento del contributo di costruzione è caratterizzato dalla presenza solo eventuale di una garanzia prestata per l’adempimento del debito principale e di un parallelo strumento a sanzioni crescenti, con chiara funzione di deterrenza dell’inadempimento, che trova applicazione, in base alla legge, al verificarsi dell’inadempimento dell’obbligato principale.
In tale sistema, l’amministrazione comunale, allo scadere del termine originario di pagamento della rata, ha solo la facoltà di escutere immediatamente il fideiussore onde ottenere il soddisfacimento del suo credito, ma, ove ciò non accada, l’amministrazione dovrà sanzionare il ritardo nel pagamento con la maggiorazione del contributo a percentuali crescenti all’aumentare del ritardo; solo alla scadenza di tutti i termini fissati al debitore per l’adempimento (e quindi dopo aver applicato le massime maggiorazioni di legge), l’Amministrazione avrà il potere di agire nelle forme della riscossione coattiva del credito nei confronti del debitore principale (art. 43, d.P.R. n. 380 del 2001);
         g4) la stretta osservanza del principio di legalità comporta pertanto che va ritenuta legittima l’applicazione delle sanzioni per il ritardo, a prescindere da richieste di pagamento inoltrate all’interessato o al suo fideiussore dalla amministrazione concedente il titolo edilizio;
      h) sulla quantificazione del costo di costruzione, sulle tabelle parametriche, sui poteri e l’inerzia delle Regioni:
         h1) in dottrina: FERRARIO – GIUFFRE’, in Testo unico dell’edilizia, a cura di MARIA ALESSANDRA SANDULLI, Milano, 2015, III ed., 447 ss.;
         h2) in giurisprudenza: Cons. Stato, sez. IV, 21.12.2016, n. 5402, cit., secondo cui, tra l’altro, “sebbene alle Regioni spetti la disciplina di dettaglio pure in soggetta materia, al più la diretta applicazione comunale della norma statale, che nel fissare direttamente l’aliquota minima di legge è comunque inderogabile e ineludibile in base al principio di coordinamento della finanza pubblica ai sensi dell’art. 119, co. 2, Cost., serve altresì ad evitare gli effetti nocivi d’ogni inerzia del legislatore regionale, onde essa vige fintanto che la Regione non intervenga o a confermarla o a porne una superiore a quella minima, ossia a quella ritenuta congrua quale livello essenziale di prestazione imposta, ad evidenti fini perequativi del prelievo, per tutto il territorio della Repubblica”, “non è correttamente invocata la tutela dell’affidamento a causa d’un overruling sostanziale da parte del Comune, poiché, per un verso, la potestà di ripensamento ovvero di correzione dei propri errori o illegittimità è, per la P.A., immanente nell’ordinamento ed è espressamente codificata negli artt. 21-quinquies e 21–nonies della l. 07.08.1990 n. 241 anche per quanto attiene alla decorrenza dei relativi effetti e, per altro verso, non esiste un correlato ed inderogabile principio per cui il mutamento d’avviso della P.A. stessa debba valere solo per l’avvenire l’interpretazione delle norme, invero, è sempre retroattiva, salvo eccezionali ipotesi non ricorrenti nella specie”, “l’attrazione a contribuzione del cespite imponibile non esclude, di per sé solo, effetti in varia guisa “retroattivi” della potestà contributiva fintanto che sia ancora attuale l’attitudine soggettiva ed oggettiva alla contribuzione stessa (in particolare, se non v’è stata ancora decadenza o prescrizione di tal potestà), maxime quando si deve doverosamente applicare l’aliquota (minima) di legge ed impedire così forme surrettizie di beneficio o di elusione nel caso concreto, donde la superfluità dell’avviso ex art. 10-bis della l. 241/1990 in relazione al successivo art. 21-octies, co. 2, nonché l’insussistenza di affidamenti tutelabili a favore dell’appellante, nonché la inconfigurabilità della violazione delle garanzie partecipative”; Cons. Stato, sez. V, 13.02.1995, n. 229 (in Foro amm., 1995, 348), secondo cui “ai sensi dell'art. 5 l. 28.01.1977 n. 10 la determinazione degli oneri di urbanizzazione è stabilita in base alle tabelle parametriche fissate dalle regioni e nell'attesa della loro emanazione i comuni provvedono in via provvisoria salvo conguaglio; pertanto, la determinazione a conguaglio sulla base di tabelle sopravvenute all'ultimazione della costruzione è legittima e non richiede alcuna dimostrazione analitica della liquidazione”; Cons. Stato, sez. V, 13.07.1994, n. 752 (in Ambiente, 1994, fasc. 10, 108, e in Giur. it., 1995, III, 1, 36), secondo cui “legittimamente, gli oneri di urbanizzazione relativi alla nuova costruzione di magazzini per il deposito e per il commercio di materie prime tessili, vengono determinati facendo riferimento alle tabelle parametriche relative agli edifici commerciali, direzionali e turistici e non invece sulla base delle tabelle per gli edifici aventi natura industriale o artigianale; infatti, tali locali non risultano destinati esclusivamente al deposito di materie prime, che si configura essere una fase del ciclo produttivo, bensì ad attività promiscua di deposito e di commercio delle stesse materie prime; a tal proposito trattandosi di edifici commerciali nessuna rilevanza assume l'edificazione su area identificata «zona D» dal p.r.g., poiché per tali edifici non è prevista alcuna zona territoriale omogenea, potendo sorgere in ogni parte del territorio, quindi anche in «zone D» (insediamento produttivo artigianale-industriale)”; Cons. Stato, sez. V, 27.02.1998, n. 201 (in Riv. giur. urbanistica, 1999, 139, con nota di FIORINI), secondo cui “Il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all'insieme dei benefici che la nuova costruzione ne trae”; Cass. civ., sez. I, 27.09.1994, n. 7874 (in Foro it., 1995, I, 1921, e in Riv. giur. edilizia, 1995, I, 92), secondo cui “poiché il contributo per le opere di urbanizzazione non ha natura di contro-prestazione in rapporto sinallagmatico rispetto al rilascio della concessione edilizia, ma rappresenta una prestazione di natura tributaria, o al più un corrispettivo di diritto pubblico, che trova il suo fondamento negli oneri che gravano sulla collettività in rapporto alle opere di trasformazione del territorio, il comune non può ritenersi obbligato, per effetto del versamento degli oneri, all'esecuzione delle opere di urbanizzazione primaria”;
      i) sulla individuazione dei principi fondamentali in materia di governo del territorio, ex art. 117 Cost., all’interno del t.u. edilizia:
         i1) Corte cost., 13.04.2017, n. 84 (in Riv. giur. edilizia, 2017, I, 246), secondo cui “la questione di legittimità costituzionale dell'art. 9, 1° comma, lett. b), d.leg. 06.06.2001, n. 378, recante «disposizioni legislative in materia edilizia (Testo B)», trasfuso nell'art. 9, 1° comma, lett. b), d.p.r. 06.06.2001 n. 380, recante il «testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (Testo A) », va rigettata in quanto infondata, non sussistendo la dedotta violazione degli art. 3, 41, 1° comma, 42, 2° e 3° comma, 76 e 117, 3° comma, cost.”;
         i2) Corte cost., 03.11.2016, n. 231 (in Foro it., 2017, I, 2566, in Urbanistica e appalti, 2017, 51, con nota di DI MARIO, in Giur. costit., 2017, 421, con nota di CHIEPPA, e in Riv. giur. edilizia, 2016, I, 952), secondo cui, tra l’altro: “L'onerosità del titolo abilitativo «riguarda infatti un principio della disciplina un tempo urbanistica e oggi ricompresa fra le funzioni legislative concorrenti sotto la rubrica "governo del territorio"» (sentenza n. 303 del 2003), e anche le deroghe al principio (elencate all'art. 17 del TUE), in quanto legate a quest'ultimo da un rapporto di coessenzialità, partecipano della stessa natura di principio fondamentale (sentenze n. 1033 del 1988 e n. 13 del 1980)”; “È dichiarato costituzionalmente illegittimo -per violazione dell'art. 117, 3º comma, cost.- l'art. 6, 20º e 21º comma, primo trattino, l.reg. Liguria n. 12 del 2015, con cui sono stati modificati gli art. 38, 1º comma, lett. a) e c), e 39, 1º comma (con l'aggiunta della lett. g-bis), l.reg. Liguria n. 16 del 2008; le disposizioni impugnate dal governo esonerano dal contributo di costruzione due categorie di «interventi sul patrimonio edilizio esistente» (quelli con un aumento della superficie agibile inferiore a venticinque metri quadrati o con variazione di superficie derivante da mera eliminazione di muri divisori; e quelli di frazionamento di unità immobiliari che determinino un numero di unità immobiliari inferiore al doppio di quelle esistenti, sia pur con aumento della superficie agibile) che possono rientrare, a seconda delle loro caratteristiche, nella nozione di «manutenzione straordinaria» (come definita agli art. 3, 1º comma, lett. b), e 6, 2º comma, lett. a), t.u. edilizia) o in quella di «ristrutturazione edilizia» (come definita dall'art. 3, 1º comma, lett. c), t.u. edilizia); tali fattispecie di totale esonero contrastano con i principi fondamentali della materia, che prevedono per la manutenzione straordinaria (ove ricorrano i presupposti dell'art. 17, 4º comma, t.u. edilizia) una riduzione del contributo alla sola parte corrispondente alla incidenza delle opere di urbanizzazione, e per la ristrutturazione edilizia il pagamento del contributo per intero, salvi casi particolari di esonero o di riduzione (art. 17, 3º comma, lett. b), e 4º comma bis, t.u. edilizia); l'onerosità del titolo abilitativo e le coessenziali deroghe ad esso (elencate all'art. 17 del t.u. edilizia) partecipano della stessa natura di principio fondamentale della materia «governo del territorio»”;
         i3) Corte cost., 09.03.2016, n. 49 (in Riv. giur. edilizia, 2016, I, 8, con nota di STRAZZA, in Giur. it., 2016, 2233 (m), con nota di VIPIANA PERPETUA, e in Riv. giur. urbanistica, 2016, fasc. 4, 87, con nota di CERBO), secondo cui “È costituzionalmente illegittimo, per violazione dell'art. 117, 3º comma, cost., l'art. 84-bis, 2º comma, lett. b), l.reg. Toscana 03.01.2005 n. 1, che stabilisce la possibilità per l'amministrazione di esercitare poteri sanzionatori per la repressione degli abusi edilizi, anche oltre il termine di trenta giorni dalla presentazione della Scia, in un numero più ampio di ipotesi rispetto alla previsione statale; nell'ambito della materia concorrente del «governo del territorio», i titoli abilitativi agli interventi edilizi costituiscono oggetto di una disciplina che assurge a principio fondamentale e tale valutazione deve ritenersi valida anche per la denuncia di inizio attività (Dia) e per la segnalazione certificata di inizio attività (Scia), che si inseriscono in una fattispecie, il cui effetto è pur sempre quello di legittimare il privato ad effettuare gli interventi edilizi; tale fattispecie ha una struttura complessa e non si esaurisce, rispettivamente, con la dichiarazione o la segnalazione, ma si sviluppa in due fasi ulteriori: una prima, di ordinaria attività di controllo dell'amministrazione; una seconda, in cui può esercitarsi l'autotutela amministrativa; anche le condizioni e le modalità di esercizio dell'intervento della p.a., una volta che siano esauriti i termini prescritti dalla normativa statale, devono considerarsi il necessario completamento della disciplina dei titoli abitativi, poiché l'individuazione della loro consistenza e della loro efficacia non può prescindere dalla capacità di resistenza rispetto alle verifiche effettuate dall'amministrazione successivamente alla maturazione degli stessi; la disciplina di questa fase ulteriore è, dunque, parte integrante del titolo abilitativo e costituisce un tutt'uno inscindibile; il suo perno è costituito da un istituto di portata generale -quello dell'autotutela- che si colloca allo snodo delicatissimo del rapporto fra il potere amministrativo e il suo riesercizio, da una parte, e la tutela dell'affidamento del privato, dall'altra; ne deriva che la disciplina de qua costituisce espressione di un principio fondamentale della materia «governo del territorio»; la normativa regionale, nell'attribuire all'amministrazione un potere di intervento, lungi dall'adottare disposizioni di dettaglio, ha introdotto una disciplina sostitutiva dei principi fondamentali dettati dal legislatore statale, toccando i punti nevralgici del sistema elaborato nella legge sul procedimento amministrativo e con tutti i rischi per la certezza e l'unitarietà dello stesso”;
         i4) Corte cost., 12.04.2013, n. 64 (in Foro it., 2014, I, 2299), secondo cui “È incostituzionale l'art. 1, 1º e 2º comma, l.reg. Veneto 24.02.2012 n. 9, nella parte in cui prevede che, nell'ambito degli interventi edilizi nelle zone classificate sismiche, è esclusa, anche con riguardo ai procedimenti in corso, la necessità del previo rilascio delle autorizzazioni del competente ufficio tecnico regionale per i «progetti» e le «opere di modesta complessità strutturale», privi di rilevanza per la pubblica incolumità, individuati dalla giunta regionale in base ad una procedura nella quale è prevista l'obbligatoria assunzione di un semplice parere da parte della commissione sismica regionale”;
         i5) Corte cost., 15.11.1988, n. 1033 (in Cons. Stato, 1988, II, 2067, in Giust. civ., 1989, I, 265, in Riv. giur. edilizia, 1989, I, 10, e in Riv. amm., 1989, 503), secondo cui: “Il d.l. 23.01.1982, n. 9 convertito con modificazioni dalla l. 25.03.1982, n. 94 detta norme integratrici delle norme fondamentali di riforme economico-sociali contenute nella l. 28.01.1977, n. 10 sull'edificabilità dei suoli e, come tale, pone limiti costituzionalmente giustificati sia nei confronti della competenza legislativa spettante alle regioni a statuto ordinario in materia urbanistica, ai sensi dell'art. 117 cost., sia nei confronti della competenza legislativa delle regioni a statuto speciale e in particolare della regione Sardegna ai sensi della l. cost. 26.02.1948, n. 3”; “Le norme che dettano deroghe al principio dell'onerosità della concessione edilizia rientrano fra le norme fondamentali delle riforme economico sociali; gli art. 7 e 9, d.l. 23.01.1982, n. 9 convertito con modificazioni dalla l. 25.03.1982, n. 94, non è in contrasto con gli art. 13, lett. f), l. cost. 26.02.1948, n. 3 (statuto reg. Sardegna) e 117 cost. nelle parti in cui gli articoli stessi prevedono deroghe al principio dell'onerosità delle concessioni edilizie”;
         i6) dalle pronunce descritte si ricava che la Corte costituzionale ha ritenuto che l’urbanistica e l’edilizia vadano ricondotte alla materia «governo del territorio» (Corte cost., 28.06.2004, n. 196, in Foro it., 2005, I, 327, in Riv. corte conti, 2004, fasc. 3, 301, in Riv. giur. urbanistica, 2005, 38, con nota di CALEGARI, in Quaderni regionali, 2004, 1166, in Giust. amm., 2004, 778 (m), con nota di MORBIDELLI, in Regioni, 2004, 1355 (m), con note di SORACE, TORRICELLI, in Riv. not., 2004, 1487, con nota di CASU, in Giur. costit., 2004, 1930, con note di CHIEPPA, PINELLI, STELLA RICHTER, in Giust. civ., 2005, I, 16, in Riv. trim. dir. pen. economia, 2004, 1249, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2004, 1219, con nota di MAIELLO, in Rass. avv. Stato, 2004, 576, con nota di FIENGO, e in Giur. it., 2005, 2024, con nota di ANGELINI; Corte cost., 19.12.2003, n. 362, in Quaderni regionali, 2004, 399, in Foro amm.-Cons. Stato, 2003, 3559, con nota di FOÀ, in Cons. Stato, 2003, II, 2317, in Riv. giur. edilizia, 2004, I, 383, e in Giur. costit., 2003, 3736; Corte cost., 07.10.2003, n. 307, in Foro it., 2004, I, 1365, con nota di MIGLIORANZA, in Giur. it., 2004, 397, in Urbanistica e appalti, 2004, 295 (m), con nota di MANFREDI, in Foro amm.-Cons. Stato, 2003, 2791, con nota di DE LEONARDIS, in Quaderni regionali, 2004, 311, in Giur. costit., 2003, 2841, in Ragiusan, 2004, fasc. 239, 258, in Riv. giur. edilizia, 2004, I, 411, in Riv. giur. ambiente, 2004, 257 (m), con nota di CERUTI, MAZZOLA, in Rass. giur. energia elettrica, 2003, 523, con nota di ORO NOBILI, in Resp. civ., 2004, 441 (m), con nota di ROLANDO, e in Regioni, 2004, 603, con nota di CAMERLENGO; Corte cost., 01.10.2003, n. 303, in Foro it., 2004, I, 1004, con note di VIDETTA, FRACCHIA, FERRARA, in Corriere giur., 2004, 29, con nota di DICKMANN, in Urbanistica e appalti, 2004, 295 (m), con nota di MANFREDI, in Riv. giur. Mezzogiorno, 2003, 1472, in Quaderni regionali, 2003, 1012, in Riv. corte conti, 2003, fasc. 6, 181, in Riv. giur. edilizia, 2004, I, 10, con nota di CELOTTO, in Giur. costit., 2003, 2675, con note di D'ATENA, ANZON, MOSCARINI, GENTILINI, in Appalti urbanistica edilizia, 2004, 13, in RivistAmbiente, 2003, 1257, in Cons. Stato, 2003, II, 2007, con nota di D'ARPE, in Urbanistica e appalti, 2003, 1399, con nota di CAPUTO, in Guida al dir., 2003, fasc. 40, 67, con nota di FORLENZA, in Dir. e giustizia, 2003, fasc. 37, 58, con nota di MAGNI, in Cons. Stato, 2004, II, 1307 (m), con nota di MILO, in Giur. it., 2004, 1567, con nota di MASSA PINTO, in Dir. maritt., 2004, 955, con nota di CARPANETO, e in Regioni, 2004, 535, con note di BARTOLE, VIOLINI), di cui all’art. 117, terzo comma, Cost.: materia di legislazione concorrente nella quale lo Stato ha il potere di fissare i principi fondamentali, mentre spetta alle Regioni il potere di emanare la normativa di dettaglio;
         i7) le dichiarazioni di incostituzionalità (in particolare Corte cost., 12.04.2013, n. 64, cit.) sono motivate con riguardo alla violazione di un principio fissato dalla legge statale e da ritenersi, per la regione, principio fondamentale della materia e come tale non derogabile. Con riguardo alla portata dei «principi fondamentali» riservati alla legislazione statale nelle materie di potestà concorrente, la Corte ha precisato, tra l’altro, che il rapporto tra normativa di principio e normativa di dettaglio deve essere inteso nel senso che l’una è volta a prescrivere criteri e obiettivi, mentre all’altra spetta l’individuazione degli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi;
         i8) anche la previsione di limiti invalicabili all’edificazione nelle “zone bianche” ha le caratteristiche intrinseche del principio fondamentale della legislazione statale in materia di governo del territorio, coinvolgendo valori di rilievo costituzionale quali il paesaggio, l’ambiente e i beni culturali (Corte cost., 13.04.2017, n. 84, cit.).
In quest’ottica, la fissazione di standard rigorosi, ma cedevoli di fronte a qualsiasi regolamentazione regionale rappresenterebbe una soluzione contraddittoria, in quanto lascerebbe aperta la possibilità che eventuali legislatori regionali finiscano con il frustrare la ratio della disciplina, compromettendo in modo tendenzialmente irreversibile interessi di rango costituzionale.
La norma statale, anche se prevede la puntuale quantificazione dei limiti di cubatura e di superficie, svolge la funzione di impedire, tramite l’applicazione di standard legali, una incontrollata espansione edilizia in caso di vuoti urbanistici, suscettibile di compromettere l’ordinato (futuro) governo del territorio e di determinare la totale consumazione del suolo nazionale, a garanzia di valori di chiaro rilievo costituzionale. Funzione rispetto alla quale la specifica previsione di livelli minimi di tutela si presenta coessenziale, in quanto necessaria per esprimere la regola;
         i9) nell’ambito della materia concorrente «governo del territorio», i titoli abilitativi agli interventi edilizi costituiscono oggetto di una disciplina che assurge a principio fondamentale e tale valutazione deve ritenersi valida anche per la denuncia di inizio attività (DIA) e per la SCIA (cfr., in particolare, Corte cost., 09.03.2016, n. 49) che, seppure con la loro indubbia specificità, si inseriscono in una fattispecie il cui effetto è pur sempre quello di legittimare il privato ad effettuare gli interventi edilizi; anche le condizioni e le modalità di esercizio dell’intervento della pubblica amministrazione, una volta che siano decorsi i termini in questione, devono considerarsi il necessario completamento della disciplina di tali titoli abilitativi, poiché l’individuazione della loro consistenza e della loro efficacia non può prescindere dalla capacità di resistenza rispetto alle verifiche effettuate dall’amministrazione successivamente alla maturazione degli stessi.
La disciplina di questa fase ulteriore, dunque, è parte integrante di quella del titolo abilitativo e costituisce con essa un tutt’uno inscindibile. Ne discende che, anche per questa parte, la disciplina in questione costituisce espressione di un principio fondamentale della materia «governo del territorio» (TAR Veneto, Sez. II, ordinanza 05.02.2019 n. 159 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Alla Corte costituzionale la legge regionale sugli oneri di costruzione.
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Edilizia – Omeri di costruzione – Regione Veneto - Art. 2, comma 3, l.reg. Veneto n. 4 del 2015 – Violazione artt. 3, 5, 97, 114, 117, 118 e 119 Cost. – Rilevante e non manifestamente infondata.
E’ rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli artt. 3, 5, 97, 114, 117, 118 e 119 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 3, l. reg. Veneto 16.03.2015, n. 4, nella parte in cui incide sulla pretesa creditoria dei Comuni ad ottenere il pagamento della quota del costo di costruzione nella misura determinata ai sensi del comma 9, ultimo periodo, dell’art. 16, d.P.R. n. 380 del 2001 (1).
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   (1) L’art. 16, comma 9, d.P.R. n. 380 del 2001 prevede che le Regioni determinino i criteri per il calcolo di tale componente del contributo di costruzione e definisce i parametri a cui il Legislatore Regionale deve far riferimento: il contributo per il costo di costruzione deve costituire una quota del suddetto costo compresa tra il cinque ed il venti percento, variabile in funzione delle caratteristiche, delle tipologie, della destinazione e dell’ubicazione delle costruzioni.
Il Legislatore Veneto, ha dato attuazione all’art. 16, comma 9, d.P.R. n. 380 del 2001, sostituendo con il comma 1 dell’art. 2, l.reg. 16.03.2015, n. 4 la tabella A4 della l.reg. n. 61 del 1985. Al comma 2, ha, poi, previsto che i nuovi criteri si applichino anche “ai procedimenti in corso relativi ai permessi di costruire nei quali il comune non abbia ancora provveduto a determinare la quota del costo di costruzione”. Infine, al comma 3, ha stabilito che: “Resta fermo quanto già determinato dal comune, in relazione alla quota del costo di costruzione, prima dell'entrata in vigore della presente legge in diretta attuazione del comma 9 dell'articolo 16 del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, purché la determinazione sia avvenuta all'atto del rilascio del permesso di costruire e non con una successiva richiesta di conguaglio”.
La previgente tabella A4 della l.reg. 27.06.1985, n. 61 (“Norme per l’assetto e l’uso del territorio”) prevedeva un’aliquota minima del 1,5%. La disposizione aveva dato attuazione all'art. 6, comma 3, l. reg. n. 10 del 1977 che, nel testo allora vigente (risultante dalle modifiche di cui all'art. 9, comma 6, d.l. 23.01.1982, n. 9, convertito, con modificazioni, dalla L. 25.03.1982, n. 94), senza prevedere un’aliquota minima, stabiliva che il contributo afferente al costo di costruzione fosse determinato in misura percentuale non superiore al 10%.
Successivamente, con l'art. 7, comma 2, l. 24.12.1993, n. 537 (rimasto in vigore fino all’entrata in vigore del Testo Unico dell’edilizia) il Legislatore Statale aveva già modificato il parametro, prevedendo che il contributo fosse determinato in una percentuale compresa tra il cinque ed il venti per cento del costo di costruzione, così riportandolo alla cornice prevista dalla formulazione originaria dell’art. 6, comma 3, l. 28.01.1977, n. 10. Il Legislatore Veneto, tuttavia, non aveva apportato modifiche alla tabella A4 della l.reg. 27.06.1985, n. 61, rimasta in vigore nella sua originaria formulazione.
Ha quindi affermato il Tar che l’art. 2, comma 3, l.reg. n. 4 del 2015 appare più chiaro nel suo contenuto dispositivo. Il tenore letterale della disposizione sembra sovvertire gli esiti dell’elaborazione giurisprudenziale circa l’assetto dei rapporti tra norma statale e norma regionale nella materia della determinazione del contributo afferente al costo di costruzione.
Infatti, quasi che a prevalere dovesse essere la disposizione di fonte regionale, si afferma che “resta fermo” quanto determinato in diretta applicazione dell’art. 16, comma 9, d.P.R. n. 380 del 2001, ma soltanto se tale determinazione sia stata effettuata contestualmente al rilascio del titolo (“Resta fermo quanto già determinato dal comune (…) in diretta attuazione del comma 9 dell'articolo 16 del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, purché la determinazione sia avvenuta all'atto del rilascio del permesso di costruire e non con una successiva richiesta di conguaglio”). Quale che sia il presupposto in forza del quale il Legislatore si sia determinato ad esprimersi in tale forma, comunque, al contenuto dispositivo della norma sembra doversi attribuire portata retroattiva.
La disposizione sembra, infatti, chiara nel consentire ai Comuni di chiedere e di riscuotere soltanto gli importi del contributo quantificati in base alla norma statale contestualmente al rilascio del titolo, inibendo la riscossione del conguaglio anche ove la relativa richiesta sia stata effettuata prima dell’entrata in vigore della l.reg. n. 4 del 2015.
 Infatti, atteso che la norma si inserisce all’interno del testo normativo di fonte regionale che ha dato attuazione all’art. 16, comma 9, d.P.R. n. 380 del 2001, essa non può applicarsi alle determinazioni del contributo successive all’entrata in vigore della norma stessa, per le quali si applicheranno le nuove aliquote. Essa si rivolge, quindi alle “determinazioni” già avvenute (quindi ai titoli già rilasciati) per affermare che quelle effettuate dando diretta attuazione all’art. 16, comma 9, d.P.R. n. 380 del 2001, restano ferme – e quindi potranno essere fatte valere e portate ad esecuzione – solo se contestuali al rilascio del titolo. Il contenuto precettivo della disposizione appare integralmente definito in tale parte del comma: esso determina compiutamente sia la sorte delle “determinazioni” effettuate sulla scorta dell’art. 16, comma 9, d.P.R. n. 380 del 2001 (che “restano ferme”), sia di quelle effettuate sulla scorta della legislazione regionale (che non potranno essere integrate).
Il riferimento alle “successive richieste di conguaglio”, appare una semplice specificazione di un concetto già compiutamente espresso con la locuzione che la precede e, pertanto, non sembra potersi valorizzare al fine di affermare che l’impedimento alla riscossione derivante dalla disposizione riguardi soltanto le richieste di conguaglio successive alla sua entrata in vigore. Il tenore precettivo della disposizione –che consente di far valere solo le determinazioni direttamente attuative della norma statale effettuate contestualmente al rilascio del titolo– resterebbe, infatti, intatto anche in assenza di tale specificazione.
D’altronde una diversa soluzione interpretativa –che la difesa del Comune ha proposto nei suoi scritti difensivi– appare incompatibile con la natura non autoritativa riconosciuta agli atti di determinazione del contributo ed a quelli con i quali tale determinazione venga modificata.
Solo attribuendo ad essi natura provvedimentale, potrebbe distinguersi tra la sorte delle richieste di conguaglio inviate prima e dopo l’entrata in vigore della norma.
Poiché, però, è stato ormai chiarito che tali atti hanno natura paritetica e costituiscono atti di esercizio di un diritto di credito, la norma viene ad incidere sui rapporti obbligatori che sono sorti, ex lege, per effetto del rilascio del titolo, e quindi appare, nel suo contenuto dispositivo, volta ad impedire le azioni necessarie alla riscossione anche delle richieste di conguaglio precedenti alla sua entrata in vigore. Da tutto quanto sopra, emerge la rilevanza della questione di legittimità costituzionale della norma nel presente giudizio (TAR Veneto, Sez. II, ordinanza 05.02.2019 n. 159 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
12. Il Collegio dubita della legittimità costituzionale dell’art. 2, c. 3, L.R. Veneto, 16.03.2015, n. 4, nella parte in cui incide sulla pretesa creditoria dei Comuni ad ottenere il pagamento della quota del costo di costruzione nella misura determinata ai sensi del comma 9, ultimo periodo, dell’art. 16, c. 9, D.P.R. 380/2001, per violazione degli artt. 3, 5, 97, 114, 117 comma III; 118, comma I; 119, commi I, II e IV; 117, comma II, lett. l), della Costituzione.
13. Preliminarmente, al fine di evidenziare la rilevanza della questione di legittimità costituzionale per la decisione dell’odierno ricorso, è necessario soffermarsi sull’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dal Comune resistente.
Il Comune afferma, infatti, che la nota prot. 3713 del 13.03.2017, oggetto dell’odierna impugnazione, costituisca atto meramente confermativo dell’intimazione di pagamento notificata alla società ricorrente in data 04.12.2014 e non impugnata, e che, pertanto, il ricorso sarebbe da ritenersi inammissibile per carenza di interesse, essendo stato impugnato un atto privo di efficacia immediatamente lesiva.
L’eccezione non è fondata. Essa presuppone la natura provvedimentale ed autoritativa degli atti con i quali l’Amministrazione determina e liquida il contributo di costruzione e la loro conseguente impugnabilità entro il termine decadenziale previsto dall’art. 29 c.p.a. Solo partendo da tale premessa, infatti, potrebbe sostenersi che l’impugnazione di una diffida di pagamento successiva alla riliquidazione del contributo sia tardiva ed inammissibile.
L’assunto di partenza, tuttavia, è smentito dall’orientamento giurisprudenziale, ormai consolidato (cfr. da ultimo, Cons. Stato, Ad. Plen., 30/08/2018, n. 12; cfr., altresì, ex multis Cons. Stato Sez. IV Sent., 27/09/2017, n. 4515, TAR Veneto Venezia Sez. II Sent., 13/05/2016, n. 479), dal quale il Collegio non rinviene ragioni per discostarsi, secondo cui le controversie in materia di determinazione della misura dei contributi edilizi non hanno natura impugnatoria, concernendo l’accertamento di una pretesa creditoria dell’Amministrazione, avente natura di prestazione patrimoniale imposta, non tributaria, di cui la legge integralmente predetermina presupposto e contenuti (così, Cons. Stato, Ad. Plen., 30/08/2018, n. 12: “la controversia in ordine alla spettanza e alla liquidazione del contributo per gli oneri di urbanizzazione, riservata alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo a norma dell'art. 16 della L. n. 10 del 1977 e, oggi, dell'art. 133, comma 1, lett. f), c.p.a., ha ad oggetto l'accertamento di un rapporto di credito a prescindere dall'esistenza di atti della pubblica amministrazione e non è soggetta alle regole delle azioni impugnatorie-annullatorie degli atti amministrativi e ai rispettivi termini di decadenza.”).
Tali controversie, pertanto, non soggiacciono al termine decadenziale previsto per le azioni di annullamento (“le controversie in tema di determinazione della misura dei contributi edilizi concernono l'accertamento di diritti soggettivi che traggono origine direttamente da fonti normative, sicché sarebbero proponibili, a prescindere dall'impugnazione di provvedimenti dell'amministrazione, nel termine di prescrizione” Cons. St., sez. IV, 20.11.2012 n. 6033; Cons. St., sez. V, 04.05.1992, n. 360).
Pertanto la mancata impugnazione, entro il termine decadenziale previsto dall’art. 29 c.p.a. dell’atto di riliquidazione del contributo e richiesta di conguaglio notificato nel 2014, non incide sull’ammissibilità del giudizio con cui è contestata la suddetta pretesa creditoria, ciò anche ove l’azione proposta fosse di annullamento.
Nel caso di specie, peraltro, il ricorrente ha espressamente proposto –oltre all’azione impugnatoria- l’azione di accertamento negativo del credito vantato dall’Amministrazione comunale con le richieste di pagamento, sì che neppure si pone un problema di riqualificazione della pretesa azionata.
14. In merito alla rilevanza della questione ai fini del presente giudizio il Collegio osserva quanto segue.
14.1 Pacifici tra le parti i fatti, la decisione della controversia impone la soluzione di un’unica questione di diritto, ovvero l’applicabilità alla fattispecie della disposizione di cui all’art. 2, c. 3, L.R. Veneto, 16.03.2015, n. 4.
Il ricorrente, infatti, afferma che la pretesa del Comune al pagamento del conguaglio sarebbe infondata, ostando al suo accoglimento l’entrata in vigore la L.R. Veneto, 16.03.2015, n. 4, il cui art. 2, comma 3, così recita: “3. Resta fermo quanto già determinato dal comune, in relazione alla quota del costo di costruzione, prima dell'entrata in vigore della presente legge in diretta attuazione del comma 9 dell'articolo 16 del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, purché la determinazione sia avvenuta all'atto del rilascio del permesso di costruire e non con una successiva richiesta di conguaglio.”.
14.2 La difesa del Comune sostiene che la disposizione, non avendo efficacia retroattiva, non si applicherebbe alla fattispecie in esame, in cui la richiesta di conguaglio è stata inviata dall’Amministrazione, per la prima volta, il 04.12.2014 (con intimazione ad eseguire il pagamento entro 60 giorni), ossia in data anteriore al 04.04.2015, data di entrata in vigore della Legge Regionale n. 4/2015 (pubblicata sul Bollettino Ufficiale della Regione Veneto del 20.03.2015, n. 27).
Ad avviso del Comune, il ricorrente, resosi inadempiente all’obbligo di corrispondere la somma dovuta a titolo di conguaglio entro i sessanta giorni dalla ricezione dell’intimazione, non potrebbe giovarsi della disposizione sopravvenuta.
14.3 Il Collegio ritiene che l’interpretazione della disposizione offerta dal Comune non sia condivisibile e che la norma debba, invece, trovare applicazione anche nel presente giudizio.
Benché la disposizione non si qualifichi espressamente come retroattiva, tuttavia, un’esegesi della medesima, condotta sulla scorta dei canoni ermeneutici letterale, teleologico e sistematico, pare deporre per l’applicabilità della stessa anche ai casi in cui la richiesta di conguaglio da parte dell’Amministrazione sia stata effettuata prima della sua entrata in vigore.
14.4 Giova premettere, al fine di illustrare le ragioni di quanto si afferma, la ricostruzione del quadro ordinamentale entro cui la norma si inserisce e della evoluzione giurisprudenziale che ne ha preceduto l’approvazione.
14.5 La disposizione in esame è contenuta all’interno del testo normativo con cui il Legislatore Regionale, a quasi dodici anni di distanza dall’entrata in vigore del Testo Unico dell’Edilizia, ha dato attuazione al disposto di cui all’art. 16, c. 9, D.P.R. 380/2001, definendo i criteri per il calcolo del contributo afferente al costo di costruzione, sulla base dei parametri previsti dalla disposizione di fonte statale.
L’art. 16, c. 9, D.P.R. 380/2001 prevede che le Regioni determinino i criteri per il calcolo di tale componente del contributo di costruzione e definisce i parametri a cui il Legislatore Regionale deve far riferimento: il contributo per il costo di costruzione deve costituire una quota del suddetto costo compresa tra il cinque ed il venti percento, variabile in funzione delle caratteristiche, delle tipologie, della destinazione e dell’ubicazione delle costruzioni (art. 16, c. 9, D.P.R. 380/2001: “Il costo di costruzione per i nuovi edifici è determinato periodicamente dalle regioni con riferimento ai costi massimi ammissibili per l'edilizia agevolata, definiti dalle stesse regioni a norma della lettera g) del primo comma dell'articolo 4 della legge 05.08.1978, n. 457. Con lo stesso provvedimento le regioni identificano classi di edifici con caratteristiche superiori a quelle considerate nelle vigenti disposizioni di legge per l'edilizia agevolata, per le quali sono determinate maggiorazioni del detto costo di costruzione in misura non superiore al 50 per cento. Nei periodi intercorrenti tra le determinazioni regionali, ovvero in eventuale assenza di tali determinazioni, il costo di costruzione è adeguato annualmente, ed autonomamente, in ragione dell'intervenuta variazione dei costi di costruzione accertata dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT). Il contributo afferente al permesso di costruire comprende una quota di detto costo, variabile dal 5 per cento al 20 per cento, che viene determinata dalle regioni in funzione delle caratteristiche e delle tipologie delle costruzioni e della loro destinazione ed ubicazione.”).
Il Legislatore Veneto, ha dato attuazione all’art. 16, c. 9, D.P.R. 380/2001, sostituendo con il comma 1 dell’art. 2, della Legge Regionale n. 4/2015 la tabella A4 della Legge Regionale n. 61 del 1985.
Al comma 2, ha, poi, previsto che i nuovi criteri si applichino anche “ai procedimenti in corso relativi ai permessi di costruire nei quali il comune non abbia ancora provveduto a determinare la quota del costo di costruzione”.
Infine, al comma 3, ha stabilito che: “Resta fermo quanto già determinato dal comune, in relazione alla quota del costo di costruzione, prima dell'entrata in vigore della presente legge in diretta attuazione del comma 9 dell'articolo 16 del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, purché la determinazione sia avvenuta all'atto del rilascio del permesso di costruire e non con una successiva richiesta di conguaglio”.
La previgente tabella A4 della Legge Regionale 27.06.1985, n. 61 (“Norme per l’assetto e l’uso del territorio”) prevedeva un’aliquota minima del 1,5%. La disposizione aveva dato attuazione all'art. 6, co. 3, della Legge 10/1977 che, nel testo allora vigente (risultante dalle modifiche di cui all'art. 9, comma 6, D.L. 23.01.1982, n. 9, convertito, con modificazioni, dalla L. 25.03.1982, n. 94), senza prevedere un’aliquota minima, stabiliva che il contributo afferente al costo di costruzione fosse determinato in misura percentuale non superiore al 10%.
Per vero, successivamente, con l'art. 7, comma 2, L. 24.12.1993, n. 537 (rimasto in vigore fino all’entrata in vigore del Testo Unico dell’edilizia) il Legislatore Statale aveva già modificato il parametro, prevedendo che il contributo fosse determinato in una percentuale compresa tra il cinque ed il venti per cento del costo di costruzione, così riportandolo alla cornice prevista dalla formulazione originaria dell’art. 6, c. 3, Legge 28.01.1977, n. 10. Il Legislatore Veneto, tuttavia, non aveva apportato modifiche alla tabella A4 della Legge Regionale 27.06.1985, n. 61, rimasta in vigore nella sua originaria formulazione.
L’entrata in vigore del D.P.R. 380/2001 (il 30.06.2003), avvenuta quasi contestualmente alla modifica del Titolo V della Costituzione, ad opera della Legge costituzionale 30.05.2003, n. 1, ha imposto la verifica della conformità della legislazione regionale in materia edilizia alle norme di principio poste dal Testo Unico, atteso che i suoi artt. 1 e 2 espressamente qualificano le norme di principio in esso contenute, come principi fondamentali della materia, entro cui le Regioni esercitano la potestà legislativa concorrente.
Anche nell’assetto dei rapporti tra Stato e Regioni risultante dalla riforma costituzionale, infatti, la materia dell’edilizia è rimasta attratta alla potestà legislativa concorrente, essendo riconducibile –come ha confermato la Corte Costituzionale (sentenze n. 303, 307, 362 del 2003, n. 196 del 2004)– alla materia “governo del territorio” contenuta nell’elenco di cui al comma III dell’art. 117 Cost.
La questione fu affrontata con una norma transitoria, l’art. 13 L.R. Veneto n. 16/2003, ma non risolta, poiché essa si limitava a prevedere che: “1. Fino all'entrata in vigore della legge regionale di riordino della disciplina edilizia trovano applicazione le disposizioni di cui al D.P.R. 06.06.2001, n. 380 "Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di edilizia"e successive modificazioni, nonché le disposizioni della legge regionale 27.06.1985, n. 61 "Norme per l'assetto e l'uso del territorio" e successive modificazioni, che regolano la materia dell'edilizia in maniera differente dal testo unico e non siano in contrasto con i princìpi fondamentali desumibili dal testo unico medesimo.”.
Nel dibattito che la norma ha suscitato sull’individuazione, per i vari istituti, delle norme di fonte statale direttamente applicabili e di quelle della L.R. 27.06.1985, n. 61, non in contrasto con i principi fondamentali desumibili dal testo unico, si sono inserite diverse pronunce di questo TAR, che –per quanto rileva in questa sede– hanno affrontato la questione relativa alla diretta applicabilità sul territorio regionale della aliquota minima prevista dall’art. 16, c. 9, D.P.R. 380/2001, sia in sede di determinazione del contributo all’atto del rilascio del titolo, sia con successive richieste di conguaglio.
Le pronunce (TAR Veneto, Sez. II, 01.02.2011, n. 181; TAR Veneto, Sez. II, 01.02.2011, n. 189; TAR Veneto, Sez. II, 09.10.2014, n. 1285; TAR Veneto, Sez. II, 16.07.2014, n. 1035) hanno risolto la questione affermando che la norma di cui all’art. 16, c. 9, D.P.R. 380/2001 “deve essere interpretata nel senso di disporre l’immediata applicazione della percentuale minima prevista, corrispondente al 5%, mentre resta nella discrezionalità delle Regioni determinare in misura superiore detta percentuale, in relazione ai parametri individuati dal medesimo comma 9” e che “Tale interpretazione (…) risponde anche all’esigenza di assicurare un’uniformità nella determinazione del costo di costruzione su tutto il territorio nazionale, a prescindere dall’esercizio del potere normativo riconosciuto alle singole Regioni.” (cfr. TAR Veneto, Sez. II, 01.02.2011, n. 181).
La soluzione interpretativa accolta dal TAR ha trovato conferma anche presso il Giudice amministrativo d’appello.
Il Consiglio di Stato, nella sentenza 21.12.2016, n. 5402, pronunciandosi sul gravame proposto avverso la sentenza TAR Veneto, Sez. II, 16.07.2014, n. 1035, ha affermato che la norma statale, “nel fissare direttamente l’aliquota minima di legge è comunque inderogabile e ineludibile in base al principio di coordinamento della finanza pubblica ai sensi dell’art. 119, co. 2, Cost., serve altresì ad evitare gli effetti nocivi d’ogni inerzia del legislatore regionale, onde essa vige fintanto che la Regione non intervenga o a confermarla o a porne una superiore a quella minima, ossia a quella ritenuta congrua quale livello essenziale di prestazione imposta, ad evidenti fini perequativi del prelievo, per tutto il territorio della Repubblica”.
Chiarito dalle suddette pronunce che l’importo del contributo andava quantificato facendo applicazione della norma statale, le Amministrazioni comunali che avevano continuato ad applicare la normativa regionale hanno dato avvio alle azioni necessarie per ottenere il pagamento del maggiore importo dovuto in diretta attuazione della norma statale, mediante richieste di conguaglio.
Come emerge dal comunicato con il quale il Consiglio regionale ha dato notizia dell’approvazione della legge regionale di attuazione dell’art. 16, c. 9, del D.P.R. 380/2001, l’avvio di tali azioni ha indotto il Legislatore Regionale ad introdurre la previsione di cui all’art. 2, comma 3, sopra riportato.
Il Consiglio regionale ha, infatti, affermato che con l’intervento normativo in esame “non potranno esserci richieste di conguaglio successive all’atto del rilascio del permesso di costruire, cosa che alcuni Comuni, per timore di possibili responsabilità contabili, stavano iniziando a fare”.
14.6 Merita, inoltre, osservare che l’intervento normativo -oltre al problema interpretativo relativo alla disciplina applicabile nelle more dell’adeguamento della legislazione regionale a quella statale di principio- incrocia l’ulteriore dibattuta tematica -che solo di recente ha trovato compiuta soluzione- sulla natura degli atti di determinazione e liquidazione del contributo di costruzione, nonché sulla ammissibilità ed i presupposti della loro modificazione.
Prima che si esprimesse l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza 11.07.2018 n. 12, le differenziate posizioni della giurisprudenza si erano polarizzate su tre impostazioni interpretative.
Secondo una prima tesi, la determinazione del contributo darebbe luogo ad un rapporto paritetico che, seppur azionabile da ambo le parti nel rispetto del termine prescrizionale ordinario di dieci anni, si cristallizzerebbe nel quantum al momento del rilascio del titolo edilizio, ostando a successive sue modifiche la disciplina dell’errore riconoscibile prevista dall’art. 1431 c.c. L’errore nella quantificazione costituirebbe una vicenda tutta interna al dichiarante che, per tale ragione, non potrebbe essere posto a fondamento di alcuna modifica in peius del contenuto dell’obbligazione così come originariamente definito.
Una seconda tesi, muovendo anch’essa dalla natura paritetica del rapporto, perveniva all’opposta conseguenza della sua libera rettificabilità entro il termine di prescrizione decennale, perché, per un verso, non venendo in rilievo atti autoritativi, il procedimento sarebbe svincolato dal rispetto delle condizioni di esercizio dell’autotutela amministrativa e, per altro verso, essendo l’obbligazione definita da rigidi parametri regolamentari o tabellari, la sua quantificazione secondo il contenuto legale costituirebbe per l’Amministrazione un atto dovuto.
Terza e più recente impostazione, muove dalla natura pubblicistica del rapporto nascente dalla determinazione del contributo, per affermare la conseguente applicabilità, in astratto, delle regole dell’autotutela amministrativa.
Il Legislatore regionale, con la disposizione in esame -nella quale prevede di “tener ferme” le sole determinazioni con cui si è fatta diretta applicazione dell’art. 16, c. 9, D.P.R. 380/2001 che siano avvenute contestualmente al rilascio del permesso di costruire e non con successivi conguagli- ha espresso una chiara opzione per la prima delle tesi richiamate, codificandone gli esiti.
Ha, infatti, escluso per espressa disposizione di legge l’ammissibilità del conguaglio che miri a recuperare l’importo del contributo nella misura minima prevista dalla legislazione statale, con il chiaro intento di evitare che i Comuni potessero accedere ad altre possibili opzioni interpretative della disciplina degli atti di determinazione e liquidazione del contributo di costruzione.
14.7 Tenendo conto del contesto nel quale è maturata la previsione in esame, l’art. 2, comma 3, L.R. Veneto 16.03.2015, n. 4 appare più chiaro nel suo contenuto dispositivo.
14.8 Il tenore letterale della disposizione sembra sovvertire gli esiti dell’elaborazione giurisprudenziale circa l’assetto dei rapporti tra norma statale e norma regionale nella materia della determinazione del contributo afferente al costo di costruzione.
Infatti, quasi che a prevalere dovesse essere la disposizione di fonte regionale, si afferma che “resta fermo” quanto determinato in diretta applicazione dell’art. 16, c. 9, D.P.R. 380/2001, ma soltanto se tale determinazione sia stata effettuata contestualmente al rilascio del titolo (“Resta fermo quanto già determinato dal comune (…) in diretta attuazione del comma 9 dell'articolo 16 del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, purché la determinazione sia avvenuta all'atto del rilascio del permesso di costruire e non con una successiva richiesta di conguaglio”).
Quale che sia il presupposto in forza del quale il Legislatore si sia determinato ad esprimersi in tale forma, comunque, al contenuto dispositivo della norma sembra doversi attribuire portata retroattiva.
La disposizione sembra, infatti, chiara nel consentire ai Comuni di chiedere e di riscuotere soltanto gli importi del contributo quantificati in base alla norma statale contestualmente al rilascio del titolo, inibendo la riscossione del conguaglio anche ove la relativa richiesta sia stata effettuata prima dell’entrata in vigore della L.R. Veneto n. 4/2015.
Infatti, atteso che la norma si inserisce all’interno del testo normativo di fonte regionale che ha dato attuazione all’art. 16, c. 9, DPR 380/2001, essa non può applicarsi alle determinazioni del contributo successive all’entrata in vigore della norma stessa, per le quali si applicheranno le nuove aliquote.
Essa si rivolge, quindi alle “determinazioni” già avvenute (quindi ai titoli già rilasciati) per affermare che quelle effettuate dando diretta attuazione all’art. 16, c. 9, DPR 380/2001, restano ferme –e quindi potranno essere fatte valere e portate ad esecuzione– solo se contestuali al rilascio del titolo.
Il contenuto precettivo della disposizione appare integralmente definito in tale parte del comma: esso determina compiutamente sia la sorte delle “determinazioni” effettuate sulla scorta dell’art. 16, c. 9, D.P.R. 380/2001 (che “restano ferme”), sia di quelle effettuate sulla scorta della legislazione regionale (che non potranno essere integrate).
Il riferimento alle “successive richieste di conguaglio”, appare una semplice specificazione di un concetto già compiutamente espresso con la locuzione che la precede e, pertanto, non sembra potersi valorizzare al fine di affermare che l’impedimento alla riscossione derivante dalla disposizione riguardi soltanto le richieste di conguaglio successive alla sua entrata in vigore.
Il tenore precettivo della disposizione –che consente di far valere solo le determinazioni direttamente attuative della norma statale effettuate contestualmente al rilascio del titolo– resterebbe, infatti, intatto anche in assenza di tale specificazione.
D’altronde una diversa soluzione interpretativa –che la difesa del Comune ha proposto nei suoi scritti difensivi– appare incompatibile con la natura non autoritativa riconosciuta agli atti di determinazione del contributo ed a quelli con i quali tale determinazione venga modificata.
Solo attribuendo ad essi natura provvedimentale, potrebbe distinguersi tra la sorte delle richieste di conguaglio inviate prima e dopo l’entrata in vigore della norma.
Poiché, però, è stato ormai chiarito che tali atti hanno natura paritetica e costituiscono atti di esercizio di un diritto di credito, la norma viene ad incidere sui rapporti obbligatori che sono sorti, ex lege, per effetto del rilascio del titolo, e quindi appare, nel suo contenuto dispositivo, volta ad impedire le azioni necessarie alla riscossione anche delle richieste di conguaglio precedenti alla sua entrata in vigore.
Da tutto quanto sopra, emerge la rilevanza della questione di legittimità costituzionale della norma nel presente giudizio.
15. Deve, inoltre, premettersi, sempre in punto di rilevanza, che la norma non appare suscettibile di alcuna interpretazione costituzionalmente orientata, atteso che essa esclude espressamente l’applicazione della disposizione di principio di fonte statale per i rapporti conseguenti alle determinazioni e liquidazioni del contributo che siano state erroneamente effettuate sulla scorta dei parametri previsti dalla previgente tabella A4 della Legge Regionale n. 61/1985, impedendo, così -in violazione degli artt. 3, 5, 117, II comma, lett. l) e III comma, 118, I comma, 119, I, II e IV comma, Cost.- l’applicazione diretta della norma di principio dettata dal Legislatore statale in materia di legislazione concorrente a tutela di esigenze unitarie di prelievo e violando l’autonomia di entrata e di spesa dei Comuni.
La difesa del Comune, peraltro, nell’evidenziare il contrasto della disposizione con la “norma cornice”, di cui all’art. 16, c. 9, D.P.R. 380/2001 ed invocare per tale ragione un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma, non propone alcuna soluzione ermeneutica diversa dalla mera disapplicazione della norma regionale, che non trova cittadinanza nell’ordinamento e che contrasterebbe con la equiordinazione della funzione legislativa statale e regionale prevista e tutelata dall’art. 117, I comma, Cost.
Né costituirebbe un’interpretazione costituzionalmente orientata quella volta ad escludere l’applicazione della norma per le richieste di conguaglio anteriori all’entrata in vigore della disposizione. Non si tratterebbe, infatti, di un’interpretazione che, tra i possibili significati del testo normativo, accolga quello conforme alle disposizioni di rango costituzionale, ma solo di un’interpretazione che mira a limitare la rilevanza della questione di legittimità costituzionale alle richieste di conguaglio successive all’entrata in vigore della disposizione.
Si è già detto, comunque, che tale interpretazione non è praticabile, alla luce della formulazione della norma e dello scopo avuto di mira dal Legislatore.
16. Così ricostruita la genesi e la portata applicativa della disposizione, per come risulta dalla sua interpretazione letterale e teleologica, il Collegio dubita della compatibilità della norma che da essa si ricava con gli artt. 3, 5, 117, III comma, 119 I, II e IV comma, della Costituzione.
16.1 Il Legislatore Regionale con l’art. 2, c. 3, L. R. 4/2015, affermando che restano ferme solo le determinazioni del contributo effettuate in base dell’art. 16, c. 9, D.P.R. 380/2001 contestualmente al rilascio del titolo edilizio -ed escludendo, per tale via, che la pretesa ad ottenere il pagamento del contributo nella misura minima del 5% previsto dalla Legge Statale possa farsi valere dai Comuni con una successiva richiesta di conguaglio- ha esercitato la propria potestà legislativa in violazione della norma di principio contenuta nell’art. 16, c. 9, DPR 380/2001, così violando l’art. 117, III comma, ultimo periodo, che riserva al Legislatore Statale la determinazione dei principi fondamentali delle materie di legislazione concorrente.
Il Legislatore regionale, infatti, ha disciplinato i rapporti ancora pendenti –tra le Amministrazioni comunali e i cittadini– sorti nel periodo antevigente alla sua entrata in vigore sottraendo all’applicazione della norma statale quei rapporti in cui, all’atto del rilascio del titolo, l’Amministrazione erroneamente avesse omesso di dare applicazione della norma statale di principio, rifacendosi, invece, alle tabelle previste dalla Legislazione Regionale (la tabella A4 della Legge Regionale 27.06.1985, n. 61).
16.2 La natura di norma di principio dell’art. 16, c. 9, D.P.R. 380/2001, nella parte in cui definisce i limiti minimo e massimo di incidenza percentuale sul costo di costruzione della relativa componente del contributo, la sua non derogabilità dal Legislatore Regionale e l’immediata applicabilità della stessa da parte dei Comuni, anche in assenza della normativa regionale di adeguamento, è stata più volte ribadita dalla giurisprudenza amministrativa di questo TAR e del Consiglio di Stato.
Nella sentenza del TAR Veneto, Sez. II, 01.02.2011, n. 181, si legge: “La richiamata disposizione, nel disciplinare le modalità di calcolo del costo di costruzione, prevede che una quota dello stesso, variabile dal 5% al 20%, sia determinata dalle Regioni in funzione delle caratteristiche e delle tipologie delle costruzioni e della loro destinazione e ubicazione. In applicazione dei criteri ermeneutici letterale e teleologico, ad avviso del Collegio, la detta disposizione deve essere interpretata nel senso di disporre l’immediata applicazione della percentuale minima prevista, corrispondente al 5%, mentre resta nella discrezionalità delle Regioni determinare in misura superiore detta percentuale, in relazione ai parametri individuati dal medesimo comma 9.
3.5. Tale interpretazione, peraltro, risponde anche all’esigenza di assicurare un’uniformità nella determinazione del costo di costruzione su tutto il territorio nazionale, a prescindere dall’esercizio del potere normativo riconosciuto alle singole Regioni. La suddetta disposizione, dunque, non reca alcuna disciplina transitoria, dovendo trovare immediata applicazione.
La disposizione in esame, più specificamente, distingue i meccanismi di determinazione del costo di costruzione dalle modalità di adeguamento automatico di detto costo; solo in relazione a queste ultime, infatti, si prevede un’applicazione degli indici ISTAT “nei periodi intercorrenti tra le determinazioni regionali, ovvero in eventuale assenza di tali determinazioni”. Da ciò si trae, dunque, ulteriore conferma dell’immediata applicabilità della richiamata disposizione nella parte riferita alla percentuale del 5%, ai fini della determinazione del costo di costruzione in sé considerato
.”.
Il Consiglio di Stato, Sez. I, nel parere del 03.12.2014, n. 3819 reso in seno al ricorso straordinario al Capo dello Stato affare n. 213/2013, ha affermato che, poiché viene in rilievo una materia di competenza legislativa concorrente: “le leggi regionali possono essere emanate nell’ambito dei principi fissati dalle leggi dello Stato” mentre “è evidente che le Regioni non hanno il potere di derogare ai minimi stabiliti nell’art. 16 della d.P.R. n. 380/2001 per quanto attiene l’applicazione delle percentuali da applicare per il calcolo e la definizione dei contributi afferente al permesso di costruire. Quindi, l’articolo 16 deve essere interpretato nel senso che la percentuale minima, corrispondente al 5%, deve essere applicata a partire dall’entrata in vigore delle legge statale, restando nella discrezionalità delle Regioni determinare in misura superiore detta percentuale, in relazione ai parametri individuati dal medesimo comma 9 dell’art. 16.”.
Tali affermazioni sono riprese dalla Sesta Sezione del Consiglio di Stato nella sentenza del 21.12.2016, n. 5402, che ancora specifica: “per contro e sebbene alle Regioni spetti la disciplina di dettaglio pure in soggetta materia, al più la diretta applicazione comunale della norma statale, che nel fissare direttamente l’aliquota minima di legge è comunque inderogabile e ineludibile in base al principio di coordinamento della finanza pubblica ai sensi dell’art. 119, co. 2, Cost., serve altresì ad evitare gli effetti nocivi d’ogni inerzia del legislatore regionale, onde essa vige fintanto che la Regione non intervenga o a confermarla o a porne una superiore a quella minima, ossia a quella ritenuta congrua quale livello essenziale di prestazione imposta, ad evidenti fini perequativi del prelievo, per tutto il territorio della Repubblica”.
È opinione del Collegio che la ricostruzione operata dalla giurisprudenza vada confermata, anche alla luce della giurisprudenza della Corte costituzionale in materia.
16.3 L’art. 16 del DPR 380/2001, nel dettare i criteri di determinazione del contributo di costruzione contribuisce a definire il contenuto dell’onere economico gravante sul soggetto che intenda esercitare lo ius aedificandi, così concorrendo a determinare l'effettiva portata e la caratterizzazione positiva del principio di onerosità del permesso di costruire.
La Corte Costituzionale, a più riprese, ha affermato che costituiscono principi fondamentali della materia di competenza concorrente “governo del territorio” (e prima della riforma del Titolo V della Costituzione, della materia “urbanistica”) le norme che concernono l’onerosità del permesso di costruire, nonché le deroghe ed eccezioni al relativo principio.
Nella sentenza n. 1033 del 1988, la Consulta, chiamata ad esprimersi sulla compatibilità con le norme di attuazione dello Statuto della Regione Sicilia (L. cost. 26.02.1948, n. 3), degli artt. 7 e 9 del D.L. 23/01/1982, n. 9 (convertito nella L. 25.03.1982, n. 94), con cui il legislatore statale aveva previsto talune ipotesi di deroga all’obbligo del pagamento del contributo di costruzione e ipotesi di riduzione del contributo, ha evidenziato che rientrano nell’ambito delle disposizioni di principio non soltanto quelle che definiscono l’onerosità dell’attività edilizia, ma anche quelle che, incidendo su tale principio, “concorrono a determinare l'effettiva portata e la caratterizzazione positiva del principio medesimo”, in quanto ad esso “legate da un rapporto di coessenzialità o di integrazione necessaria”.
Sulla scorta di tali argomentazioni la Corte Costituzionale ha riconosciuto la natura di norme di principio alle disposizioni contenenti deroghe o riduzioni dell’importo ordinariamente previsto del contributo di costruzione.
Le medesime argomentazioni sono state ribadite, più di recente, nell’attuale quadro costituzionale di riparto della potestà legislativa, nella sentenza del 03.11.2016, n. 231, con la quale la Corte costituzionale si è pronunciata sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. dell'art. 6, commi 20 e 21, primo trattino della Legge della Regione Liguria n. 12 del 2015, con cui si prevedeva l’esonero dal contributo di costruzione per due categorie di interventi che, in base alla legge statale, avrebbero dovuto essere assoggettate a contribuzione.
In tale occasione la Corte, richiamando il precedente del 1988, ha nuovamente affermato che: “L'onerosità del titolo abilitativo «riguarda infatti un principio della disciplina un tempo urbanistica e oggi ricompresa fra le funzioni legislative concorrenti sotto la rubrica "governo del territorio"» (sentenza n. 303 del 2003), e anche le deroghe al principio (elencate all'art. 17 del TUE), in quanto legate a quest'ultimo da un rapporto di coessenzialità, partecipano della stessa natura di principio fondamentale (sentenze n. 1033 del 1988 e n. 13 del 1980).”.
Anche la disposizione di cui al comma 9 dell’art. 16 DPR 380/2001, nella parte in cui individua i parametri per la determinazione del contributo, nella sua componente relativa al costo di costruzione, appare riconducibile a tale categoria di norme di principio, poiché concorrendo a definire il contenuto dell’onere economico gravante sul soggetto che intenda esercitare lo ius aedificandi, ne integra un aspetto essenziale.
16.4 Sotto altro profilo, l’art. 16, c. 9, DPR 380/2001, come condivisibilmente ritenuto da Consiglio di Stato, 21.12.2016, n. 5402, costituisce, altresì, “principio di coordinamento della finanza pubblica ai sensi dell’art. 119, co. 2, Cost.” e dell’art. 117, co. 3, Cost.
La giurisprudenza, sia amministrativa che civile, rinviene il fondamento causale dell’obbligo al pagamento del contributo di costruzione nella compartecipazione del soggetto che assuma l’iniziativa edificatoria ai costi per la realizzazione delle opere di urbanizzazione in proporzione all'insieme dei benefici che la nuova costruzione consegue (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 30.08.2018, n. 12; Cons. Stato Sez. V, 13.05.2002, n. 2575; Cons. Stato, sez. V, 27.02.1998, n. 201; Cass. sez. I, 27.09.1994, n. 7874).
La definizione di criteri uniformi di determinazione della prestazione imposta per l’intero territorio nazionale mira, da un lato, a garantire a tutti i cittadini parità di condizioni nell’esercizio dello ius aedificandi, dall’altro, e correlativamente, ai Comuni una quota minima di compartecipazione ai benefici derivanti dall’esercizio dell’attività edificatoria.
Il contributo di costruzione costituisce, per la giurisprudenza maggioritaria, un corrispettivo di diritto pubblico, avente carattere generale e non tributario (cfr. da ultimo Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 30.08.2018, n. 12) di cui è titolare il Comune che rilascia il titolo edilizio. Esso rientra, dunque, nel novero di quelle “risorse autonome” di cui i Comuni, secondo quanto prevede l’art. 119, co. 2 Cost., sono titolari.
Con la riforma del Titolo V della Costituzione, infatti, è stata prevista, in linea di principio, l’equiordinazione di Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni, sul piano della “autonomia finanziaria di entrata e di spesa" (primo comma).
L’art. 119, prevede che i suddetti enti hanno "risorse autonome" e "stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario". Inoltre "dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio" (secondo comma).
Le risorse derivanti da tali fonti, e dal fondo perequativo istituito dalla legge dello Stato, consentono -vale a dire devono consentire (cfr. Corte costituzionale 26.01.2004, n. 37)- agli enti di "finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite" (quarto comma), salva la possibilità per lo Stato di destinare risorse aggiuntive ed effettuare interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni, per gli scopi di sviluppo e di garanzia enunciati dalla stessa norma o "per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio" delle funzioni degli enti autonomi (quinto comma).
Pertanto, alle disposizioni di Legge statale che, ai sensi dell’art. 23 Cost., definiscono i criteri per la quantificazione delle prestazioni imposte spettanti ai Comuni dovrebbe riconoscersi natura di principi di coordinamento della finanza pubblica, poiché anche da esse dipende l’autonomia di entrata e di spesa riconosciuta agli Enti territoriali, nonché la concreta possibilità di assolvere alle funzioni ad essi attribuite, atteso che il IV comma dell’art. 119, esclude che essi possano ricevere, in via ordinaria, ulteriori risorse rispetto a quelle previste dal medesimo articolo.
16.5 Ad ulteriore conferma che l’art. 16, c. 9, D.P.R. 380/2001 costituisca una norma di principio, si osserva che i limiti quantitativi, minimo e massimo, da essa individuati sono i medesimi di quelli che, fin dall’approvazione dell’art. 6 della L. 10 del 28.01.1977 (che ha sancito l’onerosità dell’attività edificatoria), il Legislatore statale aveva stabilito.
Tale criterio è rimasto invariato fino al 25.01.1982, quando l'art. 9, comma 6, D.L. 23.01.1982, n. 9, (convertito, con modificazioni, dalla L. 25.03.1982, n. 94) l’ha modificato, eliminando il limite minimo e riducendo il massimo al 10%. Tuttavia, le percentuali minima e massima del costo di costruzione, sono state riportate a quelle originarie con l’entrata in vigore dell'art. 7, comma 2, L. 24.12.1993, n. 537 e riprodotte nel Testo Unico dell’edilizia.
16.6 L’art. 2, c. 3, L.R. Veneto n. 4/2015 nell’introdurre una disciplina parzialmente derogatoria rispetto all’art. 16, c. 9, D.P.R. 380/2001 si pone in contrasto anche con gli artt. 117, III comma, 118, comma I e 5 della Costituzione di cui costituisce diretta applicazione l’art. 2, c. 3, D.P.R. 380/2001.
La norma (“Le disposizioni, anche di dettaglio, del presente testo unico, attuative dei principi di riordino in esso contenuti operano direttamente nei riguardi delle regioni a statuto ordinario, fino a quando esse non si adeguano ai principi medesimi.”) contiene una disciplina transitoria –destinata a trovare applicazione nelle more dell’adeguamento della legislazione regionale ai principi contenuti nel Testo Unico dell’Edilizia- e cedevole, mediante la quale le disposizioni di dettaglio, attuative di norme di principio contenute nel D.P.R. 380/2001, trovano immediata applicazione, fino all’adeguamento da parte delle Regioni.
Il meccanismo di coordinamento tra normativa statale e regionale nelle materie di competenza concorrente, costituito dalle “norme cedevoli”, è stato ritenuto dalla Corte costituzionale attuativo di quelle esigenze unitarie di regolamentazione uniforme che l’ordinamento costituzionale continua a riconoscere anche nel differente sistema di rapporti tra Stato e Regioni delineato dalla Legge costituzionale n. 1 del 2003 e che rinvengono il proprio referente normativo nell’art. 118, c. 1 Cost., nella parte in cui codifica il principio di sussidiarietà.
Nella sentenza n. 303/2003, la Corte costituzionale ha affermato che benché “l'inversione della tecnica di riparto delle potestà legislative e l'enumerazione tassativa delle competenze dello Stato dovrebbe portare ad escludere la possibilità di dettare norme suppletive statali in materie di legislazione concorrente, (e) tuttavia una simile lettura dell'art. 117 svaluterebbe la portata precettiva dell'art. 118, comma primo, che consente l'attrazione allo Stato, per sussidiarietà e adeguatezza, delle funzioni amministrative e delle correlative funzioni legislative” e che “la disciplina statale di dettaglio a carattere suppletivo determina una temporanea compressione della competenza legislativa regionale che deve ritenersi non irragionevole, finalizzata com'è ad assicurare l'immediato svolgersi di funzioni amministrative che lo Stato ha attratto per soddisfare esigenze unitarie e che non possono essere esposte al rischio della ineffettività”.
Le norme statali di dettaglio, espressione di principi generali, alle quali è attribuita temporanea vigenza nelle more dell’adeguamento da parte delle Regioni (per questo dette “cedevoli” rispetto alla legislazione regionale sopravvenuta), mirano ad evitare che l’inerzia regionale ponga nel nulla l’individuazione dei principi fondamentali delle materie di legislazione concorrente, che è “riservata” al Legislatore statale, così preservando la suddetta riserva e garantendo, nel contempo l’uniforme disciplina nazionale in conformità con gli stessi.
A tale esigenza di uniforme disciplina dei criteri di determinazione del contributo di costruzione è improntata, per quanto si è esposto nei punti del paragrafo 4, la disposizione di cui all’art. 16, c. 9, DPR 380/2001, nella parte in cui definisce la percentuale minima e massima del costo di costruzione entro cui le Regioni devono individuare la quota di contributo di costruzione per singole categorie di edifici.
L’art. 2, c. 3, L.R. 4/2015, introducendo un regime differenziato di determinazione del contributo di costruzione rispetto a quello applicabile sull’intero territorio nazionale per talune fattispecie (quelle per le quali il contributo fosse stato determinato secondo parametri diversi da quello minimo previsti dall’art. 16, c. 9, DPR 380/2001), si è posto contro quelle esigenze di uniforme regolamentazione presidiate dagli artt. 118, c. I e 5 della Costituzione, rendendo definitiva la violazione della norma di principio che il mancato tempestivo adeguamento della legislazione regionale aveva prodotto.
17. Sotto altro profilo, l’art. 2, c. 3, L.R. Veneto n. 4/2015, escludendo che i Comuni possano pretendere con una richiesta di conguaglio il pagamento del contributo nella misura minima prevista dalla norma di legge statale, incide e viola il principio di equiordinazione tra Enti territoriali, previsto dall’art. 114 Cost., nonché l’autonomia di entrata e di spesa riconosciuta ai Comuni dall’art. 119, c. I, II e IV Cost. e il principio di buona amministrazione, previsto dall’art. 97 Cost.
Il contributo di costruzione, come si è detto, essendo una prestazione imposta che i Comuni hanno diritto di riscuotere in conseguenza del rilascio del permesso di costruire, ne costituisce un’entrata propria, istituita con legge statale.
Ai sensi del IV comma dell’art. 119 Cost., questa entrata concorre con le altre entrate di natura tributaria e non tributaria, nonché con le risorse trasferite ai sensi ed alle condizioni di cui ai commi III e V, al finanziamento “integrale” delle spese necessarie per l’espletamento delle proprie funzioni.
La norma regionale, escludendo che i Comuni possano pretendere con una richiesta di conguaglio il pagamento del contributo nella misura minima prevista dalla norma di legge statale, incide su un credito già acquisito al patrimonio comunale per effetto del rilascio del permesso di costruire e viola l’autonomia di entrata e di spesa riservata ai Comuni, in tal modo ledendo anche il principio di equiordinazione tra gli enti territoriali che compongono la Repubblica, sancito dall’art. 114 Cost.
Inoltre, la norma si pone in contrasto con il principio di buon andamento della Pubblica Amministrazione perché impedisce ai Comuni di far valere e riscuotere nella loro interezza crediti già acquisiti al patrimonio, in assenza di alcuna valutazione sulla sostenibilità economica di tale rinuncia.
18. La norma, inoltre, invade la sfera di potestà legislativa esclusiva nella disciplina dell’ordinamento civile riservata al Legislatore statale dall’art. 117, c. II, lett. l e viola i principi di uguaglianza e ragionevolezza previsti dall’art. 3 Cost.
Come si è già evidenziato, il Legislatore regionale con la norma in esame ha dettato una disciplina speciale per gli atti di determinazione e liquidazione del contributo di costruzione già emessi, sottraendo ai Comuni il potere di rideterminare l’importo già liquidato sulla scorta della disciplina regionale antevigente e di riscuoterlo.
Così facendo si è inserita nel dibattito –all’epoca non ancora sopito  sulla natura, autoritativa o paritetica, degli atti con cui l’Amministrazione determina e liquida l’importo del contributo di costruzione e sull’ammissibilità, e le relative condizioni, della rideterminazione del suddetto importo.
Prima dell’intervento dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza del 30.08.2018, n. 12, sulla questione, si erano contrapposti tre orientamenti interpretativi.
Secondo una prima impostazione, fatta propria dal Consiglio di giustizia amministrativa (nelle sentenze nn. 64, 188, 244, 373, 422 e 790 del 2007), la determinazione del contributo darebbe luogo ad un rapporto paritetico che, seppur azionabile da ambo le parti nel rispetto del termine prescrizionale ordinario di dieci anni, si cristallizzerebbe nel quantum al momento del rilascio del titolo edilizio, nel senso che lo stesso non sarebbe suscettibile di modifiche successive (se non nei casi di manifesto errore di calcolo), in quanto, in applicazione dei principi desumibili dalla disciplina dei contratti, non darebbe mai luogo ad un errore riconoscibile (donde l’intangibilità pressoché assoluta della originaria determinazione amministrativa).
Una seconda tesi, che è stata seguita in alcune sentenze della sez. IV del Consiglio di Stato (Cons. St., sez. IV, 27.09.2017 n. 4515, Cons. St., sez. IV, 12.06.2017 n. 2821), pur muovendo, come la prima, dalla natura paritetica del rapporto, trae da tale assunto conseguenze opposte, affermando che proprio perché si tratta di un rapporto di debito-credito di natura paritetica, la rettifica sarebbe sempre possibile, entro il termine decennale di prescrizione, perché, per un verso, il procedimento sarebbe svincolato dal rispetto delle condizioni di esercizio dell’autotutela amministrativa e, per altro verso, la rideterminazione del contributo dovuto secondo rigidi parametri regolamentari o tabellari costituirebbe un atto dovuto.
Terza e più recente impostazione, muove dalla natura pubblicistica (Cons. St., sez. IV, 21.12.2016, n. 5402) del rapporto nascente dalla determinazione del contributo, trattandosi di prestazione patrimoniale imposta di carattere non tributario, per affermare la conseguente applicabilità, in astratto, delle regole dell’autotutela amministrativa.
L’Adunanza Plenaria ha risolto il contrasto, affermando che “L'atto di imposizione e di liquidazione del contributo, quale corrispettivo di diritto pubblico richiesto per la compartecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione, non ha natura autoritativa né costituisce esplicazione di una potestà pubblicistica, ma si risolve in un mero atto ricognitivo e contabile, in applicazione di rigidi e prestabiliti parametri regolamentari e tabellari” e che “la natura paritetica dell'atto di determinazione consente che la pubblica amministrazione possa apportarvi modifiche, sia in favore del privato che in senso contrario, purché ciò avvenga nei limiti della prescrizione decennale del relativo diritto di credito (v., inter multas, Cons. St., sez. IV, 28.11.2012, n. 6033, Cons. St., sez. IV, 17.09.2010, n. 6950)”.
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha, quindi, ritenuto non condivisibili, sia la tesi dell’assoluta immodificabilità del contributo, affermata sul presupposto della non riconoscibilità dell’errore nel quale è incorsa l’Amministrazione, sia la tesi secondo la quale la riliquidazione del contributo sarebbe ammessa solo in presenza dei presupposti previsti per l’autotutela.
Ha, invece, affermato la doverosità della rideterminazione dell’importo del contributo che, per errore, sia stato originariamente liquidato in violazione delle norme di legge che regolano i criteri del relativo calcolo, pena la violazione del principio di legalità delle prestazioni imposte sancito dall'art. 23 della Costituzione.
Ha, altresì, stabilito che la natura di prestazione patrimoniale imposta riconosciuta al contributo in esame non comporta l’attrazione nella sfera pubblicistica dell’obbligazione di cui costituisce oggetto. L’obbligazione nasce ex lege in conseguenza del rilascio del titolo edilizio ed è imposta nel senso che il privato non può sottrarsi al vincolo se non rinunciando a richiedere il titolo, tuttavia, “esclusa pacificamente la sua natura tributaria”, il pagamento del contributo “non può che costituire l'oggetto di un ordinario rapporto obbligatorio, disciplinato dalle norme di diritto privato, come prescrive l'art. 1, comma 1-bis, della L. n. 241 del 1990, salvo che la legge disponga diversamente.”.
Discende dalle esposte premesse che gli atti con i quali la pubblica amministrazione determina e liquida il contributo di costruzione costituiscono l'esercizio di una facoltà connessa alla pretesa creditoria riconosciuta dalla legge al Comune per il rilascio del permesso di costruire, nell'ambito di un rapporto obbligatorio a carattere paritetico.
Si è cioè al cospetto di un rapporto obbligatorio, di contenuto essenzialmente pecuniario (salva l'ipotesi di opere a scomputo di cui all'art. 16, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001), al quale si applicano le disposizioni di diritto privato, salve le specifiche disposizioni previste dalla legge (come, ad esempio, i già citati artt. 42 e 43 del D.P.R. n. 380 del 2001) per la peculiare finalità del credito vantato dall'amministrazione comunale in ordine al pagamento del contributo (oneri di urbanizzazione e costo di costruzione).”.
Quanto alle esigenze di tutela dell’affidamento ingenerato dall’erronea liquidazione del contributo all’atto del rilascio del titolo, l’Adunanza Plenaria ha affermato che esse sono sufficientemente garantite nei limiti previsti dagli artt. 1175 e 1375 c.c..
Pertanto, “la complessità delle operazioni di calcolo o l'eventuale incertezza nell'applicazione di alcune tabelle o coefficienti determinativi, dovuti a ragioni di ordine tecnico, non sono eventi estranei o ignoti alla sfera del debitore, che invece con l'ordinaria diligenza, richiesta dagli artt. 1175 e 1375 c.c., può e deve controllarne l'esattezza sin dal primo atto di loro determinazione”.
Quindi “La tutela del legittimo affidamento e il principio della buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.), che in via generale devono essere osservati anche dalla pubblica amministrazione nell'attuazione del rapporto obbligatorio (v., sul punto, Cass., sez. L, 07.04.1992, n. 4226), possono trovare applicazione ad una fattispecie come quella in esame nella quale, ordinariamente, l'oggettività dei parametri da applicare al contributo di costruzione rende vincolato il conteggio da parte della pubblica amministrazione, consentendone a priori la conoscibilità e la verificabilità da parte dell'interessato con l'ordinaria diligenza, solo nella eccezionale ipotesi in cui tali conoscibilità e verificabilità non siano possibili con il normale sforzo richiesto al debitore, secondo appunto buona fede, nell'ottica di una leale collaborazione finalizzata all'attuazione del rapporto obbligatorio e al soddisfacimento dell'interesse creditorio.”.
Come si è detto, il Legislatore regionale con l’art. 2, c. 3, L.R. Veneto n. 4/2015 si è inserito nel dibattito, manifestando una chiara opzione per la tesi che escludeva la modificabilità della liquidazione del contributo di costruzione effettuata dal Comune contestualmente al rilascio del titolo.
I rapporti obbligatori già instaurati alla data della sua entrata in vigore vengono assoggettati ad una disciplina peculiare, mediante la quale la pretesa creditoria del Comune viene ridotta nel quantum rispetto al suo contenuto legale, ove non esercitata in tale misura fin dal momento della sua originaria quantificazione, ed è riconosciuta una tutela dell’affidamento del privato del tutto avulsa dalla verifica dei profili di conoscibilità della normativa applicabile.
Ed, infatti, anche ove si ritenesse che la stratificazione delle disposizioni di fonte statale e regionale abbia potuto ingenerare una situazione di incertezza tale da incidere sulla conoscibilità dei criteri di calcolo del contributo, ciò non potrebbe comunque affermarsi con riguardo alle determinazioni nelle quali fosse esplicitamente fatta salva la possibilità di successivi conguagli, o a quelle adottate dopo le pronunce del TAR Veneto e del Consiglio di Stato con le quali il dubbio interpretativo sulla normativa applicabile era stato risolto nel senso della prevalenza della norma di fonte statale.
Così facendo, il Legislatore regionale ha dettato disposizioni che incidono sul regime giuridico di “un rapporto obbligatorio, di contenuto essenzialmente pecuniario”, in quanto tale soggetto alle “disposizioni di diritto privato, salve le specifiche disposizioni previste dalla legge”, invadendo una competenza riservata, dall’art. 117, c. II, Cost. alla potestà legislativa statale.
19. Infine, la norma di legge regionale appare in contrasto anche con l’art. 3 Cost.
Non può, infatti, ritenersi conforme ai principi di uguaglianza e di ragionevolezza una norma che disciplina diversamente rapporti obbligatori di fonte legale, integralmente definiti, nel loro contenuto, per effetto della medesima legge, in funzione della circostanza, meramente casuale, che il Comune abbia o non abbia fatto corretta applicazione della legge vigente in sede di rilascio del titolo.
Neppure può addursi a giustificazione di una tale disparità di trattamento l’affidamento ingenerato dal Comune con l’erronea determinazione iniziale dell’importo del contributo, poiché, come ha ritenuto l’Adunanza Plenaria nella sentenza n. 12/2018, tale affidamento è meritevole di tutela soltanto ove esso sia incolpevole, ovvero non fosse evitabile con l’ordinaria diligenza, circostanza da valutarsi in concreto.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto (Sezione Seconda), dichiara rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli artt. 3, 5, 97, 114, 117, 118 e 119 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 3, della Legge Regionale 16.03.2015, n. 4.
Sospende il giudizio in corso e dispone, a cura della segreteria della Sezione, che gli atti dello stesso siano trasmessi alla Corte Costituzionale per la risoluzione della prospettata questione, nonché la notifica della presente ordinanza alle parti in causa ed al Presidente della Giunta Regionale e la comunicazione della medesima al presidente del Consiglio Regionale per il Veneto.

APPALTI: Costo del lavoro autonomo e verifica della anomalia dell’offerta.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta – Offerta anomala – Verifica – Costo del lavoro – Congruità – Rapporti di lavoro autonomo - Accertamento – Va fatto.
E’ necessario, nell’ambito della verifica dell’anomalia dell’offerta, procedere alla valutazione della congruità del costo del lavoro anche quando si tratti non di rapporti di lavoro subordinato ma di rapporti di lavoro autonomo (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che anche in un giudizio sull’anomalia dell’offerta non possano essere sindacate le modalità di organizzazione interna di un operatore economico, né è possibile ritenere che debbano essere imposti determinati tipi contrattuali in luogo di altri per ottenere la collaborazione dei prestatori d’opera.
Ma, nel giudizio di verifica della possibile anomalia di un’offerta, se occorre valutare la congruità del costo del lavoro (e quindi la congruità e serietà dell’offerta), si deve ritenere comunque necessario, nei casi in cui non sia possibile fare un immediato riferimento agli importi dei contratti collettivi nazionali -per la molteplicità delle modalità di lavoro anche non dipendente con le quali oggi è possibile assicurare una prestazione lavorativa- che la Stazione appaltante valuti la corretta determinazione del costo del lavoro anche con strumenti diversi.
E ciò anche per il doveroso rispetto delle disposizioni dettate per la tutela di rilevanti interessi pubblici in materia di lavoro, sicurezza e previdenza ai quali si è fatto prima cenno. Senza contare che la mancanza di un qualsiasi parametro nella valutazione della congruità del costo del lavoro “non dipendente” determinerebbe effetti palesemente distorsivi del mercato, quali quelli che sono stati evidenziati nella gara in esame.
Non può essere pertanto condiviso il principio secondo cui ogni valutazione sulla congruità del costo del lavoro della prestazione offerta nella fattispecie non poteva essere compiuta perché tra l’impresa e il prestatore d’opera di lavoro non dipendente esiste solo la libera contrattazione del compenso.
Se si affermasse la correttezza di tale principio, alle stazioni appaltanti sarebbe preclusa ogni forma di controllo sulla serietà e sostenibilità del costo del lavoro delle offerte presentate e della stessa serietà dell’offerta, soprattutto quando il costo del lavoro ne è, come nella fattispecie, un elemento preponderante.
Né può valere l’obiezione secondo cui le eventuali patologie sono questioni proprie della fase esecutiva del contratto. La procedura di gara serve, tra le tante altre cose, anche a prevenire situazioni patologiche quali quelle che possono determinarsi con la presentazione di un’offerta anomala.
Si deve quindi ribadire che non può essere condivisa la tesi secondo cui l’operatore economico che decide (legittimamente) di organizzarsi con collaboratori che non sono lavoratori subordinati è esentato da qualsiasi giustificazione in ordine al costo di tali collaboratori nell’offerta che ha presentato.
Alcuni parametri normativi esistono comunque, perlomeno da utilizzare come punto di riferimento per valutare la serietà e attendibilità di un’offerta e del costo del lavoro nella stessa dichiarato. Il diritto del lavoro (subordinato e autonomo) così come la disciplina del codice del consumo dettano disposizioni di mitigazione della forza contrattuale del committente.
Per esempio, l'art. 3 della recente l. 22.05.2017, n. 81, recante “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l'articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato” colpisce le clausole e le condotte abusive nonché l'abuso di “dipendenza economica” (art. 9, l. n. 192 del 1992). I copiosi riferimenti all'“abuso” presenti nell'articolato della citata l. n. 81 del 2017, per esempio, evocano il complesso tema delle relazioni sbilanciate tra soggetti economici (i cosiddetti “contratti asimmetrici”), nel cui ambito la dottrina ha elaborato la nozione di “terzo contratto”.
Tale figura identifica quei contesti negoziali in cui, come accade sovente nel caso del lavoro autonomo, si rileva una debolezza non inerente a un determinato status, come per il consumatore, protagonista di un ideale “secondo contratto”, ma relativa a una condizione di fatto di disparità economica che si riflette sul piano dell'equilibrio contrattuale.
L'ottica comune alle discipline in questione è spiccatamente rimediale. Ciò significa che quelle regole, sul piano individuale, mirano al ripristino in via giudiziale dell'equilibrio che il rapporto economico sbilanciato ha messo in discussione. Si parla non a caso di “giustizia contrattuale”.
Occorre chiedersi se quelle regole che permeano ormai il sistema giuridico, possano operare altresì in funzione del perseguimento di più ampi obiettivi, come il miglioramento qualitativo della concorrenza. E la risposta deve ritenersi affermativa tanto che, esplorando il contesto dei rapporti asimmetrici tra imprese, si accosta alla lesione della libertà negoziale della parte debole la violazione dell'ordine pubblico del mercato.
Ha aggiunto la Sezione di essere consapevole del fatto che la l. n. 81 del 2017 non ha dettato anche disposizioni specifiche sul compenso dei lavoratori autonomi. Il principio cardine è la libera pattuizione del compenso e solamente in assenza di un accordo o di riferimenti a usi e tariffe si ammette l'intervento sussidiario del giudice ai sensi dell’art. 2225 c.c. che stabilisce il corrispettivo in base al risultato ottenuto e al lavoro normalmente necessario per ottenerlo, con la correzione del criterio di adeguatezza all'importanza dell'opera e al decoro della professione ex art. 2233 c.c.
Però da una lettura sistematica delle disposizioni della Direttiva 24/2014, delle disposizioni del Codice dei contratti pubblici, e dei principi che presidiano l’intera materia degli appalti si può giungere alla conclusione che la stazione appaltante non può completamente omettere di valutare, in sede di giudizio di anomalia dell’offerta, le modalità con le quali l’operatore economico che aspira ad ottenere una commessa pubblica, intende utilizzare e compensare i propri collaboratori (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 05.02.2019 n. 94 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La funzione della motivazione del provvedimento amministrativo, come chiarito dalla consolidata giurisprudenza, è diretta a consentire al destinatario di ricostruire l'iter logico-giuridico in base al quale l'amministrazione è pervenuta all'adozione di tale atto, nonché le ragioni ad esso sottese; e ciò allo scopo di verificare la correttezza del potere in concreto esercitato, nel rispetto di un obbligo da valutarsi caso per caso in relazione alla tipologia dell'atto considerato.
In particolare, in caso di domanda di titolo abilitativo edilizio, poiché il presupposto per il rilascio dello stesso è la conformità del progetto agli strumenti urbanistici e alla normativa urbanistico edilizia vigenti, il provvedimento di diniego, per essere legittimo, deve contenere una specifica esposizione delle ragioni di contrasto del progetto con le norme che regolano gli insediamenti sul territorio.

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Nel caso di specie, il Comune no ha dato conto in motivazione delle specifiche e reali ragioni ostative al mancato accoglimento della SCIA relativa al titolo abilitativo in sanatoria; ragioni che non potevano che essere il frutto di un’attività vincolata, consistente nella verifica della conformità o meno dell’intervento edilizio in questione con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda (cd. doppia conformità).
Nella vicenda sottoposta all’esame del Collegio, il Comune si è, tuttavia, limitato a comunicare ai ricorrenti che: … la pratica edilizia relativa alla comunicazione relativa alla SCIA in sanatoria ex art. 37 d.P.R. 380/2001, non può essere accolta, e ciò richiamando unicamente il sopralluogo disposto da parte della Regione Lazio - servizio Genio Civile di Frosinone e la trascrizione per esteso delle disposizioni del Testo unico dell’edilizia allegatamente ostativo all’accoglimento della segnalazione in sanatoria.
E’ evidente che la comunicazione di mancato accoglimento della S.c.i.a. in sanatoria in esame è viziata per carenza assoluta di motivazione, come denunciato da parte ricorrente con il primo motivo di ricorso, non essendo state affatto indicate le effettive ragioni ostative alla positiva definizione della comunicazione della Scia in sanatoria, e ciò in violazione dell’art. 3 della L. n. 241 del 1990.
In particolare, non risulta, che gli interventi realizzati dal ricorrente (realizzazione della pensilina e della veranda in difformità) siano in contrasto le norme legislative o con quelle dettate dagli strumenti urbanistici vigenti e, comunque, pena la violazione del divieto di aggravare il procedimento di cui all’art. 1 della L. 241/1990, non può l’amministrazione onerare, genericamente, l’istante di “dimostrare il requisito della doppia conformità delle opere oggetto di regolarizzazione”, senza che la stessa, in seguito all’idonea istruttoria che le compete, abbia previamente segnalato le specifiche criticità dell’intervento sotto tali profili (veranda e pensilina).
Per altro verso, poi, all’amministrazione non è richiesta un’indagine (sulla ricorrenza di tale presupposto) che si estenda fino alla ricerca d’ufficio di eventuali elementi limitativi, preclusivi o estintivi del titolo di disponibilità allegato dal richiedente, ma solo la verifica dell’esistenza di un titolo sostanziale idoneo a costituire in capo a quest’ultimo il diritto di sfruttare la potenzialità edificatoria dell’immobile.
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Il ricorso è fondato.
In particolare merita accoglimento la censura relativa al difetto di motivazione dei provvedimenti impugnati.
Osserva, anzitutto, il Collegio, che la funzione della motivazione del provvedimento amministrativo, come chiarito dalla consolidata giurisprudenza, è diretta a consentire al destinatario di ricostruire l'iter logico-giuridico in base al quale l'amministrazione è pervenuta all'adozione di tale atto, nonché le ragioni ad esso sottese; e ciò allo scopo di verificare la correttezza del potere in concreto esercitato, nel rispetto di un obbligo da valutarsi caso per caso in relazione alla tipologia dell'atto considerato.
In particolare, in caso di domanda di titolo abilitativo edilizio, poiché il presupposto per il rilascio dello stesso è la conformità del progetto agli strumenti urbanistici e alla normativa urbanistico edilizia vigenti, il provvedimento di diniego, per essere legittimo, deve contenere una specifica esposizione delle ragioni di contrasto del progetto con le norme che regolano gli insediamenti sul territorio.
Tanto premesso, nel caso di specie, il Comune di Piglio avrebbe dovuto dar conto in motivazione delle specifiche e reali ragioni ostative al mancato accoglimento della Segnalazione relativa al titolo abilitativo in sanatoria; ragioni che non potevano che essere il frutto di un’attività vincolata, consistente nella verifica della conformità o meno dell’intervento edilizio in questione con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda (cd. doppia conformità).
Nella vicenda sottoposta all’esame del Collegio, il Comune di Piglio (Ufficio edilizia privata) si è, tuttavia, limitato a comunicare ai ricorrenti che: … la pratica edilizia relativa alla comunicazione relativa alla SCIA in sanatoria ex art. 37 d.P.R. 380/2001, non può essere accolta, e ciò richiamando unicamente il sopralluogo disposto da parte della Regione Lazio - servizio Genio Civile di Frosinone e la trascrizione per esteso delle disposizioni del Testo unico dell’edilizia allegatamente ostativo all’accoglimento della segnalazione in sanatoria.
E’ evidente che la comunicazione di mancato accoglimento della S.c.i.a. in sanatoria in esame è viziata per carenza assoluta di motivazione, come denunciato da parte ricorrente con il primo motivo di ricorso, non essendo state affatto indicate le effettive ragioni ostative alla positiva definizione della comunicazione della Scia in sanatoria, e ciò in violazione dell’art. 3 della L. n. 241 del 1990.
In particolare, non risulta, che gli interventi realizzati dal ricorrente (realizzazione della pensilina e della veranda in difformità) siano in contrasto le norme legislative o con quelle dettate dagli strumenti urbanistici vigenti e, comunque, pena la violazione del divieto di aggravare il procedimento di cui all’art. 1 della L. 241/1990, non può l’amministrazione onerare, genericamente, l’istante di “dimostrare il requisito della doppia conformità delle opere oggetto di regolarizzazione”, senza che la stessa, in seguito all’idonea istruttoria che le compete, abbia previamente segnalato le specifiche criticità dell’intervento sotto tali profili (veranda e pensilina).
Per altro verso, poi, all’amministrazione non è richiesta un’indagine (sulla ricorrenza di tale presupposto) che si estenda fino alla ricerca d’ufficio di eventuali elementi limitativi, preclusivi o estintivi del titolo di disponibilità allegato dal richiedente (Cons. St, sez. V, 22.06.2000, n. 3525), ma solo la verifica dell’esistenza di un titolo sostanziale idoneo a costituire in capo a quest’ultimo il diritto di sfruttare la potenzialità edificatoria dell’immobile (cfr. Cons. St. n. 368/2004).
Pertanto, nel caso in esame, non sembra si possa dubitare dell’astratta sanabilità delle opere oggetto di causa ai sensi del d.lgs. 380/2001 e della giurisprudenza formatasi sulla sanabilità delle opere in questione.
Inoltre, per quanto concerne la pensilina parte ricorrente deduce che la struttura risale a periodo anteriore al 1967, essendo stata apposta sul prospetto dell’edificio nell’anno 1962. A comprova allega relazione peritale e una stampa dell’epoca.
In conclusione il ricorso deve essere accolto con riferimento alle censure esaminate, potendo restare assorbiti gli ulteriori profili di doglianza.
Ne consegue, per invalidità derivata, l’illegittimità dell’ordine di demolizione gravato con i motivi aggiunti (TAR Lazio-Latina, sentenza 05.02.2019 n. 79 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: RIFIUTI - Operazioni di deposito delle terre e delle rocce da scavo - Mancanza di autorizzazione e del controllo amministrativo preventivo - Inosservanza delle prescrizioni - Procedura di conformità "end of wast" - Potenziali danni per l'ambiente - Art. 256 d.lgs. n. 152/2006.
L'inosservanza delle prescrizioni e la mancanza di autorizzazione, quantunque in astratto concedibile, e dunque la carenza del prescritto controllo amministrativo preventivo sullo svolgimento dell'attività determinano situazioni intrinseche di rischio, essendo suscettibili di mettere in pericolo la salubrità dell'ambiente.
Pertanto, le operazioni di deposito delle terre e delle rocce da scavo in vista di un successivo riutilizzo effettivo sono "atte a configurare un onere per il detentore e sono potenzialmente fonte di quei danni per l'ambiente" che la disciplina comunitaria sui rifiuti "mira specificamente a limitare (...), cosicché la sostanza di cui trattasi deve essere considerata, in linea di massima, come rifiuto"
(in tal senso, anche, Sez. 3, n. 19439 del 17/01/2012, cit., in motiv.).

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RIFIUTI - Reato di attività di gestione di rifiuti non autorizzata - Natura di reato di pericolo - Principio della personalità della responsabilità penale - Verifiche e compiti del giudice di merito.
Il reato di attività di gestione di rifiuti non autorizzata è un reato di pericolo, sicché la valutazione in ordine all'offesa al bene giuridico protetto va retrocessa al momento della condotta secondo un giudizio prognostico "ex ante", essendo irrilevante l'assenza in concreto, successivamente riscontrata, di qualsivoglia lesione.
In questo delicato settore del diritto penale, il compito del giudice di merito si risolve, nel rispetto assoluto dei principio della personalità della responsabilità penale, in un accertamento diretto a verificare, specialmente nell'interpretazione dei reati formali e di pericolo presunto, che il fatto di reato abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l'interesse tutelato dalla disposizione incriminatrice.
Infatti, nei reati di pericolo, l'offesa al bene giuridico protetto si traduce in un nocumento potenziale dello stesso, che viene soltanto minacciato
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.02.2019 n. 4973 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Nozione di miscelazione dei rifiuti - Attività non consentita di miscelazione - Accatastamento di vari rifiuti aventi codici identificativi diversi - Prova della miscelazione - Attività di gestione dei rifiuti da autodemolizione - Disciplina, applicabile e limiti - Att. 6 e 13 d.lgs. n. 209/2003 - Artt. 187, 256 d.lgs. n. 152/2006
La miscelazione dei rifiuti può essere definita come l'operazione consistente nella mescolanza, volontaria o involontaria, di due o più tipi di rifiuti aventi codici identificativi diversi in modo da dare origine ad una miscela per la quale invece non esiste uno specifico codice identificativo.
Nella fattispecie, la prova della miscelazione è stata legittimamente desunta dai verbali di sopralluogo e dagli accertamenti in conseguenza dei quali è emerso che alcuni spazi erano occupati, non solo da materiale ferroso proveniente dalla demolizione di autoveicoli, attività per la quale l'imputato era autorizzato, ma anche da rifiuti ferrosi e non ferrosi, di altro tipo, posto che in loco si erano riscontrate tracce di olio e di altri liquidi.
Tale accatastamento di vari rifiuti e la presenza di tracce di diversi liquidi dimostra inequivocabilmente la configurabilità del reato atteso che sono stati comunque mescolati rifiuti anche pericolosi aventi codici identificativi diversi
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.02.2019 n. 4976 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Nozione di sottoprodotto - Sanza - Operazioni di asciugatura ed essiccazione - Riconducibilità nella categoria dei rifiuti - Normale pratica industriale - Esclusione - Attività di raccolta e gestione di rifiuti speciali non pericolosi - Artt. 183, 184-bis, 256, D.Lgs. n. 152/2006.
Non rientrano nella nozione di sottoprodotto ex art. 184-bis del d.lgs. n. 152 del 2006 i materiali che non possono essere utilizzati direttamente dal produttore ma devono essere sottoposti ad una trasformazione preliminare. Sicché, il propedeutico procedimento di asciugatura ed essicazione della sansa, si connota in un trattamento diverso dalla normale pratica industriale con conseguente riconducibilità nella categoria dei rifiuti (Corte d Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.02.2019 n. 4952 - link a www.ambientediritto.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Risarcimento del danno per perdita di “chance” lavorativa.
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Risarcimento danni – Concorso – Illegittima esclusione – Mancanza del requisito di residenza – Annullamento in sede di ricorso straordinario al Capo dello Stato – Procedura selettiva ormai espletata – Istanza risarcitoria – Danno risarcibile da perdita di chance – Spetta.
Va risarcito a titolo di perdita di chance il concorrente escluso da una selezione, ormai conclusa, che era stata bandita per l’istaurazione di rapporti di lavoro a tempo determinato per mancanza del requisito della residenza in un Comune della Regione, requisito dichiarato illegittimo a seguito di decisione di ricorso straordinario al Presidente della Repubblica (1).
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   (1) Il Tar, preliminarmente, ha disatteso l’eccezione di inammissibilità della domanda risarcitoria, in relazione al principio di pregiudizialità dell’azione giurisdizionale di annullamento, atteso che nel vigente ordinamento, la domanda risarcitoria ha una propria autonomia. Ha chiarito il Tar che, nel caso di specie, la decisione del ricorso straordinario al Capo dello Stato ha accertato l’illegittimità della procedura selettiva impugnata ed ha censurato la condotta tenuta dalla Provincia, in violazione dei principi informatori dell’azione amministrativa pubblica.
Il Tar ha quindi affermato che il pregiudizio patrimoniale patito a causa dalla condotta colpevole della P.A., è senz’altro risarcibile a tenore dell’art. 2043 cod. civ., norma che impone il dovere primario di non cagionare danni ingiusti.
Il Tar ha ritenuto che l’imposizione quale requisito della residenza dei concorrenti in un Comune molisano, censurata perché contraria alla legge e ai principi costituzionali, è rilevante ai fini dell’invocata tutela risarcitoria e spiega il nesso di causalità tra la condotta antigiuridica (colposa o dolosa) e il procurato pregiudizio patito dagli aspiranti che hanno subito l’esclusione dal bando per via della mancanza del requisito di residenza.
Ha affermato il Tar che non vi è necessità di ulteriore prova della condotta arrecante il danno ingiusto, ex art. 2043 cod.civ., né sussiste margine per la scusabilità dell’errore della P.A., atteso che non poteva giustificabilmente sfuggire all’Amministrazione (e ai suoi funzionari) il dato palese e inequivocabile dell’illegittimità radicale della clausola di preclusione territoriale contenuta nel bando.
Ha aggiunto il Tar che appare, altresì, evidente e non necessita di prova il fatto che dal comportamento illegittimo della Provincia sia derivato un danno patrimoniale, qualificabile in termini di pregiudizio per la perdita di chance, da parte dei ricorrenti. E’ palese la sussistenza del rapporto causale tra il fatto ostativo (l’esclusione dalla selezione) e il pregiudizio della perdita di una ragionevole probabilità di conseguimento del risultato atteso dai ricorrenti, di collocarsi, previo superamento della prova, in una posizione non solo idonea ma utile nello scorrimento di una delle sei graduatorie di concorso definitivamente approvate.
I giudici molisani hanno poi ricordato che il danno da perdita di chance si verifica tutte le volte in cui il venir meno di un’occasione favorevole, cioè la perdita della possibilità di conseguire un risultato utile, è determinato e causato dell’adozione di un atto illegittimo da parte della P.A., determinando un mancato guadagno. La chance è un bene giuridico autonomo, integrante il patrimonio del soggetto. Va così risarcita la perdita di essa, ove sussista la lesione di un interesse giuridicamente tutelato, avendo la pretesa di risarcimento a oggetto non un danno futuro e incerto ma un danno attuale, quale è appunto la perdita dell’occasione favorevole. La lesione della chance, quindi, comporta un danno valutabile in relazione alla probabilità perduta, piuttosto che al vantaggio sperato.
La risarcibilità della perdita di chance trova fonte nella compromissione di un’opportunità -essa stessa bene autonomamente identificabile e tutelabile sul piano giuridico- di conseguire un bene della vita, sicché la determinazione del risarcimento può avvenire secondo una valutazione equitativa, ex art. 1226 c.c., commisurandola ove possibile al grado di probabilità che quel risultato favorevole avrebbe potuto essere conseguito.
Ha aggiunto il Tar che la perdita di chance non può essere retribuita come se il danneggiato avesse effettivamente superato la selezione ed effettuato la prestazione lavorativa, poiché la prestazione lavorativa in effetti non c’è mai stata e il diritto a percepire la retribuzione per il periodo di mancata prestazione lavorativa deve escludersi nell’ipotesi in cui il rapporto di lavoro non si sia mai instaurato.
Il Tar ha poi considerato che non può essere, nella fattispecie, riconosciuta la sussistenza di un danno esistenziale, poiché non vi è prova alcuna che dall’evento dannoso (l’esclusione dal concorso) sia derivata una compromissione dell'integrità psico-fisica dei ricorrenti (Cass. civ. 31.05.2003, n. 8827) e, non essendo stato provato alcun danno emergente (quale potrebbe essere stata, ad esempio, un’eventuale spesa sostenuta da ciascun ricorrente per acquisire la possibilità di partecipare alla selezione), il Tar ha quindi verificato la misura del mancato guadagno (TAR Molise, sentenza 31.01.2019 n. 46 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: RIFIUTI - Attività di gestione di rifiuti costituiti da materiale inerte - Trasporto, deposito e abbandono in modo incontrollato sul terreno di terzi - Disciplina normativa dei rifiuti ed emergenziale - Criteri di applicazione - Art. 256 d.lgs. n. 152/2006.
In materia di rifiuti, integra il reato di cui all'art. 6, comma 1, lett. d), della legge n. 210 del 2008, la gestione di rifiuti in assenza di autorizzazione, nonché il compimento di atti idonei diretti modo non equivoco quali il trasporto a mezzo autocarro, l'abbandono in modo incontrollato e il deposito dei suddetti rifiuti sul terreno di terzi.
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RIFIUTI - Emergenza rifiuti - Questione di legittimità costituzionale - Disciplina eccezionale e temporanea - Principio della riserva di legge - Art. 6, D.L. n. 172/2008 - Giurisprudenza.
In tema di "emergenza" rifiuti, deve ritenersi manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, D.L. 06.11.2008, n. 172 per violazione dell'art. 3 Cost., poiché non lede i principi di uguaglianza e ragionevolezza la scelta normativa del legislatore di differenziare, con la previsione di una disciplina eccezionale e temporanea, l'applicazione della norma penale, apparendo oggettivamente più grave la violazione della disciplina normativa dei rifiuti nelle zone ove vige lo stato di emergenza rispetto alle altre zone del territorio nazionale dove l'emergenza non sussista o sia cessata.
Parimenti manifestamente infondato è l'ulteriore profilo di violazione del principio della riserva di legge, ex. art. 25 Cost., in materia penale poiché la durata ed estensione dello stato di emergenza costituisce mero fatto presupposto da cui dipende l'applicazione della legge penale di cui all'art. 6 del citato decreto e non è elemento costitutivo del reato.

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RIFIUTI - Stato di emergenza e adozione di norme derogatorie nel settore dei rifiuti - Criteri e presupposti.
Lo stato di emergenza costituisce il necessario presupposto di fatto per l'adozione di norme derogatorie alle ordinarie disposizioni legislative che giustificano un trattamento differenziato e non è elemento normativo della fattispecie che ne delimita l'ambito di applicazione.
Ed invero, la fattispecie penale è prevista dall'art. 6 del d.l. n. 172 del 2008, conv. dalla legge n. 210 del 2018 che punisce, quanto alla condotta tipica, le condotte ivi descritte che riprendono in larga misura quelle condotte già ricomprese nell'art. 256 del d.lgs n. 152 de 2006, condotte che se poste in essere nei territori dove vige la dichiarazione dello stato di emergenza nel settore dei rifiuti, sono punite più severamente.
La dichiarazione dello stato di emergenza, a sua volta, trova i suoi presupposti nella legge n. 252 del 1992 che attribuisce al DPCM la competenza a determinare la durata del medesimo e l'ambito spaziale in vige, cosicché l'atto diviene elemento integrativo della fattispecie penale costituendone un presupposto di fatto dal quale dipende l'applicazione dell'art. 6 del d.l. 172 del 2008
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.01.2019 n. 3582 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Rifiuti speciali prodotti da terzi - Attività di raccolta e trasporto senza autorizzazione svolta in maniera non professionale o in forma non imprenditoriale - Illecita gestione di rifiuti - Elemento psicologico del reato - Buona fede - Onere della prova - Art. 256 d.lgs. n. 152/2006.
In tema di rifiuti, integra il reato di cui all'art. 256, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 152 del 2006, l'attività di raccolta e trasporto, senza autorizzazione, di rifiuti speciali prodotti da terzi (per lo più rottami ferrosi) conferendoli presso l'impianto di recupero.
In tale ambito, non è richiesta per l'integrazione della fattispecie contravvenzionale, una vera e propria organizzazione strutturata, in quanto il reato è configurabile anche quando l'attività illecita sia svolta in maniera non professionale o in forma non imprenditoriale.
Inoltre, in tema di elemento psicologico del reato, l'ignoranza da parte dell'agente sulla normativa di settore e sull'illiceità della propria condotta è idonea ad escludere la sussistenza della colpa, se indotta da un fattore positivo esterno ricollegabile ad un comportamento della pubblica amministrazione. Nella specie, fattore neppure prospettato dal ricorrente che si è limitato, in definitiva, ad invocare la buona fede
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.01.2019 n. 3579 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Direttore dei lavori - Responsabilità ed esonero - Irregolare vigilanza sull'esecuzione delle opere edilizie - Contestazione ad altri soggetti la violazione delle prescrizioni del permesso di costruire - Rinuncia contestuale all'incarico - Comunicazione resa al dirigente UTC - Art. 29 d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
In tema di reati edilizi ed urbanistici, il direttore dei lavori è penalmente responsabile, salva l'ipotesi d'esonero prevista dall'art. 29 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, per l'attività edificatoria non conforme alle prescrizioni del permesso di costruire in caso d'irregolare vigilanza sull'esecuzione delle opere edilizie, in quanto deve sovrintendere con continuità alle opere della cui esecuzione ha assunto la responsabilità tecnica (Cass. Sez. 3, n. 14504 del 20/01/2009; Sez. 3, n. 38924 del 07/11/2006).
Pertanto, l'art. 29, comma 2, esclude la responsabilità del direttore dei lavori solo qualora abbia contestato agli altri soggetti la violazione delle prescrizioni del permesso di costruire, con esclusione delle varianti in corso d'opera, fornendo al dirigente o responsabile del competente ufficio comunale contemporanea e motivata comunicazione della violazione stessa. Nei casi di totale difformità o di variazione essenziale rispetto al permesso di costruire, il direttore dei lavori deve inoltre rinunziare all'incarico contestualmente alla comunicazione resa al dirigente.
Nella specie, nulla di tutto ciò è avvenuto e lo stesso ricorrente ha sostanzialmente ammesso di non essersi sufficientemente interessato dell'esecuzione delle opere oggetto del permesso di costruire e non si è attivato né durante né dopo la loro esecuzione per segnalare e riparare la violazione
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.01.2019 n. 2833 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Sversamento di materiale olioso inquinante - Configurabilità della responsabilità della società (rectius: del legale rappresentante) - Necessità di sopralluogo nelle aziende vicine - Esclusione se individuata la sostanza nei pozzetti dell’azienda - Presenza in azienda di impianto di riciclo dell'olio - Ininfluenza se contrastante con evidenze indiziarie - gravi - Art. 256, c. 1 e 2, d.lgs. n. 152/2006.
In tema di rifiuti, nell’ipotesi di sversamento di materiale inquinante, per la configurabilità della contravvenzione di cui all'art. 256, commi 1 e 2, d.lgs. n. 152 del 2006, non può rilevare il fatto che non siano stati effettuati sopralluoghi anche in aziende vicine, quando è sicura la presenza dello stesso materiale oleoso nei pozzetti dell’azienda -in uno con la speculare assenza dello stesso in quelli posti più a monte e con il diretto collegamento della rete fognaria aziendale con quella comunale- renda certa la responsabilità della società (rectius: del suo legale rappresentante).
Pertanto, l'eventuale sversamento di materiale inquinante anche da parte di altre aziende vicine determinerebbe, al più, una autonoma fonte di responsabilità concorrente (comunque esclusa nel caso di specie, avendo gli operanti "risalito" tutti i chiusini dal torrente fino all’azienda imputata).
Infine, neanche la presenza in azienda di impianto di riciclo dell'olio utilizzato per le lavorazioni -non attivo nel giorno del sopralluogo- in sé, non poteva contrastare le evidenze indiziarie -gravi, precise e concordanti di sversamento
(Corte di Cassazione, Sez. VII penale, ordinanza 22.01.2019 n. 2765 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il cartello dei lavori e piena conoscenza dell’autorizzazione. La presenza del cartello dei lavori integra una presunzione di conoscenza del provvedimento e dei lavori, con onere di contestarli entro i 60 giorni.
La presenza del cartello dei lavori di cantiere, per il vicino di casa, corrispondono alla piena conoscenza della concessione edilizia e della DIA, ai fini della decorrenza dei termini per la loro impugnazione.
Il Consiglio di Stato ha ritenuto tardivo il ricorso contro una concessione edilizia, ritenendo che i termini decorressero a partire dall’apposizione del cartello di cantiere.
I principi in materia di piena conoscenza e tempestiva contestazione dei titoli edilizi
Con specifico riferimento alla impugnazione dei titolo edilizi, la vicinitas di un soggetto rispetto all’area deve indurre a ritenere che lo stesso, in particolare se residente nel lotto circostante, abbia potuto avere più facilmente conoscenza dell’entità delle opere anche prima della conclusione dei lavori.
Da questo punto di vista i giudici di Palazzo Spada riprendono il principio generale, per cui la decorrenza del termine decadenziale di impugnazione 60 giorni dalla “piena conoscenza” del provvedimento non implica la conoscenza piena ed integrale del provvedimento stesso, dovendosi invece ritenere che sia sufficiente la conoscenza o la percezione dell’esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne possono evidenziare la lesività della sfera giuridica del potenziale ricorrente.
Pertanto, secondo il Consiglio di Stato, la presenza del cartello dei lavori integra poi una presunzione di conoscenza del provvedimento e della tipologia dei lavori, cosicché una successiva richiesta di accesso non è idonea a far differire i termini di proposizione del ricorso
La prova dell’apposizione del cartello di cantiere
La posizione del vicino nei confronti dei titoli edilizi è ulteriormente complicata dal fatto che l’apposizione del cartello di cantiere si presume sempre realizzata, fino a prova contraria
Infatti l’apposizione del cartello di cantiere deve poi ritenersi, in assenza di prova contraria fornita dall’appellante, intervenuta in quanto adempimento obbligatorio per il soggetto autorizzato ai lavori.
La violazione dell’obbligo di esposizione del cartello indicante gli estremi del permesso di costruire configura, infatti, una ipotesi di reato, ai sensi dell’art. 27 e 44 del TU edilizia (DPR n. 380/2001), a carico del titolare del permesso, del direttore dei lavori e dell’esecutore (commento tratto da www.giurdanella.it).
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MASSIMA
8. L’appello non è fondato.
9. L’appellante ha impugnato con il ricorso di primo grado la concessione edilizia n. 242 del 16.06.2003 rilasciata dal comune de L'aquila alla società CO.BE.CO. s.r.l., per i lavori di ristrutturazione con demolizione e ricostruzione di un fabbricato per civile abitazione.
10. Il Tar per l’Abruzzo ha tuttavia ritenuto il ricorso tardivo, mentre l’appellante col primo motivo di appello deduce di aver tempestivamente notificato il ricorso.
11. La tesi dell’appellante non è fondata.
12. Il fabbricato oggetto di giudizio e per il quale è stata rilasciata la concessione edilizia impugnata, dista pochi metri da quello della signora Se..
12.1. Come rilevato dal Tar, tale condizione di ''vicinitas'' tra le due strutture depone in senso contrario a quanto prospettato dall’appellante, la quale sostiene che solo in un secondo tempo avrebbe percepito l’esatta portata delle opere assentite.
Deve in proposito evidenziarsi che dallo stesso ricorso in appello emerge che la ricorrente aveva percepito la lesività dell’intervento ben prima del completamento dei lavori e, in particolare, al più tardi alla data dell’08.09.2005, data in cui trasmetteva al Comune una richiesta di accesso agli atti, essendo precisato a pag. 2 che “Man mano che veniva costruito il nuovo fabbricato l'appellante notava che questo presentava caratteristiche del tutto diverse da quello precedente. Pertanto, in data 08.09.2005, con lettera A.R. n. 121189249884, pervenuta all'amministrazione in data 09.09.2005 (doc. 6), ha chiesto al Comune de L'Aquila di prendere' visione del relativo fascicolo edilizio”.
Nello stesso senso alla pag. 4 dell’appello si ribadiva che “l'appellante ha potuto avere la percezione dell'aumento di cubatura e della modifica dell'altezza e della forma, solo con la realizzazione delle opere in cemento armato; L'appellante ha, pertanto, immediatamente inviato al comune de L'Aquila un'istanza per visionare il fascicolo relativo al permesso 242/03, ricevuta dallo stesso comune in data 09.09.2005, come risulta dalla relativa A.R depositata in giudizio”.
12.2. Ciò a maggior ragione considerando che la tabella di cantiere, contenente l’indicazione del titolo autorizzativo, era stata affissa da tempo (all’inizio dei lavori nel giugno 2004) e che era pertanto onere dell’appellante, in relazione alla conoscenza del provvedimento concessorio, acquisire, mediante accesso ai relativi atti, maggiori elementi di conoscibilità.
12.3. L’apposizione del cartello di cantiere deve poi ritenersi, in assenza di prova contraria fornita dall’appellante, intervenuta in quanto adempimento obbligatorio per il soggetto autorizzato ai lavori. La violazione dell'obbligo di esposizione del cartello indicante gli estremi del permesso di costruire configura, infatti, una ipotesi di reato, ai sensi dell’art. 27 e 44 del TU edilizia (DPR n. 380/2001), a carico del titolare del permesso, del direttore dei lavori e dell'esecutore (nel caso di specie nessuna denuncia di tale mancanza risulta essere stata presentata dall’appellante).
12.4. In ogni caso, la stessa appellante ha ammesso che prima della proposizione del ricorso era a conoscenza dell’inizio dei lavori (giugno 2004) e della D.I.A. in variante presentata il 26.01.2005 (quest’ultima relativa a modifiche esterne rispetto ad una struttura quasi ultimata).
12.5. Il ricorso di primo grado è stato tuttavia notificato alla Co.Be.Co il 15.11.2005 (oltre il termine del 14 novembre indicato da Cass. 02.08.1990, n. 7720), e, comunque, al Comune solo il 16.11.2005; quindi la notifica all’Amministrazione sarebbe in ogni caso intervenuta oltre il termine decadenziale di sessanta giorni di cui all’art. 21, comma 1, della legge n. 1034/1971 (“Il ricorso deve essere notificato tanto all'organo che ha emesso l'atto impugnato quanto ai controinteressati ai quali l'atto direttamente si riferisce, o almeno ad alcuno tra essi, entro il termine di sessanta giorni da quello in cui l'interessato ne abbia ricevuta la notifica, o ne abbia comunque avuta piena conoscenza […]”).
13. D’altra parte, la decorrenza di tale termine decadenziale di impugnazione non implica la conoscenza piena ed integrale del provvedimento stesso, dovendosi invece ritenere che sia sufficiente la conoscenza o la percezione dell’esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne possono evidenziare la lesività della sfera giuridica del potenziale ricorrente.
14. In particolare,
con specifico riferimento alla impugnazione dei titolo edilizi, la vicinitas di un soggetto rispetto all’area deve, come detto, indurre a ritenere che lo stesso abbia potuto avere più facilmente conoscenza dell’entità delle opere anche prima della conclusione dei lavori. In aggiunta, la presenza del cartello dei lavori integra poi una presunzione di conoscenza del provvedimento e della tipologia dei lavori, cosicché una successiva richiesta di accesso non è idonea a far differire i termini di proposizione del ricorso (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV, n. 3075/2018).
15. Restano di conseguenza assorbiti gli ulteriori motivi di gravame.
16. Per le ragioni sopra esposte l’appello va respinto e, per l’effetto, va confermata la sentenza impugnata (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.01.2019 n. 534 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La contestazione degli oneri di urbanizzazione, qualora non vengano dedotte censure derivanti da atti generali autoritativi di determinazione degli oneri presupposti di quello impugnato, attengono a posizioni di diritto soggettivo azionabili innanzi al Giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva nel termine di prescrizione, e a prescindere dall’impugnazione del relativo atto di imposizione.
Ciò in quanto gli atti con i quali, in applicazione dei criteri legislativi e regolamentari stabiliti, l’amministrazione comunale quantifica le somme dovute e le pone a carico del titolare, sia a titolo di oblazione che a titolo di contributo, hanno natura di atti paritetici. Fatta quindi eccezione per le impugnative degli atti regolamentari con i quali le Regioni e i Consigli comunali stabiliscono i criteri generali per la determinazione del contributo, tutte le altre controversie relative all’an e al quantum delle somme dovute a tali titoli, riservate dalla legge alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, riguardano diritti soggettivi delle parti in relazione ai quali l’amministrazione è sfornita di potestà autoritativa, dovendo compiere un’attività di mero accertamento in base ai parametri normativi prefissati.
Ne consegue, pertanto, il diritto per i soggetti interessati di contestare, mediante azione di accertamento, l’erroneità della imposizione operata dall’Amministrazione secondo i criteri fissati in via normativa o regolamentare, indipendentemente dalla rituale impugnazione degli atti emanati, i quali si risolvono in definitiva in mere operazioni materiali o di calcolo.

In secondo luogo, occorre evidenziare, in linea generale, che il contributo di costruzione dovuto dal soggetto che intraprenda un’iniziativa edificatoria rappresenta una compartecipazione del privato alla spesa pubblica occorrente alla realizzazione delle opere di urbanizzazione.
In altri termini, fin dalla legge che ha introdotto nell’ordinamento il principio della onerosità del titolo a costruire (art. 1 della legge n. 10 del 1977), la ragione della compartecipazione alla spesa pubblica del privato è da ricollegare sul piano eziologico al surplus di opere di urbanizzazione che l’amministrazione comunale è tenuta ad affrontare in relazione al nuovo intervento edificatorio del richiedente il titolo edilizio.
Pertanto, laddove l’intervento edilizio non determini alcun aumento del carico insediativo a livello urbanistico nessun contributo risulta dovuto in capo al privato che realizza il predetto intervento.
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Per giurisprudenza costante, “i provvedimenti con cui l'ente locale reclama somme dovute a titolo di oneri concessori non richiedono specifica motivazione, in quanto la determinazione di tali somme costituisce il risultato di una mera operazione materiale, applicativa di parametri stabiliti dalla legge o da norme di natura regolamentare stabilite dall'Amministrazione”.
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1. Parte ricorrente impugna il provvedimento del Comune di Nova Milanese che ingiunge alla società il pagamento della somma complessiva pari ad euro 143.082,64 a titolo di contributo di costruzione (oneri di urbanizzazione e costo di costruzione) per gli interventi realizzati sull’immobile sito a Nova Milanese, in via ..., n. 21 piano T-1-S1 (foglio 2, particella 26 sub 707).
2. Il Collegio ritiene di poter esaminare congiuntamente i due motivi di ricorso articolati dalla società in ragione dell’evidente connessione tra gli stessi. Infatti, con il primo motivo la società ricorrente lamenta sotto plurimi profili l’insussistenza dei presupposti per la richiesta di pagamento formulata dall’Amministrazione comunale. Con il secondo motivo la Sa.Be. – società Immobiliare s.r.l. censura il provvedimento impugnato per difetto di istruttoria e di motivazione.
2.1. Prima di entrare nel merito, pare opportuno evidenziare come la controversia debba ascriversi nell’alveo della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Infatti, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale la contestazione degli oneri di urbanizzazione, qualora non vengano dedotte censure derivanti da atti generali autoritativi di determinazione degli oneri presupposti di quello impugnato, attengono a posizioni di diritto soggettivo azionabili innanzi al Giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva nel termine di prescrizione, e a prescindere dall’impugnazione del relativo atto di imposizione (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. V, 27.09.2004, n. 6281, Id., sez. V, 09.02.2001, n. 584, Id., sez. V, 21.04.2006, n. 2258).
Ciò in quanto gli atti con i quali, in applicazione dei criteri legislativi e regolamentari stabiliti, l’amministrazione comunale quantifica le somme dovute e le pone a carico del titolare, sia a titolo di oblazione che a titolo di contributo, hanno natura di atti paritetici. Fatta quindi eccezione per le impugnative degli atti regolamentari con i quali le Regioni e i Consigli comunali stabiliscono i criteri generali per la determinazione del contributo, tutte le altre controversie relative all’an e al quantum delle somme dovute a tali titoli, riservate dalla legge alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, riguardano diritti soggettivi delle parti in relazione ai quali l’amministrazione è sfornita di potestà autoritativa, dovendo compiere un’attività di mero accertamento in base ai parametri normativi prefissati (in questi termini: Consiglio di Stato, sez. V, 22.11.1996, n. 1388; in termini, cfr. anche: TAR per la Campania – sede di Napoli, sez. III, 17.09.2009, n. 4983; TAR per il Lazio – sede di Roma, sez. II, 15.11.2006, n. 12461; TAR per la Puglia – sede di Lecce, sez. III, 13.05.2005, n. 2744).
Ne consegue, pertanto, il diritto per i soggetti interessati di contestare, mediante azione di accertamento, l’erroneità della imposizione operata dall’Amministrazione secondo i criteri fissati in via normativa o regolamentare, indipendentemente dalla rituale impugnazione degli atti emanati, i quali si risolvono in definitiva in mere operazioni materiali o di calcolo (TAR per la Campania, sede di Napoli, sez. III, 17.09.2009, n. 4983).
2.2. In secondo luogo, occorre evidenziare, in linea generale, che il contributo di costruzione dovuto dal soggetto che intraprenda un’iniziativa edificatoria “rappresenta una compartecipazione del privato alla spesa pubblica occorrente alla realizzazione delle opere di urbanizzazione. In altri termini, fin dalla legge che ha introdotto nell’ordinamento il principio della onerosità del titolo a costruire (art. 1 della legge n. 10 del 1977), la ragione della compartecipazione alla spesa pubblica del privato è da ricollegare sul piano eziologico al surplus di opere di urbanizzazione che l’amministrazione comunale è tenuta ad affrontare in relazione al nuovo intervento edificatorio del richiedente il titolo edilizio” (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 07.12.2016, n. 24).
Pertanto, laddove l’intervento edilizio non determini alcun aumento del carico insediativo a livello urbanistico nessun contributo risulta dovuto in capo al privato che realizza il predetto intervento (cfr., ancora, TAR per la Lombardia – sede di Milano – sez. II, 10.05.2018, n. 1242; Id., sez. II, 08.01.2019, n. 32).
...
4. In ultimo, risulta infondato il secondo motivo di ricorso con il quale si lamenta la carenza di motivazione del provvedimento.
In primo luogo, va notato che, per giurisprudenza costante, “i provvedimenti con cui l'ente locale reclama somme dovute a titolo di oneri concessori non richiedono specifica motivazione, in quanto la determinazione di tali somme costituisce il risultato di una mera operazione materiale, applicativa di parametri stabiliti dalla legge o da norme di natura regolamentare stabilite dall'Amministrazione” (cfr., da ultimo, TAR per la Puglia – sede di Lecce, sez. I, 04.09.2018, n. 1319).
In ogni caso, le doglianze della ricorrente sono relative all’assenza di un effettivo accertamento sulle caratteristiche degli interventi e sul mutamento della destinazione d’uso con aumento del carico urbanistico. Censure che, come spiegato, risultano infondate nel merito e non costituiscono neppure omissioni della motivazione. Infatti, il provvedimento richiama ai punti 3.1 e 3.2 le note dello S.U.E. del 30.03.2016 e del 10.05.2016 ove sono compiutamente spiegate le ragioni a sostegno della richiesta di pagamento.
Va poi considerato che la controversia in ordine alla spettanza e alla liquidazione del contributo per gli oneri di urbanizzazione, riservata alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo a norma dell'art. 16 della L. n. 10 del 1977 e, oggi, dell'articolo 133, comma 1, lettera f), c.p.a., ha ad oggetto l'accertamento di un rapporto di credito, come di recente ribadito dalla sentenza dell’Adunanza plenaria, 30.08.2018, n. 12, con conseguente inoperatività delle regole tipiche dell’attività autoritativa che, comunque, risultano rispettate nel caso di specie (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.01.2019 n. 124 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, le convenzioni urbanistiche rientrano nel novero degli accordi tra privati e amministrazione, ai sensi dell’articolo 11 della legge n. 241 del 1990.
Tale qualificazione impone che l’interpretazione della convenzione avvenga utilizzando i criteri ermeneutici di cui agli articoli 1362 e seguenti del codice civile, visto l’esplicito richiamo di cui al comma 2 dell’art. 11 medesimo, e come, del resto, confermato dalla giurisprudenza, sia di questo Tribunale sia del Consiglio di Stato.
L’operazione ermeneutica indicata al precedente punto deve, quindi, necessariamente prendere le mosse dalla disposizione contenuta all’interno dell’articolo 1362 c.c. a mente della quale: “1. Nell'interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole. 2. Per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto”.
Sul punto, la giurisprudenza della Corte di Cassazione chiarisce che:
   a) “ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti il primo e principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate”;
   b) “il rilievo da assegnare alla formulazione letterale va invero verificato alla luce dell'intero contesto contrattuale, le singole clausole dovendo essere considerate in correlazione tra loro procedendosi al relativo coordinamento ai sensi dell'art. 1363 c.c., giacché per senso letterale delle parole va intesa tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato”.
Inoltre, la Corte di Cassazione sottolinea che: “pur assumendo l'elemento letterale funzione fondamentale nella ricerca della reale o effettiva volontà delle parti, il giudice deve invero a tal fine necessariamente riguardarlo alla stregua degli ulteriori criteri di interpretazione, e in particolare di quelli (quali primari criteri d'interpretazione soggettiva, e non già oggettiva, del contratto) dell'interpretazione funzionale ex art. 1369 c.c. e dell'interpretazione secondo buona fede o correttezza ex art. 1366 c.c., avendo riguardo allo scopo pratico perseguito dalle parti con la stipulazione del contratto e quindi alla relativa causa concreta.
Il primo di tali criteri (art. 1369 c.c.) consente di accertare il significato dell'accordo in coerenza appunto con la relativa ragione pratica o causa concreta. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza ex art. 1366 c.c. quale criterio d'interpretazione del contratto (fondato sull'esigenza definita in dottrina di "solidarietà contrattuale") si specifica in particolare nel significato di lealtà, sostanziantesi nel non suscitare falsi affidamenti e non speculare su di essi, come pure nel non contestare ragionevoli affidamenti comunque ingenerati nella controparte.
A tale stregua esso non consente di dare ingresso ad interpretazioni cavillose delle espressioni letterali contenute nelle clausole contrattuali, non rispondenti alle intese raggiunte e deponenti per un significato in contrasto con la ragione pratica o causa concreta dell'accordo negoziale.
Assume dunque fondamentale rilievo che il contratto venga interpretato avuto riguardo alla sua ratio, alla sua ragione pratica, in coerenza con gli interessi che le parti hanno specificamente inteso tutelare mediante la stipulazione contrattuale, con convenzionale determinazione della regola volta a disciplinare il rapporto contrattuale (art. 1372 c.c.)”.
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1. Parte ricorrente impugna il provvedimento del Comune di Nova Milanese che ingiunge alla società il pagamento della somma complessiva pari ad euro 143.082,64 a titolo di contributo di costruzione (oneri di urbanizzazione e costo di costruzione) per gli interventi realizzati sull’immobile sito a Nova Milanese, in via ..., n. 21 piano T-1-S1 (foglio 2, particella 26 sub 707).
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3. Entrando nel merito, occorre preliminarmente verificare la correttezza della qualificazione degli interventi effettuata dall’Amministrazione che ritiene complessivamente realizzata una ristrutturazione edilizia. La valutazione si sorregge sulle risultanze del computo metrico effettuato dal responsabile dello S.U.E. del Comune di Nova Milanese, allegato all’ordinanza ingiunzione. Tale documento indica una serie di interventi ritenuti significativi per l’imposizione del contributo, suddivisi tra la fase di demolizione e quella di ricostruzione.
In relazione alla prima fase il documento elenca: a) la demolizione parziale di elementi di fabbricati (cemento armato) entro terra effettuati con mezzi meccanici; b) la demolizione di strutture di rampe e pianerottoli di scale con strutture in cemento armato e con strutture in legno e ferro; c) la demolizione di tavolati interni, carico e trasporto discarica; d) la demolizione massetti, anche armati, in calcestruzzo, compreso abbassamento del piano di carico; e) la rimozione del rivestimento dei gradini; f) la rimozione del rivestimento degli interni; g) la rimozione dei pavimenti esterni; h) la rimozione della controsoffittatura; i) la rimozione dei serramenti in legno e ferro; l) la rimozione delle linee di alimentazione impiantistiche compreso abbassamento del piano di carico; m) la rimozione completa dell’impianto dell’ascensore; n) il taglio di strutture in conglomerato cementizio per formazione di giunti, tagli, aperture vani.
Inoltre, per la fase di ricostruzione il documento indica: a) la fornitura e posa in opera di calcestruzzo durevole in accordo con la UNI En 206-1 e UNI 11104; b) la fornitura, lavorazione e posa in opera di acciaio per cemento armato secondo UNI EN 13670; c) la realizzazione di casseri per fondazioni continue, travi rovesce e platee; d) la realizzazione di casseri per pareti in elevazione per vani scala ed ascensori con altezza netta del piano di appoggio fino a 3.50 m; e) le murature a cassa vuota per chiusure perimetrali; f) il Tavolato interno di laterizio; g) l’intonaco delle pareti; h) la posa di isolamento termico compatto con sbarramento al gas Radon Rn222 sotto strutture di fondazioni orizzontali in falda (plinti, fondazioni continue, platee), eseguito con lastre o pannelli rigidi in vetro cellulare; h) la realizzazione di un vespaio areato costituito con casseri; i) la realizzazione di un massetto cementizio; l) la fornitura e posa in opera di rete zincata antiritiro; m) la realizzazione di controsoffitto; n) la realizzazione di pavimento; o) la realizzazione di servoscala; p) la realizzazione di ascensore per disabili; q) la realizzazione di impianti di montacarichi; r) la realizzazione di impianto idrico ed elettrico; s) la realizzazione di finestre e portefinestre in acciaio; t) la realizzazione di impianti di condizionamento.
3.1. Dall’indicazione fornita nel documento allegato al provvedimento impugnato e non contestato dalla parte ricorrente, emerge con chiarezza come gli interventi complessivamente realizzati costituiscano una ristrutturazione edilizia.
Come ricordato da costante giurisprudenza, “ai sensi dell'art. 10, comma 1, lettera c), tu edilizia, le opere di ristrutturazione edilizia” consistono in interventi che portano “ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e comportino, modifiche del volume o dei prospetti, nonché gli interventi che comportino modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42” (cfr., da ultimo, Consiglio di Stato, sez. VI, 14.01.2019, n. 317).
Nel caso di specie, la creazione di un organismo parzialmente diverso da quello preesistente risulta agevolmente verificabile dalla disamina dei lavori complessivamente svolti che comportano la demolizione di elementi di fabbricati, la realizzazione di scale ed ascensori per disabili, la realizzazione di tavolati interni, massetti in calcestruzzo, anche armati, il taglio di strutture in conglomerato cementizio, la creazione di vespai. Pertanto, complessivamente considerati gli interventi non possono che ritenersi rientranti nella nozione di ristrutturazione edilizia con conseguente onere di pagamento del contributo di costruzione.
3.2. In ragione di quanto esposto al precedente punto, il provvedimento comunale risulta conforme alle disposizioni normative vigenti e alla previsione abilitante la valutazione complessiva degli interventi ai fini della determinazione del contributo di costruzione.
Il riferimento è alla previsione di cui all’articolo 15, comma 5, del Regolamento Edilizio del Comune di Nova Milanese che, ex aliis, preclude “l’artificioso frazionamento degli interventi finalizzato ad eludere il versamento del contributo di costruzione o ad operare nell’ambito di una tipologia di intervento per il quale siano previste procedure più snelle”, consentendo allo S.U.E. di prendere in considerazione “precedenti interventi eseguiti nell’ultimo quinquennio”.
Né l’esclusione di tale disposizione può giustificarsi in ragione della necessità di venire incontro alla richieste formulate nel tempo da parte della locataria degli immobili atteso che è onere della ricorrente verificare preventivamente se tali richieste non incidano sugli impegni convenzionalmente assunti e, più in generale, sulle conseguenze delle risposte positive a tali richieste in termini di oneri concessori.
3.3. Inoltre, deve osservarsi come non sia fornita dalla parte una smentita puntuale della ricostruzione effettuata dal Comune considerato che la documentazione fotografica allegata (documento n. 20 di parte ricorrente) si riferisce esclusivamente all’esterno dell’immobile mentre, nel caso di specie, la comparazione deve essere effettuata in relazione all’assetto interno, oggetto dei plurimi interventi realizzati. Né tale smentita è offerta nel corso del procedimento tenuto conto che la parte nega al Comune la possibilità di un sopralluogo impedendo, in tal modo, di apprezzare l’effettivo stato dell’immobile.
Il diniego all’accesso non pare, inoltre, sorretto da apprezzabili ragioni. La parte evidenzia che il sopralluogo sarebbe “pretestuoso e non dovuto” atteso che un precedente sopralluogo viene svolto in occasione del rilascio del certificato di agibilità. Tuttavia, è evidente come si sarebbe trattato di un sopralluogo dettato da una diversa necessità ed ossia da quella di apprezzare il complesso degli interventi eseguiti.
3.4. L’operazione di qualificazione degli interventi effettuata dal Comune non risulta illegittima per mancata rimozione dei titoli che, come ribadito dall’Amministrazione in sede procedimentale e processuale, rimangono validi ed efficaci. Infatti, la richiesta di intervento postula la validità del titolo e non ne impone la preventiva rimozione atteso che, diversamente, la richiesta di pagamento risulterebbe priva di causa. Né una diversa conclusione può affermarsi in ragione della previsione di cui all’articolo 7 della convenzione del 15.11.2012 atteso che l’esonero dal pagamento del contributo si riferisce ai soli interventi di manutenzione e già aventi destinazione d’uso direzionale.
Deve considerarsi, infatti, che secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, le convenzioni urbanistiche –come quella in esame– rientrano nel novero degli accordi tra privati e amministrazione, ai sensi dell’articolo 11 della legge n. 241 del 1990 (cfr., ex multis: Cassazione civile, sez. I, 28.01.2015, n. 1615; Cassazione civile, sezioni unite, 09.03.2012, n. 3689; nella giurisprudenza di questa sezione, cfr. TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 18.06.2018, n. 1525).
Tale qualificazione impone che l’interpretazione della convenzione avvenga utilizzando i criteri ermeneutici di cui agli articoli 1362 e seguenti del codice civile, visto l’esplicito richiamo di cui al comma 2 dell’art. 11 medesimo, e come, del resto, confermato dalla giurisprudenza, sia di questo Tribunale sia del Consiglio di Stato (cfr., ex multis, TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 05.05.2015, n. 1103, e la giurisprudenza ivi richiamata; Consiglio di Stato, sez. IV, 17.12.2014, n. 6164).
3.4.1. L’operazione ermeneutica indicata al precedente punto deve, quindi, necessariamente prendere le mosse dalla disposizione contenuta all’interno dell’articolo 1362 c.c. a mente della quale: “1. Nell'interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole. 2. Per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto”.
Sul punto, la giurisprudenza della Corte di Cassazione chiarisce che:
   a) “ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti il primo e principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate” (cfr., Cassazione civile, sez. III, 19.03.2018, n. 6675);
   b) “il rilievo da assegnare alla formulazione letterale va invero verificato alla luce dell'intero contesto contrattuale, le singole clausole dovendo essere considerate in correlazione tra loro procedendosi al relativo coordinamento ai sensi dell'art. 1363 c.c., giacché per senso letterale delle parole va intesa tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato” (Cfr. Cassazione civile, sez. III, 16.01.2007, n. 828; Cassazione civile, sez. I, 22.12.2005, n. 28479).
Inoltre, la Corte di Cassazione sottolinea che: “pur assumendo l'elemento letterale funzione fondamentale nella ricerca della reale o effettiva volontà delle parti, il giudice deve invero a tal fine necessariamente riguardarlo alla stregua degli ulteriori criteri di interpretazione, e in particolare di quelli (quali primari criteri d'interpretazione soggettiva, e non già oggettiva, del contratto: v. Cass., 23/10/2014, n. 22513; Cass., 27/06/2011, n. 14079; Cass., 23/05/2011, n. 11295; Cass., 19/05/2011, n. 10998; con riferimento agli atti unilaterali v. Cass., 06/05/2015, n. 9006) dell'interpretazione funzionale ex art. 1369 c.c. e dell'interpretazione secondo buona fede o correttezza ex art. 1366 c.c., avendo riguardo allo scopo pratico perseguito dalle parti con la stipulazione del contratto e quindi alla relativa causa concreta (cfr. Cass., 23/05/2011, n. 11295).
Il primo di tali criteri (art. 1369 c.c.) consente di accertare il significato dell'accordo in coerenza appunto con la relativa ragione pratica o causa concreta. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza ex art. 1366 c.c. quale criterio d'interpretazione del contratto (fondato sull'esigenza definita in dottrina di "solidarietà contrattuale") si specifica in particolare nel significato di lealtà, sostanziantesi nel non suscitare falsi affidamenti e non speculare su di essi, come pure nel non contestare ragionevoli affidamenti comunque ingenerati nella controparte (v. Cass., 06/05/2015, n. 9006; Cass., 23/10/2014, n. 22513; Cass., 25/05/2007, n. 12235; Cass., 20/05/2004, n. 9628).
A tale stregua esso non consente di dare ingresso ad interpretazioni cavillose delle espressioni letterali contenute nelle clausole contrattuali, non rispondenti alle intese raggiunte (v. Cass., 23/05/2011, n. 11295) e deponenti per un significato in contrasto con la ragione pratica o causa concreta dell'accordo negoziale (cfr., con riferimento alla causa concreta del contratto autonomo di garanzia, Cass., Sez. Un., 18/02/2010, n. 3947).
Assume dunque fondamentale rilievo che il contratto venga interpretato avuto riguardo alla sua ratio, alla sua ragione pratica, in coerenza con gli interessi che le parti hanno specificamente inteso tutelare mediante la stipulazione contrattuale (v. Cass., 22/11/2016, n. 23701), con convenzionale determinazione della regola volta a disciplinare il rapporto contrattuale (art. 1372 c.c.)
” (Cassazione civile, sez. III, 19.03.2018, n. 6675).
3.4.2. Applicando le coordinate ermeneutiche sopra tracciate al caso di specie, deve ritenersi che con la clausola si sia inteso esclusivamente determinare un esonero dal versamento del pagamento nei casi di realizzazione di interventi meramente manutentivi. La clausola, al contrario, non inibisce la formazione dei titoli edilizi che, come osservato dal Comune, continuano a permanere validi ed efficaci e non possono annullarsi per la sola contrarietà alla clausola.
Ciò che le parti hanno inteso disciplinare è, pertanto, la sola esclusione del pagamento ove gli interventi rimangano nell’alveo stabilito in sede convenzionale. Ne consegue che, superato il perimetro applicativo della clausola, trovano applicazione le regole generali che impongono il pagamento del contributo. Del resto, la clausola appare rispondente al principio generale indicato al punto 2.2 di questa parte della presente sentenza ove si esclude l’onere di pagamento in caso di mancato aumento dell’onere insediativo che, al contrario, si realizza nel caso di specie (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.01.2019 n. 124 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La disposizione di cui all’articolo 43, comma 1, della L.R. 12 del 2005 prevede: “I titoli abilitativi per interventi di nuova costruzione, ampliamento di edifici esistenti e ristrutturazione edilizia sono soggetti alla corresponsione degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, nonché del contributo sul costo di costruzione, in relazione alle destinazioni funzionali degli interventi stessi”.
Come notato dalla sezione, la disposizione “non distingue, all’interno della categoria della ristrutturazione edilizia, fra interventi che determinano ed interventi che non determinano un aumento del carico urbanistico”; distinzione che, al contrario, viene presa in considerazione dalla normativa statale di riferimento.
Tuttavia, “l’aumento del carico urbanistico non si realizza solo in caso di modifica della destinazione funzionale dell’immobile, ben potendo accadere che, come nel caso in esame, esso si determini anche qualora la destinazione non venga mutata, essendo a tal fine esclusivamente rilevante la circostanza che le opere si prestino a rendere la struttura un polo di attrazione per un maggior numero di persone con conseguente necessità di più intenso utilizzo delle urbanizzazioni esistenti”.
Nel caso di specie, l’immobile perde la destinazione originariamente assentita ed assume una diversa funzione divenendo un polo attrattivo per l’attività di ristorazione ivi svolta e determinando un vantaggio patrimoniale per il proprietario, testimoniato dal bilancio d’esercizio prodotto dalla difesa comunale.
Pertanto, pur ammettendo il mancato mutamento della destinazione, sussistono, in ogni caso, le circostanze che legittimano la pretesa comunale.
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1. Parte ricorrente impugna il provvedimento del Comune di Nova Milanese che ingiunge alla società il pagamento della somma complessiva pari ad euro 143.082,64 a titolo di contributo di costruzione (oneri di urbanizzazione e costo di costruzione) per gli interventi realizzati sull’immobile sito a Nova Milanese, in via ..., n. 21 piano T-1-S1 (foglio 2, particella 26 sub 707).
...
3.5. In relazione al profilo da ultimo evidenziato nel precedente punto deve poi osservarsi come la disposizione di cui all’articolo 43, comma 1, della L.R. 12 del 2005 preveda: “I titoli abilitativi per interventi di nuova costruzione, ampliamento di edifici esistenti e ristrutturazione edilizia sono soggetti alla corresponsione degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, nonché del contributo sul costo di costruzione, in relazione alle destinazioni funzionali degli interventi stessi”.
Come notato dalla sezione, la disposizione “non distingue, all’interno della categoria della ristrutturazione edilizia, fra interventi che determinano ed interventi che non determinano un aumento del carico urbanistico”; distinzione che, al contrario, viene presa in considerazione dalla normativa statale di riferimento (TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 04.08.2016, n. 1561).
Tuttavia, nel caso di specie, non risulta necessario porsi il problema relativo alla prevalenza di uno dei due complessi normativi atteso che, comunque, si realizza un aumento del carico urbanistico.
Come spiegato dalla sentenza della sezione in ultimo richiamata, “l’aumento del carico urbanistico non si realizza solo in caso di modifica della destinazione funzionale dell’immobile, ben potendo accadere che, come nel caso in esame, esso si determini anche qualora la destinazione non venga mutata, essendo a tal fine esclusivamente rilevante la circostanza che le opere si prestino a rendere la struttura un polo di attrazione per un maggior numero di persone con conseguente necessità di più intenso utilizzo delle urbanizzazioni esistenti” (TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 04.08.2016, n. 1561).
Nel caso di specie, l’immobile perde la destinazione originariamente assentita ed assume una diversa funzione divenendo un polo attrattivo per l’attività di ristorazione ivi svolta e determinando un vantaggio patrimoniale per il proprietario, testimoniato dal bilancio d’esercizio prodotto dalla difesa comunale. Pertanto, pur ammettendo il mancato mutamento della destinazione, sussistono, in ogni caso, le circostanze che legittimano la pretesa comunale (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.01.2019 n. 124 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - TRIBUTI: RIFIUTI - Criteri di assimilabilità ai rifiuti urbani i rifiuti speciali - Potere regolamentare dei Comuni in assenza del decreto Ministeriale - Criteri qualitativi e quantitativi per la gestione dei rifiuti speciali assimilati a quelli urbani - Art. 195, c. 2, lett. e), d.lgs. n. 152/2006.
L'articolo 195, comma 2, lettera e), del d.lgs. n. 152 del 2006 non può, in virtù di disposizioni dotate anch'esse di forza di legge, divenire operativo in assenza del decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, adottato d'intesa con il Ministro dello sviluppo economico, il quale è finalizzato a definire "i criteri per l'assimilabilità ai rifiuti urbani" ed è menzionato nello stesso articolo 195.
Pertanto, continua a sussistere il potere regolamentare dei Comuni di assimilare a quelli urbani i rifiuti speciali, che era stato mantenuto fermo dall'articolo 21, comma 2, lettera g), del d.lgs. n. 22 del 1997, sicché la deliberazione relativa, ove adottata, costituisce titolo per la riscossione della tassa nei confronti dei soggetti che tali rifiuti producano nel territorio comunale, a prescindere dal fatto che il contribuente ne affidi a terzi lo smaltimento.
A conferma della inapplicabilità del d.lgs. n. 152 del 2006 la giurisprudenza di legittimità menziona pure la sentenza n. 4611/2017 del Tar Lazio, che ha imposto al Ministero dell'Ambiente di adottare con decreto i criteri qualitativi e quantitativi per la gestione dei rifiuti speciali assimilati a quelli urbani
(Cass., Sez. 5, n. 9214 del 13/04/2018; Cass., Sez. 5, n. 1987 del 26/01/2018; Cass., Sez. 5, n. 18101 del 21/07/2017; Cass., Sez. 5, n. 17932 del 06/09/2004; Cass., Sez. 5, n. 4960 del 02/03/2018)
(Corte di Cassazione, Sez. V civile, ordinanza 18.01.2019 n. 1344 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: In caso di rinvenimento di rifiuti da parte di terzi ignoti, il proprietario non può essere chiamato a rispondere della fattispecie di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti sulla propria area se non viene individuato a suo carico l'elemento soggettivo del dolo o della colpa, per cui lo stesso soggetto non può essere destinatario di ordinanza sindacale di rimozione e rimessione in pristino.
Tanto perché l'art. 14 D.L.vo 05.02.1997, n. 22, in tema di divieto di abbandono incontrollato sul suolo e nel suolo, oltre a chiamare a rispondere dell'illecito ambientale l'eventuale "responsabile dell'inquinamento", accolla in solido anche al proprietario dell'area la rimozione, l'avvio a recupero o lo smaltimento dei rifiuti ed il ripristino dello stato dei luoghi, ma ciò solo nel caso in cui la violazione sia imputabile a titolo di dolo o di colpa.
Tale rigorosa disciplina trova conferma nel sistema normativo attualmente vigente, quale quello del D.L.vo n. 152/2006, segnatamente nel disposto di cui all'art. 192, in tema di ambiente, con la conseguente illegittimità degli ordini di smaltimento dei rifiuti indiscriminatamente rivolti al proprietario di un fondo in ragione della sua mera qualità ed in mancanza di adeguata dimostrazione da parte dell'Amministrazione procedente, sulla base di un'istruttoria completa e di un'esauriente motivazione, dell'imputabilità soggettiva della condotta.
In siffatto disposto normativo tutto incentrato su una rigorosa tipicità dell'illecito ambientale, alcun spazio v'è per una responsabilità oggettiva, nel senso che -in base all'art. 192- per essere ritenuti responsabili della violazione dalla quale è scaturita la situazione di inquinamento, occorre quantomeno la colpa. E tale regola di imputabilità a titolo di dolo o colpa non ammette eccezioni, anche in relazione ad un'eventuale responsabilità solidale del proprietario dell'area ove si è verificato l'abbandono ed il deposito incontrollato di rifiuti sul suolo e nel suolo.
Infatti non facendosi cenno nell'ordinanza impugnata ad accertamenti o a verifiche dai quali emerga che l'abbandono dei rifiuti sia ascrivibile (anche) a responsabilità dei ricorrenti, una presunta culpa in vigilando di questi ultimi (comunque non evidenziata nel gravato provvedimento) non sarebbe in ogni caso sufficiente ad addebitargli la responsabilità per lo sversamento di rifiuti.
Infatti, il dovere di diligenza che fa carico al titolare del fondo, non può arrivare al punto di richiedere un costante vigilanza, da esercitarsi giorno e notte, per impedire ad estranei di invadere l'area e, per quanto riguarda la fattispecie regolata dall'art. 14, comma 3, del D.L.vo n. 22 del 1997 (ora art. 192 del D.L.vo n. 152 del 2006) di abbandonarvi rifiuti. La richiesta di un impegno di tale entità travalicherebbe oltremodo gli ordinari canoni della diligenza media (e del buon padre di famiglia) che è alla base della nozione di colpa.
Ne deriva che, in tale situazione, e senza che sia stato comprovato l'esistenza di un nesso causale tra la condotta del proprietario e l'abusiva immissione di rifiuti nell'ambiente, un concreto obbligo di garanzia a carico dei ricorrenti, per la mera qualità di proprietari, sarebbe inesigibile, in quanto riconducibile ad una responsabilità oggettiva che, però, esula anche dal dovere di custodia di cui all'art. 2051 cod. civ., il quale consente sempre la prova liberatoria in presenza di caso fortuito (da intendersi in senso ampio, comprensiva anche del fatto del terzo e della colpa esclusiva del danneggiato).
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Mentre l'art. 7 della legge n. 241/1990, con previsione di carattere generale, prescrive la doverosa comunicazione dell'avvio del procedimento agli interessati, l'art. 192, comma 3, D.L.vo n. 152/2006, nella specifica materia ambientale, prescrive che i controlli svolti dall'Amministrazione riguardo all'abbandono di rifiuti debbano essere effettuati in contraddittorio con i soggetti interessati, con la conseguente osservanza delle regole che garantiscono la partecipazione dell'interessato all'istruttoria amministrativa.
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11. Peraltro, a prescindere da tale motivo di carattere assorbente, il ricorso appare fondato anche in relazione agli ulteriori due motivi di ricorso.
12. Quanto al secondo motivo di ricorso va rammentato che la giurisprudenza ha infatti evidenziato in numerose occasioni (ex multis, cfr.: TAR Campania, sez. V, 06.10.2008, n. 13004), che, in caso di rinvenimento di rifiuti da parte di terzi ignoti, il proprietario non può essere chiamato a rispondere della fattispecie di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti sulla propria area se non viene individuato a suo carico l'elemento soggettivo del dolo o della colpa, per cui lo stesso soggetto non può essere destinatario di ordinanza sindacale di rimozione e rimessione in pristino (cfr.: TAR Campania, Sez. I; 19.03.2004, n. 3042, TAR Toscana, 12.05.2003, n. 1548, C. di S., IV Sez. 20.01.2003, n. 168).
Tanto perché l'art. 14 D.L.vo 05.02.1997, n. 22, in tema di divieto di abbandono incontrollato sul suolo e nel suolo, oltre a chiamare a rispondere dell'illecito ambientale l'eventuale "responsabile dell'inquinamento", accolla in solido anche al proprietario dell'area la rimozione, l'avvio a recupero o lo smaltimento dei rifiuti ed il ripristino dello stato dei luoghi, ma ciò solo nel caso in cui la violazione sia imputabile a titolo di dolo o di colpa (Cfr.: TAR Lombardia, Sez. I, 26.01.2000, n. 292 e TAR Umbria 10.03.2000, n. 253).
Tale rigorosa disciplina trova conferma nel sistema normativo attualmente vigente, quale quello del D.L.vo n. 152/2006, segnatamente nel disposto di cui all'art. 192, in tema di ambiente, con la conseguente illegittimità degli ordini di smaltimento dei rifiuti indiscriminatamente rivolti al proprietario di un fondo in ragione della sua mera qualità ed in mancanza di adeguata dimostrazione da parte dell'Amministrazione procedente, sulla base di un'istruttoria completa e di un'esauriente motivazione, dell'imputabilità soggettiva della condotta (Cfr. C. di S., V, 19.03.2009, n. 1612, 25.08.2008, n. 4061).
In siffatto disposto normativo tutto incentrato su una rigorosa tipicità dell'illecito ambientale, alcun spazio v'è per una responsabilità oggettiva, nel senso che -in base all'art. 192- per essere ritenuti responsabili della violazione dalla quale è scaturita la situazione di inquinamento, occorre quantomeno la colpa. E tale regola di imputabilità a titolo di dolo o colpa non ammette eccezioni, anche in relazione ad un'eventuale responsabilità solidale del proprietario dell'area ove si è verificato l'abbandono ed il deposito incontrollato di rifiuti sul suolo e nel suolo (TAR Campania, sez. V 03/03/2014 n. 1294).
Infatti non facendosi cenno nell'ordinanza impugnata ad accertamenti o a verifiche dai quali emerga che l'abbandono dei rifiuti sia ascrivibile (anche) a responsabilità dei ricorrenti, una presunta culpa in vigilando di questi ultimi (comunque non evidenziata nel gravato provvedimento) non sarebbe in ogni caso sufficiente ad addebitargli la responsabilità per lo sversamento di rifiuti.
Infatti, il dovere di diligenza che fa carico al titolare del fondo, non può arrivare al punto di richiedere un costante vigilanza, da esercitarsi giorno e notte, per impedire ad estranei di invadere l'area e, per quanto riguarda la fattispecie regolata dall'art. 14, comma 3, del D.L.vo n. 22 del 1997 (ora art. 192 del D.L.vo n. 152 del 2006) di abbandonarvi rifiuti. La richiesta di un impegno di tale entità travalicherebbe oltremodo gli ordinari canoni della diligenza media (e del buon padre di famiglia) che è alla base della nozione di colpa, (Cfr., ex plurimis: C. di S., Sez. V, 08.03.2005, n. 935; TAR Campania, Sez. V, 05.08.2008, n. 9795; TAR Campania, sez. V 03/03/2014 n. 1294 cit.).
Ne deriva che, in tale situazione, e senza che sia stato comprovato l'esistenza di un nesso causale tra la condotta del proprietario e l'abusiva immissione di rifiuti nell'ambiente, un concreto obbligo di garanzia a carico dei ricorrenti, per la mera qualità di proprietari, sarebbe inesigibile, in quanto riconducibile ad una responsabilità oggettiva che, però, esula anche dal dovere di custodia di cui all'art. 2051 cod. civ., il quale consente sempre la prova liberatoria in presenza di caso fortuito (da intendersi in senso ampio, comprensiva anche del fatto del terzo e della colpa esclusiva del danneggiato).
12.1. Ciò a prescindere dalla circostanza, dedotta in ricorso, che il fondo de quo non sarebbe nella disponibilità del ricorrenti in quanto oggetto di contratto di affitto tuttora in essere.
13. Quanto si è andato esponendo rafforza la fondatezza del terzo motivo di ricorso, attinente alla violazione delle regole poste a presidio del giusto procedimento e del principio del contraddittorio.
Al riguardo, mentre l'art. 7 della legge n. 241/1990, con previsione di carattere generale, prescrive la doverosa comunicazione dell'avvio del procedimento agli interessati, l'art. 192, comma 3, D.L.vo n. 152/2006, nella specifica materia ambientale, prescrive che i controlli svolti dall'Amministrazione riguardo all'abbandono di rifiuti debbano essere effettuati in contraddittorio con i soggetti interessati, con la conseguente osservanza delle regole che garantiscono la partecipazione dell'interessato all'istruttoria amministrativa [ex multis TAR Campania, sez. V 03/03/2014 n. 1294 cit.; TAR Lazio-Roma sez. 2° 17/09/20013 n. 8302 secondo cui "ai procedimenti preordinati all'emanazione dell'ordinanza di rimozione e smaltimento dei rifiuti ai sensi dell'art. 192 del d.lgs. n. 152 del 2006, si deve applicare la disciplina sulla comunicazione di avvio del procedimento ex articolo 7 della legge n. 241 del 1990, in quanto adempimento obbligatorio, rispetto al quale risulta recessivo, nella specifica materia, l'articolo 21-octies, con conseguente illegittimità dell'ordinanza non preceduta dalla comunicazione stessa (TAR Lombardia-Milano, sez. IV, 14.01.2013, n. 93)"].
Al riguardo non solo nell'ordinanza gravata non vi è alcun riferimento al preventivo invio della nota di comunicazione di avvio del procedimento, ma l'Amministrazione, non avendo inteso costituirsi, non ha fornito alcuna prova, come suo onere (stante il principio della vicinanza della prova e dell'impossibilità di prova negativa, richiamati tra le altre dalla nota sentenza SS.UU. n. 13533 del 30.10.2001) dell'invio di tale nota.
14. Il ricorso va dunque accolto, con conseguente annullamento dell’ordinanza gravata (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 15.01.2019 n. 211 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Discarica abusiva - Responsabilità e limiti del proprietario del terreno - Accordo verbale con il proprietario - Concorso nel reato - Condotta commissiva alla illecita gestione dei rifiuti - Art. 184-bis, 256 d.lvo n. 152/2006 - Giurisprudenza.
In linea generale, il proprietario di un terreno non risponde, in quanto tale, dei reati di realizzazione e gestione di discarica non autorizzata o di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti non autorizzata, anche nel caso in cui non si attivi per la rimozione dei rifiuti, in quanto tale responsabilità sussiste solo in presenza di un obbligo giuridico di impedire la realizzazione o il mantenimento dell'evento lesivo, che il proprietario può assumere solo ove compia atti di gestione o movimentazione dei rifiuti.
Inoltre, la condotta prevista dall'art. 256, comma 3, d.lgs. 152/2006 riguarda l'abusiva realizzazione e gestione di una discarica, cui consegue la confisca obbligatoria dell'area ad essa adibita, mentre, è illegittima la confisca dell'area con riguardo al reato di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti.
Fattispecie: deposito incontrollato di rifiuti da parte di un terzo a seguito di accordo verbale con il proprietario che in tal modo concorreva nel reato con una condotta commissiva alla illecita gestione dei rifiuti
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.01.2019 n. 1517 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’opera abusiva consiste nella chiusura di un balcone mediante la costruzione di muri perimetrali e di una copertura.
Trattandosi di un ampliamento del manufatto “all'esterno della sagoma esistente”, esso costituisce “nuova costruzione” (art. 3, lett. e.1), D.P.R. 380/2001); la qualificazione in termini di ristrutturazione edilizia operata dal Comune è, quindi, errata per difetto e non per eccesso come pretenderebbe la parte ricorrente.
Il regime autorizzativo è, peraltro, il medesimo in quanto per entrambe le tipologie di intervento è richiesto il permesso di costruire ed è applicabile la sanzione demolitoria (artt. 10, 31, 33 D.P.R. 380/2001).
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1 – La parte ricorrente, Ca.BE., ha impugnato il provvedimento, indicato in epigrafe, con cui il Comune di Napoli ha ordinato la demolizione delle opere con cui la stessa ha “chiuso” il balconcino di servizio mediante la costruzione di pareti in muratura e di una copertura in lamiere (dimensioni m 3,50 x 2,00 x 3,00 di altezza).
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3 – Il ricorso è manifestamente infondato.
L’opera, come descritta in fatto, consiste nella chiusura di un balcone mediante la costruzione di muri perimetrali e di una copertura. Trattandosi di un ampliamento del manufatto “all'esterno della sagoma esistente”, esso costituisce “nuova costruzione” (art. 3, lett. e.1), D.P.R. 380/2001); la qualificazione in termini di ristrutturazione edilizia operata dal Comune è, quindi, errata per difetto e non per eccesso come pretenderebbe la parte ricorrente.
Il regime autorizzativo è, peraltro, il medesimo in quanto per entrambe le tipologie di intervento è richiesto il permesso di costruire ed è applicabile la sanzione demolitoria (artt. 10, 31, 33 D.P.R. 380/2001) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 10.01.2019 n. 137 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il provvedimento sanzionatorio di abusi edilizi è da intendersi quale atto rigidamente vincolato e la vincolatezza dell’ordine di demolizione -in presenza di un intervento di nuova costruzione pacificamente effettuato senza titolo- rende ultronea una puntuale motivazione sull’interesse pubblico alla demolizione, sull’effettivo danno all’ambiente o al paesaggio (in rapporto anche al già elevato grado di urbanizzazione dell’area) o, ancora, sulla proporzionalità in relazione al sacrificio imposto al privato: è sufficiente evidenziare la violazione della normativa edilizia e l’avvenuta costruzione in assenza del titolo abilitativo, ciò che nel caso di specie è avvenuto..
L’interesse pubblico alla demolizione è, infatti, ‘in re ipsa’, consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato.
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Ancora, occorre ribadire che, come affermato univocamente in giurisprudenza, in presenza di un abuso edilizio, la vigente normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo all'autorità comunale, prima di emanare l'ordinanza di demolizione, di verificarne la sanabilità ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001.
Tanto si evince chiaramente dagli artt. 27 e 31, d.P.R. n. 380 del 2001 che, in tal caso, obbligano il responsabile del competente ufficio comunale a reprimere l'abuso, senza alcuna valutazione di sanabilità, nonché dagli stessi artt. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 e 167, co. 5, d.lgs. 42/2004, che rimettono all'esclusiva iniziativa della parte interessata l'attivazione del procedimento di accertamento di conformità urbanistica ivi disciplinato.
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Come più volte affermato dal Giudice Amministrativo, l'ordinanza di demolizione «va emanata senza indugio e, in quanto tale, non deve essere preceduta da comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche, secondo un procedimento di natura vincolata tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato, che si ricollega ad un preciso presupposto di fatto, cioè l'abuso, di cui peraltro l'interessato non può non essere a conoscenza, rientrando direttamente nella sua sfera di controllo».
Peraltro, non può dubitarsi dell’operatività dell’art. 21-octies, co. 2, secondo periodo, della legge 241 del 1990 a mente del quale «il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato».
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4 – Tanto dimostra l’infondatezza delle censure proposte in quanto, come si è costantemente affermato da parte della giurisprudenza amministrativa e anche da questa Sezione, il provvedimento sanzionatorio di abusi edilizi è da intendersi quale atto rigidamente vincolato e la vincolatezza dell’ordine di demolizione -in presenza di un intervento di nuova costruzione pacificamente effettuato senza titolo- rende ultronea una puntuale motivazione sull’interesse pubblico alla demolizione, sull’effettivo danno all’ambiente o al paesaggio (in rapporto anche al già elevato grado di urbanizzazione dell’area) o, ancora, sulla proporzionalità in relazione al sacrificio imposto al privato: è sufficiente evidenziare la violazione della normativa edilizia e l’avvenuta costruzione in assenza del titolo abilitativo, ciò che nel caso di specie è avvenuto (cfr., ex multis, TAR Campania Napoli, sez. VI, n. 9718/2008 e 4037/2013).
L’interesse pubblico alla demolizione è, infatti, ‘in re ipsa’, consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato (fra le tante: cfr. C.d.S. sez. V, 09.09.2013, n. 4470, C.d.S., sez. IV, 12.04.2011, n. 2266, TAR Campania Napoli, sez. II, 14.02.2011, n. 922; TAR Campania, sez. IV, n. 5236/2015).
5 – Ancora, occorre ribadire che, come affermato univocamente in giurisprudenza, in presenza di un abuso edilizio, la vigente normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo all'autorità comunale, prima di emanare l'ordinanza di demolizione, di verificarne la sanabilità ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001.
Tanto si evince chiaramente dagli artt. 27 e 31, d.P.R. n. 380 del 2001 che, in tal caso, obbligano il responsabile del competente ufficio comunale a reprimere l'abuso, senza alcuna valutazione di sanabilità, nonché dagli stessi artt. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 e 167, co. 5, d.lgs. 42/2004, che rimettono all'esclusiva iniziativa della parte interessata l'attivazione del procedimento di accertamento di conformità urbanistica ivi disciplinato (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VI, n. 5226/2013 e n. 227/2015; TAR Campania–Napoli, sez. IV, 06.07.2007, n. 6552).
È pacifico, peraltro, nessuna richiesta di sanatoria sia stata presentata. Anche da questo punto di vista non sussiste, quindi, alcun difetto di motivazione.
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7 - La descritta vincolatezza dell’ordine di demolizione determina, altresì, l’infondatezza della censura relativa alla mancata comunicazione di avvio del procedimento (ex L. 241/1990).
Come più volte affermato dal Giudice Amministrativo, infatti, l'ordinanza di demolizione «va emanata senza indugio e, in quanto tale, non deve essere preceduta da comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di una misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di disposizioni urbanistiche, secondo un procedimento di natura vincolata tipizzato dal legislatore e rigidamente disciplinato, che si ricollega ad un preciso presupposto di fatto, cioè l'abuso, di cui peraltro l'interessato non può non essere a conoscenza, rientrando direttamente nella sua sfera di controllo» (TAR Napoli, sez. III, 07/09/2015, n. 4392).
Peraltro, non può dubitarsi dell’operatività dell’art. 21-octies, co. 2, secondo periodo, della legge 241 del 1990 a mente del quale «il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato» (sul punto, la giurisprudenza, anche della sezione è costante; v., ex plurimis, Cons. St., sez. IV, 26.08.2014 n. 4279; id., 07.07.2014 n. 3438; id., 20.05.2014 n. 2568; id., 09.05.2014 n. 2380; TAR Milano, sez. IV, 22.05.2014 n. 1324; TAR Napoli sez. IV, 16.05.2014 n. 2718; id., sez. II 15.05.2014 n. 2713; id., 18.12.2013, n. 5853 e n. 5811) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 10.01.2019 n. 137 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Quanto alla mancata considerazione della impossibilità di effettuare il ripristino senza danneggiare le porzioni del fabbricato illegittimamente edificate, va detto che la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria attiene alla fase dell'esecuzione dell'ordine di ripristino e presuppone, da parte del destinatario, la prova dell’impossibilità di demolire senza nocumento per la restante parte (legittima) dell’immobile.
Sul punto, va ribadito, per un verso, che, mentre l’ingiunzione di demolizione costituisce la prima ed obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto ha natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo analitico-ricognitivo dell’abuso commesso, il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell’abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria (art. 33, co. 2, d.p.r. 380/2001) può essere effettuato soltanto in un secondo momento, cioè quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e l'organo competente emana l'ordine (indirizzato ai competenti uffici dell’Amministrazione) di esecuzione in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire o delle opere edili costruite in parziale difformità dallo stesso; soltanto nella predetta seconda fase non può ritenersi legittima l’ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi valutazione intorno all'entità degli abusi commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria, sempre se vi sia stata la richiesta dell'interessato in tal senso.
Per altro verso, l’affermazione sul pregiudizio del preesistente non è supportata da elementi tecnici atti a dimostrare la sussistenza del pregiudizio di cui l’amministrazione si sarebbe dovuta far carico: il che preclude l’ingresso all’accoglimento di tale profilo di denuncia alla stregua del condiviso orientamento giurisprudenziale secondo cui la sanzione pecuniaria va disposta, in via alternativa, “soltanto” nel caso in cui sia “oggettivamente impossibile” procedere alla demolizione e, quindi, “soltanto” nel caso in cui risulti “in maniera inequivoca che la demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla stabilità dell’edificio nel suo complesso senza che, pertanto, possano venire in rilievo aspetti relativi all’eccessiva onerosità dell’intervento”.
In merito, va detto che, per la stessa natura dell’intervento, consistente in una superfetazione edificata su un balconcino, appare evidente la possibilità di rimuovere la volumetria abusiva senza alcun apprezzabile pregiudizio delle altre porzioni del fabbricato.
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6 - Quanto alla mancata considerazione della impossibilità di effettuare il ripristino senza danneggiare le porzioni del fabbricato illegittimamente edificate, va detto che la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria attiene alla fase dell'esecuzione dell'ordine di ripristino e presuppone, da parte del destinatario, la prova dell’impossibilità di demolire senza nocumento per la restante parte (legittima) dell’immobile.
Sul punto, va ribadito, per un verso, che, mentre l’ingiunzione di demolizione costituisce la prima ed obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto ha natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo analitico-ricognitivo dell’abuso commesso, il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell’abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria (art. 33, co. 2, d.p.r. 380/2001) può essere effettuato soltanto in un secondo momento, cioè quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e l'organo competente emana l'ordine (indirizzato ai competenti uffici dell’Amministrazione) di esecuzione in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire o delle opere edili costruite in parziale difformità dallo stesso; soltanto nella predetta seconda fase non può ritenersi legittima l’ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi valutazione intorno all'entità degli abusi commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria, sempre se vi sia stata la richiesta dell'interessato in tal senso (ex multis, v. Sent. TAR Napoli, sez. IV, n. 3120/2015, cit., nonché TAR Napoli, sez. VII, 14.06.2010 n. 14156).
Per altro verso, l’affermazione sul pregiudizio del preesistente non è supportata da elementi tecnici atti a dimostrare la sussistenza del pregiudizio di cui l’amministrazione si sarebbe dovuta far carico: il che preclude l’ingresso all’accoglimento di tale profilo di denuncia alla stregua del condiviso orientamento giurisprudenziale secondo cui la sanzione pecuniaria va disposta, in via alternativa, “soltanto” nel caso in cui sia “oggettivamente impossibile” procedere alla demolizione e, quindi, “soltanto” nel caso in cui risulti “in maniera inequivoca che la demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla stabilità dell’edificio nel suo complesso senza che, pertanto, possano venire in rilievo aspetti relativi all’eccessiva onerosità dell’intervento” (cfr., Cons. Stato, sezione quinta, sentenze 09.04.2013, n. 1912, 29.11.2012, n. 6071 e 05.09.2011, n. 4982, TAR Campania, sez. IV, n. 770/2015).
In merito, va detto che, per la stessa natura dell’intervento, consistente in una superfetazione edificata su un balconcino, appare evidente la possibilità di rimuovere la volumetria abusiva senza alcun apprezzabile pregiudizio delle altre porzioni del fabbricato (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 10.01.2019 n. 137 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: RIFIUTI - Reato di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti - Nozione e configurabilità del reato - Elementi e presupposti - Conseguimento di un ingiusto profitto - Art. 260, D.L.vo 152/2006 oggi art. 452-quattuordecies cod. pen. - APPALTI - Esecuzione di un contratto di appalto - Reato di concorso in frode nelle pubbliche forniture.
In materia di rifiuti, l'art. 260, comma 1, D.L.vo 152/2006 contempla un reato abituale (già previsto, del resto, dall'art. 53-bis, d.lgs. n. 22 del 1997, come introdotto dalla legge 23.03.2001, n. 93, oggi art. 452-quattuordecies cod. pen. come introdotto dal d.Lgs. 10.03.2018, n. 21) che punisce chi, al fine di conseguire un ingiusto profitto, allestisce una organizzazione di traffico di rifiuti, volta a gestire continuativamente, in modo illegale, ingenti quantitativi degli stessi materiali.
Tale gestione deve concretizzarsi in una pluralità di operazioni con allestimento di mezzi ed attività continuative organizzate, ovvero attività di intermediazione e commercio, e tale attività deve essere "abusiva", ossia effettuata o senza le autorizzazioni necessarie (ovvero con autorizzazioni illegittime o scadute) o violando le prescrizioni e/o i limiti delle autorizzazione stesse (ad esempio, la condotta avente per oggetto una tipologia di rifiuti non rientranti nel titolo abilitativo, ed anche tutte quelle attività che, per le modalità concrete con cui sono esplicate, risultano totalmente difformi da quanto autorizzato, sì da non essere più giuridicamente riconducibili al titolo abilitativo rilasciato dalla competente Autorità amministrativa).
Il delitto in esame, dunque, sanziona comportamenti non occasionali di soggetti che, al fine di conseguire un ingiusto profitto, fanno della illecita gestione dei rifiuti la loro redditizia, anche se non esclusiva attività, sicché per perfezionare il reato è necessaria una, seppure rudimentale, organizzazione professionale (mezzi e capitali) che sia in grado di gestire ingenti quantitativi di rifiuti in modo continuativo, ossia con pluralità di operazioni condotte in continuità temporale, operazioni che vanno valutate in modo globale: alla pluralità delle azioni, che è elemento costitutivo del fatto, corrisponde una unica violazione di legge, e perciò il reato è abituale dal momento che per il suo perfezionamento è necessaria le realizzazione di più comportamenti della stessa specie.
Fattispecie: gestione abusiva di ingenti quantitativi di rifiuti costituiti da scorie di acciaieria, illecitamente smaltiti per la realizzazione dei sottofondi e dei rilevati stradali in esecuzione di un contratto di appalto, risultando colpevoli anche del reato di concorso in frode nelle pubbliche forniture.

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RIFIUTI - Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti configurabilità del reato di cui all'art. 452-quaterdecies cod. pen. - Natura di reato abituale - Elementi tipici - Consumazione del reato - DANNO AMBIENTALE - Pregiudizio o pericolo per l'ambiente - Esclusione - Giurisprudenza - Fattispecie.
Il delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, previsto dall'art. 260, d.lgs. 03.04.2006, n. 152 (oggi art. 452-quaterdecies cod. pen., giusta il d.Lgs. 10.03.2018, n. 21) è un reato abituale, che si perfeziona soltanto attraverso la realizzazione di più comportamenti non occasionali della stessa specie, finalizzati al conseguimento di un ingiusto profitto, con la necessaria predisposizione di una, pur rudimentale, organizzazione professionale di mezzi e capitali, che sia in grado di gestire ingenti quantitativi di rifiuti in modo continuativo (tra le molte, Sez. 3, n. 52838 del 14/07/2016, Serrao).
Si consuma nel luogo in cui avviene la reiterazione delle condotte illecite (Cass., Sez. 3, n. 48350 del 29/09/2017, Perego); ossia, laddove si realizzano -con il citato carattere dell'abitualità- le condotte che costituiscono l'in sé del reato, che ne integrano gli elementi tipici, che ne evidenziano i caratteri essenziali per come individuati dal legislatore.
Per cui, ai fini della integrazione del reato qui in argomento, non sono necessari un danno ambientale né la minaccia grave di esso, atteso che la previsione di ripristino ambientale contenuta nel comma quarto del citato articolo si riferisce alla sola eventualità in cui il pregiudizio o il pericolo si siano effettivamente verificati e, pertanto, non è idonea a mutare la natura della fattispecie da reato di pericolo presunto a reato di danno
(Sez. 3, n. 19018 del 20/12/2012, Accarino; conforme, tra le altre, Sez. 3, n. 4503 del 16/12/2005, Sannarati).
Nella specie, l'interramento dei rifiuti sicuramente può essere una frazione della condotta punibile, ma non è necessaria ai fini della rilevanza penale della fattispecie e della sua consumazione, che può essere raggiunta a monte, quando la pluralità e ripetitività delle operazioni di gestione inerenti quantitativi ingenti di rifiuti abbia raggiunto una intensità tale da mettere in pericolo il bene protetto
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.12.2018 n. 58448 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: APPALTI - Esecuzione di un contratto di appalto - Configurabilità del delitto di frode in pubbliche forniture o nell'adempimento degli altri obblighi contrattuali - Reato in concorso - Principio di buona fede nell'esecuzione del contratto - Violazione - Art. 356 cod. pen.
Ai fini della configurabilità del delitto di frode in pubbliche forniture, è sufficiente il dolo generico, costituito dalla consapevolezza di consegnare cose in tutto od in parte difformi (per origine, provenienza, qualità o quantità) in modo significativo dalle caratteristiche convenute, o disposte con legge o con atto amministrativo, non occorrendo necessariamente la dazione di "aliud pro alio" in senso civilistico o un comportamento subdolo o artificioso (tra le altre, Sez. 6, n. 6905 del 25/10/2016, Milesi ed altri; Sez. 6, n. 28301 dell'08/04/2016, Dolce).
Al riguardo, si è affermato che l'indirizzo che interpreta la "frode nell'esecuzione dei contratti di fornitura o nell'adempimento degli altri obblighi contrattuali" nel senso che, per la sua configurabilità, sarebbe insufficiente il semplice inadempimento del contratto, perché la norma incriminatrice richiederebbe anche la presenza di un espediente malizioso o di un inganno, che faccia apparire l'esecuzione del contratto conforme agli obblighi assunti confonde l'idea di frode come semplice inganno con quella di truffa (inganno mediante artificio o raggiro), mentre l'espressione "commette frode", contenuta nell'art. 356 cod. pen., non allude necessariamente a un comportamento subdolo o artificioso, perché si riferisce a ogni violazione contrattuale, a prescindere dal proposito dell'autore di conseguire un indebito profitto o dal danno patrimoniale del quale possa risentire l'ente committente.
In altri termini, l'art. 356 cod. pen. sanziona le condotte contrattuali che, nei rapporti con l'amministrazione, violano il principio di buona fede nell'esecuzione del contratto, principio sancito dall'art. 1375 cod. civ.. "La frode è un fatto oggettivo che danneggia l'interesse pubblico indipendentemente dall'aggiungersi di espedienti truffaldini e, in un rapporto con la Pubblica Amministrazione, non contano le condizioni psicologiche delle persone fisiche contraenti ma le modalità di presentazione del bene in relazione a quanto oggettivamente convenuto o disposto con legge o atto amministrativo, per cui la frode non è esclusa dalla conoscenza o conoscibilità del difetto della cosa da parte di coloro che agirono per conto della Pubblica Amministrazione".
Dal che, la conclusione per cui il reato di frode nelle pubbliche forniture non richiede una condotta implicante artifici o raggiri, propri del delitto di truffa, né un evento di danno per la parte offesa, coincidente con il profitto dell'agente, essendo sufficiente la dolosa inesecuzione del contratto pubblico di fornitura di cose o servizi, ritenendo, pertanto, configurabile -ove ricorrano anche i suddetti elementi caratterizzanti la truffa- il concorso tra i due delitti.
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PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Differenza tra art. 356 cod. pen. (frode in pubbliche forniture) e art. 355 cod. pen. (Inadempimento di contratti di pubbliche forniture).
La differenza tra i rapporti contenuti nella fattispecie di cui all'art. 356 cod. pen. (frode in pubbliche forniture) e quella di cui all'articolo 355 cod. pen. (inadempimento di contratti di pubbliche forniture) sta nel fatto che, l'inadempimento contrattuale preso in considerazione dall'art 355 cod. pen. consiste nella mancata consegna, totale o parziale, ovvero nella ritardata consegna, delle cose od opere dovute; ipotesi per le quali occorre la sola constatazione dell'illiceità civile dell'inadempimento per la configurazione del reato, che può essere doloso o colposo secondo che vi sia la volontà di cagionare la mancanza della fornitura, ovvero la colpa (imprudenza, negligenza eccetera) dell'agente.
Nelle ipotesi previste dall'art 356 cod. pen., che in genere riguardano gli inadempimenti che si concretano nella consegna di cosa od opera completamente diversa da quella pattuita, o di cosa od opera affetta da vizi o difetti, si richiede anche un comportamento, da parte del privato fornitore, non conforme ai doveri di lealtà e moralità commerciale e di buona fede contrattuale: ed in questo consiste l'elemento frode.
Non si richiede, pertanto, un comportamento tendente a trarre in inganno il committente ed a dissimulare le deficienze della fornitura, ma semplicemente la malafede nell'eseguire il contratto in difformità dei patti
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.12.2018 n. 58448 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: RIFIUTI - Attività di gestione di rifiuti da demolizione utilizzati per riempimento di cava - Responsabilità del proprietario del terreno e dell'esecutore dei lavori - Artt. 183 e 256 d.l.vo n. 152/2006.
In materia di rifiuti, si configura il reato di cui all'art. 256, comma 1, lett. a), d.Lgs. 152/2006, anche per i soggetti che rivestono la qualità di legale rappresentante della società esecutrice dei lavori, in concorso con il proprietario dei terreni in qualità di soggetto interessato al risultato finale.
Nella specie, il proprietario del terreno e committente dei lavori in concorso con l'appaltatore dei lavori avevano effettuato attività di raccolta di rifiuti speciali non pericolosi provenienti da demolizioni edilizia ed avevano utilizzato gli stessi unitamente alla terra per effettuare il riempimento di cava.

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RIFIUTI - Terre e rocce da scavo - Sottoprodotto - Requisiti - Disciplina eccezionale e derogatoria - Onere della prova - Art. 184-bis D.L.vo n. 152/2006.
In tema di gestione dei rifiuti, la prova dell'esistenza dei requisiti del sotto-prodotto grava sull'imputato, perché la disciplina sulle terre e rocce da scavo ha natura eccezionale e derogatoria rispetto a quella ordinaria (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.12.2018 n. 58302 - link a www.ambientediritto.it).

TRIBUTIFisco, delibere tardive efficaci solo dall'anno dopo.
Le delibere tributarie tardive, cioè approvate oltre il termine previsto per l'adozione del bilancio di previsione, non vanno annullate ma sono solo da ritenersi inefficaci per l'anno di riferimento.
Lo ha deciso il Consiglio di Stato con la sentenza 27.12.2018 n. 7273, ribadendo il nuovo orientamento inaugurato con la decisione n. 4104/2017 (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 5 settembre).
La questione e la recente giurisprudenza
Sul tema la giurisprudenza di vertice ha più volte affermato che il termine per l'adozione delle delibere tariffarie e regolamentari è da ritenersi perentorio, quindi anche il ritardo di appena un giorno produce l'invalidità delle stesse (Consiglio di Stato n. 3808/2014, n. 3817/2014, n. 4409/2014 e n. 1495/2015).
La questione è poi esplosa nel 2015, con diverse sentenze di Tar, ma recentemente la giurisprudenza è passata dalla tesi dell'illegittimità della delibera tardiva a quella della sua inefficacia retroattiva. Per intenderci, il mancato rispetto del termine di legge non comporterebbe di per se l'invalidità della delibera ma inciderebbe solo sulla sua efficacia temporale, non potendo essere applicata dal 1° gennaio dell'anno di riferimento (Consiglio di Stato n. 4104/2017 e n. 267/2018; Tar Torino n. 39/2018; Tar Bari n. 397/2018). Tuttavia il Tar Napoli (sentenze n. 3277/2018 e n. 6535/2018) ha ripreso la tesi dell'illegittimità delle delibere tardive e la questione è stata rimessa all'esame del Consiglio di Stato.
La sentenza del Consiglio di Stato
Il caso sottoposto all'esame dei giudici di Palazzo Spada riguarda le delibere Imu, Tasi e Tari 2015 approvate in ritardo dal Comune di Napoli e impugnate davanti al Tar dal ministero dell'Economia e delle Finanze. Con la sentenza n. 3277/2018 il Tar partenopeo ha accolto il ricorso del Mef ritenendo le delibere invalide e quindi da annullare. Il Comune di Napoli ha proposto comunque appello evidenziando che, in ogni caso, il mancato rispetto dei termini di legge non avrebbe potuto determinare l'illegittimità delle delibere, ma avrebbe semmai precluso la loro applicazione a decorrere dal 01.01.2015.
Il Consiglio di Stato accoglie l'appello richiamando la sentenza n. 4104/2017, ritenendo quindi che l'adozione tardiva delle delibere non determina in radice la loro illegittimità, ma non ne consente l'applicazione per l'anno di riferimento.
I contrasti giurisprudenziali
Vanno comunque evidenziati diversi contrasti giurisprudenziali sulla questione delle delibere tardive. In primo luogo la tesi dell'illegittimità, all'inizio maggioritaria e poi abbandonata dallo stesso Consiglio di Stato, è stata ripresa dal Tar Napoli con argomentazioni persuasive (si veda la sentenza n. 6535/2018).
È stato poi affermato che le delibere tardive non possono avere efficacia retroattiva ma sono comunque valide dalla data della loro adozione (Tar Torino n. 39/2018), conclusione non condivisibile perché comporterebbe una duplicazione di tariffe in corso d'anno introducendo così un doppio regime tributario (in tal senso Tar Napoli n. 6535/2018).
Sarebbero inoltre valide le delibere approvate in ritardo purché entro il termine ultimo, intimato dal Prefetto, per l'approvazione del bilancio (Tar Bari n. 240/2018), conclusione che tuttavia non trova conferma nella giurisprudenza di vertice, non essendo la proroga concessa dal Prefetto riferita anche alle delibere dei tributi (Consiglio di Stato nn. 3808/2014 e 3817/2014).
Il Consiglio di Stato ha poi ritenuto valida la delibera di giunta che approva le tariffe se ratificata dal consiglio comunale (sentenza n. 4435/2018), ma gli stessi giudici di Palazzo Spada con la decisione n. 7273/2018 affermano che la delibera di giunta è una mera proposta di approvazione delle aliquote, che vengono poi formalmente approvate solo dal consiglio comunale.
Insomma, la questione rischia di diventare una storia infinita perché ormai la giurisprudenza ha detto tutto e il contrario di tutto, senza tuttavia pervenire ad alcun approdo definitivo ed univoco (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.01.2019).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Nozione di rifiuto - Beni destinati al riuso - Individuablità e limiti - Fattispecie: Materiale corroso e totalmente ricoperto dalla vegetazione riversato all'esterno di un capannone in seguito ad alluvione - Art. 256, c. 2, d.lgs. n. 152/2006.
In tema di riuso dei rifiuti, si possono escludere dei beni destinati al riuso, anche semplicemente, per le condizioni di fatto in cui si trovavano.
Nella specie, se i beni fossero stati destinati al riuso sarebbero stati conservati con ben altra cura ed attenzione e non lasciati abbandonati a sé stessi, con il materiale corroso e totalmente ricoperto dalla vegetazione.
Sicché, la natura di rifiuto è stata quindi correttamente dedotta dalle condizioni in cui si trovavano i materiali
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.12.2018 n. 58001 - link a www.ambientediritto.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOL’ufficio dei procedimenti disciplinari può essere «individuato» dal dirigente.
La legge non vincola la Pa a individuare un ufficio distinto da altre strutture che si occupi dei procedimenti disciplinari. Una sanzione è legittima se all’organo che la eroga sia stato attribuito chiaramente il potere di farlo. Ciò al solo fine di assicurare la sua posizione di terzietà. La normativa, facendo riferimento all’«individuazione» e non all’istituzione obbligatoria dell’ufficio sanzioni disciplinari, non richiede che questa individuazione sia espressa e debba avvenire con specifico provvedimento.

Questo premesso, la Corte di Cassazione (Sez. lavoro, sentenza 21.12.2018 n. 33314) ha giudicato legittima, pertanto, l'individuazione dell'ufficio per i provvedimenti disciplinari da parte del dirigente del settore gestione risorse umane e non su disposizione dell'organo esecutivo.
Le motivazioni del licenziamento
A un dipendente di una Regione è stato contestato, dall'ufficio dei procedimenti disciplinari, di aver fatto timbrare da un collega, in otto occasioni, il cartellino marcatempo in entrata e in uscita, consentendogli che le entrate in ritardo e le uscite anticipate avvenissero nel pieno rispetto dell'orario di obbligo. Inoltre, in contropartita, in dodici diverse altre occasioni, è stato osservato e certificato che il dipendente timbrasse a suo volta il cartellino dei colleghi permettendo anche a loro di presentarsi in ritardo e di uscire in anticipo sempre nel rispetto dell'orario di obbligo.
Dopo specifica udienza in difesa, il dipendente è stato licenziato per giusta causa. Non avendo il ricorso sortito esito positivo né in primo grado né in appello, il dipendente si è rivolto in Cassazione. A supporto delle sue motivazioni ha evidenziato l'errore dei giudici del lavoro che non hanno considerato, in modo adeguato, la sua difesa. Il ricorrente ha, quindi, insistito sulla nullità della sanzione disciplinare in quanto erogata da organo incompetente, essendo l'Ufficio per i provvedimenti disciplinari stato nominato dal dirigente e non dall'organo esecutivo.
Le precisazioni della Cassazione
I giudici di Piazza Cavour confermano quanto già detto dalla Corte d’appello che ha correttamente ritenuto la piena libertà, da parte della Pa, di creare un apposito ufficio o avvalersi di strutture già esistenti. Nel caso di specie, è indubbio che l'Upd sia stato individuato con decreto del dirigente delle risorse umane, cui spetta la competenza della gestione del personale e dunque anche l'esercizio della potestà disciplinare, quale naturale completamento del suo potere direttivo.
D'altra parte, la giurisprudenza di legittimità non ha mai previsto che la normativa sul rapporto di lavoro nel pubblico impiego postulasse l’stituzione di un ufficio specifico competente all'irrogazione delle sanzioni disciplinari. Anzi, è stato sempre precisato che, per poter essere legittima, la sanzione disciplinare dovesse provenire da organo cui fosse stato attribuito in modo chiaro il potere, tale da poter assicurare quella posizione di terzietà che il legislatore, attraverso la previsione di un apposito ufficio, ha voluto tutelare (Cassazione n. 22487 del 2016).
L'articolo 55-bis, comma 4, del Dlgs 165/2001 ha voluto, quindi, enfatizzare la difesa del dipendente e non la formale costituzione dell'Upd. D'altra parte, la normativa, oltre a richiamare l'ordinamento proprio di ciascuna amministrazione, fa riferimento alla «individuazione» e non alla obbligatoria «istituzione» di uno specifico ufficio competente per i procedimenti disciplinari e non richiede che l’individuazione sia espressa e debba avvenire con apposito provvedimento.
In conclusione, in considerazione della gravità della condotta del dipendente, conclamata dalla reiterazione degli episodi in un ristretto lasso di tempo, quale pervicace propensione abituale alle pratiche elusive dei sistemi di rilevazione delle presenze, la Cassazione ha confermato la legittimità della giusta causa del licenziamento (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 09.01.2019).

APPALTISempre revocabili incarichi sotto 40 mila. Scelta della stazione appaltante.
Legittima la revoca di un incarico sotto i 40 mila euro e l'affidamento ad altri professionisti; sussiste ampia libertà di scelta in capo alla stazione appaltante.
È quanto ha affermato il TAR Puglia-Bari, Sez I, con la sentenza 20.12.2018 n. 1654, in un caso di affidamento di servizi inferiore a 40 mila euro, ha ritenuto legittima la delibera dell'amministrazione di affidamento dell'incarico ad altri professionisti rispetto a quelli individuati con una precedente determina.
Al centro della disputa vi era l'affidamento di un incarico di direzione lavori effettuato a favore di alcuni professionisti e riguardante gli stessi incarichi professionali già affidati invece ai ricorrenti con precedente determina. Veniva, pertanto, contestato il nuovo affidamento che vedeva altri professionisti destinatari dell'incarico, ma il Tar Puglia ha respinto il ricorso.
Nella motivazione, i giudici hanno dato rilievo alla tipologia di affidamento, cioè al fatto che si tratta di un incarico inferiore a 40 mila euro per il quale il codice dei contratti pubblici consente di affidare direttamente. Secondo i giudici quindi, «ove pure venga annullato il provvedimento di affidamento dei nuovi incarichi, restando ferma la precedente revoca il comune potrà comunque rivolgersi a terzi, non essendo negozialmente obbligato nei confronti dei ricorrenti». Del resto, spiegano i magistrati pugliesi, l'art. 31, comma 8, del dlgs n. 50/2016 prevede la possibilità dell'affidamento diretto per gli incarichi di importo inferiore a 40 mila euro, sicché la libera possibilità di scelta dell'operatore per l'ente priva gli odierni ricorrenti di qualsivoglia interesse qualificato e differenziato, che non sia di mero fatto».
Infine, ha chiosato il Tar, «al di là di numerose incertezze procedimentali, l'amministrazione ha perseguito nella sostanza un apprezzabile interesse pubblico, realizzando in concreto un importante risparmio di spesa, posto che gli incarichi (63 mila euro invece di 125 mila) prestando un effettivo ossequio al principio di economicità, che impone alla pubblica amministrazione di conseguire gli obiettivi statuiti con il minor dispendio di mezzi e strumenti, oltre che a quelli di efficacia dell'azione amministrativa e di efficienza della medesima»
(articolo ItaliaOggi dell'11.01.2019).

APPALTIAnomalie, solo il giudizio negativo va motivato. Nelle offerte per un appalto pubblico.
Il giudizio favorevole di non anomalia di una offerta per un appalto pubblico non necessita di motivazione puntuale e analitica.

Lo ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. III, con la sentenza 18.12.2018 n. 7129 in merito ad una fattispecie nella quale la stazione appaltante aveva espresso un giudizio favorevole di non anomalia dell'offerta in una gara d'appalto. Tale giudizio, dicono i giudici, «non richiede una motivazione puntuale ed analitica, essendo sufficiente anche una motivazione espressa per relationem alle giustificazioni rese dall'impresa offerente, sempre che queste ultime siano a loro volta congrue ed adeguate».
Pertanto, solo in caso di giudizio negativo sussiste l'obbligo di una puntuale motivazione. Dal punto di vista della modalità di verifica il consiglio di Stato ha ricordato che la stazione appaltante non è tenuta a chiedere chiarimenti su tutti gli elementi dell'offerta e su tutti i costi. Può quindi legittimamente limitarsi a verificare se, nel complesso, l'offerta sia remunerativa e in grado di assicurare il corretto svolgimento del servizio. Ad esempio, può limitarsi a chiedere le giustificazioni con riferimento alle sole di voci di costo più rilevanti, le quali, da sole, potrebbero incidere in modo determinante sull'attendibilità dell'offerta complessiva.
Inoltre, afferma la sentenza, «la valutazione di congruità deve essere globale e sintetica, senza concentrarsi esclusivamente e in modo parcellizzato sulle singole voci, dal momento che l'obiettivo dell'indagine è l'accertamento dell'affidabilità dell'offerta nel suo complesso e non già delle singole voci che la compongono». In altre parole, dicono i giudici, quel che conta è «l'accertamento della serietà dell'offerta desumibile dalle giustificazioni fornite dalla concorrente e dunque la sua complessiva attendibilità». Pertanto si provvede invece all'esclusione dalla gara solo a seguito della prova dell'inattendibilità complessiva dell'offerta, per cui «eventuali inesattezze su singole voci devono ritenersi irrilevanti».
In tutte queste operazioni, chiude la sentenza, la commissione di gara dispone di ampia discrezionalità circa le modalità prescelte per il compimento del sub-procedimento di anomalia e le sue valutazioni sono solo limitatamente sindacabili da parte del giudice
(articolo ItaliaOggi del 04.01.2019).

APPALTIImpresa di un Rti può sostituire la mandataria. Con l'interdittiva dell'Antimafia.
È ammessa la sostituzione, anche plurima, della mandataria o di una mandante con un altro soggetto del raggruppamento (Rti), in caso di controindicazioni antimafia.

Lo ha chiarito il TAR Lazio-Latina, Sez. I, con la sentenza 17.12.2018 n. 655 in riferimento a una gara bandita da Autostrade per l'Italia con procedura aperta per la stipula di un accordo quadro.
Era accaduto che la mandataria di un raggruppamento era stata oggetto di interdittiva antimafia e quindi era stata sostituita con una delle mandanti. I giudici hanno preliminarmente osservato che né la legislazione sui contratti pubblici né quella antimafia prevedono una specifica causa di esclusione o di incapacità a contrarre in capo al raggruppamento in cui più di un'impresa sia stata colpita da un provvedimento prefettizio interdittivo.
Nel merito, poi, il codice dei contratti (art. 48, commi 17 e 19-ter), nei casi previsti dalla normativa antimafia, consente la sostituzione dell'impresa mandataria con una delle mandanti anche nel caso in cui le controindicazioni prefettizie si verifichino in corso di gara. Per i giudici non si può «trarre alcuna conclusione automatica sulla sussistenza di rischi di infiltrazione mafiosa in capo ad una data impresa per il solo fatto che si fosse associata ad altra ritenuta controindicata».
Non osta a tale conclusione l'art. 95, comma 1, dlgs 06.09.2011 n. 159, per il quale, in presenza di pregiudizi antimafia che attingano un'impresa diversa da quella mandataria di un Rti, le cause di divieto o di sospensione di cui all'art. 67, dlgs n. 159 del 2011, non operano nei confronti delle altre imprese partecipanti quando la predetta impresa sia estromessa o sostituita anteriormente alla stipulazione del contratto, poiché l'art. 95, comma 1, dlgs n. 159 cit. è una norma anteriore derogata dalla disciplina posteriore.
È inoltre consentita l'espulsione di una delle imprese mandanti di un raggruppamento anche nel caso in cui si sia già proceduto, in precedenza, alla sostituzione dell'impresa mandataria con una delle mandanti, in quanto la possibilità di sostituzioni multiple nello stesso raggruppamento temporaneo, dovuta al sopravvenire di differenti controindicazioni antimafia, non è espressamente preclusa da alcuna disposizione di legge, anche perché si violerebbe l'art. 41 della Costituzione (articolo ItaliaOggi del 21.12.2018).

APPALTIAppalti pubblici: i patti di integrità vincolano l'impresa per il futuro contratto.
Gli impegni assunti dai concorrenti con la sottoscrizione dei «patti di integrità» operano pro futuro in relazione al contratto da affidare e non costituiscono dichiarazioni in ordine al possesso di pregressi requisiti rilevanti per la partecipazione alle procedure di gara.

È questo il principio affermato dal TAR Lazio-Roma, Sez. I, con la sentenza 14.12.2018 n. 12178.
Il caso
Nel febbraio 2017 una stazione appaltante segnalava all’Autorità anticorruzione l’esclusione di un operatore economico da una procedura di gara. L’esclusione –o meglio l’annullamento dell’intera procedura di gara– era stata disposta dall’Amministrazione a seguito di una sentenza di patteggiamento emessa dal Tribunale penale di Velletri nei confronti dell’amministratore unico della società. Dopo l’aggiudicazione della gara era stato infatti accertato che la gara era stata oggetto di turbativa d’asta.
La stazione appaltante comunicava poi ad Anac l’annullamento in autotutela anche di un’altra aggiudicazione in favore della medesima impresa, provvedimento che prendeva anch’esso le mosse dalla medesima pronuncia del Tribunale di Velletri. L’Anac disponeva pertanto l’iscrizione, all’interno del Casellario informatico degli operatori economici, dell’annotazione contenente la menzione dell’esclusione dell’impresa dalle due gare citate per aver reso false dichiarazioni ai fini della dimostrazione del requisito di cui all’articolo 38 dell’allora vigente Dlgs 163/2006.
A tali fini, veniva in particolare richiamato dall’Anac il patto di integrità, sottoscritto ai fini della partecipazione ad entrambe le due gare, con il quale l’impresa si era impegnata «a conformare i propri comportamenti ai principi di lealtà, trasparenza e correttezza, a non offrire, accettare o richiedere somme di danaro o qualsiasi altra ricompensa, vantaggio o beneficio, sia direttamente che indirettamente tramite intermediari, al fine dell’assegnazione del contratto e/o al fine di distorcerne la relativa corretta esecuzione; a segnalare alla stazione appaltante qualsiasi tentativo di turbativa, irregolarità o distorsione nelle fasi di svolgimento della gara e/o durante l’esecuzione dei contratti da parte di ogni interessato o addetto o di chiunque possa influenzare le decisioni relative alla gara in oggetto; ad assicurare di non trovarsi in situazioni di controllo o di collegamento (formale e/o sostanziale con altri concorrente e che non si è accordata e non si accorderà con altri partecipanti alla gara)».
La decisione
Con la pronuncia in rassegna il Tar Lazio annulla l’iscrizione dell’impresa all’interno del Casellario informatico, evidenziando che gli impegni assunti dall’operatore economico mediante la sottoscrizione del «patto di integrità» operano su un piano squisitamente contrattuale e non costituiscono, di conseguenza, «dichiarazioni» in ordine alla ricorrenza di requisiti e condizioni rilevanti per la partecipazione alla procedure, la falsità delle quali è considerata l’unica condizione rilevante ai sensi dell’articolo 38, comma 1, lett. h), del Dlgs 163/2006.
Più in particolare, l’Autorità evidenzia che i patti di integrità costituiscono condizioni generali di contratto predisposte dalla stazione appaltante ed accettate dall'impresa concorrente, con la conseguenza che la relativa accettazione è presupposto necessario e condizionante la partecipazione delle imprese alla specifica gara: si tratta, infatti, di condizioni finalizzate ad ampliare gli impegni cui si obbliga, pro futuro, il concorrente.
L’approfondimento
Secondo la giurisprudenza amministrativa richiamata nella pronuncia in commento, infatti, i «patti di integrità» costituiscono condizioni generali di contratto predisposte dalla stazione appaltante che devono essere necessariamente accettate dall’impresa concorrente (Consiglio di Stato, Sezione V, 05.02.2018, n. 722).
Si tratta, in particolare, di un «sistema di condizioni la cui accettazione è presupposto necessario e condizionante la partecipazione delle imprese alla specifica gara di cui trattasi», condizioni finalizzate dunque ad ampliare gli impegni cui si obbliga il concorrente, e ciò sotto un duplice punto di vista:
   1) sotto il profilo temporale, nel senso che gli impegni assunti dalle imprese rilevano sin dalla fase precedente alla stipula del contratto di appalto;
   2) sotto il profilo del contenuto, nel senso che si richiede all’impresa di impegnarsi, non tanto e non solo alla corretta esecuzione del contratto di appalto per il quale la stessa concorre alla gara, ma soprattutto ad un comportamento leale, corretto e trasparente, sottraendosi a qualsiasi tentativo di corruzione o condizionamento dell’aggiudicazione del contratto (così Consiglio di Stato, Sezione V, 09.09.2011 n. 5066).
L’articolo 1, comma 17, della legge 06.11.2012 n. 190, recante le disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione, prevede, in particolare, che: «le stazioni appaltanti possono prevedere negli avvisi, bandi di gara o lettere di invito che il mancato rispetto delle clausole contenute nei protocolli di legalità o nei patti di integrità costituisce causa di esclusione dalla gara».
Il patto di integrità fa dunque sorgere obbligazioni strettamente connesse alla specifica procedura cui l’operatore economico partecipa e per la quale sottoscrive il patto, e non si riferisce quindi a comportamenti tenuti dall’impresa in occasione di precedenti appalti: ed infatti, ove fosse imposto con il patto di integrità un impegno di lealtà, trasparenza e correttezza riferito anche ad appalti precedentemente eseguiti, si verificherebbe un’indebita sovrapposizione con le cause di esclusione (ex articolo 38 Dlgs 163/2006 ed, attualmente, ex articolo 80 Dlgs 50/2016) relative alla pregressa condotta dell’impresa, cause che invece sono tassativamente ricondotte dal Codice dei contratti pubblici ad inadempimenti di obblighi assunti dall'impresa nei rapporti contrattuali, mentre gli impegni assunti nei patti di integrità si riferiscono esclusivamente alla singola gara per la quale ciascun patto viene predisposto ed accettato (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell' 08.01.2019).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: RIFIUTI - Terre e rocce da scavo (materiale tufaceo e terreno vegetale) - Attività organizzate per traffico illecito e gestione illecita di rifiuti - Differenze - Attività organizzate per traffico illecito - Configurabilità del reato - Compimento di più operazioni e l'allestimento di mezzi e attività continuative organizzate - Nozione di condotta abusiva - Soglia minima di rilevanza penale della condotta - Ulteriori requisiti e azioni propedeutiche - Definizione di "finalità di ingiusto profitto" - Artt. 186, 256 e 260 d.lgs. n. 152/2006 - Art. 452-quaterdecies c.p. - Giurisprudenza.
In tema di rifiuti per l'integrazione del reato di cui all'art. 260 d.lgs. n. 152/2006 devono individuarsi, il compimento di più operazioni e l'allestimento di mezzi e attività continuative organizzate, che le stesse siano con l'attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti strettamente correlate, posto che il legislatore utilizza la congiunzione "e".
E' richiesto anche il requisito dell'abusività della condotta. Tale requisito può sussistere a fronte di una struttura organizzativa di tipo imprenditoriale, idonea ed adeguata a realizzare l'obiettivo criminoso preso di mira, anche quando la struttura non sia destinata, in via esclusiva, alla commissione di attività illecite, cosicché il reato può configurarsi anche quando l'attività criminosa sia marginale o secondaria rispetto all'attività principale lecitamente svolta.
In questi casi si parla di reato abituale, in quanto integrato necessariamente dalla realizzazione di più comportamenti della stessa specie. L'apprezzamento circa la soglia minima di rilevanza penale della condotta deve essere effettuato non soltanto attraverso il riferimento al mero dato numerico, ma, ovviamente, anche considerando gli ulteriori rimandi, contenuti nella norma, a «più operazioni» ed all'allestimento di mezzi e attività continuative organizzate» finalizzate alla abusiva gestione di ingenti quantità di rifiuti.
Ulteriori requisiti sono l'attività di cessione, ricezione, trasporto, esportazione, importazione, o comunque gestione abusiva di rifiuti che già risultano sanzionate penalmente e vengono agevolate dalle azioni propedeutiche, nonché l'ingente quantitativo di rifiuti, che non può essere individuato a priori, attraverso riferimenti esclusivi a dati specifici, quali, ad esempio, quello ponderale, dovendosi al contrario basare su un giudizio complessivo che tenga conto delle peculiari finalità perseguite dalla norma, della natura del reato e della pericolosità per la salute e l'ambiente e nell'ambito del quale l'elemento quantitativo rappresenta solo uno dei parametri di riferimento.
Infine, la verifica deve essere effettuata considerando il quantitativo complessivo di rifiuti trattati attraverso la pluralità delle operazioni svolte, anche quando queste ultime, singolarmente considerate, possono essere qualificate di modesta entità. Quanto alla finalità di ingiusto profitto, pure richiesta dalla norma in esame per la configurabilità del delitto, si è precisato che esso non deve necessariamente consistere in un ricavo patrimoniale, potendosi ritenere integrato anche dal mero risparmio di costi o dal perseguimento di vantaggi di altra natura, senza che sia necessario, ai fini della configurazione del reato, l'effettivo conseguimento di tale vantaggio
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.12.2018 n. 56101 - link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGOProcedimenti disciplinari, conta la notizia dell'infrazione. La corte di cassazione sulla decorrenza del termine perentorio per la conclusione dell'iter.
Il termine perentorio, per la conclusione del procedimento disciplinare, comincia a decorrere esclusivamente dal momento in cui l'ufficio competente acquisisce una «notizia di infrazione» (art. 55-bis, comma 4, del dlgs n. 165/2001) di contenuto tale da consentire, in modo corretto, l'avvio al procedimento stesso.

Questo è il principio affermato dalla Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la sentenza 12.12.2018 n. 32156.
Gli Ermellini hanno ritenuto (respingendo il ricorso) legittimo il licenziamento disciplinare (istruito e sottoscritto dagli autori), comminato da un ente locale a un proprio dirigente a tempo indeterminato, per l'incompatibilità della funzione di pubblico dipendente con l'esercizio della professione forense. Il ricorrente aveva mantenuto l'iscrizione all'Albo degli avvocati ed esercitato la professione, anche dopo l'assunzione in qualità di dirigente amministrativo.
Al momento della sottoscrizione del contratto non aveva dichiarato la sussistenza dell'incompatibilità, dichiarando, quindi il falso. Tra le argomentazioni a sua difesa, questi aveva sostenuto che il termine decadenziale del procedimento disciplinare dovesse computarsi dalla data della prima richiesta di chiarimenti, che era stata formulata dall'ente in ordine alla sua posizione.
La sentenza, confermando, invero, quanto argomentato nello stesso provvedimento conclusivo del procedimento, ha, invece, evidenziato che nell'esame, da parte della Corte d'Appello, era emerso che, dalla sequenza dei fatti e dal tenore delle richieste avanzate dall'ente, alla data indicata dal ricorrente (dicembre 2013) ancora non era chiara la sua posizione, sussistendo dubbi circa l'effettiva situazione di incompatibilità.
Soltanto con la risposta dell'interessato, giunta in via «indiretta», dopo quasi due anni, l'Ufficio procedimento disciplinare ha avuto gli elementi sufficienti a consentire la formulazione della contestazione. La sentenza in esame ha, altresì, sancito che l'amministrazione deve poter valutare la consistenza dei fatti acquisiti, per stabilire se questi siano idonei a integrare una fattispecie di illecito disciplinare.
Contrariamente, argomenta la Cassazione, la pubblica amministrazione sarebbe costretta a formulare contestazioni approssimative, sulla scorta di fatti di consistenza generica, rischiando, per non incorrere in decadenze, di avviare procedimenti destinati a essere inficiati da vizi formali e sostanziali.
Di conseguenza, l'ente può anche svolgere indagini pre-procedimentali, così da chiarire i termini della vicenda e valutare se sussista rilevanza disciplinare, in relazione ai fatti emersi a carico del dipendente. Non costituisce, inoltre, violazione del principio di immutabilità tra la contestazione dell'addebito e l'irrogazione della sanzione disciplinare, l'individuazione, nel provvedimento finale, di ragioni e fatti materiali ulteriori, quando questi costituiscano, esclusivamente, una maggiore specificazione di quanto già contestato.
In sostanza, nel caso di specie, gli elementi rafforzativi di quanto già ritenuto sussistente sulla base della conclamata iscrizione all'albo, non costituiscono fatti nuovi ulteriori e diversi, lesivi del diritto di difesa, ma soltanto la comprova di quanto inizialmente contestato. Censurato è stato anche il rilievo che la mancata cancellazione dall'Albo dovesse ascriversi al Consiglio dell'Ordine, che non aveva provveduto in merito.
I giudici hanno ritenuto che dall'istruttoria e dai fatti di causa era adeguatamente provato che il dirigente, al momento dell'assunzione, non poteva non essere consapevole della falsa dichiarazione che stava effettuando, sulla insussistenza di cause di incompatibilità, atteso che all'epoca non esisteva la cancellazione dall'albo degli avvocati e, contemporaneamente, continuava l'effettivo esercizio dell'attività professionale.
La sentenza n. 32156/2018 non lascia, infine, alcun dubbio sulla incompatibilità tra la professione di avvocato di libero foro e l'impiego pubblico. I giudici hanno richiamato (come lo stesso provvedimento impugnato aveva effettuato) l'art. 53 del dlgs n. 165/2001 (Incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi), rammentando che al comma 1 viene sancita l'estensione a tutti i dipendenti pubblici, contrattualizzati e non, della disciplina delle incompatibilità dettata dal testo unico degli impiegati civili dello Stato, agli artt. 60 e seguenti. L'articolo 53 ribadisce, pertanto, il generale principio dell'incompatibilità, con riferimento a tutti i pubblici dipendenti
(articolo ItaliaOggi del 21.12.2018).

ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTISolo spese vive al Comune rappresentato in giudizio da un funzionario delegato.
La Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 10.12.2018 n. 31860, nell’accogliere il ricorso di un cittadino nei confronti di un Comune, ha affermato che l'ente pubblico che ha emesso il provvedimento sanzionatorio, quando è in giudizio personalmente o avvalendosi di un funzionario delegato non può ottenere la condanna dell'opponente, che sia soccombente, al pagamento delle spese di liti.
Il contenzioso
Il tribunale, riformando la sentenza del giudice di pace, aveva annullato la comunicazione (articolo 126 del Dlgs 285/1992) del ministero delle Infrastrutture e dei trasporti del 21.12.2010, con la quale era stata disposta la variazione del punteggio della patente di guida di un cittadino.
Il tribunale, inoltre, aveva regolato le spese di entrambi i gradi del giudizio condannando il cittadino a rifondere il Comune per complessivi mille euro. Nel ricorso per Cassazione il cittadino ha censurato la sentenza del Tribunale perché il giudice aveva liquidato in favore del Comune spese legali anche in relazione al primo grado, durante il quale l'ente territoriale non era stato assistito da un avvocato, essendosi limitato alla sola produzione documentale.
Inoltre, ha contestato il fatto che la sentenza ha quantificato le spese liquidate in favore del Comune senza specificare il computo per gradi e, comunque, oltre il massimo consentito per il grado d'appello.
L'analisi della Cassazione
Per la Corte di cassazione il primo motivo di ricorso è fondato. I giudici di legittimità osservano che la Cassazione ha reiteratamente affermato che l'autorità amministrativa che ha emesso il provvedimento sanzionatorio, quando sta in giudizio personalmente o avvalendosi di un funzionario specificamente delegato, «non può ottenere la condanna dell'opponente, che sia soccombente, al pagamento dei diritti di procuratore e degli onorari di avvocato, difettando le relative qualità nel funzionario amministrativo che sta in giudizio, per cui sono, in questo caso, liquidabili in favore dell'ente le spese, diverse da quelle generali, che abbia concretamente affrontato in quel giudizio e purché risultino da apposita nota».
Per i giudici di legittimità, se mancano le indicazioni delle spese vive effettivamente sborsate per il primo grado, al Comune devono essere rimborsate solo le spese legali dell'appello, considerando il valore e la qualità della causa, nonché delle attività espletate (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 09.01.2019).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: RIFIUTI - Materiali provenienti da demolizione - Regime giuridico applicabile - Deposito temporaneo o sottoprodotto - Requisiti - Inosservanza anche di una sola delle condizioni - Illecita gestione dei rifiuti o in abbandono di rifiuti - Grava sul produttore dei rifiuti l'onere della prova - Artt. 183 e 256, D.L.vo n. 152/2006 - Giurisprudenza.
Ai fini della configurabilità del reato previsto dall'art. 256, commi 1 e 3, del d.lgs. 03.04.2006, n. 152, i materiali provenienti da demolizione debbono essere qualificati dal giudice come rifiuti, in quanto oggettivamente destinati all'abbandono, salvo che l'interessato non fornisca la prova della sussistenza dei presupposti previsti dalla legge per l'applicazione di un regime giuridico più favorevole, quale quello relativo al "deposito temporaneo" o al "sottoprodotto" (Sez. 3, n. 29084 del 14/05/2015, dep. 08/07/2015, Favazzo).
Va, infatti, ricordato che, in tema di rifiuti, al fine di qualificare il deposito come temporaneo, il produttore può alternativamente e facoltativamente scegliere di adeguarsi al criterio quantitativo o a quello temporale, ovvero può conservare i rifiuti per tre mesi in qualsiasi quantità, oppure conservarli per un anno purché essi non raggiungano, anche con riferimento ai rifiuti pericolosi, i limiti volumetrici previsti dall'art. 183, lett. bb), d.lgs. n. 152 del 2006 (cfr., tra le tante, Sez. 3, n. 38046 del 27/06/2013, Speranza); sicché l'inosservanza anche di una sola delle condizioni imposte per il deposito temporaneo trasforma l'attività oggetto del deposito in illecita gestione dei rifiuti o in abbandono di rifiuti.
A tal proposito, si è, inoltre, chiarito che l'onere della prova relativa alla sussistenza delle condizioni di liceità del deposito cosiddetto controllato o temporaneo, fissate dall'art. 183 d.lgs. n. 152 del 2006, grava sul produttore dei rifiuti, in considerazione della natura eccezionale e derogatoria di tale deposito rispetto alla disciplina ordinaria
(Sez. 3, n. 35494 del 10/05/2016, dep. 26/08/2016, Di Stefano)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.12.2018 n. 54702 - link a www.ambientediritto.it).

LAVORI PUBBLICIPf, interesse non vincola la stazione appaltante. La manifestazione non è impugnabile.
 Una manifestazione di interesse per proposte di project financing non vincola la stazione appaltante e non è soggetta ad impugnazione in quanto fase connotata da amplissima discrezionalità amministrativa.
Lo ha affermato il TAR Campania-Salerno, Sez. I, con la sentenza 07.12.2018 n. 1772 in merito alla legittimità ad impugnare un avviso pubblico per la manifestazione di interesse alla successiva presentazione di proposte di project financing ai sensi dell'art. 183, comma 15, del codice dei contratti pubblici.
Al riguardo il Tar ha ricordato come l'Adunanza plenaria del consiglio ha precisato in passato che la legittimazione all'impugnazione di atti e provvedimenti afferenti «gare di appalto e affidamento di servizi» spetta esclusivamente all'impresa che abbia partecipato alla procedura, ancorché vi siano anche alcune eccezioni motivate dalla necessità di tutelare il principio di «concorrenza» tra le imprese.
Nel caso esaminato dai giudici, si trattava dell'indizione di una fase preliminare di individuazione del promotore e quindi di una fattispecie «connotata da amplissima discrezionalità amministrativa, poiché volta non già alla scelta della migliore fra una pluralità di offerte sulla base di criteri tecnici ed economici preordinati, ma alla valutazione di un interesse pubblico che giustifichi, alla stregua della programmazione delle opere pubbliche, la decisione se indire o meno la procedura con gli indicati requisiti di partecipazione».
Il Tar campano ha ricordato che l'azione di annullamento davanti al giudice amministrativo è soggetta a due condizioni: l'esistenza di una posizione di interesse legittimo, direttamente discendente da una situazione qualificata che distingue questa posizione soggettiva rispetto a quella di tutti gli altri soggetti; e la sussistenza dell'interesse ad agire per ottenere un risultato utile e concreto, collegato al conseguimento di un preciso e ben individuato «bene della vita».
In una manifestazione di interesse «la titolarità di una tale posizione non è configurabile, deponendo in tal senso l'esigua consistenza giuridica che inequivocabilmente connota la scelta dell'amministrazione di bandire l'avviso de quo e, quindi, la connessa piena facoltà dell'amministrazione di abbandonare l'iniziativa finanche successivamente alla scelta del progetto dichiarato di pubblico interesse» (articolo ItaliaOggi del 14.12.2018).
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MASSIMA
Ciò detto, diviene doveroso ricordare che
il project financing è stato ordinariamente ricostruito come un istituto caratterizzato da una pluralità di fasi, solitamente indicate in "due" logicamente e cronologicamente distinte (salvo i casi in cui il giudice amministrativo ha avuto modo di individuare sì due fasi ma una di esse connotata -a sua volta- da due sub fasi o, ancora, proprio tre sub procedimenti), rispettivamente dirette alla promozione dell'opera pubblica, in cui l'Amministrazione valuta la proposta presentata da un soggetto promotore sotto il profilo della fattibilità e dell'interesse pubblico, nonché all'espletamento della procedura selettiva ad evidenza pubblica fra più aspiranti alla concessione in base al progetto presentato (tanto da configurare una "fattispecie a formazione progressiva"), connotate da una propria autonomia ma -comunque- nel pieno ed indiscusso riconoscimento della sussistenza tra di esse di un rapporto di "interdipendenza" (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. V, 31.08.2015, n. 4035; C.d.S., Sez. V, 14.04.2015, n. 1872; C.d.S., Sez. III, 20.03.2014, n. 1365; TAR Veneto, Sez. I, 28.01.2013, n. 99; TAR Campania, Napoli, Sez. I, 22.05.2012, n. 2358).
Le peculiarità dell'istituito hanno, dunque, determinato l'insorgenza di dubbi e perplessità in ordine alla sindacabilità delle scelte operate dall'Amministrazione.
In particolare, è stato posto il problema della sussistenza di un danno attuale e, quindi, di un concreto ed effettivo interesse a proporre impugnative avverso gli atti della procedura di project financing preordinati alla selezione e/o alla scelta del promotore.
A seguito di un orientamento di pressoché unanime chiusura della giurisprudenza amministrativa a ritenere ammissibili impugnative di tal genere, in ragione della più volte affermata inidoneità della mera "dichiarazione di pubblico interesse di un determinato progetto" a assicurare "di per sé al relativo soggetto presentatore alcuna diretta ed immediata utilità" e, quindi, del sostanziale collegamento dell'apprezzamento di un eventuale lesività "solo all'esito del successivo procedimento di gara e dell'eventuale aggiudicazione", tanto più che al concorrente che ha presentato "la proposta non selezionata come progetto di pubblico interesse non risulta affatto impedita la partecipazione alla gara successiva per l'individuazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa" (cfr., tra le altre, TAR Lazio, Roma, Sez. III, 28.07.2010, n. 28920, la quale -a sua volta- richiama C.d.S., Sez. V. 28.05.2009, n. 3319; C.d.S., Sez. V, 26.01.2009, n. 392; C.d.S., Sez. V, nn. 4972 e 4973 del 23.09.2008; C.d.S., Sez. V, 25.01.2005, n. 142), con sentenza n. 7277 dell'01.10.2010 la Sezione V del Consiglio di Stato ha ravvisato validi motivi per rimettere all'Adunanza Plenaria la "controversa questione" inerente alla sindacabilità della "fase di selezione del promotore finanziario" e, precipuamente, dell'immediata impugnabilità dell'individuazione del progetto dichiarato di pubblico interesse, indipendentemente dalla conclusione del procedimento mediante aggiudicazione della concessione.
Premesso che il Consiglio di Stato ha rimesso la questione all'Adunanza Plenaria esclusivamente sulla base della specifica considerazione della posizione del "concorrente, che pur ha partecipato alla fase di individuazione del promotore finanziario, senza essere stato scelto come tale", ossia del soggetto che, pur essendosi proposto come promotore, è risultato soccombente e non è stato prescelto, e, dunque, della configurazione di "un interesse strumentale" (ma non per questo non autonomo e non meritevole di tutela) ad ottenere un immediato giudizio sul provvedimento di scelta del promotore, l'Adunanza Plenaria si è pronunciata con la sentenza n. 1 del 28.01.2012, statuendo -in sintesi- quanto segue:
   a) "
l'atto con cui la stazione appaltante conclude la c.d. prima fase di selezione di una proposta, da porre a base della successiva gara" è "immediatamente impugnabile da coloro che abbiano presentato proposte concorrenti in relazione alla medesima opera pubblica";
   b) più specificamente,
tale atto risulta connotato da "lesività", atteso che, da un lato, crea, per il soggetto prescelto "una posizione di vantaggio certa e non meramente eventuale", mentre, "sul versante opposto, per i concorrenti non prescelti, ... determina un definitivo arresto procedimentale" e, comunque, pone quest'ultimi "in una posizione di pati rispetto al diritto potestativo di prelazione del promotore";
   c) "
in definitiva, il bene della vita nel procedimento di project financing è il conseguimento della concessione sulla base del progetto presentato nella prima fase, sicché se tale progetto non viene selezionato come di pubblico interesse, è immediatamente leso l'interesse a conseguire la concessione sulla base del proprio progetto", con la conseguenza che l'atto di scelta "del promotore è immediatamente e autonomamente lesivo, e immediatamente impugnabile da parte degli interessati";
pervenendo, in conclusione, ad affermare il "principio di diritto" secondo il quale "
nel procedimento di project financing, articolato in più fasi, la prima delle quali si conclude con la scelta, da parte della stazione appaltante, del promotore, l'atto di scelta del promotore determina una immediata posizione di vantaggio per il soggetto prescelto e un definitivo arresto procedimentale per i concorrenti non prescelti; tale atto è pertanto lesivo e deve essere immediatamente impugnato dai concorrenti non prescelti, senza attendere l'esito degli ulteriori subprocedimenti di aggiudicazione della concessione".
Tutto ciò detto, appare doveroso convenire con la parte resistente in ordine all'impossibilità di ritenere applicabile il principio di cui sopra in ordine alla controversia in trattazione, atteso che, in quest'ultima, la ricorrente non assume la veste di "concorrente non prescelto", ossia non si pone in alcun modo come tale.
In definitiva, chiara si rivela l'insussistenza di utili condizioni che possano indurre a riconoscere operante in relazione alla ricorrente il principio in precedenza richiamato, atteso che l’avviso de quo era volto esclusivamente ad operare una ricerca di mercato, il cui esito non sarebbe stato affatto vincolante per la PA con riguardo all’indizione della gara, all’individuazione dei futuri soggetti legittimati a concorrere nonché, infine, alla determinazione dei requisiti di partecipazione eventualmente richiesti.
Ad una differente conclusione non vale -del resto- a condurre il richiamo dei principi di carattere generale che governano l'interesse e la legittimazione ad agire nell'azione di annullamento dinanzi al giudice amministrativo.
In primo luogo, non può che prendersi atto che la giurisprudenza in precedenza richiamata già vale di per sé a dare conto dell'inidoneità degli atti afferenti la scelta del promotore a comportare un "danno attuale" se non a carico -appunto- dei soggetti che, propostisi come tali, non sono stati utilmente selezionati, a cui non può logicamente che riconnettersi il riconoscimento dell'inammissibilità di eventuali impugnative proposte da soggetti che risultino estranei alla fase di selezione del promotore nella specie neppure indetta.
In secondo luogo, è noto che la proposizione dell'azione di annullamento richiede l'effettiva titolarità di "un interesse differenziato e qualificato".
Come già ricordato, l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (cfr. anche le decisioni n. 1 del 2003 e n. 9 del 2014) ha avuto modo in più occasioni di affermare la regola secondo cui la legittimazione all'impugnazione di atti e provvedimenti afferenti "gare di appalto e affidamento di servizi" spetta esclusivamente all'impresa che abbia partecipato alla procedura (fatte salve precise e ben definite "eccezioni", comunque tese a tutelare il principio di "concorrenza" tra le imprese).
Tenuto conto delle peculiarità del caso e, precipuamente, della circostanza che, nell'ipotesi in trattazione, si tratta semplicemente della fase preliminare di individuazione del promotore, connotata da amplissima discrezionalità amministrativa, poiché volta "non già alla scelta della migliore fra una pluralità di offerte sulla base di criteri tecnici ed economici preordinati, ma alla valutazione di un interesse pubblico che giustifichi, alla stregua della programmazione delle opere pubbliche, la decisione se indire o meno la procedura con gli indicati requisiti di partecipazione" (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. V, 31.08.2015, n. 4035, già cit.), non può, peraltro, che aderirsi all'orientamento giurisprudenziale secondo il quale
l'azione di annullamento davanti al giudice amministrativo è soggetta a due condizioni, rispettivamente consistenti nell'esistenza di una posizione di interesse legittimo, direttamente discendente da una situazione qualificata (legitimatio ad causam) che distingue il soggetto dal quisque de populo, e nella sussistenza dell'interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. ad ottenere un risultato utile e concreto, collegato al conseguimento di un preciso e ben individuato bene della vita (legitimatio ad processum).
In altri termini,
la legittimazione ad agire richiede la titolarità in capo al soggetto che propone l'azione dell'interesse a conseguire un determinato "vantaggio", sempre che, però, l'obiettivo di cui si tratta risulti correlato ad una posizione differenziata e "qualificata" che si profili idonea -in quanto tale- a porre il predetto nell'effettiva e concreta condizione di ottenere il bene della vita a cui lo stesso aspira (cfr. anche C.d.S., Ad.Pl., n. 449 dell'01.09.2014).
In sintesi,
il soggetto che contesta la legittimità di un provvedimento amministrativo e, quindi, aspira alla rimozione di quest'ultimo deve rivelarsi titolare di una posizione meritevole di tutela in ragione delle specifiche peculiarità che la connotano, atte a porre il soggetto in questione nella effettiva condizione di conseguire un vantaggio pratico e concreto dal buon esito della proposizione dell'azione.
Orbene, nel caso in trattazione, la titolarità di una tale posizione non è configurabile, deponendo in tal senso l'esigua consistenza giuridica che inequivocabilmente connota la scelta dell’amministrazione di bandire l’avviso de quo e, quindi, la connessa piena facoltà dell'Amministrazione di abbandonare l’iniziativa finanche successivamente alla scelta del progetto dichiarato di pubblico interesse, senza, tra l'altro, che una tale condotta valga ad integrare "alcuna forma risarcitoria e nemmeno indennitaria", specie "quando, come nel caso, la proposta di progetto sia ad iniziativa privata" (cfr. C.d.S., Sez. V, 26.06.2015, n. 3237 ma anche Sez. V, n. 7277 del 2010).
Del resto, non vi è chi non veda come la controversia prospettata investa -in definitiva- la legittimità della scelta operata dal Comune di Salerno di avviare un’indagine di mercato tesa anche ad individuare i profili professionali dei possibili offerenti e, dunque, ammetterne la sindacabilità da parte di un soggetto privo di una differenziata e ben qualificata situazione giuridica non potrebbe che determinare uno sconvolgimento dei principi che governano la legitimatio ad processum.
In forza di tutte le ragioni illustrate, il ricorso introduttivo del presente giudizio va dichiarato inammissibile.

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAAscensori, via libera facilitato. Installazione a carico di un solo condomino, senza delibera. La conferma dell’indirizzo giurisprudenziale di legittimità arriva dall’ordinanza n. 31462.
Corsia preferenziale per gli ascensori in condominio. L'installazione dell'impianto nell'edificio che ne sia privo può infatti essere eseguita anche da un solo condomino e senza autorizzazione assembleare, purché i relativi costi siano integralmente sostenuti da quest'ultimo e siano nel contempo adeguatamente salvaguardati gli interessi degli altri comproprietari.
La conferma dell'indirizzo giurisprudenziale di legittimità di sempre maggiore apertura verso gli interventi volti alla rimozione delle cosiddette barriere architettoniche e alla garanzia di una reale accessibilità degli edifici viene dall'ultima pronuncia sul tema della Corte di Cassazione, Sez. II civile, con l'ordinanza 05.12.2018 n. 31462.
Il caso concreto. Nella specie alcuni condomini avevano chiesto al tribunale di accertare e dichiarare l'illegittimità dell'impianto di ascensore realizzato da un altro comproprietario nell'edificio condominiale, con condanna alla riduzione in pristino dello stato dei luoghi e al risarcimento del danno. Quest'ultimo si era quindi costituito in giudizio per difendere la legittimità del proprio operato. Il giudice di primo grado aveva rigettato la domanda e la sentenza era quindi stata appellata. Anche i giudici del riesame avevano però ritenuto infondata la domanda dei condomini, confermando a loro volta la decisione impugnata.
I giudici di appello, dopo avere richiamato le indagini peritali svolte nel corso del precedente giudizio, avevano infatti preso posizione sulle varie questioni poste dai condomini a fondamento della propria domanda. Questi si erano infatti lamentati in primo luogo del fatto che l'installazione del nuovo impianto nell'edificio che ne era privo aveva ridotto lo spazio utile per il passaggio delle persone e di eventuali biciclette e scooter. La Corte di appello aveva a questo proposito evidenziato come dalla relazione tecnica d'ufficio fosse stata evidenziata la possibilità di risolvere questo problema con la rimozione degli scarichi e la demolizione della muratura di rivestimento, allargando in tal modo il varco rimasto a seguito dell'installazione dell'impianto in modo da consentire anche il passaggio delle moto.
Quanto poi alla dedotta riduzione dell'illuminazione dei locali, era stato rilevato come fossero comunque garantiti gli standard minimi previsti dal regolamento edilizio comunale per le nuove costruzioni, potendosi inoltre fare ricorso, come già avveniva, all'illuminazione artificiale, tenuto conto del fatto che si trattava di locali comuni per i quali non era prevista la permanenza di persone. Infine, quanto alla contestata riduzione della ventilazione, era stato evidenziato come con lavori di modesta entità sarebbe stato possibile ripristinare i requisiti previsti dal menzionato regolamento edilizio, potendosi anche in tal caso fare ricorso a un impianto di ventilazione meccanica.
La Corte di appello, confermando la decisione di primo grado, aveva quindi evidenziato come, avendo i convenuti assunto a proprio carico tutte le spese connesse alla realizzazione dell'impianto, costituisse un loro diritto, ai sensi dell'art. 1102 c.c., procedere alla realizzazione dell'ascensore, dovendosi attribuire la prevalenza all'esigenza di avvalersi di uno strumento indispensabile per un completo ed effettivo godimento del bene immobile.
La garanzia dell'esercizio di tale diritto era inoltre da ritenersi nella specie adeguatamente contemperata con gli opposti diritti vantati dai condomini appellanti, poiché i menzionati effetti negativi sulle rispettive proprietà scaturenti dal nuovo impianto dovevano ritenersi limitati e facilmente risolvibili. Di qui la decisione dei predetti comproprietari di impugnare anche tale sentenza dinanzi alla Suprema corte, contestando il fatto che i giudici di appello avessero fatto applicazione dell'art. 1102 c.c. invece che dell'art. 1120 c.c. in materia di innovazioni.
La decisione della Cassazione. I giudici di legittimità, nel respingere a loro volta l'impugnazione, hanno in primo luogo ricordato e confermato la più recente giurisprudenza che, nel corso degli ultimi anni, facendo leva sul disposto dell'art. 1102 c.c., è giunta a inquadrare l'intervento volto all'installazione di un impianto di ascensore all'interno di un edificio che ne sia privo, utilizzando a tale fine le parti comuni dell'edificio, come indispensabile ai fini dell'accessibilità dell'immobile e della reale ed effettiva abitabilità del medesimo.
La Suprema corte (sentenza n. 7938/2017) ha quindi recentemente ribadito come in tema di eliminazione delle c.d. barriere architettoniche la legge n. 13/1989 costituisca espressione di un principio di solidarietà sociale e persegua finalità di carattere pubblicistico volte a favorire, nell'interesse generale, l'accessibilità degli edifici. Detto principio implica il contemperamento di vari interessi, tra i quali deve includersi anche quello delle persone disabili all'eliminazione delle barriere architettoniche, trattandosi di un diritto fondamentale che prescinde dall'effettiva utilizzazione, da parte di costoro, degli edifici interessati e che conferisce comunque legittimità all'intervento innovativo, purché lo stesso sia idoneo, anche se non a eliminare del tutto, quantomeno ad attenuare le condizioni di disagio nella fruizione del bene primario dell'abitazione (sentenze nn. 6129/2017 e 18334/2012).
Del resto, è stato sottolineato dai giudici della seconda sezione civile della Cassazione, nei casi in cui non debba procedersi a una ripartizione tra tutti i condomini della spesa di installazione dell'impianto, in quanto assunta interamente dal solo comproprietario interessato (come avvenuto nel caso di specie), trova in ogni caso applicazione il ricordato art. 1102 c.c., che contempla anche le innovazioni e in forza del quale ciascun partecipante può servirsi del bene comune, a condizione che non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri condomini di farne parimenti uso, apportandovi quindi a proprie spese le modificazioni necessarie per il suo miglior godimento (sentenze nn. 25872/2010 e 24006/2004).
Detta valutazione di merito, secondo la Cassazione, era stata compiuta dalla corte di appello, che aveva effettivamente escluso che sussistesse una limitazione dell'altrui proprietà incompatibile con la realizzazione dell'opera. Di qui il rigetto del ricorso e la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Le ultime decisioni della Suprema corte in tema di ascensori. I giudici di legittimità si sono pronunciati più volte nell'ultimo periodo in merito all'installazione e all'utilizzo dell'impianto di ascensore. Con la sentenza n. 20713/2017 (si veda ItaliaOggi Sette del 18/09/2017) è stato precisato per esempio che l'installazione dell'ascensore nell'edificio che ne sia privo può essere effettuata anche da una parte dei condomini, a condizione che gli stessi ne sopportino per intero la relativa spesa.
Tuttavia gli altri condomini, ove in prosieguo intendano utilizzare a loro volta l'impianto, saranno legittimati a farlo la saranno tenuti a rifondere ai primi una quota delle spese sostenute, opportunamente rivalutata, divenendo così a loro volta comproprietari dell'impianto. Con la più recente ordinanza n. 22157 del 12/09/2018 (si veda ItaliaOggi Sette del 24/09/2018), è stato invece chiarito che anche i proprietari dei negozi o dei locali siti al piano terra con accesso diretto dalla strada sono tenuti a concorrere nelle spese di manutenzione straordinaria o di sostituzione dell'impianto di ascensore.
E, infatti, come illustrato nella precedente sentenza n. 14697 del 14/07/2015 (si veda ItaliaOggi Sette del 03/08/2015), l'ascensore condominiale si presume bene di proprietà comune, salvo diversa ed espressa previsione contenuta in un regolamento di natura contrattuale o in una delibera assembleare assunta all'unanimità dei partecipanti al condominio. A eccezione di questo caso, le spese di conservazione dell'impianto restano quindi a carico dell'intera collettività condominiale, anche dei proprietari delle unità immobiliari site al piano terreno
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.12.2018).

PUBBLICO IMPIEGO: Il rimborso non è diritto.
In materia di oneri di assistenza legale per fatti commessi dal pubblico dipendente nell'espletamento del servizio, non sussiste un diritto incondizionato ed assoluto al rimborso delle spese da parte dell'amministrazione pubblica.

Questo il principio che è stato affermato dalla Corte di Cassazione, Sez. lavoro, nella recente sentenza 04.12.2018 n. 31324.
Affrontando la disciplina prevista dall'articolo 28 del contratto collettivo nazionale di lavoro (Ccnl) del 14.09.2000, applicabile al personale del comparto regioni-autonomie locali, la Corte di cassazione precisa che la stessa va interpretata nel senso che l'obbligo del datore di lavoro, avente a oggetto l'assunzione diretta degli oneri di difesa fin dall'inizio del procedimento, con la nomina di un difensore di comune gradimento, non può ritenersi sussistente, qualora il dipendente abbia unilateralmente provveduto a scelta e nomina del legale, senza previa comunicazione all'amministrazione, ancorché successivamente abbia effettuato la comunicazione della nomina (già) compiuta.
La Corte territoriale aveva accertato che il dipendente protagonista della vicenda non aveva richiesto autorizzazione al Comune e aveva pertanto ritenuto irrilevante la circostanza che l'ente fosse a conoscenza di una contravvenzione.
La Corte di cassazione accoglie l'orientamento adottato dalla Corte territoriale e ne amplifica la logica interpretativa, muovendo dall'esigenza di consentire all'ente pubblico di valutare preventivamente anche l'assenza di un possibile conflitto d'interesse con il dipendente sottoposto a giudizio (articolo ItaliaOggi Sette del 24.12.2018).

EDILIZIA PRIVATA: Zone terremotate ed emergenza "sisma" - Opere precarie e manufatti leggeri, prefabbricati, strutture di qualsiasi genere quali roulotte, camper, case mobili ecc. - Concetto di "temporaneità" - Artt. 6, 7, 10, 44 d.P.R. n. 380/2001 - Artt. 142, 181 d.lgs. n. 42/2004.
Tutte le opere, (ancorché destinate a soddisfare esigenze abitative certamente temporanee ma nemmeno di immediata risoluzione), realizzate al fine di superare l'emergenza "sisma" devono possedere caratteristiche tali da poter essere rimosse alla cessazione dell'esigenza stessa.
Diversamente ragionando si consentirebbe la violazione delle norme che disciplinano il governo del territorio al di fuori delle specifiche esigenze che ne giustificano la deroga. Pertanto, l'interpretazione del concetto di "temporaneità" deve essere rigorosa e riguardare aspetti oggettivi dell'opera, non potendo tale predicato derivare, per proprietà transitiva, dalla natura extra ordinem della fonte di diritto che ne legittima la costruzione.

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PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Stato di emergenza - Autorità amministrative munite di poteri di ordinanza - Carattere eccezionale del potere di deroga della normativa primaria - Nesso di strumentalità.
Il carattere eccezionale del potere di deroga della normativa primaria, conferito ad autorità amministrative munite di poteri di ordinanza, sulla base di specifica autorizzazione, implica che lo stesso sia temporalmente delimitato e ben definito nel contenuto, tempi e modalità di esercizio, dovendo altresì essere specificato il nesso di strumentalità tra lo stato di emergenza e le norme di cui si consente la temporanea sospensione.
In particolare, l"emergenza", pur se riferita a finalità di interesse generale, non può compromettere il nucleo essenziale delle attribuzioni regionali e, a tal proposito, va rilevato che la legge sulla protezione civile n. 225 del 1992 si fa carico di dette esigenze, apparendo peraltro rispettosa del principio della necessaria proporzione tra "evento" e misure da adottare (v. art. 5, primo comma) e che nell'ipotesi di dubbi applicativi, tale normativa va comunque interpretata 'secundum ordinem', in modo da scongiurare qualsiasi pericolo di alterazione del sistema delle fonti
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.11.2018 n. 53638 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nozione di carico urbanistico - Elementi c.d. primari e secondari o di servizio - Proporzione con l'insediamento primario - Opere abusive - Ordine di demolizione - Natura di sanzione amministrativa.
Il concetto di carico urbanistico, deriva dall'osservazione che ogni insediamento umano è costituito da un elemento c.d. primario (abitazioni, uffici, opifici, negozi) e da uno secondario di servizio (opere pubbliche in genere, uffici pubblici, parchi, strade, fognature, elettrificazione, servizio idrico, condutture di erogazione del gas) che deve essere proporzionato all'insediamento primario ossia al numero degli abitanti insediati ed alle caratteristiche dell'attività da costoro svolte.
Quindi, il carico urbanistico è l'effetto che viene prodotto dall'insediamento primario come domanda di strutture ed opere collettive, in dipendenza del numero delle persone insediate su di un determinato territorio.
Tale risultato viene verificato e conseguito con l'emanazione, per le opere abusive, dell'ordine di demolizione (adottato dal giudice con la sentenza di condanna, salvo che le opere siano state altrimenti demolite).
Detto provvedimento è formalmente giurisdizionale ma qualificabile sostanzialmente come sanzione amministrativa; esso, comunque, pur esulando dalla nozione di effetto penale, costituisce atto dovuto per l'Autorità giudiziaria, privo di contenuto discrezionale e conseguenziale alla sentenza di condanna
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.11.2018 n. 53638 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reati paesaggistici - Sequestro preventivo - Effettiva lesione dell'ambiente e del paesaggio - Necessità - Giurisprudenza.
In tema di sequestro preventivo per reati paesaggistici, la sola esistenza di una struttura abusiva ultimata non integra i requisiti della concretezza ed attualità del pericolo, in assenza di ulteriori elementi idonei a dimostrare che la disponibilità della stessa, da parte del soggetto indagato o di terzi, possa implicare una effettiva lesione dell'ambiente e del paesaggio (Cass. Sez. 3, n. 2001 del 24/11/2017, dep. 2018, Dessi; Sez. 3, n. 50336 del 05/07/2016, Del Gaizo) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.11.2018 n. 53638 - link a www.ambientediritto.it).

VARIIl danno non passa all'erede.
Il danno erariale, anche se accertato con sentenza passata in giudicato, non è automaticamente trasmissibile agli eredi.

Così la Corte di Cassazione, Sez. III civile, con sentenza 29.11.2018, n. 30856.
L'Agenzia per la riscossione di Milano aveva notificato ai figli, in qualità di eredi, una cartella di pagamento per euro 3.921.989,91, relativa all'importo che il padre, deceduto nel 2007, era stato condannato a pagare a titolo di risarcimento danni nei confronti dell'erario con sentenza della Corte dei conti passata in giudicato. Gli eredi avevano così proposto opposizione ex art. 615, comma 1, cpc, contro la cartella di pagamento, puntualizzando di aver accettato l'eredità con beneficio di inventario e deducendo in via principale l'inesistenza di un titolo esecutivo nei loro confronti.
Sostenevano che il titolo esecutivo emesso prima del decesso del responsabile dell'illecito, ex art. 1, comma 1, legge 20/1994 avrebbe potuto essere azionato esecutivamente nei loro confronti «solo previo l'accertamento della sussistenza delle condizioni di illecito arricchimento del dante causa e di conseguente indebito arricchimento degli eredi stessi», richieste dalla legge ai fini della trasferibilità dell'obbligazione in capo agli eredi. La Cassazione, ponendo definitivamente fine alla controversia, accoglie la posizione dei figli ricorrenti.
In tema di responsabilità amministrativa, infatti, anche quando il debito risarcitorio del pubblico dipendente sia stato accertato dal giudice contabile con sentenza passata in giudicato, la trasmissibilità agli eredi si verifica soltanto nei casi in cui il fatto illecito abbia non soltanto arrecato un danno all'erario, ma anche procurato al dante causa, autore dello stesso, un illecito arricchimento, il che richiede che tale presupposto –così come il conseguente indebito arricchimento degli eredi– sia stato «accertato nel giudizio dinanzi al giudice contabile».
Pertanto non è riscontrabile alcun automatismo nella trasmissione del debito, perché soggetto a presupposti che devono essere accertati in sede di giurisdizione contabile (articolo ItaliaOggi Sette del 17.12.2018).

TRIBUTIAvviso di accertamento valido anche se non allega la delibera.
È legittimo l'avviso di accertamento emanato dal comune di Milano nonostante non abbia allegato all'atto la delibera con la quale ha determinato le tariffe relative all'imposta sulla pubblicità. Agli atti impositivi devono essere allegati i documenti non conosciuti e non conoscibili dai contribuenti. Quindi, è escluso l'obbligo di allegazione per le delibere su aliquote e tariffe che devono essere necessariamente pubblicate.

È quanto ha affermato la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con la sentenza 21.11.2018 n. 30053.
Per i giudici di piazza Cavour, le delibere comunali relative alla determinazione delle tariffe «non rientrano tra i documenti che debbono essere allegati agli avvisi di accertamento, atteso che si tratta di atti amministrativi di carattere generale». L'obbligo di allegazione imposto dall'art. 7 dello Statuto del contribuente (legge 212/2000) riguarda «gli atti non conosciuti e non altrimenti conoscibili dal contribuente, ma non gli atti generali come le delibere del consiglio comunale che essendo soggette a pubblicità legale, si presumono conoscibili».
In effetti, l'obbligo di allegazione agli avvisi d'accertamento degli atti cui si fa riferimento nella motivazione, in base al citato art. 7, non si estende anche agli atti generali come le delibere comunali, la cui conoscibilità si ritiene presunta. La loro affissione all'albo pretorio, effettuata nei modi e nei termini previsti dalla legge, costituisce una forma di pubblicità di per sé esaustiva ai fini della presunzione di piena conoscenza erga omnes. Si tratta infatti di atti a contenuto generale che costituiscono un presupposto dell'avviso di accertamento e non un elemento motivazionale dello stesso.
L'obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi è stato introdotto nel nostro ordinamento dall'art. 3 della legge 241/1990. Ma la motivazione e l'allegazione non è richiesta per gli atti normativi e per quelli a contenuto generale. Nello specifico, l'onere di allegazione posto a carico dell'amministrazione si riferisce agli atti che rappresentano la motivazione della pretesa tributaria e non agli atti di carattere normativo o regolamentare.
Ancora oggi, però, è dibattuta la questione relativa alla motivazione delle delibere, soprattutto per quelle adottate in materia di tassa rifiuti, tra giudici di legittimità e di merito e anche tra giudici amministrativi. Per esempio, il Tar per l'Emilia Romagna (sentenza 1056/2015) ha sostenuto che la delibera che fissa le tariffe della tassa rifiuti deve essere motivata e deve indicare i costi di esercizio dell'anno precedente, le stime dell'anno di competenza, il gettito della tassa e le ragioni dell'eventuale aumento dei costi e delle tariffe.
Il Tar per la Puglia (sentenza 1238/2013), invece, ha stabilito che il comune non è tenuto a motivare l'aumento delle tariffe Tarsu. L'aumento può essere giustificato dalla necessità di coprire i costi del servizio. In senso contrario si è espresso il Consiglio di Stato (sentenze 5616/2010 e 504/2015)), secondo cui l'aumento delle tariffe va sempre motivato. Mentre per la Cassazione (sentenza 22804/2006; ordinanza 26132/2011) è escluso questo adempimento per gli atti generali (articolo ItaliaOggi del 14.12.2018).

APPALTI SERVIZI: Affidamento in house e obbligo di motivazione: alla Consulta norma del Codice Appalti.
Il Tar per la Liguria solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 192, comma 2, del d.lgs. n. 50 del 2016 (nuovo codice dei contratti pubblici), nella parte in cui esso impone all’amministrazione, che voglia avvalersi dell’affidamento in house per servizi disponibili sul mercato in regime di concorrenza, di esternare le ragioni della propria scelta, motivando sulle ragioni del mancato ricorso al mercato.
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Contratti pubblici – Affidamento in house – Obbligo di motivazione sulle ragioni del mancato ricorso al mercato – Eccesso di delega legislativa – Questione non manifestamente infondata di costituzionalità
E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 192, comma 2, del d.lgs. n. 50 del 2016, nella parte in cui prevede che le stazioni appaltanti diano conto, nella motivazione del provvedimento di affidamento in house, “delle ragioni del mancato ricorso al mercato”, per contrasto con l’art. 76 della Costituzione, in relazione all’art. 1, lettere a) ed eee), della legge di delegazione n. 11 del 2016 (recante deleghe al Governo per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014). (1)
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   (1) I. – Un’impresa, gestore uscente del servizio di parcheggio a pagamento nel Comune di Alassio, impugnava dinnanzi al Tar per la Liguria la deliberazione della Giunta comunale con cui veniva disposto l’affidamento del servizio in house (in favore di una società partecipata interamente dal Comune stesso).
A sostegno del gravame era dedotta la violazione dell’articolo 106 del TFUE e dei principi comunitari in materia di in house providing –lamentandosi, in particolare, che l’amministrazione non avrebbe dato adeguatamente conto della preferenza per il modello dell’in house e che detta scelta non sarebbe stata preceduta da una concreta e trasparente disamina delle alternative esistenti, in contrasto con quanto prescrive l’art. 192, comma 2, del codice– oltre al vizio di eccesso di potere per sviamento.
L’adito Collegio, con l’ordinanza qui in esame, ha sospeso il processo ed ha rimesso alla Corte costituzionale la questione di legittimità della menzionata disposizione, laddove essa impone alla stazione appaltante di motivare le ragioni del mancato ricorso al mercato.
Premessa la sussistenza del requisito della rilevanza (trattandosi di commessa pubblica avente ad oggetto servizi disponibili sul mercato in regime di concorrenza, e rientrante, in ragione del suo importo, nella soglia di rilevanza comunitaria, non essendo peraltro contestato che il soggetto individuato quale affidatario possegga effettivamente i requisiti della società in house).
   II. – Il Tar ha così motivato in punto di non manifesta infondatezza:
      a) l’in house providing (di cui al 5° considerando della direttiva n. 2014/24/UE ed all’art. 2, comma 1, della direttiva n. 2014/23/UE) costituisce una specifica applicazione del principio di autorganizzazione o di libera amministrazione delle autorità pubbliche, affermato anche dalla giurisprudenza della Corte di Lussemburgo nella sentenza Stadt Halle al punto n. 48 (Corte di giustizia UE, 11.01.2005, C-26/03, in Foro it., 2005, IV, 136, con nota di R. URSI, Una svolta nella gestione dei servizi pubblici locali: non c’è «casa» per le società a capitale misto, in Giur. comm., 2007, II, 60, con nota di R. OCCHILUPO, L’ordinamento comunitario, gli affidamenti in house e il nuovo diritto societario, in Giorn. dir. amm., 2005, 271, con nota di C. GUCCIONE, L’affidamento diretto di servizi a società mista, in Urbanistica e appalti, 2005, 288, con nota di R. DE NICTOLIS, La Corte CE si pronuncia in tema di tutela nella trattativa privata, negli affidamenti in house e a società miste, in Nuovo dir., 2005, 351, con nota di IERA, in Contratti Stato enti pubbl., 2005, 231, con nota di ASTEGIANO, in Foro amm.- Cons. Stato, 2005, 665, con nota di E. SCOTTI, Le società miste tra in house providing e partenariato pubblico privato: osservazioni a margine di una recente pronuncia della Corte di giustizia, in Dir. comm. internaz., 2005, 167, con nota di FERRANDO, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 2005, 992, con nota di V. FERRARO, La nuova ricostruzione dell'in house providing proposta dalla Corte di giustizia nella sentenza Stadt Halle, in Guida al dir., 2005, 4, 101, con nota di SCINO, in Dir. e giustizia, 2005, 5, 93, con nota di M. ALESIO, Società miste, no all'affidamento diretto - mai appalti in house se ci sono i privati, in Servizi pubbl. e appalti, 2005, 453, con nota di F. ROSSI, Gli affidamenti (quasi) in house: la partecipazione pubblica totalitaria come elemento essenziale.
Problemi e quesiti, ed in Rass. avv. Stato, 2004, 1100, con nota di MORICCA); coerentemente con questi principi, l’art. 12 della direttiva n. 2014/24/UE “esclude espressamente dal proprio ambito di applicazione, cioè dalla necessità di una previa procedura ad evidenza pubblica, gli appalti aggiudicati da un'amministrazione aggiudicatrice a una persona giuridica di diritto pubblico o di diritto privato, quando siano soddisfatte le tre condizioni proprie dell’in house” (condizioni che, riepilogativamente, sono le seguenti:
i) l'amministrazione aggiudicatrice esercita sulla persona giuridica di cui trattasi un controllo analogo a quello da essa esercitato sui propri servizi;
ii) oltre l'80% delle attività della persona giuridica controllata sono effettuate nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall'amministrazione aggiudicatrice controllante o da altre persone giuridiche controllate dall'amministrazione aggiudicatrice di cui trattasi;
iii) nella persona giuridica controllata non vi è alcuna partecipazione diretta di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati che non comportano controllo o potere di veto, prescritte dalle disposizioni legislative nazionali, in conformità dei trattati, che non esercitano un'influenza determinante sulla persona giuridica controllata);
      b) deve quindi ritenersi ormai definitivamente acquisito –quantomeno in ambito europeo– il principio che l’in house providing non configura affatto un’ipotesi eccezionale e derogatoria di gestione dei servizi pubblici rispetto all’ordinario espletamento di una procedura di evidenza pubblica, ma costituisce una delle ordinarie forme organizzative di conferimento della titolarità del servizio, la cui individuazione in concreto è rimessa alle amministrazioni, sulla base di un mero giudizio di opportunità e convenienza economica;
      c) tale principio può anzi ritenersi operante anche nell’ordinamento interno, come riconosciuto da diversi arresti del Consiglio di Stato (vengono citate: Consiglio di Stato, sezione V, 15.03.2016, n. 1034, in Riv. giur. servizi pubbl., 2016, 489, solo massima, con nota di SORRENTINO; Consiglio di Stato, sezione III, 24.10.2017, n. 4902, in Foro amm., 2017, 1991; Consiglio di Stato, sezione V, 18.07.2017, n. 3554, in Guida al dir., 2017, 34, 62, con nota di D. PONTE), dovendosi valorizzare il disposto dell’art. 34, comma 20, del decreto-legge n. 179 del 2012, convertito in legge n. 221 del 2012, norma quest’ultima che, per i servizi pubblici locali di rilevanza economica, prevede che “l'affidamento del servizio è effettuato sulla base di apposita relazione, pubblicata sul sito internet dell'ente affidante, che dà conto delle ragioni e della sussistenza dei requisiti previsti dall'ordinamento europeo per la forma di affidamento prescelta e che definisce i contenuti specifici degli obblighi di servizio pubblico e servizio universale, indicando le compensazioni economiche se previste”;
      d) tale norma, specificamente dettata per i servizi pubblici locali di rilevanza economica, “non contiene alcun riferimento alle ragioni del mancato ricorso prioritario al mercato, che sono ultronee rispetto all’istituto dell’in house”; ciò, diversamente dall’art. 192, comma 2, del codice appalti, il quale, nell’imporre un onere motivazionale supplementare relativamente alle “ragioni del mancato ricorso al mercato”, finisce con l’eccedere rispetto ai principi ed ai criteri direttivi contenuti nella legge di delega n. 11 del 2016, segnatamente con riferimento:
         d1) alla lett. a) dell’art. 1, che prevede il c.d. divieto di gold plating (ossia il divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive, come definiti dall'articolo 14, commi 24-ter e 24-quater, della legge n. 246 del 2005): l’onere amministrativo di motivazione circa le ragioni del mancato ricorso al mercato appare infatti “maggiore e più gravoso di quelli strettamente necessari per l’attuazione della direttiva n. 2014/24/UE, la quale, come visto supra, per un verso ammette senz’altro gli affidamenti in house a patto che ricorrano le tre condizioni di cui all’art. 12, per altro verso ha escluso i relativi contratti dal proprio campo di applicazione, e dunque dall’obbligo di esperire preventivamente una procedura di gara ad evidenza pubblica (cioè, il ricorso al mercato)”;
         d2) alla lett. eee) dell’art. 1 la quale, nel riferirsi alla “garanzia di adeguati livelli di pubblicità e trasparenza delle procedure anche per gli appalti pubblici e i contratti di concessione tra enti nell'ambito del settore pubblico, cosiddetti affidamenti in house, prevedendo, anche per questi enti, l'obbligo di pubblicazione di tutti gli atti connessi all'affidamento, assicurando, anche nelle forme di aggiudicazione diretta, la valutazione sulla congruità economica delle offerte, avuto riguardo all'oggetto e al valore della prestazione, e prevedendo l'istituzione, a cura dell'ANAC, di un elenco di enti aggiudicatori di affidamenti in house ovvero che esercitano funzioni di controllo o di collegamento rispetto ad altri enti, tali da consentire gli affidamenti diretti”, secondo il Tar non menziona in alcun modo la necessità di motivare le ragioni del mancato ricorso al mercato e, soprattutto, “non ha nulla a che vedere con la valutazione sulla congruità economica delle offerte, che attiene piuttosto alla loro sostenibilità in termini di prezzi e di costi proposti (argomenta ex art. 97, comma 1, del D.Lgs. n. 50/2016), cioè con l’unico elemento che il criterio direttivo imponeva di valutare, oltre a quello di pubblicità e trasparenza degli affidamenti, mediante l'istituzione, a cura dell'ANAC, dell’elenco di enti aggiudicatori di affidamenti in house”.
   III. – Per completezza, si segnala quanto segue:
      e) in sede di parere sullo schema di decreto legislativo recante “Codice degli appalti pubblici e dei contratti di concessione”, ai sensi dell'articolo 1, comma 3, della legge n. 11 del 2016, il Consiglio di Stato, aveva osservato che l’onere di motivazione imposto da (quello che sarebbe diventato) l’art. 192, comma 2, secondo cui “Ai fini dell'affidamento in house di un contratto avente ad oggetto servizi disponibili sul mercato in regime di concorrenza, le stazioni appaltanti effettuano preventivamente la valutazione sulla congruità economica dell'offerta dei soggetti in house, avuto riguardo all'oggetto e al valore della prestazione, dando conto nella motivazione del provvedimento di affidamento delle ragioni del mancato ricorso al mercato, nonché dei benefici per la collettività della forma di gestione prescelta, anche con riferimento agli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche”, costituisce “un onere motivazionale rafforzato, il quale consente un penetrante controllo della scelta effettuata dall'Amministrazione, anzitutto sul piano dell'efficienza amministrativa e del razionale impiego delle risorse pubbliche” (comm. spec., parere 01.04.2016, n. 464, le cui massime sono riportate in Foro amm., 2016, 824);
      f) la giurisprudenza amministrativa, in sede di delibazione della “motivazione” resa dalla stazione appaltante sul “mancato ricorso al mercato”, si mostra al momento piuttosto rigorosa: cfr., di recente, Consiglio di Stato, sezione V, sentenza 16.11.2018, n. 6456, la quale –pronunciandosi sulla legittimità di un affidamento diretto, in house, del servizio di gestione dei rifiuti per un gruppo di Comuni ricompresi in un’Assemblea territoriale d’ambito marchigiana (ATO 2 Ancona)– ha ritenuto che tale onere motivazionale debba essere adempiuto mediante un “compiuto esame comparativo”, da parte dell’amministrazione, sui costi medi del servizio da affidarsi e sulle relative performances che, nel medesimo ambito territoriale, risultino già svolti sia da operatori privati sia da altre società ad integrale partecipazione pubblica, statuendosi per l’effetto che “è onere dell’autorità amministrativa affidante quello di rendere comunque comparabili i dati su cui il confronto viene svolto”, con necessaria allegazione di “dati di dettaglio” (nella fattispecie, posto che simili dati non erano stati forniti, si è quindi concluso nel senso di "un approfondimento insufficiente delle implicazioni derivanti dalla scelta del modello di gestione in house del servizio relativo ai rifiuti”, con conseguente annullamento, in parte qua, della delibera che aveva affidato il servizio in via diretta);
      g) analogamente il Consiglio di Stato, questa volta nella sede consultiva, ha affermato che “L’opzione di fondo, secondo il Collegio, dovrebbe essere nel senso che, fermo restando specifiche prescrizioni imposte dal diritto europeo, la decisione di non esternalizzare l’attività deve essere rigorosamente motivata dimostrando che la scelta organizzativa interna si risolve in un maggiore vantaggio per i cittadini. La mancanza di una libera decisione da parte dell’amministrazione pubblica è maggiormente coerente con il principio generale di tutela della concorrenza...” (così il parere della Commissione speciale n. 968 del 21.04.2016, reso in sede di analisi dello schema di decreto legislativo recante Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica, poi confluito nel d.lgs. n. 175 del 2016 il cui art. 5, comma 1, ha poi stabilito che “l’atto deliberativo di costituzione di una società a partecipazione pubblica, […] deve essere analiticamente motivato […] evidenziando, altresì, le ragioni e le finalità che giustificano tale scelta, anche sul piano della convenienza economica e della sostenibilità finanziaria, nonché di gestione diretta o esternalizzata del servizio affidato”).
In altra occasione, ancora in sede consultiva, va ricordato che il Consiglio di Stato –nel rilasciare il parere sullo schema del regolamento di attuazione degli interventi di cui all’articolo 1, commi 648 e 649, della legge n. 208 del 2015 (si tratta dello schema poi confluito nei dd.mm. nn. 125 e 126 del 2017, in tema di contributi per il decongestionamento della rete viaria e del trasporto marittimo e per i servizi di trasporto ferroviario intermodale)– ha affermato che l’affidamento ad una società in house, in via diretta, di molteplici attività di gestione (per come previsto all’art. 4 dello schema) non era assistito da un’adeguata motivazione, ricordando che, “ai sensi della vincolante disciplina sovranazionale, l’affidamento diretto di attività remunerate, da parte di pubbliche amministrazioni in favore di soggetti privati in house, non può giustificarsi solo in forza di una valutazione giuridico-formale, ma deve anche essere sorretto dalla dimostrazione della ragionevolezza economica della scelta compiuta”, con espresso richiamo proprio alla norma di cui all’art. 192 del d.lgs. n. 50 del 2016; così, in particolare, si legge nel parere: “Il Collegio dà per scontato che, anche nel caso di specie, tale valutazione di meritevolezza dell’affidamento alla RAM s.p.a. sia stata compiuta (giacché, diversamente, la scelta regolatoria sarebbe illegittima); sennonché, pure in questo caso, si deve purtroppo registrare un’assoluta laconicità sia della relazione tecnica sia di quella AIR (relazioni queste che, per i provvedimenti normativi, contengono, insieme all’ATN e alla relazione ministeriale, la “motivazione” degli intervento regolatori). Si impone, pertanto, la necessaria integrazione in parte qua della documentazione di supporto dello schema in esame” (Consiglio di Stato, sez. consultiva atti normativi, parere n. 774 del 29.03.2017, le cui massime si trovano in Foro amm., 2017, 610);
      h) alcune oscillazioni, circa la maggiore o minore intensità dell’onere di motivazione ai sensi dell’art. 192, comma 2, del d.lgs. n. 50 del 2016, si rinvengono nella giurisprudenza di primo grado:
         h1) Tar per la Lombardia, sezione III, sentenza 03.10.2016, n. 1781 (in Foro amm., 2016, 2453), ha annullato un affidamento in house (si trattava dell’affidamento del servizio idrico integrato per la Provincia di Varese) proprio per la “laconicità” della motivazione spesa dall’amministrazione: si è rilevato che la relazione all’uopo predisposta (ossia, la relazione predisposta ai sensi dell’art. 34, comma 20, del decreto-legge n. 179 del 2012, convertito in legge n. 221 del 2012, atto prodromico all’affidamento dei servizi pubblici locali di rilevanza economica) “non contiene alcuna valutazione di tipo concreto, riscontrabile, controllabile, intellegibile e pregnante sui profili della convenienza, anche non solo economica, della gestione prescelta, limitandosi ad apodittici riferimenti alla gestione in house che, come tali, sono da ritenersi privi di quel livello di concreta pregnanza richiesto per soddisfare l’onere di motivazione aggravato e di istruttoria ai sensi del combinato disposto degli art. 3 l. n. 241 del 1990 e 34, comma 20, D.L. 18.10.2012, n. 179. In altri termini nella relazione si dà per presupposta e scontata la scelta circa la forma di gestione del servizio senza che ne vengano illustrate le ragioni e gli elementi concreti su cui si fonda”, giungendosi pertanto alla conclusione che “la scelta e il conseguente affidamento diretto fondati su determinazioni che non forniscono alcuna ragione dell’opzione esercitata a monte, sono da ritenersi di per sé illegittimi...”);
         h2) con riferimento ad una commessa relativa all’affidamento del servizio di igiene urbana, Tar per la Sardegna, sezione I, sentenza 04.05.2018, n. 405 (in Foro amm., 2018, 923), ha ritenuto che, in simile fattispecie, non sarebbe in radice applicabile l’art. 192, comma 2, del d.lgs. n. 50 del 2016, con conseguente non necessità della motivazione in caso di affidamento in house, “ove si tenga conto del fatto che il servizio di igiene urbana non è riconducibile alla categoria dei servizi disponibili sul mercato in regime di concorrenza; e ciò per la semplice ragione che l’art. 198 del d.lgs. n. 152/2006 (norme in materia ambientale) riserva ai comuni «in regime di privativa» la «gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti assimilati avviati allo smaltimento», sottraendolo, pertanto, al mercato concorrenziale”;
         h3) per un caso in cui il giudice amministrativo ha ritenuto “esaurientemente e convincentemente motivata, tanto nei suoi profili in fatto quanto in quelli in diritto”, la delibera con cui un’Azienda sanitaria aveva affidato il servizio di pulizia e sanificazione in favore di una propria società in house, cfr. Tar per la Puglia–Lecce, sezione II, sentenza 05.03.2018, n. 383;
         h4) per la riaffermazione degli approdi cui era giunta, in precedenza, la giurisprudenza amministrativa in tema di motivazione sull’affidamento in house, e sui relativi limiti del sindacato del giudice amministrativo –quindi pur sempre in applicazione del nuovo art. 192, comma 2, del d.lgs. n. 50 del 2016– Tar per l’Abruzzo–Pescara, sentenza 29.01.2018, n. 35, secondo cui “la scelta, espressa da un ente locale, nella specie da un Comune, nel senso di rendere un dato servizio alla cittadinanza con una certa modalità organizzativa piuttosto di un'altra, ovvero in questo caso di ricorrere allo in house e non esternalizzare, è ampiamente discrezionale, e quindi, secondo giurisprudenza assolutamente costante e pacifica, è sindacabile nella presente sede giurisdizionale nei soli casi di illogicità manifesta ovvero di altrettanto manifesto travisamento dei fatti”;
         h5) sempre in occasione della applicazione dell’art. 192, comma 2, del d.lgs. n. 50 del 2016, la giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di osservare che detta norma, nell’onerare le stazioni appaltanti di effettuare una preventiva valutazione economica della congruità dell'offerta dei soggetti in house, tuttavia non impone alcuna gara, neppure informale, fra operatori del mercato: pertanto la valutazione delle congruità delle offerte dei soggetti in house prevista dal nuovo codice dei contratti pubblici non può essere confusa con una sorta di gara, alla quale l'ente affidante dovrebbe invitare le imprese del settore, fra le quali il gestore uscente del servizio (così Tar per la Lombardia, sezione IV, 22.03.2017, n. 694, in Foro amm., 2017, 697);
      i) sulla “non eccezionalità” del ricorso al modello dell’in house cfr., da ultimo, Consiglio di Stato, sezione III, sentenza 24.10.2017, n. 4902, cit., che ha ribadito la più recente giurisprudenza del medesimo consesso, ricordando che:
         i1) stante l’abrogazione referendaria dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, convertito in legge n. 133 del 2008, e la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 4 del decreto-legge n. 138 del 2011, convertito in legge n. 148 del 2011, “è venuto meno il principio, con tali disposizioni perseguito, della eccezionalità del modello in house per la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica; mentre, con l’art. 34 del d.l. 18.10.2012, n. 197, sono venute meno le ulteriori limitazioni all’affidamento in house, contenute nell’art. 4, comma 8, del predetto d.l. n. 238 del 2011” (così Sez. VI, 11.02.2013, n. 762, in Dir. giur. agr. ambiente, 2013, 328, con nota di PIEROBON);
         i2) a sua volta, la Sezione V (sentenza 22.01.2015, n. 257, in Foro amm., 2015, 76, solo massima) ha non solo ribadito la natura ordinaria e non eccezionale dell’affidamento in house, ricorrendone i presupposti, ma ha pure rilevato come la relativa decisione dell’amministrazione, ove motivata, sfugge al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salva l’ipotesi di macroscopico travisamento dei fatti o di illogicità manifesta;
         i3) ancora, la stessa Sezione V (sentenza 18.07.2017, n. 3554, cit.), ha richiamato, in senso rafforzativo, la chiara dizione del quinto “considerando” della direttiva n. 2014/24/UE, laddove si ricorda che “nessuna disposizione della presente direttiva obbliga gli Stati membri ad affidare a terzi o a esternalizzare la prestazione di servizi che desiderano prestare essi stessi o organizzare con strumenti diversi dagli appalti pubblici ai sensi della presente direttiva”;
      j) in dottrina, circa l’ambito di applicazione dell’art. 192 del d.lgs. n. 50 del 2016 e la sua conformità ai criteri della legge di delegazione, cfr. R. DE NICTOLIS, I nuovi appalti pubblici, Bologna, 2017, 266 ss.; nel senso che la norma del codice costituisca una violazione del c.d. divieto di gold plating, in quanto l’onere di motivazione circa la scelta dell’in house determina un livello di regolazione maggiore o più incisivo rispetto a quelli contenuti nelle disposizioni della direttiva n. 2014/24/UE, cfr. anche F.E. RIZZI, La società in house: dalla natura giuridica al riparto di giurisdizione, in Società, 2018, 71 ss.; in argomento, più in generale, cfr. anche: G. VELTRI, Il nuovo codice dei contratti pubblici - L'in house nel nuovo codice dei contratti pubblici, in Giorn. dir. amm., 2016, 436;
      k) sulla possibile estensione della delega legislativa, e sui limiti di esercizio della delega da parte del Governo, ai sensi dell’art. 76 Cost., si segnala, di recente, la sentenza n. 104 del 2017 della Corte costituzionale (in Foro it., 2017, I, 2540, con nota di G. PASCUZZI, Il fascino discreto degli indicatori: quale impatto sull’università?, ed in Giur. cost., 2017, 1063, con note di G. SERGES, Delegazione legislativa, legislazione regionale e ruolo del potere regolamentare, e di G. TARLI BARBIERI, L'“erompere” dell'attività normativa del governo alla luce della sent. n. 104 del 2017: conferme e novità da un'importante pronuncia della corte costituzionale, nonché oggetto della News US in data 16.05.2017, cui si rinvia per ulteriori indicazioni in tema), in cui si è affermato che “il legislatore delegante, nel conferire al Governo l’esercizio di una porzione di funzione legislativa, è tenuto a circoscriverne adeguatamente l’ambito, predeterminandone i limiti di oggetto e di contenuto, oltre che di tempo. Di conseguenza la legge delega non deve contenere enunciazioni troppo generali o comunque inidonee ad indirizzare l’attività normativa del legislatore delegato, ma può essere abbastanza ampia da preservare un margine di discrezionalità al Governo, sì da poter agevolmente svolgere la propria attività di ‘riempimento’ normativo”.
Più in generale, preme qui ricordare che, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, la verifica di costituzionalità per eccesso di delega legislativa deve compiersi sulla base di “un confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli: l’uno, relativo alle norme che determinano l’oggetto, i principi e i criteri direttivi indicati dalla delega, da svolgere tenendo conto del complessivo contesto in cui esse si collocano ed individuando le ragioni e le finalità poste a fondamento della stessa; l’altro, relativo alle norme poste dal legislatore delegato, da interpretarsi nel significato compatibile con i principi e i criteri direttivi della delega”: al riguardo, al legislatore delegato spettano margini di discrezionalità nell’attuazione della delega, sempre che ne sia rispettata la ratio e che l’attività del delegato si inserisca in modo coerente nel complessivo quadro normativo di riferimento, dovendosi escludere che l’art. 76 Cost. riduca la funzione del legislatore delegato ad una mera “scansione linguistica” delle previsioni stabilite dal legislatore delegante, e fermo comunque restando che l’ambito della discrezionalità lasciata al delegato muta a seconda della specificità dei criteri fissati nella legge delega (così, da ultimo, Corte cost., sentenza n. 10 del 2018, in Foro it., 2018, I, 1119, ed in Giur. cost., 2018, 137, con nota di G. TARLI BARBIERI, Storia di una delega “inutile”? Lo “strano caso” deciso dalla sent. n. 10/2018 della Corte costituzionale, nonché oggetto della News US in data 31.01.2018, cui si rimanda per gli opportuni approfondimenti in tema) (TAR Liguria, Sez. II, ordinanza 15.11.2018 n. 886 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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ORDINANZA
Con ricorso notificato in data 08.06.2018 e depositato in data 20.06.2018 la società S.C.T. Sistemi di Controllo Traffico s.r.l. (di seguito, SCT senz’altro), che gestiva, in esito a procedura aperta bandita nel corso del 2011, il servizio di parcheggio a pagamento nel comune di Alassio, ha impugnato la deliberazione della giunta comunale 07.05.2018, n. 154, concernente “l’affidamento del servizio di gestione dei parcheggi a pagamento senza custodia alla società in house GESCO s.r.l. per il periodo 11.06.2018-31.12.2023”, nonché la presupposta deliberazione del consiglio comunale n. 25 del 05.04.2018, di approvazione della relazione illustrativa delle ragioni e della sussistenza dei requisiti previsti dall’ordinamento europeo per l’affidamento in house dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, prevista dall’art. 34 del D.L. 18.10.2012, n. 179, convertito in legge 17.12.2012, n. 221.
...
Il motivo è articolato sotto due distinti profili, come segue.
1.A. sulla necessità di una motivazione specifica e di una comparazione concreta tra le differenti modalità di gestione nella scelta della gestione in house.
Sotto un primo profilo denuncia la violazione dell’articolo 106 del trattato sul funzionamento dell’Unione Europea e dei principi comunitari in materia di in house providing.
Premessa la asserita valenza derogatoria dell’in house providing rispetto alla regola generale dell’evidenza pubblica (ciò che –in tesi- implicherebbe che i princìpi che governano tale istituto debbano essere interpretati in maniera rigorosa e restrittiva), lamenta che l’amministrazione non abbia dato adeguatamente conto della preferenza per il modello in house, e che la scelta del modello in house non sia stata preceduta da una concreta e trasparente disamina delle alternative esistenti, sotto i profili della comparazione tra le varie forme di gestione, delle valutazioni economico/qualitative dei servizi offerti e della verifica della effettiva capacità del gestore di svolgere correttamente il servizio affidato.
Ai sensi dell’art. 192, comma 2, del D.Lgs. n. 50/2016, il provvedimento di scelta per il modulo di gestione in house dovrebbe invece essere necessariamente preceduto da una valutazione che dia conto, in motivazione, delle ragioni che fanno propendere per una delle diverse tipologie, motivando, secondo una logica di preferenza via via decrescente, in ordine all’impossibilità di utilizzare: 1) in prima battuta, lo strumento -altrimenti sempre preferibile- dell’affidamento mediante procedura di evidenza pubblica; 2) in subordine, quello dell’affidamento a società mista, che in ogni caso presuppone la gara per la scelta del socio privato; 3) in via di ulteriore subordine, quello dell’affidamento in house e senza gara.
I.B. Sulla inesistenza di qualsiasi comparazione tra le forme di gestione, sulla carenza di motivazione e di istruttoria e sullo sviamento dell’affidamento a GESCO del servizio di gestione dei parcheggi.
Sotto un secondo profilo, deduce che sarebbe quantomeno “sospetto” il comportamento del comune, il quale, dopo avere bandito una procedura andata deserta alla luce di valutazioni tecnico-economiche palesemente erronee circa gli investimenti necessari, anziché “aggiustare il tiro” con l’indizione di una nuova procedura strutturata su un progetto tecnico-economico sostenibile per il mercato, ha invece sottratto ad ogni possibile confronto concorrenziale soltanto una parte dei servizi precedentemente posti in gara (la gestione dei parcheggi a pagamento).
La stessa progressione temporale degli atti impugnati costituirebbe spia dell’eccesso di potere per sviamento, apparendo verosimile che la decisione di affidare il servizio in house fosse antecedente, e prescindesse del tutto dalle valutazioni contenute nella relazione illustrativa, predisposta dal comune ai sensi dell’art. 34, comma 20, del D.L. 179/2012.
La motivazione del provvedimento sarebbe poi del tutto carente sia sotto il profilo della capacità tecnica di GESCO, sia sotto il profilo economico, giacché da un lato la preferenza per l’offerta di GESCO non sarebbe stata preceduta da alcuna indagine di mercato, dall’altro il piano economico finanziario contenuto nella relazione sarebbe del tutto privo di qualsiasi asseverazione da parte di istituto di credito o società di servizi (in violazione di quanto statuito dall’articolo 3-bis, commi 1-bis e 6-bis, del D.L. n. 138/2011, che peraltro riguarda i soli servizi “a rete”), sicché non vi sarebbe certezza circa l’utile di gestione.
...
Ciò premesso, può procedersi all’esame dell’unico motivo di ricorso, con il quale la società ricorrente contesta l’incongruità e l’insufficienza delle motivazioni che la relazione approvata con deliberazione C.C. n. 25/2018 ha posto a sostegno della decisione di affidare in house il servizio di gestione dei parcheggi a pagamento.
In particolare, deduce la ricorrente che né la relazione approvata dal consiglio comunale ai sensi dell’art. 34 del D.L. 18.10.2012, n. 179, né la delibera di giunta di affidamento del servizio avrebbero dato conto –come invece impone l’art. 192, comma 2, del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50- delle ragioni del mancato ricorso al mercato (così detto outsourcing), che costituirebbe l’opzione prioritaria ed ordinaria.
Difatti, ai sensi dell’art. 192, comma 2, del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, “ai fini dell'affidamento in house di un contratto avente ad oggetto servizi disponibili sul mercato in regime di concorrenza, le stazioni appaltanti effettuano preventivamente la valutazione sulla congruità economica dell'offerta dei soggetti in house, avuto riguardo all'oggetto e al valore della prestazione, dando conto nella motivazione del provvedimento di affidamento delle ragioni del mancato ricorso al mercato, nonché dei benefici per la collettività della forma di gestione prescelta, anche con riferimento agli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche”.

Il collegio dubita della legittimità costituzionale dell’art. 192, comma 2, del D.Lgs. 18.4.2016, n. 50, nella parte in cui prevede che le stazioni appaltanti diano conto nella motivazione del provvedimento di affidamento in house di un contratto “delle ragioni del mancato ricorso al mercato”, per contrasto con l’art. 76 della Costituzione, in relazione all’art. 1 lettere a) ed eee) della legge 28.1.2016, n. 11 (recante deleghe al Governo per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014).
La questione è innanzitutto rilevante.
Giova premettere come il contratto in questione abbia ad oggetto servizi disponibili sul mercato in regime di concorrenza, e rientri, in ragione del suo importo (canone di concessione fisso di € 200.000,00 l’anno, dall’11.06.2018 al 31.12.2023), nella soglia di rilevanza comunitaria di cui all’art. 4, lett. c), della direttiva n. 2014/24/UE (€ 221.000,00 per gli appalti pubblici di forniture e di servizi aggiudicati da amministrazioni aggiudicatrici sub-centrali).
Ciò premesso, la disposizione sospettata di incostituzionalità –la cui violazione è specificamente contestata nell’unico motivo di ricorso- impone alle stazioni appaltanti di valutare l’opportunità e convenienza dei provvedimenti di affidamento in house alla luce, innanzitutto, “delle ragioni del mancato ricorso al mercato”, delle quali occorre dare espressamente conto in motivazione.
Essa costituisce dunque, alla luce del motivo dedotto, il parametro legislativo alla stregua del quale questo giudice è chiamato a valutare la legittimità dei provvedimenti impugnati, sotto il profilo dell’indicazione espressa delle ragioni del mancato ricorso al mercato, e della congruità e/o adeguatezza delle stesse: e ciò, in quanto la società SCT non contesta affatto il ricorrere, in capo alla controinteressata GESCO s.r.l., delle tre condizioni stabilite dall’art. 5 del D.Lgs. n. 50/2016 (controllo dell’amministrazione aggiudicatrice analogo a quello esercitato sui propri servizi; 80% dell’attività della controllata effettuato nello svolgimento dei compiti affidati dall’amministrazione aggiudicatrice controllante; assenza di partecipazione diretta di capitali privati) per il legittimo ricorso all’in house providing, condizioni che sono dunque pacifiche tra le parti.
Donde la rilevanza della questione, non potendo il giudizio essere definito indipendentemente dalla risoluzione della relativa questione di legittimità costituzionale.
Ma la questione pare al collegio anche non manifestamente infondata.
E’ noto l’ampio dibattito dottrinale e giurisprudenziale circa la figura dell’in house providing (o autoproduzione), che costituisce una modalità di aggiudicazione di una concessione o di un appalto pubblico a soggetti formalmente distinti, ma sottoposti ad un controllo tanto penetrante di un’amministrazione da costituirne sostanzialmente un’articolazione organizzativa, modalità alternativa al ricorso all’esternalizzazione (così detto outsourcing) mediante l’avvio di una procedura ad evidenza pubblica.
L’istituto, di origine pretoria (cfr. la sentenza della C.G.C.E., V, 18.11.1999, n. 107, società Teckal), ha trovato la sua prima codificazione nell’ordinamento europeo ad opera della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 26.02.2014, n. 2014/24/UE per i settori ordinari.
In particolare, il 5° considerando della direttiva n. 2014/24/UE chiarisce che “è opportuno rammentare che nessuna disposizione della presente direttiva obbliga gli Stati membri ad affidare a terzi o a esternalizzare la prestazione di servizi che desiderano prestare essi stessi o organizzare con strumenti diversi dagli appalti pubblici ai sensi della presente direttiva”.
Si tratta di una specifica applicazione del principio di autorganizzazione o di libera amministrazione delle autorità pubbliche, più efficacemente scolpito dall’art. 2, comma 1, della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 26.02.2014, n. 2014/23/UE sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, a mente del quale “la presente direttiva riconosce il principio per cui le autorità nazionali, regionali e locali possono liberamente organizzare l'esecuzione dei propri lavori o la prestazione dei propri servizi in conformità del diritto nazionale e dell'Unione. Tali autorità sono libere di decidere il modo migliore per gestire l'esecuzione dei lavori e la prestazione dei servizi per garantire in particolare un elevato livello di qualità, sicurezza e accessibilità, la parità di trattamento e la promozione dell'accesso universale e dei diritti dell'utenza nei servizi pubblici. Dette autorità possono decidere di espletare i loro compiti d'interesse pubblico avvalendosi delle proprie risorse o in cooperazione con altre amministrazioni aggiudicatrici o di conferirli a operatori economici esterni” (cfr., in merito, anche CGCE, 11.01.2005, C- 26/03, Stadt Halle, punto 48: “un’autorità pubblica, che sia un’amministrazione aggiudicatrice, ha la possibilità di adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti, amministrativi, tecnici e di altro tipo, senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi”).
Coerentemente con il citato principio di autorganizzazione o di libera amministrazione delle autorità pubbliche riconosciuto nel 5° considerando, l’art. 12 della direttiva n. 2014/24/UE esclude espressamente dal proprio ambito di applicazione, cioè dalla necessità di una previa procedura ad evidenza pubblica, gli appalti aggiudicati da un'amministrazione aggiudicatrice a una persona giuridica di diritto pubblico o di diritto privato, quando siano soddisfatte le tre condizioni proprie dell’in house (a. l'amministrazione aggiudicatrice esercita sulla persona giuridica di cui trattasi un controllo analogo a quello da essa esercitato sui propri servizi; b. oltre l'80% delle attività della persona giuridica controllata sono effettuate nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall'amministrazione aggiudicatrice controllante o da altre persone giuridiche controllate dall'amministrazione aggiudicatrice di cui trattasi; c. nella persona giuridica controllata non vi è alcuna partecipazione diretta di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati che non comportano controllo o potere di veto, prescritte dalle disposizioni legislative nazionali, in conformità dei trattati, che non esercitano un'influenza determinante sulla persona giuridica controllata).
Dunque, a seguito della positivizzazione dell’istituto ad opera della direttiva n. 24/2014, che, in virtù della salvaguardia del principio di autorganizzazione degli Stati membri (5° considerando), esclude espressamente gli affidamenti in house dal proprio ambito di applicazione (art. 12), può ritenersi definitivamente acquisito –quantomeno in ambito europeo– il principio che l’in house providing non configura affatto un’ipotesi eccezionale e derogatoria di gestione dei servizi pubblici rispetto all’ordinario espletamento di una procedura di evidenza pubblica, ma costituisce una delle ordinarie forme organizzative di conferimento della titolarità del servizio, la cui individuazione in concreto è rimessa alle amministrazioni, sulla base di un mero giudizio di opportunità e convenienza economica.
In realtà, tale principio può ritenersi oggi operante anche nell’ordinamento nazionale (in tal senso cfr., per esempio, Cons. di St., V, 15.03.2016, n. 1034; id., III, 24.10.2017, n. 4902; id., V, 18.07.2017, n. 3554), posto che, ai sensi dell’art. 34, comma 20, del D.L. 18.10.2012, n. 179 (convertito in legge 17.12.2012, n. 221), “per i servizi pubblici locali di rilevanza economica, al fine di assicurare il rispetto della disciplina europea, la parità tra gli operatori, l'economicità della gestione e di garantire adeguata informazione alla collettività di riferimento, l'affidamento del servizio è effettuato sulla base di apposita relazione, pubblicata sul sito internet dell'ente affidante, che dà conto delle ragioni e della sussistenza dei requisiti previsti dall'ordinamento europeo per la forma di affidamento prescelta e che definisce i contenuti specifici degli obblighi di servizio pubblico e servizio universale, indicando le compensazioni economiche se previste”.
Come si vede, la norma specificamente dettata per i servizi pubblici locali di rilevanza economica –diversamente dall’art. 192, comma 2, del D.Lgs. n. 50/2016- non contiene alcun riferimento alle ragioni del mancato ricorso prioritario al mercato, che sono ultronee rispetto all’istituto dell’in house.
Tale essendo il quadro normativo di riferimento, ritiene il collegio che la disposizione di cui all’art. 192, comma 2, del D.Lgs. n. 50/2016, nell’imporre un onere motivazionale supplementare relativamente alle “ragioni del mancato ricorso al mercato” abbia palesemente ecceduto rispetto ai principi ed ai criteri direttivi contenuti nella legge di delega 28.01.2016, n. 11 (recante deleghe al Governo per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014), in violazione dell’art. 76 della Costituzione.
L’art. 1 della legge di delegazione legislativa n. 11/2016 ha infatti fissato, tra l’altro, i seguenti princìpi e criteri direttivi specifici: a) divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive, come definiti dall'articolo 14, commi 24-ter e 24-quater, della legge 28.11.2005, n. 246 (così detto divieto di gold plating); eee) garanzia di adeguati livelli di pubblicità e trasparenza delle procedure anche per gli appalti pubblici e i contratti di concessione tra enti nell'ambito del settore pubblico, cosiddetti affidamenti in house, prevedendo, anche per questi enti, l'obbligo di pubblicazione di tutti gli atti connessi all'affidamento, assicurando, anche nelle forme di aggiudicazione diretta, la valutazione sulla congruità economica delle offerte, avuto riguardo all'oggetto e al valore della prestazione, e prevedendo l'istituzione, a cura dell'ANAC, di un elenco di enti aggiudicatori di affidamenti in house ovvero che esercitano funzioni di controllo o di collegamento rispetto ad altri enti, tali da consentire gli affidamenti diretti.
L'iscrizione nell'elenco avviene a domanda, dopo che sia stata riscontrata l'esistenza dei requisiti. La domanda di iscrizione consente all'ente aggiudicatore, sotto la propria responsabilità, di conferire all'ente con affidamento in house, o soggetto al controllo singolo o congiunto o al collegamento, appalti o concessioni mediante affidamento diretto.
Orbene, la disposizione sospettata di incostituzionalità avrebbe innanzitutto violato il criterio direttivo sub a) –nonché l'articolo 14 commi 24-ter e 24-quater della legge 28.11.2005, n. 246, cui fa espresso rinvio- in quanto avrebbe introdotto un onere amministrativo di motivazione -circa le ragioni del mancato ricorso al mercato- maggiore e più gravoso di quelli strettamente necessari per l’attuazione della direttiva n. 2014/24/UE, la quale, come visto supra, per un verso ammette senz’altro gli affidamenti in house a patto che ricorrano le tre condizioni di cui all’art. 12, per altro verso ha escluso i relativi contratti dal proprio campo di applicazione, e dunque dall’obbligo di esperire preventivamente una procedura di gara ad evidenza pubblica (cioè, il ricorso al mercato).
Donde la violazione del divieto di gold plating, che costituiva uno specifico criterio di delega legislativa (lett. a).
Secondariamente, avrebbe violato il criterio direttivo sub eee) della legge di delega n. 11/2016, in quanto l’introduzione dell’obbligo di motivazione circa le ragioni del mancato ricorso al mercato per un verso non trova alcun addentellato nel criterio direttivo, che non lo menziona affatto, per altro verso –e soprattutto– non ha nulla a che vedere con la valutazione sulla congruità economica delle offerte, che attiene piuttosto alla loro sostenibilità in termini di prezzi e di costi proposti (argomenta ex art. 97, comma 1, del D.Lgs. n. 50/2016), cioè con l’unico elemento che il criterio direttivo imponeva di valutare, oltre a quello di pubblicità e trasparenza degli affidamenti, mediante l'istituzione, a cura dell'ANAC, dell’elenco di enti aggiudicatori di affidamenti in house.
Donde la violazione dell’art. 1, lett. a) ed eee), della legge di delegazione legislativa n. 11/2016 (parametro interposto) e, indirettamente, dell’art. 76 della Costituzione.
In conclusione il collegio, per le ragioni sopra esposte, ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione legittimità costituzionale dell’art. 192, comma 2, del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, nella parte in cui prevede che le stazioni appaltanti diano conto nella motivazione del provvedimento di affidamento in house “delle ragioni del mancato ricorso al mercato”, per contrasto con l’art. 76 della Costituzione, in relazione all’art. 1 lettere a) ed eee) della legge 28.01.2016, n. 11 (recante deleghe al Governo per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014).
Resta sospesa ogni decisione sul ricorso in epigrafe, dovendo la questione essere demandata al giudizio della Corte costituzionale.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria (Sezione Seconda),
Visti gli artt. 1 della legge costituzionale 09.02.1948, n. 1 e 23 della legge 11.03.1953, n. 87;
Ritenuta rilevante ai fini della decisione e non manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell'art. 192, comma 2, del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, nella parte in cui prevede che le stazioni appaltanti diano conto nella motivazione del provvedimento di affidamento in housedelle ragioni del mancato ricorso al mercato”, per contrasto con l’art. 76 della Costituzione, in relazione all’art. 1, lettere a) ed eee), della legge 28.01.2016, n. 11 (recante deleghe al Governo per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014);
Sospende il giudizio in corso;
Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale (TAR Liguria, Sez. II, ordinanza 15.11.2018 n. 886 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOGraduatorie valide, concorsi da motivare.
Nell'impiego pubblico, in presenza di graduatorie concorsuali valide ed efficaci, l'amministrazione, se stabilisce di provvedere alla copertura dei posti vacanti mediante l'indizione di un nuovo concorso, deve motivare adeguatamente la propria determinazione, pena la illegittimità della propria scelta.

Così il TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis, con sentenza 12.11.2018 n. 10862.
Il Tar ricorda che l'art. 3, comma 87, della legge 244/2007 (Finanziaria 2008), che ha aggiunto il comma 5-ter all'art. 35 del dlgs 165/2001, ha stabilito che le graduatorie dei concorsi per il reclutamento del personale delle p.a. rimangono valide per un termine di tre anni dalla data di pubblicazione.
La ratio sottesa alla norma è quella di favorire, ove possibile, lo scorrimento delle graduatorie, con il solo limite, quanto agli idonei, del rispetto del criterio di equivalenza delle professionalità necessarie per l'ente e presenti nelle graduatorie ancora valide.
Con l'indicata disposizione si è realizzata la sostanziale inversione del rapporto tra la decisione di scorrimento della graduatoria preesistente ed efficace e l'opzione per un nuovo concorso, rappresentando quest'ultima modalità, ormai, un'eccezione che richiede un'apposita motivazione che, dando conto del sacrificio imposto ai concorrenti idonei e alle preminenti esigenze di interesse pubblico, fornisca adeguato riscontro dell'effettiva carenza in concreto di professionalità equivalenti nell'ambito delle graduatorie concorsuali ancora valide, pena l'illegittimità della decisione assunta (articolo ItaliaOggi del 04.01.2019).

APPALTII troppi intrecci creano conflitto. Il Consiglio di stato sul codice dei contratti.
La concomitante presenza in commissione di ben due commissari che hanno avuto rapporti –direttamente o indirettamente– con uno dei concorrenti appare integrare l'ipotesi di conflitto di interessi di cui all'art. 42 del codice dei contratti.
Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. III con la sentenza 07.11.2018 n. 6299.
Nel caso in esame una commissione di gara era composta, tra gli altri, da un commissario che era stato 14 anni prima un dipendente dell'aggiudicataria e un altro con un figlio che era –sia pure tramite società interinale– dipendente della stessa impresa. Pertanto, una delle ditte partecipanti aveva impugnato la nomina della commissione sopra citata.
I giudici di primo grado avevano ritenuto infondata la «violazione degli obblighi di segnalazione e di apprezzamento delle situazioni potenzialmente incidenti sulla legittimità dell'atto di nomina» con riguardo ai due membri della commissione poiché i fatti evocati avrebbero semmai potuto comportare solo una causa di astensione facoltativa.
Il Consiglio di stato, al contrario, accoglie il ricorso, annulla la delibera di designazione dei componenti della commissione e, conseguentemente gli atti successivi della procedura.
Dispone, quindi, la nuova nomina della Commissione di gara e la riedizione delle valutazioni. I giudici di Palazzo Spada ritengono, infatti, che la compresenza nella medesima Commissione di due commissari legati (seppure in passato o indirettamente per tramite del figlio) alle imprese concorrenti rafforza la percezione di compromissione dell'imparzialità che, invece, la disciplina vuole garantire al massimo livello, al fine di scongiurare il ripetersi nelle gare pubbliche di fenomeni distorsivi della par condicio e di una «sana» concorrenza tra gli operatori economici.
Tale interpretazione risulta, peraltro, confermata dalla molteplicità di strumenti che il nostro ordinamento ha predisposto con finalità di prevenzione dei fenomeni corruttivi e dell'azione della criminalità organizzata, strumenti che hanno passato il vaglio del giudice sovrannazionale proprio in considerazione della peculiarità della situazione nazionale
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.11.2018).

APPALTIIl Rup può essere anche commissario di gara.
Il Rup può essere anche commissario di gara. Nella vigenza del nuovo codice dei contratti, ai sensi dell'art. 77, comma 4, dlgs n. 50 del 2016, nelle procedure di evidenza pubblica, il ruolo di responsabile unico del procedimento può coincidere con le funzioni di commissario di gara e di presidente della commissione giudicatrice, a meno che non sussista la concreta dimostrazione dell'incompatibilità tra i due ruoli, desumibile da una qualche comprovata ragione di interferenza e di condizionamento tra gli stessi.

Così si è pronunciato il Consiglio di Stato, Sez. III, con la sentenza 26.10.2018 n. 6082.
Nel caso portato all'attenzione del collegio, un concorrente impugnava gli esiti di una gara ad evidenza pubblica indetta dal Comune di Carpi - Unione delle Terre d'Argine per l'individuazione di un concessionario di servizio farmaceutico per una farmacia comunale di nuova istituzione, lamentando la violazione dell'art. 77 del dlgs n. 50/2016 per avere un unico soggetto ricoperto le cariche, tra loro asseritamente incompatibili, di dirigente della centrale unica di committenza oltre che di presidente della commissione giudicatrice.
Chiamato a decidere la controversia, il consiglio di stato ha avuto modo di ribadire, in concorde indirizzo con l'autorità nazionale anticorruzione (Anac), l'inesistenza di una automatica causa di incompatibilità tra i ruoli, a meno che non sussista la concreta dimostrazione di una comprovata ragione di interferenza e di condizionamento tra gli stessi. La soluzione così avallata, afferma la sentenza, costituisce l'esito maggiormente coerente con l'opzione interpretativa che il legislatore ha inteso consolidare con le modifiche apportate al codice dei contratti pubblici con il dlgs n. 56/2017.
Ed infatti, integrando il disposto dell'art. 77, comma 4, con l'inciso «la nomina del Rup a membro delle commissioni di gara è valutata con riferimento alla singola procedura», si è esclusa ogni automatica incompatibilità conseguente al cumulo delle funzioni, rimettendo all'amministrazione la valutazione della sussistenza o meno dei presupposti affinché il Rup possa legittimamente far parte della commissione gara (articolo ItaliaOggi Sette del 19.11.2018).

CONSIGLIERI COMUNALI: I consiglieri comunali, con la loro manifestazione di volontà, concorrono a formare la volontà dell’ente di cui fanno parte, inteso nella sua unitarietà e nella sua significazione pubblica: essi sono pertanto legittimati a ricorrere (e di conseguenza anche a contraddire) solo nell’ipotesi di violazione del loro ius ad officium.
Conseguentemente essi non hanno (neppure) un interesse protetto e differenziato all’impugnazione delle deliberazioni dell’ente del quale fanno parte, salvo il caso in cui venga lesa in modo diretto ed immediato la propria sfera giuridica per effetto di atti direttamente incidenti sul diritto all’ufficio o sullo status ad essi spettante, che compromettano il corretto esercizio del loro mandato (come nel caso di erronee modalità di convocazione dell’organo, violazione dell’ordine del giorno, inosservanza del termine della documentazione necessaria per poter consapevolmente deliberare, etc.): del resto il giudizio amministrativo non è di regola aperto alle controversie tra organi o componenti di organo di uno stesso ente, ma è diretto a risolvere controversie intersoggettive.
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Anche la seconda eccezione preliminare deve essere disattesa, tenuto conto che i singoli consiglieri che hanno approvato la delibera gravata si sono limitati ad esprimere un voto che, una volta raggiunto il quorum rappresentativo della maggioranza consiliare, ha materializzato la volontà dell’ente comunale al quale in via esclusiva è quindi imputabile l’interesse e la legittimazione a resistere nel presente giudizio, senza che sia individuabile un autonomo e personale interesse dei singoli consiglieri.
Infatti i consiglieri comunali non sono soggetti contemplati nel provvedimento amministrativo, concorrendo essi, con la loro manifestazione di volontà, a formare la volontà dell’ente di cui fanno invece parte, inteso nella sua unitarietà e nella sua significazione pubblica: essi sono pertanto legittimati a ricorrere (e di conseguenza anche a contraddire) solo nell’ipotesi di violazione del loro ius ad officium (tra le più recenti, C.d.S., sez. V, 21.03.2012, n. 1610; 29.04.2010, n. 2457; sez. IV, 26.01.2012, n. 351, 16.10.2007, n. 5396).
Conseguentemente (cfr. Cons. Stato, sez. V, 24.03.2011, n. 1771) essi non hanno (neppure) un interesse protetto e differenziato all’impugnazione delle deliberazioni dell’ente del quale fanno parte, salvo il caso in cui venga lesa in modo diretto ed immediato la propria sfera giuridica per effetto di atti direttamente incidenti sul diritto all’ufficio o sullo status ad essi spettante, che compromettano il corretto esercizio del loro mandato (come nel caso di erronee modalità di convocazione dell’organo, violazione dell’ordine del giorno, inosservanza del termine della documentazione necessaria per poter consapevolmente deliberare, etc.): del resto il giudizio amministrativo non è di regola aperto alle controversie tra organi o componenti di organo di uno stesso ente, ma è diretto a risolvere controversie intersoggettive (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 19.05.2010, n. 3130; sez. V, 15.12.2005, n. 7122; 23.05.1994, n. 437).
Il ricorso introduttivo del presente giudizio non doveva pertanto essere notificato agli altri consiglieri comunali, avendo l’interessata denunciato esclusivamente la violazione del proprio jus ad officium per non essere stata asseritamente posta in condizione di partecipare alla riunione dell’organo consiliare, fattispecie rispetto alla quale non è ipotizzabile l’esistenza di un interesse protetto e qualificato (oltre che diretto e contrario) degli altri consiglieri alla conservazione delle delibere assunte (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 22.10.2018 n. 6129 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: L’avviso di convocazione delle sedute consiliari è lo strumento indispensabile per il corretto e regolare funzionamento dell’organo consiliare, consentendo ai consiglieri comunali, diretti rappresentanti della comunità, non solo di essere informati delle riunioni dell’assise cittadina, ma soprattutto di potervi partecipare attivamente, contribuendo in modo pieno e consapevole alle scelte strategiche e alle decisioni fondamentali della vita stessa dell’ente, anche attraverso il necessario ruolo di controllo sull’organo esecutivo.
In tal senso non è sufficiente che l’avviso di convocazione, con il relativo ordine del giorno, sia solo regolarmente inviato al consigliere comunale, ma è necessario che lo stesso non solo lo abbia effettivamente ricevuto, ma che tra il momento della ricezione e quello della seduta consiliare intercorra un ragionevole lasso temporale affinché il mandato consiliare possa essere effettivamente svolto in modo serio, completo e consapevole.

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Passando al merito della controversia, la questione sottesa ad entrambi i motivi di ricorso riguarda la regolarità della comunicazione dell’avviso di convocazione della seduta del consiglio di Trentola Ducenta del 03.08.2018 che la ricorrente contesta sul presupposto che essa sia stata eseguita mediante consegna al proprio padre avente residenza e domicilio diversi dal proprio, negando di avere avuto tempestiva conoscenza della convocazione ed affermando di non avere esaminato i documenti necessari ad esprimersi sulla gravata delibera in violazione dell’art. 174 TUEL.
Dall’altra parte l’ente comunale adduce che anche in passato la comunicazione era stata consegnata al padre e non vi erano state contestazioni e che alla seduta del 3 agosto la ricorrente è comunque intervenuta, affermando che in tal modo la comunicazione aveva raggiunto il proprio scopo e che la preventiva comunicazione dei documenti sia necessaria solo nel caso di approvazione dei documenti contabili del Comune.
I motivi, da esaminarsi congiuntamente sono fondati alla stregua della seguenti considerazioni.
Giova premettere che l’avviso di convocazione delle sedute consiliari è lo strumento indispensabile per il corretto e regolare funzionamento dell’organo consiliare, consentendo ai consiglieri comunali, diretti rappresentanti della comunità, non solo di essere informati delle riunioni dell’assise cittadina, ma soprattutto di potervi partecipare attivamente, contribuendo in modo pieno e consapevole alle scelte strategiche e alle decisioni fondamentali della vita stessa dell’ente, anche attraverso il necessario ruolo di controllo sull’organo esecutivo.
In tal senso non è sufficiente che l’avviso di convocazione, con il relativo ordine del giorno, sia solo regolarmente inviato al consigliere comunale, ma è necessario che lo stesso non solo lo abbia effettivamente ricevuto, ma che tra il momento della ricezione e quello della seduta consiliare intercorra un ragionevole lasso temporale affinché il mandato consiliare possa essere effettivamente svolto in modo serio, completo e consapevole (cfr. tra le altre Consiglio di Stato, Sez. V, 14.09.2012, n. 4892).
Ora nel caso di specie non è contestato che l’avviso di convocazione della seduta del consiglio comunale del 03.08.2018 sia stato consegnato al padre della ricorrente e non invece presso il suo domicilio, come invece prescritto dall’art. 28 del regolamento del consiglio comunale di Trentola Ducenta; né risulta che la stessa ricorrente abbia designato o delegato formalmente il padre a ritirare per proprio conto l’avviso stesso, con la conseguenza che tale modalità di consegna non era idonea a garantire la necessaria comunicazione della convocazione con conseguente oggettiva lesione dello ius ad officium e illegittimità delle delibere assunte nella seduta del consiglio comunale del 03.08.2018 che devono quindi essere annullate.
Né può sostenersi che la circostanza che la ricorrente abbia comunque preso parte alla seduta del Consiglio valga poi a sanare la mancata osservanza delle formalità di convocazione previste dal regolamento, in quanto la stessa ricorrente ha partecipato alla seduta al solo scopo di chiedere un rinvio per poter studiare la documentazione e prendere parte alla seduta in modo informato, secondo quanto risultante dal verbale versato in atti.
Al riguardo, rileva la previsione di cui all’art. 29, co. 1, del Regolamento del Consiglio comunale di Trentola Ducenta secondo cui l’avviso di convocazione deve essere consegnato ai consiglieri almeno cinque giorni liberi prima della delibera, sicché la circostanza dell’avvenuta partecipazione alla seduta non vale a sanare la mancata prova dell’avvenuta consegna della convocazione nel termine prescritto.
In definitiva il ricorso deve essere accolto nei sensi e termini di cui in motivazione (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 22.10.2018 n. 6129 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIDichiarazione mendace, c'è esclusione dalla gara.
In tema di appalti, la dichiarazione mendace presentata dall'operatore economico, anche con riguardo alla posizione dell'impresa ausiliaria, comporta l'esclusione dalla gara.

Così si è pronunciato il Consiglio di Stato, Sez. V, con sentenza 19.10.2018 n. 6529.
Un'impresa non aggiudicataria proponeva appello avverso la sentenza del Tar Lazio con la quale si confermava la legittimità dell'aggiudicazione di un appalto per l'esecuzione di lavori ad una società che, secondo la prospettazione del ricorrente, avrebbe dovuto essere esclusa dalla gara per la falsità delle dichiarazioni rese in ordine all'assenza di pregiudizi influenti sulla c.d. moralità professionale di un ex esponente di un'impresa ausiliaria, invero condannato per gestione non autorizzata di rifiuti.
Chiamato a decidere la controversia, il collegio ha avuto modo di chiarire che la dichiarazione non veritiera è sanzionata in quanto circostanza che rileva nella prospettiva dell'affidabilità del futuro contraente, a prescindere dalla gravità, fondatezza e pertinenza degli episodi non dichiarati, e dunque anche a prescindere dal fatto che il precedente penale non influisca sulla moralità professionale dell'impresa ausiliaria.
La sanzione della reticenza, infatti, è funzionale all'affermazione dei principi di lealtà ed affidabilità, in altre parole, della correttezza dell'aspirante contraente, che permea la procedura di formazione dei contratti pubblici ed i rapporti con la stazione appaltante.
Sulla base di tali assunti, il collegio ha precisato che la condanna penale, quand'anche non rilevi di per sé, per non essere contemplata tra quelle che comportano l'esclusione ex lege dalla procedura, assume valore quale «grave illecito professionale» per il quale si configura un obbligo dichiarativo per la concorrente in fase procedurale, dal momento che, trattandosi di un reato ambientale, può astrattamente mettere in dubbio l'integrità o affidabilità dell'operatore e ciò anche se la valutazione della condanna è rimessa alla discrezionalità della stazione appaltante (articolo ItaliaOggi Sette del 10.12.2018).

ATTI AMMINISTRATIVI: Esistenza dell'atto, basta la percezione.
Il concetto di piena conoscenza dell'atto ai fini della decadenza dei termini di impugnazione, non deve essere inteso quale conoscenza perfetta dello stesso, è sufficiente la «percezione» dell'esistenza del provvedimento che s'intende impugnare, ovvero degli atti endoprocedimentali la cui illegittimità infici in via derivata il provvedimento finale.

Il TAR Toscana, Sez. I sentenza 17.10.2018 n. 1348 ha dichiarato irricevibile un ricorso, in base a questa innovativa impostazione ermeneutica. In altre parole, a giudizio della Sezione, ciò che è sufficiente a integrare il concetto di «piena conoscenza», che fissa il dies a quo per il termine decadenziale, è la «consapevolezza» dell'esistenza di un provvedimento amministrativo, lesivo del potenziale ricorrente, tale da rendere percepibile l'attualità dell'interesse ad agire.
Diversamente, qualora la piena conoscenza dovesse essere intesa come conoscenza perfetta, il rimedio dei motivi aggiunti non avrebbe ragion d'essere o sarebbe residuale, ricorrendone l'esperibilità nel solo caso di atto endoprocedimentale assolutamente ignoto all'atto del ricorso introduttivo.
Nel caso esaminato dal Tar Toscana, laddove si facesse decorrere il termine per impugnare l'aggiudicazione definitiva, dal momento in cui la parte interessata ha avuto materiale accesso a tutti gli atti di gara, si renderebbe mobile il dies a quo per la proposizione del ricorso, viepiù nella materia degli appalti, in cui il legislatore, ha introdotto un rito accelerato e dai tratti di specialità: impossibilità di impugnare gli atti con ricorso straordinario al Capo dello Stato; dimezzamento di tutti i termini processuali; svolgimento del processo con la massima celerità; fissazione a breve dell'udienza di merito, anche in caso di rigetto dell'istanza cautelare.
Applicando detti principi, il Tar Toscana ha ritenuto evidente la tardività del ricorso, in quanto la ricorrente aveva già manifestato alla stazione appaltante (anteriormente alla scadenza del termine dei 30 giorni) le circostanze ritenute lesive, confluite poi nel secondo motivo del ricorso (articolo ItaliaOggi Sette del 12.11.2018).
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MASSIMA
1.7 Secondo un prevalente orientamento giurisprudenziale
il concetto di "piena conoscenza" dell'atto amministrativo lesivo, ai fini della sua impugnazione, non deve essere inteso quale "conoscenza piena ed integrale" dei provvedimenti che si intendono impugnare, ovvero di eventuali atti endoprocedimentali, la cui illegittimità infici, in via derivata, il provvedimento finale.
Ciò che è invece sufficiente ad integrare il concetto di "piena conoscenza" -il verificarsi della quale determina il dies a quo per il computo del termine decadenziale per la proposizione del ricorso giurisdizionale- è la percezione dell'esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidente la lesività della sfera giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere percepibile l'attualità dell'interesse ad agire contro di esso
(Cons. Stato Sez. IV Sent., 09/05/2013, n. 2521; Tar Campania-Salerno, sez. II, n. 361/2011).
Si è affermato, infatti, che
se, ai fini dell'impugnazione di un provvedimento amministrativo, la piena conoscenza dello stesso dovesse essere intesa come conoscenza integrale, allora il tradizionale rimedio dei motivi aggiunti non avrebbe ragion d'essere, o dovrebbe essere considerato residuale, ricorrendone l'esperibilità (forse) solo nel caso di atto endoprocedimentale completamente ignoto all'atto di proposizione del ricorso introduttivo del giudizio (Cons. Stato Sez. IV, 29.10.2015, n. 4945; Tar Puglia, Bari, sez. III, n. 1367/2014; TAR Veneto, Sez. I, 23.08.2017, n. 802).

EDILIZIA PRIVATA: Posto che la primaria finalità del provvedimento impugnato è l’ingiunzione dell’ordine di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi nel termine di giorni 90, ad avviso di questo Tribunale, “la mancata esatta indicazione delle aree da acquisire al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all’ordine impartito non comporta giammai l’allegata illegittimità del provvedimento impugnato, considerato che l’acquisizione gratuita delle opere, della relativa area di sedime e dell’area di pertinenza urbanistica al patrimonio comunale costituisce una conseguenza ex lege dell’inottemperanza all’ordine impartito, e ben può essere operata “con un successivo e separato atto”, come affermato da condivisibile giurisprudenza".
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0. Il ricorso è manifestamente infondato nel merito e deve essere respinto.
In particolare, con riguardo ai singoli profili di doglianza, il Collegio osserva quanto segue.
1. Anzitutto non è ravvisabile la violazione dell'art. 31, commi 2°-3°, del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, dedotta con il primo motivo di ricorso, a cagione della mancata indicazione, nel provvedimento impugnato, dell'area di sedime, nonché di quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive, che verrebbero acquisite di diritto gratuitamente al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all'ordine impartito.
Invero, posto che la primaria finalità del provvedimento impugnato è l’ingiunzione dell’ordine di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi nel termine di giorni 90, ad avviso di questo Tribunale, “la mancata esatta indicazione delle aree da acquisire al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all’ordine impartito non comporta giammai l’allegata illegittimità del provvedimento impugnato, considerato che l’acquisizione gratuita delle opere, della relativa area di sedime e dell’area di pertinenza urbanistica al patrimonio comunale costituisce una conseguenza ex lege dell’inottemperanza all’ordine impartito, e ben può essere operata “con un successivo e separato atto”, come affermato da condivisibile giurisprudenza (cfr. TAR Napoli Campania, Sez. VI, 05.06.2012 n. 2635)” (TAR Puglia, Lecce, III, 05.03.2018, n. 367 e TAR Puglia, Lecce, III, 16/08/2018, n. 1301; nello stesso senso TAR Puglia, Lecce, III, 25/06/2018, n. 1062 e TAR Puglia, Lecce, III, 27/06/2018, n. 1075) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 11.10.2018 n. 1474 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Questo Tribunale ha già avuto modo di rilevare, con riferimento alla possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria di cui all’invocato art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 (il quale -si ribadisce- non risulta applicabile nel caso di specie), “che la giurisprudenza costante e condivisibile ritiene che <<l’applicazione della sanzione pecuniaria abbia comunque carattere residuale, e possa essere irrogata non in base ad una verifica tecnica a carico della parte pubblica, ma a seguito di un’istanza presentata a tal fine dalla parte privata ad essa interessata.
In altri termini, ai fini della legittimità dell’ordine di demolizione, che essendo finalizzato a ripristinare la legalità violata, costituisce il contenuto che, in via ordinaria, è tenuto ad assumere l’atto repressivo dell’illecito, l’amministrazione è tenuta al solo accertamento che l’opera sia abusiva, posto che ulteriori adempimenti, relativi all’eseguibilità dell’ordine “senza pregiudizio per la parte conforme” richiederebbero sopralluoghi ed accertamenti incompatibili con lo stesso principio di buon andamento dell’azione amministrativa, entro il quale la giurisprudenza costituzionale colloca l’esigenza che essa sia strutturata normativamente in termini tali, da assicurare il soddisfacimento degli interessi pubblici cui è preposta.
Ne consegue che la parte pubblica non può essere onerata di verifiche tecniche, anche complesse, da effettuarsi d’ufficio in una fase anteriore all’emissione dell’ordine di demolizione. Si deve perciò ritenere che l’ordine di demolizione vada adottato anche in assenza di una verifica di tale profilo, la cui rilevanza va invece segnalata, e comprovata, dalla parte che vi abbia interesse durante la fase esecutiva.
L’ingiunzione di demolizione costituisce la prima ed obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto ha natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo analitico-ricognitivo dell’abuso commesso, mentre il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell’abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria (disciplinato dall’art. 33, comma 2, e 34, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001) può essere effettuato soltanto in un secondo momento, cioè quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e l’organo competente emana l’ordine (questa volta non indirizzato all’autore dell’abuso, ma agli uffici e relativi dipendenti dell’Amministrazione competenti e/o preposti in materia di sanzioni edilizie) di esecuzione in danno….; …. soltanto nella predetta seconda fase non può ritenersi legittima l’ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi valutazione intorno all’entità degli abusi commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria, così come previsto dagli artt. 33, comma 2, e 34, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001>>".
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2. Con il secondo motivo di gravame, la ricorrente contesta, poi, la riconducibilità delle opere edilizie de quibus nel novero degli interventi soggetti al massimo regime repressivo-sanzionatorio della demolizione ex art. 31 D.P.R. n. 380/2001, in quanto non si tratterebbe di interventi realizzati in “totale difformità” dal permesso di costruire n. 60/2008.
Neanche tale censura è suscettibile di positiva delibazione tenuto conto che, nella fattispecie per cui è causa, si tratta, con ogni evidenza, di opere realizzate in totale difformità dal permesso di costruire n. 60/2008 (e non già in parziale difformità da esso), sia perché quest’ultimo era relativo alla realizzazione di un mero “volume tecnico” (come testualmente riportato, e non specificamente contestato da parte ricorrente, nell’ordinanza di demolizione impugnata), sia perché trattasi di intervento realizzato in zona sottoposta a vincolo paesaggistico (come altresì riportato, e non specificamente contestato da parte ricorrente, nella gravata ordinanza, ove si legge che: “Le opere sopra descritte ricadono: (…) • In area tipizzata dal vigente PRG come zona E.2. ZONA “AGRICOLA DI SALVAGUARIA PAESAGGISTICA”; • In area sottoposta alla tutela paesaggistica ai sensi del D.Lgs.vo n. 42/2004; • In area soggetta a vincolo idrogeologico ai sensi del R.D.L. n. 3267/1923 (…)”), e, per tale ragione, da considerarsi, in base al disposto dell’art. 32, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001, “in totale difformità dal permesso, ai sensi e per gli effetti degli articoli 31 e 44” del D.P.R. n. 380/2001.
Non ha pregio, pertanto, il richiamo operato dalla ricorrente all’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001, il quale disciplina invece “gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire”, prevedendo, al secondo comma, che “quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell’ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione (…)”.
Sotto altro (concomitante) aspetto, peraltro, questo Tribunale ha già avuto modo di rilevare, con riferimento alla possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria di cui all’invocato art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 (il quale -si ribadisce- non risulta applicabile nel caso di specie), “che la giurisprudenza costante e condivisibile ritiene che <<l’applicazione della sanzione pecuniaria abbia comunque carattere residuale (Cons. Stato, sez. VI, n. 1793 del 2012; n. 4577 del 2013), e possa essere irrogata non in base ad una verifica tecnica a carico della parte pubblica, ma a seguito di un’istanza presentata a tal fine dalla parte privata ad essa interessata.
In altri termini, ai fini della legittimità dell’ordine di demolizione, che essendo finalizzato a ripristinare la legalità violata, costituisce il contenuto che, in via ordinaria, è tenuto ad assumere l’atto repressivo dell’illecito, l’amministrazione è tenuta al solo accertamento che l’opera sia abusiva, posto che ulteriori adempimenti, relativi all’eseguibilità dell’ordine “senza pregiudizio per la parte conforme” richiederebbero sopralluoghi ed accertamenti incompatibili con lo stesso principio di buon andamento dell’azione amministrativa, entro il quale la giurisprudenza costituzionale colloca l’esigenza che essa sia strutturata normativamente in termini tali, da assicurare il soddisfacimento degli interessi pubblici cui è preposta (Corte Cost. n. 188 del 2012).
Ne consegue che la parte pubblica non può essere onerata di verifiche tecniche, anche complesse, da effettuarsi d’ufficio in una fase anteriore all’emissione dell’ordine di demolizione. Si deve perciò ritenere che l’ordine di demolizione vada adottato anche in assenza di una verifica di tale profilo, la cui rilevanza va invece segnalata, e comprovata, dalla parte che vi abbia interesse durante la fase esecutiva (Tar Lazio I-quater n. 316 del 2014, 5277 del 2013; n. 762 del 2013).
L’ingiunzione di demolizione costituisce la prima ed obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto ha natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo analitico-ricognitivo dell’abuso commesso, mentre il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell’abuso e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria (disciplinato dall’art. 33, comma 2, e 34, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001) può essere effettuato soltanto in un secondo momento, cioè quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e l’organo competente emana l’ordine (questa volta non indirizzato all’autore dell’abuso, ma agli uffici e relativi dipendenti dell’Amministrazione competenti e/o preposti in materia di sanzioni edilizie) di esecuzione in danno….; …. soltanto nella predetta seconda fase non può ritenersi legittima l’ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi valutazione intorno all’entità degli abusi commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria, così come previsto dagli artt. 33, comma 2, e 34, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001 (Tar Lazio I-quater n. 3105 del 2012)>> (TAR Lazio, Roma, Sez. II-quater, 14.10.2015, n. 11671)
” (TAR Puglia, Lecce, III, 25/06/2018, n. 1062, cit.).
3. Per tutto quanto innanzi sinteticamente esposto, il ricorso deve essere respinto (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 11.10.2018 n. 1474 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIBusta non incollata, candidato escluso.
Il candidato che non incolli i lembi della busta con le generalità è escluso.

Con la sentenza 28.09.2018 n. 5571 il Consiglio di Stato, Sez. IV, ha respinto il ricorso di un candidato scartato da una pubblica selezione poiché la busta risultava non incollata.
Il regolamento
L'art. 14 del regolamento dei concorsi (dpr 487/1994) prescrive che al candidato sono consegnate due buste, una grande e una piccola. Il candidato dopo aver svolto la prova mette i fogli nella busta grande, scrive le generalità sul cartoncino e lo chiude nella busta piccola. Pone la busta piccola nella grande che chiude e consegna.
La tesi del ricorrente
A parere del ricorrente non c'è una norma che sanzioni con l'esclusione la mancata incollatura della busta. Per di più l'apertura della busta non precostituirebbe segno di riconoscimento. Non vi sarebbe stata inoltre, valutazione in concreto della violazione dell'anonimato, mancando nel regolamento e nel bando, la previsione dell'automatica esclusione in tal caso.
Quando a farlo è la Commissione
L'adunanza plenaria con sentenza 26/2013 nel caso di violazione del principio di anonimato da parte della Commissione, ha statuito che comporta illegittimità della procedura per pericolo astratto. Vizio derivante da violazione di norma d'azione, sanzionato in via presuntiva senza accertare l'effettiva lesione dell'imparzialità.
Il giudizio
Palazzo Spada ha stabilito che l'esclusione è garanzia del principio di par condicio. La busta con le generalità era aperta: è irrilevante che il bando o il regolamento non sanzionino espressamente con l'esclusione la mancata incollatura. Non rileva neppure che il ricorrente abbia intenzionalmente o meno reso riconoscibile la prova, essendo l'apertura della busta, comunque suscettibile di compromettere l'anonimato. Secondo i verbali neppure era stato un mero cedimento della colla.
In sostanza, non occorre accertare se si sia in concreto sviata la procedura di correzione, è sufficiente la teorica possibilità di tale evenienza. Il criterio dell'anonimato nelle prove scritte delle selezioni è precipitato dei principi costituzionali di uguaglianza, buon andamento, imparzialità della p.a. (articolo ItaliaOggi Sette del 10.12.2018).

ATTI AMMINISTRATIVI: Pur essendo espressione di un potere officioso del giudice, la condanna alle spese in favore della parte vittoriosa che non si sia difesa e non abbia, quindi, sopportato il corrispondente carico, non può essere disposta ed è assimilabile ad una pronuncia resa in mancanza del suddetto potere”.
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6. Con un quarto motivo si prospetta "violazione di legge in materia di soccombenza e condanna alle spese (art. 360 n. 3 c.p.c., in relaz. all'art. 91 c.p.c.) in relazione alla natura della decisione". Il motivo, con una prima censura, si duole della circostanza che sia stata disposta condanna alle spese giudiziali a favore della Longo non solo per le spese di appello, ma anche per quelle del giudizio di primo grado, ancorché in quest'ultimo essa fosse rimasta contumace.
6.1. Questa censura è fondata, atteso che «
Presupposto indefettibile della condanna alle spese di lite è che la parte, a cui favore dette spese sono attribuite, le abbia in realtà sostenute per lo svolgimento dell'attività difensiva correlata alla sua partecipazione in giudizio. Pertanto, la parte vittoriosa nel giudizio di secondo grado non può chiedere la attribuzione delle spese non erogate per la prima fase del giudizio, nella quale essa è rimasta contumace, né il giudice può provvedere alla liquidazione di esse» (così, ex multis, già Cass. n. 5897 del 1982).
La sentenza impugnata, provvedendo in sede di appello a favore della Lo. riguardo alle spese concernenti il giudizio di primo grado, che essa non aveva sostenuto, essendo rimasta contumace in quel grado, ha tratto dalla circostanza che la medesima era vittoriosa in appello una conseguenza che, in ossequio al principio di causalità che regola il carico delle spese all'esito del giudizio, non avrebbe potuto trarre. Infatti, la mancata costituzione della Lo. in primo grado si risolveva in una situazione nella quale la controparte non risultava aver causato a carco della medesima spese per la difesa in quel grado.
Ne segue che, ancorché la statuizione sulle spese sia espressione di un potere del giudice officioso e non dipendente da una domanda, dovendosi comunque considerare che essa è effetto automatico della proposizione della domanda giudiziale e dello svolgimento di cui è convenuto della difesa nel giudizio, la statuizione, essendo resa in mancanza del potere del giudice in concreto, è riconducibile alla fattispecie dell'art. 382, terzo comma, cod. proc. civ..
Tale norma, quando allude alla circostanza che l'azione non potesse essere proposta, supponendo che il giudice abbia pronunciato su di essa, si presta, infatti, a ricomprendere pure l'ipotesi in cui abbia pronunciato sull'amminícolo normalmente necessario di essa, che è rappresentato dalla statuizione sulle spese, atteso che esso è pur parte del dover pronunciare sulla domanda, sebbene non a richiesta necessaria della parte che l'azione ha proposto o che all'azione ha reagito.
Deve, dunque, essere affermato il principio di diritto secondo cui
«la statuizione sulle spese giudiziali di primo grado a favore della parte vittoriosa in appello, che, però, nel giudizio di primo grado sia rimasta contumace, integra un'ipotesi nella quale la Corte di Cassazione deve applicare l'art. 382, terzo comma, cod. proc. civ., e, dunque cassarla senza rinvio, in quanto, essendo il potere officioso del giudice di statuire sulle spese una necessaria implicazione del potere di pronunciare sulla domanda in maniera tale da assicurare alla parte vittoriosa completa tutela, il provvedere a favore di quella vittoriosa che non si sia difesa e non abbia sopportato il carico delle spese è situazione assimilabile ad una pronuncia senza che la domanda per come trattata in giudizio lo giustificasse».
Siffatta formula decisoria si giustifica a preferenza di quella che potrebbe concretarsi una cassazione della statuizione e, quindi, nel non dar corso a rinvio e pronunciare sul "merito" la non debenza delle spese di primo grado (Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 26.06.2018 n. 16786).

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