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AGGIORNAMENTO AL
14.03.2019 |
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IN EVIDENZA |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Gestione
associata delle funzioni essenziali, l’obbligo per i piccoli
Comuni è incostituzionale. Per i comuni sotto i 5 mila
abitanti è incostituzionale l'obbligo assoluto di gestire
congiuntamente, mediante unione o convenzione, le funzioni
essenziali
(07.03.2019 - link a www.giurdanella.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Piccoli
comuni, incostituzionale la norma sulla gestione associata delle funzioni
fondamentali. Gli enti possono sottrarsi se dimostrano che non realizza
risparmi.
La disposizione che impone ai
comuni con meno di 5.000 abitanti di gestire in forma associata le loro
funzioni fondamentali (trasporto pubblico, polizia municipale ecc.) è
incostituzionale là dove non consente ai comuni di dimostrare che, in quella
forma, non sono realizzabili economie di scala e/o miglioramenti
nell’erogazione dei beni pubblici alle popolazioni di riferimento.
Lo ha affermato la Corte
costituzionale con la
sentenza 04.03.2019 n. 33
in riferimento all’art. 14, comma 28 del decreto-legge 31.05.2010, n. 78.
Secondo la Corte, l’obbligo imposto ai comuni sconta un’eccessiva rigidità
perché dovrebbe essere applicato anche in tutti quei casi in cui:
a) non esistono comuni confinanti parimenti obbligati;
b) esiste solo un comune confinante obbligato, ma il raggiungimento
del limite demografico minimo comporta il coinvolgimento di altri comuni non
in situazione di prossimità;
c) la collocazione geografica dei confini dei comuni (per esempio
in quanto montani e caratterizzati da particolari fattori antropici,
dispersione territoriale e isolamento) non consente di raggiungere gli
obiettivi normativi.
Si tratta di situazioni dalla più varia complessità che però -secondo la
sentenza- meritano attenzione perché il sacrificio imposto all’autonomia
comunale non realizza quei risparmi di spesa cui è finalizzata la normativa
stessa.
La sentenza, inoltre, richiama l’attenzione sul fatto che, rispetto al
disegno costituzionale, l’assetto organizzativo dell’autonomia comunale
italiana è da sempre relegato “a mero effetto riflesso di altri obiettivi”.
Una doverosa cooperazione da parte del sistema degli attori istituzionali,
direttamente o indirettamente coinvolti, dovrebbe invece assicurare il
raggiungimento del difficile obiettivo di una equilibrata, stabile e
organica definizione dell’assetto fondamentale delle funzioni ascrivibili
all’autonomia locale.
A questo proposito la sentenza ricorda come in altri Paesi (ad esempio in
Francia) sono state trovate risposte strutturali al problema della
polverizzazione dei comuni, spesso attuando la differenziazione sul piano
non solo organizzativo ma anche funzionale.
La Corte ha infine dichiarato l’illegittimità delle norme della legge
regionale Campania sulla individuazione della dimensione territoriale
ottimale e omogenea per lo svolgimento delle funzioni fondamentali, in
quanto approvate in assenza della necessaria concertazione con i Comuni
interessati
(articolo ItaliaOggi Sette del 04.03.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: I
piccoli comuni possono sottrarsi alla gestione associata
delle funzioni fondamentali se dimostrano che non realizza
risparmi.
La disposizione che impone ai Comuni con
meno di 5.000 abitanti di gestire in forma associata le loro
funzioni fondamentali (trasporto pubblico, polizia
municipale, ecc.) è incostituzionale là dove non consente ai
Comuni di dimostrare che, in quella forma, non sono
realizzabili economie di scala e/o miglioramenti
nell’erogazione dei beni pubblici alle popolazioni di
riferimento.
Lo ha affermato la Corte costituzionale con la
sentenza 04.03.2019 n. 33
(relatore Luca Antonini) in riferimento all’art. 14, comma
28, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78. Secondo la Corte,
l’obbligo imposto ai Comuni sconta un’eccessiva rigidità
perché dovrebbe essere applicato anche in tutti quei casi in
cui:
a) non esistono Comuni confinanti parimenti obbligati;
b) esiste solo un Comune confinante obbligato, ma il raggiungimento
del limite demografico minimo comporta il coinvolgimento di
altri Comuni non in situazione di prossimità;
c) la collocazione geografica dei confini dei Comuni (per esempio
in quanto montani e caratterizzati da particolari fattori
antropici, dispersione territoriale e isolamento) non
consente di raggiungere gli obiettivi normativi.
Si tratta di situazioni dalla più varia complessità che però
-secondo la sentenza- meritano attenzione perché il
sacrificio imposto all’autonomia comunale non realizza quei
risparmi di spesa cui è finalizzata la normativa stessa.
La sentenza, inoltre, richiama l’attenzione sul fatto che,
rispetto al disegno costituzionale, l’assetto organizzativo
dell’autonomia comunale italiana è da sempre relegato “a
mero effetto riflesso di altri obiettivi”. Una doverosa
cooperazione da parte del sistema degli attori
istituzionali, direttamente o indirettamente coinvolti,
dovrebbe invece assicurare il raggiungimento del difficile
obiettivo di una equilibrata, stabile e organica definizione
dell’assetto fondamentale delle funzioni ascrivibili
all’autonomia locale. A questo proposito la sentenza ricorda
come in altri Paesi (ad esempio in Francia) sono state
trovate risposte strutturali al problema della
polverizzazione dei Comuni, spesso attuando la
differenziazione sul piano non solo organizzativo ma anche
funzionale.
La Corte ha infine dichiarato l’illegittimità delle norme
della legge regionale Campania sulla individuazione della
dimensione territoriale ottimale e omogenea per lo
svolgimento delle funzioni fondamentali, in quanto approvate
in assenza della necessaria concertazione con i Comuni
interessati.
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Norme
impugnate: Art. 14, c. 26°, 27°, 28°, 29°, 30° e 31°, del
decreto-legge 31/05/2010, n. 78, convertito, con
modificazioni, in legge 30/07/2010, n. 122, anche come
modificato dall'art. 19, c. 1°, del decreto-legge
06/07/2012, n. 95, convertito, con modificazioni, in legge
07/08/2012, n. 135, e dell'art. 1, c. 110° e 111°, della
legge della Regione Campania 07/08/2014, n. 16.
Oggetto: Enti locali - Comuni con popolazione inferiore ai
5.000 abitanti, ovvero a 3.000 abitanti - Previsto esercizio
obbligatorio in forma associata delle funzioni fondamentali
tassativamente stabilite dalla legge - Conseguente
sottrazione degli organi gestionali all'indirizzo politico
degli organi rappresentativi - Lesione del principio di
responsabilità politica degli organi elettivi. Enti locali -
Norme della Regione Campania - Previsto esercizio in forma
associata delle funzioni fondamentali dei Comuni, ai sensi
del d.l. n. 78/2010, convertito, con modificazioni, in legge
n. 122/2010, all'interno degli ambiti territoriali ottimali
coincidenti con i sistemi territoriali di sviluppo di cui
alla legge regionale n. 13/2008.
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7.2.– Le prime questioni, aventi ad oggetto l’art. 14, commi
28, 28-bis, 29, 30 e 31 del d.l. n. 78 del 2010, sono per un
verso infondate, e per l’altro parzialmente fondate solo
riguardo al comma 28 del citato art. 14, nei termini di
seguito indicati, in relazione all’art. 3, nel combinato
disposto con gli artt. 5, 97 e 118 Cost.
7.3.– Quanto all’infondatezza, peraltro, il riferimento al
parametro di cui all’art. 95 Cost., appare non conferente,
attesa la sua riferibilità solo all’indirizzo politico del
Governo.
In ogni caso, se da un lato è indubbio che «[p]er quel che
riguarda in particolare gli enti locali territoriali è un
dato definitivamente acquisito come la loro autonomia vada
in primo luogo intesa quale potere di indirizzo
politico-amministrativo» (sentenza n. 77 del 1987),
tuttavia, dall’altro, nell’ordinamento, come ricordato, già
da tempo sono previsti gli istituti della unione e della
convenzione, che stabiliscono modalità di attuazione delle
scelte di indirizzo politico di ciascun ente tramite la
mediazione di specifiche strutture comuni.
Se quindi esistesse, come sembra ritenere l’ordinanza ed
espressamente afferma la difesa dei ricorrenti, un vincolo
costituzionale per cui in un unico soggetto istituzionale
debbono sempre coincidere la funzione di indirizzo politico
e quella dell’indirizzo amministrativo, la sua violazione
discenderebbe direttamente dalla previsione della forma
associativa in sé stessa, a prescindere dal fatto che questa
risulti obbligatoriamente imposta.
Sarebbe, infatti, la stessa forma associativa, costituendo –secondo la metafora proposta dalla difesa dei ricorrenti–
un «sistema di governo locale acefalo», a risultare lesiva,
nel contesto dell’autonomia comunale, dell’archetipo del
principio rappresentativo e delle sue necessarie
implicazioni: l’essere cioè in grado di ricevere dalla
comunità locale un proprio indirizzo politico e di tradurlo
in scelte di politica amministrativa.
Tale conclusione appare palesemente insostenibile, posto che
le forme associative risultano pur sempre una proiezione
degli enti stessi, come affermato da questa Corte in più
occasioni (sentenze n. 456 e n. 244 del 2005 e n. 229 del
2001).
Anche nella più stringente delle stesse, l’unione di Comuni,
che è provvista di propri organi, il meccanismo della
rappresentanza di secondo grado appare compatibile con la
garanzia del principio autonomistico, dal momento che, anche
in questo caso, non può essere negato che venga «preservato
uno specifico ruolo agli enti locali titolari di autonomia
costituzionalmente garantita, nella forma della
partecipazione agli organismi titolari dei poteri
decisionali, o ai relativi processi deliberativi, in vista
del raggiungimento di fini unitari nello spazio territoriale
reputato ottimale» (sentenza n. 160 del 2016).
L’art. 32 del t.u. enti locali prevede, infatti, che il
consiglio dell’unione sia «composto da un numero di
consiglieri definito nello statuto, eletti dai singoli
consigli dei comuni associati tra i propri componenti»,
nonché che sia assicurata «la rappresentanza di ogni comune»
e «garantita la rappresentanza delle minoranze». Tanto basta
a renderlo rappresentativo degli enti che vi partecipano,
che rimangono capaci di tradurre il proprio indirizzo
politico in una reale azione di influenza sull’esercizio in
forma associata delle funzioni.
Da ultimo, va rilevato che non è pertinente il richiamo alla
sentenza n. 52 del 1969, dove l’affermazione per cui «la
sfera di autonomia sarebbe compromessa se agli enti ai quali
essa è riconosciuta e garantita fosse sottratta del tutto la
disponibilità degli strumenti necessari alla sua
esplicazione», avveniva in realtà in un giudizio relativo
alla disciplina legislativa –in ogni caso non censurata
dalla pronuncia– che demandava all’autorità statale la
selezione per concorso e la nomina dei segretari generali
della Provincia.
7.4.– Tanto chiarito, le questioni vertono essenzialmente,
più che sulle forme associative in sé considerate –della
cui legittimità costituzionale, come si è visto, non è
possibile dubitare–, sull’obbligo che di queste viene
imposto.
Rispetto a questo più limitato profilo, tuttavia, occorre
considerare che la disciplina censurata (in particolare, il
comma 28 dell’art. 14 del d.l. n. 78 del 2010) lascia
all’autonomia degli enti locali interessati l’alternativa
tra due istituti (convenzione e unione), i cui caratteri
costitutivi e funzionali consentono agli enti stessi di
modulare il rispetto della norma con valutazioni proprie
dell’indirizzo politico.
Infatti, questi possono optare tra la modalità convenzionale
(a sua volta declinabile in varie alternative di
organizzazione delle competenze e degli uffici) e quella
dell’unione, comportante una più stretta integrazione quale
conseguenza del conferimento delle funzioni e delle connesse
risorse finanziarie.
È pur vero che l’ente che abbia individuato il modello
convenzionale potrebbe però successivamente perdere la
facoltà di proseguire in tale forma associativa ove non ne
dimostri la efficacia, venendo così obbligato a utilizzare
il modello dell’unione (comma 31-bis dell’art. 14 del d.l. n.
78 del 2010).
In tal caso, tuttavia, la minore concessione all’autonomia
comunale trova fondamento nella finalità della disciplina,
che è diretta a porre rimedio ai problemi strutturali di
efficienza –e in particolare a quello della mancanza di
economie di scala– dei piccoli Comuni.
In quest’ottica il titolo che fonda un tale intervento
statale è già stato ravvisato, come detto, da questa Corte,
nella «potestà statale concorrente in materia di
coordinamento della finanza pubblica» (sentenze n. 44 e n.
22 del 2014).
Ciò è avvenuto con riguardo alle competenze regionali, ma
nella medesima prospettiva esso è riferibile alla esposta
limitazione dell’autonomia comunale e tanto comporta, fra
l’altro, che, salvo quanto si preciserà in relazione al
comma 28 del citato art. 14 del d.l. n. 78 del 2010, debbano
dichiararsi infondate le censure relative ai successivi
commi 28-bis, 29, 30 e 31 del medesimo articolo.
7.5.– Tuttavia, rimane pur vero che, secondo la
giurisprudenza costituzionale, gli interventi statali in
materia di coordinamento della finanza pubblica che incidono
sull’autonomia degli enti territoriali devono svolgersi
secondo i canoni di proporzionalità e ragionevolezza
dell’intervento normativo rispetto all’obiettivo prefissato
(ex plurimis sentenza n. 22 del 2014).
Da questo verso le censure del giudice rimettente sono
parzialmente fondate, ma solo relativamente al comma 28
dell’art. 14 del d.l. n. 78 del 2010, in riferimento
all’art. 3 Cost., nel combinato disposto con gli artt. 5, 97
e 118 Cost., rispetto ai principi autonomistico, di buon
andamento, di differenziazione e adeguatezza, con
assorbimento di ogni altro profilo di censura.
La previsione generalizzata dell’obbligo di gestione
associata per tutte le funzioni fondamentali (ad esclusione
della lett. l del comma 27) sconta, infatti, in ogni caso
un’eccessiva rigidità, al punto che non consente di
considerare tutte quelle situazioni in cui, a motivo della
collocazione geografica e dei caratteri demografici e socio
ambientali, la convenzione o l’unione di Comuni non sono
idonee a realizzare, mantenendo un adeguato livello di
servizi alla popolazione, quei risparmi di spesa che la
norma richiama come finalità dell’intera disciplina.
La norma del comma 28 dell’art. 14 del d.l. n. 78 del 2010,
infatti, pretende di avere applicazione anche in tutti quei
casi in cui: a) non esistono Comuni confinanti parimenti
obbligati; b) esiste solo un Comune confinante obbligato, ma
il raggiungimento del limite demografico minimo comporta la
necessità del coinvolgimento di altri Comuni non posti in
una situazione di prossimità; c) la collocazione geografica
dei confini dei Comuni non consente, per esempio in quanto
montani e caratterizzati da particolari «fattori antropici»,
«dispersione territoriale» e «isolamento» (sentenza n. 17
del 2018), di raggiungere gli obiettivi cui eppure la norma
è rivolta.
Si tratta di situazioni dalla più varia complessità che però
meritano attenzione, perché in tutti questi casi, solo
esemplificativamente indicati, in cui l’ingegneria
legislativa non combacia con la geografia funzionale, il
sacrificio imposto all’autonomia comunale non è in grado di
raggiungere l’obiettivo cui è diretta la normativa stessa;
questa finisce così per imporre un sacrificio non
necessario, non superando quindi il test di proporzionalità
(ex plurimis sentenze n. 137 del 2018, n. 10 del 2016, n.
272 e n. 156 del 2015).
Va peraltro rilevato che un ulteriore sintomo delle
criticità della normativa risulta dall’estenuante numero dei
rinvii dei termini originariamente previsti, che, come
evidenziato dal giudice rimettente, coprendo un arco
temporale di quasi un decennio, dimostrano l’esistenza di
situazioni oggettive che, in non pochi casi, rendono di
fatto inapplicabile la norma.
Il menzionato comma 28 è pertanto illegittimo nella parte in
cui non prevede la possibilità, in un contesto di Comuni
obbligati e non, di dimostrare, al fine di ottenere
l’esonero dall’obbligo, che a causa della particolare
collocazione geografica e dei caratteri demografici e socio
ambientali, del Comune obbligato, non sono realizzabili, con
le forme associative imposte, economie di scala e/o
miglioramenti, in termini di efficacia ed efficienza,
nell’erogazione dei beni pubblici alle popolazioni di
riferimento.
Si tratta di un’attenzione a particolari situazioni
differenziate che già ha trovato nella normativa censurata
una parziale, ma non sufficiente, considerazione, che si
rinviene laddove la stessa riconosce due casi meritevoli di
totale esonero dall’obbligo –le isole monocomune e il
Comune di Campione d’Italia– in base a una ratio
univocamente ricollegabile alla inesigibilità dell’obbligo
per le peculiari connotazioni anche geografiche di tali enti
locali.
Inoltre, lo stesso meccanismo disciplinato al comma
31-bis del citato art. 14, prevede, come ricordato, ove
l’ente abbia valutato di optare per l’attuazione
dell’obbligo associativo mediante convenzione, una
successiva verifica della sua effettiva efficacia, mediante
una fase di interlocuzione procedimentale dell’ente locale
con il Ministero dell’interno; solo all’esito negativo di
tale interlocuzione, cioè allorquando il Comune non ha
comprovato il conseguimento di «significativi livelli di
efficacia ed efficienza nella gestione», scatta l’obbligo
della unione.
Tali esoneri dall’obbligo e la necessaria interlocuzione con
gli enti locali, già prefigurati dalla normativa impugnata,
sono quindi da estendere come qui indicato, in modo da
evitare che la rigidità della disciplina possa condurre,
irragionevolmente, a effetti contrari alle finalità che la
giustificano.
Peraltro, va precisato che la portata della decisione non
coinvolge tutte quelle diverse situazioni in cui le
normative impongono obblighi di gestione associata di
funzioni e/o servizi alla generalità dei Comuni, e quindi
sono riferibili a tutti gli enti locali appartenenti a un
determinato ambito territoriale, senza che si distingua tra
Comuni obbligati e non.
Spetterà, da un lato, ai giudici comuni trarre dalla
decisione i necessari corollari sul piano applicativo,
avvalendosi degli strumenti ermeneutici a loro disposizione,
e, dall’altro, al legislatore provvedere a disciplinare, nel
modo più sollecito e opportuno, gli aspetti che richiedono
apposita regolamentazione (sentenze n. 88 del 2018 e n. 113
del 2011).
7.6.– Tale conclusione induce peraltro a richiamare
l’attenzione sui gravi limiti che, rispetto al disegno
costituzionale, segnano l’assetto organizzativo
dell’autonomia comunale italiana, dove le funzioni
fondamentali risultano ancora oggi contingentemente definite
con un decreto-legge che tradisce la prevalenza delle
ragioni economico finanziarie su quelle ordinamentali. Un
aspetto essenziale dell’autonomia municipale è quindi
risultato relegato a mero effetto riflesso di altri
obiettivi: infatti, nella legge 05.05.2009, n. 42 (Delega
al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione
dell’articolo 119 della Costituzione), l’individuazione
(provvisoria) delle funzioni fondamentali (art. 21, comma 3)
è stata meramente funzionale a permettere la disciplina del
cosiddetto federalismo fiscale; nel d.l. n. 78 del 2010 (in
via ancora provvisoria), e nel d.l. n. 95 del 2012 (in via
non più provvisoria), essa è stata strumentale a vincolare,
per motivi di spending review, i piccoli Comuni
all’esercizio associato delle funzioni stesse.
A seguito dell’infelice esito dei vari tentativi, pur
esperiti nell’ultimo quindicennio, di approvazione della
cosiddetta Carta delle autonomie locali, il problema della
dotazione funzionale tipica, caratterizzante e
indefettibile, dell’autonomia comunale non è, quindi, stato
mai stato risolto ex professo dal legislatore statale, come
invece avrebbe richiesto l’impianto costituzionale
risultante dalla riforma del Titolo V della Costituzione.
Una «fisiologica dialettica», improntata a una «doverosa
cooperazione» (sentenza n. 169 del 2017), da parte del
sistema degli attori istituzionali, nelle varie sedi
direttamente o indirettamente coinvolti, dovrebbe invece
assicurare il raggiungimento del pur difficile obiettivo di
una equilibrata, stabile e organica definizione dell’assetto
fondamentale delle funzioni ascrivibili all’autonomia
locale.
Sarebbe questo, peraltro, l’ambito naturale dove anche
considerare i limiti –da tempo rilevati– dell’ordinamento
base dell’autonomia locale, per cui le stesse funzioni
fondamentali –nonostante i principi di differenziazione,
adeguatezza e sussidiarietà di cui all’art. 118, Cost.–
risultano assegnate al più piccolo Comune italiano, con una
popolazione di poche decine di abitanti, come alle più
grandi città del nostro ordinamento, con il risultato
paradossale di non riuscire, proprio per effetto
dell’uniformità, a garantire l’eguale godimento dei servizi,
che non è certo il medesimo tra chi risiede nei primi e chi
nei secondi.
Non appare inutile, al riguardo, ricordare che riusciti
interventi strutturali in risposta al problema della
polverizzazione dei Comuni sono stati realizzati in altri
ordinamenti, spesso attuando la differenziazione non solo
sul piano organizzativo ma anche su quello funzionale. Ciò è
avvenuto, ad esempio, in quello francese, dove il problema è
stato risolto sia con la promozione di innovative modalità
di associazione intercomunale, sia attraverso formule di
accompagnamento alle fusioni; in forme diverse, ma sempre
con interventi di tipo organico, risposte sono state fornite
anche in Germania, nel Regno Unito e in molti altri Stati
europei (basti ricordare Svezia, Danimarca, Belgio, Olanda).
7.7.– La seconda censura, relativa alla violazione dell’art.
117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 3 della Carta
europea dell’autonomia locale, deve ritenersi assorbita
nella dichiarazione di fondatezza del comma 28 dell’art. 14
del d.l. n. 78 del 2010 di cui al precedente punto 7.5 e
infondata per le medesime ragioni di cui al precedente punto
7.4 in relazione ai restanti commi dello stesso articolo.
8.– Infine, il TAR rimettente pone sulle norme censurate
anche le questioni di legittimità costituzionale per
violazione degli artt. 133, secondo comma, Cost., in
relazione all’istituzione di nuovi Comuni, e degli artt. 114
e 119 Cost., con riferimento all’autonomia organizzativa e
finanziaria degli enti locali. Secondo il giudice a quo,
infatti, sebbene attraverso l’esercizio associato di quasi
tutte le funzioni fondamentali, imposto per legge, «gli enti
interessati non risultino formalmente estinti», non
permarrebbe, in ogni caso, in capo al Comune quel «“nucleo
minimo” di attribuzioni» tale da consentire la sua
qualificazione costituzionale in termini di ente autonomo.
Per le funzioni fondamentali opererebbe quindi «una riserva
costituzionale di esercizio individuale».
Pertanto, poiché le norme censurate hanno disposto «la
traslazione di tutte queste funzioni ad un soggetto nuovo o
diverso, spogliandone il precedente titolare», ai fini
dell’art. 133, secondo comma, Cost., tale situazione non
sarebbe «distinguibile dall’estinzione dell’ente locale per
fusione o incorporazione», oltre ad essere mancata la
«previsione del coinvolgimento delle popolazioni
interessate» richiesta dalla medesima norma costituzionale.
8.1.– Le questioni sono infondate.
Innanzitutto, anche in forza di quanto già rilevato nel
punto 7.3, si deve escludere l’esistenza di una «riserva
costituzionale di esercizio individuale» delle funzioni
fondamentali, che renderebbe illegittimi gli stessi istituti
associativi degli enti locali a prescindere dalla loro
obbligatorietà.
La prospettazione è quindi palesemente insostenibile e non
rimane che ribadire le conclusioni della sentenza n. 44 del
2014, avente ad oggetto disposizioni relative all’esercizio
in forma associata di tutte le funzioni da parte dei Comuni
con popolazione fino a 1.000 abitanti, mediante la
costituzione di una unione di Comuni. L’intervento del
legislatore statale, infatti, riguarda le modalità di
esercizio delle funzioni fondamentali, per cui «non presenta
alcuna attinenza con la disciplina che regola l’istituzione
di nuovi Comuni o la modifica delle loro circoscrizioni», e
«non prevede la fusione dei piccoli Comuni, con conseguente
modifica delle circoscrizioni territoriali» (sentenza n. 44
del 2014).
9.– Il TAR rimettente solleva, da ultimo, questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 110 e 111,
della legge reg. Campania n. 16 del 2014, motivando la non
manifesta infondatezza «[p]er le medesime ragioni e per
contrasto con gli stessi parametri costituzionali di cui al
punto precedente» (indicati al punto 2.3. del Ritenuto in
fatto), aggiungendo che nell’individuare gli ambiti ottimali
per l’esercizio delle funzioni fondamentali la legge avrebbe
fatto generico riferimento ai cosiddetti sistemi
territoriali di sviluppo, previsti a loro volta in ambito
urbanistico dalla legge della Regione Campania 13.10.2008, n. 13 (Piano Territoriale Regionale), «senza in merito
svolgere adeguata istruttoria attraverso il necessario
coinvolgimento degli enti locali interessati».
9.1.– L’Avvocatura generale dello Stato ha formulato
un’espressa eccezione di inammissibilità con riferimento a
tali questioni, perché solo enunciate nell’ordinanza e in
alcun modo sviluppate e motivate.
9.2.– L’eccezione non è fondata: l’ordinanza ravvisa il
dubbio di legittimità costituzionale richiamando le
«medesime ragioni» e gli «stessi parametri costituzionali di
cui al punto precedente», relativo alle censure all’art. 14,
commi da 26 a 31, del d.l. n. 78 del 2010, per contrasto con
gli artt. 3, 5, 95, 97, 114, 117, primo comma –in relazione
all’art. 3 della Carta europea dell’autonomia locale– e
sesto comma, e 118 Cost.
Come affermato da questa Corte, «[l]a motivazione tramite
rinvio “interno” è ammissibile (sentenze n. 68 del 2011 e n.
438 del 2008), purché sia chiara la portata della questione»
(sentenza n. 83 del 2016) ed è ciò che ricorre nel caso di
specie, atteso che le ragioni di non manifesta infondatezza
alle quali si fa riferimento sono sufficientemente
illustrate e che le disposizioni regionali costituiscono
attuazione di quelle statali parimenti censurate (in
particolare, dell’art. 14, comma 30, del d.l. n. 78 del
2010, come convertito).
Oltre agli argomenti richiamati mediante il suddetto rinvio,
l’ordinanza aggiunge una specifica motivazione che, sia pur
sintetica, è comunque univocamente riferita alle norme della
legge regionale.
9.3.– La questione è fondata in relazione agli artt. 5, 114
e 97 Cost.
Ai fini della individuazione da parte delle Regioni della
dimensione territoriale ottimale e omogenea per lo
svolgimento in forma obbligatoriamente associata delle
funzioni fondamentali, il comma 30 dell’art. 14 del d.l. n.
78 del 2010, come sostituito dall’art. 19 del d.l. n. 95 del
2012, non impone alle Regioni stesse l’adozione della fonte
legislativa ma, in ogni caso, prescrive la «previa
concertazione con i comuni interessati nell’ambito del
Consiglio delle autonomie locali».
Di tale concertazione non vi è traccia alcuna né nella
legge, né nei lavori preparatori. Dagli stessi, invece, è
possibile rilevare che nel disegno di legge di iniziativa
della Giunta regionale, Reg.Gen. 505-bis, non erano
presenti disposizioni aventi ad oggetto l’attuazione
dell’art. 14, comma 30, del d.l. n. 78 del 2010. Solo nel
corso dell’esame della II Commissione permanente è stato
approvato l’art. 37-bis, il cui contenuto è poi stato
trasfuso nel maxi emendamento (commi 110 e 111 dell’art. 1,
sostitutivo degli articoli da 1 a 52 del disegno di legge)
sul quale è stata posta la fiducia. Dai resoconti sommari
dei lavori della II Commissione non risultano elementi che
facciano emergere una concertazione con i Comuni interessati
nell’ambito del Consiglio delle autonomie locali (che
peraltro in Campania non è ancora stato costituito) o con
altre modalità.
Né la legge regionale censurata ha previsto un procedimento
bifasico, in cui la fonte primaria indicasse criteri
generali, demandando poi la concreta individuazione
dell’ambito territoriale a un atto amministrativo adottato
all’esito della concertazione con i Comuni interessati,
secondo una tecnica normativa che è stata adottata da altre
Regioni: per esempio, legge della Regione Veneto, 27.04.2012, n. 18 (Disciplina dell’esercizio associato di funzioni
e servizi comunali) e legge della Regione Emilia-Romagna, 21.12.2012, n. 21 (Misure per assicurare il Governo
territoriale delle funzioni amministrative secondo i
principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza).
L’art. 1, commi 110 e 111, della legge reg. Campania n. 16
del 2014 è quindi in contrasto con gli artt. 5 e 114 Cost.,
nel combinato disposto con l’art. 97 Cost., non risultando
dimostrato che l’individuazione ivi contenuta della
dimensione territoriale ottimale e omogenea per lo
svolgimento delle funzioni fondamentali, di cui al comma 28
dell’art. 14 del d.l. n. 78 del 2010, sia stata preceduta
dalla concertazione con i Comuni interessati.
Il contenuto precettivo del richiamato comma 30 dell’art. 14
del d.l. 78 del 2010, infatti, nell’imporre la concertazione
con gli enti locali, integra il principio, affermato da
questa Corte nella sentenza n. 229 del 2001, del necessario
coinvolgimento, «per le conseguenze concrete che ne derivano
sul modo di organizzarsi e sul modo di esercitarsi
dell’autonomia comunale», degli enti locali infraregionali
nelle determinazioni regionali che investono l’allocazione
di funzioni tra i diversi livelli di governo, «anche di
natura associativa».
Ne deriva, in caso di mancata concertazione con gli enti
locali, una lesione dell’autonomia comunale riconosciuta e
garantita dagli artt. 5 e 114 Cost.
Inoltre, appare del tutto evidente che la costituzione di un
sistema locale efficacemente strutturato, al punto da
conseguire risparmi di spesa, costituisce un obiettivo non
conseguibile una volta pretermessa la voce dei Comuni,
circostanza che configura un ingiustificato difetto di
istruttoria, anche in considerazione dell’art. 97 Cost.
Restano assorbite le ulteriori censure.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art.
14, comma 28, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78
(Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e
di competitività economica), convertito, con modificazioni,
in legge 30.07.2010, n. 122, come modificato dall’art. 19,
comma 1, del decreto-legge 06.07.2012, n. 95 (Disposizioni
urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza
dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento
patrimoniale delle imprese del settore bancario),
convertito, con modificazioni, in legge 07.08.2012, n. 135,
nella parte in cui non prevede la possibilità, in un
contesto di Comuni obbligati e non, di dimostrare, al fine
di ottenere l’esonero dall’obbligo, che a causa della
particolare collocazione geografica e dei caratteri
demografici e socio ambientali, del Comune obbligato, non
sono realizzabili, con le forme associative imposte,
economie di scala e/o miglioramenti, in termini di efficacia
ed efficienza, nell’erogazione dei beni pubblici alle
popolazioni di riferimento
(Corte Costituzionale,
sentenza
04.03.2019 n. 33). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Associazionismo
a rischio k.o.. Ieri alla Consulta udienza sul dl
78/2010.
La Consulta ha discusso ieri in udienza la questione di legittimità
costituzionale dell'art. 14 del cosiddetto decreto Calderoli (dl n.
78/2010), che imponeva ai comuni sotto i 5.000 abitanti (3.000 se montani)
di mettere insieme le funzioni fondamentali. E, per quanto la decisione dei
giudici delle leggi sia ovviamente top secret fino al deposito delle
motivazioni, tra i ricorrenti filtra un cauto ottimismo sul fatto che almeno
una delle ben 11 questioni di legittimità costituzionale sollevate dal TAR
Lazio-Roma, Sez. I-ter (con
ordinanza 20.01.2017 n. 1027) possa essere accolta dalla Corte.
A rivolgersi al Tar per la disapplicazione del decreto legge, è stato un
gruppo di comuni campani (Liveri in provincia di Napoli, Dragoni, Baia e
Latina in provincia di Caserta, Buonalbergo in provincia di Benevento e
Teora in provincia di Avellino) sostenuti dall'Asmel, l'Associazione per la
sussidiarietà e la modernizzazione degli enti locali. Secondo i ricorrenti,
il dl 78, sottraendo gli organi gestionali all'indirizzo politico degli
organi rappresentativi, contrasterebbe con il principio di responsabilità
politica degli organi elettivi.
I comuni campani si sono rivolti al Tar per chiedere la disapplicazione
della circolare dell'allora ministro dell'interno Angelino Alfano che
prevedeva il commissariamento degli enti (con invio di un commissario ad
acta) inadempienti all'obbligo di gestione in forma associata delle
funzioni fondamentali.
La Consulta si esprimerà anche sulla legittimità della legge regionale
campana n. 16/2014 che prevedeva l'esercizio delle funzioni associate da
parte dei comuni all'interno di Ambiti territoriali ottimali (Ato)
coincidenti con i sistemi regionali di sviluppo. Un'articolazione
irragionevole, secondo i comuni ricorrenti, in quanto i sistemi territoriali
di sviluppo attengono a logiche di sviluppo urbanistico che poco hanno a che
fare con gli Ato.
La sentenza sarà redatta dal giudice Luca Antonini, docente di diritto
costituzionale e grande esperto di ordinamento delle autonomie, nonché padre
della legge delega sul federalismo fiscale, n. 42/2009 (e dei relativi
decreti attuativi) durante l'ultimo governo Berlusconi
(articolo ItaliaOggi del 09.01.2019). |
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IN EVIDENZA |
SEGRETARI
COMUNALI: Alla
nomina dei segretari comunali serve più imparzialità.
La
sentenza 22.02.2019 n. 23 della Corte costituzionale (si veda anche Il
Quotidiano degli enti locali e della Pa del 25 febbraio e l'analisi di ieri)
pone la questione dirimente dei compiti di verifica della legalità e di
assistenza agli organi istituzionali, in cui coesistono gruppi di
maggioranza e di minoranza, in capo al segretario comunale. Questi compiti
richiedono alcune condizioni in grado di rendere sostenibile un ruolo così
complesso, a maggior ragione in un Paese come il nostro patologicamente
caratterizzato da sacche rilevanti di illegalità.
Il punto di equilibrio principale per la categoria rilevato dalla Corte è
quello che ribadisce l'esistenza di una figura unica nazionale quale
dirigente pubblico scelto mediante concorso pubblico e garantito
dall'appartenenza al ministero dell'Interno; al tempo stesso, una figura
apicale rispetto all'organizzazione dell'ente locale, con rilevanti funzioni
di supporto alla politica, di piena partecipazione alle scelte e al
perseguimento degli obiettivi dell'ente oltre che di garanzia. È questo il
«non irragionevole punto di equilibrio tra le ragioni dell'autonomia degli
enti locali, da una parte, e le esigenze di un controllo indipendente sulla
loro attività, dall'altro».
Occorre verificare le modalità di individuazione del segretario alla luce
delle argomentazioni portate dalla Corte, sia nella fase di accesso all'albo
professionale sia nella scelta da parte di ogni amministrazione. Anzitutto,
l'accesso all'albo professionale deve continuare ad avvenire con modalità
conformi ai principi costituzionali di «imparzialità e buon andamento», in
modo da assicurare la qualità del personale a cui affidare il ruolo apicale.
Non solo; la Corte fornisce indirettamente alcuni suggerimenti anche sulla
scelta del segretario nei singoli enti. «Lo statuto burocratico e funzionale
che lo caratterizza resta segnato da aspetti tra loro in apparenza
dissonanti. Da un lato funzionario statale assunto per concorso, ma
dall'altro preposto allo svolgimento effettivo delle sue funzioni attraverso
una nomina relativamente discrezionale del sindaco (…) La scelta del
segretario, infatti, pur fiduciaria e condotta intuitu personae, presuppone
l'esame dei curricula di coloro che hanno manifestato interesse alla nomina
e richiede quindi non solo la valutazione del possesso dei requisiti
generalmente prescritti, ma anche la considerazione, eventualmente
comparativa, delle pregresse esperienze tecniche, giuridiche e gestionali
degli aspiranti».
La Corte, con un significativo inciso, indica la necessità di garantire una
nomina procedimentalizzata che sia coerente con i principi costituzionali di
imparzialità dell'amministrazione pubblica. In questa ottica, suggerisce un
modello costituzionalmente orientato di «fiduciarietà temperata», con
modalità «relativamente discrezionali» ma non tali da sconfinare
nell'assoluta arbitrarietà.
È necessario quindi rivedere il procedimento formale di scelta del
segretario, che deve passare per una corretta comparazione dei curricula, a
carattere non concorsuale ma finalizzata a individuare il candidato più
idoneo (anche mutuando la giurisprudenza prevalente in materia di incarichi
a contratto ex articolo 110 del Tuel). In ogni caso la sentenza della Corte
sarà probabilmente seguita da interpretazioni e decisioni giurisprudenziali
innovative, con le quali saranno evidenziate eventuali anomalie in relazione
alla nomina del segretario.
La pronuncia della Corte, seppur ben argomentata, non appare del tutto
convincente in quanto non evidenzia in modo chiaro e univoco le criticità
che abbiamo illustrato. La tesi della Corte, basata su un non irragionevole
bilanciamento tra legalità ed efficienza, tra autonomia locale e controllo
da parte dello Stato, richiede a nostro avviso una disciplina più
equilibrata e matura che ci consenta di non ricadere in quello che è stato
definito «spoil system all'italiana».
In effetti, la sentenza stessa fornisce la chiave per la definizione dei
correttivi necessari: da un lato, infatti, individua un ruolo apicale e
«quasi manageriale» come presupposto per una legittima scelta di natura
fiduciaria; dall'altro, allude a una valutazione «eventualmente comparativa»
in sede di scelta del segretario da parte del singolo ente. Tuttavia,
analizza con una certa timidezza le previsioni in materia del testo unico,
senza indicare esplicitamente alcune palesi carenze.
Occorre superare una volta per tutte le criticità esistenti, se vogliamo
dare senso compiuto alla tesi della Corte e mettere a disposizione delle
autonomie personale motivato e qualificato. In questo senso la sentenza in
esame può anche risultare condivisibile nelle sue conclusioni sostanziali a
patto che siano recepite le indicazioni, dirette o indirette, in essa
contenute e che il segretario venga messo in condizione di essere realmente
il vertice apicale degli enti, in un assetto complessivo più equilibrato e
finalmente ragionevole
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.02.2019). |
SEGRETARI COMUNALI: Dopo
la Consulta, ruolo «apicale» del segretario da riscrivere.
Nella
sentenza 22.02.2019 n. 23 (si veda Il Quotidiano degli enti locali e della Pa di ieri) la Corte costituzionale riconosce la centralità della figura del
segretario in un contemperamento del rapporto fra due esigenze non
facilmente conciliabili: il riconoscimento dell'autonomia degli enti locali
e la necessità di garantire strumenti di controllo della loro attività.
La Corte affronta il nodo fondamentale della scelta del segretario alla luce
delle sue attribuzioni «multiformi»: neutrali, di controllo e di
certificazione, da una parte, ma dall'altra di gestione quasi manageriale e
di supporto propositivo all'azione degli organi comunali. Si parla più volte
di «non irragionevolezza» della disciplina, ammettendo implicitamente che
sarebbe opportuno renderla «ragionevole». È evidente che una pronuncia del
genere, anche se ricca di spunti, non risolva le tante criticità che hanno
generato la questione. Sarebbe necessario correggere la disciplina, per
assicurare meglio il contemperamento fra le esigenze citate sopra. La
decisione della Corte potrebbe essere un utile punto di partenza per una
corretta rivisitazione della figura del segretario.
La tesi della Consulta
La Corte Costituzionale riconosce la funzione apicale del segretario e le
sue caratteristiche manageriali, confermando che il principio di legalità
non può essere messo in contrasto con le esigenze di una maggiore efficienza
gestionale. Legalità ed efficienza non appaiono in contraddizione tra loro,
ma elementi da considerare unitariamente in conformità ai principi di
«imparzialità e buon andamento» previsti dall'articolo 97 della
Costituzione.
La Corte riconosce al segretario un ruolo attivo e propositivo; il
presupposto per la temporaneità degli incarichi risiede nella presenza di un
rapporto di diretta contiguità tra organo politico e dirigente e nell'apicalità
del ruolo, che consente alla Corte di scostarsi persino dal proprio
precedente orientamento. «Apicalità e immediatezza di rapporto col vertice
del Comune non richiedono necessariamente una sua personale adesione agli
obiettivi politico-amministrativi del sindaco». La conclusione della Corte è
tassativa: «Si è insomma in presenza di compiti la cui potenziale estensione
non rende irragionevole la scelta legislativa, che permette al sindaco
neoeletto di non servirsi necessariamente del segretario in carica».
Il problema del «ruolo apicale»
La «non irragionevolezza» della scelta legislativa deve basarsi su
un’attenta verifica della potenziale estensione dei compiti citati dalla
Corte. Al segretario sono attribuite funzioni di controllo della legalità
(articolo 97, comma 2 del Tuel), ma anche un ruolo ulteriore di natura
gestionale che sembra giustificare la fiduciarietà della nomina (articolo
97, comma 4); tuttavia, questa estensione di compiti resta in alcuni casi
meramente «potenziale». «Innanzitutto, nei Comuni con popolazione inferiore
ai centomila abitanti (articolo 97, comma 4, lettera e, del Tuel, che rinvia
all'articolo 108, comma 4), il segretario può essere nominato (anche)
direttore generale. In tal caso, è chiamato a svolgere funzioni di
attuazione degli indirizzi e degli obbiettivi stabiliti dagli organi di
governo dell'ente, dovendone predisporre il piano dettagliato, e a lui
rispondono, nell'esercizio delle loro attività, i dirigenti dell'ente».
In questo modo la Corte Costituzionale sembra sconfessare l'orientamento
consolidato della magistratura contabile, in base al quale in quella fascia
di Comuni le funzioni direzionali non possono essere assegnate al
segretario. Ad esempio la Corte dei conti ha affermato che «con la legge n.
191/2009, articolo 2, comma 186, lettera d), modificata dalla legge 42/2010,
articolo 1-quater, lettera d), e stata limitata la possibilità della nomina
di un direttore generale ai Comuni con popolazione superiore ai 100mila
abitanti» (Corte dei Conti, sezione giurisdizionale. Toscana, sentenza
217/2018). Anche laddove il segretario comunale non sia nominato direttore,
il Tuel gli attribuisce il compito di sovrintendere allo svolgimento delle
funzioni dei dirigenti, coordinandone l'attività. È dunque consigliabile
superare questa ambiguità, che ha ingenerato molte incertezze interpretative
e giudiziarie.
Ma il nodo giuridico più interessante è costituito dagli enti con più di
100mila abitanti. «Come è evidente, nei casi in cui sia nominato anche
direttore generale, la specificità della figura del segretario comunale si
accentua, considerando che il direttore generale è revocabile ad nutum
previa deliberazione della giunta comunale e che la durata del suo incarico,
come del resto quella del segretario, non può comunque eccedere quella del
mandato del sindaco (articolo 108 del Tuel). (…) Non si può trascurare come
il doppio incarico contribuisca ad accrescere il carattere fiduciario della
stessa funzione di segretario e comunque a confermarne quella peculiarità,
che lo sottrae all'automatica applicazione dei principi elaborati da questa
Corte in tema di spoils system».
Sotto questo profilo la sentenza pare lacunosa, limitandosi a prefigurare
«separati destini» per incarichi assegnati in realtà alla stessa figura e
non occupandosi dell'ipotesi alternativa prevista dall'articolo 108. Se al
segretario viene affiancato un direttore esterno, viene meno il presupposto
essenziale della scelta fiduciaria: non si comprende infatti quale
contiguità politica sia connaturata a un ruolo connotato da compiti di
controllo della legalità, non pienamente riconducibile ad una effettiva apicalità. Ciò discende dalle premesse della stessa sentenza: «Il segretario
comunale è certamente figura apicale e altrettanto certamente intrattiene
con il sindaco rapporti diretti, senza intermediazione di altri dirigenti o
strutture amministrative».
I prossimi passi
Non vi possono essere dunque ambiguità nelle norme di legge o di regolamento
sull'attribuzione dei compiti di natura apicale. Occorre quindi delineare in
modo più netto il ruolo apicale del segretario negli enti locali di ogni
dimensione, superando l'asimmetria degli assetti direzionali previsti dalla
disciplina attuale. Il legislatore deve soffermarsi sulla necessità di
rivisitazione delle funzioni del segretario, e il prossimo contratto
collettivo dovrà riconoscere il ruolo di vertice indicato dalla Corte
Costituzionale; nella convinzione che non sia accettabile uno squilibrio
macroscopico tra i contenuti dell'incarico e la sua temporaneità
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 26.02.2019). |
SEGRETARI COMUNALI: Spoils
system legittimo per i segretari comunali.
Il ruolo ibrido fra garanzia e gestione manageriale giustifica il meccanismo
Il segretario comunale è un funzionario statale assunto per concorso, ma è
anche un manager che ha bisogno di un rapporto fiduciario con il sindaco.
Per questa ragione è legittimo lo spoils system che lega il suo incarico al
mandato del vertice politico dell’ente: nel suo caso non scatta
l’incostituzionalità, che invece caratterizza le norme nazionali e regionali
che fanno decadere con il sindaco altri vertici amministrativi negli enti
locali.
La Corte costituzionale si è dovuta orientare nella natura ibrida dei
segretari comunali per arrivare a questa conclusione, espressa nella
sentenza 22.02.2019 n. 23 (redattore Zanon). Natura ibrida figlia
dell’evoluzione che ha caratterizzato i segretari comunali, che hanno
resistito ma si sono modificati nell’evoluzione amministrativa della
Repubblica.
Il segretario comunale è al riparo dai rovesci della politica per quanto
riguarda il suo status. Funzionario dello Stato, assunto per
concorso, non può essere revocato nel corso del mandato, a meno che non
violi gravemente i propri doveri d’ufficio, e non perde status giuridico ed
economico quando perde il posto, perché rimane in disponibilità presso
l’agenzia nazionale dei segretari. La sua nomina, però, è nella discrezione
del sindaco, con cui lavora fianco a fianco per gli aspetti gestionali
dell’ente. Per cui è legittimo che i due concludano insieme la loro
esperienza
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.02.2019). |
SEGRETARI COMUNALI: Segretari,
spoils system ok. Incarichi e revoche hanno natura fiduciaria.
La Consulta dà copertura costituzionale alla riforma Bassanini.
Ok allo spoils system dei segretari comunali.
Con la
sentenza 22.02.2019 n. 23
(relatore Nicolò Zanon) la Consulta dà copertura costituzionale alla riforma
Bassanini che ha assoggettato incarichi e revoche dei segretari comunali
alle scelte «fiduciarie» del sindaco.
La sentenza rigetta la questione di legittimità costituzionale sollevata dal
giudice del lavoro di Brescia in merito all'articolo 99, commi 1, 2 e 3, del
dlgs 267/2000, ai sensi della quale il sindaco nomina il segretario comunale
per un periodo corrispondente a quella del mandato del sindaco, con
automatica cessazione dell'incarico al termine del mandato stesso. La
sentenza evidenzia che lo spoils system dei segretari comunali si inserisce
in un contesto di riforma che intende accentuare l'autonomia degli enti
locali, caratterizzato dalla «diffusa convinzione secondo cui, negli enti
locali, le scelte politiche e quelle gestionali risulterebbero spesso
frammiste, e la responsabilità amministrativa finirebbe col diventare un
elemento della stessa responsabilità politica del sindaco eletto
direttamente, deducendosene così la necessità di attribuire a quest'ultimo
l'individuazione dei suoi più stretti collaboratori amministrativi, fra i
quali vien fatto rientrare il segretario comunale».
Tuttavia, la Consulta ha dimenticato di valorizzare il principio di
separazione delle funzioni politiche da quelle gestionali, che è anche alla
base della consolidata (dal 2007) giurisprudenza costituzionale, secondo la
quale sono incostituzionali le norme che impongono la decadenza automatica
dei dirigenti connessa al mandato politico, con la sola eccezione dei
dirigenti di massimo vertice dei ministeri. La Consulta ammette che lo
status dei segretari è «segnato da aspetti tra loro in apparenza
dissonanti»: infatti, da un lato è «funzionario statale assunto per
concorso, ma dall'altro preposto allo svolgimento effettivo delle sue
funzioni attraverso una nomina relativamente discrezionale del sindaco», che
non può revocarlo ad nutum, ma la cui attività è connessa alla durata
del mandato sindacale.
Lo spoils system sarebbe legittimo costituzionalmente perché,
similmente ai vertici ministeriali, «il segretario comunale è certamente
figura apicale e altrettanto certamente intrattiene con il sindaco rapporti
diretti, senza intermediazione di altri dirigenti o strutture
amministrative». La sentenza, però, ammette che questa apicalità, a
differenza di quella richiesta per i vertici ministeriali, non richiede una
«personale adesione» del segretario agli obbiettivi politico-amministrativi
del sindaco. Che infatti lo sceglie non per via diretta, ma comunque con una
selezione «eventualmente comparativa, delle pregresse esperienze tecniche,
giuridiche e gestionali degli aspiranti».
Tanto sarebbe bastato per evidenziare l'incostituzionalità dello status dei
segretari definito dal Tuel. Con dubbia coerenza, però, la sentenza ritiene
che le funzioni di collaborazione e di assistenza giuridico-amministrativa
nei confronti degli organi comunali, fanno sì che il segretario intervenga
nel procedimento di formazione degli atti, sia, se richiesto, nella fase più
propriamente decisoria, in relazione a tutti gli aspetti giuridici legati al
più efficace raggiungimento del fine pubblico. Ciò comporta, quindi «un
ruolo attivo e propositivo del segretario comunale. Esse infatti gli
consentono di coadiuvare e supportare sindaco e giunta nella fase
preliminare della definizione dell'indirizzo politico-amministrativo e non
possono quindi non influenzarla». Tuttavia, ogni dirigente o responsabile di
servizio ha, più ancora del segretario comunale il compito di istruire e
supportare gli organi elettivi nell'elaborazione delle proposte degli atti
di loro competenza e per di più adottano direttamente quelli esecutivi degli
indirizzi. Per queste figure, tuttavia, non si dubita che lo spoils system
sia incostituzionale.
Né persuade la sentenza quando collega lo spoils system
all'accentuata fiduciarietà dell'incarico al segretario, allorché sia anche
destinatario dell'incarico di direttore generale. A parte che ciò riguarda
ormai solo poche centinaia di enti locali (comuni con oltre 100 mila
abitanti e province), le due funzioni restano comunque distinte, sul piano
giuridico e della regolazione del rapporto di lavoro (articolo ItaliaOggi del 23.02.2019). |
SEGRETARI COMUNALI:
Legittimo lo SPOIL SYSTEM
dei segretari comunali.
Non è incostituzionale la disposizione del testo unico degli
enti locali secondo cui il segretario comunale resta in
carica per un periodo corrispondente a quello del sindaco
che lo ha nominato e cessa automaticamente dall’incarico al
termine del mandato di quest’ultimo.
Lo ha stabilito la Corte costituzionale nella
sentenza 22.02.2019 n. 23
(relatore Nicolò Zanon) dichiarando non fondata una
questione di legittimità costituzionale sollevata dal
Tribunale di Brescia, che dubitava del meccanismo descritto,
per supposta violazione dei principi costituzionali di
imparzialità e continuità dell’azione amministrativa
(articolo 97 Costituzione).
I giudici costituzionali hanno messo in luce che
l’evoluzione della normativa sul segretario comunale, prima
e dopo l’entrata in vigore della Costituzione, è ispirata da
concezioni assai diverse, alla ricerca di punti di
equilibrio fra due esigenze non facilmente conciliabili: il
riconoscimento dell’autonomia degli enti locali, da una
parte; la necessità di garantire adeguati strumenti di
controllo della loro attività, dall'altra.
Anche attualmente, lo statuto burocratico e funzionale che
caratterizza il segretario comunale è segnato da aspetti in
apparenza dissonanti.
Da un lato egli è funzionario statale assunto per concorso,
ma dall’altro è preposto allo svolgimento effettivo delle
sue funzioni attraverso una nomina relativamente
discrezionale del sindaco. Non può essere revocato
liberamente durante il mandato (salvo che per violazione dei
doveri d’ufficio) ma è, appunto, destinato a cessare
automaticamente dalle proprie funzioni al mutare del sindaco
(salvo conferma), eppure anche in questo caso è garantito
nella stabilità del suo status giuridico ed economico e del
suo rapporto d’ufficio, rimanendo iscritto all’albo
nazionale dei segretari comunali dopo la mancata conferma e
restando perciò a disposizione per successivi incarichi
presso altri comuni.
Il segretario comunale, spiega la sentenza, è titolare di
attribuzioni multiformi: neutrali, di controllo di legalità
e di certificazione, da una parte, ma, dall’altra, di
gestione quasi manageriale e di supporto propositivo
all’azione degli organi comunali, capaci di orientare le
scelte dell’ente nella fase preliminare della definizione
dell’indirizzo amministrativo di quest’ultimo.
Tutte queste ragioni impediscono di applicare al segretario
comunale quella giurisprudenza restrittiva che ha più volte
dichiarato costituzionalmente illegittime disposizioni di
leggi statali o regionali che prevedevano meccanismi di
spoils system, cioè di decadenza automatica da un
incarico amministrativo non apicale né fiduciario, al solo
mutare dell’organo politico di riferimento.
---------------
Norme impugnate: Art. 99, c. 1°, 2° e 3°, del
decreto legislativo 18/08/2000, n. 267.
Oggetto: Impiego pubblico - Segretari comunali e
provinciali - Nomina del segretario comunale da parte del
sindaco e dipendenza funzionale dal capo
dell'amministrazione - Durata dell'incarico corrispondente
al mandato del sindaco che ne ha disposto la nomina -
Decadenza automatica dall'incarico - Assoggettamento al
regime degli incarichi fiduciari.
Contrasto tra le funzioni del segretario comunale e il suo
ruolo di garante della conformità legale, statutaria e
regolamentare degli atti dell'ente con la nomina e la
dipendenza funzionale da parte del soggetto politico.
Dispositivo: non fondatezza -
inammissibilità.
---------------
3.– La decisione della questione di legittimità costituzionale
relativa alla previsione dell’automatica decadenza del
segretario comunale al cessare del mandato del sindaco
richiede invece, preliminarmente, una sintetica descrizione
dell’evoluzione della normativa in materia.
3.1.– La figura del segretario comunale, all’indomani
dell’unificazione, trova disciplina nella legge 20.03.1865, n. 2248 (Per l’unificazione amministrativa del Regno
d’Italia), che all’art. 10 dell’allegato A disponeva che
ogni Comune, oltre al consiglio e alla giunta, avesse un
segretario, dipendente del Comune, e un ufficio comunale,
con funzioni di certificazione e controllo. L’art. 87 del
medesimo allegato A stabiliva che il segretario fosse
nominato dal consiglio comunale e l’art. 18, terzo comma, del
Decreto 08.06.1865, n. 2321 (col quale è approvato il
Regolamento per l’esecuzione della Legge
sull’amministrazione comunale e provinciale), precisava che
egli dovesse essere scelto fra gli abilitati all’esercizio
della professione, conseguita per esami presso le
prefetture.
La successiva legge 30.12.1888, n. 5865 (che modifica la
legge comunale e provinciale), all’art. 2, provvede ad una
stabilizzazione del suo incarico, prevedendo che il
segretario comunale nominato per la prima volta «dura in
ufficio due anni», mentre le conferme successive devono
essere date per almeno sei anni. La disposizione aggiunge
che «non può essere licenziato prima del termine pel quale
fu nominato, senza deliberazione motivata presa dal
Consiglio comunale con l’intervento di almeno due terzi dei
consiglieri».
Il regio decreto 12.02.1911, n. 297 (che approva
l’annesso regolamento per l’esecuzione della legge comunale
e provinciale) stabilisce che per la sua nomina è
obbligatorio il pubblico concorso (art. 94) confermando che
gli esami per il conseguimento della relativa patente
d’idoneità hanno luogo periodicamente presso le prefetture
(art. 72).
Nel periodo fascista, il regio decreto legge 17.08.1928,
n. 1953 (Stato giuridico ed economico dei segretari
comunali) muta significativamente la situazione. Da figura
comunale, il segretario viene trasformato in funzionario
statale, soggetto alle disposizioni sullo stato giuridico
degli impiegati civili dello Stato. Dal punto di vista delle
funzioni, continua a essere organo di certificazione e di
controllo di legalità sull’attività dei Comuni, ma tale
ruolo è ora essenzialmente svolto per conto del Ministero
dell’interno, in vista di una compressione delle autonomie
locali. Previo superamento di un pubblico concorso, è
nominato dal prefetto della provincia o, per i Comuni
maggiori, con «decreto reale promosso dal Ministro per
l’Interno» (art. 3). Al termine del primo anno di servizio,
il prefetto può «conferire la nomina definitiva» (art. 7).
Nel caso in cui «l’esperimento» del primo anno non fosse
stato ritenuto soddisfacente, il segretario veniva
dispensato dal servizio, a meno che il prefetto non
intendesse «prorogare per un altro anno la durata
dell’esperimento» (ancora art. 7).
Lo stato giuridico dei segretari comunali e provinciali
viene ulteriormente organizzato dalla legge 27.06.1942,
n. 851 (Modificazioni al testo unico della legge comunale e
provinciale, approvato con R. decreto 03.03.1934, n. 383,
concernenti il nuovo stato giuridico dei segretari comunali
e provinciali), che, all’art. 1, modificando l’art. 176 del
r.d. n. 383 del 1934, prevede la loro iscrizione in un ruolo
nazionale diviso in gradi e la nomina «con decreto del
Ministro per l’interno».
3.2.– Nell’ordinamento repubblicano si susseguono interventi
di riforma, che organizzano variamente il ruolo e la
carriera dei segretari comunali e provinciali, senza
tuttavia modificare, in un primo momento, il procedimento di
nomina e il loro stato giuridico di funzionari statali
(legge 08.06.1962, n. 604, recante «Modificazioni allo
stato giuridico e all’ordinamento della carriera dei
segretari comunali e provinciali», e decreto del Presidente
della Repubblica 23.06.1972, n. 749, recante «Nuovo
ordinamento dei segretari comunali e provinciali»).
La stessa legge 08.06.1990, n. 142 (Ordinamento delle
autonomie locali) non modifica la natura di funzionario
pubblico del segretario comunale, né interviene direttamente
sulle procedure per la sua nomina. Indica, tuttavia, i
criteri per una successiva riforma: la creazione di un
«organismo collegiale» territorialmente articolato,
presieduto dal Ministro dell’interno, «composto
pariteticamente dai rappresentanti degli enti locali»,
preposto alla tenuta dell’albo dei segretari comunali e
provinciali e chiamato a esercitare nei loro confronti
«funzioni d’indirizzo e di amministrazione».
Significativamente, la legge prevede altresì che una
successiva normativa dovrà indicare le «modalità di concorso
degli enti locali» alla nomina e revoca del segretario.
In un contesto riformatore che aveva appena visto
l’introduzione dell’elezione popolare diretta dei sindaci,
con la legge 25.03.1993, n. 81 (Elezione diretta del
sindaco, del presidente della provincia, del consiglio
comunale e del consiglio provinciale), queste evocate
modalità di concorso degli enti locali trovano
effettivamente realizzazione con la modifica disposta
dall’art. 1, comma 84, della legge 28.12.1995, n. 549
(Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), in
virtù della quale nomina e revoca del segretario comunale
sono disposte «d’intesa con il sindaco».
Tra le funzioni, si affacciano poteri gestionali e di
supporto all’attività degli organi d’indirizzo: l’art. 52,
comma 3, della legge n. 142 del 1990 prevede che il
segretario «sovraintende allo svolgimento delle funzioni dei
dirigenti e ne coordina l’attività, cura l’attuazione dei
provvedimenti, è responsabile dell’istruttoria delle
deliberazioni, provvede ai relativi atti esecutivi e
partecipa alle riunioni della giunta e del consiglio».
Per contro, il successivo art. 53, comma 1, della legge n.
142 del 1990 attribuisce al segretario il compito di
esprimere un parere «sotto il profilo di legittimità» per
ogni proposta di deliberazione da sottoporre alla giunta e
al consiglio, parere che si aggiunge a quello reso sulla
regolarità tecnica e contabile da parte del responsabile del
servizio interessato e del responsabile di ragioneria. La
previsione di tale parere di legittimità, non vincolante ma
obbligatoriamente richiesto al segretario comunale e da
inserire nelle relative deliberazioni, introduce una fase
necessaria del procedimento di formazione degli atti. Nel
contesto di quella fase di riforme, l’innovazione appare il
risultato di una mediazione fra le opposte istanze di chi
avrebbe preferito un più penetrante visto di legittimità, in
funzione di controllo sull’attività degli enti locali, e di
chi, al contrario, temeva che simili forme di vigilanza
avrebbero messo a rischio l’autonomia di Comuni e Province.
Oggetto di controverse valutazioni –indispensabile baluardo
di legalità per alcuni, per altri fonte di un potere interdittivo e d’intralcio sull’attività dei sindaci–, la
previsione di un tale parere viene soppressa ad opera della
legge 15.05.1997, n. 127 (Misure urgenti per lo
snellimento dell’attività amministrativa e dei procedimenti
di decisione e di controllo), anch’essa significativamente
intervenuta a distanza di pochi anni dall’introduzione
dell’elezione popolare diretta dei sindaci.
È proprio la legge n. 127 del 1997, del resto, a determinare
un rilevante mutamento della complessiva fisionomia del
segretario comunale. Essa riconosce ai sindaci il potere di
nominarlo in autonomia, fra gli iscritti al relativo albo,
cui si continua peraltro ad accedere tramite concorso
pubblico. L’innovazione, coerente con il contesto
riformatore del periodo, trascina con sé la necessità di
attenuare il legame che il segretario comunale mantiene con
l’apparato statale: e così si spiega anche la previsione per
cui l’albo dei segretari viene affidato alla gestione di una
neo-istituita agenzia, pur soggetta alla vigilanza del
Ministero dell’interno, ma avente personalità giuridica di
diritto pubblico e dotata di autonomia organizzativa,
gestionale e contabile, articolata anche per sezioni
regionali e composta da rappresentanti delle autonomie
locali. Il segretario comunale viene esplicitamente definito
dipendente di tale agenzia e, attraverso questa scelta, la
sua diretta dipendenza dal Ministero dell’interno viene
interrotta o, quanto meno, “filtrata” dalla presenza
dell’agenzia.
In coerenza con un contesto riformatore che intende
accentuare l’autonomia degli enti locali, è la stessa legge
n. 127 del 1997 a introdurre (all’art. 17, comma 70) il
principio messo in discussione dall’ordinanza di rimessione,
secondo cui la durata dell’incarico di segretario comunale,
a parte i casi di revoca per violazione dei doveri
d’ufficio, corrisponde a quella del mandato del sindaco che
lo ha nominato, salvo conferma. In quel contesto, il
principio è anche frutto della diffusa convinzione secondo
cui, negli enti locali, le scelte politiche e quelle
gestionali risulterebbero spesso frammiste, e la
responsabilità amministrativa finirebbe col diventare un
elemento della stessa responsabilità politica del sindaco
eletto direttamente, deducendosene così la necessità di
attribuire a quest’ultimo l’individuazione dei suoi più
stretti collaboratori amministrativi, fra i quali vien fatto
rientrare il segretario comunale.
La complessiva disciplina così elaborata confluisce nel
decreto legislativo n. 267 del 2000, che all’art. 99
contiene la disposizione censurata.
Intervengono successivamente ulteriori modifiche, che
incidono sia sul rapporto di lavoro, sia sulle funzioni
assegnate al segretario comunale.
Rispetto al primo profilo, in particolare, il decreto legge
31.05.del 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di
stabilizzazione finanziaria e di competitività economica),
convertito, con modificazioni, dalla legge 30.07.2010,
n. 122, sopprime la ricordata agenzia autonoma per la
gestione dell’albo dei segretari comunali e provinciali,
stabilendo che ad essa succeda, a titolo universale, il
Ministero dell’interno, con conseguente trasferimento di
risorse strumentali e personale. Dopo lo slancio autonomista
che aveva nutrito le riforme della seconda metà degli anni
novanta del secolo scorso, il segretario comunale torna così
ad essere, quanto al rapporto d’ufficio, un funzionario del
Ministero dell’interno. Essendo però nominato dal sindaco, e
trovandosi funzionalmente alle dipendenze del Comune,
instaura contemporaneamente con quest’ultimo il proprio
rapporto di servizio: situazione, quindi, in cui
l’amministrazione datrice di lavoro (non più l’agenzia, ma
il Ministero dell’interno) continua a non coincidere con
quella che ne utilizza le prestazioni. E la giurisprudenza
di legittimità e quella amministrativa sottolineano
concordemente che il segretario comunale, benché dipenda
personalmente dal sindaco, intrattenendo un rapporto
funzionale con l’amministrazione locale, resta tuttavia un
funzionario statale, e il suo status giuridico, ancorché
particolare, è interamente disciplinato dalla legislazione
statale (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 11.08.2016, n. 17065; Consiglio di Stato, sezione quarta,
sentenza 05.04.2005, n. 1490).
Dal secondo punto di vista, quello delle funzioni, rispetto
a quelle complessivamente previste dal d.lgs. n. 267 del
2000, la legislazione le arricchisce: così, in particolare,
la legge n. 190 del 2012, nonché il decreto legislativo 14.03.del 2013, n. 33 (Riordino della disciplina riguardante
il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità,
trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle
pubbliche amministrazioni), attribuiscono al segretario
comunale, di norma, il ruolo di responsabile della
prevenzione della corruzione e quello di responsabile della
trasparenza.
Da ultimo, merita ricordare che la legge 07.08.2015, n.
124 (Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle
amministrazioni pubbliche) aveva inteso procedere alla
soppressione della figura del segretario comunale. Tra i
principi e criteri direttivi cui il Governo avrebbe dovuto
attenersi figurava, infatti, sia il mantenimento della
diversa figura del direttore generale di cui all’art. 108
del d.lgs. n. 267 del 2000, sia, appunto, la soppressione
del segretario comunale e di quello provinciale, con
«attribuzione alla dirigenza […] dei compiti di attuazione
dell’indirizzo politico, coordinamento dell’attività
amministrativa e controllo della legalità dell’azione
amministrativa; mantenimento della funzione rogante in capo
ai dirigenti apicali aventi i prescritti requisiti» (art.
11, comma 1, lettera b, numero 4). Peraltro, la stessa norma
faceva «obbligo per gli enti locali di nominare comunque un
dirigente apicale con compiti di attuazione dell’indirizzo
politico, coordinamento dell’attività amministrativa e
controllo della legalità dell’azione amministrativa».
L’intervenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale
di alcune delle disposizioni contenute nella legge n. 124
del 2015 (sentenza n. 251 del 2016), nella parte in cui
prevedevano che i decreti legislativi attuativi fossero
adottati previa acquisizione del parere, anziché previa
intesa, in sede di Conferenza unificata o in sede di
Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le
Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, ha
infine interrotto, per i profili che qui rilevano, il
compimento della riforma.
4.– Pur limitando l’attenzione alle trasformazioni
succedutesi a partire dall’entrata in vigore della
Costituzione repubblicana, l’evoluzione della normativa
relativa al segretario comunale appare ispirata da
concezioni spesso diverse e da disegni riformatori non
sempre coerenti. E se in tale complessa evoluzione una linea
di continuità è rintracciabile, essa consiste nella
incessante ricerca di punti di equilibrio fra due esigenze
non facilmente conciliabili: il riconoscimento
dell’autonomia degli enti locali, da una parte, e la
necessità, dall’altra, di garantire adeguati strumenti di
controllo della loro attività.
Nella stessa disciplina vigente –un aspetto significativo
della quale è ora posto all’attenzione di questa Corte– si
mantiene il carattere peculiare, e non sempre univocamente
delineato, della figura del segretario comunale, frutto
della ricordata evoluzione.
Lo statuto burocratico e funzionale che lo caratterizza
resta segnato da aspetti tra loro in apparenza dissonanti.
Da un lato funzionario statale assunto per concorso, ma
dall’altro preposto allo svolgimento effettivo delle sue
funzioni attraverso una nomina relativamente discrezionale
del sindaco; non revocabile ad nutum durante il mandato
(salvo che per violazione dei doveri d’ufficio), ma
destinato a cessare automaticamente dalle proprie funzioni
al mutare del sindaco (salvo conferma), eppure anche in tal
caso garantito nella stabilità del suo status giuridico ed
economico e del suo rapporto d’ufficio, permanendo iscritto
all’albo dopo la mancata conferma e restando perciò a
disposizione per successivi incarichi; decaduto
«automaticamente dall’incarico con la cessazione del mandato
del sindaco», come si esprime la legge, ciononostante
chiamato a continuare nelle sue funzioni per un periodo non
breve, non inferiore a due e non superiore a quattro mesi,
in attesa di eventuale conferma, a garanzia della stessa
continuità dell’azione amministrativa; titolare di
attribuzioni multiformi, come si dirà meglio: neutrali, di
controllo e di certificazione, da una parte, ma dall’altra
di gestione quasi manageriale e di supporto propositivo
all’azione degli organi comunali.
5.– Alla luce di tali peculiarità e tenendo conto della
giurisprudenza costituzionale in materia di meccanismi di
spoils system, la questione sollevata sull’art. 99, commi 2
e 3, del d.lgs. n. 267 del 2000, non è fondata.
5.1.– Questa Corte ha più volte affermato l’incompatibilità
con l’art. 97 Cost. di disposizioni di legge, statali o
regionali, che prevedono meccanismi di revocabilità ad nutum
o di decadenza automatica dalla carica, dovuti a cause
estranee alle vicende del rapporto instaurato con il
titolare, non correlati a valutazioni concernenti i
risultati conseguiti da quest’ultimo nel quadro di adeguate
garanzie procedimentali (sentenze n. 52 e n. 15 del 2017, n.
20 del 2016, n. 104 e n. 103 del 2007), quando tali
meccanismi siano riferiti non al personale addetto agli
uffici di diretta collaborazione con l’organo di governo
(sentenza n. 304 del 2010) oppure a figure apicali, per le
quali risulti decisiva la personale adesione agli
orientamenti politici dell’organo nominante, ma a titolari
di incarichi dirigenziali che comportino l’esercizio di
funzioni tecniche di attuazione dell’indirizzo politico
(sentenze n. 269 del 2016, n. 246 del 2011, n. 81 del 2010 e
n. 161 del 2008).
Ebbene, per quanto sia qui in questione una decadenza
automatica che la disposizione sospettata
d’incostituzionalità collega esclusivamente ad una causa
indipendente dalle modalità di esecuzione dell’incarico (la
cessazione per qualsiasi causa del mandato del sindaco,
conseguente a dimissioni, elezione del nuovo sindaco ecc.),
il complessivo statuto e le diverse funzioni affidate dalla
legge al segretario comunale restituiscono l’immagine di un
incarico non paragonabile a quelli sui quali questa Corte è
finora intervenuta con le pronunce di accoglimento
ricordate.
Per questo, non è possibile l’applicazione al caso di specie
dei principi che la giurisprudenza costituzionale ormai
costante ha elaborato in tema di limiti all’applicazione dei
meccanismi di spoils system.
5.2.– Il segretario comunale è certamente figura apicale e
altrettanto certamente intrattiene con il sindaco rapporti
diretti, senza intermediazione di altri dirigenti o
strutture amministrative.
Il dato, pur importante, non è tuttavia di univoco
significato, come molti di quelli riferibili al segretario
comunale, e trova immediato contraltare nel rilievo che
apicalità e immediatezza di rapporto col vertice del Comune
non richiedono necessariamente una sua personale adesione
agli obbiettivi politico-amministrativi del sindaco. La
scelta del segretario,
infatti, pur fiduciaria e condotta intuitu personae, presuppone l’esame dei
curricula di coloro
che hanno manifestato interesse alla nomina e richiede
quindi non solo la valutazione del possesso dei requisiti
generalmente prescritti, ma anche la considerazione,
eventualmente comparativa, delle pregresse esperienze
tecniche, giuridiche e gestionali degli aspiranti.
Neppure quest’ultimo aspetto risulta, a sua volta,
risolutivo. Quel che più conta, infatti, è che, nel caso di
specie, il carattere fiduciario insito nell’atto di nomina
non si esaurisce con esso, come accadrebbe se, dopo la
nomina, il segretario si limitasse ad esercitare le sole
funzioni di certificazione, di controllo di legalità o di
attuazione di indirizzi altrui.
Tali compiti appartengono certo al nucleo originario e
tradizionale della funzione segretariale, come del resto i
compiti di verbalizzazione, rogito –su richiesta dell’ente– dei contratti nei quali quest’ultimo è parte,
autenticazione delle scritture private e degli atti
unilaterali, nell’interesse dell’ente stesso.
Ma, oltre a questo primo gruppo di attribuzioni,
al
segretario comunale sono anche affidate dalla legge cruciali
funzioni di collaborazione e di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi comunali
in ordine alla conformità dell'azione amministrativa alle
leggi, allo statuto ed ai regolamenti (art. 97, comma 2, del d.lgs. n. 267 del 2000)
nonché funzioni consultive,
referenti e di assistenza alle riunioni del consiglio e
della giunta (art. 97, comma 4, lettera a, del d.lgs. n. 267
del 2000). Pur soppresso il parere di legittimità più sopra
menzionato, gli resta attribuita la redazione, se l’ente non
ha responsabili dei servizi, del parere di regolarità
tecnica su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla
giunta e al consiglio dell’ente che non costituisca mero
atto d’indirizzo (art. 49 del d.lgs. n. 267 del 2000).
Si tratta di funzioni che contribuiscono anch’esse ad
assicurare la conformità dell’azione dell’ente alle leggi,
allo statuto e ai regolamenti, in piena coerenza con il
ruolo del segretario quale controllore di legalità. Esse
contengono, tuttavia, anche un quid pluris, alludendo ad un
suo ruolo ulteriore.
Come ha messo efficacemente in luce l’Avvocatura generale
dello Stato, l’assistenza del segretario alle riunioni degli
organi collegiali del Comune, con funzioni consultive,
referenti e di supporto, non ha il mero scopo di consentire
la verbalizzazione, ma anche quello di permettergli di
intervenire, sia nel procedimento di formazione degli atti,
sia, se richiesto, nella fase più propriamente decisoria, in
relazione a tutti gli aspetti giuridici legati al più
efficace raggiungimento del fine pubblico.
Allo stesso modo, il parere di regolarità tecnica su ogni
proposta di deliberazione sottoposta a giunta e consiglio si
configura quale intervento preliminare volto a sottolineare
se e in che modo la proposta pone le corrette premesse per
il raggiungimento dell’interesse pubblico volta a volta
tutelato dalla legge.
Si tratta di competenze che presuppongono anche un ruolo
attivo e propositivo del segretario comunale. Esse infatti
gli consentono di coadiuvare e supportare sindaco e giunta
nella fase preliminare della definizione dell’indirizzo
politico-amministrativo e non possono quindi non
influenzarla: non già nel senso di indicare o sostenere
obbiettivi specifici, piuttosto nella direzione di mostrare
se quegli obbiettivi possono essere legittimamente inclusi
fra i risultati che gli organi di direzione
politico-amministrativa intendono raggiungere, indicando
anche, nel momento stesso in cui la decisione deve essere
assunta, i percorsi preclusi, o anche solo resi più
difficoltosi, dalla necessità di rispettare leggi, statuto e
regolamenti.
Si è insomma in presenza di compiti la cui potenziale
estensione non rende irragionevole la scelta legislativa,
che permette al sindaco neoeletto di non servirsi
necessariamente del segretario in carica.
Un terzo gruppo di funzioni del segretario comunale è di
carattere eminentemente gestionale. Innanzitutto, nei Comuni
con popolazione inferiore ai centomila abitanti (art. 97,
comma 4, lettera e, del d.lgs. n. 267 del 2000, che rinvia
all’art. 108, comma 4, del medesimo d.lgs.),
il segretario
può essere nominato (anche) direttore generale. In tal caso,
è chiamato a svolgere funzioni di attuazione degli indirizzi
e degli obbiettivi stabiliti dagli organi di governo
dell’ente, dovendone predisporre il piano dettagliato, e a
lui rispondono, nell’esercizio delle loro attività, i
dirigenti dell’ente. Ma anche laddove un direttore generale
non vi sia, o comunque il segretario comunale non sia
nominato tale, il d.lgs. n. 267 del 2000 richiede a quest’ultimo
di sovrintendere allo svolgimento delle funzioni dei
dirigenti, coordinandone l’attività (art. 97, comma 4, del d.lgs. n. 267 del 2000).
Funzioni di gestione gli sono
affidate, infine, quando sia nominato responsabile di
servizio (art. 97, comma 4, lettera d, del d.lgs. n. 267 del
2000), ciò che accade particolarmente nei Comuni di piccole
dimensioni, ove non vi è personale idoneo ad assumere
compiti dirigenziali.
Come è evidente, nei casi in cui sia nominato anche
direttore generale, la specificità della figura del
segretario comunale, già da riconoscergli in virtù delle
complessive funzioni svolte, si accentua, considerando in
particolare che il direttore generale è revocabile ad nutum
previa deliberazione della giunta comunale e che la durata
del suo incarico, come del resto quella del segretario, non
può comunque eccedere quella del mandato del sindaco (art.
108 del d.lgs. n. 267 del 2000). In disparte la ovvia
possibilità di distinguere le differenti funzioni spettanti
al medesimo soggetto nelle sue distinte vesti di segretario
o direttore, e di prefigurare pertanto per esse separati
destini, non si può trascurare come il doppio incarico
contribuisca, nelle ipotesi date, ad accrescere il carattere
fiduciario della stessa funzione di segretario e comunque a
confermarne quella peculiarità, che lo sottrae
all’automatica applicazione dei principi elaborati da questa
Corte in tema di spoils system.
Allo stesso modo, a tale automatica applicazione osta la
disposizione del d.lgs. n. 267 del 2000 che prevede, infine
e significativamente, che l’elenco dei compiti che possono
essere affidati al segretario comunale sia “aperto” e perciò
modellato anche sulle specifiche esigenze del Comune,
disponendo che egli eserciti ogni altra funzione
attribuitagli dallo statuto o dai regolamenti o conferitagli
dal sindaco (art. 97, comma 4, lettera d, del d.lgs. n. 267
del 2000).
6.– In definitiva, la soluzione censurata dall’ordinanza di
rimessione si presenta come riflesso di un non irragionevole
punto di equilibrio tra le ragioni dell’autonomia degli enti
locali, da una parte, e le esigenze di un controllo
indipendente sulla loro attività, dall’altro. Da questo
punto di vista, tenendo conto delle ricordate peculiarità
delle funzioni del segretario comunale, la previsione della
sua decadenza alla cessazione del mandato del sindaco non
raggiunge la soglia oltre la quale vi sarebbe violazione
dell’art. 97 Cost., non traducendosi nell’automatica
compromissione né dell’imparzialità dell’azione
amministrativa, né della sua continuità.
Non è quindi fondata la questione di legittimità
costituzionale relativa all’art. 99, commi 2 e 3, del d.lgs.
n. 267 del 2000 (Corte Costituzionale,
sentenza 22.02.2019 n. 23). |
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IN EVIDENZA |
PUBBLICO IMPIEGO: Tornano on-line gli stipendi dei dirigenti pubblici (ma non le dichiarazioni dei
redditi).
Gli stipendi dei dirigenti pubblici devono tornare on-line. Ma non le
dichiarazioni dei redditi e i dati patrimoniali, a meno che si tratti di
segretari generali, capi di gabinetto o dell'ufficio legislativo. Per questa
élite della dirigenza ministeriale la trasparenza deve essere totale.
La Consulta chiude con un giudizio salomonico l'infinita battaglia di carte
bollate che ha opposto la dirigenza pubblica agli obblighi di mostrare
on-line redditi e patrimoni, imposti sei anni fa dal primo dei decreti
attuativi della legge Severino (articolo 14, comma 1-bis, del decreto
legislativo 33/2013). Salomonico ma soddisfacente per i dirigenti che hanno
ingaggiato la lotta, e che puntavano proprio sullo stop ai patrimoni. Anche
se fra i singoli diretti interessati non manca chi storce il naso di fronte
al “gossip retributivo” ingaggiato dalla pubblicazione dei compensi.
I dirigenti si vedono in ogni caso riconosciuto il principio che avevano
invocato, cioè l'irragionevolezza di un trattamento che non distingue un
ministro da un dirigente comunale.
La sentenza della Consulta (la
sentenza 21.02.2019 n. 20:
presidente Lattanzi, redattore Zanon) si è mossa su un crinale stretto. Da
un lato c'e il principio della trasparenza, che deve aprire ai cittadini
l'accesso più ampio possibile si dati della Pubblica amministrazione, e
dall'altro quello alla riservatezza, che deve tutelare i dati sensibili. La
legge anticorruzione ha imposto a tutti, dal più noto fra i politici al più
oscuro fra i dirigenti, di pubblicare dichiarazioni dei redditi e dati
patrimoniali, suoi e dei parenti se questi danno il consenso. Tanta equità
non è piaciuta ai dirigenti: e quelli del Garante della Privacy, esperti del
tema, hanno bussato al Tar arrivando fino in Corte costituzionale. E mentre
il risiko giuridico si sviluppava, hanno impugnato anche le istruzioni
attuative scritte dall'Anac, che dopo una lunga partita a scacchi ai
tribunali amministrativi si è arresa sospendendo gli obblighi di
pubblicazione.
Il primo effetto della sentenza di ieri, quindi, è il ritorno sui siti di
tutte le amministrazione delle tabelle con gli stipendi dei loro 140mila
dirigenti, insieme ai rimborsi delle spese di missione. Le dichiarazioni dei
redditi e gli elenchi dei patrimoni, invece, andranno ripubblicati da poche
decine di persone, che occupano i vertici amministrativi dei ministeri. Si
tratta di quelli nominati con decreto del Quirinale o di Palazzo Chigi, su
proposta del ministro, per i ruoli di segretario generale o di dirigente di
"strutture complesse". Per individuarli bisogna scorrere i commi 3 e
4 dell'articolo 19 del Testo unico del pubblico impiego
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 22.02.2019). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Dirigenti pubblici,
incostituzionale l'obbligo generalizzato di pubblicare
on-line i dati su reddito e patrimonio: vale solo per gli
“apicali”.
Cade l’obbligo di pubblicare on-line
i dati personali sul reddito e sul patrimonio dei dirigenti
pubblici diversi da quelli che ricoprono incarichi apicali.
Con la
sentenza 21.02.2019 n. 20
(relatore Nicolò Zanon) la Corte costituzionale ha infatti
dichiarato illegittima la disposizione che estendeva a tutti
i dirigenti pubblici gli stessi obblighi di pubblicazione
previsti per i titolari di incarichi politici.
La pubblicazione riguarda, in particolare, i compensi
percepiti per lo svolgimento dell’incarico e i dati
patrimoniali ricavabili dalla dichiarazione dei redditi e da
apposite attestazioni sui diritti reali sui beni immobili e
mobili iscritti in pubblici registri, sulle azioni di
società e sulle quote di partecipazione a società.
Questi dati, in base alla disposizione censurata, dovevano
essere diffusi attraverso i siti istituzionali e potevano
essere trattati secondo modalità che ne avessero consentito
l’indicizzazione, la rintracciabilità tramite i motori di
ricerca web e anche il loro riutilizzo.
La Corte ha ritenuto irragionevole il bilanciamento operato
dalla legge tra due diritti: quello alla riservatezza dei
dati personali, inteso come diritto a controllare la
circolazione delle informazioni riferite alla propria
persona, e quello dei cittadini al libero accesso ai dati e
alle informazioni detenuti dalle pubbliche amministrazioni.
Secondo i giudici costituzionali, il legislatore,
nell’estendere tutti i descritti obblighi di pubblicazione
alla totalità dei circa 140.000 dirigenti pubblici (e, se
consenzienti, ai loro coniugi e parenti entro il secondo
grado), ha violato il principio di proporzionalità, cardine
della tutela dei dati personali e presidiato dall’articolo 3
della Costituzione. Pur riconoscendo che gli obblighi in
questione sono funzionali all’obiettivo della trasparenza, e
in particolare alla lotta alla corruzione nella Pubblica
amministrazione, la Corte ha infatti ritenuto che tra le
diverse misure appropriate non è stata prescelta, come
richiesto dal principio di proporzionalità, quella che meno
sacrifica i diritti a confronto.
In vista della trasformazione della Pa in una “casa di
vetro”, il legislatore può prevedere strumenti che
consentano a chiunque di accedere liberamente alle
informazioni purché, però, la loro conoscenza sia
ragionevolmente ed effettivamente collegata all’esercizio di
un controllo sia sul corretto perseguimento delle funzioni
istituzionali sia sull’impiego virtuoso delle risorse
pubbliche.
Ciò vale certamente per i compensi di qualsiasi natura
connessi all’assunzione della carica nonché per le spese
relative ai viaggi di servizio e alle missioni pagate con
fondi pubblici, il cui obbligo di pubblicazione viene
preservato, dalla sentenza, per tutti i dirigenti pubblici.
Non così per gli altri dati relativi ai redditi e al
patrimonio personali, la cui pubblicazione era imposta,
senza alcuna distinzione, per tutti i titolari di incarichi
dirigenziali.
Si tratta, infatti, di dati che non sono necessariamente e
direttamente collegati all’espletamento dell’incarico
affidato. Inoltre, la loro pubblicazione non può essere
sempre giustificata - come avviene invece per i titolari di
incarichi politici - dalla necessità di rendere conto ai
cittadini di ogni aspetto della propria condizione economica
e sociale allo scopo di mantenere saldo, durante il mandato,
il rapporto di fiducia che alimenta il consenso popolare.
A ciò si aggiunga che la pubblicazione di quantità così
massicce di dati –senza alcuna distinzione tra i dirigenti,
in relazione al ruolo, alle responsabilità e alla carica
ricoperta– non agevola affatto la ricerca di quelli più
significativi, anche a fini anticorruttivi, e rischia, anzi,
di generare “opacità per confusione” oltre che di
stimolare forme di ricerca tendenti unicamente a soddisfare
mere curiosità.
Poiché non spetta alla Corte costituzionale indicare una
diversa soluzione più idonea a bilanciare i diritti
antagonisti, la sentenza garantisce, insieme al diritto alla
privacy, la tutela minima delle esigenze di trasparenza
amministrativa individuando nei dirigenti apicali delle
amministrazioni statali (previsti dall’articolo 19, commi 3
e 4, del decreto legislativo n. 165 del 2001) coloro ai
quali sono applicabili gli obblighi di pubblicazione imposti
dalla disposizione censurata.
Secondo la Corte, l’attribuzione a questi dirigenti di
compiti di elevatissimo rilievo –propositivi, organizzativi,
di gestione (di risorse umane e strumentali) e di spesa–
rende non irragionevole che, solo per loro, siano mantenuti,
allo stato, gli obblighi di trasparenza di cui si discute.
Spetterà ora al legislatore ridisegnare -con le necessarie
diversificazioni e per tutte le pubbliche amministrazioni,
anche non statali- il complessivo panorama dei destinatari
degli obblighi di trasparenza e delle modalità con cui
devono essere attuati, nel rispetto del principio di
proporzionalità posto a presidio della privacy degli
interessati.
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Norme impugnate: Art. 14, c. 1°-bis e 1-ter, del
decreto legislativo 14/03/2013, n. 33.
Oggetto: Impiego pubblico - Riservatezza -
Trasparenza - Obblighi di pubblicazione di documenti e
informazioni concernenti i titolari di incarichi
dirigenziali - Pubblicazione dei compensi - Pubblicazione
degli emolumenti percepiti.
Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale -
non fondatezza - inammissibilità.
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5.– Così prospettata, la questione è parzialmente fondata,
nei termini che saranno di seguito precisati, per
violazione, sia del principio di ragionevolezza, sia del
principio di eguaglianza, limitatamente all’obbligo imposto
a tutti i titolari di incarichi dirigenziali, senza alcuna
distinzione fra di essi, di pubblicare le dichiarazioni e le
attestazioni di cui alla lettera f) del comma 1 dell’art. 14
del d.lgs. n. 33 del 2013.
5.1.– Nella versione originaria, il citato art. 14 del
d.lgs. n. 33 del 2013, al comma 1, già imponeva alle
amministrazioni interessate la pubblicazione di una serie di
documenti e informazioni, ma tale obbligo si riferiva solo
ai titolari di incarichi politici di livello statale,
regionale e locale. I documenti e le informazioni da
pubblicare, in relazione a questi ultimi, erano (e restano):
a) l’atto di nomina o di proclamazione, con l’indicazione della
durata dell’incarico o del mandato elettivo;
b) il curriculum;
c) i compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della
carica e gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati
con fondi pubblici;
d) i dati relativi all’assunzione di altre cariche, presso enti
pubblici o privati, e i relativi compensi a qualsiasi titolo
percepiti;
e) gli altri eventuali incarichi con oneri a carico della finanza
pubblica e l’indicazione dei compensi spettanti;
f) i documenti previsti dall’art. 2 della legge n. 441 del 1982,
ossia, per quanto qui d’interesse, una dichiarazione
concernente i diritti reali su beni immobili e su beni
mobili iscritti in pubblici registri, le azioni di società,
le quote di partecipazione a società e l’esercizio di
funzioni di amministratore o di sindaco di società, nonché
la copia dell’ultima dichiarazione dei redditi soggetti
all’imposta sui redditi delle persone fisiche (IRPEF), con
obblighi estesi al coniuge non separato e ai parenti entro
il secondo grado, ove gli stessi vi abbiano consentito e
salva la necessità di dare evidenza al mancato consenso.
I destinatari originari di questi obblighi di trasparenza
sono titolari di incarichi che trovano la loro
giustificazione ultima nel consenso popolare, ciò che spiega
la ratio di tali obblighi: consentire ai cittadini di
verificare se i componenti degli organi di rappresentanza
politica e di governo di livello statale, regionale e
locale, a partire dal momento dell’assunzione della carica,
beneficino di incrementi reddituali e patrimoniali, anche
per il tramite del coniuge o dei parenti stretti, e se tali
incrementi siano coerenti rispetto alle remunerazioni
percepite per i vari incarichi.
La novella di cui al d.lgs. n. 97 del 2016 aggiunge all’art.
14 del d.lgs. n. 33 del 2013 cinque nuovi commi, tra i
quali, appunto, quello censurato, che estende gli obblighi
di pubblicazione ricordati, per quanto qui interessa, ai
titolari di incarichi dirigenziali a qualsiasi titolo
conferiti, ivi inclusi quelli attribuiti discrezionalmente
dall’organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche
di selezione.
In tal modo, la totalità della dirigenza amministrativa è
stata sottratta al regime di pubblicità congegnato dall’art.
15 del d.lgs. n. 33 del 2013 –che per essi prevedeva la
pubblicazione dei soli compensi percepiti, comunque
denominati– ed è stata attratta nell’orbita dei ben più
pregnanti doveri di trasparenza originariamente riferiti ai
soli titolari di incarichi di natura politica.
5.2.– In nome di rilevanti obiettivi di trasparenza
dell’esercizio delle funzioni pubbliche, e in vista della
trasformazione della pubblica amministrazione in una “casa
di vetro”, il legislatore ben può apprestare strumenti
di libero accesso di chiunque alle pertinenti informazioni,
«allo scopo di tutelare i diritti dei cittadini,
promuovere la partecipazione degli interessati all’attività
amministrativa e favorire forme diffuse di controllo sul
perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo
delle risorse pubbliche» (art. 1, comma 1, del d.lgs. n.
33 del 2013).
Resta tuttavia fermo che il perseguimento di tali finalità
deve avvenire attraverso la previsione di obblighi di
pubblicità di dati e informazioni, la cui conoscenza sia
ragionevolmente ed effettivamente connessa all’esercizio di
un controllo, sia sul corretto perseguimento delle funzioni
istituzionali, sia sul corretto impiego delle risorse
pubbliche.
Proprio da questo punto di vista, risultano non fondate le
questioni di legittimità costituzionale sollevate in
relazione all’obbligo imposto a ciascun titolare di incarico
dirigenziale di pubblicare i dati di cui alla lettera c)
dell’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 33 del 2013, e dunque i
compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della
carica, nonché gli importi di viaggi di servizio e missioni
pagati con fondi pubblici.
La disciplina anteriore alla novella operata dal d.lgs. n.
97 del 2016 già contemplava la pubblicità dei compensi,
comunque denominati, relativi al rapporto di lavoro
dirigenziale, proprio per agevolare la possibilità di un
controllo diffuso, da parte degli stessi destinatari delle
prestazioni e dei servizi erogati dall’amministrazione,
posti così nelle condizioni di valutare, anche sotto il
profilo in questione, le modalità d’impiego delle risorse
pubbliche.
Il regime di piena conoscibilità di tali dati risulta
proporzionato rispetto alle finalità perseguite dalla
normativa sulla trasparenza amministrativa, con conseguente
esclusione della prospettata violazione degli artt. 3 e 117,
primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione a tutti i
parametri interposti evocati.
Si tratta, infatti, di consentire, in forma diffusa, il
controllo sull’impiego delle risorse pubbliche e permettere
la valutazione circa la congruità –rispetto ai risultati
raggiunti e ai servizi offerti– di quelle utilizzate per la
remunerazione dei soggetti responsabili, a ogni livello, del
buon andamento della pubblica amministrazione.
Quanto ai restanti parametri costituzionali (artt. 2 e 13
Cost.) evocati dal rimettente, in disparte la stringatezza
delle argomentazioni utilizzate a sostegno delle censure,
non si vede come la pubblicazione di tali dati possa mettere
a rischio la sicurezza o la libertà degli interessati,
danneggiandone la dignità personale: si tratta, infatti,
dell’ostensione di compensi o rimborsi spese direttamente
connessi all’espletamento dell’incarico dirigenziale.
Di qui, la non fondatezza delle questioni sollevate anche in
riferimento agli artt. 2 e 13 Cost.
5.3.– A diverse conclusioni deve pervenirsi con riferimento
agli obblighi di pubblicazione indicati nella lettera f) del
comma 1 dell’art. 14 del d.lgs. n. 33 del 2013, in quanto
imposti dal censurato comma 1-bis dello stesso articolo,
senza alcuna distinzione, a carico di tutti i titolari di
incarichi dirigenziali.
Anche per essi, oltre che per i titolari di incarichi
politici, è ora prescritta la generalizzata pubblicazione di
dichiarazioni e attestazioni contenenti dati reddituali e
patrimoniali (propri e dei più stretti congiunti), ulteriori
rispetto alle retribuzioni e ai compensi connessi alla
prestazione dirigenziale.
Si tratta, in primo luogo, di dati che non necessariamente
risultano in diretta connessione con l’espletamento
dell’incarico affidato. Essi offrono, piuttosto,
un’analitica rappresentazione della situazione economica
personale dei soggetti interessati e dei loro più stretti
familiari, senza che, a giustificazione di questi obblighi
di trasparenza, possa essere sempre invocata, come invece
per i titolari di incarichi politici, la necessità o
l’opportunità di rendere conto ai cittadini di ogni aspetto
della propria condizione economica e sociale, allo scopo di
mantenere saldo, durante l’espletamento del mandato, il
rapporto di fiducia che alimenta il consenso popolare.
L’Avvocatura generale dello Stato, nelle proprie memorie,
giustifica le disposizioni censurate, evidenziando che, in
riferimento ai titolari d’incarichi dirigenziali, il
legislatore avrebbe correttamente adottato misure «ampie e
rigorose» al fine, soprattutto, di contrastare il fenomeno
della corruzione nella pubblica amministrazione, anche in
considerazione dei numerosi moniti in tal senso provenienti
da rilevanti organizzazioni internazionali e dalla stessa
Unione europea, e delle rilevazioni internazionali che hanno
classificato l’Italia tra i Paesi in cui è più elevata la
percezione della corruzione (da intendersi anche come
carenza di trasparenza).
Tale giustificazione appare plausibile, ma non conclusiva.
L’Avvocatura generale ha anche opportunamente ricordato che,
in virtù delle numerose clausole di garanzia della tutela
dei dati personali previste dallo stesso d.lgs. n. 33 del
2013, le pubbliche amministrazioni, nel richiedere ai propri
dirigenti la trasmissione dei dati di cui ora si tratta per
fini di pubblicità istituzionale, consentono l’oscuramento
dei dati sensibili e giudiziari, nonché di quelli valutati
non pertinenti rispetto alle finalità di trasparenza
perseguite.
A tale cautela risulta essersi uniformata l’autorità datrice
di lavoro nei confronti dei ricorrenti nel giudizio a quo,
ai quali è stato richiesto di oscurare, nella dichiarazione
dei redditi destinata alla pubblicazione, alcuni dati
considerati “eccedenti”: codice fiscale; scelta del
destinatario relativa all’otto e al cinque per mille
dell’IRPEF; ammontare delle spese sanitarie; riepilogo delle
spese; sottoscrizioni autografe del dichiarante.
Occorre tuttavia valutare se e in che misura –al netto di
queste operazioni di preventiva scrematura, pure imposte
dalla legge– la conoscenza indiscriminata del residuo, pur
sempre ampio, ventaglio di informazioni e dati personali di
natura reddituale e patrimoniale contenuti nella
documentazione oggetto di pubblicazione appaia necessaria e
proporzionata rispetto alle finalità perseguite dalla
legislazione sulla trasparenza.
Ebbene, la disposizione censurata non risponde alle due
condizioni richieste dal test di proporzionalità:
l’imposizione di oneri non sproporzionati rispetto ai fini
perseguiti, e la scelta della misura meno restrittiva dei
diritti che si fronteggiano.
Viola perciò l’art. 3 Cost., innanzitutto sotto il profilo
della ragionevolezza intrinseca, imporre a tutti
indiscriminatamente i titolari d’incarichi dirigenziali di
pubblicare una dichiarazione contenente l’indicazione dei
redditi soggetti all’IRPEF nonché dei diritti reali su beni
immobili e su beni mobili iscritti in pubblici registri,
delle azioni di società, delle quote di partecipazione a
società e dell’esercizio di funzioni di amministratore o di
sindaco di società (con obblighi estesi al coniuge non
separato e ai parenti entro il secondo grado, ove gli stessi
vi consentano e fatta salva la necessità di dare evidenza,
in ogni caso, al mancato consenso).
5.3.1.– L’onere di pubblicazione in questione risulta, in
primo luogo, sproporzionato rispetto alla finalità
principale perseguita, quella di contrasto alla corruzione
nell’ambito della pubblica amministrazione.
La norma impone la pubblicazione di una massa notevolissima
di dati personali, considerata la platea dei destinatari:
circa centoquarantamila interessati (senza considerare
coniugi e parenti entro il secondo grado), secondo le
rilevazioni operate dall’ARAN e citate dal Garante per la
protezione dei dati personali (nel parere reso il 03.03.2016 sullo schema di decreto legislativo che,
successivamente approvato dal Governo, come d.lgs. n. 97 del
2016, ha introdotto la disposizione censurata).
Non erra il giudice rimettente laddove, considerata tale
massa di dati, intravede un rischio di frustrazione delle
stesse esigenze di informazione veritiera e, quindi, di
controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e
sull’utilizzo delle risorse pubbliche, poste a base della
normativa sulla trasparenza.
La pubblicazione di quantità così massicce di dati, infatti,
non agevola affatto la ricerca di quelli più significativi a
determinati fini (nel nostro caso particolare, ai fini di
informazione veritiera, anche a scopi anticorruttivi) se non
siano utilizzati efficaci strumenti di elaborazione, che non
è ragionevole supporre siano a disposizione dei singoli
cittadini.
Sotto questo profilo, la disposizione in esame finisce per
risultare in contrasto con il principio per cui, «nelle
operazioni di bilanciamento, non può esservi un decremento
di tutela di un diritto fondamentale se ad esso non fa
riscontro un corrispondente incremento di tutela di altro
interesse di pari rango» (sentenza n. 143 del 2013). Nel
caso in esame, alla compressione –indiscutibile– del
diritto alla protezione dei dati personali non corrisponde,
prima facie, un paragonabile incremento né della
tutela del contrapposto diritto dei cittadini ad essere
correttamente informati, né dell’interesse pubblico alla
prevenzione e alla repressione dei fenomeni di corruzione.
Tutt’al contrario, la stessa autorità preposta alla lotta al
fenomeno della corruzione, segnala, non diversamente da
quella preposta alla tutela dei dati personali, che il
rischio è quello di generare “opacità per confusione”,
proprio per l’irragionevole mancata selezione, a monte,
delle informazioni più idonee al perseguimento dei legittimi
obiettivi perseguiti.
Sono le stesse peculiari modalità di pubblicazione imposte
dal d.lgs. n. 33 del 2013 ad aggravare il carattere, già in
sé sproporzionato, dell’obbligo di pubblicare i dati di cui
si discute, in quanto posto a carico della totalità dei
dirigenti pubblici.
L’indicizzazione e la libera rintracciabilità sul web, con
l’ausilio di comuni motori di ricerca, dei dati personali
pubblicati, non è coerente al fine di favorire la corretta
conoscenza della condotta della pubblica dirigenza e delle
modalità di utilizzo delle risorse pubbliche. Tali forme di
pubblicità rischiano piuttosto di consentire il reperimento
“casuale” di dati personali, stimolando altresì forme
di ricerca ispirate unicamente dall’esigenza di soddisfare
mere curiosità.
Si tratta di un rischio evidenziato anche dalla
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Alla luce dello sviluppo della tecnologia informatica e
dell’ampliamento delle possibilità di trattamento dei dati
personali dovuto all’automatizzazione, la Corte EDU si è
soffermata sulla stretta relazione esistente tra tutela
della vita privata (art. 8 CEDU) e protezione dei dati
personali, interpretando anche quest’ultima come tutela
dell’autonomia personale da ingerenze eccessive da parte di
soggetti privati e pubblici (Corte EDU, Grande camera,
sentenze 16.02.2000, Amann contro Svizzera, e 06.04.2010,
Flinkkilä e altri contro Finlandia).
In una significativa pronuncia (sentenza 08.11.2016, Magyar
contro Ungheria), la Grande camera della Corte EDU ha
osservato come l’interesse sotteso all’accesso a dati
personali per fini di interesse pubblico non può essere
ridotto alla “sete di informazioni” sulla vita
privata degli altri («The public interest cannot be
reduced to the public’s thirst for information about the
private life of others, or to an audience’s wish for
sensationalism or even voyeurism»: § 162).
5.3.2.– Anche sotto il secondo profilo, quello della
necessaria scelta della misura meno restrittiva dei diritti
fondamentali in potenziale tensione, la disposizione
censurata non supera il test di proporzionalità.
Esistono senz’altro soluzioni alternative a quella ora in
esame, tante quanti sono i modelli e le tecniche
immaginabili per bilanciare adeguatamente le contrapposte
esigenze di riservatezza e trasparenza, entrambe degne di
adeguata valorizzazione, ma nessuna delle due passibile di
eccessiva compressione.
Alcune di tali soluzioni –privilegiate, peraltro, in altri
ordinamenti europei– sono state ricordate anche dal giudice
rimettente: ad esempio, la predefinizione di soglie
reddituali il cui superamento sia condizione necessaria per
far scattare l’obbligo di pubblicazione; la diffusione di
dati coperti dall’anonimato; la pubblicazione in forma
nominativa di informazioni secondo scaglioni; il semplice
deposito delle dichiarazioni personali presso l’autorità di
controllo competente.
Quest’ultima soluzione, del resto, era quella adottata prima
del d.lgs. n. 97 del 2016, nell’ambito di una disciplina
(art. 13, commi 1 e 3, del d.P.R. 16.04.2013, n. 62,
contenente «Regolamento recante codice di comportamento dei
dipendenti pubblici, a norma dell’articolo 54 del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165», e tuttora vigente) che
impone ai titolari d’incarichi dirigenziali l’obbligo di
fornire alle amministrazioni di appartenenza, con onere di
aggiornamento annuale, le informazioni sulla propria
situazione reddituale e patrimoniale, che però non erano
rese pubbliche (se non su apposita istanza), e, comunque,
non con le modalità previste dal d.lgs. n. 33 del 2013 e in
precedenza illustrate.
Non spetta a questa Corte indicare la soluzione più idonea a
bilanciare i diritti antagonisti, rientrando la scelta dello
strumento ritenuto più adeguato nella ampia discrezionalità
del legislatore.
Tuttavia, non si può non rilevare sin d’ora –e in attesa di
una revisione complessiva della disciplina– che vi è una
manifesta sproporzione del congegno normativo approntato
rispetto al perseguimento dei fini legittimamente
perseguiti, almeno ove applicato, senza alcuna
differenziazione, alla totalità dei titolari d’incarichi
dirigenziali.
5.4.– La disposizione censurata, come si è più volte
sottolineato, non opera alcuna distinzione all’interno della
categoria dei dirigenti amministrativi, vincolandoli tutti
all’obbligo di pubblicazione dei dati indicati. Il
legislatore non prevede alcuna differenziazione in ordine al
livello di potere decisionale o gestionale. Eppure, è
manifesto che tale livello non può che influenzare, sia la
gravità del rischio corruttivo –che la disposizione stessa,
come si presuppone, intende scongiurare– sia le conseguenti
necessità di trasparenza e informazione.
La stessa legislazione anticorruzione presuppone distinzioni
tra i titolari d’incarichi dirigenziali: l’art. 1, comma 5,
lettera a), della legge n. 190 del 2012, infatti, obbliga le
pubbliche amministrazioni centrali a definire e trasmettere
al Dipartimento della funzione pubblica un piano di
prevenzione della corruzione che fornisca «una valutazione
del diverso livello di esposizione degli uffici al rischio
di corruzione» e indichi «gli interventi organizzativi volti
a prevenire il medesimo rischio».
A questa stregua, è corretto l’insistito rilievo del giudice
rimettente, che sottolinea come la mancanza di qualsivoglia
differenziazione tra dirigenti risulti in contrasto, ad un
tempo, con il principio di eguaglianza e, di nuovo, con il
principio di proporzionalità, che dovrebbe guidare ogni
operazione di bilanciamento tra diritti fondamentali
antagonisti.
Il legislatore avrebbe perciò dovuto operare distinzioni in
rapporto al grado di esposizione dell’incarico pubblico al
rischio di corruzione e all’ambito di esercizio delle
relative funzioni, prevedendo coerentemente livelli
differenziati di pervasività e completezza delle
informazioni reddituali e patrimoniali da pubblicare.
Con riguardo ai titolari di incarichi dirigenziali, la
stessa Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), nell’atto
di segnalazione n. 6 del 20.12.2017, ha ritenuto di
suggerire al Parlamento e al Governo una modifica normativa
che operi una graduazione degli obblighi di pubblicazione
proprio in relazione al ruolo, alle responsabilità e alla
carica ricoperta dai dirigenti.
Non prevedendo invece una consimile graduazione, la
disposizione censurata si pone in contrasto con l’art. 3
Cost.
6.– Questa Corte non può esimersi, tuttavia, dal considerare
che una declaratoria d’illegittimità costituzionale che si
limiti all’ablazione, nella disposizione censurata, del
riferimento ai dati indicati nell’art. 14, comma 1, lettera
f), lascerebbe del tutto privi di considerazione principi
costituzionali meritevoli di tutela.
Sussistono esigenze di trasparenza e pubblicità che possono
non irragionevolmente rivolgersi nei confronti di soggetti
cui siano attribuiti ruoli dirigenziali di particolare
importanza.
Ha osservato l’Avvocatura generale dello Stato che «è
proprio il fatto di essere permanentemente e stabilmente al
servizio delle pubbliche amministrazioni, con funzioni
gestionali apicali», a costituire la giustificazione del
regime aperto, di massima trasparenza, per i gestori della
cosa pubblica.
Sorge, dunque, l’esigenza di identificare quei titolari
d’incarichi dirigenziali ai quali la disposizione possa
essere applicata, senza che la compressione della tutela dei
dati personali risulti priva di adeguata giustificazione, in
contrasto con il principio di proporzionalità.
È evidente, a questo proposito, che le molteplici
possibilità di classificare i livelli e le funzioni,
all’interno della categoria dei dirigenti pubblici, anche in
relazione alla diversa natura delle amministrazioni di
appartenenza, impediscono di operare una selezione secondo
criteri costituzionalmente obbligati.
Non potrebbe essere questa Corte, infatti, a ridisegnare,
tramite pronunce manipolative, il complessivo panorama,
necessariamente diversificato, dei destinatari degli
obblighi di trasparenza e delle modalità con le quali tali
obblighi debbano essere attuati.
Ciò spetta alla discrezionalità del legislatore, al quale il
giudice costituzionale, nel rigoroso rispetto dei propri
limiti d’intervento, non può sostituirsi.
Nondimeno, occorre assicurare, allo stato, la salvaguardia
di un nucleo minimo di tutela del diritto alla trasparenza
amministrativa in relazione ai dati personali indicati dalla
disposizione censurata, in attesa di un indispensabile e
complessivo nuovo intervento del legislatore.
Da questo punto di vista, l’art. 19 del decreto legislativo
30.03.2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del
lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche),
nell’elencare gli incarichi di funzioni dirigenziali, ai
commi 3 e 4 contiene indicazioni normative che risultano
provvisoriamente congruenti ai fini appena indicati.
Tali commi individuano due particolari categorie di
incarichi dirigenziali, quelli di Segretario generale di
ministeri e di direzione di strutture articolate al loro
interno in uffici dirigenziali generali (comma 3) e quelli
di funzione dirigenziale di livello generale (comma 4).
Le competenze spettanti ai soggetti che ne sono titolari,
come elencate al precedente art. 16 del d.lgs. n. 165 del
2001, rendono manifesto lo svolgimento, da parte loro, di
attività di collegamento con gli organi di decisione
politica, con i quali il legislatore presuppone l’esistenza
di un rapporto fiduciario, tanto da disporre che i suddetti
incarichi siano conferiti su proposta del ministro
competente.
L’attribuzione a tali dirigenti di compiti –propositivi,
organizzativi, di gestione (di risorse umane e strumentali)
e di spesa– di elevatissimo rilievo rende non irragionevole,
allo stato, il mantenimento in capo ad essi proprio degli
obblighi di trasparenza di cui si discute.
Come si è detto, l’intervento di questa Corte non può che
limitarsi all’eliminazione, dalla disposizione censurata,
dei profili di più evidente irragionevolezza, salvaguardando
provvisoriamente le esigenze di trasparenza e pubblicità che
appaiano, prima facie, indispensabili.
Appartiene alla responsabilità del legislatore, nell’ambito
dell’urgente revisione complessiva della materia, sia
prevedere eventualmente, per gli stessi titolari degli
incarichi dirigenziali indicati dall’art. 19, commi 3 e 4,
modalità meno pervasive di pubblicazione, rispetto a quelle
attualmente contemplate dal d.lgs. n. 33 del 2013, sia
soddisfare analoghe esigenze di trasparenza in relazione ad
altre tipologie di incarico dirigenziale, in relazione a
tutte le pubbliche amministrazioni, anche non statali.
In definitiva, l’art. 14, comma 1-bis, del d.lgs. n. 33 del
2013, deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo,
per violazione dell’art. 3 Cost., nella parte in cui prevede
che le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di cui
all’art. 14, comma 1, lettera f), dello stesso decreto
legislativo, anche per tutti i titolari di incarichi
dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi
quelli conferiti discrezionalmente dall’organo di indirizzo
politico senza procedure pubbliche di selezione, anziché
solo per i titolari degli incarichi dirigenziali previsti
dall’art. 19, commi 3 e 4, del d.lgs. n. 165 del 2001.
Restano assorbiti tutti gli altri profili di censura.
7.– Vanno, infine, dichiarate inammissibili le questioni di
legittimità costituzionale aventi ad oggetto il comma 1-ter
dell’art. 14 del d.lgs. n. 33 del 2013.
La disposizione prevede l’obbligo di pubblicazione degli
«emolumenti complessivi» percepiti da ogni dirigente della
pubblica amministrazione a carico della finanza pubblica: a
parere del rimettente, tale pubblicazione costituirebbe un
dato aggregato che contiene quello di cui al comma 1,
lettera c), dello stesso articolo e che potrebbe, anzi,
corrispondere del tutto a quest’ultimo, laddove il dirigente
non percepisca altro emolumento se non quello corrispondente
alla retribuzione per l’incarico assegnato.
Le questioni sono inammissibili, in quanto i provvedimenti
impugnati nel giudizio principale non sono stati adottati in
applicazione del comma 1-ter, ma del solo precedente comma
1-bis dell’art. 14 citato.
Per costante giurisprudenza costituzionale, sono
inammissibili, per difetto di rilevanza, le questioni
sollevate su disposizioni di cui il giudice rimettente non
deve fare applicazione (ex multis, sentenze n. 36 del
2016 e n. 192 del 2015; ordinanze n. 57 del 2018 e n. 38 del
2017).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art.
14, comma 1-bis, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33
(Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso
civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e
diffusione di informazioni da parte delle pubbliche
amministrazioni), nella parte in cui
prevede che le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati
di cui all’art. 14, comma 1, lettera f), dello stesso
decreto legislativo anche per tutti i titolari di incarichi
dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi
quelli conferiti discrezionalmente dall’organo di indirizzo
politico senza procedure pubbliche di selezione, anziché
solo per i titolari degli incarichi dirigenziali previsti
dall’art. 19, commi 3 e 4, del decreto legislativo
30.03.2001, n. 165
(Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze
delle amministrazioni pubbliche) (Corte Costituzionale,
sentenza 21.02.2019 n. 20). |
|
IMPORTANTE: |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Accesso
civico messo all’angolo. I dati dei defunti e le pratiche edilizie restano
coperti. Lo dicono due pareri del garante privacy. Infermieri, no agli invii
massivi all’Ordine.
Foia
in un angolo. Il Freedom of information act (dlgs 33/2013), la normativa
sull'accesso civico generalizzato, non consente di accedere
indiscriminatamente ai dati dei pazienti defunti e neppure alle pratiche
edilizie comunali.
A spiegarlo il garante della privacy, con due pareri gemelli ad altrettante
richieste relative ala prima ad una richiesta di accesso ai dati di una
azienda sanitaria locale e ad un comune.
DATI DEI DEFUNTI
Il primo caso è stato quello di una istanza a una azienda sanitaria di un
accesso civico ai dati sanitari di un paziente deceduto, e questo
relativamente a un fatto di presunta malasanità. L'istanza è stata formulata
ai sensi dell'articolo 5 del dlgs 33/2013. La documentazione richiesta
conteneva informazioni particolarmente riservate: ricovero, sintomi,
anamnesi, diagnosi, esami effettuati, alcuni particolarmente invasivi,
terapia, farmaci somministrati, credo professato.
Nel merito il garante ha
affermato che questo tipo di informazioni non sono accessibili con il Foia
(provvedimento n. 2 del 10.01.2019).
L'accesso civico non si può usare
nei casi di divieto di accesso o divulgazione previsti dalla legge «e tra
questo, spiega l'autorità presieduta da Antonello Soro, rientra il caso del
divieto di diffusione» di dati relativi alla salute previsto dal Codice
della privacy. A latere il garante ha ricordato in Italia le persone
decedute continuano a godere delle tutele previste dalla disciplina in
materia di protezione dei dati personali anche dopo l'applicazione del
Regolamento Ue 2016/679 (Gdpr). Nel Gdpr, infatti, sono tutelati solo i dati
delle persone fisiche viventi, ma gli stati dell'Unione avevano la
possibilità di intervenire.
È quello che ha fatto l'Italia con il dlgs
101/2018: pertanto, grazie a questo intervento, i diritti relativi ai dati
personali dei defunti (ed anche l'accesso) possono essere esercitati da chi
ha un interesse proprio, o agisce a tutela dell'interessato, in qualità di
suo mandatario, o per ragioni familiari meritevoli di protezione. Da quanto
appena detto discende anche che ci sono altre strade per avere accesso ai
dati sanitari (sempre che ne ricorrano i presupposti) senza scomodare il Foia,
che non ha alcuna possibilità di applicazione.
SCILA E CILA
Lo stesso è capitato in un caso di richiesta di accesso civico generalizzato
ai dati personali completi contenuti nei titoli abilitativi edilizi Scia e
Cila e cioè, rispettivamente Segnalazioni certificate di inizio attività e
Comunicazioni inizio lavori asseverata.
Nel caso specifico il comune aveva
dato copia delle pratiche edilizie, ma solo in sintesi con dati aggregati,
depurati di quelli personali. In materia il garante ha quindi sottolineato
che la completa conoscenza delle informazioni riportate nelle Scia e nelle Cila, può comportare un'invasione alla vita privata, poiché si rivelerebbero
data e luogo di nascita, codici fiscali, residenza, e-mail, pec, numeri di
telefono fisso e cellulare, documentazione tecnica sugli interventi. Il
risultato sottolinea il garante sarebbe stata la duplicazione delle banche
dati comunali.
Il garante ha, anche in questo caso, concluso ricordando che
il no all'«accesso civico generalizzato» non impedisce di accedere ai
documenti amministrativi con altri strumenti (ad esempio accesso documentale
in base alla legge 241/1990, sussistendone i presupposti). Il garante nella
sua decisione (provvedimento 03.01.2019
n. 1) ha tenuto conto anche
del fatto che la società richiedente è una società che realizza campagne di
marketing e web marketing, nonché la fornitura di servizi di gestione dei
programmi di fidelizzazione e affiliazione commerciale, autrice di istanza a
tappeto di accesso civico. Come dire che il possibile utilizzo per finalità
di marketing non è perfettamente collimante con lo scopo della norma
sull'accesso civico generalizzato.
In effetti l'articolo 5 del dlgs 33/2013
considera l'accesso civico quale strumento per il controllo dell'attività e
delle spese della pubblica amministrazione e per la partecipazione al
dibattito pubblico. Peraltro, a dimostrare la difficile interpretazione e
applicazione della normativa, la Funzione pubblica, con la circolare 2/2017
ha espressamente previsto come possibile motivazione dell'accesso civico
generalizzato le finalità commerciali.
INFERMIERI
Con nota del 16.01.2019 il Garante ha affermato che le strutture
sanitarie non possono trasmettere in modo massivo i dati di tutto il loro
personale infermieristico all'Ordine professionale di riferimento.
Nel caso
specifico gli ordini volevano fare controlli incrociati e scoprire abusivi.
Ma la legge non attribuisce agli Ordini competenze per generalizzate
attività di raccolta di informazioni riferite al personale infermieristico.
Deve, invece, essere il datore di lavoro ad accertare, all'atto
dell'assunzione e nel corso del rapporto di lavoro, che un infermiere sia
dotato dei requisiti necessari per prestare servizio e che sia iscritto
all'apposito albo professionale.
BREXIT
In caso di Hard Brexit il Regno Unito diventerà un paese terzo dal 30.03.2019.
Lo ha precisato il Comitato europeo della protezione dei dati
(newsletter del garante della privacy 450 del 25 febbraio). Di conseguenza,
il trasferimento di dati personali dal See (Spazio economico europeo) verso
il Regno Unito dovrà basarsi su uno dei seguenti strumenti: clausole-tipo di
protezione dei dati o clausole di protezione dei dati ad hoc, norme
vincolanti d'impresa, codici di condotta e meccanismi di certificazione e
strumenti specifici di trasferimento a disposizione delle autorità
pubbliche. In assenza di clausole-tipo di protezione dei dati o di altre
garanzie adeguate, si possono utilizzare alcune deroghe a determinate
condizioni (articolo ItaliaOggi del 26.02.2019). |
EDILIZIA PRIVATA: Privacy:
no all’accesso civico generalizzato su pratiche SCIA e CILA.
Non è possibile accedere ai dati personali completi
contenuti nei titoli abilitativi edilizi (SCIA e CILA) sulla
base di una mera richiesta di accesso civico generalizzato.
Lo ribadisce il Garante per la protezione dei dati personali
nel parere (provvedimento 03.01.2019
n. 1) fornito a un Comune dell’Emilia Romagna in
merito alla decisione di respingere parzialmente una
richiesta di accesso civico alle Segnalazioni Certificate di
Inizio Attività (SCIA) e alle Comunicazioni Inizio Attività
Asseverata (CILA), presentata da una impresa privata.
La richiesta di copia completa delle pratiche edilizie era
stata presentata una prima volta al Comune, che aveva però
risposto fornendo solamente una sintesi con dati aggregati,
depurati di quelli personali, al fine di non arrecare un
possibile pregiudizio alla privacy delle persone
interessate. L’impresa, supportata dal Difensore civico
regionale dell’Emilia Romagna, aveva contestato la decisione
e chiesto il riesame della pratica. Il Garante privacy aveva
invece sostenuto la correttezza della scelta
dell’amministrazione cittadina. L’impresa aveva poi
ripresentato la domanda, ma il Garante è nuovamente
intervenuto sulla vicenda, anche al fine di evitare
pericolosi precedenti che incoraggino possibili trattamenti
illeciti di dati personali.
Nel proprio parere, l’Autorità ha innanzitutto chiarito che,
diversamente da quanto indicato per altre pratiche edilizie,
come i permessi a costruire, la normativa non prevede lo
stesso regime di conoscibilità per la CILA e la SCIA, come
per quelle utilizzate nel caso di opere di manutenzione
straordinaria, di restauro o di risanamento conservativo.
Il Garante ha quindi sottolineato che la generale conoscenza
delle informazioni riportate nelle SCIA e nelle CILA,
considerando la quantità e qualità dei dati personali
contenuti -come data e luogo di nascita, codici fiscali,
residenza, e-mail, pec, numeri di telefono fisso e
cellulare, documentazione tecnica sugli interventi- avrebbe
potuto determinare un’interferenza ingiustificata e
sproporzionata nei diritti e libertà dei soggetti
controinteressati. Tutto ciò, in violazione anche del
principio di minimizzazione previsto dal Regolamento europeo
sulla privacy (Gdpr), con possibili ripercussioni negative
sul piano relazionale, professionale, personale e sociale.
Nel corso dell’istruttoria, il Garante ha inoltre rilevato
che l’impresa richiedente -che ha tra le sue attività quella
di conduzione di campagne di marketing e web
marketing, nonché la fornitura di servizi di gestione
dei programmi di fidelizzazione e affiliazione commerciale-
aveva presentato la stessa domanda in maniera sistematica,
per più periodi, a diversi enti locali. L’accoglimento della
richiesta di accesso civico avrebbe tra l’altro potuto
esporre al pericolo di duplicazione di banche dati di
soggetti pubblici da parte di soggetti privati, in assenza
del consenso dei soggetti interessati o degli altri
presupposti di liceità del trattamento.
L’Autorità, ha così confermato, anche alla luce della
normativa e delle stesse linee guida Anac, la correttezza
dell’operato del Comune, nel valutare l’esistenza di un
possibile pregiudizio concreto alla protezione dei dati
delle persone interessate -ad esempio i proprietari, gli
usufruttuari e tecnici incaricati- e fornendo di conseguenza
solo una sintesi delle pratiche richieste. Ha comunque
rimarcato che tale decisione sull’“accesso civico
generalizzato” non impedisce di accedere ai documenti
amministrativi completi a chi dimostri di avere un interesse
qualificato
(commento tratto da www.garanteprivacy.it).
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PREMESSO
Con la nota in atti il Responsabile della prevenzione della
corruzione e della trasparenza del Comune di San Cesario sul
Panaro ha chiesto al Garante il parere previsto dall’art. 5,
comma 7, del d.lgs. n. 33 del 14.03.2013, nell’ambito del
procedimento relativo a una richiesta di riesame di un
provvedimento di diniego di una richiesta di accesso civico.
Nello specifico, dagli atti risulta che è stata presentata
istanza di accesso civico alla «copia nel formato
detenuto da questa amministrazione (o in sub-ordine in forma
riassuntiva), contenente i dati del committente, descrizione
dell’intervento, località del cantiere e tecnico
progettista, delle Segnalazioni Certificate di Inizio
Attività (SCIA) e possibilmente anche delle Comunicazioni
Inizio Attività Asseverata (CILA) concernenti l’attività
degli interventi edili da attuarsi nel territorio comunale,
presentate nel mese di settembre 2018».
L’amministrazione ha negato l’accesso civico ai dati
personali richiesti alla luce del limite, previsto dall’art.
5-bis, comma 2, lett. a), del d.lgs. n. 33/2013, relativo
all’esistenza di un pregiudizio concreto alla protezione dei
dati personali dei soggetti interessati, richiamando in
proposito il contenuto del parere già fornito dal Garante al
medesimo Comune su altra richiesta di accesso civico
identica, sotto il profilo soggettivo e oggettivo, alla
presente (provv. n. 360 del 10/08/2017, in www.gpdp.it,
doc. web n. 6969290).
Quanto alle restanti informazioni, il Comune ha fornito al
soggetto istante i dati relativi alle SCIA e CILA presentate
all’ente nel periodo richiesto (senza comunicare dati
personali), ossia la tipologia di titolo edilizio (SCIA o
CILA), la descrizione dell’intervento (es.: manutenzione
straordinaria, installazione insegna; intervento
miglioramento sismico, nuovo accesso carraio, variante in
corso d’opera per ristrutturazione edilizia; opere interne;
variante in corso d’opera, ecc.), le informazioni relative
all’effettuazione dell’intervento nel comune o in una sua
frazione.
Il soggetto istante, non ritenendosi soddisfatto dal
riscontro ricevuto –lamentando di non aver ricevuto gli
ulteriori dati personali (nomi, cognomi e indirizzi)– ha
presentato richiesta di riesame del provvedimento di diniego
dell’accesso civico al responsabile della prevenzione della
corruzione e della trasparenza, rappresentando, a sostegno
delle proprie richieste, fra l’altro, che:
- «nel procedimento amministrativo adottato [è] stato messo in
atto un pregiudizio concreto da parte del Comune di San
Cesario sul Panaro soprattutto in riferimento ai limiti
previsti dall’art. 5-bis del riformato D.Lgs. 33/2013, nei
confronti del diritto alla protezione dei dati personali.
Tale disposizione non può essere interpretata come limite
all’esercizio del diritto di accesso, in quanto il
legislatore ha tassativamente individuato i limiti e le
eccezioni a tale diritto nell’art. 5-bis del riformato D.Lgs.
33/2013; in questa direzione, il richiamo agli orientamenti
interpretativi espressi dalle Linee Guida ANAC»;
- «In osservanza delle Linee Guida ANAC, l’amministrazione
destinataria dell’istanza deve effettuare un bilanciamento
tra il diritto di accesso alle informazioni e il diritto
alla riservatezza del soggetto cui i dati afferiscono e,
qualora l’esigenza informativa possa essere soddisfatta
anche senza implicare il trattamento di dati personali, “il
soggetto destinatario dell’istanza […] dovrebbe in linea
generale scegliere le modalità meno pregiudizievoli per i
diritti dell’interessato, privilegiando l’ostensione di
documenti con l’omissione dei ‘dati sensibili’ in esso
presenti”»;
- «omettendo l’indirizzo completo dove vengono svolti gli
interventi edili […] viene meno la proporzionalità nella
conoscenza dei titoli edilizi, occorre quindi riconoscere un
margine di conoscibilità anche ai soggetti non interessati,
il quale deve essere bilanciato –in concreto– con
l’effettivo pregiudizio alla protezione dei dati personali.
In tal senso, come si ricava dalla stessa disciplina europea
sulla protezione dei dati (Regolamento (UE) 2016/679), la
tutela del dato personale deve essere applicata alla luce
del principio di proporzionalità nel bilanciamento con altri
diritti e valori fondamentali, tra cui rientra quello alla
trasparenza amministrativa e all’accesso ai documenti»;
- «occorr[e] riconoscere ai titoli edilizi un margine di
conoscibilità anche ai soggetti non interessati, alla luce
del principio della proporzionalità nel bilanciamento con
altri diritti e valori fondamentali, tra cui rientra quello
alla trasparenza amministrativa e all’accesso ai documenti
realizzando quel controllo “diffuso” sull’attività edilizia
che il legislatore ha inteso garantire»;
- «Nella risposta del Comune di San Cesario sul Panaro si trova
invece uno sbilanciamento a favore del richiedente:
oscurando i dati (nomi, cognomi e il numero civico
dell’indirizzo) rendono di fatto l’Accesso Civico
Generalizzato senza alcun valore di legge, come si può
evincere nell’allegato dove si può constatare che
difficilmente è rintracciabile il cantiere dell’intervento
edile»;
- «[i]l Difensore Civico Regionale […] per un’analoga richiesta
di Accesso Civico Generalizzato, esprime parere favorevole
per il rilascio dei documenti senza omettere i nominativi
dei Committenti e dei Tecnici progettisti: “...... non si
profila la sussistenza di un pregiudizio concreto
all’interesse privato alla protezione dei dati personali.
Infatti, il regime di pubblicità dei titoli in materia di
edilizia è connotato da un ambito particolarmente esteso,
come è dimostrato dalla necessaria pubblicazione nell’albo
pretorio del provvedimento di rilascio del permesso di
costruire ai sensi dell’art. 20, co. 6, del d.P.R. 380/2001.
Inoltre, fino alla novella del 2016, rientravano tra gli
obblighi di pubblicazione previsti dal decreto 33/2013 i
provvedimenti finali dei procedimenti relativi ad
autorizzazioni e concessioni, ai quali viene equiparata la
segnalazione certificata di inizio attività (cfr.
orientamento ANAC n. 11 del 21.05.2014); dal particolare
regime di pubblicità di tali atti deriva la impossibilità di
qualificare come “controinteressati” dei soggetti i cui dati
si riferiscono]”».
OSSERVA
1. Il caso sottoposto al Garante
Il caso sottoposto all’attenzione del Garante è identico,
sotto il profilo soggettivo (stesso soggetto istante) e
oggettivo (stessa tipologia di dati e documenti richiesti ma
riferiti a mesi diversi), a quello per il quale è stato reso
il parere contenuto nel citato provvedimento n. 360/2017,
peraltro richiesto proprio dal medesimo Comune di San
Cesario sul Panaro (confermato dai successivi provvedimenti
n. 361 del 18/08/2017, in www.gpdp.it,
doc. web n. 6969198; n. 364 dell’01/09/2017, ivi,
doc. web n. 6979959; n. 359 del 22/05/2018, ivi,
doc. web n. 9001943; n. 426 del 19/07/2018, ivi,
doc. web n. 9027184; n. 453 del 13/09/2018, ivi,
doc. web n. 9050702; n. 517 del 19/12/2018 in corso di
pubblicazione).
Ciò nonostante il predetto Comune sottopone nuovamente al
Garante la questione, alla luce dei due pareri resi sulla
stessa questione dal Difensore civico regionale dell’Emilia
Romagna (di cui uno successivo al provv. di questa Autorità
n. 360/2017) e dell’insistenza nella richiesta del soggetto
istante di ottenere alla luce dei predetti pareri –tramite
l’istituto dell’accesso civico generalizzato di cui all’art.
5, comma 2, del d.lgs. n. 33/2013– le informazioni e i dati
personali, contenuti in tutte le Segnalazioni Certificate di
Inizio Attività (SCIA) e le Comunicazioni Inizio Attività
Asseverata (CILA) presentate al Comune nel mese di settembre
2018.
In tale quadro, questa Autorità ritiene utile ribadire
ancora una volta la propria posizione, con le precisazioni
di cui si dirà, in materia di accesso civico ai dati
personali contenuti nelle SCIA e nelle CILA, confermando gli
orientamenti già espressi nei citati pareri (in part. provv.
n. 360/2017), le cui motivazioni, per esigenze di chiarezza
espositiva, vengono riportate nuovamente in questa sede,
dando conto –a ulteriore sostegno delle osservazioni già
formulate– anche dell’intervenuta applicazione, dal
25.05.2018, del Regolamento europeo sulla protezione dei
dati personali n. 679 del 2016, nonché delle modifiche
apportate al Codice in materia di protezione dei dati
personali dal d.lgs. n. 101 del 10/08/2018.
Ciò allo scopo di evitare orientamenti contrastanti e
interpretazioni della disciplina vigente in materia di
trasparenza e accesso civico non conformi alla disciplina in
materia di protezione dei dati personali, che rischiano di
creare pericolosi precedenti e di incoraggiare possibili
trattamenti illeciti di dati personali, con le conseguenze
ora previste dall’art. 83 del Regolamento europeo (inflizione
di «sanzioni amministrative pecuniari») e dall’ art.
2-decies, comma 1, del Codice («inutilizzabilità dei dati
[...] personali trattati in violazione della disciplina
rilevante in materia di trattamento dei dati personali»),
oltre che dall’art. 82 del Regolamento, quanto al diritto al
risarcimento del danno.
2. I dati personali contenuti nelle SCIA e nella CILA
I casi in cui è necessario presentare la SCIA o la CILA
interessano un insieme molto variegato di interventi edilizi
–riguardanti, in generale, attività di manutenzione
straordinaria, di restauro o di risanamento conservativo
(sia «leggero» che «pesante»); di
ristrutturazione edilizia («semplice», «leggera»
o «pesante»); «di nuova costruzione in esecuzione
di strumento urbanistico attuativo»; di «eliminazione
delle barriere architettoniche (pesanti)»; ovvero
specifiche ipotesi di varianti a permessi di costruire
previste dalla legge, etc.– disciplinati a livello statale,
fra l’altro, dal citato D.P.R. n. 380/2001 (recante il «Testo
unico delle disposizioni legislative e regolamentari in
materia edilizia»), nonché dal più recente d.lgs.
25/11/2016, n. 222 (recante «Individuazione di
procedimenti oggetto di autorizzazione, segnalazione
certificata di inizio di attività (SCIA), silenzio-assenso e
comunicazione e di definizione dei regimi amministrativi
applicabili a determinate attività e procedimenti, ai sensi
dell’articolo 5 della legge 07.08.2015, n. 124»).
A titolo esemplificativo, si spazia da interventi
riguardanti la semplice apertura o chiusura di un vano
finestra, alla costruzione di una recinzione, al
frazionamento o accorpamento di unità abitative, fino a
operazioni più importanti come il rifacimento di tetti o
solai, oppure o la ristrutturazione generale di un intero
fabbricato.
Le informazioni e i dati, anche di carattere personale, da
presentare all’ente competente e contenuti nei predetti
titoli abilitativi edilizi (CILA e SCIA) sono molteplici e
di diverso genere e natura. Il riferimento è, ad esempio, a
nominativi, data e luogo di nascita, codici fiscali,
residenza, e-mail, p.e.c., numeri di telefono fisso e
cellulare riferiti al/i titolare/i dell’intervento in
qualità di proprietario, comproprietario, usufruttuario,
amministratore di condominio o dei loro rappresentanti; a
informazioni sulla tipologia di intervento; alla data di
inizio e di fine dello stesso; all’ubicazione, dati
catastali e destinazione d’uso dell’immobile oggetto
dell’intervento edilizio; al carattere oneroso o gratuito
dell’intervento, con allegata eventuale ricevuta dei
versamenti effettuati; alla “entità presunta del cantiere”;
ai dati dei tecnici incaricati (direttori dei lavori e altri
tecnici) e dell’impresa esecutrice dei lavori (riportati
nell’allegato «soggetti coinvolti»); nonché, fra
l’altro, al prospetto di calcolo preventivo del contributo
di costruzione e agli elaborati grafici dello stato di fatto
e progetto (come allegati).
È possibile avere un quadro generale del volume e della
complessità dei predetti dati e informazioni consultando i
moduli, molto articolati, per la presentazione della SCIA e
della CILA riportati nell’allegato 2, intitolato «Modulistica
edilizia», dell’Accordo del 04/05/2017 in sede di
Conferenza Unificata «tra il Governo, le Regioni e gli
Enti locali concernente l’adozione di moduli unificati e
standardizzati per la presentazione delle segnalazioni,
comunicazioni e istanze. Accordo, ai sensi dell’articolo 9,
comma 2, lettera c), del decreto legislativo 28/08/1997, n.
281» (Repertorio atti n. 46/CU, in G.U. n. 128 del
05/06/2017 - Suppl. Ordinario n. 26).
3. Inesistenza di un regime di pubblicità dei dati
personali contenuti nelle SCIA e nelle CILA
Occorre preliminarmente ribadire che non esiste un obbligo
di pubblicazione da parte delle pp.aa. delle Segnalazioni
certificate di inizio di attività-SCIA o delle Comunicazioni
di inizio lavori asseverata-CILA presentate all’ente, né in
forma integrale né in forma riassuntiva. Per i dati
personali ivi contenuti il legislatore non ha infatti
previsto alcun regime di pubblicità.
Sotto tale profilo, non è quindi possibile concordare con
quanto affermato nel parere reso dal Difensore civico
regionale dell’Emilia Romagna del 26/04/2017, citato anche
dal soggetto istante, laddove si sostiene in generale che «il
regime di pubblicità dei titoli in materia di edilizia è
connotato da un ambito particolarmente esteso, come è
dimostrato dalla necessaria pubblicazione nell’albo pretorio
del provvedimento di rilascio del permesso di costruire ai
sensi dell’art. 20, co. 6, del d.P.R. 380/2001» e che «fino
alla novella del 2016, rientravano tra gli obblighi di
pubblicazione previsti dal decreto 33/2013 i provvedimenti
finali dei procedimenti relativi ad autorizzazioni e
concessioni, ai quali viene equiparata la segnalazione
certificata di inizio attività (cfr. orientamento ANAC n. 11
del 21.05.2014)».
Ciò in quanto la disposizione contenuta nell’art. 20, comma
6, del d.P.R. n. 380/2001 è una norma di settore attinente
al solo «procedimento per il rilascio del permesso di
costruire», che rappresenta un titolo edilizio diverso
dalla CILA e dalla SCIA. La predetta disposizione, che non è
ripetuta (né richiamata) per i procedimenti relativi agli
altri titoli edilizi (CILA o SCIA), inoltre, non prevede
neanche la pubblicazione del provvedimento sull’albo
pretorio nella sua integrità, ma della mera «notizia»
dell’«avvenuto rilascio del permesso di costruire» (i
cui estremi sono peraltro «indicati nel cartello esposto
presso il cantiere, secondo le modalità stabilite dal
regolamento edilizio»). Alla CILA e alla SCIA
–disciplinate nel medesimo d.P.R. n. 380/2001 (testo unico
in materia edilizia)– non è di conseguenza in nessun modo
applicabile il limitato regime di pubblicità previsto per la
“notizia” dell’avvenuto rilascio del permesso di
costruire.
Quanto all’abrogato art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 33/2013,
lo stesso non prevedeva l’obbligo di pubblicazione on-line
dei “provvedimenti integrali”, con tutti i dati
personali ivi contenuti, relativi ai titoli edilizi dei
procedimenti di “autorizzazione o concessione”, ma
solo di una «scheda sintetica» degli elementi
previsti dalla disposizione, ossia «il contenuto,
l’oggetto, la eventuale spesa prevista e gli estremi
relativi ai principali documenti contenuti nel fascicolo
relativo al procedimento». Il richiamo al ricordato
articolo, quindi, non è idoneo ad affermare l’esistenza di
un «regime di pubblicità […] connotato da un ambito
particolarmente esteso», come invece rappresentato dal
difensore civico, di tutti i titoli abilitativi in materia
di edilizia.
Alla luce di tali considerazioni, come già precedentemente
evidenziato nel parere n. 360/2017, non è quindi possibile
condividere le conseguenze a cui arriva il Difensore civico
regionale, laddove sostiene che «con riferimento
all’oggetto dell’istanza di accesso in questione [i.e.
accesso civico a dati personali contenuti nelle SCIA e nelle
CILA], non si profila la sussistenza di un pregiudizio
concreto all’interesse privato alla protezione dei dati
personali» e che «dal particolare regime di
pubblicità di tali atti deriva la impossibilità di
qualificare come “controinteressati” [i] soggetti i cui dati
personali sono contenuti negli atti oggetto dell’istanza di
accesso», per cui sarebbe «facoltà
dell’amministrazione comunale trasmettere al richiedente […]
i documenti relativi alle Segnalazioni Certificate di Inizio
Attività (SCIA) ed alle Comunicazioni di Inizio Attività
Asseverata (CILA)».
La predetta interpretazione è in contrasto con la normativa
in materia di accesso civico e di protezione dei dati
personali, alla luce delle quali l’amministrazione cui è
indirizzata la richiesta di accesso civico è invece “tenuta”
a coinvolgere i soggetti controinteressati, individuati ai
sensi dell’art. 5-bis, comma 2 (art. 5, comma 5, del d.lgs.
n. 33/2013) e a rifiutare l’ostensione dei dati, fra
l’altro, «se il diniego è necessario per evitare un
pregiudizio concreto alla tutela [della] protezione dei dati
personali, in conformità con la disciplina legislativa in
materia» [art. 5-bis, comma 2, lett. a)], intendendo per
“dato personale” «qualsiasi informazione
riguardante una persona fisica identificata o identificabile
(«interessato»)» (art. 4, par. 1, n. 1, del Regolamento
europeo).
4. Sull’effettuazione del bilanciamento fra trasparenza
amministrativa e diritto alla protezione dei dati personali
Analoghe considerazioni possono essere ripetute in relazione
a quanto riportato nel secondo parere, reso dal Difensore
civico regionale dell’Emilia-Romagna, successivamente al
provvedimento di questa Autorità n. 360/2017.
In
particolare, il Difensore civico, alla luce della sentenza
del TAR Marche, n. 923/2014, ha rappresentato che «anche
rispetto a tali titoli edilizi [SCIA e CILA] occorre quindi
riconoscere un margine di conoscibilità anche ai soggetti
non interessati, il quale deve essere bilanciato –in
concreto– con l’effettivo pregiudizio alla protezione dei
dati personali. In tal senso, come si ricava dalla stessa
disciplina europea sulla protezione dei dati (Regolamento
(UE) 2016/679), la tutela del dato personale deve essere
applicata alla luce del principio di proporzionalità nel
bilanciamento con altri diritti e valori fondamentali, tra
cui vi rientra quello alla trasparenza amministrativa e
all’accesso ai documenti.
Viceversa, nel parere del Garante
[n. 360/2017], non si trova alcun riferimento a tale
bilanciamento (ovvero alla possibilità di risoluzione del
conflitto attraverso l’oscuramento dei dati personali), né tanto meno si indaga sulla natura dei dati contenuti nella
SCIA (dati comuni, sensibili, ecc.). In conclusione, il
pregiudizio concreto alla tutela della protezione dei dati
personali, posto fra i motivi alla base del diniego, non
viene concretamente specificato né dal Comune né dal
Garante, non sussistendo, nelle relative motivazioni, alcun
riferimento alle concrete conseguenze negative e pregiudizi
concreti che potrebbero derivare all’interessato dalla
conoscibilità del dato da parte di chiunque».
Le sopra menzionate osservazioni sono riprese anche dal
soggetto istante nella richiesta di riesame, laddove si
sostiene, a sostegno del diritto a ottenere l’accesso civico
generalizzato ai dati personali, che «occorr[e] riconoscere
ai titoli edilizi un margine di conoscibilità anche ai
soggetti non interessati, alla luce del principio della
proporzionalità nel bilanciamento con altri diritti e valori
fondamentali, tra cui rientra quello alla trasparenza
amministrativa e all’accesso ai documenti realizzando quel
controllo “diffuso” sull’attività edilizia che il
legislatore ha inteso garantire» e che «Nella risposta del
Comune di San Cesario sul Panaro si trova invece un
sbilanciamento a favore del richiedente: oscurando i dati
(nomi, cognomi e il numero civico dell’indirizzo) rendono di
fatto l’Accesso Civico Generalizzato senza alcun valore di
legge, come si può evincere nell’allegato dove si può
constatare che difficilmente è rintracciabile il cantiere
dell’intervento edile».
Al riguardo, occorre in primo luogo evidenziare la non
pertinenza del richiamo alla sentenza del TAR, Marche-Ancona
n. 923/2014, effettuata dal Difensore civico a sostegno
delle proprie argomentazioni, in quanto quest’ultima aveva a
oggetto una richiesta di accesso al “permesso di costruire”
(che comunque è un titolo edilizio diverso rispetto alla CILA e alla SCIA) presentata ai sensi della diversa legge n.
241 del 07/08/1990 sull’accesso ai documenti amministrativi –e non tramite l’istituto dell’accesso civico generalizzato
di cui all’art. 5, comma 2, d.lgs. n. 33/2013– da un
soggetto che, nel caso di specie, aveva comunque dimostrato
di possedere l’interesse qualificato (ossia diretto,
concreto e attuale) previsto dalla legge. È in tale
contesto, quindi, che va letto l’inciso, contenuto nella
sentenza, nel quale il giudice sostiene il diritto di
«visionare gli atti del procedimento» relativo al “permesso
di costruire” da parte di chiunque abbia «interesse», che
non può trovare un’applicazione estensiva in altri istituti
(accesso civico) e ad altri titoli edilizi (SCIA e CILA).
In relazione, invece, alla tesi, avanzata sia dal difensore
civico che dal soggetto istante, basata evidentemente su una
errata rappresentazione dei fatti, secondo la quale non
sarebbe stato effettuato il bilanciamento fra gli interessi
sottostanti, poiché «la tutela del dato personale deve
essere applicata alla luce del principio di proporzionalità
nel bilanciamento con altri diritti e valori fondamentali,
tra cui vi rientra quello alla trasparenza amministrativa e
all’accesso ai documenti» e che pertanto «Nella risposta del
Comune di San Cesario sul Panaro si trov[erebbe] invece uno
sbilanciamento a favore del richiedente: oscurando i dati
(nomi, cognomi e il numero civico dell’indirizzo) rend[endo]
di fatto l’Accesso Civico Generalizzato senza alcun valore
di legge», si evidenzia quanto segue.
La normativa statale in materia di trasparenza e accesso
civico è chiara nello stabilire i presupposti (soggettivi e
oggettivi) per l’esercizio del diritto di accesso civico –effettuando il bilanciamento fra gli interessi e valori
fondamentali sopra descritti (trasparenza amministrativa e
diritto alla protezione dei dati personali)– laddove
prevede che «chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai
documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni,
ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione ai
sensi del presente decreto», a meno che ciò non comporti un
pregiudizio concreto alla tutela dell’interesse alla
protezione dei dati personali, in conformità con la
disciplina legislativa in materia (artt. 5, comma 2; 5-bis,
comma 2, lett. a, del d.lgs. n. 33/2013).
Questo significa che, laddove una pubblica amministrazione
riceva una richiesta di accesso civico a dati personali (o a
documenti che ne contengano), e gli stessi non siano oggetto
di pubblicazione obbligatoria, la stessa è tenuta in primo
luogo a verificare se dall’ostensione dei predetti dati
possa derivare un pregiudizio concreto alla protezione dei
dati personali del/i soggetto/i a cui gli stessi si
riferiscono, e in tal caso a rifiutarne l’accesso civico (cfr.
a tal proposito anche il par. 8.1. delle Linee guida dell’ANAC).
Per effettuare la valutazione descritta, l’amministrazione
cui è indirizzata la richiesta di accesso civico è tenuta a
coinvolgere i soggetti controinteressati (art. 5, comma 5,
del d.lgs. n. 33/2013), anche al fine di consentigli di
presentare eventuale motivata opposizione. Tali motivazioni
costituiscono «un indice della sussistenza di un pregiudizio
concreto, la cui valutazione però spetta all’ente e va
condotta anche in caso di silenzio del controinteressato»,
tenendo, altresì, in considerazione i criteri contenuti
nelle richiamate Linee guida dell’ANAC in materia di accesso
civico (in particolare par. 8.1 intitolato «I limiti
derivanti dalla protezione dei dati personali»).
Per tale motivo, nello specifico caso sottoposto
all’attenzione di questa Autorità, non è condivisibile la
tesi per la quale ci sarebbe stato uno «sbilanciamento» a
danno del soggetto istante nel provvedimento di diniego del
Comune, solo perché –oscurando i dati personali (nomi,
cognomi e indirizzo) dei controinteressati– «la tutela del
dato personale» non sarebbe stata «applicata alla luce del
principio di proporzionalità nel bilanciamento con altri
diritti e valori fondamentali, tra cui vi rientra quello
alla trasparenza amministrativa e all’accesso ai documenti».
Come già evidenziato in altre sedi, non è possibile
accordare una generale prevalenza della trasparenza o del
diritto di accesso civico “generalizzato” a scapito di altri
diritti ugualmente riconosciuti dall’ordinamento (quali
quello alla riservatezza e alla protezione dei dati
personali), in quanto, procedendo in tal modo, si
vanificherebbe proprio il necessario bilanciamento degli
interessi in gioco che richiede un approccio equilibrato
nella ponderazione dei diversi diritti coinvolti, tale da
evitare che i diritti fondamentali di eventuali controinteressati possano essere invece gravemente
pregiudicati dalla messa a disposizione a terzi –non
adeguatamente ponderata– di dati, informazioni e documenti
che li riguardano (cfr. provv. n. 521/2016, cit.).
In caso
contrario, vi sarebbe infatti il rischio di generare
comportamenti irragionevoli in contrasto, per quanto attiene
alla tutela della riservatezza e del diritto alla protezione
dei dati personali, con la disciplina internazionale ed
europea in materia (art. 8 della Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell´uomo e delle libertà
fondamentali; artt. 7 e 8 della Carta dei diritti
fondamentali dell´Unione europea, Dir. 95/46/CE, Reg. (UE)
27/4/2016 n. 2016/679).
5. Sulla valutazione nel caso di specie circa l’esistenza
di un pregiudizio concreto alla tutela della protezione dei
dati personali
Quanto alla valutazione, nel caso in esame, circa
l’esistenza di un pregiudizio concreto alla tutela della
protezione dei dati personali dei soggetti controinteressati,
derivante dal riconoscimento di un accesso civico
generalizzato ai propri dati e informazioni contenuti nelle
SCIA e nelle CILA, si ricorda ancora una volta che deve
essere tenuta in considerazione la circostanza per la quale
–a differenza dei documenti a cui si è avuto accesso ai
sensi della l. n. 241 del 07/08/1990– i dati e i documenti
che si ricevono a seguito di una istanza di accesso civico
divengono «pubblici e chiunque ha diritto di conoscerli, di
fruirne gratuitamente, e di utilizzarli e riutilizzarli ai
sensi dell’articolo 7», sebbene il loro ulteriore
trattamento vada in ogni caso effettuato nel rispetto dei
limiti derivanti dalla normativa in materia di protezione
dei dati personali (art. 3, comma 1, del d.lgs. n.
33/2013).
Di conseguenza, è anche alla luce di tale amplificato regime
di pubblicità dell’accesso civico che va valutata
l’esistenza di un possibile pregiudizio concreto alla
protezione dei dati personali dei soggetti controinteressati
(che peraltro non risultano essere stati coinvolti nel
presente procedimento di accesso civico impedendogli di
presentare un’eventuale opposizione), in base al quale
decidere se rifiutare o meno l’accesso civico alle
informazioni e ai documenti richiesti.
La valutazione dell’ostensione di dati personali nell’ambito
del procedimento di accesso civico, deve inoltre essere
effettata anche nel rispetto dei principi indicati dall’art.
5 del Regolamento europeo, fra cui quello di «minimizzazione
dei dati», secondo il quale i dati personali devono essere
adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario rispetto
alle finalità per le quali sono trattati (art. 5, par. 1,
lett. c), in modo che non si realizzi un’interferenza
ingiustificata e sproporzionata nei diritti e libertà delle
persone cui si riferiscono tali dati (cfr. anche art. 8
della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali; art. 8 della Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea e della
giurisprudenza europea in materia).
In tale contesto, pertanto si ritiene che, ai sensi della
normativa vigente e delle indicazioni contenute nelle Linee
guida dell’ANAC, conformemente ai precedenti orientamenti di
questa Autorità, il Comune, abbia correttamente respinto
l’istanza di accesso civico ai dati personali richiesti. Ciò
in quanto, la relativa ostensione, unita al particolare
regime di pubblicità prima richiamato dei dati oggetto di
accesso civico, può effettivamente arrecare ai soggetti
controinteressati, a seconda delle ipotesi e del contesto in
cui le informazioni fornite possono essere utilizzate da
terzi, proprio quel pregiudizio concreto alla tutela della
protezione dei dati personali previsto dall’art. 5-bis,
comma 2, lett. a), del d.lgs. n. 33/2013.
Va, infatti, evidenziato che la generale conoscenza dei dati
e delle informazioni personali contenute nelle SCIA e nelle
CILA, considerando la quantità e qualità dei dati personali
coinvolti (cfr. supra par. 2), può determinare
un’interferenza ingiustificata e sproporzionata nei diritti
e libertà dei soggetti controinteressati –in violazione del
ricordato principio di minimizzazione dei dati (art. 5, par.
1, lett. c, del Regolamento europeo)– con possibili
ripercussioni negative sul piano relazionale, professionale,
personale e sociale.
Ciò anche tenendo conto delle
ragionevoli aspettative di confidenzialità dei soggetti
controinteressati in relazione al trattamento dei propri
dati personali al momento in cui questi sono stati raccolti
dall’amministrazione, nonché della non prevedibilità, al
momento della raccolta dei dati, delle conseguenze derivanti
dalla eventuale conoscibilità da parte di chiunque dei dati
richiesti tramite l’accesso civico (cfr. par. 8.1 delle
Linee guida dell’ANAC in materia di accesso civico, cit.).
Questo anche considerando la circostanza, non dirimente ma
comunque sintomatica (e non oggetto di contestazione), che
nel caso esaminato, il richiedente l’accesso è comunque una
impresa privata, la XX, che, dall’istruttoria effettuata dal
Comune e dai precedenti esaminati dal Garante, risulta avere
effettuato con carattere sistematico analoghe richieste di
accesso civico a diversi enti locali e ha tra le sue
attività «prevalente» e «secondaria», rispettivamente, la
«Gestione database, attività delle banche dati» e lo «Studio
e realizzazione di spazi pubblicitari (banner) da
pubblicizzare sui propri siti web, per informare, motivare e
servire il mercato. Attività di conduzione di campagne di
marketing, social media e web marketing. Servizi di gestione
dei programmi di fidelizzazione e affiliazione commerciale».
L’insieme delle considerazioni sopra esposte è, pertanto,
idonea a configurare, l’esposizione dei soggetti
controinteressati a un pregiudizio concreto, ed estremamente
probabile, alla tutela della protezione dei propri dati
personali, in conformità con la disciplina vigente (cfr.
provv. n. 360/2017, cit.). Ciò anche considerando la
sistematicità delle richieste di accesso civico effettuate
da parte del soggetto istante alle SCIA e alle CILA di
diversi enti locali e il pericolo di duplicazione di banche
dati di soggetti pubblici da parte di soggetti privati in
assenza del consenso dei soggetti interessati o degli altri
presupposti di liceità del trattamento previsti dall’art. 6,
par. 1, del Regolamento europeo; con il possibile rischio di
“usi impropri” e/o di “riutilizzo” e trattamento ulteriore
dei dati personali per finalità non compatibili con quelle
per le quali i dati personali sono stati inizialmente
raccolti, in contrasto con quanto previsto dall’art. 6,
comma 4, del Regolamento europeo.
Come già osservato in passato, inoltre, si ribadisce che le
informazioni di dettaglio contenute nelle SCIA e nelle CILA
impediscono di poter accordare anche un eventuale accesso
civico ai sensi dell’art. 5-bis, comma 4, del d.lgs. n.
33/2013; oscurando, ad esempio, i dati identificativi (nome
e cognome) del committente o del tecnico progettista. Tale
accorgimento, infatti, non elimina la possibilità che i
soggetti interessati siano identificati indirettamente
tramite gli ulteriori dati di contesto contenuti nella
documentazione richiesta (cfr. quanto riportato nel par. 4
del parere n. 360/2017).
A tale riguardo, occorre infatti
ricordare che –ai sensi del Regolamento europeo– «si
considera identificabile la persona fisica che può essere
identificata, direttamente o indirettamente, con particolare
riferimento a un identificativo come il nome, un numero di
identificazione, dati relativi all’ubicazione, un
identificativo on-line o a uno o più elementi caratteristici
della sua identità fisica, fisiologica, genetica, psichica,
economica, culturale o sociale» (art. 4, par. 1, n. 1).
Appare invece conforme alla normativa in materia di
protezione dei dati personali la soluzione adottata dal
Comune di San Cesario sul Panaro, che –allo scopo di
soddisfare comunque le esigenze informative alla base
dell’accesso civico e di «favorire forme diffuse di
controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e
sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la
partecipazione al dibattito pubblico» (art. 5, comma 2, del
d. lgs. n. 33/2013)– ha fornito i dati relativi alle SCIA e CILA, senza comunicare “dati personali”, e precisamente: la
tipologia di titolo edilizio (SCIA o CILA), una descrizione
dell’intervento (es.: manutenzione straordinaria,
installazione insegna; intervento miglioramento sismico,
nuovo accesso carraio, variante in corso d’opera per
ristrutturazione edilizia; opere interne; variante in corso
d’opera, ecc.), le informazioni relative all’effettuazione
dell’intervento nel comune o in una sua frazione.
6. Sulla possibilità per coloro che dimostrino un
interesse qualificato di ottenere informazioni e dati
personali più dettagliati ai sensi della legge n. 241/1990
Fermo restando quanto evidenziato nei precedenti paragrafi,
resta, in ogni caso, salva la possibilità per il soggetto
istante di accedere eventualmente alla documentazione e ai
dati personali richiesti, laddove, invece, formulando una
diversa domanda di accesso agli atti amministrativi ai sensi
degli artt. 22 ss. della l. n. 241/1990, dimostri di
possedere «un interesse diretto, concreto e attuale,
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento al quale è chiesto l’accesso».
---------------
Al riguardo si legga anche:
●
Garante Privacy: no all’accesso civico generalizzato su
pratiche SCIA e CILA. Non è possibile accedere ai dati
personali completi contenuti nei titoli abilitativi edilizi
sulla base di una mera richiesta di accesso civico
generalizzato (26.02.2019 - link a
www.casaeclima.com). |
IN EVIDENZA |
INCARICHI PROFESSIONALI: Parcella
a rischio se non è dettagliata nelle voci di spesa. L’ente pubblico effettua
spese solo se esiste l’impegno contabile.
Acque ancor agitate per le retribuzioni dei professionisti che ottengano
incarichi da pubbliche amministrazioni: la Corte di Cassazione, Sez. I
civile, con
ordinanza 11.03.2019 n. 6919 afferma che gli enti locali
possono effettuare spese solo se esiste un dettagliato impegno contabile. È
stata quindi respinta la richiesta di un architetto progettista e direttore
lavori che voleva essere retribuito per una struttura espositiva realizzata
nell’interesse di un Comune.
L’amministrazione si è difesa affermando di aver previsto la copertura
finanziaria dell’intera opera, ma di aver esaurito i fondi, avendo
modificato il progetto originario. La Cassazione ritiene che questa
motivazione sia sufficiente a negare il pagamento, perché l’ente avrebbe
dovuto identificare le diverse voci che compongono l’opera (spese generali,
tecniche, per compensi professionali...), e i mezzi per farvi fronte.
Secondo i giudici, qualora manchi la dettagliata previsione di spesa, al
professionista non rimangono che due strade: o rivolgersi (in proprio) al
singolo amministratore, funzionario o dipendente che ha consentito la
fornitura del servizio, oppure non eseguire la prestazione.
L’orientamento della Cassazione si presta a più critiche: innanzitutto
impone al professionista un’indagine approfondita sulla contabilità del
committente; inoltre, è vero che l’articolo 191 del Dlgs 267/2000 impone una
rigida contabilità ai Comuni, ma è anche vero che l’articolo 194 della
stessa norma prevede la possibilità di ottenere un riconoscimento di “debito
fuori bilancio” se si accerti e dimostri che la prestazione
professionale abbia arrecato un’utilità e un arricchimento per l’ente.
Inoltre esistono vari elementi di elasticità per le retribuzioni dei
professionisti, quali ad esempio il contratto condizionato all’ottenimento
del finanziamento: una norma del codice degli appalti ostacola le
prestazioni con pagamento subordinato al finanziamento (articolo 24, comma
8-bis, del Dlgs 50/2016), ma solo per gli appalti comunitari e, sottolinea
il Consiglio di Stato (5138/2018), privi di forma scritta.
Oltretutto, il caso deciso dalla Cassazione 6919/2019 fa eco ad altri
precedenti (22481/2018) che non danno nemmeno rilievo a una riduzione di
alcune voci nel corso dei lavori e all’innalzamento di altre, quali quelle
per competenze professionali: diventa quindi irrilevante che l’ente abbia
reperito le risorse per pagare il professionista con dei risparmi in corso
d’opera (peraltro, probabilmente ottenuti grazie all’impegno proprio del
progettista direttore dei lavori).
In sintesi, l’orientamento della Cassazione è improntato ad assoluta
rigidità a tutela della finanza locale, giungendo addirittura a escludere la
possibilità che il professionista ottenga dal giudice il riconoscimento di
un indebito arricchimento dell’ente locale. Altre volte, invece, proprio
attraverso il riconoscimento dell’utilità conseguita dall’ente locale, si è
ottenuta una delibera di pagamento, seppur per debito fuori bilancio e
quindi con il rischio di giudizi di responsabilità contabile per i pubblici
amministratori
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.03.2019).
---------------
MASSIMA
8. Tanto premesso, le censure -che possono essere esaminate
congiuntamente per la loro connessione- sono complessivamente fondate.
8.1. L'art. 191, comma 1, T.U.E.L. dispone che gli enti locali possono
effettuare spese solo se sussiste l'impegno contabile registrato sul
competente intervento o capitolo del bilancio di previsione e l'attestazione
della copertura finanziaria, comunicati dal responsabile del servizio al
terzo interessato che -ferma l'obbligazione a carico dell'amministratore,
funzionario o dipendente dell'ente che abbia consentito la fornitura del
bene o servizio in violazione della norma (comma 4)- ha facoltà, in mancanza
della comunicazione suddetta, di non eseguire la prestazione.
8.2. Per quanto qui interessa, la norma chiude un risalente percorso
sviluppatosi a partire dagli artt. 284 e 288 del r.d. 03.03.1934, n. 383
(T.U. della legge comunale e provinciale) e scandito dall'art. 23 del di.
02.03.1989, n. 66 (conv., con modif., dalla legge 24.04.1989, n. 144),
inserito nel titolo IV dedicato al risanamento finanziario delle gestioni
locali, e quindi dall'art. 55 della legge 08.06.990, n. 142 (ordinamento
delle autonomie locali), in attuazione del principio costituzionale di buon
andamento dell'amministrazione di cui all'art. 97 Cost.
Dette previsioni -e, in particolare, l'art. 191 T.U.E.L., che ne riassume da
ultimo la portata precettiva-, nell'imporre l'indicazione dell'ammontare
delle spese e dei mezzi per farvi fronte, a pena di nullità delle relative
deliberazioni adottate in violazione di legge (si v. al riguardo Sez. U,
10.06.2005, n. 12195, Sez. U, 28.06.2005, n. 13831 e successive conformi),
tutelano, con tutta evidenza, il preminente interesse pubblico
all'equilibrio economico-finanziario delle amministrazioni locali in un
quadro di certezza della spesa secondo le previsioni di bilancio e di
trasparenza dell'azione amministrativa.
8.3. Tale essendo il quadro normativo di riferimento, sì come presidiato
dall'orientamento rigoroso a più riprese espresso da questa Corte (tra le
molte: Sez. 1, 28.12.2010, n. 26202, sulla radicale nullità della delibera
non munita di copertura finanziaria e del conseguente contratto di
conferimento dell'incarico professionale; Sez. 1, 02.12.2016, n. 24655,
sulla necessaria cogenza del principio di equilibrio di bilancio anche a
fronte della tutela del diritto, di rango costituzionale, all'assistenza
socio-sanitaria; Sez. U, 18.12.2014, n. 26657 e Sez. 1, 20.03.2018, n. 6970,
sulla generale inderogabilità della previa provvista finanziaria), erra la
Corte di appello nel ritenere (p. 7 della sentenza) il diritto del Ca. al
compenso richiesto indebitamente inciso in conseguenza della modifica del
progetto originario (e, deve aggiungersi, dell'adozione della delibera
giuntale n. 39/2007 cit.), come sostenuto dall'appellante Ca. e dallo stesso
ribadito anche nella presente sede di legittimità.
La Corte di appello, infatti, recependo meccanicamente gli assunti
dell'appellante e senza confrontarsi con il detto quadro normativo come
interpretato da questa Corte, ha infondatamente ritenuto che le delibere
comunali anteriori a quella del 2007 avessero rispettato l'art. 191 T.U.E.L.
mercé la mera indicazione dell'impegno di spesa di lire 2.200.000.000 «comprensive
dei costi per la realizzazione dell'opera pubblica e dei compensi spettanti
al professionista» (p. 6), assumendo apoditticamente la sussistenza
della prova del conferimento dellfincarico (e dell'impegno di spesa) senza
tuttavia spiegarne le ragioni e soffermandosi solo sull'aspetto della
determinabilità del compenso alla stregua delle tariffe professionali.
8.4. Ora, secondo il controricorrente Ca., l'importo complessivo degli
onorari per il primo e secondo stralcio dei lavori assicurava ampiamente la
previsione di spesa occorrente per il compenso dovuto al professionista in
seguito complessivamente quantificato dall'ordine degli architetti (cfr. pp.
8-9 del controricorso) e «dalla lettura di tutte le delibere di
conferimento incarico (...), è riscontrabile l'indicazione dell'ammontare
dei compensi dovuti al professionista, contemplati nelle voci "spese
generali" e "somme a disposizione" e l'indicazione dei mezzi per farvi
fronte come risulta dai quadri economici dell'opera in precedenza riprodotti»
(p. 11).
Ma una siffatta modalità di indicazione della spesa, con la quale si
coacervano indistintamente le spese tecniche senza la precisa preventiva
indicazione di quelle per gli onorari professionali, non soddisfa affatto la
prescrizione dell'art. 191, comma 1, T.U.E.L., dovendosi ribadire
l'insegnamento -da ultimo compiutamente espresso da Sez. 1, 24.09.2018, n.
22481 sulla scorta dei principi via via affermati dalla giurisprudenza di
legittimità, cui si è fatto sinteticamente cenno in precedenza- secondo il
quale «La delibera comunale di conferimento di incarico
ad un professionista deve indicare l'ammontare della spesa, mediante
l'identificazione e la distinzione delle diverse voci che la compongono
(spese generali, tecniche, per compensi professionali, ecc.), ed i mezzi per
farvi fronte, ugualmente identificati e distinti analiticamente, cosi da
creare un doppio e congiunto (non alternativo) indice di riferimento che
vincola l'operato dell'ente locale in relazione alle spese stabilite
anticipatamente, in ragione dell'interesse pubblico all'equilibrio economico
e finanziario, e quindi al buon andamento della P.A.»,
che -prosegue la citata decisione in motivazione- «in
caso contrario la previsione normativa risulterebbe aggirata; invero non è
sufficiente che sussistano i mezzi economici, comunque previsti, anche se a
seguito di un risparmio di spesa, perché sia giustificato il loro utilizzo
per spese che non siano state previste e stabilite anticipatamente». |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
RIFIUTI - AMIANTO – D.M. 06.09.1994 – Applicazione – Strutture suscettibili
di utilizzazione collettiva – Utilizzazione in atto – Non è richiesta.
Circa la disciplina di cui di cui al d.m. 06.09.1994
(Normative e metodologie tecniche di applicazione dell’art. 6, comma 3, e
dell’art. 12, comma 2, della legge 27.03.1992 n. 257, relativa alla
cessazione dell’impiego dell’amianto) l'art. 1a) recita testualmente che
<<la potenziale pericolosità dei materiali di amianto dipende
dall’eventualità che siano rilasciate fibre aerodisperse nell’ambiente che
possono venire inalate dagli occupanti. Il criterio più importante è la
friabilità dei materiali>>.
Sicché, risulta infondata la censura in ordine alla dedotta violazione della
normativa in tema cessazione dell’impiego dell’amianto in conseguenza del
fatto che <<i capannoni coperti dalle lastre in eternit oggetto
dell’ordinanza impugnata sono ubicati in una tenuta agricola di notevole
estensione (14 ettari), interamente recintata, inaccessibile da terze
persone, in una zona disabitata ed i fabbricati sono chiusi con cancelli e
lucchetti di sicurezza>>.
Ciò che infatti rileva ai fini dell’applicazione della su indicata normativa
è che si tratti comunque di strutture suscettibili di <<utilizzazione
collettiva in cui sono in opera manufatti e/o materiali contenenti amianto
dai quali può derivare una esposizione a fibre aerodisperse>>.
---------------
... per l’annullamento dell’ordinanza n. 1 del 30.11.2016 del Comune di
Castel Giorgio (Area Tecnica), irritualmente notificata in allegato alla
raccomandata n. 15230114710-2 il 17.04.2018, con cui si è disposto la messa
in sicurezza di coperture in cemento amianto (eternit) in località ... n. 13
in Contrada ... 13, nel Comune di Castel Giorgio (TR).
...
1. Con il ricorso in epigrafe si chiede l’annullamento del provvedimento con
il quale il Comune di Castel Giorgio ha disposto la messa in sicurezza di
coperture in cemento amianto (eternit) di alcuni manufatti di proprietà
della sig.ra Si.Le., odierna ricorrente.
2. L’impugnativa è stata affidata ai seguenti motivi:
I. Violazione di legge in relazione alla disciplina del combinato
disposto delle norme di cui al D.M. 06.09.1994 in merito alle metodologie
tecniche di applicazione dell’art. 6, comma 3, e dell’art. 12, comma 2,
della legge 27.03.1992 n. 257, per errata interpretazione ed applicazione
normativa.
Riferisce la ricorrente che <<i capannoni coperti dalle lastre in eternit
oggetto dell’ordinanza impugnata sono ubicati in una tenuta agricola di
notevole estensione (14 ettari), interamente recintata, inaccessibile da
terze persone, in una zona disabitata ed i fabbricati sono chiusi con
cancelli e lucchetti di sicurezza. Inoltre, le lastre di eternit non sono in
materiale friabile, bensì compatto ed in quanto tali non possono subire
danneggiamenti se non per opera vandalica dell’uomo o per eventi calamitosi
naturali come accaduto ed al quale evento si è prontamente provveduto,
peraltro senza richiedere indennizzi dalla comunità>>.
Ne conseguirebbe l’insussistenza di alcun rischio alla salute nei confronti
di lavoratori e/o occupanti come richiesto dalla citata disciplina
normativa.
II. Violazione di legge in relazione al richiamato Titolo IX, capo
3° del D.Lgs. 81/2008, per errata interpretazione ed applicazione normativa.
Adduce la ricorrente che <<il campo di applicazione del decreto citato,
infatti, riguarda esclusivamente le imprese ed i lavoratori che provvedono
alla bonifica di siti contenenti amianto e, pertanto, la normativa
esplicitamente richiamata non è antecedente logico, né giuridico
dell’ordinanza contestata>>.
III. Violazione di legge in relazione alla disciplina di cui agli
artt. 7, 8 e 10 della legge 241/1990, nonché alla ratio legis che ne
sta a fondamento, per impedimento alla partecipazione del procedimento
amministrativo e violazione del contraddittorio. Violazione art. 3 della
Costituzione e art. 1 della Legge 241/1990 per sperequazione di trattamento
di situazioni identiche.
Lamenta la ricorrente la violazione delle garanzie procedimentali di cui
agli artt. 7, 8 e 10 della legge 241/1990, non avendo <<mai ricevuto
notizia, comunicazione o notifica di atti prodromici all’emissione del
provvedimento impugnato>>, come pure del sopralluogo eseguito dalla
U.S.L. il 04.05.2016, nonché degli esiti del medesimo.
IV. Violazione di legge in relazione all’art. 10 della legge
265/1999 per irritualità della notificazione del provvedimento
amministrativo.
Sostiene la ricorrente che il provvedimento impugnato <<avrebbe dovuto
essere notificato con l’apposita procedura e non portato a conoscenza della
ricorrente con una semplice raccomandata postale, per giunta allegato ad una
lettera, ingenerando confusione nella medesima>>.
V. Violazione di legge in relazione all’art. 3, comma 1, della
legge 241/1990 per carenza di motivazione conseguente all’inesistenza dei
presupposti per l’adozione del provvedimento.
...
1. È materia del contendere la legittimità del provvedimento con il quale il
Comune di Castel Giorgio ha disposto la messa in sicurezza di coperture in
cemento amianto (eternit) di alcuni manufatti di proprietà dell’odierna
ricorrente.
2. Nel merito il ricorso è infondato e va respinto.
3. Dalle premesse del provvedimento impugnato risulta infatti che l’indice
di degrado delle coperture in eternit dei fabbricati di parte ricorrente <<risulta
pari a 30 e che tale indice prevede la messa in sicurezza mediante
sopracopertura, incapsulamento o rimozione come descritto dalla D.G.R. n.
129 del 01/02/2010 entro il termine di 3 (tre) anni dall’accertamento>>.
4. Non colgono pertanto nel segno le doglianze (terzo e quinto
motivo di ricorso) relative all’asserita violazione delle garanzie
procedimentale ed al paventato difetto di motivazione e/o istruttoria del
provvedimento impugnato, le cui risultanze appaiono invero coerenti con la
disposta valutazione dello stato di conservazione delle coperture di
cemento-amianto, la quale è stata correttamente condotta attraverso
l’ispezione dei manufatti e l’applicazione dell’Indice di Degrado (I.D) di
cui alla deliberazione della Giunta Regionale 01.02.2010, n. 129 (rimasta
inoppugnata), il cui allegato A riporta l’algoritmo che la Regione Umbria ha
deciso di adottare per la valutazione obbligatoria delle coperture esterne
in cemento amianto.
5. E ciò coerentemente alla disciplina di cui di cui al d.m. 06.09.1994
(Normative e metodologie tecniche di applicazione dell’art. 6 comma 3, e
dell’art. 12, comma 2, della legge 27.03.1992 n. 257, relativa alla
cessazione dell’impiego dell’amianto), il cui art. 1a) recita testualmente
che <<la potenziale pericolosità dei materiali di amianto dipende
dall’eventualità che siano rilasciate fibre aerodisperse nell’ambiente che
possono venire inalate dagli occupanti. Il criterio più importante è la
friabilità dei materiali>>.
6. Sempre per l’infondatezza, deve giungersi in ordine alla dedotta
violazione della normativa in tema cessazione dell’impiego dell’amianto (primo
motivo di ricorso) in conseguenza del fatto che <<i capannoni coperti
dalle lastre in eternit oggetto dell’ordinanza impugnata sono ubicati in una
tenuta agricola di notevole estensione (14 ettari), interamente recintata,
inaccessibile da terze persone, in una zona disabitata ed i fabbricati sono
chiusi con cancelli e lucchetti di sicurezza>>.
7. Ciò che infatti rileva ai fini dell’applicazione della su indicata
normativa è che si tratti comunque di strutture suscettibili di <<utilizzazione
collettiva in cui sono in opera manufatti e/o materiali contenenti amianto
dai quali può derivare una esposizione a fibre aerodisperse>> (cfr.,
premesse al d.m. 06.09.1994), indipendentemente dal fatto che esse si
trovino, allo stato, inutilizzate.
8. Parimenti destituita di fondamento, è l’affermazione di parte ricorrente
(secondo motivo), con cui si contesta l’applicazione al caso di
specie della disciplina di cui al titolo IX, capo 3°, del d.lgs. 81/2008,
trattandosi invero di normativa il cui ambito di applicazione concerne <<tutte
le rimanenti attività lavorative che possono comportare, per i lavoratori,
un’esposizione ad amianto, quali manutenzione, rimozione dell’amianto o dei
materiali contenenti amianto, smaltimento e trattamento dei relativi
rifiuti, nonché bonifica delle aree interessate>> ed è quindi
perfettamente attinente al caso di specie, in cui è stata ordinata <<la
messa in sicurezza mediante sopracopertura, incapsulamento o rimozione>>
delle coperture di cemento-amianto dei fabbricati di parte ricorrente, la
quale dovrà essere effettuata dalle apposite ditte specializzate,
coerentemente a detta disciplina normativa.
9. Sempre per l’infondatezza, deve infine concludersi in ordine all’asserita
irritualità della notifica del provvedimento impugnato, trattandosi di
rilievo puramente formale insuscettibile di inficiare nella sostanza la
legittimità delle valutazioni e determinazioni assunte dall’amministrazione
intimata nei confronti dell’odierna ricorrente.
10. In conclusione il ricorso va rigettato siccome infondato
(TAR Umbria,
sentenza 18.02.2019 n. 75 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Il
Comune risarcisce chi acquista un edificio abusivo. CASSAZIONE. L’acquirente
si può rivalere sull’ente locale che ha agito in maniera negligente.
Il Comune può essere citato in giudizio per il risarcimento danni quando
l’acquirente si accorga di aver acquistato un edificio privo del permesso di
costruire e della licenza di abitabilità.
Lo affermano le Sezioni unite civili della Corte di Cassazione, con
ordinanza 19.02.2019 n. 4889.
Si apre così una nuova strada per gli acquirenti, che già possono agire nei
confronti del venditore per difformità edilizie (articolo 1490 del Codice
civile) e difetti statici (articolo 1669 del Codice civile) e che ora
possono rivalersi verso l’ente locale per abusi edilizi non repressi.
Il caso più frequente è quello di immobili acquistati dopo aver
genericamente verificato l’esistenza del permesso di costruire e della
licenza di abitabilità. Dopo l’acquisto, si può avere l’amara sorpresa di
irregolarità edilizie (con ordini di demolizione, sanzioni pecuniarie), per
parziale o totale a abusività dell’immobile: il bene si può rivelare, in
questi casi, inidoneo all’uso e non commerciabile.
Altro caso frequente è quello del Comune che esiga la regolarizzazione di
unità immobiliari a distanza di molti decenni dalla costruzione, applicando
un orientamento del Consiglio di Stato (adunanza plenaria, 9/2017) che
consente di sanzionare abusi di diversi decenni prima. Il principio espresso
dalla Cassazione con la sentenza 4889/2019 consente all’acquirente di
reagire alla sanzione per abusi remoti, chiedendo al Comune il risarcimento
del danno causato dall’incolpevole affidamento su una situazione che il
Comune stesso ha tollerato per inerzia e negligenza.
Il caso specifico esaminato dalla Cassazione riguarda un edificio realizzato
a Latina, con difformità che erano state oggetto di ordinanza di
demolizione. Anche se il ricorso al Tar era stato respinto (sentenza
46/2018), l’acquirente ha chiesto al Comune, dinanzi il Tribunale civile, i
danni per comportamento inerte e negligente nei confronti di precedenti
abusi edilizi: se il Comune fosse stato vigile nel reprimere l’abuso, la
vendita non sarebbe avvenuta.
Anche in diversi altri casi l’ente locale è stato ritenuto responsabile per
aver causato danni per mera negligenza: così quando ha generato concrete
aspettative sul rilascio di un titolo edilizio, dapprima approvando il
permesso di costruire, ma negandone il rilascio quando i lavori erano ormai
imminenti (Tar Lecce 261/2019); ancora, quando il Comune ha annullato un
titolo edilizio sulla base una lettura errata di propri atti di
pianificazione (Cassazione 1162/2015), o quando ha rilasciato erroneamente
un certificato di destinazione urbanistica (Cassazione 6595/2011).
Questo dovere di vigilanza del Comune integra un sistema di recente innovato
con il codice della crisi d’impresa (Dlgs 14/2019), che impone la forma
della scrittura privata autenticata, con fideiussione del costruttore, per
vizi strutturali degli immobili da costruire: i difetti oggetto di tale
garanzia sono quelli che possono causare una rovina totale o parziale
(crepe, pavimenti irregolari, umidità), cui ora si aggiunge anche la
possibilità di chiedere al Comune il risarcimento danni per negligente
controllo degli abusi edilizi
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.02.2019).
---------------
SENTENZA
FATTI DI CAUSA
An.Ca. ha chiesto la condanna al risarcimento dei danni ex art. 2043 c.c.
del Comune di Cisterna di Latina al quale ha addebitato di aver omesso la
dovuta vigilanza circa il rispetto delle prescrizioni urbanistiche, da parte
della S.r.l. St.Im., nella realizzazione di un fabbricato.
L'attore ha esposto, in particolare, di aver acquistato un
appartamento facente parte di detto fabbricato, facendo affidamento sia
sulla conformità a legge ed alla vigente disciplina urbanistica dei relativi
titoli abilitativi -permesso di costruire e licenza di abitabilità- emessi
dal convenuto, sia sulla conformità del bene ai medesimi titoli, ma di aver
scoperto, in seguito, che l'immobile era affetto da svariate irregolarità
edilizie ed urbanistiche, tanto gravi da renderlo parzialmente abusivo,
inidoneo all'uso ed incommerciabile.
Nel contraddittorio del Comune e della Società St.Im., chiamata in giudizio,
il GI dell'adito Tribunale di Latina, con ordinanza del 03.07.2017, ha
rinviato la causa per la precisazione delle conclusioni, avendo ritenuto la
controversia devoluta in tesi alla giurisdizione esclusiva del Giudice
Amministrativo, in quanto connessa con l'attività provvedimentale della p.A.
An.Ca. ha, quindi, proposto regolamento preventivo di giurisdizione,
chiedendo dichiararsi la giurisdizione del Giudice Ordinario. Il Comune ha
resistito con controricorso, mentre la società costruttrice non ha svolto
difese.
Il Procuratore Generale ha concluso per la declaratoria della giurisdizione
del giudice ordinario. Le parti costituite hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il regolamento preventivo in esame pone la questione dell'individuazione
del giudice dotato di giurisdizione sulla controversia che il privato
introduca, adducendo che la p.A., nell'omettere la dovuta sorveglianza ed i
controlli prescritti dall'art. 27 del d.P.R. n. 380 del 2001 nei confronti
di un terzo costruttore e nell'emettere i provvedimenti abilitativi, lo
abbia indotto a acquistare una parte dell'edificio realizzato, confidando
incolpevolmente sulla relativa regolarità urbanistico-edilizia, rivelatasi
inesistente.
2. La questione, come postula il ricorrente ed afferma il PG nelle sue
conclusioni, va risolta al lume della giurisprudenza di questa Corte
regolatrice (Cass. SU. nn. 6594-6596 del 2011; n. 1162 del 2015; n. 17586
del 2015; n. 12799 del 2017; n. 1654 del 2018; n. 33364 del 2018) a mente
della quale in tema di riparto della giurisdizione,
l'attrazione (ovvero la concentrazione) della tutela risarcitoria dinanzi al
giudice amministrativo può verificarsi soltanto qualora il danno patito dal
soggetto sia conseguenza immediata e diretta della dedotta illegittimità del
provvedimento che egli ha impugnato, non costituendo il risarcimento del
danno ingiusto una materia di giurisdizione esclusiva ma solo uno strumento
di tutela ulteriore e di completamento rispetto a quello demolitorio.
La tesi è coerente coi principi affermati dalla Corte Cost. con le sentenze
n. 292 del 2000 e 281 del 2004 (in riferimento alle disposizioni di cui al
D.Lgs. n. 80 del 1998 art. 35, come sostituito dalla L. 2015 del 2000, oggi
art. 7, c.p.a.) che hanno posto in evidenza come la devoluzione al giudice
amministrativo, oltre che del controllo di legittimità dell'azione
amministrativa, anche (ove configurabile) del risarcimento del danno, sia
funzionale allo scopo di evitare al privato la necessità di instaurare un
successivo e separato giudizio innanzi al giudice ordinario.
3. Ora, se è bensì vero che, come ricorda il Comune in seno alla memoria, la
menzionata giurisprudenza è stata elaborata in riferimento ad ipotesi
connotate dal pregresso annullamento di un provvedimento amministrativo
favorevole ed ampliativo, ciò non esclude che i danneggiati abbiano in quei
casi dedotto la lesione della loro integrità patrimoniale ai sensi dell'art.
2043 c.c., rispetto alla quale l'esercizio del potere amministrativo non
rilevava in sé, ma per l'efficacia causale del danno-evento da affidamento
incolpevole.
Parimenti, ciò che viene in rilievo nella presente controversia non è la
legittimità dei titoli abilitativi relativi alla costruzione della Società
Stella -che il Comune sottolinea, più volte, non esser stati impugnatima la
situazione di diritto soggettivo, rappresentata dalla conservazione
dell'integrità del patrimonio che il ricorrente assume esser stata lesa per
avere acquistato una parte di quella costruzione sull'affidamento riposto
sull'azione del Comune, rivelatasi invece negligente ed inerte, sicché i
provvedimenti menzionati rilevano solo se ed in quanto idonei a fondare tale
affidamento, e la relativa tutela risarcitoria non richiede la previa
instaurazione di un giudizio innanzi al giudice amministrativo che accerti
l'illegittimità di atti e comportamenti tenuti dall'amministrazione.
In altri termini, la questione involta dalla domanda
concerne l'apprezzamento del comportamento tenuto dalla p.A. non come
espressione dell'esercizio di un potere, bensì nella sua oggettività a
determinare il legittimo affidamento del privato, e così a cagionargli un
danno, nella specie rappresentato dal ricorrente in svariate irregolarità
edilizie ed urbanistiche dell'immobile acquistato.
4. Così convenendo, ne consegue che:
a) le argomentazioni svolte dal Comune in riferimento al giudizio
impugnatorio (con esito negativo, come dallo stesso riferito) dell'ordinanza
di demolizione -emessa nei confronti del ricorrente e della Società St.-, di
interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire, sono
già in astratto irrilevanti, e tanto più lo sono in concreto, in quanto
estranei ai fatti dedotti a sostegno della domanda;
b) l'art. 7, co 1, c.p.a. non è richiamato a proposito, non venendo
in rilievo una controversia relativa all'esercizio del potere
amministrativo, né con riferimento ad un provvedimento né con riguardo ad un
atto né in relazione ad un comportamento mediatamente riconducibile
all'esercizio di quel potere;
c) il vantato diritto al risarcimento del danno non concerne, ai
sensi del comma 5 dell'appena citato art. 7, un diritto soggettivo
riconducibile alle controversie attratte nelle materie di giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo, secondo la previsione dell'art. 133
dello stesso codice (anche con riferimento specifico alla materia
dell'edilizia di cui alla lett. f);
d) del tutto fuori tema è il richiamo alla giurisdizione generale
di legittimità di cui al comma 4 dell'art. 7 c.p.a. ed alla disposizione
dell'art. 30 c.p.a. in tema di risarcimento del danno per lesione di interessi
legittimi, trattandosi, appunto, di una pura azione aquiliana, per
violazione del principio dell'affidamento incolpevole;
e) le contestazioni relative alla posizione, di terzietà o meno,
del Ca. rispetto ai titoli abilitativi, al tempo del rilascio dell'agibilità
(che si afferma assentita per silentium in epoca successiva
all'acquisto), ed all'esistenza del danno attengono al giudizio di merito.
5. Va, in conclusione, affermata la giurisdizione del
giudice ordinario innanzi al quale le parti vanno rimesse,
anche, per la statuizione delle spese del presente regolamento. |
IN EVIDENZA |
PUBBLICO
IMPIEGO: Licenziato chi registra colleghi.
Rischia chi detiene (non autorizzato) le conversazioni. La conclusione a cui
si giunge esaminando due pronunce della Corte di Cassazione.
Rischia
il licenziamento il dipendente che registra occultamente conversazioni tra
colleghi.
È questa la conclusione a cui si giunge sulla base delle due
pronunce, di segno opposto, pubblicate dalla Cassazione lo scorso maggio, a
distanza di sei giorni l'una dall'altra. La legittimità delle registrazioni
occulte di conversazioni tra colleghi e la loro utilizzabilità in giudizio
sono da tempo oggetto di opposti orientamenti giurisprudenziali, come emerge
anche dalle due recenti pronunce in commento.
Con la
sentenza
10.05.2018 n. 11322, la Cassazione ha confermato
l'illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato a un lavoratore
per aver consegnato al datore di lavoro, nell'ambito di un procedimento
disciplinare, una chiavetta Usb contenente registrazioni di conversazioni
tra colleghi durante l'orario di lavoro, a loro insaputa, e per averne
effettuate altre, anche video, in assenza della loro autorizzazione.
Poiché
la registrazione costituisce trattamento di dati personali, ai fini della
decisione la Cassazione ha esaminato la contestazione, anzitutto, sulla base
della normativa sulla privacy. Secondo la Suprema corte, le registrazioni
sarebbero state effettuate dal lavoratore al solo fine di tutelare la
propria posizione, messa a rischio da contestazioni disciplinari «non
proprio cristalline» e da un contesto di conflitto con i colleghi: il che
costituirebbe trattamento legittimo, ancorché in assenza del consenso e a
insaputa degli interessati, in quanto funzionale alla tutela di un diritto.
Il lavoratore avrebbe inoltre adottato tutte le cautele per non diffondere
le registrazioni e il trattamento che ne è derivato sarebbe stato pertinente
e non eccedente le finalità difensive che lo hanno giustificato. Oltre a
queste motivazioni, la Cassazione ha richiamato anche il principio
giurisprudenziale secondo cui la registrazione fonografica di un colloquio
da parte di chi vi assiste o partecipa, rientrando tra le riproduzioni
meccaniche di cui all'art. 2712 c.c., ha natura di prova ammissibile, nel
processo sia civile che penale (Cass. civ. n. 27424/2014 e Cass. pen. n.
31342/2011).
La Cassazione ha così confermato l'illegittimità del recesso e,
in accoglimento del ricorso incidentale del lavoratore, ha applicato la
tutela reintegratoria di cui all'art. 18, comma 4, dello Statuto dei
Lavoratori in quanto l'addebito, ancorché materialmente sussistente, è stato
ritenuto privo di illiceità.
Con l'ordinanza
16.05.2018 n. 11999, pronunciata in una fattispecie
simile, la Suprema corte è giunta invece ad una conclusione opposta,
confermando la legittimità del licenziamento per giusta causa intimato a un
lavoratore per aver registrato occultamente una conversazione telefonica tra
il datore di lavoro e un collega, nonché altre conversazioni avvenute
durante una riunione aziendale. Anche in questo caso, le registrazioni -secondo la prospettazione del lavoratore- erano giustificate da finalità di
tutela dei propri diritti, ossia nell'ottica di sporgere querela per le
condotte mobbizzanti subite.
La Cassazione, però, ha ritenuto illegittima la
condotta del lavoratore per due ordini di ragioni: da un lato, ha richiamato
l'opposto orientamento giurisprudenziale secondo cui la registrazione di
conversazioni tra presenti all'insaputa dei conversanti configura una grave
violazione del diritto alla riservatezza, tale da legittimare il
licenziamento (Cass. civ. n. 16629/2016); dall'altro lato, ha ritenuto carenti
di prova -e dunque assenti- le condotte mobbizzanti addotte dal lavoratore
per giustificare la finalità difensiva delle registrazioni.
Com'è evidente, la linea di confine tra registrazioni occulte legittime o
illegittime è molto sottile. La valutazione dipende da diversi fattori e
deve pertanto essere condotta caso per caso: certo, il lavoratore dovrà
curarsi, soprattutto, di fornire idonee prove della finalità difensiva alla
base delle registrazioni e di farne ponderato utilizzo, vista la posta in
gioco (articolo ItaliaOggi Sette del 19.11.2018). |
NOVITA' NEL
SITO |
Inserito nel sito il seguente
nuovo DOSSIER:
●
L.R. 31/2014 (Disposizioni per la riduzione del
consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo
degradato). |
dite la
vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO |
EDILIZIA PRIVATA: M.
Bottone,
Il piano casa Campania autorizza il mutamento di
destinazione d'uso a prescindere? (03.03.2019). |
UTILITA' |
ENTI
LOCALI - PATRIMONIO: Informazione
e prevenzione: on-line la mappa dei rischi naturali dei
Comuni italiani.
Per ogni Comune italiano, Provincia e Regione è possibile
visualizzare diversi indici sulla pericolosità (sismica,
idrogeologica, da frane, vulcanica) e anche quelli relativi
a esposizione e vulnerabilità (demografia, struttura e stato
degli edifici e delle abitazioni)
(26.02.2019 - link a www.casaeclima.com).
---------------
Sito web:
http://www4.istat.it/it/mappa-rischi |
SICUREZZA LAVORO: D.lgs.
09.04.2008, n. 81 - Testo coordinato con il D.Lgs.
03.08.2009, n. 106 - TESTO UNICO SULLA SALUTE E SICUREZZA
SUL LAVORO (febbraio 2019 - tratto da
www.ispettorato.gov.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: LE AGEVOLAZIONI FISCALI
(Agenzia delle Entrate, febbraio 2019). |
EDILIZIA PRIVATA:
LE AGEVOLAZIONI FISCALI PER IL RISPARMIO ENERGETICO
(Agenzia delle Entrate, febbraio 2019). |
VARI:
BONUS MOBILI ED ELETTRODOMESTICI (Agenzia delle
Entrate, febbraio 2019). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Linee
guida sull’Accettazione degli atti di aggiornamento del
Catasto Edilizio Urbano (Do.C.Fa.) - Versione 1.0
(Agenzia delle Entrate, Direzione Regionale della Lombardia,
Ufficio Attività immobiliari e Consulta Regionale dei
Collegi dei Geometri e Geometri Laureati della Lombardia,
16.01.2019). |
SICUREZZA LAVORO: D.lgs.
09.04.2008, n. 81 - Testo coordinato con il D.Lgs.
03.08.2009, n. 106 - TESTO UNICO SULLA SALUTE E SICUREZZA
SUL LAVORO (gennaio 2019 - tratto da www.ispettorato.gov.it). |
APPALTI: IL
CASELLARIO INFORMATICO - Regolamento per la gestione del
Casellario Informatico dei contratti pubblici di lavori,
servizi e forniture, ai sensi dell’art. 213, comma 10,
d.lgs. 18.04.2016, n. 5 - VADEMECUM (ANCE,
novembre 2018). |
SINDACATI & ARAN |
PUBBLICO IMPIEGO: Sentenza
Corte Costituzionale per trattenuta del 2,5% sulla
retribuzione del personale in regime di TFR (C.S.A.
di Milano, 03.12.2018).
---------------
Premesso che il personale assunto nella
P.A. entro il 31.12.2000 usufruisce del trattamento di fine
servizio (TFS) contribuendo con una trattenuta del 2,5%
sull’80% della retribuzione lorda, mentre per il personale
assunto nella P.A. dall’01.01.2001 o per coloro che sono
stati assunti in precedenza ed hanno optato per il regime
del TFR non è stata prevista alcuna rivalsa, con la
conseguenza che la retribuzione netta per i dipendenti in
regime di TFR risultava superiore agli altri dipendenti in
regime di TFS.
In questo modo, si rischiava seriamente di contrastare col
principio di parità di trattamento previsto per i dipendenti
del pubblico impiego, che impone di remunerare in modo
uguale i lavoratori che svolgono uguali mansioni.
Quindi, per ristabilire un regime paritario, il D.C.P.M. del
20.12.1999, ha introdotto un meccanismo di riduzione della
retribuzione lorda dei dipendenti pubblici in regime di TFR,
in misura pari al contributo previdenziale abolito.
Con
sentenza 22.11.2018 n. 213 la Corte
Costituzionale ha consolidato la giurisprudenza vigente in
materia mettendo definitivamente una pietra tombale sulla
questione. (...continua). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto:
art. 12 CCNL 21.05.2018 Funzioni Locali
(ARAN, nota 21.11.2018 n. 17688 di
prot.). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
B.U.R.
Lombardia, serie avvisi e concorsi n. 11 del 13.03.2019, "Direzione
generale Territorio e protezione civile - Avviso di
approvazione dell’integrazione del piano territoriale
regionale ai sensi della l.r. 31/2014" (comunicato
regionale 20.02.2019 n. 23).
---------------
Al riguardano, si leggano anche:
●
Consumo di suolo: integrazione del PTR ai sensi della l.r.
n. 31 del 2014 (20.02.2019 - link a
www.regione.lombardia.it).
●
La Legge regionale per la riduzione del consumo di suolo e
per la riqualificazione del suolo degradato (20.02.2019
- link a www.regione.lombardia.it).
---------------
ELABORATI DI PIANO:
(documentazione a seguire elencata nella
deliberazione C.R. 19.12.2018 n. 411 e tratta dal
sito www.regione.lombardia.it
cliccando qui)
Relazioni
−
Progetto di Piano
−
Criteri per l’attuazione della politica di riduzione del consumo
di suolo
−
Analisi socio-economiche e territoriali
Tavole
Tavola degli Ambiti territoriali omogenei
01. Ambiti territoriali
omogenei Tavole di analisi regionali
Elementi identitari del sistema paesistico-ambientale
02.A1 Morfologia ed
elementi costitutivi della struttura fisica
02.A2 Elementi di valore emergenti
02.A3 Elementi identitari del sistema rurale
02.A4 Elementi originari della struttura
territoriale
Elementi identitari del sistema insediativo e infrastrutturale
02.A5 Evoluzione dei
processi insediativi
02.A6 Densità e caratteri insediativi
02.A7 Sistema infrastrutturale esistente e di
progetto
02.A8 Polarità PTCP e sistema di relazioni
Caratteristiche qualitative dei suoli
03.B Qualità dei suoli
agricoli
Suolo urbanizzato e consumo di suolo
04.C1 Superficie
urbanizzata e superficie urbanizzabile
04.C2 Caratterizzazione degli Ambiti di
trasformazione
04.C3 Incidenza della rigenerazione sul suolo
urbanizzato
Tavole di progetto regionali
Valori del suolo e indirizzi del piano
05.D1 Suolo utile netto
05.D2 Valori paesistico-ambientali
05.D3 Qualità agricola del suolo utile netto
05.D4 Strategie e sistemi della rigenerazione
Tavole di analisi e di progetto della Città Metropolitana e
delle Province
06. Caratteri e criteri
per la riduzione del consumo di suolo e la rigenerazione
Provincia di Bergamo
06. Caratteri e criteri per la riduzione del
consumo di suolo e la rigenerazione Provincia di Brescia
06. Caratteri e criteri per la riduzione del
consumo di suolo e la rigenerazione Provincia di Como
06. Caratteri e criteri per la riduzione del
consumo di suolo e la rigenerazione Provincia di Cremona
06. Caratteri e criteri per la riduzione del
consumo di suolo e la rigenerazione Provincia di Lecco
06. Caratteri e criteri per la riduzione del
consumo di suolo e la rigenerazione Provincia di Lodi
06. Caratteri e criteri per la riduzione del
consumo di suolo e la rigenerazione Provincia di Mantova
06. Caratteri e criteri per la riduzione del
consumo di suolo e la rigenerazione Città Metropolitana di
Milano
06. Caratteri e criteri per la riduzione del
consumo di suolo e la rigenerazione Provincia di Monza e
della Brianza
06. Caratteri e criteri per la riduzione del
consumo di suolo e la rigenerazione Provincia di Pavia
06. Caratteri e criteri per la riduzione del
consumo di suolo e la rigenerazione Provincia di Sondrio
06. Caratteri e criteri per la riduzione del
consumo di suolo e la rigenerazione Provincia di Varese
ELABORATI DI VAS:
(documentazione a seguire tratta dal sito
www.consiglio.regione.lombardia.it
cliccando qui)
−
Rapporto Ambientale (comprensivo dello screening relativo alla
Valutazione di incidenza)
−
Sintesi non tecnica del Rapporto Ambientale
−
Allegato: Strategia regionale di sostenibilità ambientale (SRSA).
Processo di territorializzazione nella integrazione del PTR
ai fini della applicazione della l.r. 31/2014
−
Piano di monitoraggio |
SICUREZZA LAVORO: G.U.
11.03.2019 n. 59 "Adeguamento della normativa
nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) n. 2016/425
del Parlamento europeo e del Consiglio, del 09.03.2016, sui
dispositivi di protezione individuale e che abroga la
direttiva 89/686/CEE del Consiglio" (D.Lgs.
19.02.2019 n. 17). |
ENTI LOCALI - PATRIMONIO:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 10 dell'08.03.2019, "Modifiche
e integrazioni alla legge regionale 30.12.2009, n. 33 (Testo
unico delle leggi regionali in materia di sanità):
abrogazione del Capo III ‘Norme in materia di attività e
servizi necroscopici, funebri e cimiteriali’ del Titolo VI e
introduzione del Titolo VI-bis ‘Norme in materia di medicina
legale, polizia mortuaria, attività funebre" (L.R.
04.03.2019 n. 4). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 9 del 26.02.2019, "Applicabilità
delle disposizioni dell’art. 83 della l.r. 12/2005 (sanzioni
paesaggistiche)" (comunicato
regionale 21.02.2019 n. 24).
---------------
Si leggano, in merito, i riferimenti
normativo-giurisprudenziali ivi menzionati:
●
L.R. 28.12.2018 n. 17, art. 27
●
L.R. 11.03.2005 n. 12, art. 83
● Corte Europea dei Diritti dell'Uomo,
sentenza 17.09.2009 - Ricorso n. 10249/03 - Scoppola c.
Italia
● Convenzione Europea dei diritti dell’uomo (CEDU),
art. 7, par. 1
● Corte Costituzionale,
sentenza 20.07.2016 n. 193
●
L. 24.11.1981 n. 689, art. 1
●
Costituzione della Repubblica Italiana, artt. 9 e 117 |
AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U.
22.02.2019 n. 45, suppl. ord. n. 8, "Approvazione del
modello unico di dichiarazione ambientale per l’anno 2019"
(D.P.C.M.
24.12.2019). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 8 del 21.02.2019, "Mozione
concernente le modifiche al regolamento regionale 7/2017
«Regolamento recante criteri e metodi di rispetto per il
principio dell’invarianza idraulica ed idrologica ai sensi
dell’articolo 58-bis della legge regionale 12/2005»" (deliberazione
C.R. 05.02.2019 n. 434). |
APPALTI: G.U.
14.02.2019 n. 38, suppl. ord. n. 6/L, "Codice della crisi
d’impresa e dell’insolvenza in attuazione della legge
19.10.2017, n. 155" (D.Lgs.
12.01.2019 n. 14).
---------------
Di particolare interesse, si legga:
● Art. 372. Modifiche al codice
dei contratti pubblici di cui al decreto legislativo
18.04.2016, n. 50. |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: G.U.
13.02.2019 n. 37 "Individuazione della procedure di
revisione, integrazione e apposizione della segnaletica
stradale destinata alle attività lavorative che si svolgono
in presenza di traffico veicolare" (Ministero del Lavoro
e delle Politiche Sociali,
decreto 22.01.2019). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI - EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO: G.U.
12.02.2019 n. 36 "Testo
del decreto-legge 14.12.2018, n. 135, coordinato con la
legge di conversione 11.02.2019, n. 12,
recante: «Disposizioni urgenti in materia di sostegno e
semplificazione per le imprese e per la pubblica
amministrazione»".
---------------
Di particolare interesse, si leggano:
● Art. 5. Norme in
materia di semplificazione e accelerazione delle procedure
negli appalti pubblici sotto soglia comunitaria
● Art. 6. Disposizioni in merito alla tracciabilità dei dati
ambientali inerenti rifiuti
● Art. 8-bis. Misure di
semplificazione per l’innovazione
● Art. 11. Adeguamento dei fondi destinati al trattamento economico
accessorio del personale dipendente della pubblica
amministrazione
● Art. 11-bis. Misure di semplificazione in materia contabile in
favore degli enti locali
---------------
Si leggano anche:
●
Decreto Semplificazioni, in Gazzetta la Legge di
conversione. La Legge 11.02.2019, n. 12 è in vigore dal
13.02.2019 (13.02.2019 - link a
www.casaeclima.com).
●
Il decreto Semplificazioni è legge. Cambia l'art. 80 del
Codice Appalti. Introdotta una norma di
semplificazione e accelerazione delle procedure negli
appalti pubblici sotto soglia comunitaria, intervenendo
sull'articolo 80 del Codice in materia di motivi di
esclusione (07.02.2019 - link a www.casaeclima.com). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Approvazione del regolamento regionale “Disciplina e regimi
amministrativi degli scarichi di acque reflue domestiche e
di acque reflue urbane, disciplina dei controlli degli
scarichi e delle modalità di approvazione dei progetti degli
impianti di trattamento delle acque reflue urbane, in
attuazione dell'articolo 52, commi 1, lettere A) , F-bis) e
3, nonché dell'articolo 55, comma 20, della l.r. 12.12.2003,
n. 26” - (richiesta di parere alla Commissione Consiliare) (deliberazione
G.R. 28.01.2019 n. 1167).
---------------
Segui i lavori in Consiglio Regionale
cliccando qui. |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Criteri
di individuazione degli interventi pubblici e di interesse
pubblico o generale di rilevanza sovracomunale per i quali
non trovano applicazione le soglie di riduzione del consumo
di suolo (art. 2, comma 4, L.R. 31/2014) – (Richiesta di
parere alla Commissione Consiliare) (Regione
Lombardia,
deliberazione G.R. 14.01.2019 n. 1141). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Proposta
di criteri di individuazione degli interventi pubblici e di
interesse pubblico o generale di rilevanza sovracomunale per
i quali non trovano applicazione le soglie di riduzione del
consumo di suolo (art. 2, comma 4, L.R. 31/2014) –
(Richiesta di parere alla Commissione Consiliare) (Regione
Lombardia,
deliberazione G.R. 24.10.2016 n. 5741). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Oggetto:
Revisione della disciplina sull’apposizione della
segnaletica stradale (ANCE di Bergamo,
circolare 12.03.2019 n. 73). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Tutela degli acquirenti di immobili da costruire - Modifiche
(ANCE di Bergamo,
circolare 11.03.2019 n. 72). |
LAVORI PUBBLICI: Oggetto:
La Legge 30.12.2018, n. 145 recante “bilancio di previsione
dello Stato per l'anno finanziario 2019 e bilancio
pluriennale per il triennio 2019-2021” e le Linee Guida ANAC
n. 4/2019 di attuazione del D.Lgs. 50/2016 in materia di
affidamenti diretti nel settore dei lavori (Consiglio
Nazionale degli Ingegneri,
circolare 25.02.2019 n. 352). |
SICUREZZA LAVORO:
Oggetto: Pompaggio del calcestruzzo in cantiere –
Procedure non sicure (ANCE di Bergamo,
circolare 22.02.2019 n. 61). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: Decreto Sicurezza – chiarimenti ministeriali
novità per gli impianti gestione rifiuti e piani di
emergenza (ANCE di Bergamo,
circolare 22.02.2019 n. 58). |
APPALTI:
Oggetto: Raddoppio delle maggiorazioni sulle sanzioni:
ulteriori chiarimenti (ANCE di Bergamo,
circolare 22.02.2019 n. 54). |
COMPETENZE PROGETTUALI: COMPETENZE
PROFESSIONALI INGEGNERI ED ARCHITETTI – OPERE E SISTEMAZIONI
IDRAULICHE – SENTENZA CONSIGLIO DI STATO, 21.11.2018 N. 6593
– COMPETENZA ESCLUSIVA DEGLI INGEGNERI PER I CALCOLI
IDRAULICI E SULLA PROGETTAZIONE DI OPERE IDRAULICHE FLUVIALI
– INCOMPETENZA DEGLI ARCHITETTI IN TEMA DI PROGETTAZIONE DI
OPERE IDRAULICHE - CONSIDERAZIONI
(Consiglio Nazionale degli Ingegneri,
circolare 20.02.2019 n. 351). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Nuova comunicazione dei dati relativi agli
interventi edilizi e tecnologici che accedono alle
detrazioni fiscali per le ristrutturazioni edilizie che
comportano risparmio energetico e/o l’utilizzo delle fonti
rinnovabili di energia (ANCE di Bergamo,
circolare 15.02.2019 n. 50). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
versamento degli importi sanzioni amministrative legge
447/1995 inquinamento acustico
(Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del
Mare - Direzione Generale per i rifiuti e l’inquinamento -
Divisione IV, Inquinamento atmosferico, acustico,
elettromagnetico,
nota 14.02.2019 n. 2824). |
APPALTI:
Oggetto: Aggiornamenti in tema di appalti pubblici
(ANCE di Bergamo,
circolare 12.02.2019 n. 48). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Applicazione imposta di bollo: a domanda l’Agenzia delle
Entrate risponde.
Il tributo
non è dovuto per il rilascio dei duplicati informatici di un
documento amministrativo informatico redatto secondo le
regole del Codice dell’amministrazione digitale.
---------------
Quesito
Il duplicato informatico di un documento amministrativo
informatico redatto secondo le regole previste dal Codice
dell’amministrazione digitale (Cad) va assoggettato
all’imposta di bollo?
Risposta
Dalla lettura della disciplina dell’imposta di bollo dettata
dal Dpr 642/1972 emerge che la nozione di “copia” (o
duplicato) è giuridicamente e autonomamente definita e la
copia conforme rappresenta autonomo presupposto di
imposizione rispetto al documento originale. Pertanto, fatte
salve le ipotesi espressamente previste dalla legge, le
copie conformi devono essere assoggettate all’imposta di
bollo (16 euro). In altri termini, il presupposto per
l’applicazione dell’imposta di bollo si realizza quando
sulle copie è presente la dichiarazione di conformità
all’originale redatta da chi rilascia la copia.
Per quanto concerne il documento informatico, il Cad prevede
espressamente che i relativi duplicati hanno lo stesso
valore giuridico, a ogni effetto di legge, del documento
informatico da cui sono tratti (articolo
1, comma 1,
lettera i-quinquies,
e
articolo 23-bis,
Dlgs 82/2005). Inoltre, anche dal punto di vista tecnico, il
duplicato informatico è identico e indistinguibile
dall’originale.
Da quanto detto, risulta che il presupposto dell’imposta di
bollo si realizza solo per le copie informatiche di
documenti informatici munite di dichiarazione di conformità
all’originale.
Per i duplicati informatici di documenti amministrativi
informatici non è, invece, prevista alcuna dichiarazione di
conformità all’originale, e, dunque, il rilascio di questi
documenti non realizza il presupposto dell’imposta di bollo.
In conclusione, quindi, per il rilascio dei duplicati
informatici di un documento amministrativo informatico non
deve essere applicata l’imposta di bollo
[Agenzia delle Entrate,
risposta
12.02.2019 n. 45 (OGGETTO: Imposta di bollo
sul duplicato informatico di un documento amministrativo
informatico prodotto in conformità alle disposizioni del
Codice dell’Amministrazione Digitale. Interpello Art. 11,
legge 27.07.2000, n. 212) - commento tratto da e link a
www.fiscooggi.it].
|
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto:
Reddito di lavoro dipendente - Competenze erogate per
collaudo tecnico-amministrativo a dirigenti ministeriali -
art. 24 d.lgs. n. 165 del 2001 e art. 51, co. 1, del TUIR -
Interpello articolo 11, comma 1, lettera a), legge
27.07.2000, n. 212 (Agenzia delle Entrate,
risposta 12.02.2019 n. 37).
---------------
Il Ministero istante conferisce o designa il proprio
personale, anche dirigenziale, per lo svolgimento di
incarichi aggiuntivi, in particolare per collaudo tecnico
amministrativo, presso enti vari.
Tutti gli enti, nel caso in cui il personale incaricato o
designato rivesta la qualifica dirigenziale, provvede, come
previsto dall’art. 24 del decreto legislativo n. 165 del
2001, a versare in appositi capitoli in conto entrata dello
Stato, l’importo del compenso per l’incarico svolto dal
dirigente, al lordo fiscale e previdenziale.
L’Amministrazione istante procede poi ad erogare al
dirigente che ha svolto il relativo incarico il 50 per cento
dell’importo affluito al capitolo di entrata, mentre il
restante 50 per cento incrementa il fondo per la
retribuzione di posizione e di risultato che viene,
successivamente, erogato agli altri dirigenti, compreso
quello che ha svolto l’incarico, quale incremento della
retribuzione di risultato. (... continua). |
APPALTI:
Oggetto: legge 09.08.2018 n. 96 di conversione del D.L.
12.07.2018, n. 87, recante “Disposizioni urgenti per la
dignità dei lavoratori e delle imprese” – art. 38-bis D.Lgs.
n. 81 del 2015 – somministrazione fraudolenta – indicazioni
operative (Ispettorato Nazionale del Lavoro,
circolare 11.02.2019 n. 3/2019). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Indicazioni sul Responsabile Tecnico per le
imprese iscritte all’Albo (ANCE di Bergamo,
circolare 08.02.2019 n. 47). |
VARI:
Oggetto: Variazione del tasso di interesse legale per
l’anno 2019 (ANCE di Bergamo,
circolare 08.02.2019 n. 45). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: AMIANTO: relazione annuale tramite applicativo
Ge.M.A. entro il 28 febbraio (ANCE di Bergamo,
circolare 08.02.2019 n. 40). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: Nuova disciplina regionale in materia di
emissioni in atmosfera (ANCE di Bergamo,
circolare 25.01.2019 n. 24). |
APPALTI:
Oggetto: art. 1, comma 445 lett. d) e f), L. n. 145/2018
– maggiorazioni sanzioni (Ispettorato Nazionale del
Lavoro,
circolare 14.01.2019 n. 2/2019).
---------------
Si legga anche: Oggetto: art. 1, comma 445, lett. e), L.
n. 145/2018 – maggiorazioni sanzioni. Nota integrativa alla
circolare n. 2/2019 (nota
05.02.2019 n. 1148 di prot.). |
APPALTI:
Oggetto: Costituzione in
mora – Infrazione n. 2018/2273 (Commissione Europea,
nota 24.01.2019 - 2018/2273 - C(2019) 452 final). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: Compendio di normativa ambientale. Edizione num.
9 – anno 2019 (ANCE di Bergamo,
circolare 11.01.2019 n. 5). |
URBANISTICA: Approvazione
dell’Integrazione del PTR
e proroga del Documento di Piano del PGT (Regione
Lombardia, Infocomuni gennaio 2019 n. 1). |
APPALTI:
Oggetto: nota operativa su nomina commissari di gara ex artt.
77 e 78 d.lgs. n. 50/2016 e ss.mm.ii. (ANCI,
14.12.2018). |
ENTI
LOCALI - LAVORI PUBBLICI - PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI: Legge
di Bilancio 2019 - Prima nota di lettura sui contenuti (ANCI-IFEL,
dicembre 2018). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Gestione
associata delle funzioni essenziali, l’obbligo per i piccoli
Comuni è incostituzionale. Per i comuni sotto i 5 mila
abitanti è incostituzionale l'obbligo assoluto di gestire
congiuntamente, mediante unione o convenzione, le funzioni
essenziali
(07.03.2019 - link a www.giurdanella.it). |
EDILIZIA PRIVATA: M.
Bottone,
Il piano casa Campania autorizza il mutamento di
destinazione d'uso a prescindere? (03.03.2019). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: MUD
2019: slitta al 22 giugno la scadenza.
Il D.P.C.M. 24.12.2018 introduce alcune limitate modifiche
alle informazioni da trasmettere che riguardano le
dichiarazioni presentate dai soggetti che svolgono attività
di recupero e trattamento dei rifiuti e i Comuni. Non vi
sono modifiche per quanto riguarda i produttori (26.02.2019 - link a
www.casaeclima.com). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Rifiuti,
istituito il Registro elettronico nazionale per la
tracciabilità.
La Legge Semplificazioni, oltre a sopprimere il Sistri e
l'obbligo di versare i contributi previsti, introduce un
primo tassello del nuovo sistema di tracciabilità istituendo
il Registro elettronico nazionale (26.02.2019 - link a
www.casaeclima.com). |
EDILIZIA PRIVATA: Garante
Privacy: no all’accesso civico generalizzato su pratiche
SCIA e CILA. Non è possibile accedere ai dati personali
completi contenuti nei titoli abilitativi edilizi sulla base
di una mera richiesta di accesso civico generalizzato
(26.02.2019 - link a www.casaeclima.com). |
ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: P.
Collevecchio,
Indicazioni operative sull'attuazione del Regolamento
europeo sulla protezione dei dati nei comuni (GDPR)
(20.02.2019 - tratto da www.legautonomie.it).
---------------
L’ing. Pietro Collevecchio, collaboratore di Leganet e
DPO in diversi Comuni del Lazio e delle Marche, traccia in
questo articolo, in maniera chiara e puntuale, l’intero
processo da seguire per dare piena attuazione al Regolamento
europeo per la protezione dei dati personali (GDPR) in
vigore dal 25.05.2018.
Richiamata in sintesi la complessa e delicata normativa in
materia, l’autore descrive in termini operativi le fasi del
processo e i soggetti cui compete la relativa attuazione.
Conclude con l’esigenza di organizzare adeguate iniziative
di formazione del personale e richiama l’attenzione sulle
sanzioni previste in caso di inadempimento.
Legautonomie presenta con questa pubblicazione una guida
utile per molti Comuni tuttora impegnati nelle operazioni di
adeguamento.
---------------
Sommario: 1. Il GDPR - 2. Finalità: assicurare il
diritto alla protezione dei dati personali - 3. Le figure di
riferimento - 3.1 Il Data Controller o Titolare del
trattamento - 3.2 Il Data Processor o Responsabile del
trattamento - 3.3 Il Data Protection Officer o Responsabile
della protezione dei dati - 4. Il processo di attuazione -
4.1 Individuazione di ruoli e responsabilità - 4.2 Mappatura
dei processi - 4.3 Analisi di sicurezza dei sistemi - 4.4
Registro delle attività di trattamento - 4.5 Privacy policy
- 4.6 Regolamento comunale sulla protezione dei dati
personali - 5. La formazione: esigenza imprescindibile - 6.
Pubblicazione e controlli - 7. Attenti alle sanzioni. |
APPALTI:
A. Nicodemo,
Il contratto di avvalimento tra diritto interno e
comunitario: uno, nessuno e centomila (20.02.2019
- tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Il contratto di avvalimento, troppi
volti allo specchio. Al di là del dibattito giurispudenziale,
il metodo da osservare nell’indagine sulla natura giuridica
dell’istituto. 2. L’origine dell’istituto dell'avvalimento
nel diritto comunitario e il suo recepimento nel nostro
ordinamento: la norma e le relative interpretazioni. 3. Il
contratto di avvalimento tra i contratti tipici e contratti
atipici: osservazioni e proposte interpretative. 3.1.
(segue) Gli ulteriori elementi caratterizzanti il contratto
di avvalimento alla luce della disciplina civilistica. 4. Il
contratto di avvalimento e la differenza tra avvalimento di
garanzia e avvalimento operativo. 5. I contenuti del
contratto di avvalimento alla luce delle disposizioni
civilistiche e del D.Lgs. n. 50 del 2016. 6. Le carenze del
contratto di avvalimento e l’inapplicabilità del soccorso
istruttorio. 7. Conclusioni. |
PUBBLICO IMPIEGO:
F. Goffi,
Diritto di critica del lavoratore e licenziamento
disciplinare (nota di commento a ordinanza 03.12.2018 n.
31155 Corte di Cassazione, Sez. lavoro) (12.02.2019 - link a www.filodiritto.com). |
APPALTI: Differenza
tra proposte migliorative e varianti negli appalti pubblici:
chiarimenti.
Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, le
soluzioni migliorative possono esplicarsi in modo libero
ovvero incidere su tutti gli aspetti tecnici lasciati aperti
a diverse soluzioni sulla base del progetto posto a
fondamento della gara (08.02.2019 - link a
www.casaeclima.com). |
APPALTI:
F. F. Guzzi,
Responsabilità precontrattuale della pubblica
amministrazione: l’Adunanza Plenaria fa un ulteriore passo
in avanti verso la parificazione della PA al contraente
privato anche nella fase della procedura di evidenza
pubblica (06.02.2019 - tratto da
www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Fatto. 2. La responsabilità
precontrattuale della pubblica amministrazione secondo il
Collegio remittente (ordinanza del Consiglio di Stato n. 515
del 24.11.2017). 3. La responsabilità precontrattuale della
pubblica amministrazione alla luce dell’intervento
dell’Adunanza Plenaria n. 5/2018. 4. Osservazioni
conclusive. |
APPALTI: Codice
dei contratti: il testo della lettera di Bruxelles
all'Italia di messa in mora.
Il 24 gennaio la Commissione europea ha inviato lettere di
costituzione in mora a 15 Stati membri, tra cui l'Italia,
esortandoli a conformarsi alle norme Ue su appalti pubblici
e concessioni (06.02.2019 - link a
www.casaeclima.com).
---------------
● Oggetto: Costituzione in
mora – Infrazione n. 2018/2273 (Commissione Europea,
nota 24.01.2019 - 2018/2273 - C(2019) 452 final). |
LAVORI PUBBLICI:
P. Vipiana,
La disciplina del dibattito pubblico nel regolamento
attuativo del Codice degli appalti, tra anticipazioni
regionali e suggestioni francesi (23.01.2019
- tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. La previsione del dibattito pubblico
a livello nazionale da parte del Codice degli appalti. 2. La
previa introduzione del dibattito pubblico a livello
regionale. 3. L’istituto del débat public operante in
Francia. 4. La disciplina del dibattito pubblico dettata dal
regolamento attuativo del Codice degli appalti. 5. I singoli
aspetti della disciplina: a) l’oggetto del dibattito
pubblico e i soggetti interessati ad esso; b) la Commissione
nazionale per il dibattito pubblico; c) le modalità di
svolgimento del dibattito pubblico; d) gli effetti del
dibattito pubblico. 6. Osservazioni conclusive sulla
disciplina del dibattito pubblico contenuta nel regolamento
attuativo del Codice degli appalti. |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
M. Cecchetti,
La riforma dei procedimenti di valutazione d’impatto
ambientale tra d.lgs. n. 104 del 2017 e Corte costituzionale
n. 198 del 2018 (09.01.2019 - tratto da
www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Il contesto, gli obiettivi e
l’approccio regolatorio della riforma. – 2. Le novità dei
contenuti normativi del d.lgs. n. 104 del 2017 alla luce
delle relazioni tra i diversi soggetti coinvolti. – 3. I
rapporti tra Stato e Regioni e la sentenza n. 198/2018 della
Corte costituzionale. – 4. I rapporti tra soggetto
proponente e Amministrazione procedente. – 5. I rapporti tra
Amministrazione procedente e altre Amministrazioni. – 6. I
rapporti tra Amministrazioni e pubblico interessato. – 7. I
rapporti tra livello decisionale politico, strutture
amministrativo-burocratiche e organismi di supporto a
carattere tecnico-scientifico. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L. Bisoffi,
Semplificazione del procedimento amministrativo e tutela
degli interessi sensibili: alla ricerca di un equilibrio
(09.01.2019 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. La delicatezza del rapporto fra
semplificazione e interessi sensibili: la ponderazione fra
interessi costituzionalmente protetti. 2. L’equilibrio nella
disciplina della conferenza di servizi. 3. L’equilibrio
nella disciplina del silenzio assenso dopo la riforma Madia:
spunti per l’analisi e il confronto tra le diverse norme. 4.
In particolare: l’equilibrio tra semplificazione del
procedimento e tutela dell’ambiente. 5. Il principio di
precauzione come criterio interpretativo (segue). 6.
Considerazioni finali. |
ENTI
LOCALI - APPALTI:
F. Dimita,
Il blocco dei programmi di spesa dell’ente locale,
nell’ambito dei controlli di legittimità-regolarità della
Corte dei conti (09.01.2019 - tratto da
www.federalismi.it).
---------------
Sommario: Premessa - 1. La pronuncia che impone il
blocco dei programmi di spesa nell’ambito del controllo di
legittimità-regolarità sui bilanci e sui rendiconti degli
enti locali. - 2. Individuazione dei limiti della
preclusione dell’attuazione dei programmi di spesa, avuto
riguardo alla natura ed alle finalità della spesa oggetto
del “blocco”. - 3. Il bilancio come bene pubblico e la
necessità di preservarne l’equilibrio. |
CONSIGLIERI COMUNALI:
M. Tocci,
NECESSITÀ DELLO SCIOGLIMENTO DEL CONSIGLIO COMUNALE IN CASO
DI IMPOSSIBILITÀ DELLA PRIMA CONVOCAZIONE
(tratto da www.ambientediritto.it - fascicolo n. 1/2019).
---------------
Sommario: 1. Il principio di diritto alla luce dei
fatti sottesi 2. Un interrogativo decisivo: la seconda
convocazione del consiglio comunale è sempre necessaria? 3.
I precedenti 4. Nessuna lesione del diritto alla surroga
degli aspiranti consiglieri comunali 5. In conclusione: una
nuova causa di scioglimento del consiglio comunale? |
APPALTI:
M. Terrei,
GLI ACQUISTI INFRA 40.000 EURO E LE PIATTAFORME ELETTRONICHE
DI NEGOZIAZIONE
(tratto da www.ambientediritto.it - fascicolo n. 1/2019).
---------------
Sommario: 1. Introduzione. - 2. L’uso della Posta
Elettronica Certificata nelle procedure d’appalto. - 3. I
termini nelle procedure d’appalto. - 4. Le informazioni e le
comunicazioni nella Direttiva 24/2014/UE. - 5. Le
informazioni e le comunicazioni nel Codice dei Contratti
D.lgs. 50/2016. - 6. Il Codice dei Contratti e il suo
rapporto con il Codice dell’Amministrazione Digitale. - 7.
La segretezza degli invii nelle procedure di appalto. - 8.
Strumenti telematici di negoziazione. - 9. La segretezza
degli invii e il MePA. - 10. Il comunicato dell’ANAC del
30.10.2018. - 11. Conclusioni. |
ENTI LOCALI: Regolamento
delle prestazioni del personale della Polizia locale a
carico di soggetti privati per lo svolgimento di
manifestazioni ed eventi sul territorio comunale (ANCI,
quaderno n. 17 di gennaio 2019). |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Aggiornamento
2018 al Piano Nazionale Anticorruzione - LE NOVITÀ DI
INTERESSE PER GLI ENTI LOCALI (ANCI,
quaderno n. 16 del dicembre 2018). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
S. Di Pietro,
La tutela della privacy tra esigenze di trasparenza e nuove
regole di riservatezza
(Amministrativamente n. 9-10/2018).
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Sommario: 1. La complessa articolazione della
trasparenza nel contesto normativo italiano. 2. I limiti
della trasparenza a favore del diritto alla tutela dei dati
personali, sensibili e super sensibili. 3. Nuovi
adempimenti: il Regolamento europeo 679/2016. 4. Vecchi e
nuovi equilibri: l’importanza dei principi di
proporzionalità e ragionevolezza. |
APPALTI:
A. M. Colarusso,
L’annullamento dell’aggiudicazione, in sede giurisdizionale
e in autotutela, e la sorte del contratto pubblico
(Amministrativamente n. 9-10/2018). |
APPALTI:
V. Lambertz,
Il risarcimento danni nella pubblica amministrazione per
fatto illecito della concessionaria
(Amministrativamente n. 9-10/2018).
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Sommario: 1. Introduzione; 2. Il fatto; 3.
L’applicabilità dell’articolo 2049 c.c. ed elementi
fondamentali; 3a Il rapporto di preposizione e il rapporto
concessorio; 3b. Il fatto illecito; 3c. La connessione tra
incombenze e danno; 4. Conclusioni. |
APPALTI:
F. Armenante,
In principio è la rotazione
(Amministrativamente n. 9-10/2018).
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Sommario: 1. Premesse; 2. I primi orientamenti
giurisprudenziali alla luce del nuovo codice: ratio e
portata applicativa del principio di rotazione degli
affidamenti e degli inviti; 3. L’estensione della rotazione
alle concessioni e i primi scrutini di costituzionalità; 4.
Gli indirizzi “aggiornati” delle Linee guida dell’ANAC e le
relative faq; 5. Questioni controverse: le procedure aperte
sul mercato elettronico, la legittimazione processuale, la
tutela risarcitoria dell’operatore pretermesso; 6.
Riflessioni conclusive: i limiti dei mercati ristretti e
l’alternativa dell’accordo-quadro. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
M. Asprone e G. Greco,
Lo ius poenitendi e il rapporto con la tutela
dell’affidamento
(Amministrativamente n. 7-8/2018). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
F. Lorè,
Il ruolo del Responsabile della protezione dei dati
personali nella pubblica amministrazione alla luce del
Regolamento generale sulla protezione dei dati personali UE
2016/679
(Amministrativamente n. 7-8/2018).
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Sommario: 1. Dal codice in materia di protezione
dei dati personali al nuovo regolamento europeo. 2. Le
“linee guida sui responsabili della protezione dei dati”. 4.
il ruolo del responsabile per la protezione dei dati
personali all’interno (o all’esterno) di un ente pubblico.
5. le competenze del responsabile per la protezione dei dati
personali. 8. il ruolo del responsabile per la protezione
dei dati personali alla luce delle recenti disposizioni in
materia di trasparenza amministrativa. 9. i compiti del rpd.
10. conclusioni degli accordi stipulati da tali regioni e lo
stato. – 5. osservazioni conclusive. |
ENTI
LOCALI:
F. Pinto,
Tutela dell’affidamento e scelte strategiche nella
dismissione delle partecipazioni nelle società pubbliche
(Amministrativamente n. 5-6/2018).
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Sommario: 1. Le società a partecipazione pubblica,
tra istituti di natura pubblicistica e soggetti privati. –
2. La ratio del Decreto Legislativo n. 175 del 19.08.2016 e
il suo contesto interpretativo – 3. Le condizioni per la
dismissione delle partecipazioni pubbliche nel Decreto
Legislativo n. 175 del 19.08.2016, tra “incidenza
determinante” e obbligo di legge: C. Conti, Puglia, n.
75/2018/PAR del 16.05.2018 – 4. Il procedimento di
liquidazione delle quote in concreto e la tutela
dell’affidamento nella giurisprudenza costituzionale:
C.Cost. n. 116 del 17.04.2018.
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Abstract
Il contributo ha ad oggetto la dismissione delle quote di
partecipazione nelle società pubbliche da parte degli Enti
Locali. L’esatta ricostruzione delle modalità di dismissione
delle quote delle società partecipate appare, allo stato
attuale, estremamente problematica, anche dopo l’entrata in
vigore della riforma che ha organicamente regolato la
presenza delle pubbliche amministrazioni all’interno dei
moduli societari contenuta nel decreto legislativo n. 175
del 19.08.2016, il Testo unico in materia di società a
partecipazione pubblica. Gli artt. 4 e 20 del decreto n. 175
definiscono, novellando le fonti precedenti, alcune
fattispecie di liquidazione ex lege di società pubbliche e
di dismissioni di partecipazione non strategiche sulla base
di una valutazione discrezionale. Tuttavia, molti nodi sono
ancora irrisolti sui presupposti concreti della dismissione,
su alcune tipologie speciali di società comunali, e sulla
posizione e il legittimo affidamento dei soci privati. Una
risposta parziale ad alcuni quesiti viene dalla
giurisprudenza più recente della Corte dei Conti e della
Corte Costituzionale. |
EDILIZIA PRIVATA:
A. Tortora,
La valenza del parere tardivo della soprintendenza ex art.
146, comma 8, del d.lgs. n. 42/2004
(Amministrativamente n. 5-6/2018).
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Sommario: 1. Premessa 2. Brevi cenni sul
procedimento ordinario e su quello semplificato di rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica. 3. Gli effetti del parere
tardivo del Soprintendente nell’interpretazione
giurisprudenziale 4. Considerazioni conclusive.
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Abstract
Negli ultimi anni, nell’ambito delle autorizzazioni
paesaggistiche, un tema molto dibattuto in dottrina e
giurisprudenza è stato quello della validità del parere
vincolante e obbligatorio della Soprintendenza espresso
oltre il termine procedimentale stabilito dall’art. 146,
comma 8, del D.L.vo n. 42/2004. La soluzione a tale
problematica è di dirimente importanza per le conseguenze
che ne derivano in termini di valutazione e comparazione tra
gli interessi pubblici primari di tutela ambientale e del
paesaggio e gli interessi dei soggetti privati che intendono
realizzare un progetto edificatorio in zona vincolata. Dopo
un periodo di forte incertezza, caratterizzato da numerosi e
frequenti contrasti, di recente si è attestata come
prevalente la terza tesi illustrata, secondo cui il parere
reso tardivamente dalla Soprintendenza è liberamente
valutabile dall’Amministrazione procedente e perde, insieme
con la propria efficacia vincolante, valenza di arresto
procedimentale, assumendo connotazione strumentale rispetto
al provvedimento comunale conclusivo del procedimento. |
CONSIGLIERI COMUNALI:
F. Pinto,
Il Presidente del Consiglio comunale tra «neutralità
politica» e corretto funzionamento dell'organo consiliare
(Amministrativamente n. 5-6/2018).
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Sommario: 1. – Il Presidente del Consiglio
comunale nel sistema della forma di governo delle autonomie
locali. – 2. L'istituto della revoca del Presidente, tra
previsioni statutarie e motivazioni istituzionali. – 3.
Revoca del Presidente e interdittive antimafia.
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Abstract
Il contributo ha ad oggetto la figura del Presidente del
Consiglio comunale. L'art. 39 del Testo Unico sugli EE.LL.,
d.lgs. 18.08.2000, n. 267, prevede che i consigli
provinciali e comunali –nei Comuni con popolazione superiore
a 15.000 abitanti– debbano essere presieduti da un
Presidente eletto tra in consiglieri. La figura può essere
poi disciplinata, nei Comuni minori, sulla base
dell’autonomia statutaria. Quella del Presidente del
Consiglio comunale ha costituto una figura di assoluta
novità nel sistema. Nelle motivazioni che hanno portano alla
creazione della nuova figura va, inoltre, annoverata la
necessità di fare del Consiglio un organo (anche) capace di
contrapporsi al sindaco. Le sue funzioni sono finalizzate a
garantire la regolarità delle sedute, la parità tra le parti
e alla massima trasparenza dei comportamenti, il tutto nel
quadro del rigoroso rispetto delle norme che reggono il
funzionamento dei Consiglio. La giurisprudenza e la dottrina
hanno avuto così occasione di precisare nel tempo i
fondamenti e i caratteri della sua revoca da parte del
Consiglio, variamente configurando le ragioni
“istituzionali” (contrapposte a quelle “politiche”) di essa
e la nozione di “perdita di neutralità politica”. Nelle
pronunce più recenti, il tema ha finito per intrecciarsi,
soprattutto al Sud, con quello delle interdittive antimafia
e dei rapporti di parentela del Presidente in contesto
territoriali con forte presenza di criminalità organizzata. |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
A. Tortora,
Il nuovo regolamento europeo per la protezione dei dati (GDPR)
e la figura del Data Protection Officer (DPO): incidenza
sulla attività della pubblica amministrazione
(Amministrativamente n. 5-6/2018).
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Sommario: 1. Introduzione – 2. I principi
introdotti dal Regolamento GDPR – 3. Il Responsabile della
protezione dei dati (RPD) – 4. Incidenza del RGPD sulla
Pubblica Amministrazione – 5. Conclusioni.
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Abstract
In materia di protezione dei dati personali, il nuovo
obiettivo dell’Unione è quello di assicurare un livello
coerente ed elevato di protezione delle persone fisiche e
rimuovere gli ostacoli alla circolazione dei dati personali
all’interno dell’Unione, implementando il livello di
protezione dei diritti e delle libertà delle persone fisiche
con riguardo al trattamento di tali dati in modo equivalente
in tutti gli Stati membri. E dunque, per assicurare un
livello coerente di protezione delle persone fisiche in
tutta l’Unione e prevenire disparità che possono ostacolare
la libera circolazione dei dati personali nel mercato
interno, si è ritenuto necessario (ed opportuno)
disciplinare la materia con lo strumento normativo del
Regolamento, direttamente applicabile su tutto il territorio
europeo, che si propone di introdurre e cristallizzare nuovi
principi generali della materia, utili sempre a sopperire
l’eventuale carenza (oppure non chiarezza) delle
disposizioni adottate a livello nazionale. |
APPALTI:
F. Pinto,
Di chi è la colpa? Riflessioni in materia di appalti
(Amministrativamente n. 5-6/2018).
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Sommario: 1. Un problema (assai) difficile
trattato in modo (troppo) semplice. – 2. Corruzione e
società bambine: ridimensionare un dato e uscire da un
inganno. – 3. Il legislatore nella società complessa: lo
Stato e il mercato. – 4. Le esperienze straniere e la
peculiarità del sistema italiano: una sintesi (quasi)
impossibile. – 5. L’Autorità Nazionale Anti Corruzione: lo
strano caso del soft-law. – 6 Le Centrali di Committenza. –
6.1 La sanità come esempio di efficienza. – 6.2 Le centrali
locali come un’idea non realizzata. – 6.3 La CONSIP come
esempio di inefficienza. – 7. Il grande ammalato:
l’Amministrazione pubblica. – 7.1 Investire
nell’Amministrazione. – 7.2 L’anomala funzione del giudice.
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Abstract
Il contributo ha ad oggetto l’analisi di alcune «cause»
della cattiva gestione degli appalti nel nostro Paese. In
primo luogo, vengono analizzate alcune dinamiche attuali del
rapporto tra Stato e mercato nelle società complesse attuali
e sottoposti a critica alcuni luoghi comuni in tema di
corruzione e attività amministrativa. Un’attenzione
particolare viene rivolta al fenomeno del soft-law
introdotto dall’ANAC in tema di appalti pubblici. Infine, le
dinamiche messe in evidenza come cause di inefficienza
vengono analizzate nell’ambito della disciplina delle
centrali di committenza, in particolare in ambito sanitario. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
M. Asprone,
Le criticità relative all’accesso agli atti nell’impiego
pubblico di natura privata nella giurisprudenza
(Amministrativamente n. 3-4/2018).
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Abstract
Nel 2016 il Supremo Consesso di giustizia amministrativa è
stato chiamato a decidere sull’appello proposto dalla
società Poste Italiane s.p.a. avverso la sentenza dei
giudici di prime cure che, accogliendo il ricorso in primo
grado, avevano annullato la procedura selettiva indetta
dalla suddetta società per un posto di “Capo Squadra” presso
il CMP di Bologna. Tra le doglianze manifestate dal
ricorrente, dipendente di livello “D” in servizio presso la
stessa filiale vi era il diniego dell’ostensione da parte di
Poste Italiane s.p.a. degli atti concernenti detta procedura
selettiva; in particolare il ricorrente aveva
preliminarmente richiesto alla società di esibire gli
elaborati relativi alle prove scritte di selezione, con
riferimento a quelli depositati da lui stesso e dagli altri
candidati, risultati vincitori o idonei, dei documenti
contenenti i criteri valutativi adottati e dei verbali della
commissione esaminatrice. |
URBANISTICA:
F. Pinto,
Di nuovo sul concetto di lottizzazione (abusiva)
(Amministrativamente n. 3-4/2018).
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Sommario:
1. – Cambiare prospettiva. – 2. Le origini. – 3. Lo
strumento esecutivo e la sua necessità. – 4. Le zone
urbanizzate. – 5. L’inesistenza della figura in astratto e
la necessità dell’accertamento in fatto. – 6. La “rilettura”
della giurisprudenza. – 7. La logica sostanzialistica.
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Abstract
Il contributo ha ad oggetto l'istituto della cd.
lottizzazione abusiva, ed in particolare il collegamento tra
l'istituto nel diritto urbanistico e gli strumenti di
pianificazione esecutiva. Nell'evoluzione della disciplina,
la lottizzazione si qualificava come un processo positivo di
raccordo tra il precedente tessuto urbano e il nuovo, che
solo la rete, che avrebbe dovuto crearsi attraverso
l’edificazione di strade e servizi, quali quello fognario ed
elettrico, avrebbero consentito e che, anzi, si presentava
come assolutamente indispensabile per volontà del
legislatore. Di qui l’esigenza di una pianificazione di
secondo livello –rispetto a quella generale e di primo
livello disegnata dal Piano Regolatore– che veniva prevista
dall’art. 13 della legge urbanistica del 1942, volta a
disciplinare il presupposto dell’edificazione, comunemente
riassunta nel termine di piano particolareggiato o, più in
generale, di strumento esecutivo. La considerazione del
livello di pianificazione e realizzazione della rete
infrastrutturale in concreto diventa criterio distintivo per
la qualificazione delle fattispecie della lottizzazione
abusiva. |
APPALTI:
G. Durano,
La prevenzione dei fenomeni corruttivi e la disciplina del
subappalto nel d.lgs. n. 50/2016
(Amministrativamente n. 1-2/2018).
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Sommario: Sommario: 1. Premessa. – 2. Il Nuovo
Codice dei Contratti Pubblici: il d.lgs. n. 50/2016 – 3. Il
codice dei contratti pubblici a la disciplina del
subappalto. – 4. Cenni conclusivi.
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Abstract
Le discipline normative in ottica di anticorruzione
(mediante l’istituzione di strumenti di prevenzione della
corruzione) pervadono molteplici settori delle attività
economiche, che devono essere ispirate ai principi
concorrenziali e di parità di trattamento di derivazione
comunitaria. Così, anche nel Codice dei Contratti pubblici,
recepito nel nostro ordinamento con il D.lgs. n. 50/2016,
hanno trovato ampio spazio strumenti e normative aventi una
funzione anticorruzione, considerato che anche tale
disciplina è stata nel tempo negativamente influenzata dal
diffondersi di fenomeni corruttivi. La presa di coscienza di
una “nuova” multiforme fisionomia del concetto di
corruzione, riconducibile nell’alveo degli aspetti più
patologici e occulti della maladministration, ha imposto al
Legislatore moderno di approntare opportuni strumenti
preventivi, consapevole che gli strumenti giuridici possono
avere una loro utilità se vengono emanate quelle che
Beccaria avrebbe definito leggi non paurose ma “prevenitrici
dei delitti”. |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
L. Ferrara,
La frammentazione della disciplina della rigenerazione
urbana, tra micro interventi di sussidiarietà orizzontale e
grandi progetti nazionali
(Amministrativamente n. 1-2/2018).
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Sommario: 1. Rigenerazione urbana, baratto
amministrativo ed interventi di partenariato sociale nel
nuovo Codice dei contratti pubblici. – 2. La gestione
consortile delle aree verdi urbane e degli immobili di
origine rurale. – 3. La disciplina delle opere di interesse
locale. – 4. I profili fiscali e tributari. - 5. La
rigenerazione urbana dei siti di interesse strategico
nazionale. Il caso del sito di Bagnoli.
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Abstract
Il contributo ha ad oggetto la disamina di alcuni modelli di
«rigenerazione urbana» introdotti negli ultimi anni. Il
nuovo codice dei contratti pubblici ha ricollocato alcuni
istituti di «micro» rigenerazione urbana, tra cui
l'affidamento a cittadini di spazi urbani, edifici e aree
verdi, tra gli interventi di partenariato pubblico privato
previsti nella parte IV. Tuttavia, a fronte degli strumenti
più innovativi, la disciplina delle riqualificazioni e
trasformazioni urbane con gli strumenti tradizionali del
diritto urbanistico viene messa alla prova dalle discipline
peculiari di bonifica e rigenerazione di alcuni grandi siti
di interesse nazionale, come l'area di Bagnoli-Coroglio. |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
A. Amodio,
Il principio di trasparenza e il procedimento
amministrativo: dal diritto di accesso documentale al
diritto di accesso civico
(Amministrativamente n. 1-2/2018).
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Sommario: 1. Il principio di trasparenza
nell’evoluzione normativa. 2. La trasparenza come “need to
know”: il diritto di accesso documentale. 3. La trasparenza
come “right to know”: il diritto di accesso civico. 4.
L’accesso civico “semplice” e l’accesso civico
“generalizzato”: alcune considerazioni nel confronto tra le
due forme di disclosure. 5. Conclusioni: la pubblica
amministrazione da “palazzo” a “casa di cristallo”?
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Abstract
Il principio di trasparenza, con riguardo all’accessibilità
di documenti, dati e informazioni in possesso della pubblica
amministrazione, ha conosciuto nel nostro ordinamento
un’evoluzione del tutto peculiare, passando dal “need to
know” dell’accesso documentale di cui alla legge n.
241/1990, al “right to know” dell’accesso civico di cui al
decreto legislativo n. 33/2013. In circa un quarto di
secolo, si è cioè assistito a un progressivo ampliamento
della sua funzione: dalla sostanziale esclusiva tutela di
situazioni giuridiche soggettive, alle più ampie finalità di
favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle
funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse
pubbliche, nonché di tutelare i diritti dei cittadini e
promuovere la partecipazione democratica degli stessi
all’attività amministrativa e al dibattito pubblico. In
particolare, il contributo ha una finalità ricognitiva dello
stato dell'arte della normativa vigente e delle principali
posizioni emerse in materia con riguardo agli istituti
dell’accesso documentale e dell’accesso civico “semplice” e
“generalizzato”, nonché i riflessi che tale disciplina della
trasparenza proietta sulla gestione e organizzazione della
pubblica amministrazione, chiamata in breve tempo a
trasformarsi (forse e finalmente) da “palazzo” a “casa di
cristallo”. |
QUESITI & PARERI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Tetto spesa polizia locale.
Domanda
Le assunzioni delle polizia locale avvalendosi della deroga
di cui all’art. 35-bis del d.l. 113/2018, devono comunque
rispettare il “tetto” di spesa di personale in valore
assoluto?
Risposta
Le assunzioni extra di polizia municipale, effettuate ai
sensi dell’articolo 35-bis del decreto sicurezza, non
possono essere fatte in deroga ai vincoli di spesa di
personale contenuti nell’articolo 1, commi 557 e 562, della
legge 296/2006, che, ricordiamo, per i Comuni oltre i mille
abitanti è dato dalla media delle spese di personale del
triennio 2011/2013, mentre per i Comuni fino a mille
abitanti dal “tetto” del 2008.
Questa è la conclusione cui giungono i magistrati contabili
della Lombardia con due diverse, ma identiche nei contenuti,
deliberazioni: la n. 49/2019/PAR (depositata il 13.02.2019)
e la n. 61/2019/PAR (depositata il 26.02.2019).
Il dubbio posto dagli Enti richiedenti il parere nasce
nell’osservare che nella formulazione dell’articolo 35-bis
del decreto legge 113/2018 viene previsto espressamente che
le assunzioni possono essere fatte “… fermo restando il
conseguimento degli equilibri di bilancio …” ma non
anche il rispetto dei vincoli in materia di spesa di
personale contenuti nell’articolo 1, commi 557 e 562, della
legge 296/2006, e, pertanto, si chiede se il valore della
spesa destinata alle assunzioni di personale appartenente
alla polizia municipale possa essere fatta in deroga ai
predetti vincoli di spesa di personale.
Nelle deliberazioni in esame viene chiarito che i vincoli
imposti dal legislatore statale sulla spesa del personale
rappresentano un principio di coordinamento della finanza
pubblica, salvo eventuali deroghe previste dalla legge.
Pertanto, le assunzioni extra di polizia municipale, che i
Comuni intendono effettuare avvalendosi del decreto
sicurezza, devono avvenire nel rispetto dei vincoli di spesa
di personale contenuti nell’articolo 1, commi 557 e 562,
della legge 296/2006.
Il summenzionato principio vale anche nel caso in cui
all’assunzione si provveda tramite l’istituto della mobilità (14.03.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
APPALTI: Affidamento
nell’ambito dei 40mila euro e confronto tra
preventivi/offerte.
Domanda
Nell’ambito di un procedimento di acquisizione di una
commessa di esiguo importo (nell’ordine di 15mila euro), il
RUP –in assenza di regolamentazione interna– ha proposto
l’avvio di un procedimento semplificato ai sensi
dell’articolo 36, comma 2, lett. a), con richiesta di
diversi preventivi senza, però, procedere alla definizione
di criteri per la valutazione delle offerte presentate.
A detta del RUP, visto che si tratta di un procedimento
semplificato e di una ipotesi che ammette anche
l’affidamento diretto, nel caso di specie non sarebbe
necessario fissare dei criteri di valutazione. Come
responsabile del servizio ho, momentaneamente, sospeso il
procedimento e vorremmo avere dei chiarimenti in merito.
Risposta
Il legislatore, come noto, con il nuovo codice dei contratti
ha espresso una “prevalutazione” sull’adeguatezza dei
procedimenti di acquisto utilizzabili in ambito ultra e
sotto soglia comunitaria. A tal proposito, per effetto di
tale “prevalutazione” ha individuato dei procedimenti
estremamente semplificati caratterizzati, in particolare,
dalla possibilità di affidamento diretto (per importi
inferiori ai 40mila euro) per poi strutturare della
procedure ad invito con la individuazione di un numero
minimo di competitori.
Nel caso sottoposto all’attenzione –in assenza di specifiche
particolari declinate in un regolamento interno della
stazione appaltante– il RUP ha proposto piuttosto che
l’affidamento diretto una procedura semplificata ad inviti e
quindi la prospettiva di far competer e più
soggetti/operatori economici.
Ora, pur vero che le prerogative della stazione appaltante
si potevano esplicitare anche attraverso l’affidamento
diretto, tra l’altro, anche con grande libertà sulla
motivazione ma è altrettanto vero che nel momento in cui la
procedura anche informale venisse strutturata innestando un
meccanismo a competizione (il confronto e quindi la scelta
tra più proposte tecnico/economiche) è del tutto evidente
che “a monte” della procedura occorre fissare le
regole partecipative e di competizione per ossequiare i
tradizionali canoni di pubblicità, trasparenze e soprattutto
pari condizioni di trattamento.
Pertanto si ritiene corretta la decisione del responsabile
di servizio –che firma a valenza esterna ed impegna la
stazione appaltante– di sospendere un procedimento di cui
comunque risponde, fermo restando le responsabilità non solo
interne del RUP.
A tal proposito è di sicuro rilievo –e di indubbi utilità
pratica– un recentissimo parere espresso dall’ANAC in sedi
di precontenzioso che affronta un caso del tutto simile.
Nel parere reso con la deliberazione n. 75 del 07.02.2019 si
legge che “la semplificazione della procedura degli
affidamenti di importo inferiore a 40.000,00 euro,
introdotta dal d.lgs. n. 56/2017 allo scopo di consentire
alla stazione appaltante di agire in modo più snello e
flessibile con aumentati margini di autonomia gestionale,
non ha intaccato l’obbligo del rispetto dei principi di cui
all’art. 30, comma 1, d.lgs. n. 50/2016 (cfr. TAR Piemonte
Torino 22.03.2018, n. 353), stante il chiaro tenore
letterale del comma 1 dell’art. 36.
Ciò implica che, in caso di consultazione di più operatori
economici, i principi di libera concorrenza, non
discriminazione e trasparenza impongono alla stazione
appaltante di predefinire e rendere noti a tutti i soggetti
interessati tramite l’atto iniziale della procedura, oltre
alle caratteristiche delle opere, dei beni, dei servizi che
si intendono acquistare, l’importo massimo stimato
dell’affidamento e i requisiti di partecipazione, anche i
criteri per la selezione degli operatori economici e delle
offerte”.
Indicazioni che ben potrebbero essere indicate in un
regolamento interno e/o in un indirizzo di carattere
generale adottato dallo stesso Segretario comunale e/o dai
responsabili di servizio in sede di conferenza di servizi (13.03.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
rilevazione periodica per l’anno 2019 sulle pubblicazioni
obbligatorie in amministrazione trasparente.
Domanda
Ogni anno, in
questo periodo, il Nucleo di Valutazione effettua una
verifica sulle pubblicazioni obbligatorie inserite nella
sezione di Amministrazione Trasparente del nostro sito web
istituzionale, ma non abbiamo ancora ricevuto nessuna
indicazione in merito. È già stato adottato qualche atto in
materia?
Risposta
Ciascun Organismo Indipendente di Valutazione (da ora OIV),
o altro organismo con funzioni analoghe (Nucleo di
Valutazione, di seguito NdV) nel prossimo mese di aprile
dovrà :
• verificare l’avvenuta pubblicazione da parte dell’amministrazione
in cui opera delle categorie di dati, informazioni e
documenti individuati dall’Autorità Nazionale Anti
Corruzione ;
• valutarne la qualità in termini di completezza, aggiornamento e
formato ;
• assegnare un “voto” al livello di pubblicazione.
Tale verifica, che ha per oggetto il corretto assolvimento
degli obblighi di trasparenza [articolo 14, comma 4, lettera
g), del Decreto legislativo n. 150/2009], interessa le
amministrazioni e gli enti destinatari del decreto
legislativo n. 33 del 2013 e, pertanto, amministrazioni
pubbliche, enti pubblici economici, ordini professionali,
società ed enti di diritto privato in controllo pubblico,
società partecipate dalle pubbliche amministrazioni, agli
enti privati di cui all’art. 2-bis, comma 3, secondo
periodo, del d.lgs. 33/2013
Per il 2019, l’Autorità Nazionale Anti Corruzione (di
seguito ANAC) ha adottato la deliberazione n. 141 del
27.02.2019, rubricata “Attestazioni OIV o strutture con
funzioni analoghe, sull’assolvimento degli obblighi di
pubblicazione al 31.03.2019 e attività di vigilanza
dell’Autorità”.
Tale provvedimento fornisce precise indicazioni su “cosa
e come fare” ai soggetti destinatari degli adempimenti
di trasparenza e ai rispettivi OIV/NdV.
In particolare, l’Autorità ha individuato le specifiche
categorie di dati su cui effettuare il controllo e i
relativi criteri; ha approvato la modulistica (griglie di
rilevazione e schemi per le verifiche e l’attestazione) ed
ha definito il timing degli adempimenti. Non solo. Con la
stessa deliberazione, l’Autorità ha fornito le prime
indicazioni sull’attività di vigilanza che intende
effettuare nel corso del 2019, anche a seguito dell’analisi
degli esiti delle attestazioni.
Per le pubbliche amministrazioni, l’ANAC ha disposto che
l’attività di monitoraggio debba concentrarsi sulle seguenti
sotto sezioni di Amministrazione Trasparente:
1) Provvedimenti (art. 23);
2) Bilanci (art. 29);
3) Pagamenti dell’amministrazione (artt. 4-bis, 33, 36 e 41);
4) Opere pubbliche (art. 38);
5) Pianificazione e governo del territorio (art. 39);
6) Informazioni ambientali (art. 40).
In buona sostanza, l’OIV/NdV deve effettuare entro il
30.04.2019 –data ultima per la pubblicazione
dell’attestazione finale– tre attività propedeutiche al
rilascio dell’attestazione:
• verificare l’avvenuta pubblicazione di ciascun
dato/informazione/documento previsto nella griglia allegata
alla citata deliberazione ANAC;
• controllare la completezza, l’aggiornamento ed il formato di tipo
aperto di ciascun dato/informazione/documento (sul
significato di completezza; aggiornamento e formato aperto,
si rinvia al Documento tecnico sui criteri di qualità della
pubblicazione dei dati, Allegato 2 alla deliberazione
dell’Autorità n. 50 del 04.07.2013);
• assegnare il relativo punteggio con l’indicazione di un valore,
in relazione al grado di adempimento da parte
dell’amministrazione o ente soggetto a controllo.
Tali verifiche, che saranno effettuate con il supporto del
Responsabile della Prevenzione della Corruzione e della
Trasparenza (RPCT) e, qualora necessario, dei responsabili
della trasmissione e della pubblicazione dei documenti,
devono essere effettuate con riferimento a quanto pubblicato
al 31.03.2019.
Ciò significa, com’è ovvio, che l’OIV/NdV non potrà prendere
in considerazione dati ed informazioni che dal sistema
informatico risultino pubblicati oltre il 31.03.2019.
Tale precisazione è doverosa per evidenziare agli operatori
che c’è poco tempo a disposizione per integrare o
rettificare le pubblicazioni attualmente consultabili nelle
sotto sezioni oggetto della rilevazione.
A conclusione del monitoraggio, l’organismo dovrà attestare
–utilizzando l’apposito modello fornito dall’ANAC– di avere
effettuato la verifica prevista, con le modalità indicate
nella deliberazione n. 141, del 27.02.2019.
L’attestazione dell’OIV/NdV dovrà essere pubblicata, entro
il 30.04.2019, nella sezione del sito web istituzionale di
Amministrazione trasparente > Controlli e rilievi
sull’Amministrazione > OIV o altri organismi con funzioni
analoghe.
Ultima raccomandazione : nessun invio è previsto all’ANAC (11.03.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI:
Verbalizzazione delle sedute consiliari. Interventi di
singoli consiglieri.
1) L’interpretazione delle
norme sul funzionamento del consiglio comunale, tra cui
rientrano quelle in merito alla verbalizzazione delle sedute
del consiglio, compete unicamente all’organo che le ha
elaborate, quindi allo stesso organo consiliare.
2) Qualora il regolamento preveda che il verbale di deliberazione
contenga gli elementi principali dei singoli interventi
effettuati dagli amministratori locali, pare non coerente
con tale previsione che la delibera comunale, con
riferimento a tali interventi, si limiti ad un rinvio alla
registrazione audio allegata alla stessa.
Il Comune chiede un parere in merito alla verbalizzazione
delle sedute del consiglio e della giunta comunale. In
particolare, desidera sapere se sia legittimo che la
delibera comunale, con riferimento ai singoli interventi
effettuati dagli amministratori locali, si limiti ad un
rinvio alla registrazione audio allegata alla stessa e,
qualora venga richiesto di “procedere ad una
verbalizzazione scritta perfettamente conforme ad ogni
parola utilizzata” dal consigliere/assessore durante
l’intervento, possa considerarsi legittimo richiedere allo
stesso di “fornire copia del testo scritto del proprio
intervento in formato word”.
L’articolo 8 dello statuto comunale, rubricato “Deliberazioni
degli organi collegiali”, al comma 2, prevede che: “L’istruttoria
e la documentazione delle proposte di deliberazione
avvengono attraverso i responsabili degli uffici; la
verbalizzazione degli atti e delle sedute del consiglio e
della giunta è curata dal segretario comunale, secondo le
modalità e i termini stabiliti dal regolamento per il
funzionamento del consiglio”.
Stante la previsione statutaria dell’Ente segue che le norme
contenute nel regolamento per il funzionamento del consiglio
comunale nella parte relativa alla verbalizzazione delle
sedute consiliari si applicano anche alla verbalizzazione
delle sedute giuntali.
L’articolo 21 di tale regolamento, rubricato “Processi
verbali”, recita: “1. I verbali delle adunanze sono
compilati dal Segretario comunale, coadiuvato dalla
Segreteria e costituiscono prova autentica delle
deliberazioni adottate dal Consiglio, può avvalersi della
registrazione con mezzi elettronici. I consiglieri devono
chiedere espressamente al Segretario comunale l’inserimento
integrale dei propri interventi consegnandone copia del
testo scritto.
2. Per le deliberazioni concernenti persone, deve farsi
constare dal verbale che si è proceduto alla votazione per
scrutinio segreto.
3. Tutti i verbali di deliberazione devono indicare il testo
integrale della parte dispositiva costituente la proposta,
il numero dei voti resi pro e contro la proposta stessa e la
proclamazione fatta dal Sindaco, nonché l’indicazione dei
nominativi dei consiglieri che hanno effettuato interventi
durante la discussione riportandone per sintesi gli elementi
più significativi.
4. Dal verbale dovranno infine risultare: a) il giorno,
l’ora e il luogo dell’adunanza; b) il nome ed il cognome di
chi presiede il consiglio comunale, del Segretario e degli
eventuali scrutatori; c) se si tratta di sessione ordinaria
o sessione straordinaria; d) l’oggetto della proposta su cui
il Consiglio è chiamato a deliberare; e) il verbale delle
adunanze deve contenere il numero dei Consiglieri presenti
alla votazione sui singoli argomenti, con l’indicazione del
nome di quelli che si sono astenuti e di quelli contrari.
5. Non sono inserite nel verbale le dichiarazioni
ingiuriose, contrarie alle leggi, all’ordine pubblico e al
buon costume e di protesta contro i provvedimenti adottati.
6. Ogni consigliere può pretendere che nel verbale si
facciano constare le motivazioni del suo voto.
7. I verbali sono sottoscritti dal Presidente della seduta e
dal Segretario”.
Premesso che l’interpretazione delle norme sul funzionamento
del consiglio comunale compete unicamente all’organo che le
ha elaborate, quindi allo stesso organo consiliare, di
seguito si esprimono, in via meramente collaborativa, delle
considerazioni che possano essere di utilità all’Ente nella
soluzione della questione posta.
Con riferimento al primo quesito posto afferente alla
possibilità che il verbale di deliberazione rinvii, quanto
ai singoli interventi consiliari, alla registrazione che
verrebbe allegata allo stesso, si ritiene di fornire
risposta negativa. Ad un tanto sembra ostare la previsione
di cui all’articolo 21, comma 3, nella parte in cui dispone
che il verbale di deliberazione deve tra l’altro riportare “l’indicazione
dei nominativi dei consiglieri che hanno effettuato
interventi durante la discussione riportandone per sintesi
gli elementi più significativi”.
Dal tenore letterale della disposizione citata deriva,
infatti, che il verbale non può limitarsi ad un semplice
rinvio degli interventi effettuati dai consiglieri dovendo
contenere gli elementi principali dello stesso. Benché la
riproduzione degli interventi, ancorché in maniera succinta,
non rientri tra gli elementi essenziali che, in generale, il
verbale deve contenere
[1],
pur tuttavia tale essenzialità può essere imposta da una
specifica previsione regolamentare sul punto, come nel caso
in esame.
Con riferimento al secondo quesito posto relativo alle
modalità di riproduzione dell’intervento integrale di un
consigliere soccorre il disposto di cui al comma 1
dell’articolo 21 del regolamento sul funzionamento del
consiglio nella parte in cui prevede che: “I consiglieri
devono chiedere espressamente al Segretario comunale
l’inserimento integrale dei propri interventi consegnandone
copia del testo scritto.”
La previsione regolamentare richiede unicamente la consegna
di un testo scritto da parte del consigliere non
specificando che lo stesso debba essere presentato su
supporto informatico. Nel silenzio della previsione
regolamentare sul punto si ritiene rientri nella
discrezionalità del consigliere interessato aderire ad
un’eventuale richiesta di presentazione del proprio
intervento scritto anche mediante consegna di idoneo
dispositivo digitale.
---------------
[1] In tal senso si veda TAR Pescara, Abruzzo, sez. I,
sentenza del 14.01.2010, n. 56 la quale recita: “Il processo
verbale relativo agli interventi effettuati dai singoli
consiglieri non è essenziale ai fini della valida esistenza
di un atto deliberativo assunto dal Consiglio comunale,
essendo essenziali, ai sensi dei principi generali che
disciplinano la validità dell'atto amministrativo
collegiale, solo la data di adozione, l'indicazione dei
presenti e degli assenti, il contenuto dispositivo e l'esito
della votazione” (08.03.2019 -
link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
APPALTI: Vantaggi
gara telematica seduta pubblica virtuale.
Domanda
Quali vantaggi presenta una procedura di gara svolta
attraverso le piattaforme telematiche?
Risposta
Le gare svolte mediante piattaforme telematiche, al di là
dell’obbligo normativo stabilito dalle spending review
e dell’autonomia negoziale che l’art. 37 del d.lgs. 50/2016
riconosce agli enti che le utilizzano, presentano alcuni
vantaggi che a livello pratico si traducono in un’effettiva
semplificazione in termini organizzativi e procedurali.
Oltre alla facilità nell’invitare gli operatori economici,
alla riduzione del rischio derivante dalla cattiva
conservazione o dalla tardiva consegna dei plichi da parte
dell’ufficio protocollo, alla possibilità di nominare alcuni
componenti interni della commissione giudicatrice, in quanto
ai sensi dell’art. 77 del codice le gare telematiche sono
considerate come gare “non complesse”, il vantaggio
maggiore è sicuramente costituito dalla seduta pubblica
virtuale.
La giurisprudenza si è pronunciata più volte su questo
aspetto delle gare telematiche, definito in modo puntuale
nella sentenza del TAR Campania, Napoli, sez. I sent. n. 725
del 02.02.2018, dove «il principio di pubblicità delle
sedute deve essere rapportato non ai canoni storici che
hanno guidato l’applicazione dello stesso, quanto piuttosto
alle peculiarità e specificità che l’evoluzione tecnologica
ha consentito di mettere a disposizione delle procedure di
gara telematiche, in ragione del fatto che la piattaforma
elettronica che ha supportato le varie fasi di gara assicura
l’intangibilità del contenuto delle offerte
(indipendentemente dalla presenza o meno del pubblico) posto
che ogni operazione compiuta risulta essere ritualmente
tracciata dal sistema elettronico senza possibilità di
alterazioni; in altri termini, è garantita non solo la
tracciabilità di tutte le fasi, ma proprio l’inviolabilità
delle buste elettroniche contenenti le offerte e
l’incorruttibilità di ciascun documento presentato»
(Consiglio di Stato Sezione V 21.11.2017 n. 5388; Consiglio
di Stato sez. III 25.11.2016 n. 4990; Consiglio di Stato
sez. III 03.10.2016 n. 4050).
Tale garanzia di trasparenza, imparzialità e
immodificabilità delle offerte nelle procedure telematiche è
tale da prevalere anche qualora nella lex specialis
l’amministrazione aggiudicatrice si sia autovincolata alla
seduta pubblica fisica, senza poi darvi seguito, in ragione
dell’irrilevanza dell’omissione (TAR Puglia, Bari, sez. III
sent. n. 1112 del 02.11.2017).
Altro aspetto positivo delle procedure di gara telematiche è
la deroga allo “stand still”, ovvero il termine
dilatorio per la stipula del contratto dei trentacinque
giorni dall’invio della comunicazione di aggiudicazione, che
non si applica, ai sensi dell’art. 32, co. 10, lett. b) nel
caso di acquisti effettuati tramite il mercato elettronico
nel sotto soglia.
Rilevante, inoltre, in termini di semplificazione la
possibilità di formalizzare il rapporto negoziale, quale
titolo giuridico che legittima il pagamento della
prestazione, nel caso di approvvigionamenti effettuati
tramite il Mepa, direttamente sulla piattaforma, mediante
sottoscrizione digitale di un contratto generato in
automatico dal sistema stesso, con disapplicazione nel caso
di forniture e servizi, ai sensi dell’art. 13 della legge n.
52/2012, dell’obbligo di richiedere i diritti di segreteria
(06.03.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Parere in merito all'applicazione dell'art.
23-ter, comma 2, del d.P.R. 380/2001 in tema di cambio di
destinazione d'uso – Comune di Velletri (Regione Lazio,
nota 06.03.2019 n. 175831 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Oggetto: Parere in merito al rapporto tra strumento
urbanistico generale e piano di assetto della rete
distributiva - Comune di Rieti (Regione Lazio,
nota 05.03.2019 n. 174004 di prot.). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Incarichi
legali: come assolvere l’obbligo di pubblicazione.
Domanda
Gli incarichi di patrocinio legale si pubblicano ancora
nella sezione consulenti e collaboratori, come prevede
l’art. 15 del d.lgs. 33/2013?
Risposta
L’articolo 15, del decreto Trasparenza (decreto legislativo
14.03.2013, n. 33), impone la pubblicazione degli incarichi
di consulenza e di collaborazione nella relativa
sottosezione del sito istituzionale. Le sanzioni per la
mancata pubblicazione sono piuttosto pesanti, comportando
una procedimentio disciplinare ed una sanzione pari
all’importo pagato dal dirigente/responsabile di servizio
che ha affidato l’incarico. L’Autorità Anticorruzione (ANAC)
si è espressa in merito alle pubblicazione degli incarichi
legali, con la Faq Trasparenza 6.6, emanata in vigenza del
vecchio codice dei contratti pubblici (d.lgs. 163/2006).
In sintesi, ritiene che i singoli incarichi di patrocinio
siano inquadrabili come consulenze e dunque da pubblicare
nella relativa sottosezione, mentre l’affidamento della
complessiva gestione del servizio di assistenza legale, ivi
inclusa la difesa giudiziale sia qualificabile come appalto
di servizi e, quindi, le relative informazioni siano da
pubblicare nella sottosezione “bandi di gara e contratti”,
secondo le disposizioni dell’art. 37, del d.lgs. 33/2013.
Detta posizione è coerente con la giurisprudenza del
Consiglio di Stato, espressa nella sentenza n. 2730/2012,
nella quale si sostiene che la difesa in giudizio è
prestazione d’opera professionale e che la selezione
dell’avvocato, pur non soggiacendo all’obbligo di
espletamento di una procedura comparativa di stampo
concorsuale, è soggetta ai principi generali dell’azione
amministrativa in materia di imparzialità, trasparenza e
adeguata motivazione onde rendere possibile la decifrazione
della congruità della scelta fiduciaria posta in atto
rispetto al bisogno di difesa da appagare.
Nella Faq. 6.5, l’ANAC, considerata l’eterogeneità di detti
incarichi, rimette a ciascuna amministrazione
l’individuazione delle fattispecie non riconducibili alle
categorie degli incarichi di collaborazione e consulenza,
dandone adeguata motivazione.
Certo, qualificare un incarico di difesa in giudizio, quale
consulenza non è indolore in quanto sarà poi soggetti ai
limiti procedurali e di valore stabiliti per le stesse, come
interpretati dalla magistratura contabile (art. 3, comma 56,
legge 244/2007, art. 6, comma 7, d.l. 78/2010, art. 1, comma
173, della legge 266/2005).
Il nuovo codice dei contratti (d.lgs. 18.04.2016, n. 50), ha
portato nell’alveo degli appalti la rappresentanza legale di
un cliente da parte di un avvocato. L’articolo 17 è,
infatti, esplicito nel definire anche detta rappresentanza “appalto”,
pur escludendo l’applicazione del codice per le procedure di
affidamento, fermo restando i principi generali indicati
nell’articolo 4. Nella nozione europea, infatti, non vi è
distinzione tra appalto di servizi e prestazione d’opera,
come rinvenibile nella tradizione giuridica italiana normata
nel Codice civile.
Le linee guida ANAC n. 12, approvate con delibera n. 907 del
24.10.2018, in materia di affidamento di incarichi legali,
pur sottoponendo detti affidamenti ai principi di cui
all’articolo 4 Codice dei Contratti (affidamento servizi
esclusi), qualificano la rappresentanza legale come
contratto d’opera, sul solco del parere reso dal Consiglio
di Stato.
Di diverso avviso è, invece, la magistratura contabile, la
quale qualifica come appalto di servizi il patrocino legale
(Corte dei Conti, Sezione regionale di controllo per l’Emilia-Romagna,
delibere n. 74-153/2017, 4-35-82-105-144/2018).
Nella citata deliberazione n. 144, interessante è quanto
affermato in ordine agli obblighi di trasparenza:
Questa sezione ritiene che il citato articolo, lì ove
riferisce l’obbligo genericamente agli “incarichi di
collaborazione o consulenza”, debba necessariamente
considerarsi riferito anche agli incarichi di patrocinio
legale affidati all’esterno; tale lettura trova un riscontro
da parte dell’ANAC, sia pure limitatamente a quanto espresso
in sede di FAQ in materia di trasparenza (FAQ 6.6). Ciò,
ovviamente precedentemente rispetto alla riconduzione degli
stessi, ad opera del codice dei contratti pubblici, agli
appalti di servizi, in quanto ora devono conseguentemente
essere pubblicati, ai sensi dell’art. 37 del codice d.lgs. n.33/2013,
nella sottosezione (di “Amministrazione trasparente”)
dedicata ai Bandi di gara e contratti.
Conclusivamente, si ritiene che, motivando adeguatamente,
anche con riferimento alla Faq 6.5 e alla menzionata
delibera n. 144, gli incarichi di patrocinio legale vadano
correttamente pubblicati nella sottosezione “Bandi di
gara e contratti”, a norma dell’articolo 29, del codice
dei contratti ora vigente, acquisendo il relativo Codice
Identificativo di Gara (CIG) (05.03.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Relazione
di fine mandato. Le scadenze per la sua predisposizione,
pubblicazione ed invio alla corte dei conti.
Domanda
L’amministrazione comunale del mio ente è in scadenza nei
prossimi mesi, essendo stata eletta nel 2014. Quali sono i
termini per la predisposizione, l’invio alla Corte dei conti
e la pubblicazione della relazione di fine mandato?
Risposta
Come noto l’obbligo di predisporre la relazione di fine
mandato è stato introdotto dall’art. 4 del d.lgs. 149/2011.
Il comma 2 stabilisce che essa venga redatta dal
responsabile del servizio finanziario o dal segretario
generale e sia poi sottoscritta dal presidente della
provincia o dal sindaco non oltre il sessantesimo giorno
antecedente la data di scadenza del mandato. Entro e non
oltre quindici giorni dopo la sottoscrizione della
relazione, essa dovrà risultare certificata dall’organo di
revisione dell’ente locale e, nei tre giorni successivi la
relazione e la certificazione devono essere trasmesse dal
presidente della provincia o dal sindaco alla competente
sezione regionale di controllo della Corte dei conti.
E’ poi previsto che la relazione e la certificazione siano
pubblicate sul sito istituzionale dell’ente entro i sette
giorni successivi alla data di certificazione da parte
dall’organo di revisione, con l’indicazione della data di
trasmissione alla sezione regionale di controllo della Corte
dei conti. Il dubbio che si pone per molti operatori degli
enti locali attiene alla modalità di conteggio dei sessanta
giorni dalla data di scadenza del mandato. Sul punto è
intervenuta la Corte dei conti con
deliberazione della Sezione Autonomie n. 15/2016.
In particolare la Corte, nell’interpretare la norma di
legge, afferma che debba ‘ritenersi che il mandato del
Sindaco o del Presidente della Provincia abbia inizio con la
proclamazione tanto è vero che tali organi, appena
proclamati eletti, hanno il potere di compiere atti ed
assumere provvedimenti immediatamente, senza attendere
alcuna legittimazione successiva da parte del Consiglio’.
Pertanto, alla luce di ciò i sessanta giorni vengono
conteggiati proprio con riferimento alla suddetta data di
proclamazione degli eletti da parte dell’adunanza dei
presidenti di seggio. Per gli enti che sono andati ad
elezione il 25/05/2014 e per i quali la proclamazione è
avvenuta il giorno successivo (26/05), la relazione dovrà
essere predisposta entro il 27 marzo prossimo. Analogamente
per gli enti che sono andati al ballottaggio il 08/06/2014,
per i quali la proclamazione è avvenuta il 09/06/2014, il
termine per la predisposizione della relazione è fissato per
il 10 aprile prossimo.
Il successivo comma 4 del medesimo articolo 4 del d.lgs.
149/2011 definisce il contenuto della relazione. Il modello
da utilizzare è stato poi approvato con d.m. Interno del
26/04/2013. In merito agli obblighi di pubblicazione sul
sito dell’ente si evidenzia come la legge si limiti a
fissarne la data: la pubblicazione dovrà infatti avvenire
entro i sette giorni successivi alla data di certificazione
effettuata dall’organo di revisione, con l’indicazione della
data di trasmissione alla sezione regionale di controllo
della Corte dei conti.
Non viene specificato dove la relazione debba essere
pubblicata. Non dice nulla al riguardo neppure il d.lgs.
33/2013 in materia di trasparenza degli enti locali. Nel
silenzio della norma si ritiene opportuno che la relazione
sia pubblicata all’interno della sezione ‘Amministrazione
trasparente’ del sito web istituzionale, nella
sottosezione ‘Organizzazione’ > ‘Organi di
indirizzo politico-amministrativo’. È inoltre opportuno
per una maggiore trasparenza e visibilità, prevederne la
pubblicazione anche all’interno della home page del sito.
Infine attenzione alle sanzioni: il comma 6 prevede infatti
che in caso di mancato adempimento dell’obbligo di redazione
e di pubblicazione nel sito dell’ente, della relazione di
fine mandato, al sindaco e, qualora non abbia predisposto la
relazione, al responsabile del servizio finanziario o al
segretario generale è ridotto della metà, con riferimento
alle tre successive mensilità, rispettivamente, l’importo
dell’indennità di mandato e degli emolumenti. Il sindaco è
inoltre tenuto a dare notizia della mancata pubblicazione
della relazione, motivandone le ragioni, nella home page del
sito medesimo (04.03.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Invio
PTFP sindacati.
Domanda
Il Piano triennale dei fabbisogni di un comune va inviato
per informazione preventiva ai sindacati?
Risposta
L’art. 6 del d.lgs. 165/2001 prevede al comma 4 che “nell’adozione
degli atti di cui al presente comma, è assicurata la
preventiva informazione sindacale, ove prevista nei
contratti collettivi nazionali”.
La risposta, quindi, va cercata all’interno del CCNL
21.05.2018 delle Funzioni Locali e a nostro parere non vi è
alcuna indicazione esplicita a tal proposito. Quindi la
risposta al quesito è negativa.
Riteniamo, inoltre, che non sia possibile individuare
eventuali diverse “aperture” nella direzione
dell’obbligo di informazione preventiva in altri contesti
del CCNL citato, ma che l’elenco delle materie oggetto di
informazione, contrattazione o confronto sia tassativo.
Ricordiamo, inoltre, proprio per fare un esempio di un CCNL
che ha previsto una relazione sindacale che nel Comparto
Istruzione e Ricerca all’art. 68 comma 10 vi è scritto: Sono
oggetto di informazione […] “il piano dei fabbisogni di
personale”.
Quindi, in quel contratto è stata voluta la relazione
sindacale, nel CCNL Funzioni Locali, evidentemente no (28.02.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
APPALTI FORNITURE ESERVIZI: Rapporti
tra rotazione e acquisti extra mercato elettronico fino a
5mila euro.
Domanda
In uno degli ultimi contributi pubblicati sulla rivista si
faceva riferimento alle indicazioni espresse
sull’innalzamento della soglia (fino a 5mila euro) per cui
il RUP non ha alcun obbligo di procedere con l’acquisto
attraverso il mercato elettronico.
Vorremmo dei chiarimenti sui rapporti tra questa opzione e
il vincolo della rotazione considerato che le linee guida n.
4 dell’ANAC ammettono delle deroghe nel caso di micro
acquisti.
Risposta
Come si puntualizza nel quesito il legislatore della legge
di bilancio (legge 145/2019) ha introdotto alcune
semplificazioni in tema di procedimenti di acquisto. In
particolare, per ciò che in questa sede interessa con il
comma 130 ha modificato la legge finanziaria n. 296/2006
innalzando la soglia di “franchigia” rispetto al
generale obbligo degli acquisti di beni e servizi in ambito
sottosoglia dal mercato elettronico.
Dal primo gennaio 2019, in effetti, il RUP (in quanto
soggetto competete a proporre i procedimenti di acquisto)
potrebbe suggerire (o direttamente avviare qualora
coincidesse con la figura del dirigente/responsabile del
servizio) acquisti extra mercato per importi fino ai 5mila
euro (importi inferiori da intendersi al netto dell’IVA).
La determinazione di affidamento (e già prima, se il
procedimento non si sostanziasse in un affidamento diretto)
non richiede neppure particolari motivazioni considerato che
è intervenuta nel caso di specie una “prevalutazione”
del legislatore.
Ciò che il RUP deve evitare, evidentemente, è da un lato il
frazionamento della commessa (entro l’anno finanziario) nel
secondo caso chiarire i rapporti con la rotazione.
A sommesso avviso, nel momento in cui il RUP procedesse con
un acquisto extra mercato elettronico deve aver presente il
fabbisogno dell’anno. Pertanto, se ha cognizione modo
dettagliato del fabbisogno e questo superasse l’importo di
cui si parla non è corretto –ad avviso di chi scrive–
frazionare l’acquisto perché azione corretta è quella di
procedere con una gara (pur informale, pur nei termini di
una procedura negoziata semplificata o, ancora, in una
procedura aperta). Qualora, nonostante quanto appena
evidenziato, il RUP di determinasse con l’utilizzo
dell’opzione è chiaro che la stessa non potrà essere
reiterata per violazione della norma.
Con riferimento ai rapporti con la rotazione il RUP a
sommesso parere, deve rammentare che la rotazione
costituisce criterio cardine dal quale ci si può discostare
solo con adeguata motivazione (al netto delle previsioni di
deroga entro i mille euro). Pertanto si tratta di assunzione
di precise responsabilità. Nel caso di un primo acquisto
entro i 5mila euro e poi successiva procedura negoziata
semplificata, il problema è quello se si possa o meno
invitare il primo affidatario.
Ciò può avvenire solamente con adeguata motivazione nella
determina a contrattare. Problemi non si pongono nel caso in
cui la competizione risulti formalmente (con una adeguato
avviso pubblico). È bene rammentare, infine, che l’ANAC nel
sottoporre a consultazione la modifica delle linee guida n.
4 (in funzione di adeguamento alle modifiche apportate dalla
legge di bilancio 145/2018) ha richiesto agli stakeholders
riflessioni anche su questo aspetto ovvero sui rapporti tra
rotazione e acquisti extra mercato elettronico fino a 5mila
euro con alcune considerazioni.
Sotto si riporta integralmente la puntualizzazione espressa
dall’autorità anticorruzione (e le preoccupazioni di una
eventuale deroga al criterio dell’alternanza: “Altra
esigenza di modifica che deriva dalla novella introdotta con
la richiamata legge di bilancio potrebbe attenere alla
soglia di rilevanza individuata per il ricorso alla
rotazione. Al punto 3.7 delle Linee guida n. 4, è stabilito
che negli affidamenti di importo inferiore a 1.000 euro, è
consentito derogare all’applicazione del principio di
rotazione, con scelta, sinteticamente motivata, contenuta
nella determinazione a contrarre o in atto equivalente. La
soglia scelta per la suddetta deroga era stata individuata
con riferimento alla soglia prevista dalla normativa vigente
per il ricorso al mercato elettronico della pubblica
amministrazione, ad altri mercati elettronici istituiti ai
sensi del medesimo articolo 328 o al sistema telematico
messo a disposizione dalla centrale regionale di riferimento
per lo svolgimento delle relative procedure. Il comma 130
dell’art. 1 della citata legge 145/2018 prevede la modifica
dell’articolo 1, comma 450, della legge 27.12.2006, n. 296,
con innalzamento della relativa soglia a 5.000 euro.
Andrebbe pertanto valutata l’opportunità di innalzare a
5.000 euro anche la soglia introdotta nelle Linee guida n. 4
con riferimento all’obbligo di rotazione. Tale modifica
comporterebbe sicuramente una semplificazione, ma al tempo
stesso, avrebbe un impatto significativo su un numero
estremamente elevato di affidamenti di piccolo importo
(sarebbe circa 4 milioni il numero medio annuo di
affidamenti di importo inferiore a 5.000 euro)” (27.02.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: La
tempistica di pubblicazione degli atti sul web.
Domanda
Siamo un comune di circa 10mila abitanti e il nostro
Segretario comunale –Responsabile per la Prevenzione della
Corruzione e della Trasparenza– ci sollecita spesso la
pubblicazione dei documenti e dei dati che obbligatoriamente
devono essere inseriti e aggiornati tempestivamente nella
nostra sezione web di Amministrazione Trasparente. Non
abbiamo chiaro però il concetto di tempestività.
In concreto, quanti giorni abbiamo per pubblicare tali dati?
Risposta
Il Decreto Trasparenza (d.lgs. 14.03.2013, n. 33), definisce
l’oggetto degli obblighi di pubblicazione e stabilisce anche
la frequenza di pubblicazione.
È previsto l’aggiornamento con cadenza annuale per i dati
che per loro natura non sono soggetti a frequenti modifiche
(dichiarazioni dei titolari di incarichi e cariche,
partecipazioni pubbliche…) o la cui durata è tipicamente
annuale: pubblicazione del conto annuale del personale
(articolo 16, del d.lgs. 33/2013) e dei dati relativi agli
enti pubblici vigilati, agli enti di diritto privato in
controllo pubblico e alle partecipazioni in società di
diritto privato (articolo 22).
Diversamente, la pubblicazione deve essere tempestiva nei
casi in cui l’efficacia del provvedimento discende proprio
dalla pubblicazione dei dati e delle informazioni. Questo è
il caso, ad esempio, degli incarichi di collaborazione o
consulenza a soggetti esterni per i quali è previsto un
compenso (articolo 15), oppure delle concessioni di
contributi / sussidi e vantaggi economici di importo
superiore a mille euro, per anno solare, al medesimo
beneficiario (articolo 26).
Altra circostanza in cui i dati e le informazioni devono
essere pubblicate tempestivamente, si ha quando la stessa
natura dell’atto implica una sua immediata pubblicazione,
come il caso dei bandi di concorso per l’assunzione di
personale (articolo 19) o i bandi di gara per forniture,
servizi, lavori e concessioni (articolo 37).
Quando, invece, la normativa non definisce esplicitamente il
termine di pubblicazione e di aggiornamento, vige il
principio generale dettato dall’articolo 8, del d.lgs.
33/2013, secondo il quale: “i documenti contenenti atti
oggetto di pubblicazione obbligatoria ai sensi della
normativa vigente sono pubblicati tempestivamente sul sito
istituzionale dell’amministrazione”.
Ciò premesso, venendo al tema posto nel quesito in merito al
concetto di tempestività, va detto che si tratta di un
concetto relativo che può dar luogo anche ad interpretazioni
notevolmente difformi.
In merito, l’Autorità Nazionale Anti Corruzione (di seguito
ANAC) non ha mai definito con precisione l’esatta tempistica
delle pubblicazioni tempestive, nemmeno con la
determinazione n. 1310/2016, nella quale sono stati
riportati i tempi di pubblicazione stabiliti dal legislatore
per ogni dato soggetto ad obbligo di pubblicazione nella
sezione web di Amministrazione Trasparente (su base annuale,
trimestrale o semestrale o tempestivamente).
Recentemente, con la delibera n. 1074 del 21.11.2018
–aggiornamento al Piano Nazionale Anticorruzione 2018– l’ANAC
si è espressa ritenendo di non vincolare le amministrazioni
in tal senso, preferendo rimettere all’autonomia
organizzativa degli enti l’interpretazione del concetto di
tempestività, sulla base delle caratteristiche dimensionali
di ciascun ente e con riferimento allo scopo della norma. In
particolare, ai comuni di piccole e medie dimensioni (fino a
15.000 abitanti) è riconosciuta la possibilità di “interpretare
il concetto di tempestività e fissare termini secondo
principi di ragionevolezza e responsabilità, idonei ad
assicurare, nel rispetto dello scopo della normativa sulla
trasparenza, la continuità, la celerità e l’aggiornamento
costante dei dati”.
Pertanto, sarà cura del Responsabile per la Prevenzione
della Corruzione fissare tali termini, indicandoli nel Piano
per la Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (PTPCT),
nella sezione dedicata alla Trasparenza, definendo con
precisione il concetto di tempestività, riferito sia ai
tempi di pubblicazione che a quelli di aggiornamento.
Tali tempi, come suggerito dall’ANAC, non dovranno
tendenzialmente essere superiori al semestre.
Ecco di seguito il passaggio che si suggerisce di inserire
nel PCPCT che dovrà essere approvato dalla Giunta: “La
pubblicazione di dati, informazioni e documenti è tempestiva
quando viene effettuata entro n. ..… giorni dalla
disponibilità definitiva di dati, informazioni e documenti”
(26.02.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
PATRIMONIO: Contributo
investimenti L. 145-2018.
Domanda
Sono assessore ai LL.PP. in un comune di 7.100 abitanti. La
legge di bilancio ci ha assegnato 70mila euro per interventi
sul patrimonio comunale. Quali sono gli interventi che si
possono realizzare? Con quali tempi e procedure?
Risposta
Il quesito del lettore fa riferimento alle somme stanziate
dall’art. 1, commi da 107 a 114, della legge 145/2018 (legge
di bilancio 2019). Tali somme sono finalizzate alla
realizzazione di investimenti per la messa in sicurezza di
scuole, strade, edifici pubblici e patrimonio comunale, nel
limite complessivo di 400 milioni di euro, purché non siano
già interamente finanziati da altri soggetti.
Per chiarire le tipologie di spese finanziabili è
intervenuto nelle scorse settimane il Ministero dell’Interno
con la pubblicazione sul proprio sito di 27 faq il cui testo
integrale
è reperibile qui. In particolare, la faq n. 12
precisa che in ogni caso non sono finanziabili gli
interventi di manutenzione ordinaria. Il contributo non può
pertanto essere destinato a spese correnti.
Gli interventi da realizzare devono essere aggiuntivi
rispetto a quanto già previsto nella prima annualità del
piano triennale delle opere pubbliche dell’ente
beneficiario. I lavori devono essere affidati ai sensi degli
articoli 36, comma 2, lettera b), e 37, comma 1, del Codice
degli appalti e dovranno essere avviati entro il termine
perentorio del 15 maggio prossimo. In virtù della deroga
introdotta dal comma 912, per il solo 2019, l’affidamento
potrà avvenire, pertanto:
1 .per importi fino a 40mila euro con affidamento diretto anche
senza previa consultazione di due o più operatori economici;
2 .per importi pari o superiori a 40 mila euro e fino a 150 mila
euro tramite affidamento diretto previa consultazione, se
esistenti, di tre operatori economici;
3. per importi pari o superiori a 150 mila euro e inferiori a 350
mila euro, mediante procedura negoziata, previa
consultazione, sempre ove esistenti, di almeno 10 operatori
economici.
I tempi per l’avvio dei lavori sono evidentemente molto
stretti. Per gli enti che hanno approvato il bilancio di
previsione prima dell’entrata in vigore della legge 145/2018
si rende inoltre necessario adottare apposita variazione che
ne preveda gli stanziamenti al titolo IV dell’entrata e al
titolo II della spesa. E’ possibile procedere con
deliberazione della giunta comunale, adottata in via
d’urgenza con i poteri del consiglio, ai sensi dell’art.
175, comma 4, del TUEL motivata proprio con l’urgenza di
affidare e avviare l’intervento.
Cosa succede se l’ente non rispetta la scadenza del 15
maggio? La risposta è contenuta nel comma 111: esso prevede
la revoca del contributo, in tutto o in parte, disposta con
decreto del Ministero dell’Interno entro il 15.06.2019.
L’ammontare complessivo delle somme revocate sono assegnate,
con il medesimo decreto, ai comuni che hanno iniziato
l’esecuzione dei lavori in data antecedente alla scadenza
del 15 maggio, dando priorità ai comuni con data di inizio
dell’esecuzione dei lavori meno recente e non oggetto di
recupero. I comuni beneficiari di tale ulteriore riparto
sono tenuti ad iniziare l’esecuzione dei lavori entro il 15
ottobre prossimo.
Le somme sono erogate dal Ministero dell’Interno per il 50
per cento previa verifica dell’avvenuto inizio
dell’esecuzione dei lavori attraverso il sistema di
monitoraggio BDAP-MOP, e per il restante 50 per cento previa
trasmissione al Ministero dell’Interno del certificato di
collaudo o del certificato di regolare esecuzione rilasciato
dal direttore dei lavori.
Infine la legge impone agli enti di dare la massima
pubblicità all’intervento realizzato: essi devono rendere
nota la fonte di finanziamento, l’importo assegnato e la
finalizzazione del contributo nel proprio sito internet,
nella sezione «Amministrazione trasparente». Il
sindaco deve infine fornire tali informazioni al consiglio
comunale nella prima seduta utile (25.02.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Limite spesa lavoro flessibile.
Domanda
La condizione per poter utilizzare il 100% della spesa
sostenuta nell’anno 2009 per assunzioni flessibili è
l’obbligo di riduzione della spesa previsto dall’art. 1,
comma 557, della l. 296/2006 da intendersi riferito al
rispetto della spesa del triennio 2001/2013 di cui al comma
557-quater?
Risposta
Il comma 557-quater, dell’art. 1, della legge 27.12.2006, n.
296 (legge finanziaria 2007), è stato aggiunto dal comma
5-bis, dell’art. 3, del d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito
con modificazioni dalla legge 11.08.2014, n. 114 e recita
quanto segue: "1.557-quater. Ai fini dell’applicazione
del comma 557, a decorrere dall’anno 2014 gli enti
assicurano, nell’ambito della programmazione triennale dei
fabbisogni di personale, il contenimento delle spese di
personale con riferimento al valore medio del triennio
precedente alla data di entrata in vigore della presente
disposizione".
Dal momento che la norma è del 2014, il triennio precedente
è quello che comprende gli anni 2011, 2012 e 2013.
La norma che disciplina il “tetto” di spesa per il
lavoro flessibile (pari al 100% della spesa del 2009) è
quella stabilita all’art. 9, comma 28, del decreto-legge n.
78/2010, convertito nella legge 30.07.2010, n. 122 che, per
la parte che ci interessa, dispone: "Le limitazioni
previste dal presente comma non si applicano agli enti
locali in regola con l’obbligo di riduzione delle spese di
personale di cui ai commi 557 e 562 dell’articolo 1 della
legge 27.12.2006, n. 296, e successive modificazioni,
nell’ambito delle risorse disponibili a legislazione vigente".
Pertanto, la risposta al quesito non può che essere
affermativa (21.02.2019 - tratto da e link a
www.publika.it). |
PATRIMONIO:
Gestione di impianti sportivi nel nuovo codice dei
contratti, diverse modalità contrattuali.
Domanda
Diverse strutture pubbliche sportive comunali sono in
scadenza, alla luce del nuovo codice dei contratti quali
sono i sistemi che si possono utilizzare per l’affidamento
del servizio di gestione degli impianti sportivi?
L’art. 90, co. 25, l. 289/2002, relativo alla preferenza a
favore di società e associazioni sportive dilettantistiche è
ancora applicabile?
Risposta
Per consolidato orientamento giurisprudenziale la gestione
di impianti sportivi assume i caratteri tipici di un
servizio pubblico. La nozione di servizio pubblico è omologa
a quella di servizio di interesse generale di derivazione
comunitaria, quale attività di produzione di beni e servizi
che si distinguono dalle comuni attività economiche, perché
perseguono una finalità di interesse generale che ne
giustifica l’assoggettamento ad un regime giuridico
differenziato (c’è obbligo di pubblico servizio quando il
mercato non soddisfa da solo la necessità). La dottrina è
giunta ad individuare gli indici di riconoscimento della
pubblicità del servizio, identificandoli nella coesistenza
di alcuni presupposti, quali:
• l’attività deve consistere in una prestazione;
• per la gestione del servizio deve esistere un’organizzazione
stabile con un controllo pubblico che assicuri un livello
minimo di erogazione;
• l’attività deve essere diretta ad una generalità di cittadini e
presentare il carattere dell’universalità (il servizio deve
essere reso a tutti i soggetti che ne facciano richiesta a
prescindere dal loro status).
Nel caso della gestione di impianti sportivi comunali
trattasi di un servizio pubblico locale ai sensi dell’art.
112 del d.lgs. n. 267/2000, dove l’utilizzo del patrimonio
si fonda con la promozione dello sport, che unitamente
all’effetto socializzante ed aggregativo, diventa uno
strumento di miglioramento della qualità della vita a
beneficio non solo per la salute dei cittadini ma anche per
la vitalità sociale della comunità (es. culturale, di
sviluppo, turistico, di immagine del territorio, ecc.). Con
riferimento poi alla “natura” del bene, gli impianti
sportivi di proprietà comunale appartengono al patrimonio
indisponibile dell’ente, ai sensi dell’art. 826 del c.c.,
essendo destinati al soddisfacimento dell’interesse della
collettività allo svolgimento delle attività sportive.
Prima di individuare le differenti forme contrattuali da
utilizzare per l’affidamento in gestione di un impianto
sportivo alla luce del nuovo codice, come correttamente
fatto dall’ANAC nella delibera n. 1300 del 14.12.2016, a cui
si fa espresso rinvio, occorre comprendere la distinzione
tra servizi pubblici locali a rilevanza economica e privi di
rilevanza economica.
Ai fini della qualificazione di un servizio pubblico locale
sotto il profilo della rilevanza economica, occorre
verificare in concreto se l’attività da espletare presenti o
meno il connotato della “redditività”, anche solo in
via potenziale. Il servizio ha rilevanza economica quando da
quella attività, chi la gestisce, ha la possibilità
potenziale di coprire tutti i costi (la contribuzione a
copertura dei costi è indice di rilevanza economica ponendo
il servizio in una situazione di appetibilità per gli
operatori). Inoltre, per qualificare un servizio pubblico
come avente rilevanza economica o meno si deve prendere in
considerazione non solo la tipologia del servizio, ma anche
la soluzione organizzativa che l’ente locale, quando può
scegliere, sente più appropriata per rispondere alle
esigenze dei cittadini.
Al contrario, un servizio è privo di rilevanza economica
quando è strutturalmente antieconomico, perché
potenzialmente non remunerativo (il mercato privato non è in
grado o non è interessato a fornire quella prestazione).
Nel caso specifico la redditività di un impianto sportivo
deve essere valutata caso per caso, con riferimento ad
elementi quali, costi e modalità di gestione, tariffe per
l’utenza (libere o imposte), quote sociali, attività
praticate, oneri manutentivi, attività accessorie, obiettivi
della gestione sociale, e sulla base di un realistico piano
finanziario.
Pertanto fatta questa preliminare introduzione, si possono
individuare principalmente tre distinte modalità di
affidamento:
• per gli impianti con rilevanza economica mediante concessione di
servizi ai sensi degli artt. 164 e s.s. del codice ed in
quanto ricorrano gli elementi indicati dal legislatore per
la qualificazione della “concessione” (art. 3, co. 1,
lett. vv)) e s.s.);
• per la gestione di impianti sportivi privi di rilevanza economica
(art. 164, co. 3, del d.lgs. 50/2016) mediante appalto di
servizi, in quanto l’utilità finale non è resa ad una
popolazione indifferenziata, ma direttamente all’ente locale
e in assenza di rischio operativo;
• per l’uso associativo del bene privo di rilevanza economica,
mediante concessione amministrativa dell’impianto da
affidare sempre con procedura ad evidenza pubblica (impianti
di piccolissime dimensione dove non è ipotizzabile una
gestione economica del servizio).
Da ultimo si segnala che la via preferenziale di cui
all’art. 90 della l. 289/2002, normativa superata, può
essere operante solo come valorizzazione
dell’associazionismo in un contesto sociale e progettuale,
quale elemento di valutazione nell’offerta economicamente
più vantaggiosa (20.02.2019 - tratto da e link a
www.publika.it). |
APPALTI:
Misure per Antiriclaggio e prevenzione della corruzione: un
possibile collegamento?
Domanda
La nuova normativa in materia di antiriclaggio obbliga il
comune al collegamento con il sistema anticorruzione
dell’Ente e quindi all’introduzione di specifiche
disposizioni all’interno del PTPCT?
Risposta
Il 19.11.2018 sono state pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale
n. 269 le “istruzioni sulla comunicazione di dati e
informazioni concernenti le operazioni sospette da parte
degli uffici delle pubbliche amministrazioni”, del
23.04.2018, dell’Unità di Informazione Finanziaria per
l’Italia (UIF) istituita presso la Banca d’Italia.
Con esse sono state dettate specifiche linee guida per le
pubbliche amministrazioni, chiamate ad adottare le
necessarie procedure interne per l’attuazione delle misure
di antiriciclaggio. In particolare sono stati definiti
quegli specifici indicatori di anomalia nel contesto della
pubblica amministrazione, la cui mancanza aveva determinato,
fino ad oggi, le principali difficoltà nell’applicazione
della vigente normativa di settore, il d.lgs. 21.11.2007, n.
231.
Quest’ultimo, come di recente modificato dal d.lgs.
25.05.2017, n. 90, prevedeva infatti all’art. 10, comma 4,
che la UIF adottasse, al fine di consentire lo svolgimento
di analisi finanziarie mirate a far emergere fenomeni di
riciclaggio e di finanziamento del terrorismo, apposite
istruzioni recanti “i dati e le informazioni da
trasmettere, le modalità e i termini della relativa
comunicazione nonché gli indicatori per agevolare la
rilevazione delle operazioni sospette”.
Con l’entrata in vigore del decreto legislativo 90/2017, il
raggio di azione entro il quale le pubbliche amministrazioni
possono muoversi, effettuando i dovuti controlli e
l’eventuale comunicazione alla UIF, è stato circoscritto
alle specifiche aree di competenza richiamate all’art. 10,
comma 1, del d.lgs. 231/2017:
a) procedimenti finalizzati all’adozione di provvedimenti di
autorizzazione o concessione;
b) procedure di scelta del contraente per l’affidamento di lavori,
forniture e servizi secondo le disposizioni di cui al codice
dei contratti pubblici;
c) procedimenti di concessione ed erogazione di sovvenzioni,
contributi, sussidi, ausili finanziari, nonché attribuzioni
di vantaggi economici di qualunque genere a persone fisiche
ed enti pubblici e privati.
Con riferimento a ciascuno dei suddetti ambiti –che è bene
notare– coincidono perfettamente con i settori a maggior
rischio corruttivo individuati dalla legge “anticorruzione”
della legge Severino (legge 06.11.2012, n. 190), la UIF,
nelle proprie istruzioni, detta specifici indicatori di
anomalia connessi:
a) con l’identità o il comportamento del soggetto a cui è riferita
l’operazione;
b) con le modalità di esecuzione delle operazioni, e declinati per:
– il settore appalti e contratti pubblici
– il settore finanziamenti pubblici
– il settore immobili e commercio.
Le pubbliche amministrazioni, ai sensi dell’art. 10, comma
4, del decreto legislativo 231/2017, “nel quadro dei
programmi di formazione continua del personale realizzati in
attuazione dell’articolo 3 del decreto legislativo
01.12.2009, n. 178, adottano misure idonee ad assicurare il
riconoscimento, da parte dei propri dipendenti delle
fattispecie meritevoli di essere comunicate ai sensi del
presente articolo.”
Codifica di aree e procedimenti a rischio, individuazione di
un responsabile (qui antiriciclaggio, alias “gestore”),
formazione tecnica del personale, obbligo di comunicazioni
ad un’autorità centrale, indicatori di comportamenti
illeciti: sono tanti i punti di contatto che avvicinano la
normativa “antiriciclaggio” a quella dell’“anticorruzione”
della legge Severino.
Ciò fa, conseguentemente, propendere per una gestione ed un
coordinamento unitario degli adempimenti di legge, richiesti
dal legislatore nei due diversi ambiti; con la possibilità
di arricchire il piano di prevenzione della corruzione e
della trasparenza di una nuova sezione, i cui contenuti
potrebbero ben intrecciarsi ai principi del risk
assessment e risk management, sui quali muove
l’intero PTPCT.
Per rispondere al quesito, è bene rilevare, comunque, che
nessun obbligo di collegamento è previsto dalla legge,
essendo, quindi, lasciato all’ente la possibilità di
definire i confini e le modalità per l’effettuazione del
controllo sul riciclaggio e sul finanziamento al terrorismo.
Il legislatore non ha, peraltro, stabilito per le pubbliche
amministrazioni alcuna sanzione per mancata attuazione delle
disposizioni “antiriciclaggio”; è unicamente previsto
all’art. 10, comma 6, d.lgs. 231/2007, che l’inosservanza
delle norme assume rilievo ai fini dell’articolo 21, comma
1-bis, del d.lgs. 30.03.2001, n. 165, determinandosi
responsabilità dirigenziale con conseguente eventuale
decurtazione dell’indennità di risultato.
Per concludere, ciò che è valso e vale per l’applicazione
della legge “anticorruzione” vale per la materia
dell’“antiriciclaggio”: solo una forte volontà
politica degli organi di indirizzo e di governo delle
pubbliche amministrazioni –che, eventualmente, giochino
anche la carta delle complementarietà delle disposizioni
normative– può consentire una piena attuazione degli utili
strumenti messi a disposizione dal legislatore (19.02.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - VARI:
Body cam.
Domanda
È possibile utilizzare le cd “body cam” per il
servizio di Polizia locale?
Risposta
Negli ultimi anni lo sviluppo tecnologico permette a
chiunque di riprendere situazioni e registrare immagini con
estrema facilità. Le telecamere hanno dimensioni ridotte e
prestazioni elevate con costi ormai quasi irrisori.
Tra questi dispositivi ci sono le cd “body cam”: sono
dispositivi che si indossano sulla divisa e sono molto utili
nell’ambito della sicurezza, anche per l’effetto preventivo
e deterrente. Il soggetto che sa di essere ripreso, nella
maggior parte dei casi, modifica il proprio comportamento
affinché rientri in un ambito più “civile”. Si pensi
che le più evolute “body cam” consentono di
trasmettere i dati in tempo reale alla centrale operativa.
Insomma senza doversi addentrare troppo in questioni
tecniche, tali dispositivi hanno una estrema facilità d’uso
e prestazioni sia visive che di modalità di impiego che
possono essere definite utili in molteplici situazioni.
Per quanto riguarda i vincoli e le corrette procedure
amministrative per l’utilizzo da parte dei Comandi di
Polizia e dei singoli operatori di tali body cam, la
questione è incentrata sia sulla tutela dei soggetti
ripresi, sia sulla legittimità per gli operatori di polizia
stessi ad indossarle.
Sulla materia si è espresso il “Garante sulla privacy”
con parere del 31.07.2014, facendo rientrare l’ipotesi di
utilizzo di tali apparecchiature nell’art. 53 del D.lgs.
196/2003 (ora nel D.lgs. 51/2008).
Sulla scorta di tale indirizzo, si ritiene dunque che
l’utilizzo delle “body cam” debba essere disciplinato
dal regolamento comunale sulla videosorveglianza, che deve
prevedere al suo interno apposite disposizioni sull’uso di
tali dispositivi.
In tal senso il regolamento dovrà prevedere un responsabile
del trattamento e, conseguentemente, un provvedimento che
disciplini specificatamente l’utilizzo di tali dispositivi.
Tale provvedimento dovrà individuare le situazioni e le
circostanze di attivazione della “body cam” e i
soggetti che possono autorizzare l’avvio (non si esclude
possa essere l’operatore stesso). Altresì dovrà stabilire
quali siano i soggetti preposti a visionare le riprese ed
incaricati a prelevare e conservare i dati, nonché le
metodologie di conservazione e cancellazione.
È essenziale, infine, che delle operazioni di registrazione
e la conseguente acquisizione dei dati, ne sia dato
formalmente atto ai sensi degli artt. 348, 354 e 357 del
c.p.p., nel caso si tratti di fatti di rilievo penale. Nel
caso di accertamenti di natura amministrativa, allo stesso
modo, ne sarà dato atto con verbale ex art. 13 della L.
689/1981 (15.02.2019 - tratto da e link a
www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Tassazione pensioni complementari.
Domanda
Le pensioni complementari integrative dei dipendenti
pubblici sono tassate come quelle dei privati?
Risposta
Le regole in materia di previdenza complementare pagano il
conto di quella che dal punto di vista giuridico viene
definita dicotomia delle fonti del diritto.
La riforma Maroni del 2005 ha riscritto e novellato la
previdenza complementare con il d.lgs. 252/2005, tuttavia,
non essendo occorsa l’armonizzazione con il pubblico
impiego, dette regole non sono mai valse per i lavoratori
pubblici, ma soltanto per i lavoratori dipendenti di aziende
private. Questo almeno fino alla Legge di Bilancio del 2018
che ha introdotto dei correttivi e livellato alcune
differenze.
La disparità di trattamento tra lavoratori privati e
pubblici si faceva sentire in diversi ambiti: si pensi alla
diversa libertà di destinazione delle quote di TFR nella
modalità di finanziamento della previdenza complementare,
alle diverse regole di accesso alle prestazioni
pensionistiche (anticipazioni), al diverso limite di
deducibilità fiscale dei contributi versati a previdenza
complementare, e, in particolare, al diverso regime di
tassazione delle prestazioni previdenziali.
In questo ultimo caso, le differenze producevano una
disparità di trattamento al limite della legittimità
costituzionale.
In tema di tassazione delle prestazioni, le regole applicate
ai dipendenti pubblici erano quelle contenute nel d.lgs.
124/1993 che prevedevano l’assoggettamento a tassazione
progressiva (IRPEF a scaglioni).
Le pensioni complementari dei privati sono assoggettate, dal
2005, ad una tassazione a titolo di imposta del 15%, ridotta
di una quota pari allo 0,30% per ogni anno eccedente il 15°
di partecipazione a forme di previdenza complementare, fino
ad un massimo di 6 punti percentuali di riduzione.
La legge di Bilancio del 2018, al comma 156, fa valere anche
per i lavoratori pubblici, le regole in materia di
tassazione delle prestazioni, contenute nel d.lgs. 252/2005.
La riforma non ha coinvolto il passato e i montanti già
accumulati, ma solo il futuro, talché:
• posizione maturata dal 01/2018: assoggettate a una tassazione a
titolo d’imposta del 15% ridotta di una quota pari allo
0,30% per ogni anno eccedente il 15° di partecipazione a
forme di previdenza complementare, con il limite massimo del
6%.
• posizione maturata prima del 01/2018: assoggettate a tassazione
progressiva (14.02.2019 - tratto da e link a
www.publika.it). |
APPALTI:
Esclusione per gravi illeciti professionali.
Domanda
Il nostro ente sta appaltando un servizio ed attualmente è
in fase di ammissione/esclusione dei concorrenti; il seggio
di gara ha rilevato che un consigliere di amministrazione
dell’impresa si è reso responsabile di gravi illeciti
professionali diverso tempo fa ma, da notare, non
nell’attuale ruolo bensì quale rappresentante di un impresa
oramai cessata.
Secondo il seggio di gara –che ha trasmesso gli atti al RUP
per l’adozione dei provvedimenti– l’impresa dovrebbe essere
esclusa anche in base a quanto chiarito nelle linee guida
ANAC n. 6 che ritiene che i “gravi illeciti”
professionali non debbano solo riguarda l’appaltatore (o il
subappaltatore) ma anche i vari soggetti indicati nel comma
3 dell’articolo 80.
Che ne pensa? Secondo il RUP, in questo caso, si sta
estendendo l’interpretazione della disposizione del comma 5
e ciò non sarebbe corretto.
Risposta
La questione posta ha, oggettivamente, un certo rilievo
pratico anche alla luce del costante orientamento
giurisprudenziale che statuisce l’impossibilità da parte del
RUP (o se si preferisce da parte della stazione appaltante)
di estendere l’ambito applicativo delle cause di esclusione
(ora, semplificando, riconducibili in sostanza all’articolo
80 del codice dei contratti). In tema, pertanto, vige il
classico principio di tassatività.
L’articolo 80, come anche affermato da recente
giurisprudenza, presenta delle “declaratorie”
vincolati per la stazione appaltante (commi 1 e 2
dell’articolo) ed altre, si direbbe, “discrezionali”
ovvero che impongono una determinata attività istruttoria al
RUP.
Si richiama l’attività istruttoria del RUP in quanto
soggetto –come da giurisprudenza costante e da indicazioni
dei bandi tipo ANAC– deputato e competente ad adottare i
provvedimenti intermedi di ammissione ed esclusione (salvo
che nel bando non siano stati esplicitamente assegnati, tali
prerogative, ad altri soggetti ed in particolare al
dirigente/responsabile del servizio).
Il comma 5, ed in particolare la lett. c) ha, pertanto, un
ambito applicativo –anche nella sua nuova formulazione–
chiaramente delimitato all’appaltatore ed al subappaltatore
(si pensi al comma 7 della norma).
Il comma 3, che estende una serie di ipotesi inibenti la
partecipazione alla competizione di gara ad una serie di “soggetti”
deve intendersi riferito (con il correlato ambito
applicativo) alle sole ipotesi escludenti di cui ai commi 1
e 2 dell’articolo in commento e non anche al comma 5.
Pertanto, a sommesso parere, la posizione dubitativa
espressa dal RUP pare essere quella maggiormente corretta
rispetto alle “richieste/impostazione” del seggio di
gara.
In questo senso anche recente conferma del TRGA di Bolzano
con la sentenza n. 14/2019. La sentenza ha pregio e rilievo
anche perché ribadisce il contrasto tra le linee guida n. 6
dell’ANAC (che detta modelli virtuosi “applicativi/interpretativi”
in tema di gravi illeciti professionali) che non sono
vincolanti ma la cui interpretazione, ovvero il preteso
collegamento tra il comma 5 ed il comma 3 dell’articolo 80 è
stato ritenuto in contrasto con il dettato normativo (13.02.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
URBANISTICA: Diritto
di superficie. Estinzione. Conseguenze.
Se la costituzione del diritto di
superficie è stata fatta per un tempo determinato, allo
scadere del termine il diritto di superficie si estingue e
il proprietario del suolo acquista, a titolo originario, la
proprietà della costruzione edificata dal superficiario.
A questi, salvo diversa previsione nel titolo di concessione
del diritto, non spetta alcun indennizzo per l’opera
realizzata.
Il Comune, sentito anche per le vie brevi, chiede un parere
in merito alle possibili azioni da intraprendere a tutela
del proprio diritto di proprietà su un terreno oggetto di
diversi contratti di diritto di superficie a tempo
determinato, attesa l’intenzione dell’Ente di disporre
liberamente dello stesso.
Al fine di comprendere la fattispecie in riferimento risulta
necessario ripercorrere le tappe principali che hanno
caratterizzato l’area in oggetto e che di seguito si
sintetizzano:
- nell’anno 1979 il Comune stipulò un contratto di diritto di
superficie in favore di un privato di durata decennale,
oggetto di due rinnovi a distanza decennale l’uno dall’altro
e, pertanto, sino alla fine dell’anno 2008
[1]. Sulla base di
tali contratti il privato collocò sull’area in riferimento
una struttura prefabbricata utilizzata “a punto di sosta
e ristoro per gli escursionisti di montagna”;
- nell’anno 2009 il Comune stipulò con altro soggetto un contratto
avente ad oggetto la medesima area denominato “contratto
di diritto di superficie” e avente durata novennale
[2].
Attesa l’avvenuta estinzione dell’ultimo contratto stipulato
dall’Ente, questi intenderebbe rientrare nella piena
proprietà del fondo sul quale grava tuttora il manufatto
prefabbricato installato “nei primi anni ottanta”.
In via preliminare si osserva che i contratti stipulati
dall’Ente, consistenti nella costituzione di un diritto di
superficie sull’area di proprietà comunale, trovano la loro
norma di riferimento nell’articolo 952 del codice civile il
quale recita: “Il proprietario può costituire il diritto
di fare e mantenere al disopra del suolo una costruzione a
favore di altri, che ne acquista la proprietà.
Del pari può alienare la proprietà della costruzione già
esistente, separatamente dalla proprietà del suolo”.
Il successivo articolo 953 stabilisce, poi, che: “Se la
costituzione del diritto è stata fatta per un tempo
determinato, allo scadere del termine il diritto di
superficie si estingue e il proprietario del suolo diventa
proprietario della costruzione”.
Dal tenore letterale dell’articolo 952 cod. civ. la dottrina
ha individuato due differenti situazioni: di diritto di
superficie, inteso come ius aedificandi, nel caso in
cui il superficiario acquisisca il diritto di costruire e
mantenere sul suolo la proprietà di un edificio, e di
diritto di proprietà superficiaria nel caso di alienazione
da parte del concedente di una costruzione già esistente
separatamente dalla proprietà del suolo.
Quanto al disposto di cui all’articolo 953 cod. civ. esso
comporta che, come nel caso in esame, il decorso del termine
di durata comporta l’estinzione del diritto di superficie: “ne
consegue che riprende vigore il principio dell’accessione,
con conseguente acquisto automatico della proprietà a favore
del titolare del fondo” [3].
Da quanto sopra segue che l’originario contratto stipulato
dall’Ente rientra nella prima tipologia contrattuale
descritta all’articolo 952 cod. civ. atteso che lo stesso ha
comportato la costituzione di uno ius aedificandi in
favore del privato.
Tale diritto di superficie si è sicuramente estinto in data
31.12.2008 e, in conformità a quanto disposto dall’articolo
953 cod. civ., il Comune è conseguentemente rientrato nella
piena proprietà dell’area e dell’immobile sulla stessa
insistente. A tale riguardo si precisa che: “Il venire
meno del diritto di superficie, per decorso del termine
contrattualmente previsto, costituisce acquisto a titolo
originario, ai sensi dell'art. 953 c.c., della proprietà del
fabbricato edificato sul suolo oggetto del diritto di
superficie. La richiamata norma codicistica prevede,
infatti, che, se la costituzione del diritto di superficie è
stata fatta per un tempo determinato, alla scadenza del
termine il diritto si estingue e il proprietario del suolo
diventa proprietario della costruzione. L'acquisto della
proprietà del fabbricato edificato sul suolo oggetto di
concessione avviene così a titolo originario, in virtù degli
effetti del contratto, avente causa lecita di costituzione
del diritto di superficie, a suo tempo stipulato, e non per
l'atto ricognitivo degli effetti di tale contratto alla
scadenza dello stesso.” [4].
Dall’analisi dell’articolo 953 cod civ. in commento si deve
altresì precisare che l’estinzione del diritto di superficie
per decorso del termine, salvo diversa previsione nel titolo
di concessione del diritto –che nel caso di specie risulta
mancare– non comporta legalmente alcun obbligo di indennizzo
a favore del superficiario. In questo senso è la dottrina
dominante la quale ritiene che “nel silenzio della legge,
[…] il corrispettivo sia dovuto solo se pattuito
espressamente” [5].
Anche la giurisprudenza ha affermato che: “In materia di
diritto di superficie a tempo determinato […] se non è
consentito all'autonomia negoziale delle parti derogare agli
effetti dell'accessione automatica che si determina all'atto
di estinzione del diritto, è invece consentito provvedere
convenzionalmente circa il carattere di gratuità o meno
della devoluzione prevista dall'art. 953 c.c., nonché circa
l'attribuzione delle spese richieste dalla demolizione della
costruzione e circa la configurazione di un diritto del
superficiario sui materiali da costruzione quale ius ad rem
o mero diritto di credito, e non quale espressione di uno
ius in re non più esistente” [6].
Né è possibile fare ricorso alle disposizioni di cui agli
articoli 934 e seguenti del cod. civ. che si propongono
essenzialmente di regolare i conflitti di interessi relativi
alla proprietà delle opere edificate su fondo altrui e, tra
queste, in particolare, l’articolo 936 cod. civ.
[7]
relativo alle “opere fatte da un terzo con materiali
propri” stante l’assenza del carattere di terzietà del
superficiario rispetto al proprietario del fondo.
Come affermato da consolidata giurisprudenza, infatti, “l’art.
936 c.c., può trovare applicazione solo quando l’autore
delle opere sia realmente terzo rispetto al proprietario del
suolo; non sia cioè legato a lui, né ad altri a cui il
proprietario abbia concesso il godimento del fondo, da alcun
rapporto negoziale che gli abbia attribuito il diritto di
costruire” [8].
Nel ribadire che l’articolo 953 cod. civ. non prevede un
corrispettivo da parte del proprietario del suolo in favore
del superficiario per l’acquisto della proprietà della
costruzione segue che il Comune, rientrato nella piena
proprietà dell’area e acquisita a titolo originario anche
quella del manufatto sulla stessa insistente, non debba
versare alcun indennizzo al superficiario in mancanza, come
già rilevato, di una specifica previsione contrattuale sul
punto.
Per completezza espositiva si segnala peraltro
l’orientamento di certa dottrina, di carattere minoritario,
la quale ritiene che “laddove la superficie sia
costituita a titolo oneroso, al superficiario possa essere
riconosciuta, anche nel silenzio del titolo, una indennità,
per evitare un ingiustificato arricchimento del proprietario”
[9].
Sulla scorta di tale dottrina potrebbe porsi la questione
della debenza da parte dell’Ente in favore del soggetto che
ha realizzato/posizionato la struttura prefabbricata
sull’area in riferimento di un indennizzo a titolo di
indebito arricchimento. Al riguardo, tuttavia, analizzando
le diverse scadenze dei contratti stipulati dal Comune si
ritiene che siano comunque decorsi i termini per la
proposizione dell’azione di indebito arricchimento nei
confronti dell’Ente.[10] Infatti, anche considerando solo la
scadenza dell’ultimo contratto stipulato dal Comune con il “costruttore”
del manufatto immobiliare, termine fissato al 31.12.2008,
l’eventuale azione di indebito arricchimento si sarebbe
prescritta in data 31.12.2018. [11]
Alla luce di quanto sopra affermato il Comune, quale
soggetto proprietario dell’area e del manufatto sulla stessa
esistente, potrà liberamente disporre degli stessi,
eventualmente richiedendo la restituzione delle chiavi o
quant’altro necessario per il concreto utilizzo della
struttura prefabbricata.
In caso di esito infruttuoso di un tanto, stante la
situazione conflittuale che si genererebbe, sarebbe cura del
legale eventualmente interpellato dall’Ente individuare le
specifiche azioni giudiziarie da intraprendere a tutela
della proprietà.
---------------
[1] Per precisione il contratto originario aveva scadenza
al 31.12.1988; il primo rinnovo ha comportato la fissazione
della scadenza contrattuale al 31.12.1998 e il secondo
rinnovo al 31.12.2008.
[2] Per precisione tale contratto aveva decorrenza dal
01.03.2009 e scadenza al 28.02.2018.
[3] P. Gallo, “Il diritto di superficie”, Notiziario
giuridico telematico, reperibile sul seguente sito internet:
www.notiziariogiuridico.it.
[4] Comm. trib. regionale Emilia-Romagna, Bologna, sez. XIII,
pronuncia del 25.01.2016.
[5] R. Caterina, Commentario del codice civile, Della
proprietà, a cura di A. Jannarelli e F. Macario, Utet
giuridica, 2012. Nello stesso senso, M. Iaselli,
“Superficie”, in AltalexPedia, voce agg. al 21.07.2017; F.
Melone, “Il diritto di superfice a tempo determinato ex artt.
952 e 953 del codice civile”, in
www.ildirittoamministrativo.it
[6] Cassazione civile, sez. I, sentenza del 27.02.1980, n.
1369.
[7] L’articolo 936 cod. civ. recita: “Quando le piantagioni,
costruzioni od opere sono state fatte da un terzo con suoi
materiali, il proprietario del fondo ha diritto di ritenerle
o di obbligare colui che le ha fatte a levarle.
Se il proprietario preferisce di ritenerle, deve pagare a
sua scelta il valore dei materiali e il prezzo della mano
d'opera oppure l'aumento di valore recato al fondo.
Se il proprietario del fondo domanda che siano tolte, esse
devono togliersi a spese di colui che le ha fatte. Questi
può inoltre essere condannato al risarcimento dei danni.
Il proprietario non può obbligare il terzo a togliere le
piantagioni, costruzioni od opere, quando sono state fatte a
sua scienza e senza opposizione o quando sono state fatte
dal terzo in buona fede.
La rimozione non può essere domandata trascorsi sei mesi dal
giorno in cui il proprietario ha avuto notizia
dell'incorporazione”.
[8] Cassazione civile, sez. III, sentenza del 28.05.2009, n.
12550. Nello stesso senso, tra le altre, Cassazione civile,
sez. II, sentenza del 29.01.1997, n. 895 e Cassazione
civile, sentenza n. 1369/1980 citata in nota 6.
[9] R. Caterina, Commentario del codice civile, citata in
nota 5.
[10] Al riguardo si ricorda che l’azione di arricchimento
ingiustificato è sottoposta all’ordinario termine di
prescrizione decennale di cui all’articolo 2946 cod. civ.,
che, ai sensi dell’articolo 2935 cod. civ., inizia a
decorrere dal giorno in cui può essere fatto valere il
diritto alla ripetizione. Il dies a quo, pertanto, decorre
dal momento in cui una parte si è impoverita mentre l’altra
si è arricchita: nel nostro caso tale momento coinciderebbe
con l’acquisto a titolo originario della proprietà del
fabbricato da parte del Comune.
[11] Sempre che non siano intervenute cause interruttive
della prescrizione. Al riguardo si ricorda che ai sensi
dell’articolo 2943 cod. civ: “La prescrizione è interrotta
dalla notificazione dell'atto con il quale si inizia un
giudizio, sia questo di cognizione ovvero conservativo o
esecutivo.
È pure interrotta dalla domanda proposta nel corso di un
giudizio.
[…]
La prescrizione è inoltre interrotta da ogni altro atto che
valga a costituire in mora il debitore […]”.
Il successivo articolo 2944 cod. civ. recita, poi, che: “La
prescrizione è interrotta dal riconoscimento del diritto da
parte di colui contro il quale il diritto stesso può essere
fatto valere” (06.02.2019 -
link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
PATRIMONIO: Oggetto:
Quesito in merito ai requisiti professionali dei dirigenti
preposti agli uffici di protezione civile comunali
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della
Protezione Civile,
nota 25.01.2019 n. 4329 di prot.). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Conflitto
di interessi di un amministratore locale.
1) Le cause di incompatibilità o
ineleggibilità che possono investire gli amministratori
locali incidono direttamente sul diritto di elettorato
passivo, tutelato dall’art. 51 della Costituzione; segue che
le norme che introducono cause ostative all’espletamento del
mandato elettivo sono di stretta interpretazione, e non è
ammessa l’interpretazione analogica delle stesse.
2) La disposizione di cui all’articolo 78 TUEL, secondo la quale
l’amministratore locale non deve prendere parte alla
discussione e alla votazione delle deliberazioni in cui lo
stesso ha un interesse proprio (o di parenti o affini sino
al quarto grado), è espressione di un obbligo generale di
astensione dei membri di collegi amministrativi che vengano
a trovarsi in posizione di conflitto di interessi in quanto
portatori di interessi personali, diretti o indiretti, in
contrasto potenziale con quello pubblico. Con riferimento
specifico all’approvazione dei provvedimenti normativi o di
carattere generale la norma ha disciplinato l’obbligo di
astensione in modo tale che la sua violazione possa
verificarsi solo in presenza di un interesse immediato,
diretto e specifico dell’amministratore (o dei suoi parenti
o affini) e non di un interesse genericamente non definito.
Il Comune, sentito anche per le vie brevi, chiede un parere
in merito alla posizione rivestita da un assessore comunale,
che ha svolto l’attività di revisore dei conti presso un
consorzio partecipato dall’Ente medesimo, sotto il profilo
dell’esistenza di possibili cause di incompatibilità o di
conflitto di interessi per lo stesso.
In particolare, premesso che il soggetto in riferimento è
stato eletto consigliere comunale nel giugno 2017 e ha
cessato di essere revisore del consorzio a luglio 2018,
atteso che il Comune ha approvato nel mese di ottobre 2018
il bilancio consolidato con i bilanci dei propri organismi
ed enti strumentali e delle società controllate e
partecipate relativo all’esercizio 2017 [1],
nel cui novero è compreso il consorzio nel quale lo stesso
ha prestato l’attività di revisore, l’Ente desidera sapere
se, sul presupposto dell’eventuale esistenza di una qualche
forma di incompatibilità/conflitto di interessi in capo
all’amministratore locale, la delibera consiliare di cui
sopra (cfr. delibera di ottobre 2018) possa risultare
affetta da qualche vizio di legittimità.
Sentito il Servizio finanza locale, con riferimento alla
fattispecie in esame, si formulano le seguenti
considerazioni giuridiche generali.
In primis, pare che per il soggetto di cui si discute
non venga in rilevo alcuna causa di incompatibilità prevista
dalla legge: ciò sia dal punto di vista della carica di
amministratore locale sia sotto quello dell’aver svolto
l’attività di revisore dei conti per il consorzio.
In particolare, si ricorda come un esame delle eventuali
cause di incompatibilità o ineleggibilità che possono
investire gli amministratori locali deve essere effettuato
in chiave di stretta interpretazione, rifuggendo da
qualsiasi tipo di estensione analogica delle stesse, atteso
che le cause ostative all’espletamento del mandato elettivo
incidono direttamente sul diritto di elettorato passivo,
alla luce della riserva di legge in materia posta
dall’articolo 51 della Costituzione.
Premesso un tanto, sotto il primo profilo pare non ricorrano
i presupposti per l’applicazione di alcuna delle fattispecie
indicate all’articolo 63 del decreto legislativo 18.08.2000,
n. 267 [2].
Tra queste si cita, escludendosene l’applicazione, quella di
cui al comma 1, num. 3), secondo la quale non può ricoprire
la carica di consigliere comunale “il consulente legale,
amministrativo e tecnico che presta opera in modo
continuativo in favore delle imprese di cui ai numeri 1) e
2) del presente comma” (l’impresa nel caso di specie
sarebbe rappresentata dal consorzio).
Come rilevato dal Ministero dell’Interno in un proprio
parere [3]
che affrontava una questione analoga a quella in esame
[4], non
si può infatti qualificare l’organo di revisione quale
consulente amministrativo o tecnico del consorzio.
Ad analoghe conclusioni si perviene analizzando la posizione
del soggetto in riferimento sotto il profilo dell’incarico
di revisore dei conti del consorzio. Al riguardo la norma da
prendere astrattamente in esame è l’articolo 236 del TUEL
[5] ai
sensi del quale: “1. Valgono per i revisori le ipotesi di
incompatibilità di cui al primo comma dell'articolo 2399 del
codice civile [6],
intendendosi per amministratori i componenti dell'organo
esecutivo dell'ente locale.
2. L'incarico di revisione economico-finanziaria non può
essere esercitato dai componenti degli organi dell'ente
locale e da coloro che hanno ricoperto tale incarico nel
biennio precedente alla nomina, dal segretario e dai
dipendenti dell'ente locale presso cui deve essere nominato
l'organo di revisione economico-finanziaria e dai dipendenti
delle regioni, delle province, delle città metropolitane,
delle comunità montane e delle unioni di comuni
relativamente agli enti locali compresi nella circoscrizione
territoriale di competenza.
3. Omissis”.
In particolare non ricorrono i presupposti per
l’applicazione del comma 1 del citato articolo 236 TUEL
[7],
mancando il requisito del controllo tra consorzio e comune
richiesto dall’articolo 2399, primo comma, lett. b), cod.
civ. ivi richiamato [8].
Quanto all’ulteriore questione afferente la legittimità o
meno della delibera assunta dal consiglio comunale, con la
partecipazione del consigliere in argomento, avente ad
oggetto l’approvazione del bilancio consolidato dell’ente
con i bilanci dei propri organismi ed enti strumentali e
delle società controllate e partecipate, in via preliminare
si ricorda che non compete a questo Ufficio esprimersi in
merito alla legittimità degli atti degli enti locali, stante
l’avvenuta soppressione del regime dei controlli ad opera
della riforma costituzionale n. 3/2001.
Pur tuttavia, di seguito si effettuano una serie di
valutazioni giuridiche sulla tematica in riferimento che si
ritiene possano essere di utilità all’Ente che ha posto il
quesito.
In particolare la norma da prendere in considerazione è
l’articolo 78, comma 2, TUEL il quale recita: “Gli
amministratori di cui all'articolo 77, comma 2, devono
astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla
votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro
parenti o affini sino al quarto grado. L'obbligo di
astensione non si applica ai provvedimenti normativi o di
carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei
casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta
fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi
dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto
grado”.
Alla luce delle considerazioni in appresso indicate pare che
nel caso di specie manchino le condizioni per ritenere
sussistente l’obbligo di astensione del consigliere comunale
in relazione all’approvazione della predetta delibera.
In via generale si ricorda che la giurisprudenza
[9] ha più
volte affermato che la norma in commento è espressione di un
obbligo generale di astensione dei membri di collegi
amministrativi che vengano a trovarsi in posizione di
conflitto di interessi in quanto portatori di interessi
personali, diretti o indiretti, in contrasto potenziale con
quello pubblico.
Con riferimento specifico all’approvazione dei provvedimenti
normativi o di carattere generale, al cui interno deve
ricondursi anche la fattispecie in esame, la norma ha
disciplinato l’obbligo di astensione in modo tale che la sua
violazione possa verificarsi solo in presenza di un
interesse immediato, diretto e specifico dell’amministratore
(o dei suoi parenti o affini) e non di un interesse
genericamente non definito.
Quanto alla delibera di approvazione del bilancio
consolidato con i bilanci dei propri organismi ed enti
strumentali e delle società controllate e partecipate,
assunta dal consiglio comunale, si rileva che esso, ai sensi
del principio applicato n. 4/4 di cui al decreto legislativo
23.06.2011, n. 118, consiste in “un documento contabile a
carattere consuntivo che rappresenta il risultato economico,
patrimoniale e finanziario del «gruppo amministrazione
pubblica» […]. Il bilancio consolidato è quindi lo strumento
informativo primario di dati patrimoniali, economici e
finanziari del gruppo inteso come un’unica entità economica
distinta dalle singole società e/o enti componenti il
gruppo, che assolve a funzioni essenziali di informazione,
sia interna che esterna, funzioni che non possono essere
assolte dai bilanci separati degli enti e/o società
componenti il gruppo né da una loro semplice aggregazione”.
Il Servizio finanza locale sull’argomento ha precisato come
trattasi di un documento che consiste principalmente in un “assemblaggio”
tecnico di bilanci di esercizio singolarmente approvati ed
opportunamente adattati secondo regole tecniche precise per
permetterne il consolidamento.
Attesa la natura del bilancio consolidato in uno con le
funzioni ad esso proprie [10],
considerato il fatto che il bilancio consolidato viene
redatto sulla base dei documenti contabili trasmessi dagli
enti partecipati, i quali costituiscono documenti “perfetti”
nel senso che si tratta di atti già approvati nelle
rispettive sedi (per quel che rileva in questa sede,
approvati dagli organi competenti del consorzio), produttivi
di effetti e non impugnabili dagli amministratori dell’ente
capogruppo (il Comune), parrebbe seguire l’inesistenza di un
interesse immediato e diretto del consigliere comunale con
riferimento all’approvazione della delibera in argomento.
---------------
[1] L’approvazione consiliare, pertanto, benché
intervenuta quando il consigliere comunale non era più
revisore dei conti del consorzio, afferiva, tuttavia, a
documenti contabili del consorzio sui quali lo stesso aveva
svolto la sua attività di revisore dei conti.
[2] Né di quelle contenute all’articolo 60 TUEL le quali
benché volte a individuare specifiche ipotesi di
ineleggibilità, qualora sopraggiungano nel corso del mandato
trovano applicazione in forza dell’estensione contenuta
all’articolo 63, comma 1, num. 7) TUEL.
[3] Ministero dell’Interno, parere del 25.05.2010.
[4] Si trattava di un componente dei revisori dei conti di
un consorzio tra comuni eletto consigliere comunale in uno
degli enti locali facenti parte del consorzio.
[5] Tale norma si applica al consorzio in forza del rinvio
contenuto all’articolo 2, comma 2, TUEL il quale recita: “Le
norme sugli enti locali previste dal presente testo unico si
applicano, altresì, salvo diverse disposizioni, ai consorzi
cui partecipano enti locali, con esclusione di quelli che
gestiscono attività aventi rilevanza economica ed
imprenditoriale e, ove previsto dallo statuto, dei consorzi
per la gestione dei servizi sociali”. Peraltro si ricorda
che l’articolo 24 (Disciplina in materia di revisione
economico-finanziaria degli enti locali) della legge
regionale 17.07.2015, n. 18 stabilisce che: “In materia di
revisione economico-finanziaria degli enti locali si applica
la normativa statale, salvo quanto previsto dalla legge
regionale”.
[6] L’articolo 2399, primo comma, del cod. civ. recita: “Non
possono essere eletti alla carica di sindaco e, se eletti,
decadono dall'ufficio:
a) omissis;
b) il coniuge, i parenti e gli affini entro il quarto grado degli
amministratori della società, gli amministratori, il
coniuge, i parenti e gli affini entro il quarto grado degli
amministratori delle società da questa controllate, delle
società che la controllano e di quelle sottoposte a comune
controllo;
c) omissis”.
[7] Non si prende, invece, in esame la fattispecie
contemplata al comma 2 dell’articolo 236 TUEL nella parte in
cui sancisce che l’incarico di revisione
economico-finanziaria non possa essere esercitato dai
componenti degli organi dell’ente locale atteso che essa
introduce una causa di incompatibilità per il revisore
contabile che sia amministratore nel medesimo ente
(consorzio) nel quale esercita il proprio mandato elettivo.
[8] La relazione di controllo tra Comune e consorzio
andrebbe, infatti, valutata alla luce dell’articolo 2359 del
cod. civ. il quale stabilisce che: “Sono considerate società
controllate:
1) le società in cui un'altra società dispone della maggioranza dei
voti esercitabili nell'assemblea ordinaria;
2) le società in cui un'altra società dispone di voti sufficienti
per esercitare un'influenza dominante nell'assemblea
ordinaria;
3) le società che sono sotto influenza dominante di un'altra
società in virtù di particolari vincoli contrattuali con
essa”.
[9] Tra le altre, TAR Piemonte, Torino, sez. I, sentenza del
24.10.2014, n. 1623; Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza
del 28.01.2011, n. 693.
[10] A tal riguardo, il punto 1 dell’Allegato 4/4 al D.Lgs.
118/2011 stabilisce che il bilancio consolidato deve
consentire di: “a) sopperire alle carenze informative e
valutative dei bilanci degli enti che perseguono le proprie
funzioni anche attraverso enti strumentali e detengono
rilevanti partecipazioni in società […]; b) attribuire alla
amministrazione capogruppo un nuovo strumento per
programmare, gestire e controllare con maggiore efficacia il
proprio gruppo comprensivo di enti e società; c) ottenere
una visione completa delle consistenze patrimoniali e
finanziarie di un gruppo di enti e società che fa capo ad
un'amministrazione pubblica, incluso il risultato economico”
(25.01.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI:
Partecipazione alla gara pubblica di impressa in concordato
con continuità aziendale.
---------------
●
Contratti della Pubblica amministrazione – Requisiti di
partecipazione – Capacità finanziaria – Art. 84, d.lgs. n.
50 del 2016 - Epoca della gara – Individuazione.
●
Contratti della
Pubblica amministrazione – Raggruppamento temporaneo di
imprese – Inversione dei ruoli di mandante e mandataria –
Art. 48, d.lgs. n. 50 del 2016 – Limiti.
●
Contratti della
Pubblica amministrazione – Raggruppamento temporaneo di
imprese – Impresa in concordato con continuità aziendale –
Mandataria – Esclusione.
●
Contratti della Pubblica amministrazione – Gara –
Partecipazione – Ricorso per ammissione a concordato –
Partecipazione a gara pubblica – Limiti.
●
L’art. 84, d.lgs.
n. 50 del 2016 là dove, come requisito speciale di capacità
finanziaria, consente, negli appalti di valore superiore ai
20 milioni di euro, di richiedere ai concorrenti di fornire
parametri economico-finanziari significativi certificati da
società di revisione e che attestino l’esposizione
finanziaria all’”epoca della gara”, è compatibile con una
clausola del disciplinare che richiede al concorrente di
documentare un patrimonio netto positivo risultante
dall’ultimo bilancio approvato secondo la normativa vigente;
in tal caso “l’epoca della gara” da prendere in
considerazione deve considerare i tempi e modi previsti dal
codice civile e dalla statuto per l’approvazione del
bilancio e non coincide con il “giorno” di presentazione
della domanda di partecipazione in gara (1).
●
La
possibilità, per i concorrenti in Raggruppamento temporaneo
di imprese, di modificare la propria composizione per
ragioni organizzative prevista dall’art. 48, d.lgs. n. 50
del 2016, non legittima una inversione dei ruoli di mandante
e mandataria posta in essere al solo e dichiarato scopo di
evitare la dichiarazione di anomalia dell’offerta; in tal
caso si tratterebbe di una modifica sostanziale dell’offerta
finalizzata ad eludere la sanzione espulsiva (2).
●
L’art. 186-bis, comma 7, legge fallimentare (r.d. n. 267 del
1942) vieta all’impresa in concordato con continuità
aziendale di assumere il ruolo di mandataria di
Raggruppamento temporaneo di imprese (2).
●
L’art. 186-bis della legge fallimentare (r.d. n. 267 del
1942), là dove consente che, anche dopo la presentazione di
un ricorso per ammissione al concordato, una impresa possa
essere autorizzata dal Tribunale fallimentare a partecipare
ad una gara di appalto, deve essere coordinato
sistematicamente con la disciplina dell’evidenza pubblica;
la partecipazione dell’impresa non deve andare a discapito
delle regole dell’evidenza pubblica; la posizione di impresa
che ha formulato istanza di “concordato in bianco”
(suscettibile di evolvere tanto in concordato di continuità
che liquidatorio), il quale necessita di significativi tempi
di legge per la sua definizione, è incompatibile con la fase
di aggiudicazione di una gara pubblica; il concorrente, in
tale fase, deve essere in grado, negli ordinari termini di
legge di 60 giorni dall’aggiudicazione, di presentare la
documentazione prevista dall’art. 186 bis ai fini della
stipulazione del contratto e di prestare le necessarie
garanzie (2).
---------------
(1) L’art. 84 consente alla stazione appaltante due alternative: o
la richiesta di dati economico-finanziari significativi e
certificati, ovvero la dimostrazione di una cifra di affari
realizzata nei migliori cinque anni sugli ultimi dieci.
Si tratta, come ovvio vista la ratio della disposizione, di
dati che, proprio perché devono essere “significativi”,
non possono certo essere interpretati quali valori una
tantum, che la parte può fare in modo di esibire “all’epoca
in cui partecipa alla gara” intesa, secondo parte
ricorrente, come il momento specifico di presentazione della
domanda; è fin troppo ovvio come i dati civilistici di
bilancio siano ampiamente suscettibili di oscillazione nel
tempo in base a scelte anche di corto respiro della
governance societaria, ma non per questo diventino tutti
espressione di un “parametro economico-finanziario
significativo”, cui invece si riferisce il senso della
previsione di legge.
Il bilancio è espressione di un dato significativo non in
quanto fotografa il risultato di un singolo giorno o viene
redatto in momenti a scelta dell’interessato, ma in quanto,
rispettoso delle scadenze di legge (art. 2364 c.c.) e delle
previsioni dello statuto che la società non può scegliere di
volta in volta di adattare, fotografa un andamento annuale,
e dunque significativo nel tempo; esso deve evidenziare una
attività economica che, nel complesso ed in un certo arco di
tempo ha prodotto risultati positivi e non una scelta una
tantum funzionale allo specifico obiettivo di consentire la
partecipazione alla gara. Peraltro la legge pone quale
requisito alternativamente idoneo a valutare la solidità
economico-finanziaria di un concorrente la cifra di affari “per
cinque anni” su un arco temporale di dieci, anche in tal
caso evocando dati sintomatici di una certa continuità.
In questo contesto l’espressione “all’epoca in cui
partecipa alla gara” riferita ai dati
economico-finanziari, non può che essere intesa nel senso
che il dato deve essere espresso da valori di bilancio i
quali, seguendo a loro volta la normativa di riferimento,
risultino coevi al periodo della gara; a tal proposito non
può quindi che farsi riferimento all’ultimo bilancio
approvato secondo le cadenze di legge e di statuto. Né vale
obiettare che ciò escluderebbe i concorrenti costituitisi
nello stesso anno della gara, posto che la normativa
contempla ampiamente l’avvalimento di garanzie.
(2) Ai sensi dell’art. 186-bis, r.d. n. 267/1942: “L'ammissione
al concordato preventivo non impedisce la partecipazione a
procedure di assegnazione di contratti pubblici, quando
l'impresa presenta in gara… una relazione di un
professionista in possesso dei requisiti di cui all'articolo
67, terzo comma, lettera d), che attesta la conformità al
piano e la ragionevole capacità di adempimento del
contratto…., l'impresa in concordato può concorrere anche
riunita in raggruppamento temporaneo di imprese, purché non
rivesta la qualità di mandataria e sempre che le altre
imprese aderenti al raggruppamento non siano assoggettate ad
una procedura concorsuale.”
Ai sensi dell’art. 110, comma 5, d.lgs. n. 50 del 2016, “L'ANAC,
sentito il giudice delegato, può subordinare la
partecipazione, l'affidamento di subappalti e la
stipulazione dei relativi contratti alla necessità che il
curatore o l'impresa in concordato si avvalgano di un altro
operatore in possesso dei requisiti di carattere generale,
di capacità finanziaria, tecnica, economica, nonché di
certificazione, richiesti per l'affidamento dell'appalto,
che si impegni nei confronti dell'impresa concorrente e
della stazione appaltante a mettere a disposizione, per la
durata del contratto, le risorse necessarie all'esecuzione
dell'appalto e a subentrare all'impresa ausiliata nel caso
in cui questa nel corso della gara, ovvero dopo la
stipulazione del contratto, non sia per qualsiasi ragione
più in grado di dare regolare esecuzione all'appalto o alla
concessione, nei seguenti casi: a) se l'impresa non è in
regola con i pagamenti delle retribuzioni dei dipendenti e
dei versamenti dei contributi previdenziali e assistenziali;
b) se l'impresa non è in possesso dei requisiti aggiuntivi
che l'ANAC individua con apposite linee guida.”
Non vi è ragione alcuna, pur in assenza di un esplicito
coordinamento dell’art. 186-bis della l. fallimentare con il
nuovo codice dei contratti pubblici, per ritenere
implicitamente abrogato il divieto, del quale non sussiste,
oltre ad alcuna abrogazione esplicita, neppure alcuna
oggettiva incompatibilità con il nuovo codice.
Onde fugare ogni dubbio sul significato dell’art. 186-bis
l.f, basti ricordare, da ultimo, Cass. SU n. 33013/2018 (la
sentenza menziona il coordinamento tra il d.lgs. n. 163/2006
e l’art. 186-bis della legge fallimentare; con il d.lgs. n.
50 del 2016, tuttavia, non vi sono, come detto, novità
significative) secondo cui: “Nel caso di specie, il
d.lgs. n. 50 del 2016, art. 80 (Codice dei contratti
pubblici) richiede, per l'accesso alle procedure ad evidenza
pubblica, la necessaria sussistenza di una serie di
requisiti i quali, secondo una consolidata giurisprudenza
del Consiglio di Stato, (Ad. Plen. sent. n. 8 del 2015),
devono essere posseduti dai candidati non solo alla data di
scadenza del termine per la presentazione della richiesta di
partecipazione alla procedura di affidamento, ma anche per
tutta la durata della procedura stessa fino
all'aggiudicazione definitiva e alla stipula del contratto,
nonché per tutto il periodo di esecuzione dello stesso,
senza soluzione di continuità.
Alla luce di questa premessa sistematica, si deve procedere
ad una lettura coordinata del d.lgs. n. 163 del 2006, art.
38, comma 1, lett. a) (citato in motivazione dal Consiglio
di Stato), e dell'art. 186-bis, comma 6 l.fall. dalla quale
emerge che le stazioni appaltanti escludono dalla
partecipazione alla procedura d'appalto un operatore
economico che si trovi in stato di fallimento, di
liquidazione coatta, concordato preventivo, salvo il caso di
concordato con continuità aziendale (cfr. d.lgs. n. 163 del
2006, art. 38, comma 1, lett. a); art. 186-bis, comma 5,
l.fall.); tuttavia la regola, secondo la quale i soggetti in
concordato in continuità possono partecipare a procedure di
assegnazione, non si applica nel caso in cui l'impresa in
concordato sia la mandataria in raggruppamento temporaneo di
imprese.
In tale ipotesi, opera l'esclusione dalle procedure
concorsuali per carenza dei requisiti soggettivi richiesti
dalla norma. L'applicazione di tali norme, di stretta
interpretazione legislativa, esclude addirittura il potere
discrezionale in capo alla p.a., fondandosi sul divieto
imposto ex lege, dettato in virtù d.lgs. n. 163 del 2006,
citato art. 38 e art. 186-bis, comma 6, l.fall..”.
La ratio dell’esclusione per il caso della specifica
posizione di mandataria della società in concordato si
comprende agevolmente: nell’economia di un’ATI la mandataria
è il punto di riferimento ineludibile della stazione
appaltante e deve garantire la corretta esecuzione
dell’appalto anche per le mandanti; la società in concordato
con continuità aziendale (sempre ammesso e non concesso che
a tale condizione sia assimilabile la posizione di Astaldi)
è una società che, ex lege, per concorrere alle gare
necessita di specifiche attestazioni di ragionevole capacità
di adempimento del contratto in proprio e può, a determinate
condizioni, anche essere obbligata a farsi garantire da un
altro operatore; in mancanza del divieto si verificherebbe
il paradosso che l’impresa che per legge necessita di essere
garantita da terzi, sempre per legge, dovrebbe essere a sua
volta responsabile in solido (con funzione sostanzialmente
di garanzia) dell’esecuzione non solo della propria quota di
obbligazioni ma di tutto l’oggetto dell’appalto (TAR
Piemonte, Sez. II,
sentenza 07.03.2019 n. 260 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
E' legittima la scelta di non invitare il gestore uscente ad
una procedura negoziata avente ad oggetto un servizio in
continuità con quello precedente.
Premesso che quello in esame è un
appalto sotto soglia e che la procedura su cui nello
specifico si controverte non è aperta, bensì negoziata, va
confermato il principio di carattere generale in virtù del
quale va riconosciuta l’obbligatorietà del principio di
rotazione per le gare di lavori, servizi e forniture negli
appalti cd. “sotto soglia”.
In particolare, il principio di rotazione -che per espressa
previsione normativa deve orientare le stazioni appaltanti
nella fase di consultazione degli operatori economici da
invitare a presentare le offerte- trova fondamento
nell’esigenza di evitare il consolidamento di rendite di
posizione in capo al gestore uscente (la cui posizione di
vantaggio deriva dalle informazioni acquisite durante il
pregresso affidamento e non invece –come ipotizzato
dall’appellante– dalle modalità di affidamento, di tipo
“aperto”, “ristretto” o “negoziato”), soprattutto nei
mercati in cui il numero di operatori economici attivi non è
elevato.
Pertanto, anche al fine di dissuadere le pratiche di
affidamenti senza gara –tanto più ove ripetuti nel tempo–
che ostacolino l’ingresso delle piccole e medie imprese e di
favorire, per contro, la distribuzione temporale delle
opportunità di aggiudicazione tra tutti gli operatori
potenzialmente idonei, il principio in questione comporta,
in linea generale, che ove la procedura prescelta per il
nuovo affidamento sia di tipo ristretto o “chiuso” (recte,
negoziato), l’invito all’affidatario uscente riveste
carattere eccezionale.
Rileva quindi il fatto oggettivo del precedente affidamento
in favore di un determinato operatore economico, non anche
la circostanza che questo fosse scaturito da una procedura
di tipo aperto o di altra natura.
Per l’effetto, ove la stazione appaltante intenda comunque
procedere all’invito del precedente affidatario, dovrà
puntualmente motivare tale decisione, facendo in particolare
riferimento al numero (eventualmente) ridotto di operatori
presenti sul mercato, al grado di soddisfazione maturato a
conclusione del precedente rapporto contrattuale ovvero al
peculiare oggetto ed alle caratteristiche del mercato di
riferimento (in tal senso, si veda anche la delibera
26.10.2016, n. 1097 dell’Autorità nazionale anticorruzione,
linee-guida n. 4).
---------------
Il motivo non può trovare accoglimento.
Premesso infatti che quello in esame è un appalto sotto
soglia e che la procedura su cui nello specifico si
controverte non è aperta, bensì negoziata, va confermato il
principio di carattere generale –su cui, da ultimi, Cons.
Stato, V, 13.12.2017, n. 5854 e VI, 31.08.2017, n. 4125– in
virtù del quale va riconosciuta l’obbligatorietà del
principio di rotazione per le gare di lavori, servizi e
forniture negli appalti cd. “sotto soglia”.
In particolare, il principio di rotazione -che per espressa
previsione normativa deve orientare le stazioni appaltanti
nella fase di consultazione degli operatori economici da
invitare a presentare le offerte- trova fondamento
nell’esigenza di evitare il consolidamento di rendite di
posizione in capo al gestore uscente (la cui posizione di
vantaggio deriva dalle informazioni acquisite durante il
pregresso affidamento e non invece –come ipotizzato
dall’appellante– dalle modalità di affidamento, di tipo “aperto”,
“ristretto” o “negoziato”), soprattutto nei
mercati in cui il numero di operatori economici attivi non è
elevato.
Pertanto, anche al fine di dissuadere le pratiche di
affidamenti senza gara –tanto più ove ripetuti nel tempo–
che ostacolino l’ingresso delle piccole e medie imprese e di
favorire, per contro, la distribuzione temporale delle
opportunità di aggiudicazione tra tutti gli operatori
potenzialmente idonei, il principio in questione comporta,
in linea generale, che ove la procedura prescelta per il
nuovo affidamento sia di tipo ristretto o “chiuso” (recte,
negoziato), l’invito all’affidatario uscente riveste
carattere eccezionale.
Rileva quindi il fatto oggettivo del precedente affidamento
in favore di un determinato operatore economico, non anche
la circostanza che questo fosse scaturito da una procedura
di tipo aperto o di altra natura.
Per l’effetto, ove la stazione appaltante intenda comunque
procedere all’invito del precedente affidatario, dovrà
puntualmente motivare tale decisione, facendo in particolare
riferimento al numero (eventualmente) ridotto di operatori
presenti sul mercato, al grado di soddisfazione maturato a
conclusione del precedente rapporto contrattuale ovvero al
peculiare oggetto ed alle caratteristiche del mercato di
riferimento (in tal senso, si veda anche la delibera
26.10.2016, n. 1097 dell’Autorità nazionale anticorruzione,
linee-guida n. 4).
Nel caso su cui si verte, dunque, la stazione appaltante
aveva solo due possibilità: non invitare il gestore uscente
o, in caso contrario, motivare attentamente le ragioni per
le quali riteneva di non poter invece prescindere
dall’invito.
La scelta di optare per la prima soluzione è dunque
legittima, né in favore della soluzione contraria valgono
considerazioni di tutela della concorrenza: invero,
l’obbligo di applicazione del principio di rotazione negli
affidamenti sotto-soglia è volto proprio a tutelare le
esigenze della concorrenza in un settore nel quale è
maggiore il rischio del consolidarsi, ancor più a livello
locale, di posizioni di rendita anticoncorrenziale da parte
di singoli operatori del settore risultati in precedenza
aggiudicatari della fornitura o del servizio.
In particolare, per effetto del principio di rotazione
l’impresa che in precedenza ha svolto un determinato
servizio non ha più alcuna possibilità di vantare una
legittima pretesa ad essere invitata ad una nuova procedura
di gara per l’affidamento di un contratto pubblico di
importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria, né
di risultare aggiudicataria del relativo affidamento (ex
multis, Cons. Stato, V, 13.12.2017, n. 5854; V,
31.08.2017, n. 4142).
Neppure può trovare accoglimento l’ulteriore profilo di
censura secondo cui, nel caso di specie, il principio di
rotazione non avrebbe potuto comunque trovare applicazione
in ragione della non perfetta omogeneità tra le prestazioni
oggetto dell’affidamento e quelle in precedenza rese da Co.
s.p.a. in qualità di affidatario uscente.
Invero, la stessa circostanza che l’odierna appellante
rivendichi la propria qualità di “gestore uscente” dà
la misura dei limiti oggettivi di tale argomento, dal
momento che in tanto può avere un senso spendere nel
processo una tale circostanza, in quanto il nuovo
affidamento nel quale si intende subentrare sia
consustanziale al precedente.
In ogni caso, l’eccezione non è fondata.
Non è infatti sostenibile, alla luce delle risultanze di
causa, che l’affidamento su cui attualmente si controverte
presenti una sostanziale alterità qualitativa (ossia
afferente la natura delle prestazioni richieste) rispetto al
precedente affidamento assegnato a Co. s.p.a. nel 2016,
alterità che del resto neppure viene individuata, almeno nei
suoi contenuti essenziali, dall’appellante.
Al riguardo, non è pertinente il richiamo (a pag. 18
dell’atto di appello) fatto da Co. a quanto riportato nelle
difese della stazione appaltante, per cui “tra la prima e
la seconda gara è stato modificato, cosa di non poco conto,
l’oggetto della gara”, dal momento che le stesse non
fanno riferimento ad un’eventuale differenza tra la gara del
2016 assegnata a Co. ed a quella su cui attualmente si verte
–differenza che si sarebbe dovuto riscontrare, nell’ottica
argomentativa dell’appellante– bensì attengono, quanto alla
prima, alla procedura negoziata di cui alla determinazione
n. 112 del 15.05.2017, del tutto irrilevante in quanto di lì
a poco annullata in autotutela.
Sul punto, già nel corso del precedente grado di giudizio la
Stazione Zoologica di Napoli aveva chiarito che con la
determinazione n. 112 del 2017 era stata bandita una “procedura
negoziata per l’affidamento del servizio di portierato/reception
per la sede di Napoli, la sede di Portici ed il servizio di
ronda per il laboratorio in via ... n. 127 – Ischia”,
poi annullata d’ufficio con determina n. 143 del 14.06.2017
in ragione, tra l’altro, della ritenuta contrarietà del
bando con l’art. 51 del d.lgs. n. 50 del 2016, nella parte
in cui la lettera di invito aveva inteso affidare, mediante
lotto unico, sia i servizi di vigilanza che i servizi di
portierato e reception, così precludendo l’accesso ai
soggetti privi di licenza ex art. 134 Tulps.
In ragione di ciò, con successiva determina n. 327 del
29.11.2017, la stazione appaltante bandiva una nuova gara
con oggetto quantitativamente ridotto rispetto alla
precedente –in ciò stava la differenza denunciata
dall’appellante– in quanto limitata al servizio di
portierato/reception per la sede di Napoli e Portici (con “stralcio”,
dunque, del servizio di ronda per il laboratorio di Ischia).
La specifica contestazione non è pertanto conferente con
l’oggetto della controversia.
Sulla questione deve comunque concludersi, in termini
generali, che –se è corretto affermare che l’applicazione
del disposto di cui all’art. 36, comma primo del d.lgs. n.
50 del 2016, proprio perché volta a tutelare la dimensione
temporale della concorrenza, logicamente presuppone una
specifica situazione di continuità degli affidamenti, tale
per cui un determinato servizio, una volta raggiunta la
scadenza contrattuale, potrebbe essere ciclicamente affidato
mediante un nuova gara allo stesso operatore– ciò non
implica però che i diversi affidamenti debbano essere ognuno
l’esatta “fotocopia” degli altri.
In breve, ciò che conta è l’identità (e continuità), nel
corso del tempo, della prestazione principale o comunque
–nel caso in cui non sia possibile individuare una chiara
prevalenza delle diverse prestazioni dedotte in rapporto
(tanto più se aventi contenuto tra loro non omogeneo)– che i
successivi affidamenti abbiano comunque ad oggetto, in tutto
o parte, queste ultime.
In questi termini di grandezza va dunque letta la norma di
legge in precedenza richiamata, ad escludere cioè che la
procedura di selezione del contraente si risolva in una mera
rinnovazione –in tutto o in parte, e comunque nei suoi
contenuti qualificanti ed essenziali– del rapporto
contrattuale scaduto, dando così luogo ad una sostanziale
elusione delle regole della concorrenza a discapito degli
operatori più deboli del mercato cui, nel tempo, sarebbe
sottratta la possibilità di accedere ad ogni prospettiva di
aggiudicazione (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 05.03.2019 n. 1524 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sul cambio abusivo di destinazione d’uso dell’immobile da negozio a luogo di
culto, senza opere, da parte di una associazione di promozione sociale.
La compatibilità urbanistica, con tutte le destinazioni
d’uso omogenee previste dal D.M. n. 1444 del 1968, della sede delle
associazioni di promozione sociale e dei locali nei quali si svolgono le
relative attività (ex art. 32, comma 4, della legge n. 383 del 2000), nonché
secondo Cass. 449/1985, 24852/2015, 34812/2017 delle attività di culto, non
esonera dall’obbligo di richiedere e ottenere un conforme titolo edilizio,
non rilevando nel vigente ordinamento giuridico, ai fini della valutazione
del regime autorizzatorio applicabile, la qualificazione soggettiva del
privato proponente.
Difatti, il citato art. 32 della legge n. 383 del 2000 pone una
compatibilità ex lege della sede e dei locali dell’associazione di
promozione sociale con qualsiasi zona omogenea di PRG, ma poi la concreta
modificabilità del precedente uso, ancorché senza opere, quando non sia tra
categorie funzionali omogenee, deve essere assentita in un apposito titolo
edilizio, mediante il quale l’Amministrazione possa, oltre che verificare i
presupposti allegati dal richiedente circa la riconducibilità della
situazione proprio al paradigma del citato art. 32, o ad altre ipotesi di
astratta compatibilità, anche verificare l’eventuale maggiore incidenza
sotto il profilo urbanistico-edilizio del nuovo uso, ai fini del calcolo
della differenza dei relativi oneri, unitamente alla necessità di procedere
all’accertamento del rispetto di tutte le prescrizioni sia di natura
edilizia che urbanistica che rendano idoneo l’immobile in relazione al nuovo
utilizzo.
Pertanto, in mancanza del necessario titolo edilizio, appare assolutamente
giustificata l’applicazione della sanzione ripristinatoria prevista dal
D.P.R. n. 380 del 2001, laddove, come nella fattispecie oggetto del presente
contenzioso, sia stata abusivamente mutata la destinazione d’uso
originariamente assentita.
---------------
La parte ricorrente si qualifica associazione di promozione sociale che dal
2004 svolge le sue attività nell’immobile, ottenuto in locazione dalla
proprietaria, sito in Mestre, P.le Madonna Pellegrina, in zona residenziale
di completamento B1, avente destinazione d’uso commerciale;
Con l’ordinanza 06.11.2018 il Comune di Venezia contestava alla predetta
Associazione l’avvenuto cambio abusivo di destinazione d’uso dell’immobile
da negozio a luogo di culto, senza opere, disponendo di conseguenza il
rispristino dell’uso legittimo o la conformazione mediante idoneo titolo.
Con il ricorso, si assume l’illegittimità dell’ordinanza, in quanto il
contestato mutamento abusivo –da esercizio commerciale ad attività culturale
ed esercizio del culto islamico– non potrebbe dirsi sussistente, tenuto
conto che la natura di associazione di promozione sociale della ricorrente
le consentirebbe di localizzare la propria sede e i locali ove si svolgono
le sue attività in qualsiasi zona del territorio comunale e
indipendentemente dalla destinazione legittima impressa «ab origine»
all’immobile.
Al riguardo il Collegio osserva che la compatibilità urbanistica, con tutte
le destinazioni d’uso omogenee previste dal D.M. n. 1444 del 1968, della
sede delle associazioni di promozione sociale e dei locali nei quali si
svolgono le relative attività (ex art. 32, comma 4, della legge n. 383 del
2000), nonché secondo Cass. 449/1985, 24852/2015, 34812/2017 delle attività
di culto, non esonera dall’obbligo di richiedere e ottenere un conforme
titolo edilizio, non rilevando nel vigente ordinamento giuridico, ai fini
della valutazione del regime autorizzatorio applicabile, la qualificazione
soggettiva del privato proponente (cfr. TAR Toscana, III, 20.12.2012, n.
2105); difatti, il citato art. 32 della legge n. 383 del 2000 pone una
compatibilità ex lege della sede e dei locali dell’associazione di
promozione sociale con qualsiasi zona omogenea di PRG, ma poi la concreta
modificabilità del precedente uso, ancorché senza opere, quando non sia tra
categorie funzionali omogenee, deve essere assentita in un apposito titolo
edilizio, mediante il quale l’Amministrazione possa, oltre che verificare i
presupposti allegati dal richiedente circa la riconducibilità della
situazione proprio al paradigma del citato art. 32, o ad altre ipotesi di
astratta compatibilità, anche verificare l’eventuale maggiore incidenza
sotto il profilo urbanistico-edilizio del nuovo uso, ai fini del calcolo
della differenza dei relativi oneri, unitamente alla necessità di procedere
all’accertamento del rispetto di tutte le prescrizioni sia di natura
edilizia che urbanistica che rendano idoneo l’immobile in relazione al nuovo
utilizzo (cfr. TAR Campania, Napoli, VIII, 24.05.2016, n. 2635; altresì, TAR
Puglia, Bari, III, 20.05.2016, n. 691, nonché la stessa giurisprudenza
invocata sulla compatibilità della attività di culto con ogni destinazione).
Pertanto, in mancanza del necessario titolo edilizio, appare assolutamente
giustificata l’applicazione della sanzione ripristinatoria prevista dal
D.P.R. n. 380 del 2001, laddove, come nella fattispecie oggetto del presente
contenzioso, sia stata abusivamente mutata la destinazione d’uso
originariamente assentita
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 05.03.2019 n. 286 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Alla Corte costituzionale la legge regionale veneta che
consente, nell’ambito del “piano casa”, la deroga
alle altezze di cui al d.m. 1444 del 1968.
La Sesta Sezione del Consiglio di Stato solleva questione di
legittimità costituzionale della norma che, nell’ambito
della disciplina della Regione Veneto sul “piano casa”,
stabilisce che gli ampliamenti e le ricostruzioni degli
edifici esistenti possano avvenire anche in deroga alle
disposizioni in materia di altezze di cui al d.m. n. 1444
del 1968.
-----------------
Alla Corte costituzionale la legge regionale veneta che
consente, nell’ambito del “piano casa”, la deroga
alle altezze di cui al d.m. 1444 del 1968.
-----------------
Edilizia –
Disposizioni statali in materia di altezze – Legge Regione
Veneto – Deroga alle altezze – Questione non manifestamente
infondata di costituzionalità.
È rilevante e non manifestamente infondata
la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9,
comma 8-bis, della legge regionale del Veneto 08.07.2009, n.
14 (Intervento regionale a sostegno del settore edilizio e
per favorire l'utilizzo dell'edilizia sostenibile e
modifiche alla legge regionale 12.07.2007, n. 16 in materia
di barriere architettoniche), in riferimento all’art. 117,
secondo comma lett. l) e terzo comma, della Costituzione,
nella parte in cui consente le deroghe alle disposizioni in
materia di altezze previste dal d.m. 1444 del 1968 (1).
-----------------
(1) I. – Con l’ordinanza in rassegna la Sesta Sezione del Consiglio
di Stato -chiamata a pronunciarsi sulla ammissibilità di un
intervento edilizio di demolizione e ricostruzione con
ampliamento, attuativo della normativa regionale sul c.d. “piano
casa” e comportante il rialzamento del quaranta per
cento dell’edificio esistente– ha sollevato questione di
legittimità costituzionale della disposizione della legge
regionale veneta che consente la deroga “alle
disposizioni in materia di altezze previste dal decreto
ministeriale n. 1444 del 1968”.
La fattispecie che ha condotto alla rimessione alla Corte
costituzionale può essere così sintetizzata:
− il contenzioso avviato dinanzi al Tar per il Veneto ha ad oggetto
un intervento di demolizione e ricostruzione con incremento
volumetrico, attuativo della disciplina del c.d. “piano
casa” di cui alla legge regionale del Veneto n. 14 del
2009, intervento contestato dal confinante, tra l’altro,
nella parte in cui prevede un’altezza del nuovo edificio
superiore al 40 per cento rispetto all’edificio
preesistente, ritenendo parte ricorrente che l’incremento di
altezza risulti illegittimo;
− la contestazione riguarda l’applicazione dell’art. 9, comma
8-bis, della legge regionale n. 14 del 2009, che consente un
incremento di altezza fino al 40 per cento dell’“edificio
esistente”; si contesta che il progettista abbia sì
calcolato il 40% dell’altezza dell’edificio esistente, ma,
anziché sommare detta percentuale allo stesso edificio che
ha generato l’incremento, l’abbia aggiunta all’altezza
dell’immobile più alto della zona;
− il Tar per il Veneto, sez. II, con sentenza n. 944 del 2017, ha
sul punto accolto il ricorso, evidenziando che non può
considerarsi come “edificio esistente” l'edificio
circostante più alto, come invece erroneamente ritenuto dal
Comune, poiché “l'edificio esistente è l'edificio che è
oggetto di ampliamento”;
− interposto appello avverso la citata sentenza, il Consiglio di
Stato, ha ritenuto di sollevare d’ufficio la questione di
legittimità costituzionale della norma regionale della cui
applicazione si controverte tra le parti.
II. – Nella fattispecie in esame viene in considerazione il “piano
casa” di cui alla legge regionale veneta 08.07.2009, n.
14 e, in particolare, la disposizione di cui all’art. 9,
comma 8-bis, frutto di inserimento nel corpo normativo
originario ad opera della legge regionale 29.11.2013, n. 32,
che consente la deroga alla disciplina delle altezze degli
edifici di cui al d.m. n. 1444 del 1968 e richiama altresì
la norma statale di cui all’art. 2-bis del d.P.R. n. 380 del
2001.
Appare utile richiamare le disposizioni legislative evocate,
per una esatta comprensione della questione di legittimità
costituzionale sollevata:
a) d.m. 02.04.1968, n, 1444, art. 8 “limiti di
altezza degli edifici”: “Le altezze massime degli
edifici per le diverse zone territoriali omogenee sono
stabilite come segue:
1) Zone A): per le operazioni di risanamento conservativo
non è consentito superare le altezze degli edifici
preesistenti, computate senza tener conto di soprastrutture
o di sopraelevazioni aggiunte alle antiche strutture; per le
eventuali trasformazioni o nuove costruzioni che risultino
ammissibili, l'altezza massima di ogni edificio non può
superare l'altezza degli edifici circostanti di carattere
storico-artistico.
2) Zone B): l'altezza massima dei nuovi edifici non può
superare l'altezza degli edifici preesistenti e circostanti,
con la eccezione di edifici che formino oggetto di piani
particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche, sempre che rispettino i limiti
di densità fondiaria di cui all'art. 7.
3). Zone C): contigue o in diretto rapporto visuale con zone
del tipo A): le altezze massime dei nuovi edifici non
possono superare altezze compatibili con quelle degli
edifici delle zone A) predette.
4) Edifici ricadenti in altre zone: le altezze massime sono
stabilite dagli strumenti urbanistici in relazione alle
norme sulle distanze tra i fabbricati di cui al successivo
art. 9”;
b) art. 2-bis d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (introdotto dal
decreto-legge 21.06.2013, n. 69 convertito dalla legge
09.08.2013, n. 98), rubricato “deroghe in materia di
limiti di distanza tra fabbricati”: “Ferma restando
la competenza statale in materia di ordinamento civile con
riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme
del codice civile e alle disposizioni integrative, le
regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano
possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti,
disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori
pubblici 02.04.1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni
sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a
quelli produttivi, a quelli riservati alle attività
collettive, al verde e ai parcheggi, nell'ambito della
definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque
funzionali a un assetto complessivo e unitario o di
specifiche aree territoriali”;
c) art. 9, comma 8-bis, legge regionale Veneto 08.07.2009,
n. 14 (introdotto dalla legge regionale 29.11.2013, n. 32):
“Al fine di consentire il riordino e la rigenerazione del
tessuto edilizio urbano già consolidato ed in coerenza con
l'obiettivo prioritario di ridurre o annullare il consumo di
suolo, anche mediante la creazione di nuovi spazi liberi, in
attuazione dell'articolo 2-bis del D.P.R. n. 380/2001 gli
ampliamenti e le ricostruzioni di edifici esistenti situati
nelle zone territoriali omogenee di tipo B e C, realizzati
ai sensi della presente legge, sono consentiti anche in
deroga alle disposizioni in materia di altezze previste dal
decreto ministeriale n. 1444 del 1968 e successive
modificazioni, sino ad un massimo del 40 per cento
dell'altezza dell'edificio esistente”.
III. – Nell’ordinanza in rassegna la sesta sezione del
Consiglio di Stato giunge a sollevare questione di
costituzionalità dell’art. 9, comma 8-bis, della l.r. n. 14
del 2009 sulla base del seguente percorso argomentativo:
d) con l'introduzione, nel t.u. edilizia, dell'art. 2-bis da
parte dell'art. 30, comma 1, lettera a), del decreto-legge
21.06.2013, n. 69, convertito, con modificazioni,
dall'art. 1, comma 1, della legge 09.08.2013, n. 98,
l’ordinamento ha sostanzialmente recepito l'orientamento
della giurisprudenza costituzionale, inserendo nel testo
unico sull'edilizia i principi fondamentali della
vincolatività, anche per le Regioni e le Province autonome,
delle distanze legali e più in generale delle previsioni
stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968 e dell'ammissibilità
delle deroghe, solo a condizione che siano inserite in
strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto
complessivo e unitario di determinate zone del territorio;
e) la deroga alla disciplina dei parametri in tema di
densità, di altezze e di distanze, realizzata dagli
strumenti urbanistici, deve quindi ritenersi legittima
sempre che faccia riferimento ad una pluralità di fabbricati
e sia fondata su previsioni planovolumetriche che
evidenzino, cioè, una capacità progettuale tale da definire
i rapporti spazio-dimensionali e architettonici delle varie
costruzioni considerate come fossero un edificio unitario;
f) appare non coerente, rispetto alle indicazioni
interpretative offerte dalla giurisprudenza costituzionale e
ribadite dal disposto di cui all'art. 2-bis TUE, il mancato
riferimento della norma impugnata a quella tipologia di atti
menzionati nel testo del d.m. n. 1444 del 1968 richiamato,
cui va riconosciuta la possibilità di derogare al regime
delle altezze e delle distanze:
f1) la stessa giurisprudenza
costituzionale ha stabilito con riferimento alle distanze
-sebbene con una considerazione che pare potersi estendere
anche qui alle altezze stante l’analogia del testo del d.m.
e la generalità della previsione letterale dell’art. 2-bis
(ben più ampia della mera rubrica)- che la deroga alle
distanze minime potrà essere contenuta, oltre che in piani
particolareggiati o di lottizzazione, in ogni strumento
urbanistico equivalente sotto il profilo della sostanza e
delle finalità, purché caratterizzato da una progettazione
dettagliata e definita degli interventi;
f2) ne consegue che devono ritenersi ammissibili le deroghe
predisposte nel contesto dei piani urbanistici attuativi, in
quanto strumenti funzionali a conformare un assetto
complessivo e unitario di determinate zone del territorio,
secondo quanto richiesto, al fine di attivare le deroghe in
esame, dall'art. 2-bis del TUE, in linea con
l'interpretazione nel tempo tracciata dalla Corte
costituzionale;
g) tali stringenti presupposti della deroga, non si
rivengono nel testo della norma regionale in contestazione:
g1) il riferimento agli ampliamenti ed alle ricostruzioni di
edifici esistenti situati nelle zone territoriali omogenee
di tipo B e C, nell’espressione utilizzata dal legislatore
regionale veneto, appare infatti in contrasto con il
puntuale contenuto che dovrebbe assumere una previsione
siffatta, risultando destinata a legittimare deroghe al di
fuori di una adeguata pianificazione urbanistica;
g2) l'assenza di precise indicazioni, in coerenza con quanto
già evidenziato dalla giurisprudenza costituzionale, non
consente di attribuire agli interventi in questione un
perimetro di azione necessariamente coerente con l'esigenza
di garantire omogeneità di assetto a determinate zone del
territorio; infatti, la dizione della norma si presta, sul
piano semantico, a legittimare (come avvenuto nel caso di
specie) anche interventi diretti a singoli edifici, in
aperto contrasto con le indicazioni interpretative offerte
in precedenza;
g3) in tale ottica appare pertanto non manifestamente
infondata la questione di legittimità costituzionale della
norma censurata, in quanto legittima deroghe alla disciplina
delle altezze dei fabbricati al di fuori dell'ambito della
competenza regionale concorrente in materia di governo del
territorio, a fronte del principio contenuto nell’art. 2-bis
cit., ed in violazione del limite dell'ordinamento civile
assegnato alla competenza legislativa esclusiva dello Stato;
h) va altresì richiamata la valenza generale del d.m.
02.04.1968 n. 1444 che, essendo stato emanato su delega
dell'art. 41- quinquies, della legge 17.08.1942 n. 1150,
inserito dall'art. 17 della legge 06.08.1967 n. 765, ha
efficacia e valore di legge, sicché sono comunque
inderogabili le sue disposizioni in tema di limiti di
densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati:
h1) le relative disposizioni in tema di distanze tra
costruzioni non vincolano solo i Comuni, tenuti ad
adeguarvisi nell'approvazione di nuovi strumenti urbanistici
o nella revisione di quelli esistenti, ma sono
immediatamente operanti nei confronti dei proprietari
frontisti; tale conclusione vale, analogamente, per le
altezze, poiché scopo delle norme regolamentari concernenti
l'altezza degli edifici non è soltanto la tutela dell'igiene
pubblica, ma, insieme, quella del decoro e dell'indirizzo
urbanistico dell'abitato;
h2) la giurisprudenza è da tempo orientata in modo univoco
ad affermare che il decreto ministeriale in questione
(ascrivibile secondo una preminente teoria all'atipica
categoria dei regolamenti delegati o liberi) ha efficacia di
legge, cosicché le sue disposizioni, anche in tema di limiti
inderogabili di altezza dei fabbricati, prevalgono sulle
contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi,
alle quali si sostituiscono per inserzione automatica, con
conseguente loro diretta operatività nei rapporti tra
privati;
h3) a fronte della riconosciuta valenza del d.m. 1444,
confermata dalla consolidata giurisprudenza costituzionale,
gli spazi di derogabilità appaiono ammissibili, in capo al
legislatore regionale, nei limiti dettati dal legislatore
statale, dotato di competenza in tema appunto di principi
fondamentali in materia di governo del territorio; orbene,
nel caso di specie il legislatore regionale appare aver
oltrepassato detti limiti, nella parte in cui consente le
indicate deroghe al di fuori dell’ammesso ambito di “definizione
o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a
un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree
territoriali”.
IV. – Per completezza si segnala quanto segue:
i) sulla disciplina del c.d. “piano casa” si veda:
i1) in dottrina F. CARINGELLA, M. PROTTO (a cura di), Il
piano casa – Commento organico all’Intesa Stato-Regioni del
31.03.2009 e a tutte le leggi regionali, Roma 2009 ed ivi,
in particolare: R. GIANI, Conferenza Stato-Regioni ed enti
locali- Intesa del 31.03.2009 (pp. 5 ss.) e M. RAGAZZO, Il
piano casa del Veneto (pp. 173 ss.);
i2) in giurisprudenza, Cons.
Stato, sez. IV 26.07.2017, n. 3680 sul piano caso della
regione Veneto e sui requisiti del silenzio assenso previsto
dal d.l. n. 70 del 2011; sez. IV, 19.04.2017, n. 1828 (in
Foro it., 2017, III, 652), sul piano casa della regione
Campania, sulla inderogabilità del d.m. n. 1444 del 1968 e
sui requisiti del silenzio assenso previsto dal d.l. n. 70
del 2011; sez. IV, 05.09.2016, n. 3805, sul piano casa della
regione Campania, sui requisiti del silenzio-assenso e sulla
autotutela nei confronti di un titolo edilizio formatosi per
silenzio assenso;
j) sulla legge regionale Veneto 08.07.2009, n. 14 si veda
l’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale del
Tar per il Veneto, sez. II, 12.12.2018, n. 1166
(oggetto della
News US n. 14 del 18.01.2019, cui si rinvia per
ampi riferimenti di dottrina e giurisprudenza), relativa
alle previsioni regionali che consentono la deroga alle
distanze dai confini stabilite dagli strumenti urbanistici e
dai regolamenti locali;
k) sulla disciplina introdotta dal decreto-legge n. 69 del
2013 (che ha inserito nel Testo unico dell’edilizia l’art.
2-bis) si vedano:
k1) in dottrina: A. DI MARIO, Standard urbanistici e
distanze tra costruzioni tra stato e regioni dopo il «decreto
del fare» in Urbanistica e appalti, 2013, 1121 ss.; F.
DI LASCIO, Il decreto “del fare”: il rilancio
dell’economia in Giornale dir. amm., 2013, 12, 1143; A.
SCONOCCHIA BIFANI, Deroghe alle distanze fra costruzioni
alle luce del d.l. 21.06.2013, n. 69 in Riv. giur. edilizia
2014, 16; D. CHINELLO, Le semplificazioni in materia
edilizia nel “decreto del fare” in Immobili e
proprietà, 2014, I, 12; S. MORELLI, Edilizia e urbanistica –
la proprietà edilizia nella dialettica tra formante statale
e formante regionale in Giur. it, 2018, 7, 1575;
k2) la disciplina in esame è stata interpretata
restrittivamente dalla Corte costituzionale, che è
intervenuta ripetutamente dichiarando l'illegittimità di
disposizioni regionali che stabilivano distanze inferiori,
senza dare rilievo alle condizioni stabilite dalla legge
statale: cfr. le sentenze 24.02.2017, n. 41, 03.11.2016, n.
231, 20.07.2016, n. 185, 15.07.2016, n. 178, tutte in Foro
it., 2017, I, 2566; Corte cost. 21.05.2014, n. 134 in Foro
it., 2014, I, 2009; Corte cost., 23.01.2013, n. 6 in Foro
it., 2013, I, 737;
l) sulla efficacia giuridica del d.m. n. 1444 del 1968 si
vedano:
l1) nell’ambito della giurisprudenza costituzionale:
l1.1) Corte cost., 24.02.2017, n. 41 cit. secondo cui “nel
delimitare i rispettivi ambiti di competenza —statale in
materia di «ordinamento civile» e concorrente in materia di
«governo del territorio»— questa corte ha individuato il
punto di equilibrio nell’ultimo comma dell’art. 9 d.m. n.
1444 del 1968, più volte ritenuto dotato di particolare
«efficacia precettiva e inderogabile» (sentenza n. 185 del
2016, cit., ma anche sentenze n. 114 del 2012, id., 2012, I,
3265, e n. 232 del 2005, cit.), in quanto richiamato
dall’art. 41-quinquies l. 17.08.1942 n. 1150 (legge
urbanistica), introdotto dall’art. 17 l. 06.08.1967 n. 765
(modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17.08.1942
n. 1150).
Pertanto, è stata giudicata legittima la previsione
regionale di distanze in deroga a quelle stabilite dalla
normativa statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici
che formino oggetto di piani particolareggiati o
lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche»
(ex plurimis, sentenza n. 231 del 2016, cit.).
In definitiva, le deroghe all’ordinamento civile delle
distanze tra edifici sono consentite «se inserite in
strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto
complessivo e unitario di determinate zone del territorio»
(sentenza n. 134 del 2014, id., 2014, I, 2009; analogamente,
sentenze n. 178, n. 185, n. 189, n. 231 del 2016, citate),
poiché «la loro legittimità è strettamente connessa agli
assetti urbanistici generali e quindi al governo del
territorio, non, invece, ai rapporti tra edifici confinanti
isolatamente considerati» (sentenza n. 114 del 2012, cit.;
nello stesso senso, sentenza n. 232 del 2005, cit.)”;
l1.2) Corte cost., 20.07.2016, n. 185 cit. secondo cui il
decreto-legge n. 69 del 2013 “recepisce la ricordata
giurisprudenza di questa corte, inserendo nel testo unico
sull’edilizia i principî fondamentali della vincolatività,
anche per le regioni e le province autonome, delle distanze
legali stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968 e
dell’ammissibilità delle deroghe solo a condizione che siano
«inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare
un assetto complessivo e unitario di determinate zone del
territorio»”;
l1.3) Corte cost., 15.07.2016, n. 178 cit. che ribadisce che
il d.m. n. 1444 del 1968 è dotato “di efficacia
precettiva e inderogabile”;
l1.4) Corte cost., 10.05.2012, n. 114 in Foro it., 2012, I,
3265 secondo cui l’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968
costituisce “principio inderogabile che integra la
disciplina privatistica delle distanze”;
l2) pronunce della giurisprudenza amministrativa:
l2.1) Cons. Stato, sez. IV, 02.12.2013, n. 5732, in Foro
amm. – CdS, 2013, 12, 3378 (s.m.) secondo cui “il d.m.
02.04.1968 n. 1444, essendo stato emanato su delega
dell'art. 41-quinquies, l. 17.08.1942 n. 1150, inserito
dall'art. 17, l. 06.08.1967 n. 765, ha efficacia e valore di
legge, sicché sono comunque inderogabili le sue disposizioni
in tema di limiti di densità edilizia, di altezza e di
distanza tra i fabbricati”;
l2.2.) Cons. Stato, sez. IV, 12.07.2002, n. 3931, che parla,
a proposito dell’art. 9 del d.m. n. 1444 di “prescrizione
avente carattere di assolutezza ed inderogabilità,
risultante da fonte normativa statuale, sovraordinata
rispetto agli strumenti urbanistici locali”;
l3) nell’ambito della giurisprudenza civile:
l3.1) Cass.
civ., sez. un. 07.07.2011, n. 14953 in Vita not., 2012, 258,
Riv. giur. edilizia, 2011, I, 1197, secondo cui “le norme
tecniche di attuazione di un piano regolatore (nella specie,
del comune di Viareggio) che impongano il rispetto della
distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate
soltanto per i tratti di esse dotati di finestre, con
conseguente esonero per quelli ciechi, contrastano con il
disposto dell'art. 9, n. 2, d.m. 02.04.1968 n. 1444, che
prescrive l'osservanza di tale distacco con riferimento
all'intera estensione della parete, sicché esse vanno
disapplicate e sostituite, previa inserzione automatica, con
la diversa disposizione della norma statale, direttamente
applicabile nei rapporti con i privati”;
l3.2) Cass. civ., sez. un., 01.07.1997, n. 5889 in Giust.
civ., 1997, I, 2075, Corriere giur., 1997, 1310, con nota di
GIOA, Arch. civ., 1997, 1090 secondo cui invece “il d.m.
02.04.1968 n. 1404 (emanato in esecuzione della norma
sussidiaria dell'art. 41-quinquies l. 17.08.1942 n. 1150,
introdotto dalla l. 06.08.1967 n. 765) che all'art. 9
prescrive in tutti i casi la distanza minima assoluta di
metri dieci tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti, impone determinati limiti edilizi ai comuni
nella formazione o revisione degli strumenti urbanistici ma
non è immediatamente operante anche nei rapporti fra i
privati”.
m) sul concetto di “edificio esistente”, la cui
altezza non può essere superata, nella previsione dell’art.
8 del d.m. n. 1444 del 1968:
m1) Cons. Stato, sez. IV, 09.09.2014, n. 4553 sul concetto
di edifici “circostanti”, “confinanti” e “limitrofi”,
ai fini della valutazione delle altezze ammissibili;
m2) Cons. Stato, sez. IV, 14.05.2014, n. 2469 secondo cui “l’art.
8 del d.m. n. 1444/1968 nello stabilire le altezze massime
degli edifici per le diverse zone territoriali, prevede
espressamente per le zone B, come quella qui in rilievo, che
l’altezza massima dei nuovi edifici non può superare
l’altezza degli edifici preesistenti e circostanti, <con
l’eccezione di edifici che formano oggetto di piani
particolareggiati o di lottizzazioni convenzionate con
previsioni plano volumetriche>” e tale norma deve essere
interpretata nel senso che “occorre fare riferimento
all’altezza degli edifici limitrofi e non al più vasto
ambito territoriale che identifica la zona (Cons. Stato Sez.
IV 02/11/2010 n. 731)”;
m3) l’art. 8 del d.m. n. 1444 del 1968 secondo cui in zona A
“per le eventuali trasformazioni o nuove costruzioni che
risultino ammissibili, l'altezza massima di ogni edificio
non può superare l'altezza degli edifici circostanti di
carattere storico-artistico”;
m4) Tar per il Veneto, sez. II, 21.04.2016, n. 429 affronta
il caso di edificio oggetto di sopraelevazione, in
applicazione della legge regionale n. 14 del 2009, che già
prima della sopraelevazione stessa risultava più alto
dell’edificio storico-artistico confinante; la tesi del
ricorrente era nel senso che, in detta ipotesi, il limite
sopra citato non potesse trovare applicazione; il Tar per il
Veneto ha invece concluso nel senso che “la tesi secondo
la quale il limite d’altezza degli edifici circostanti di
carattere storico-artistico non sarebbe applicabile alle
sopraelevazioni di edifici già più alti, non è
condivisibile. Infatti, come è stato osservato (cfr.
Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione
Siciliana in sede giurisdizionale 22.03.2006 n. 107), le
disposizioni che disciplinano l’edificabilità nei centri
storici sono finalizzate a tutelare non solo il valore di
singoli manufatti architettonici, ma la conservazione in sé
del contesto e dell’integrità dei complessi urbanistici ed
architettonici in un’ottica di completezza dell’insieme, e
quindi dell’assetto viario preesistente, delle altezze e dei
caratteri figurativi degli edifici. Pertanto sembra corretto
ritenere che, ove si ammettesse l’inesistenza di qualsiasi
limite alla sopraelevazione degli edifici già più alti di
quelli circostanti di carattere storico artistico,
verrebbero compromesse sia le finalità di tutela degli
edifici vincolati in termini di prospettiva, di luce, di
condizioni di ambiente e di decoro, sia quelle di
conservazione dei caratteri originari del centro storico, e
in tale ottica, come condivisibilmente afferma il Comune
nelle proprie difese, anche una sopraelevazione contenuta
risulta in realtà idonea a comportare un aggravamento del
contesto. Ne discende che la prima censura, con la quale la
parte ricorrente lamenta l’erronea applicazione dell’art. 8,
primo comma, n. 1), del d.m. 02.04.1968, n. 1444, per non
aver considerato che l’edificio da sopraelevare è già più
alto di quello vincolato deve essere respinta” (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
ordinanza 01.03.2019 n. 1431 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Alla Corte costituzionale la legge regionale Veneto che
consente la deroga sulla distanze tra edifici.
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Edilizia – Distanze – Veneto – Art. 9, comma 8-bis,
l.reg. n. 14 del 2009 – Deroghe alle disposizioni in materia
di altezze previste dal d.m. n. 1444 del 1968 – Violazione
117, commi 2, lett. l), e 3, Cost. – Rilevanza e non
manifesta infondatezza.
E’ rilevante e non manifestamente
infondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 9, comma 8-bis, l.reg. Veneto 08.07.2009, n. 14
(Intervento regionale a sostegno del settore edilizio e per
favorire l'utilizzo dell'edilizia sostenibile e modifiche
alla legge regionale 12.07.2007, n. 16 in materia di
barriere architettoniche), in riferimento all’art. 117,
commi 2, lett. l), e 3, Cost., nella parte in cui consenta
le deroghe alle disposizioni in materia di altezze previste
dal d.m. n. 1444 del 1968 (1).
---------------
(1) Ha chiarito la Sezione che l’art.
9, comma 8-bis, l.reg. Veneto 08.07.2009, n. 14,
nella parte in cui consente le deroghe alle disposizioni in
materia di altezze previste dal d.m. n. 1444 del 1968, è in
contrasto con i principi della legislazione statale, dettati
dallo stesso d.m. e dall’art. 2-bis, d.P.R. n. 380 del 2001,
con conseguente violazione dell’art. 117, commi 2, lett. l),
e 3 Cost., in specie laddove non si prevede che le
consentite deroghe debbano operare nell'ambito della
definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque
funzionali a un assetto complessivo e unitario o di
specifiche aree territoriali.
Ha ricordato la Sezione che con l'introduzione dell'art.
2-bis del TUE, da parte dell'art. 30, comma 1, lett. a),
d.l. 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio
dell'economia), convertito, con modificazioni, dall'art. 1,
comma 1, della l. 09.08.2013, n. 98, l’ordinamento ha
sostanzialmente recepito l'orientamento della giurisprudenza
costituzionale, inserendo nel testo unico sull'edilizia i
principi fondamentali della vincolatività, anche per le
Regioni e le Province autonome, delle distanze legali e più
in generale delle previsioni stabilite dal d.m. n. 1444 del
1968 e dell'ammissibilità delle deroghe, solo a condizione
che siano «inserite in strumenti urbanistici, funzionali
a conformare un assetto complessivo e unitario di
determinate zone del territorio» (cfr. ad es. sentenze
nn. 185 del 2016 e 189 del 2016).
La norma statuisce quanto segue: “Ferma restando la
competenza statale in materia di ordinamento civile con
riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme
del codice civile e alle disposizioni integrative, le
regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano
possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti,
disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori
pubblici 02.04.1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni
sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a
quelli produttivi, a quelli riservati alle attività
collettive, al verde e ai parcheggi, nell'ambito della
definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque
funzionali a un assetto complessivo e unitario o di
specifiche aree territoriali“.
La deroga alla disciplina dei parametri in tema di densità,
di altezze e di distanze, realizzata dagli strumenti
urbanistici deve quindi ritenersi legittima sempre che
faccia riferimento ad una pluralità di fabbricati e sia
fondata su previsioni planovolumetriche che evidenzino,
cioè, una capacità progettuale tale da definire i rapporti
spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni
considerate come fossero un edificio unitario.
Alla luce delle considerazioni svolte, appare non coerente,
rispetto alle indicazioni interpretative offerte dalla
giurisprudenza costituzionale e ribadite dal disposto di cui
all'art. 2-bis t.u. edilizia, il mancato riferimento della
norma impugnata a quella tipologia di atti menzionati nel
testo del d.m. n. 1444 del 1968, cui va riconosciuta la
possibilità di derogare al regime delle altezze e delle
distanze.
Inoltre, la stessa giurisprudenza costituzionale ha
stabilito, con riferimento alle distanze sebbene con una
considerazione che pare potersi estendere anche qui alle
altezze stante l’analogia del testo del d.m. e la generalità
della previsione letterale dell’art. 2 bis (ben più ampia
della mera rubrica), che la deroga alle distanze minime
potrà essere contenuta, oltre che in piani particolareggiati
o di lottizzazione, in ogni strumento urbanistico
equivalente sotto il profilo della sostanza e delle
finalità, purché caratterizzato da una progettazione
dettagliata e definita degli interventi (sentenza n. 6 del
2013).
Ne consegue che devono ritenersi ammissibili le deroghe
predisposte nel contesto dei piani urbanistici attuativi, in
quanto strumenti funzionali a conformare un assetto
complessivo e unitario di determinate zone del territorio,
secondo quanto richiesto, al fine di attivare le deroghe in
esame, dall'art 2-bis del TUE, in linea con
l'interpretazione nel tempo tracciata da questa Corte
(sentenze nn. 231, 189, 185 e 178 del 2016 e n. 134 del
2014).
Tali peculiari elementi presupposti della deroga non si
rivengono nell’art. 9, comma 8-bis, l.reg. Veneto n. 14 del
2009. Il riferimento agli ampliamenti ed alle ricostruzioni
di edifici esistenti situati nelle zone territoriali
omogenee di tipo B e C, nell’espressione utilizzata dal
legislatore regionale veneto al comma 9 bis in oggetto,
appare infatti in contrasto con lo stringente contenuto che
dovrebbe assumere una previsione siffatta, risultando
destinata a legittimare deroghe al di fuori di una adeguata
pianificazione urbanistica
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
ordinanza 01.03.2019 n. 1431 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
ORDINANZA
2.1 Sempre in via preliminare, emergono i presupposti
per la rimessione alla Corte costituzionale della questione
di legittimità costituzionale della norma regionale oggetto
di applicazione e controversa nell’interpretazione fra le
parti in causa.
2.2 I fatti di causa, che appaiono sostanzialmente
incontroversi fra le parti, concernono un intervento di
edilizia abitativa realizzato in Castelfranco Veneto dalla
società An., con appalto dei lavori alla ditta Ce. s.r.l.,
relativo ad un edificio residenziale degli anni cinquanta di
cui è stata progettata la demolizione e ricostruzione
accedendo alle facoltà premiali introdotte con la normativa
regionale veneta relativa al cosiddetto “piano-casa”
(ll.rr. nn. 14 del 2009, 13 del 2011 e 32 del 2013),
compreso un ampliamento del fabbricato.
Con una serie di ricorsi proposti dalla odierna parte
appellata, contitolare di un confinante complesso
condominiale, venivano impugnati gli atti adottati dal
Comune interessato in relazione al predetto intervento.
All’esito del giudizio di prime cure il Tar Veneto, riuniti
i ricorsi, dichiarato inammissibile l’ultimo (in quanto
avente ad oggetto un atto meramente confermativo) e respinti
per il resto gli altri gravami, accoglieva in parte qua le
domande di parte ricorrente, in specie annullando gli atti
impugnati limitatamente alla parte in cui il comune di
Castelfranco si è determinato erroneamente riguardo la
verifica dell'altezza del costruendo edificio. Ciò in
accoglimento delle censure dedotte da parte ricorrente con
riferimento alla corretta applicazione del comma 8-bis
dell'art. 9 della legge regionale n. 14 del 2009; secondo il Tar tale norma, di riferimento per il caso di specie, non
consente di considerare come edificio esistente l'edificio
circostante più alto, come invece erroneamente imputato dai
Giudici di prime cure al comune di Castelfranco.
2.3 Anche le censure dedotte coi vizi di appello, richiamati
nella narrativa in fatto, si basano sulla contestata
applicazione della norma regionale predetta, di cui occorre
pertanto richiamare il tenore letterale: “Al fine di
consentire il riordino e la rigenerazione del tessuto
edilizio urbano già consolidato ed in coerenza con
l'obiettivo prioritario di ridurre o annullare il consumo di
suolo, anche mediante la creazione di nuovi spazi liberi, in
attuazione dell'articolo 2-bis del D.P.R. n. 380/2001 gli
ampliamenti e le ricostruzioni di edifici esistenti situati
nelle zone territoriali omogenee di tipo B e C, realizzati
ai sensi della presente legge, sono consentiti anche in
deroga alle disposizioni in materia di altezze previste dal
decreto ministeriale n. 1444 del 1968 e successive
modificazioni, sino ad un massimo del 40 per cento
dell'altezza dell'edificio esistente”.
3.1 Ebbene, ritiene il Collegio che la previsione
legislativa all’esame non si sottragga alla questione di
legittimità costituzionale per contrasto con l’art. 117,
comma 2 lett. l) e comma 3, della Costituzione, quale di
seguito rilevata d’ufficio ai sensi dell’art. 23, comma 3,
della legge n. 87/1953.
3.2 Si precisa, al riguardo, che la questione è senz’altro
rilevante, non potendosi dubitare dell’ammissibilità di
questioni di legittimità costituzionale attinenti a leggi di
cui il giudice a quo debba fare diretta applicazione ai fini
della decisione della causa in relazione al thema
decidendum (e, nel giudizio d’appello, al devolutum).
Ipotesi, questa, che esattamente ricorre nella fattispecie,
risultando con i motivi d’appello devoluti al presente grado
questioni che non possono essere decise indipendentemente
dall’applicazione della citata disposizione di legge
regionale, posta da tutte la parti, pubblica e private, a
fondamento sia dei provvedimenti adottati, sia delle tesi
dedotte in giudizio in ordine all’ammissibilità o meno
dell’intervento progettato.
3.2 In punto di non manifesta infondatezza,
ritiene il Collegio che la citata disposizione,
nella parte in cui consenta le deroghe alle disposizioni in
materia di altezze previste dal noto d.m. 1444 cit. sia in
contrasto con i principi della legislazione statale, dettati
dallo stesso d.m. e dall’art. 2-bis dPR 380/2001, con
conseguente violazione dell’art. 117, comma 2, lett. l) e 3
Cost., in specie laddove non si prevede che le consentite
deroghe debbano operare nell'ambito della definizione o
revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un
assetto complessivo e unitario o di specifiche aree
territoriali.
3.3 Come noto, con l'introduzione dell'art. 2-bis del TUE,
da parte dell'art. 30, comma 1, lettera a), del
decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il
rilancio dell'economia), convertito, con modificazioni,
dall'art. 1, comma 1, della legge 09.08.2013, n. 98,
l’ordinamento ha sostanzialmente recepito l'orientamento
della giurisprudenza costituzionale, inserendo nel testo
unico sull'edilizia i principi fondamentali della
vincolatività, anche per le Regioni e le Province autonome,
delle distanze legali e più in generale delle previsioni
stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968 e dell'ammissibilità
delle deroghe, solo a condizione che siano «inserite in
strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto
complessivo e unitario di determinate zone del territorio»
(cfr. ad es. sentenze nn. 185 del 2016 e 189 del 2016).
La norma statuisce quanto segue: “Ferma restando la
competenza statale in materia di ordinamento civile con
riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme
del codice civile e alle disposizioni integrative, le
regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano
possono prevedere, con proprie leggi e regolamenti,
disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori
pubblici 02.04.1968, n. 1444, e possono dettare disposizioni
sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a
quelli produttivi, a quelli riservati alle attività
collettive, al verde e ai parcheggi, nell'ambito della
definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque
funzionali a un assetto complessivo e unitario o di
specifiche aree territoriali“.
La deroga alla disciplina dei parametri in
tema di densità, di altezze e di distanze, realizzata dagli
strumenti urbanistici deve quindi ritenersi legittima sempre
che faccia riferimento ad una pluralità di fabbricati e sia
fondata su previsioni planovolumetriche che evidenzino,
cioè, una capacità progettuale tale da definire i rapporti
spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni
considerate come fossero un edificio unitario (artt. 8 lett.
B nel caso di specie e 9, ultimo comma, del d.m. n. 1444 del
1968).
3.4 Alla luce delle considerazioni svolte,
appare non coerente, rispetto alle indicazioni
interpretative offerte dalla giurisprudenza costituzionale e
ribadite dal disposto di cui all'art. 2-bis t.u. edilizia,
il mancato riferimento della norma impugnata a quella
tipologia di atti menzionati nel testo del d.m. n. 1444 del
1968 richiamato, cui va riconosciuta la possibilità di
derogare al regime delle altezze e delle distanze.
Inoltre, la stessa giurisprudenza
costituzionale ha stabilito, con riferimento alle distanze
sebbene con una considerazione che pare potersi estendere
anche qui alle altezze stante l’analogia del testo del d.m.
e la generalità della previsione letterale dell’art. 2-bis
(ben più ampia della mera rubrica), che la deroga alle
distanze minime potrà essere contenuta, oltre che in piani
particolareggiati o di lottizzazione, in ogni strumento
urbanistico equivalente sotto il profilo della sostanza e
delle finalità, purché caratterizzato da una progettazione
dettagliata e definita degli interventi
(sentenza n. 6 del 2013).
Ne consegue che devono ritenersi
ammissibili le deroghe predisposte nel contesto dei piani
urbanistici attuativi, in quanto strumenti funzionali a
conformare un assetto complessivo e unitario di determinate
zone del territorio, secondo quanto richiesto, al fine di
attivare le deroghe in esame, dall'art 2-bis del TUE, in
linea con l'interpretazione nel tempo tracciata da questa
Corte (ex
multis, sentenze nn. 231, 189, 185 e 178 del 2016 e n.
134 del 2014).
3.5 Peraltro, tali peculiari elementi presupposti della
deroga non si rivengono del testo della norma regionale in
contestazione.
Il riferimento agli ampliamenti ed alle ricostruzioni di
edifici esistenti situati nelle zone territoriali omogenee
di tipo B e C, nell’espressione utilizzata dal legislatore
regionale veneto al comma 9-bis in oggetto, appare infatti
in contrasto con lo stringente contenuto che dovrebbe
assumere una previsione siffatta, risultando destinata a
legittimare deroghe al di fuori di una adeguata
pianificazione urbanistica.
L'assenza di precise indicazioni, in coerenza con quanto già
evidenziato dalla richiamata giurisprudenza costituzionale,
non consente di attribuire agli interventi in questione un
perimetro di azione necessariamente coerente con l'esigenza
di garantire omogeneità di assetto a determinate zone del
territorio; infatti, la dizione della norma si presta, sul
piano semantico, a legittimare (come avvenuto nel caso di
specie) anche interventi diretti a singoli edifici, in
aperto contrasto con le indicazioni interpretative offerte
in precedenza.
In tale ottica appare pertanto non manifestamente infondata
la questione di legittimità costituzionale della norma
censurata, in quanto legittima deroghe alla disciplina delle
altezze dei fabbricati al di fuori dell'ambito della
competenza regionale concorrente in materia di governo del
territorio, a fronte del principio contenuto nell’art. 2-bis
cit., ed in violazione del limite dell'ordinamento civile
assegnato alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.
3.6 In materia va altresì richiamata, a
fini di completezza e di estensione dei principi predetti
allo specifico tema delle altezze, la valenza generale del
d.m. 02.04.1968 n. 1444 che, essendo stato emanato su delega
dell'art. 41-quinquies, l. 17.08.1942 n. 1150, inserito
dall'art. 17, l. 06.08.1967 n. 765, ha efficacia e valore di
legge, sicché sono comunque inderogabili le sue disposizioni
in tema di limiti di densità edilizia, di altezza e di
distanza tra i fabbricati
(cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. IV, 02.12.2013, n.
5732).
Le relative disposizioni in tema di
distanze tra costruzioni non vincolano solo i Comuni, tenuti
ad adeguarvisi nell'approvazione di nuovi strumenti
urbanistici o nella revisione di quelli esistenti, ma sono
immediatamente operanti nei confronti dei proprietari
frontisti; tale conclusione vale, analogamente, per le
altezze, poiché scopo delle norme regolamentari concernenti
l'altezza degli edifici non è soltanto la tutela dell'igiene
pubblica, ma, insieme, quella del decoro e dell'indirizzo
urbanistico dell'abitato
(cfr. in termini ad es. Cons. Stato, sez. IV, 12.07.2002, n.
3931).
Analogamente la giurisprudenza è da tempo orientata in modo
univoco ad affermare che il decreto
ministeriale in questione (ascrivibile secondo una
preminente teoria all'atipica categoria dei regolamenti
delegati o liberi) ha efficacia di legge, cosicché le sue
disposizioni, anche in tema di limiti inderogabili di
altezza dei fabbricati, prevalgono sulle contrastanti
previsioni dei regolamenti locali successivi, alle quali si
sostituiscono per inserzione automatica, con conseguente
loro diretta operatività nei rapporti tra privati
(cfr. a partire da Cass ss.uu. 01.07.1997 n. 5889, nonché ad
es. Cass., sez. II, 14.03.2012, n. 4076 e Cass., sez. un.,
07.07.2011, n. 14953).
A fronte della riconosciuta valenza del
d.m. 1444, confermata dalla consolidata giurisprudenza
costituzionale (cfr.
sentenze 114/2012, 282/2016, 185/2016, 178/2016, 41/2017),
gli spazi di derogabilità appaiono ammissibili, in
capo al legislatore regionale, nei limiti dettati dal
legislatore statale, dotato di competenza in tema appunto di
principi fondamentali in materia di governo del territorio;
orbene, nel caso di specie il legislatore regionale appare
aver oltrepassato detti limiti, nella parte in cui consente
le indicate deroghe al di fuori dell’ammesso ambito di “definizione
o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a
un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree
territoriali”.
4. Sussistendo tutti i presupposti per sollevare questione
incidentale di legittimità costituzionale ai sensi dell’art.
23 l. 11.03.1953, n. 87, la questione, quale sopra
sollevata, deve essere devoluta alla Corte Costituzionale,
cui gli atti del presente giudizio vanno pertanto
immediatamente trasmessi, previa sospensione del presente
giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta),
dichiara rilevante e non manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale dell’art.
9, comma 8-bis, della legge regionale del Veneto 08.07.2009,
n. 14
(Intervento regionale a sostegno del settore edilizio e per
favorire l'utilizzo dell'edilizia sostenibile e modifiche
alla legge regionale 12.07.2007, n. 16 in materia di
barriere architettoniche), in riferimento
all’art. 117, secondo comma lett. l) e terzo comma, della
Costituzione, nei sensi e nei termini di cui al punto 3.2
della parte motiva della presente ordinanza.
Dispone la sospensione del presente giudizio sino alla
decisione della Corte Costituzionale sulla questione di
legittimità costituzionale quale sopra sollevata. |
URBANISTICA:
Reato di lottizzazione abusiva in presenza
dell'autorizzazione della P.A. - Configurabilità - Artt. 30
e 44 d.PR. n. 380/2001 - Fattispecie.
Il reato di lottizzazione abusiva è
configurabile anche in presenza dell'autorizzazione della
P.A., nel caso in cui quest'ultima contrasti con gli
strumenti urbanistici vigenti (precisandosi che il giudice,
ove ravvisi tale contrasto, può accertare l'abusività
dell'intervento prescindendo da qualunque giudizio
sull'autorizzazione, senza necessità di operare alcuna
disapplicazione del provvedimento amministrativo).
Nella specie, sono state ritenuta integrate le violazione,
dei combinati disposti degli artt. 30, comma 1, e 44, lett.
c), d.P.R. n. 380/2001, attraverso l'approvazione di un nuovo
schema di lottizzazione convenzionata da parte del Comune,
che consentiva la realizzazione di un intervento
edificatorio in pieno contrasto sia con la variante al PRG
sia con la finalità di utilità pubblica individuate dalla
stessa amministrazione comunale e, cioè, quella di creare
strutture socio-assistenziali per anziani consentendo, di
fatto, la realizzazione di edifici che per natura giuridica
e tipologia potevano qualificarsi come residenziali.
...
Lottizzazione abusiva - Natura di reato a consumazione
alternativa integrabile anche a titolo di sola colpa -
Concorso materiale - Difetto di autorizzazione - Contrasto
con le prescrizioni della legge o degli strumenti
urbanistici - Giurisprudenza.
Il reato di lottizzazione abusiva è un
reato a consumazione alternativa, potendosi realizzare sia
per il difetto di autorizzazione sia per il contrasto con le
prescrizioni della legge o degli strumenti urbanistici, è
può essere integrato anche a titolo di sola colpa
(principio affermato in relazione ad una fattispecie di
acquisto, come autonome residenze o private, di unità
immobiliari facenti parte di complesso turistico-alberghiero:
Sez. 3, n. 17865/2009, PM. in proc. Quarta e altri).
Sicché, appare pacifica l'ammissibilità di
un concorso materiale tra l'art. 44, lett. b) ed il reato di
lottizzazione abusiva, previsto dall'art. 44, comma primo,
lett. c), del d.PR. 06.06.2001, n. 380. Pertanto, è evidente
che la realizzazione di unità abitative eseguite mediante
tali atti amministrativi, illegittimi ed illeciti per
contrasto con gli strumenti urbanistici e con le norme
nazionali e regionali, integra la violazione di
lottizzazione abusiva.
...
Lottizzazione abusiva - Configurabilità anche senza la
costruzione di edifici o altri interventi che, singolarmente
considerati, richiedano il permesso di costruire -
Lottizzazione negoziale - Interpretazione giuridica del
termine "frazionamento".
Il reato di lottizzazione abusiva, non
soltanto quella negoziale, può configurarsi anche senza la
costruzione di edifici o altri interventi che, singolarmente
considerati, richiedano il permesso di costruire, come nel
caso del picchettamento e della delimitazione dei terreni o
della modifica dell'originaria destinazione d'uso degli
edifici (Cass.,
Sez. 3, n. 38799 del 16/9/2015, De Paola, con numerosi
precedenti conformi).
Con specifico riferimento alla
lottizzazione negoziale, la terminologia utilizzata
nell'articolo 30, comma 1, per descriverla (in particolare,
il termine "frazionamento"), è stata letta dalla
giurisprudenza nel senso che tale attività non deve
necessariamente avvenire attraverso un'apposita operazione
catastale che preceda le vendite o, comunque, gli atti di
disposizione (v.
Sez. 3, n. 6180 del 04/11/2014 (dep. 2015), Di Stefano e
precedenti conformi), potendosi anche
realizzare mediante ogni altra forma di suddivisione di
fatto, atteso che il termine "frazionamento" deve ritenersi
utilizzato dal legislatore in modo atecnico e, pertanto,
riferito a qualsiasi attività giuridica che abbia per
effetto la suddivisione in lotti di una più ampia estensione
territoriale, comunque predisposta od attuata ed anche se
avvenuta in forma non catastale, attribuendone la
disponibilità ad altri al fine di realizzare una non
consentita trasformazione urbanistica o edilizia del
territorio, tanto che può configurarsi, perciò,
lottizzazione negoziale anche nell'ipotesi in cui venga
stipulato un solo atto di trasferimento a più acquirenti, i
quali pervengano nella disponibilità e/o nel godimento di
quote di un terreno indiviso
(Sez. 3, n. 6080/2008), Casile e altri).
...
Lottizzazione abusiva - Limiti alla buona fede - Connessione
tra le persone fisiche e persona giuridica - Onere della
prova.
In tema di lottizzazione abusiva non può
essere invocata la buona fede quando vi sia una intima
connessione tra le persone fisiche e la società per conto
della quale hanno agito, che non può pertanto definirsi
estranea al reato e che ha evidentemente svolto il ruolo di
mero strumento operativo attraversò il quale gli associati
hanno posto in essere l'attività lottizzatoria.
Per cui, non può considerarsi terza estranea al reato ed al
processo la persona giuridica che sia costituita per
schermare una condotta attraverso la quale il reo agisca
come effettivo titolare dei beni. Inoltre, la partecipazione
della persona giuridica al processo penale di cognizione può
essere assicurata, nel rispetto dei principi convenzionali,
attraverso l'applicazione estensiva di norme interne.
...
Attività lottizzatoria - Configurabilità mediante qualsiasi
utilizzazione del suolo, anche in presenza di
un'autorizzazione a lottizzare - Convenzione lottizzatoria e
permesso di costruire.
In tema di lottizzazione abusiva la
successiva edificazione del territorio è solo lo scopo cui
tende l'attività lottizzatoria, la quale può configurarsi
anche prima che tale scopo venga effettivamente raggiunto.
Per cui, l'attività lottizzatoria si configura, mediante
qualsiasi utilizzazione del suolo che, indipendentemente
dalla entità del frazionamento fondiario e dal numero dei
proprietari, preveda la realizzazione, contemporanea o
successiva, di una pluralità di edifici a scopo
residenziale, turistico o industriale, che postulino
l'attuazione di opere di urbanizzazione primaria o
secondaria, occorrenti per le necessità dell'insediamento;
attraverso ogni intervento sul territorio tale da comportare
una nuova definizione dell'assetto preesistente in zona non
urbanizzata o non sufficientemente urbanizzata, per cui
esiste la necessità di attuare le previsioni dello strumento
urbanistico generale attraverso la redazione e la stipula di
una convenzione lottizzatoria adeguata alle caratteristiche
dell'intervento di nuova realizzazione, ovvero allorquando
detto intervento non potrebbe essere in nessun caso
realizzato, poiché, per le sue connotazioni oggettive, si
pone in contrasto con previsioni di zonizzazione e/o
localizzazione dello strumento generale di pianificazione,
che non possono esser modificati da piani urbanistici
attuativi; quando venga posta in essere qualsiasi attività
che oggettivamente comporti anche solo il pericolo di una
urbanizzazione non prevista o diversa da quella programmata;
in presenza di condotta che tenda a consolidare le
trasformazioni già attuate mediante modifiche, migliorie o
integrazioni del preesistente, posto che l'aggressione alla
sistemazione del suolo si protrae finché perdurano
comportamenti che compromettono la scelta di destinazione e
di uso riservata alla competenza pubblica.
Inoltre, il reato di lottizzazione abusiva può configurarsi
anche in presenza di un'autorizzazione a lottizzare, quando
l'esecuzione dell'intervento edilizio sia eseguito in
difformità da quanto autorizzato ovvero quando
l'autorizzazione rilasciata sia illecita o illegittima per
contrasto con la normativa di settore e gli strumenti
urbanistici.
La lottizzazione abusiva si distingue, peraltro, dal
semplice abuso edilizio, dovendosi tenere conto della
funzione intrinseca della lottizzazione, la quale assolve al
compito di dare attuazione allo strumento generale di
pianificazione urbanistica, ove questo esista, o di
formulare comunque un piano particolareggiato di
urbanizzazione.
Nella convenzione lottizzatoria, infatti, si stabilisce un
programma concreto di realizzazione delle opere di
urbanizzazione mediante il versamento dei relativi
contributi pecuniari o mediante la esecuzione diretta delle
opere e la cessione delle aree necessarie da parte del
privato lottizzatore.
Ne deriva che quando la nuova costruzione realizzata dal
privato non presuppone opere di urbanizzazione primarie o
secondarie e quindi non implica una pianificazione
urbanistica, essa richiede certamente il previo permesso di
costruire (a tutela dell'interesse pubblico al preventivo
controllo di tutti gli interventi trasformativi dell'assetto
territoriale), ma non necessita anche di un'autorizzazione
lottizzatoria, giacché in tal caso, mancando appunto una
lottizzazione, non è pregiudicata la riserva pubblica di
pianificazione urbanistica.
...
Confisca urbanistica in assenza della sentenza di condanna
da parte del giudice penale - Il proscioglimento per
intervenuta prescrizione non osta alla confisca del bene
lottizzato - Poteri di confisca del giudice di primo grado -
Art. 578-bis cod. proc. pen..
La confisca urbanistica non esige una
sentenza di condanna da parte del giudice penale, posto che
il rispetto delle garanzie previste dalla CEDU richiede solo
un pieno accertamento della responsabilità personale di chi
è soggetto alla misura ablativa.
Per cui, il proscioglimento per intervenuta prescrizione non
osta alla confisca del bene lottizzato se il giudice ha
accertato la sussistenza del reato di lottizzazione abusiva
nelle sue componenti oggettive e soggettive, assicurando
alla difesa il più ampio diritto alla prova e al
contraddittorio. Inoltre, l'art. 578-bis cod. proc. pen.
regola solo la fase dell'impugnazione ma da ciò, non può
inferirsi il divieto per il giudice di primo grado di
disporre la confisca nel caso in cui dichiara prescritto il
reato nonostante l'avvenuto accertamento della lottizzazione
illecita.
Sicché, la confisca in caso di reato prescritto, può essere
ordinata anche dal giudice di primo grado nel caso sia stata
accertata la lottizzazione.
...
Limite al potere del giudice di disporre la confisca dei
terreni lottizzati - Provvedimenti giurisdizionali del
giudice amministrativo passati in giudicato.
Il potere del giudice di disporre la
confisca dei terreni lottizzati trova un limite nei
provvedimenti giurisdizionali del giudice amministrativo
passati in giudicato che abbiano espressamente affermato la
legittimità della concessione o della autorizzazione
edilizia ed il conseguente diritto del cittadino alla
realizzazione dell'opera
(Sez. 3, n. 38700/2018, De Simone; Sez. 2, n. 50189/2015,
Comune Di Golfo Aranci e altri) (Core
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 26.02.2019 n. 8350 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI:
Diniego di iscrizione nella white list di società che ha
costituito associazione antiraket.
---------------
●
Informativa antimafia - White list – Iscrizione – Verifica
presupposti - Criteri – Gli stessi criteri che presiedono
l’informativa antimafia
●
Informativa antimafia - White list – Iscrizione – Diniego -
Per infiltrazione mafiosa – Società che ha costituito
associazione antiraket – Irrilevanza ex se.
●
Il diniego di iscrizione nell'elenco dei fornitori,
prestatori di servizi ed esecutori (white list) non soggetti
a tentativo di infiltrazione mafiosa é disciplinato dagli
stessi principi che regolano l’interdittiva antimafia, in
quanto si tratta di misure volte alla salvaguardia
dell'ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra
le imprese e del buon andamento della Pubblica
amministrazione (1).
●
Non è ostativo al diniego di iscrizione alla
whait liste la circostanza che la società che ha presentato
la relativa istanza abbia costituito una associazione
antiracket (2).
---------------
(1)
Cons. St., sez. I, 01.02.2019, n. 337; id.
21.09.2018, n. 2241.
Ha chiarito la Sezione (24.01.2018,
n. 492) che le disposizioni relative
all'iscrizione nella cd. white list formano un corpo
normativo unico con quelle dettate dal codice antimafia per
le relative misure antimafia (comunicazioni ed
informazioni), tanto che, come chiarisce l'art. 1, comma
52-bis, l. n. 190 del 2012, introdotto dall'art. 29, comma
1, d.l. n. 90 del 2014 convertito, con modificazioni, dalla
l. n. 114 del 2014, "l'iscrizione nell'elenco di cui al
comma 52 tiene luogo della comunicazione e dell'informazione
antimafia liberatoria anche ai fini della stipula,
approvazione o autorizzazione di contratti o subcontratti
relativi ad attività diverse da quelle per la quali essa è
stata disposta"; “l'unicità e l'organicità del
sistema normativo antimafia vietano all'interprete una
lettura atomistica, frammentaria e non coordinata dei due
sottosistemi -quello della cd. white list e quello delle
comunicazioni antimafia- che, limitandosi ad un criterio
formalisticamente letterale e di cd. stretta
interpretazione, renda incoerente o addirittura vanifichi il
sistema dei controlli antimafia”.
Anche in relazione al diniego di iscrizione nella white list
–iscrizione che presuppone la stessa accertata
impermeabilità alla criminalità organizzata– è sufficiente
il pericolo di infiltrazione mafiosa fondato su un numero di
indizi tale da rendere logicamente attendibile la
presunzione dell’esistenza di un condizionamento da parte
della criminalità organizzata.
Ha aggiunto la Sezione che la normativa antimafia è
espressione della potestà di cui all’art. 117, comma 1,
lett. h) …. “ordine pubblico e sicurezza” ed e) … “tutela
della concorrenza…” Cost., in relazione all’art. 1 del
Protocollo addizionale 1 alla CEDU, sul presupposto che la
formula elastica adottata dal legislatore per la disciplina
delle interdittive antimafia –che consente di procedere in
tal senso anche solo su base indiziaria– deve ritenersi
quale corretto bilanciamento dei valori coinvolti. Infatti,
se da una parte è opportuno fornire adeguata tutela alla
libertà di esercizio dell’attività imprenditoriale,
dall’altra non può che considerarsi preminente l’esigenza di
salvaguardare l’interesse pubblico al presidio del sistema
socio-economico da qualsivoglia inquinamento mafioso (Cons.
St., sez. III, 09.10.2018, n. 5784).
Non vi sono dubbi che l’esigenza di tutela della libertà di
tutti i cittadini e di salvaguardia della convivenza
democratica sono finalità perfettamente coincidenti con i
principi della CEDU, ed anche la formula “elastica”
adottata dal legislatore nel disciplinare l’informativa
interdittiva antimafia su base indiziaria ha il suo
fondamento nella ragionevole esigenza del bilanciamento tra
la libertà di iniziativa economica riconosciuta dall’art. 41
Cost. e l’interesse pubblico alla salvaguardia dell’ordine
pubblico e alla prevenzione dei fenomeni mafiosi che, del
resto, mediante l’infiltrazione nel tessuto economico e nei
mercati, compromettono anche –oltre alla sicurezza pubblica–
il valore costituzionale di libertà economica,
indissolubilmente legato alla trasparenza e alla corretta
competizione nelle attività con cui detta libertà si
manifesta in concreto nei rapporti tra soggetti
dell’ordinamento.
Ha ancora chiarito la Sezione (n. 5784 del 2018) che per
quanto poi concerne la "presunzione di non colpevolezza",
il giudizio, fondato secondo il criterio del "più
probabile che non", costituisce un regola che si palesa
"consentanea alla garanzia fondamentale della presunzione
di non colpevolezza", di cui all’art. 27, comma 2, Cost.,
cui è ispirato anche il punto 2 del citato art. 6 CEDU, in
quanto "non attiene ad ipotesi di affermazione di
responsabilità penale" (Cass. civ., sez. I, 30.09.2016,
n. 19430).
Da molto tempo, infatti, le consorterie di tipo mafioso
hanno esportato fuori dai tradizionali territori di origine
l’uso intimidatorio della violenza ed hanno creato vere e
proprie holding. Si tratta di quelle aree opache nelle quali
notoriamente i proventi di attività illecite vengono
reinvestiti in imprese formalmente estranee (perché
intestate a prestanome “puliti”) e dispersi in una
miriade di società collegate da vincoli di vario tipo con
l’organizzazione criminale.
Il legislatore, allontanandosi dal modello della repressione
penale, ha conseguentemente impostato l'interdittiva
antimafia come strumento di interdizione e di controllo
sociale, al fine di contrastare le forme più subdole di
aggressione all'ordine pubblico economico, alla libera
concorrenza ed al buon andamento della Pubblica
amministrazione. Il carattere preventivo del provvedimento
prescinde, quindi, dall'accertamento di singole
responsabilità penali, essendo il potere esercitato dal
Prefetto espressione della logica di anticipazione della
soglia di difesa sociale, finalizzata ad assicurare una
tutela avanzata nel campo del contrasto alle attività della
criminalità organizzata (Cons.
St., sez. III, 30.01.2015, n. 455;
23.02.2015, n. 898).
(2) Ha affermato la Sezione che la costituzione di una associazione
antiracket è un nuovo strumento utilizzato dalla mafia per
insinuarsi nell’economia del Paese: accreditarsi l’opinione
pubblica e le forze dell’ordine, passando per vittima della
criminalità organizzata, di cui, invece, si muovono le fila.
Passare per vittima di un reato può essere un ottimo
espediente per celare di essere, invece, tra i mandanti
dello stesso (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 20.02.2019 n. 1182 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Accesso al fascicolo di causa di un terzo estraneo al
giudizio.
---------------
Accesso ai documenti - Fascicolo di causa giudiziaria -
Istanza di soggetto che intende proporre opposizione di
terzo - Diniego.
Deve essere respinta l'istanza di
accesso al fascicolo processuale di un soggetto che non ha
manifestato l'intenzione di costituirsi in giudizio (1).
---------------
L'accesso agli atti e ai documenti processuali sfugge alla
disciplina dettata dagli artt. 22 ss., l. 07.08.1990, n.
241, non avendo essi natura di documento amministrativo (cfr.,
per un’ampia disamina, il
decreto del Presidente del Cga 21.06.2018, n. 32).
Ebbene, mentre l’accesso ai provvedimenti del giudice è
assicurato a chiunque vi abbia interesse (art. 7 disp. att.
c.p.a.; art. 744 c.p.c.), l’accesso agli atti e ai documenti
di parte è, allo stato, regolato dall’art. 17, comma 3,
d.P.C.M. 16.02.2016, n. 40, recante le regole
tecnico-operative per l'attuazione del processo
amministrativo telematico, in base al quale “L'accesso
(al fascicolo processuale telematico) è altresì consentito
ai difensori muniti di procura, agli avvocati domiciliatari,
alle parti personalmente nonché, previa autorizzazione del
Giudice, a coloro che intendano intervenire volontariamente
nel giudizio”.
L’accesso di terzi al fascicolo processuale deve essere
assicurato dal giudice, che nell’ambito della giustizia
amministrativa non può che essere il Collegio, essendo
eccezionali i poteri di decisione attribuiti all’organo
monocratico (il Presidente).
La necessità di consentire agli interessati di interloquire
sull’istanza consiglia, in difetto di una diversa
regolamentazione procedimentale, che le parti siano sentite
in camera di consiglio, così come è stato disposto
nell’odierna vicenda (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. I,
decreto collegiale 18.02.2019 n. 296 -
commento tratto da e link a
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LAVORI PUBBLICI:
Giurisdizione giudice amministrativo nella controversia per
l’annullamento della revoca dell’autorizzazione al subentro
dell’esecutrice di lavori.
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Giurisdizione – Contratti della Pubblica amministrazione
– Subentro – Autorizzazione – Revoca – Impugnazione –
Giurisdizione giudice amministrativo.
La domanda di annullamento della
revoca dell’autorizzazione al subentro dell’esecutrice di
lavori rientra nell’ambito della giurisdizione di
legittimità del giudice amministrativo, secondo quanto
disposto dal comma 1 dell’art. 7 c.p.a., costituendo la
revoca espressione di un potere amministrativo autoritativo,
frutto di una valutazione tipicamente amministrativa (1).
---------------
(1) Ha aggiunto il Tar che ugualmente rientra nell’ambito della
giurisdizione amministrativa la relativa domanda
risarcitoria.
Non sussiste, invece, la giurisdizione amministrativa con
riguardo alla richiesta di risarcimento del danno formulata
nei confronti dei convenuti funzionari comunali sussistendo
la giurisdizione del giudice ordinario, in base a quanto
affermato dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite della
Corte di Cassazione, nel loro ruolo di giudice dei conflitti
di giurisdizione ex art. 111, ultimo comma, Cost., a partire
dall’ordinanza n. 13659 del 2006, secondo cui “ai fini
della risoluzione del problema processuale non rileva
stabilire se il F. abbia agito quale organo dell'Università,
ovvero, a causa del perseguimento di finalità private, si
sia verificata la cd. "frattura" del rapporto organico.
Nell'uno, come nell'altro caso, l'azione risarcitoria è
proposta nei confronti del funzionario in proprio, e,
quindi, nei confronti di un soggetto privato, distinto
dall'amministrazione, con la quale, al più, può risultare
solidalmente obbligato (art. 28 Cost.). La questione di
giurisdizione, infatti, dalla quale esulano le altre sopra
accennate, va risolta esclusivamente sulla base dell'art.
103 Cost., che non consente di ritenere che il giudice
amministrativo possa conoscere di controversie di cui non
sia parte una pubblica amministrazione, o soggetti ad essa
equiparati”.
Tale lettura è stata di recente confermata anche
dall’ordinanza n. 19677 del 2016, con cui le SS.UU. della
Corte di Cassazione, nel richiamare l’ordinanza del 2006 e
quelle n. 5914 del 2008, n. 11932 del 2010 e n. 5408 del
2014, hanno ribadito che “presupposto della giurisdizione
amministrativa secondo la Carta costituzionale è, …omissis…,
che la tutela giurisdizionale coinvolgente le situazioni
giuridiche nella giurisdizione di legittimità ed in quella
esclusiva debba avere luogo con la partecipazione in
posizione attiva o passiva della pubblica amministrazione o
del soggetto che, pur non facendo parte dell'apparato
organizzatorio di essa, eserciti le attribuzioni
dell'Amministrazione, così ponendosi come pubblica
amministrazione in senso oggettivo”, e hanno rilevato
che “il profilo della giurisdizione amministrativa in
questi termini trova conferma nel codice del processo
amministrativo, atteso che, …omissis…, l'art. 7, comma 1,
nell'individuare la giurisdizione del giudice amministrativo
sulle controversie nelle quali si faccia questione di
interessi legittimi e, nelle particolari materie, di diritti
soggettivi, riferisce tali controversie a ‘l'esercizio o il
mancato esercizio del potere amministrativo’ e le dice
riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti
riconducibili anche mediatamente all'esercizio di tale
potere, posti in essere da pubbliche
amministrazioni…omissis… Tale precisazione evidenzia in modo
indubitabile che la controversia riguarda quelle forme di
esercizio del potere in quanto poste in essere
dall'Amministrazione, il che non lascia dubbi sul fatto che
soggettivamente la controversia esige che una delle parti
sia la pubblica amministrazione e l'altra il soggetto che
faccia la questione sull'interesse legittimo o sul diritto
soggettivo. Il dubbio sulla possibilità che la controversia
possa riguardare la lesione di interessi legittimi o di
diritti soggettivi fra tale soggetto e colui che agisca per
l'Amministrazione con nesso di rappresentanza organica è,
pertanto, chiaramente fugato. Lo è ancora di più quando si
legge il comma 2 dello stesso articolo, là dove esso
proclama che per pubbliche amministrazioni, ai fini del
presente codice, si intendono anche i soggetti ad esse
equiparati o comunque tenuti al rispetto dei principi del
procedimento amministrativo: è nuovamente palese che ci si
riferisce al profilo oggettivo della pubblica
amministrazione o di chi ad essa è equiparato” (Tar
Veneto, sez. III, 28.08.2018, n. 871) (TAR
Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 14.02.2019 n. 847 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
E' illegittimo il diniego di nulla-osta paesaggistico per la
realizzazione di una piscina interrata pertinenziale in zona
agricola laddove
la Soprintendenza, nell’escludere la realizzabilità della
piscina in zona agricola e nel richiederne lo spostamento in
zona residenziale senza alcuna motivazione che evidenziasse
la sussistenza di possibili ragioni di tale scelta sul piano
della complessiva conformazione estetico-culturale
dell’area, si è arrogata un potere di natura urbanistica, di
competenza di altra autorità.
Va rammentato che “la tutela
paesaggistica, siccome garantita dall'art. 9 della
Costituzione, si giustifica non per il dato fisico in sé, ma
per i valori estetico-culturali di cui esso è portatore”.
I poteri volti all’accertamento della compatibilità
urbanistica e paesaggistica di un’opera, ancorché incidenti
sul medesimo ambito territoriale, appartengono ad autorità
diverse e soprattutto sono funzionali alla cura di interessi
diversi (il primo all’ordinato governo del
territorio, il secondo alla tutela della identità
estetico-culturale dei siti).
Tale conclusione, sostenuta da autorevole dottrina in sede
di inquadramento teorico generale dei cc.dd. interessi
differenziati rispetto all’urbanistica, appare ormai
pacifica anche a seguito del suo recepimento da parte della
giurisprudenza costituzionale: “L'ambito materiale cui
ricondurre le competenze relative ad attività che presentano
una diretta od indiretta rilevanza in termini di impatto
territoriale, va ricercato non secondo il criterio
dell'elemento materiale consistente nell'incidenza delle
attività in questione sul territorio, bensì attraverso la
valutazione dell'elemento funzionale, nel senso della
individuazione degli interessi pubblici sottesi allo
svolgimento di quelle attività, rispetto ai quali
l'interesse riferibile al “governo del territorio” e le
connesse competenze non possono assumere carattere di
esclusività, dovendo armonizzarsi e coordinarsi con la
disciplina posta a tutela di tali interessi differenziati.”.
Come già costantemente evidenziato da questo TAR, in
adesione al richiamato indirizzo esegetico, rispetto a tale,
corretta impostazione delle relative competenze, un
esercizio del potere paesaggistico avente contenuti
unicamente urbanistici “appare in contrasto con le finalità
per cui il potere stesso è attribuito dalla legge
all’amministrazione, in quanto quest’ultima opera una
sovrapposizione non consentita fra profilo paesaggistico e
profilo urbanistico, di competenza di altre autorità. Il
bene-interesse tutelato dai rispettivi poteri amministrativi
è, all’evidenza, diverso (….)”; “diversamente dalla materia
urbanistica, in materia paesaggistica l’amministrazione non
ha potere conformativo del diritto di proprietà immobiliare,
giacché il vincolo paesaggistico ha natura dichiarativa –di
caratteristiche estetico-culturali connaturali al bene- e
non costitutiva”.
---------------
La Soprintendenza, nell’escludere la realizzabilità della
piscina in zona agricola, e nel richiederne lo spostamento
in zona residenziale senza alcuna motivazione che
evidenziasse la sussistenza di possibili ragioni di tale
scelta sul piano della complessiva conformazione
estetico-culturale dell’area, si è arrogata un potere di
natura urbanistica, di competenza di altra autorità.
Si aggiunga peraltro alle superiori riflessioni che, come
pure dedotto in ricorso, per costante indirizzo
giurisprudenziale (cui aderisce questo TAR almeno a partire
dalla sentenza n. 1253/2012, nella quale si è affermato che
“una piscina costituisce in generale opera pertinenziale che
non implica consumo dei suoli per le sue caratteristiche”),
anche da un punto di vista urbanistico la realizzazione di
piscine interrate in zona agricola è conforme alla
disciplina di piano.
Tanto che la giurisprudenza pacificamente riconosce l’assentibilità,
in quanto pertinenziale rispetto ad edificio residenziale
(elemento incontestato nella fattispecie dedotta, e peraltro
risultante documentalmente), della piscina realizzata in
zona agricola, finanche in sede di sanatoria: il che a
fortiori induce a ritenere legittima la sua realizzazione in
sede di rilascio del titolo abilitativo.
---------------
3. Il ricorso è fondato.
In disparte il profilo relativo alla dedotta illegittimità
del provvedimento impugnato per avere prescritto la
traslazione della piscina in zona B2 (laddove il ricorrente
ha documentato che nessuna porzione della proprietà
interessata al progetto possiede tale qualificazione), ciò
che appare dirimente –sul piano sostanziale- è che anche ove
la prescrizione medesima avesse inteso riferirsi alla zona
qualificata come B3, essa sarebbe affetta dal dedotto
sviamento.
La Soprintendenza ha infatti condizionato la compatibilità
paesaggistica della piscina per un verso –in modo del
tutto conforme al relativo paradigma normativo, e alla causa
del relativo potere– a modifiche progettuali (non impugnate)
incidenti sull’aspetto estetico-culturale dell’opera (“le
pareti ed il fondo vengano rifinite con intonaco costituito
da sabbia e cemento additivato con resina epossidica, nelle
giuste proporzioni e ultimati con ‘pastella di cemento’
colorata con ossidi minerali nella tonalità delle terre
naturali o, in alternativa, con malta colorata
preconfezionata cementizia osmotica nello stesso colore del
terreno circostante””); e, per altro verso, alla
contestata traslazione in diversa zona urbanistica.
Quest’ultima prescrizione, oltre a non essere motivata, e ad
essere comunque –ove in tesi motivata per implicito- di
dubbia ragionevolezza e logicità sotto il profilo della cura
dell’interesse pubblico (alla tutela del paesaggio) cui è
correlata la causa del potere esercitato (alla luce del
fatto che essa comporterebbe uno spostamento di soli metri
1,30), appare in ogni caso viziata da un uso del potere
preordinato alla cura di interessi diversi (nella specie,
urbanistici) rispetto a quello portato dalla norma
attributiva.
Va infatti rammentato che “la tutela paesaggistica,
siccome garantita dall'art. 9 della Costituzione, si
giustifica non per il dato fisico in sé, ma per i valori
estetico-culturali di cui esso è portatore” (TAR
Sicilia, Palermo, sentenza n. 150/2015).
I poteri volti all’accertamento della compatibilità
urbanistica e paesaggistica di un’opera, ancorché incidenti
sul medesimo ambito territoriale, appartengono ad autorità
diverse e soprattutto sono funzionali alla cura di interessi
diversi (il primo all’ordinato governo del
territorio, il secondo alla tutela della identità
estetico-culturale dei siti).
Tale conclusione, sostenuta da autorevole dottrina in sede
di inquadramento teorico generale dei cc.dd. interessi
differenziati rispetto all’urbanistica, appare ormai
pacifica anche a seguito del suo recepimento da parte della
giurisprudenza costituzionale: “L'ambito materiale cui
ricondurre le competenze relative ad attività che presentano
una diretta od indiretta rilevanza in termini di impatto
territoriale, va ricercato non secondo il criterio
dell'elemento materiale consistente nell'incidenza delle
attività in questione sul territorio, bensì attraverso la
valutazione dell'elemento funzionale, nel senso della
individuazione degli interessi pubblici sottesi allo
svolgimento di quelle attività, rispetto ai quali
l'interesse riferibile al “governo del territorio” e le
connesse competenze non possono assumere carattere di
esclusività, dovendo armonizzarsi e coordinarsi con la
disciplina posta a tutela di tali interessi differenziati.”
(Coste cost., sentenza n. 383/2005).
Come già costantemente evidenziato da questo TAR, in
adesione al richiamato indirizzo esegetico, rispetto a tale,
corretta impostazione delle relative competenze, un
esercizio del potere paesaggistico avente contenuti
unicamente urbanistici “appare in contrasto con le
finalità per cui il potere stesso è attribuito dalla legge
all’amministrazione, in quanto quest’ultima opera una
sovrapposizione non consentita fra profilo paesaggistico e
profilo urbanistico, di competenza di altre autorità. Il
bene-interesse tutelato dai rispettivi poteri amministrativi
è, all’evidenza, diverso (….)” (sentenza n. 7195/2010);
“diversamente dalla materia urbanistica, in materia
paesaggistica l’amministrazione non ha potere conformativo
del diritto di proprietà immobiliare, giacché il vincolo
paesaggistico ha natura dichiarativa –di caratteristiche
estetico-culturali connaturali al bene- e non costitutiva
(Corte costituzionale, sentenze 55 e 56 del 1968)”
(sentenza n. 2727/2012).
La Soprintendenza, nell’escludere la realizzabilità della
piscina in zona agricola, e nel richiederne lo spostamento
in zona residenziale senza alcuna motivazione che
evidenziasse la sussistenza di possibili ragioni di tale
scelta sul piano della complessiva conformazione
estetico-culturale dell’area, si è arrogata un potere di
natura urbanistica, di competenza di altra autorità.
4. Si aggiunga peraltro alle superiori riflessioni che, come
pure dedotto in ricorso, per costante indirizzo
giurisprudenziale (cui aderisce questo TAR almeno a partire
dalla sentenza n. 1253/2012, nella quale si è affermato che
“una piscina costituisce in generale opera pertinenziale
che non implica consumo dei suoli per le sue caratteristiche”),
anche da un punto di vista urbanistico la realizzazione di
piscine interrate in zona agricola è conforme alla
disciplina di piano.
Tanto che la giurisprudenza pacificamente riconosce l’assentibilità,
in quanto pertinenziale rispetto ad edificio residenziale
(elemento incontestato nella fattispecie dedotta, e peraltro
risultante documentalmente), della piscina realizzata in
zona agricola, finanche in sede di sanatoria (TAR Puglia,
Lecce, sez. I, sentenza n. 931/2018): il che a fortiori
induce a ritenere legittima la sua realizzazione in sede di
rilascio del titolo abilitativo.
Non vale poi considerare, in relazione alla specifica
fattispecie dedotta, la circostanza che alcune delle
pronunce richiamate in ricorso si riferiscono a piscine
prefabbricate, dal momento che le piscine interrate (quale
quella oggetto del presente giudizio) presentano un impatto
paesaggistico sicuramente minore.
Il provvedimento, per la parte qui in considerazione, è
dunque doppiamente illegittimo: sia perché costituisce
esercizio del potere di valutazione paesaggistica facendosi
carico, con sviamento dalla causa tipica di detto potere, di
una valutazione di tipo esclusivamente urbanistico (primo
motivo di ricorso); sia perché quest’ultima valutazione è
comunque in contrasto con il relativo paradigma normativo
alla stregua dell’indirizzo giurisprudenziale che si è
richiamato (secondo motivo).
5. Il ricorso è pertanto fondato e come tale deve essere
accolto (TAR Sicilia-Palermo, Sez. I,
sentenza 14.02.2019 n. 433 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 36, comma 3, D.P.R. 380/2001, a norma del
quale: “Sulla richiesta di permesso in sanatoria il
dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale
si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni
decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata.”, prevede
infatti una fattispecie di silenzio-rigetto.
Ciò sta a significare che, in caso di decorso del termine
indicato senza che la p.a. adotti un provvedimento espresso,
il diniego sull’istanza del privato deve intendersi
perfezionato per silentium. Tale provvedimento implicito, di
carattere negativo, tiene luogo di un provvedimento
espresso: potrà essere impugnato, oppure potrà costituire
oggetto di autotutela; ma non potrà ritenersi mancante, né
la p.a. potrà considerarsi inerte sull’istanza.
Anche la giurisprudenza si esprime del resto in tal senso:
“Ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380/2001, ove il Comune
non si pronunci espressamente entro il termine di 60 giorni
dal ricevimento dell'istanza, la stessa si intende respinta.
Su quest'ultima, infatti, si forma una fattispecie tipica,
prevista dal legislatore, di silenzio-diniego, il quale va
impugnato mediante la proposizione di motivi aggiunti o
ricorso autonomo. Il silenzio-diniego può, infatti, essere
impugnato dall'interessato in sede giurisdizionale per il
tramite dell'azione di annullamento, alla stregua di un
provvedimento esplicito, con la differenza però che il
diniego, in quanto tacito, non è censurabile per difetto di
motivazione, di cui è strutturalmente carente per previsione
legislativa, ma solo per il suo contenuto di rigetto. Allo
stesso modo, del silenzio-diniego non sono contestabili gli
altri difetti formali propri degli atti, quali i vizi del
procedimento, la mancanza di pareri o del preavviso dei
motivi ostativi all'accoglimento”.
---------------
Le considerazioni che precedono non vengono intaccate dalla
circostanza dell’avvenuta emissione del preavviso di diniego
ex art. 10-bis L. 241/1990 da parte del Comune.
Tale iniziativa della p.a. vale infatti ad aprire
un’interlocuzione endoprocedimentale con il privato, ma non
esclude il permanere della piena funzionalità del
silenzio-significativo che, come nella fattispecie di causa,
sia legislativamente previsto.
In altre parole, in caso di silenzio-significativo, la p.a.
non è tenuta alla comunicazione ex art. 10-bis L. 241/1990;
se la pone in essere, ciò non incide sulle possibili
modalità di conclusione del procedimento, che rimangono
fissate nell’alternativa tra l’adozione di un atto espresso
o l’inerzia alla quale consegue la formazione del
provvedimento per silentium.
Invero, in caso di silenzio-significativo la p.a. non è
vincolata alla comunicazione del preavviso di cui all’art.
10-bis; tuttavia, ove proceda in tal senso, il termine per
il perfezionamento del silenzio provvedimentale verrà
assoggettato all’interruzione prevista dalla disposizione de
qua, e ricomincerà pertanto a decorrere nuovamente in
seguito al deposito delle osservazioni dell’interessato o
alla scadenza del termine entro il quale detto deposito
avrebbe dovuto essere posto in essere. Una volta decorso
interamente il termine dal nuovo dies a quo senza che la
p.a. abbia emesso un atto esplicito, si intenderà formato il
silenzio rigetto, o il silenzio-assenso.
---------------
La domanda di accertamento dell’obbligo del Comune a
provvedere positivamente sull’istanza del privato deve
essere respinta.
Il G.A. può infatti emettere una siffatta pronuncia, ai
sensi dell’art. 31, comma 3 c.p.a., solo nel caso in cui il
silenzio della p.a. integri un silenzio-inadempimento, e
cioè sia privo di una equiparazione normativa a un
provvedimento espresso, positivo (silenzio-assenso), o
negativo (silenzio-rigetto, ipotesi prevista dall’art. 36
D.P.R. 380/2001).
Detta disposizione processuale non è dunque applicabile nel
caso di specie, laddove si è in presenza di un
silenzio-significativo di tipo negativo (silenzio-rigetto o
silenzio-diniego), a tutti gli effetti equiparato a un
provvedimento di rigetto esplicito. Come tale, l’atto sarà
autonomamente impugnabile ai sensi dell’art. 29 c.p.a., ma
avverso lo stesso non potrà essere spesa l’azione di
accertamento (e condanna) prevista dal citato art. 31 c.p.a..
In tal senso si esprime, in termini inequivocabili e ai
quali il Collegio ritiene di aderire, la giurisprudenza:
“L'inerzia serbata dal Comune sulla domanda di accertamento
di conformità ha natura di silenzio-significativo di
respingimento della domanda, come tale tipizzata dalla
legge, con la conseguenza che avverso siffatto silenzio,
avente natura di atto tacito di diniego, il rimedio
appropriato è costituito non già dall'azione ex artt. 31 e
117 c.p.a., bensì dall'ordinaria azione impugnatoria […].”
---------------
1. Il primo motivo di ricorso, con il quale si
chiedeva l’annullamento del silenzio-rifiuto (o
silenzio-inadempimento) mantenuto dalla p.a. a fronte della
domanda di accertamento in sanatoria proposta dal Se., è
infondato.
L’inerzia del Comune di Corsano, oggetto del presente
giudizio, non va infatti inquadrata negli artt. 2 e 3 L.
241/1990, ma nelle fattispecie di silenzio-significativo
negativo.
L’art. 36, comma 3, D.P.R. 380/2001, a norma del quale: “Sulla
richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il
responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia
con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i
quali la richiesta si intende rifiutata.”, prevede
infatti una fattispecie di silenzio-rigetto.
Ciò sta a significare che, in caso di decorso del termine
indicato senza che la p.a. adotti un provvedimento espresso,
il diniego sull’istanza del privato deve intendersi
perfezionato per silentium. Tale provvedimento
implicito, di carattere negativo, tiene luogo di un
provvedimento espresso: potrà essere impugnato, oppure potrà
costituire oggetto di autotutela; ma non potrà ritenersi
mancante, né la p.a. potrà considerarsi inerte sull’istanza.
Non è dunque configurabile, nel caso di specie, un “silenzio-inadempimento”
in capo al Comune di Corsano.
Anche la giurisprudenza, in termini che il Collegio ritiene
di condividere, si esprime del resto in tal senso: “Ai
sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380/2001, ove il Comune non si
pronunci espressamente entro il termine di 60 giorni dal
ricevimento dell'istanza, la stessa si intende respinta. Su
quest'ultima, infatti, si forma una fattispecie tipica,
prevista dal legislatore, di silenzio-diniego, il quale va
impugnato mediante la proposizione di motivi aggiunti o
ricorso autonomo. Il silenzio-diniego può, infatti, essere
impugnato dall'interessato in sede giurisdizionale per il
tramite dell'azione di annullamento, alla stregua di un
provvedimento esplicito, con la differenza però che il
diniego, in quanto tacito, non è censurabile per difetto di
motivazione, di cui è strutturalmente carente per previsione
legislativa, ma solo per il suo contenuto di rigetto. Allo
stesso modo, del silenzio-diniego non sono contestabili gli
altri difetti formali propri degli atti, quali i vizi del
procedimento, la mancanza di pareri o del preavviso dei
motivi ostativi all'accoglimento.” (TAR Campania,
Napoli, Sez. III, 03.08.2018 n. 5296).
Le considerazioni che precedono non vengono intaccate dalla
circostanza dell’avvenuta emissione del preavviso di diniego
ex art. 10-bis L. 241/1990 da parte del Comune di Corsano.
Tale iniziativa della p.a. vale infatti ad aprire
un’interlocuzione endoprocedimentale con il privato, ma non
esclude il permanere della piena funzionalità del
silenzio-significativo che, come nella fattispecie di causa,
sia legislativamente previsto. In altre parole, in caso di
silenzio-significativo, la p.a. non è tenuta alla
comunicazione ex art. 10-bis L. 241/1990; se la pone in
essere, ciò non incide sulle possibili modalità di
conclusione del procedimento, che rimangono fissate
nell’alternativa tra l’adozione di un atto espresso o
l’inerzia alla quale consegue la formazione del
provvedimento per silentium.
Ritiene infatti il Collegio di aderire all’orientamento
giurisprudenziale secondo cui, in caso di
silenzio-significativo, la p.a. non è vincolata alla
comunicazione del preavviso di cui all’art. 10-bis;
tuttavia, ove proceda in tal senso, il termine per il
perfezionamento del silenzio provvedimentale verrà
assoggettato all’interruzione prevista dalla disposizione
de qua, e ricomincerà pertanto a decorrere nuovamente in
seguito al deposito delle osservazioni dell’interessato o
alla scadenza del termine entro il quale detto deposito
avrebbe dovuto essere posto in essere. Una volta decorso
interamente il termine dal nuovo dies a quo senza che
la p.a. abbia emesso un atto esplicito, si intenderà formato
il silenzio rigetto, o il silenzio-assenso (in tal senso:
TAR Veneto, Venezia, Sez. III, 07.05.2008 n. 1256; TAR
Sicilia, Catania, Sez. I, 02.12.2015 n. 2819).
Nel caso di specie, in seguito all’interruzione intervenuta
per effetto della comunicazione ex art. 10-bis L. 241/1990,
il termine decorreva ex novo integralmente senza che
la p.a. adottasse un atto espresso. Pertanto, ai sensi del
combinato disposto tra l’art. 10-bis L. 241/1990 e l’art.
36, comma 3, D.P.R. 380/2001, veniva a perfezionarsi il
silenzio-diniego oggetto del presente giudizio.
La doglianza proposta dal ricorrente risulta pertanto
destituita di fondamento.
2. Per le ragioni che precedono, anche la domanda di
accertamento dell’obbligo del Comune a provvedere
positivamente sull’istanza del privato deve essere respinta.
Il G.A. può infatti emettere una siffatta pronuncia, ai
sensi dell’art. 31, comma 3 c.p.a., solo nel caso in cui il
silenzio della p.a. integri un silenzio-inadempimento, e
cioè sia privo di una equiparazione normativa a un
provvedimento espresso, positivo (silenzio-assenso), o
negativo (silenzio-rigetto, ipotesi prevista dall’art. 36
D.P.R. 380/2001).
Detta disposizione processuale non è dunque applicabile nel
caso di specie, laddove si è in presenza di un
silenzio-significativo di tipo negativo (silenzio-rigetto o
silenzio-diniego), a tutti gli effetti equiparato a un
provvedimento di rigetto esplicito. Come tale, l’atto sarà
autonomamente impugnabile ai sensi dell’art. 29 c.p.a., ma
avverso lo stesso non potrà essere spesa l’azione di
accertamento (e condanna) prevista dal citato art. 31 c.p.a..
In tal senso si esprime, in termini inequivocabili e ai
quali il Collegio ritiene di aderire, la giurisprudenza: “L'inerzia
serbata dal Comune sulla domanda di accertamento di
conformità ha natura di silenzio-significativo di
respingimento della domanda, come tale tipizzata dalla
legge, con la conseguenza che avverso siffatto silenzio,
avente natura di atto tacito di diniego, il rimedio
appropriato è costituito non già dall'azione ex artt. 31 e
117 c.p.a., bensì dall'ordinaria azione impugnatoria […].”
(TAR Campania, Napoli, Sez. III, 29.08.2011 n. 4244; cfr:
TAR Lazio, Roma, Sez. III, 02.04.2014 n. 3650).
La domanda di accertamento spiegata dal ricorrente deve
pertanto essere respinta.
...
4. Il ricorso, per le ragioni indicate ai punti precedenti,
va pertanto rigettato in toto.
5. In considerazione della mancata
costituzione del Comune
di Corsano, risultato vincitore della
causa, non può farsi applicazione, nel caso di specie, del
principio della soccombenza, che imporrebbe di onerare il
ricorrente delle spese di causa.
E’ infatti principio costantemente affermato in
giurisprudenza quello secondo cui “pur essendo
espressione di un potere officioso del giudice, la condanna
alle spese in favore della parte vittoriosa che non si sia
difesa e non abbia, quindi, sopportato il corrispondente
carico, non può essere disposta ed è assimilabile ad una
pronuncia resa in mancanza del suddetto potere”
(Cassazione Civile, Sez. III, 26.06.2018, n. 16786).
Viene pertanto disposta la compensazione tra le parti delle
spese della fase di merito (TAR Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 14.02.2019 n. 256 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il contratto di comodato, invocato per
giustificare l’utilizzo di volumetria che pertiene ad altri
lotti, non costituisce titolo idoneo al trasferimento della
cubatura.
Al fine di disporre validamente tale dislocazione, è infatti
necessario provvedervi con un contratto ad effetti reali, di
solito consistente in una apposizione di “servitus non
aedificandi” o comunque in un atto trascritto avente il
contenuto indicato dall’art. 2643, comma 1, n. 2-bis c.c..
Il comodato, contratto tipico che produce effetti unicamente
obbligatori e soltanto transitori (in quanto dotato di
termine ultimo di efficacia o, in difetto, risolubile “ad
nutum”), non integra uno strumento idoneo al trasferimento
della capacità edificatoria del terreno.
Quanto sopra, integrante un principio di ordine generale,
vale a maggior ragione nel caso di specie. Il contratto di
comodato prodotto, infatti, stabilisce testualmente,
all’art. 9, che il comodatario è autorizzato a utilizzare,
sul terreno oggetto del contratto, la volumetria che
afferisce a quello stesso fondo. Non vi è alcuna
disposizione contrattuale che preveda o autorizzi il
trasferimento di tale capacità edificatoria verso altri
fondi. Peraltro, in virtù dell’art. 11, è imposta
l’interpretazione restrittiva delle facoltà di uso
attribuite al comodatario.
---------------
3. Anche il secondo motivo di ricorso, con il quale
si chiedeva l’annullamento del silenzio rigetto, è
infondato.
Il rigetto adottato, sia pure per silentium, dal
Comune di Corsano, deve infatti ritenersi legittimo.
Il contratto di comodato, invocato dalla parte ricorrente
per giustificare l’utilizzo di volumetria che pertiene ad
altri lotti, non costituisce titolo idoneo al trasferimento
della cubatura. Al fine di disporre validamente tale
dislocazione, è infatti necessario provvedervi con un
contratto ad effetti reali, di solito consistente in una
apposizione di “servitus non aedificandi” o comunque
in un atto trascritto avente il contenuto indicato dall’art.
2643, comma 1, n. 2-bis c.c.. Il comodato, contratto tipico
che produce effetti unicamente obbligatori e soltanto
transitori (in quanto dotato di termine ultimo di efficacia
o, in difetto, risolubile “ad nutum”), non integra
uno strumento idoneo al trasferimento della capacità
edificatoria del terreno.
Quanto sopra, integrante un principio di ordine generale,
vale a maggior ragione nel caso di specie. Il contratto di
comodato prodotto dal Se., infatti, stabilisce testualmente,
all’art. 9, che il comodatario è autorizzato a utilizzare,
sul terreno oggetto del contratto, la volumetria che
afferisce a quello stesso fondo. Non vi è alcuna
disposizione contrattuale che preveda o autorizzi il
trasferimento di tale capacità edificatoria verso altri
fondi. Peraltro, in virtù dell’art. 11, è imposta
l’interpretazione restrittiva delle facoltà di uso
attribuite al comodatario.
Per tutto quanto precede, anche tale ulteriore motivo di
ricorso è destituito di fondamento.
4. Il ricorso, per le ragioni indicate ai punti precedenti,
va pertanto rigettato in toto.
5. In considerazione della mancata
costituzione del Comune
di Corsano, risultato vincitore della
causa, non può farsi applicazione, nel caso di specie, del
principio della soccombenza, che imporrebbe di onerare il
ricorrente delle spese di causa.
E’ infatti principio costantemente affermato in
giurisprudenza quello secondo cui “pur essendo
espressione di un potere officioso del giudice, la condanna
alle spese in favore della parte vittoriosa che non si sia
difesa e non abbia, quindi, sopportato il corrispondente
carico, non può essere disposta ed è assimilabile ad una
pronuncia resa in mancanza del suddetto potere”
(Cassazione Civile, Sez. III, 26.06.2018, n. 16786).
Viene pertanto disposta la compensazione tra le parti delle
spese della fase di merito (TAR Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 14.02.2019 n. 256 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La Corte di giustizia UE ritiene legittima la disciplina
processuale dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a. a condizione
che i vizi degli atti siano conoscibili dagli interessati.
La Corte di giustizia UE afferma la compatibilità con il
diritto europeo della disciplina processuale nazionale
relativa alla immediata impugnazione, entro un breve termine
decadenziale, delle ammissioni ed esclusioni dalle procedure
di gara (art. 120, comma 2-bis, c.p.a.), a condizione che i
vizi di legittimità degli atti siano conoscibili dagli
interessati:
●
CURIA -
ordinanza C-54/18;
●
Corte giust. comm. ue, Sez. IV,
ordinanza 14.02.2019, C-54/18
(commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
La Corte di giustizia UE afferma la compatibilità con il
diritto europeo della disciplina processuale nazionale
relativa alla immediata impugnazione, entro un breve termine
decadenziale, delle ammissioni ed esclusioni dalle procedure
di gara (art. 120, comma 2-bis, c.p.a.), a condizione che i
vizi di legittimità degli atti siano conoscibili dagli
interessati.
---------------
Corte di giustizia dell’Unione europea, Sez. IV,
ordinanza 14.02.2019, C- 54/18 – Cooperativa
Animazione Valdocco
...
●
Giustizia amministrativa – Contratti pubblici – Rito
speciale in materia di ammissioni ed esclusioni – Onere di
immediata impugnazione – Termine di trenta giorni dalla
comunicazione – Legittimità – Condizioni.
●
Giustizia amministrativa – Contratti pubblici – Rito
speciale in materia di ammissioni ed esclusioni – Onere di
immediata impugnazione dell’ammissione di altri concorrenti
– Termine di trenta giorni dalla comunicazione – Preclusione
alla successiva contestazione delle ammissioni – Legittimità
– Condizioni.
●
La direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del 21.12.1989, che
coordina le disposizioni legislative, regolamentari e
amministrative relative all’applicazione delle procedure di
ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici
di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva
2014/23/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del
26.02.2014, e in particolare i suoi articoli 1 e 2-quater,
letti alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea, deve essere interpretata
nel senso che essa non osta ad una normativa nazionale, come
quella di cui trattasi nel procedimento principale, che
prevede che i ricorsi avverso i provvedimenti delle
amministrazioni aggiudicatrici recanti ammissione o
esclusione dalla partecipazione alle procedure di
aggiudicazione degli appalti pubblici debbano essere
proposti, a pena di decadenza, entro un termine di 30 giorni
a decorrere dalla loro comunicazione agli interessati, a
condizione che i provvedimenti in tal modo comunicati siano
accompagnati da una relazione dei motivi pertinenti tale da
garantire che detti interessati siano venuti o potessero
venire a conoscenza della violazione del diritto dell’Unione
dagli stessi lamentata (1).
●
La direttiva 89/665, come modificata dalla
direttiva 2014/23, e in particolare i suoi articoli 1 e
2-quater, letti alla luce dell’articolo 47 della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea, deve essere
interpretata nel senso che essa non osta ad una normativa
nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento
principale, che prevede che, in mancanza di ricorso contro i
provvedimenti delle amministrazioni aggiudicatrici recanti
ammissione degli offerenti alla partecipazione alle
procedure di appalto pubblico entro un termine di decadenza
di 30 giorni dalla loro comunicazione, agli interessati sia
preclusa la facoltà di eccepire l’illegittimità di tali
provvedimenti nell’ambito di ricorsi diretti contro gli atti
successivi, in particolare avverso le decisioni di
aggiudicazione, purché tale decadenza sia opponibile ai
suddetti interessati solo a condizione che essi siano venuti
o potessero venire a conoscenza, tramite detta
comunicazione, dell’illegittimità dagli stessi lamentata
(2).
---------------
(1-2) I. – Con l’ordinanza in rassegna (in
www.lamministrativista.it del 19.02.2019, con nota di S.
TRANQUILLI) la Corte di giustizia dell’UE –chiamata a
pronunciarsi in sede di rinvio pregiudiziale dal
Tar per il Piemonte, sez. I, con l’ordinanza 17.01.2018, n.
88 (in Foro. It., 2018, III, 85, nonché oggetto
della
News US in data 01.02.2018,)– ha ritenuto non in
contrasto con il diritto europeo la disciplina processuale
interna che impone la immediata impugnazione, entro un
termine decadenziale, delle ammissioni ed esclusioni dalle
procedure di gara, a condizione però che tali provvedimenti
siano conosciuti o conoscibili dagli interessati, così che
gli stessi possano apprezzarne gli eventuali profili di
illegittimità, anche rispetto al diritto europeo.
II. – La fattispecie che ha portato al rinvio pregiudiziale, da
parte del Tar per il Piemonte, alla Corte di giustizia UE
può essere così sintetizzata:
− un Consorzio intercomunale per la gestione di servizi sociali ha
bandito una gara per l’affidamento del servizio di
assistenza domiciliare, da aggiudicare con il criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa, alla quale
hanno partecipato otto concorrenti;
− la stazione appaltante ha pubblicato sul profilo del committente
e comunicato individualmente agli operatori economici l’atto
di ammissione dei concorrenti alla procedura, ha poi svolto
la procedura selettiva ed ha quindi aggiudicato la gara alla
prima graduata;
− l’impresa seconda graduata, che non aveva posto in essere alcuna
impugnativa dell’atto di ammissione dei concorrenti alla
procedura, ha gravato l’aggiudicazione davanti al Tar per il
Piemonte, proponendo censure avverso gli atti di gara e
l’aggiudicazione e lamentando altresì la mancata esclusione
del RTI risultato aggiudicatario, per assenza in capo alle
ditte mandanti di requisiti di partecipazione; in
particolare la ricorrente ha contestato: la presentazione da
parte del RTI aggiudicatario di una cauzione provvisoria di
importo inferiore a quanto previsto dalla normativa di gara,
ritenendo che sul punto non fosse peraltro attivabile il
soccorso istruttorio (1° motivo); la carenza in capo a due
mandanti del RTI di requisiti di fatturato nella misura
richiesta (2° e 3° motivo); attribuzione dei punteggi in
relazione all’offerta tecnica dell’aggiudicatario (4°
motivo); il mancato svolgimento della verifica di anomalia
(5° motivo) e, infine, l’illegittima composizione della
commissione di gara (6° motivo);
− sono stati presentati motivi aggiunti, che riproducono
sostanzialmente le censure già articolate nel ricorso
introduttivo del giudizio, mentre non risulta proposto
ricorso incidentale;
− la stazione appaltante e il controinteressato hanno eccepito la
irricevibilità del ricorso, in quanto proposto avverso
l’aggiudicazione definitiva, mentre, vertendo su questioni
di ammissione alla procedura, avrebbe dovuto essere proposto
entro il termine di 30 giorni dalla comunicazione dell’atto
di ammissione dei concorrenti alla gara, ai sensi dell’art.
120, comma 2-bis, c.p.a.;
− il Tar ha pronunciato sentenza non definitiva nella quale ha, in
primo luogo, esaminato e respinto le censure avverso le
operazioni di gara e l’aggiudicazione, in particolare
ritenendo infondati i motivi 1°, 4°, 5° e 6° sopra indicati;
passando poi all’esame dei motivi 2° e 3°, attinenti alla
carenza in capo a società mandanti del RTI di requisiti di
fatturato specifico richiesti a pena di esclusione per
partecipare alla procedura di gara, il collegio, dopo aver
premesso che l’applicazione dell’art. 120, comma 2 bis,
c.p.a. avrebbe condotto in relazione a dette doglianze alla
declaratoria di irricevibilità per tardività del ricorso, ha
stabilito di procedere, con separata ordinanza, al rinvio
pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, con conseguente
sospensione del giudizio, ritenendo rilevante e decisiva la
questione di compatibilità della suddetta normativa con il
diritto europeo;
− dando seguito a quanto previsto nella sentenza non definitiva,
con l’ordinanza n. 88 del 17.01.2018 il Tar per il Piemonte,
sez. I, ha quindi rimesso la questione di compatibilità
comunitaria alla Corte UE.
In particolare il Tar ha posto alla Corte di giustizia UE i
seguenti quesiti interpretativi:
a) “se la disciplina europea in materia di
diritto di difesa, di giusto processo e di effettività
sostanziale della tutela, segnatamente, gli articoli 6 e 13
della CEDU, l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione Europea e l’art. 1 Dir. 89/665/CEE, 1 e 2 della
Direttiva, ostino ad una normativa nazionale, quale l’art.
120, comma 2-bis, c.p.a., che impone all’operatore che
partecipa ad una procedura di gara di impugnare
l’ammissione/mancata esclusione di un altro soggetto, entro
il termine di 30 giorni dalla comunicazione del
provvedimento con cui viene disposta l’ammissione/esclusione
dei partecipanti”;
b) “se la disciplina europea in materia di
diritto di difesa, di giusto processo e di effettività
sostanziale della tutela, segnatamente, gli articoli 6 e 13
della CEDU, l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione Europea e l’art. 1 Dir. 89/665/CEE, 1 e 2 della
Direttiva, osti ad una normativa nazionale quale l’art. 120,
comma 2-bis, c.p.a., che preclude all’operatore economico di
far valere, a conclusione del procedimento, anche con
ricorso incidentale, l’illegittimità degli atti di
ammissione degli altri operatori, in particolare
dell’aggiudicatario o del ricorrente principale, senza aver
precedentemente impugnato l’atto di ammissione nel termine
suindicato”.
III. – Nell’ordinanza in rassegna la Corte di giustizia UE
giunge alla elaborazione delle massime riportate sulla base
del seguente percorso argomentativo:
− sulla prima questione:
c) ai sensi dell'art. 2-quater della direttiva
89/665, gli Stati membri possono stabilire termini per
presentare un ricorso avverso una decisione presa da
un'amministrazione aggiudicatrice nel quadro di una
procedura di aggiudicazione di un appalto disciplinata dalla
direttiva 2014/24, aggiungendo che il termine in parola deve
essere di almeno dieci giorni civili dal giorno successivo
all’invio della comunicazione, se la spedizione è avvenuta
per fax o per via elettronica, oppure di almeno quindici
giorni, se la spedizione è avvenuta con altri mezzi di
comunicazione o di almeno dieci giorni civili a decorrere
dal giorno successivo alla data di ricezione della decisione
dell'amministrazione aggiudicatrice, precisando altresì che
la comunicazione della decisione dell'amministrazione
aggiudicatrice ad ogni offerente o candidato è accompagnata
da una relazione sintetica dei motivi pertinenti;
d) dallo stesso tenore letterale dell'art. 2-quater della
direttiva 89/665 si evince quindi che un termine di 30
giorni, come quello di cui trattasi nel procedimento
principale, in cui i ricorsi contro i provvedimenti delle
amministrazioni aggiudicatrici recanti ammissione o
esclusione dalla partecipazione alle procedure di
aggiudicazione degli appalti pubblici disciplinati dalla
direttiva 2014/24 devono essere proposti, a decorrere dalla
loro comunicazione alle parti interessate, a pena di
decadenza, è, in linea di principio, compatibile con il
diritto dell'Unione, a condizione che tali provvedimenti
siano accompagnati da una relazione dei motivi pertinenti;
e) l’art. 1, par. 1, della direttiva 89/665 impone agli
Stati membri l'obbligo di garantire che le decisioni prese
dalle amministrazioni aggiudicatrici possano essere oggetto
di un ricorso efficace e quanto più rapido possibile:
e1) la fissazione di termini di ricorso a pena di decadenza
consente di realizzare l'obiettivo di celerità perseguito
dalla direttiva 89/665, obbligando gli operatori a
contestare entro termini brevi i provvedimenti preparatori o
le decisioni intermedie adottate nell'ambito del
procedimento di aggiudicazione di un appalto;
e2) nel definire le modalità procedurali dei ricorsi
giurisdizionali gli Stati membri devono garantire che non
sia compromessa né l'efficacia della direttiva 89/665 né i
diritti conferiti ai singoli dal diritto dell'Unione, in
particolare il diritto a un ricorso effettivo e a un giudice
imparziale, sancito dall'articolo 47 della Carta, il che
presuppone che i termini prescritti per proporre siffatti
ricorsi inizino a decorrere solo dalla data in cui il
ricorrente abbia avuto o avrebbe dovuto avere conoscenza
dell'asserita violazione di dette disposizioni;
f) ne consegue che una normativa nazionale, come quella di
cui trattasi nel procedimento principale, che prevede che i
ricorsi avverso i provvedimenti delle amministrazioni
aggiudicatrici recanti ammissione o esclusione dalla
partecipazione alle procedure di aggiudicazione degli
appalti pubblici debbano essere proposti, a pena di
decadenza, entro un termine di 30 giorni a decorrere dalla
loro comunicazione agli interessati è compatibile con la
direttiva 89/665 solo a condizione che i provvedimenti in
tal modo comunicati siano accompagnati da una relazione dei
motivi pertinenti, tale da garantire che i suddetti
interessati siano venuti o potessero venire a conoscenza
della violazione del diritto dell'Unione dagli stessi
lamentata;
g) il giudice del rinvio osserva tuttavia che l'offerente
che intenda impugnare un provvedimento di ammissione di un
concorrente deve proporre il proprio ricorso entro un
termine di 30 giorni a decorrere dalla sua comunicazione,
vale a dire in un momento in cui egli spesso non è in grado
di stabilire se abbia realmente interesse ad agire, non
sapendo se alla fine il suddetto concorrente sarà
l'aggiudicatario oppure se sarà egli stesso nella posizione
di ottenere l'aggiudicazione; occorre rammentare al riguardo
che:
g1) l'art. 1, par. 3, della direttiva 89/665 impone agli
Stati membri di garantire che le procedure di ricorso siano
accessibili, secondo modalità che gli Stati membri possono
determinare, per lo meno a chiunque abbia o abbia avuto
interesse a ottenere l'aggiudicazione di un determinato
appalto e sia stato o rischi di essere leso a causa di una
presunta violazione;
g2) quest'ultima disposizione è applicabile, segnatamente,
alla situazione di qualunque offerente che ritenga che un
provvedimento di ammissione di un concorrente a una
procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico sia
illegittimo e rischi di cagionargli un danno, in quanto
simile rischio è sufficiente a giustificare un immediato
interesse ad impugnare detto provvedimento,
indipendentemente dal pregiudizio che può inoltre derivare
dall' assegnazione dell'appalto ad un altro candidato;
g3) la decisione di ammettere un offerente a una procedura
d'appalto configura un atto che, in forza dell'art. 1, par.
1, e dell'art. 2, par. 1, lett. b), della direttiva 89/665,
può costituire oggetto di ricorso giurisdizionale autonomo;
− sulla seconda questione:
h) la direttiva 89/665 deve essere interpretata nel senso
che essa non osta, in linea di principio, ad una normativa
nazionale che prevede che ogni ricorso avverso una decisione
dell'amministrazione aggiudicatrice debba essere proposto
nel termine all'uopo previsto e che qualsiasi irregolarità
del procedimento di aggiudicazione invocata a sostegno di
tale ricorso vada sollevata nel medesimo termine a pena di
decadenza talché, scaduto tale termine, non sia più
possibile impugnare detta decisione o eccepire la suddetta
irregolarità, purché il termine in parola sia ragionevole;
i) tale interpretazione è fondata sulla considerazione
secondo cui la realizzazione completa degli obiettivi
perseguiti dalla direttiva 89/665 sarebbe compromessa se ai
candidati e agli offerenti fosse consentito far valere, in
qualsiasi momento del procedimento di aggiudicazione,
infrazioni alle norme di aggiudicazione degli appalti,
obbligando quindi l'amministrazione aggiudicatrice a
ricominciare l'intero procedimento al fine di correggere
tali infrazioni; un comportamento del genere, potendo
ritardare senza una ragione obiettiva l'avvio delle
procedure di ricorso che la direttiva 89/665 impone agli
Stati membri di porre in essere, è tale da nuocere
all'applicazione effettiva delle direttive dell'Unione in
materia di aggiudicazione degli appalti pubblici;
j) ne discende che la direttiva 89/665, e in modo del tutto
particolare il suo art. 2-quater, deve essere interpretata
nel senso che essa non osta, in linea di principio, a che,
in difetto di un ricorso avverso una decisione di un'
amministrazione aggiudicatrice entro il termine di 30 giorni
previsto dalla normativa italiana, non sia più possibile per
un offerente eccepire l'illegittimità di tale decisione
nell'ambito di un ricorso diretto contro un atto successivo;
k) non può tuttavia escludersi che, in particolari
circostanze o in considerazione di talune delle loro
modalità, l’applicazione delle norme di decadenza possa
pregiudicare i diritti conferiti ai singoli dal diritto
dell'Unione, segnatamente il diritto a un ricorso effettivo
e a un giudice imparziale, sancito dall'articolo 47 della
Carta:
k1) ciò accade quando le norme di decadenza stabilite dal
diritto nazionale siano applicate in modo tale che
l'accesso, da parte di un offerente, ad un ricorso avverso
una decisione illegittima gli sia negato, sebbene egli,
sostanzialmente, non potesse essere a conoscenza di detta
illegittimità se non in un momento successivo alla scadenza
del termine di decadenza;
k2) d’altra parte ricorsi efficaci contro le violazioni
delle disposizioni applicabili in materia di aggiudicazione
degli appalti pubblici possono essere unicamente garantiti
qualora i termini imposti per proporre tali ricorsi inizino
a decorrere solo dalla data in cui il ricorrente abbia avuto
o avrebbe dovuto avere conoscenza della presunta violazione
di dette disposizioni;
l) spetta al giudice del rinvio verificare se, nelle
circostanze di cui al procedimento principale, l’impresa
ricorrente sia effettivamente venuta o sarebbe potuta venire
a conoscenza, grazie alla comunicazione da parte
dell'amministrazione aggiudicatrice del provvedimento di
ammissione del raggruppamento temporaneo di imprese
aggiudicatario, ai sensi dell'articolo 29 del codice dei
contratti pubblici, dei motivi di illegittimità del suddetto
provvedimento dalla stessa lamentati, vertenti sul mancato
deposito di una cauzione provvisoria dell'importo richiesto
e sull'omessa dimostrazione della sussistenza dei requisiti
di partecipazione, e se essa sia stata quindi posta
effettivamente in condizione di proporre un ricorso entro il
termine di decadenza di 30 giorni di cui all'articolo 120,
comma 2-bis, del codice del processo amministrativo:
l1) detto giudice deve in
particolare garantire che, nelle circostanze del
procedimento principale, l'applicazione combinata delle
disposizioni dell'art. 29 e dell'art 53, commi 2 e 3, del
codice dei contratti pubblici, che disciplinano l'accesso
alla documentazione delle offerte e la sua divulgazione, non
escludesse del tutto la possibilità per la ricorrente di
venire effettivamente a conoscenza dell'illegittimità del
provvedimento di ammissione del raggruppamento di imprese
aggiudicatario dalla stessa lamentata e di proporre un
ricorso, a decorrere dal momento in cui la medesima ne ha
avuto conoscenza, entro il termine di decadenza di cui
all'articolo 120, comma 2-bis, c.p.a.;
l2) il giudice nazionale deve fornire alla normativa interna
che è chiamato ad applicare un'interpretazione conforme agli
obiettivi della direttiva 89/665; qualora tale
interpretazione non sia possibile, esso deve disapplicare le
disposizioni nazionali contrarie a tale direttiva, dal
momento che l'art. 1, par. 1, della stessa è incondizionato
e sufficientemente preciso per essere fatto valere nei
confronti di un'amministrazione aggiudicatrice.
IV. – Per completezza si segnala quanto segue:
m) sul rito super accelerato dell’art. 120, comma 2-bis,
c.p.a. in dottrina si segnalano in particolare i seguenti
scritti: M.A. SANDULLI, Nuovi limiti al diritto di difesa
introdotti dal d.lgs. n. 50 del 2016 in contrasto con il
diritto eurounitario e la Costituzione in
www.lamministrativista.it 04.05.2016; M. LIPARI, La tutela
giurisdizionale e “precontenziosa” nel nuovo codice
dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50 del 2016) in
Federalismi.it 11.05.2016; G. VELTRI, Il contenzioso nel
nuovo codice dei contratti pubblici: alcune riflessioni
critiche in Giustizia amministrativa – Dottrina 26.05.2016;
G. SEVERINI, Il nuovo contenzioso sui contratti pubblici, in
Giustamm.it, giugno 2016, che sottolinea la necessità di
rimediare alla ipertrofia di un contezioso postumo e
retrospettivo incentrato sulla presenza in limine dei
requisiti partecipativi; R. CAPONIGRO, Il rapporto tra
tutela della concorrenza e interesse alla scelta del miglior
contraente nell’impugnazione degli atti di gara in Giustizia
amministrativa – Dottrina, 14.06.2016; R. DE NICTOLIS, Il
nuovo codice dei contratti pubblici in Urbanistica e
appalti, 2016, 5, 503; E. FOLLIERI, Le novità sui ricorsi
giurisdizionali amministrativi nel Codice dei contratti
pubblici in Urbanistica e appalti, 2016, 8-9, 873; E.M.
BARBIERI, Lo speciale contenzioso sulle ammissioni e sulle
esclusioni nelle gare di appalto pubblico secondo il nuovo
codice degli appalti in Nuovo notiziario giur., 2016, 331;
G. GRECO, Il contenzioso degli appalti pubblici tra
deflazione e complicazione in Riv. it. dir. pubbl.
comunitario, 2016, 971; A.G. PIETROSTEFANI, Piena
conoscenza, termine per impugnare ed effettività della
tutela nel rito <super accelerato> ex art. 120, co.
2-bis, c.p.a. in Federalismi.it, 29.03.2017; A. DI CAGNO, Il
nuovo art. 120, comma 2-bis, cpa: un'azione senza interesse
o un interesse senza azione? in Dir. e processo amm., 2017,
2123; L. BERTONAZZI, Limiti applicativi del nuovo giudizio
di cui all’art. 120, comma 2-bis, c.p.a. e sua compatibilità
con la tutela cautelare, in Dir. proc. ammin. 2017, 714 ss.;
G. LA ROSA, Il ricorso incidentale nel rito “super-accelerato”
di cui all’art. 120, commi 2-bis e 6-bis, c.p.a. in
Urbanistica e appalti, 2018, 2, 175; I. LAGROTTA, Il rito <super
accelerato> in materia di appalti tra profili di
(in)compatibilità costituzionale e conformità alla normativa
comunitaria in Federalismi.it, 28.03.2018; G. LO SAPIO, Rito
superaccelerato e tecniche di “giuridificazione”
degni interessi in Urbanistica e appalti, 2018, 4, 507; S.
TADDEUCCI, L’art. 120 comma 2-bis del c.p.a. dinanzi alla
Corte di Giustizia: dubbi sulla fondatezza della questione
in Italiappalti.it, 17.07.2018; P. DE BERARDINIS, Rito ex
art. 120, comma 2-bis, c.p.a. e ricorso incidentale in
Giustizia Amministrativa – Dottrina, 13.11.2018; M. LIPARI,
La decorrenza del termine di ricorso nel rito superspeciale
di cui all’art. 120, co. 2-bis e 6-bis, del CPA:
pubblicazione e comunicazione formale del provvedimento
motivato, disponibilità effettiva degli atti di gara,
irrilevanza della “piena conoscenza”; l’ammissione
conseguente alla verifica dei requisiti in Giustizia
amministrativa – Dottrina, 17.12.2018;
n) sulla costituzionalità della disciplina dell’art. 120,
comma 2-bis, cit. si vedano le remissioni alla Corte
costituzionale operate da
Tar per la Puglia–Bari, sez. III, ordinanza 20.06.2018, n.
903 (oggetto della
News US in data 10.07.2018) e
Tar per la Puglia–Bari, sez. III, ordinanza 20.07.2018, n.
1097 (oggetto della
News US in data 30.07.2018);
o) sulla decorrenza del termine di impugnazione:
o1) l’art. 120, comma 2-bis,
c.p.a., com’è noto, prevede l’impugnazione degli atti di
ammissione ed esclusione nel termine di trenta giorni
decorrente dallo loro pubblicazione sul profilo del
committente, ai sensi dell’art. 29, comma 1, d.lgs. n. 50
del 2016; l’art. 29 cit. è stato fatto oggetto di importanti
modifiche ad opera del d.lgs. 19.04.2017, n. 56 (c.d.
correttivo al Codice dei contratti pubblici); in particolare
adesso il suddetto art. 20, comma 1, al secondo, terzo e
quarto periodo prevede quanto segue: “al fine di
consentire l'eventuale proposizione del ricorso ai sensi
dell' articolo 120, comma 2-bis, del codice del processo
amministrativo, sono altresì pubblicati, nei successivi due
giorni dalla data di adozione dei relativi atti, il
provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di
affidamento e le ammissioni all'esito della verifica della
documentazione attestante l'assenza dei motivi di esclusione
di cui all'articolo 80, nonché la sussistenza dei requisiti
economico-finanziari e tecnico-professionali. Entro il
medesimo termine di due giorni è dato avviso ai candidati e
ai concorrenti, con le modalità di cui all'articolo 5-bis
del decreto legislativo 07.03.2005, n. 82, recante il Codice
dell'amministrazione digitale o strumento analogo negli
altri Stati membri, di detto provvedimento, indicando
l'ufficio o il collegamento informatico ad accesso riservato
dove sono disponibili i relativi atti. Il termine per
l'impugnativa di cui al citato articolo 120, comma 2-bis,
decorre dal momento in cui gli atti di cui al secondo
periodo sono resi in concreto disponibili, corredati di
motivazione”;
o2) secondo un primo orientamento interpretativo, in difetto
di tale pubblicazione il rito super accelerato non è tout
court applicabile (in tal senso Tar per la
Campania–Napoli, sez. IV, 20.12.2016, n. 5852); a risultati
non diversi giunge la lettura che, in caso di mancata
pubblicazione, fa decorrere il termine per impugnare dalla
comunicazione dell’aggiudicazione, con applicazione del
relativo rito (Tar per la Basilicata 13.01.2017, n. 24, Tar
per la Puglia–Bari, 05.04.2017, n. 340, Tar per la
Campania–Napoli, sez. VIII, 05.05.2017, n. 2420); nel senso
della necessità della pubblicazione per rendere operativo il
rito speciale: Tar Campania-Napoli, sez. VIII, 18.01.2018,
n. 394, Tar Sicilia-Palermo, sez. III, 31.08.2018, n. 1862;
Cons. Stato, sez. V, 10.04.2018, n. 2176;
o3) secondo altre interpretazioni la mancata pubblicazione è
sostituibile solo dalla comunicazione individuale (Tar per
il Lazio–Roma – sez. III, 09.05.2017, n. 5545), ovvero
determina l’applicazione delle normali regole sulla
conoscenza dell’atto oggetto di impugnazione (Tar per la
Toscana, sez. I, 18.04.2017, n. 582), o, infine, esclude
l’onere di immediata impugnazione non precludendo però la
facoltà di una immediata impugnazione dell’ammissione prima
dell’aggiudicazione (Tar per il Molise, 4 ottobre 2017, n.
332); Tar per la Campania–Napoli, sez. I, 22.03.2018 n.
1866, che valorizza la conoscenza comunque acquisita del
provvedimento;
o4) Tar per il Lazio–Roma, sez. III-quater, 22.08.2017, n.
9379 trae dalla previsione della pubblicazione delle
ammissioni/esclusioni quale dies a quo del termine
per impugnare la conclusione della non decorrenza del temine
stesso dalla conoscenza acquisita attraverso la
partecipazione di un rappresentante della concorrente alla
seduta di gara che ha disposto le ammissioni o esclusioni
stesse; sul punto si veda Cons. Stato, sez. VI, 13.12.2017,
n. 5870, che ha affermato il principio secondo cui, sebbene
l’art. 120, comma 2-bis, c.p.a. “faccia riferimento, ai
fini della decorrenza dell'ivi previsto termine
d'impugnazione di trenta giorni, esclusivamente alla
pubblicazione del provvedimento di ammissione o esclusione
sul profilo telematico della stazione appaltante ai sensi
dell'art. 29, comma 1, d.lgs. n. 50/2016, ritiene il
Collegio che ciò non implichi l'inapplicabilità del generale
principio sancito dall'art. 41, comma 2, cod. proc. amm. e
riaffermato nel comma 5, ultima parte, dell'art. 120 cod.
proc. amm., per cui, in difetto della formale comunicazione
dell'atto -o, per quanto qui interessa, in difetto di
pubblicazione dell'atto di ammissione sulla piattaforma
telematico della stazione appaltante-, il termine decorre
dal momento dell'avvenuta conoscenza dell'atto stesso,
purché siano percepibili i profili che ne rendano evidente
la lesività per la sfera giuridica dell'interessato in
rapporto al tipo di rimedio apprestato dall'ordinamento
processuale”; di segno opposto è invece Cons. Stato, III,
26.01.2018, n. 565 secondo cui “l’onere di impugnazione
dell’altrui ammissione è ragionevolmente subordinato alla
pubblicazione degli atti della procedura, perché
diversamente l’impresa sarebbe costretta a proporre un
ricorso <al buio>”; anche per il Tar Puglia–Bari, sez.
III, 15.10.2018, n. 1297, la presenza del rappresentante
dell’impresa alla seduta di gara è idonea a determinare la
piena conoscenza del provvedimento;
p) sul tradizionale orientamento in forza del quale un atto
amministrativo deve essere tempestivamente contestato in
sede giurisdizionale solo se immediatamente lesivo, si veda,
in relazione all’onere di immediata impugnazione del bando
di gara, la recente pronuncia dell’Adunanza
plenaria del 26.04.2018, n. 4 (in Vita not.,
2018, 661 e Foro amm., 2018, 586 ed oggetto della
News US del 10.05.2018 cui si rinvia per ampi
riferimenti di dottrina e di giurisprudenza), secondo cui “le
clausole del bando di gara che non rivestano portata
escludente devono essere impugnate unitamente al
provvedimento lesivo e possono essere impugnate unicamente
dall’operatore economico che abbia partecipato alla gara o
manifestato formalmente il proprio interesse alla procedura”;
con tale pronuncia, escludendo l’onere di tempestiva
impugnazione delle clausole del bando non immediatamente
lesive, la Plenaria ha negato l’autonoma tutelabilità di un
diritto alla legittimità della procedura di gara sganciato
dalla spettanza dell’utilità finale, in linea con
l’orientamento tradizionale; quanto al nuovo rito c.d. “super
accelerato” di cui ai commi 2-bis e 6-bis dell’art. 120
del c.p.a. la Plenaria ne riconosce la rilevante portata
innovativa e concorda sul fatto che con la detta
prescrizione normativa il legislatore abbia inteso
espressamente ed eccezionalmente riconoscere autonoma
rilevanza ad un interesse procedimentale (quello legato alla
corretta formazione della platea dei concorrenti)
riconoscendo ad esso una rapida protezione giurisdizionale;
non ritiene tuttavia che dallo stesso possano trarsi
considerazioni espressive di un principio generale;
q) sui caratteri dell’interesse a ricorrere nel processo
amministrativo, con specifico riferimento al c.d. interesse
strumentale e per l’affermazione secondo cui gli assetti
delle giurisdizioni nazionali e della stessa Unione europea,
configurano il ricorso al giudice amministrativo come
ricorso nell’interesse di una parte e mai come ricorso volto
al rispetto formale delle regole, a prescindere da ogni
interesse, si veda
Cons. Stato, Ad. plen., ordinanza 11.05.2018, n. 6
(in Foro it., 2018, III, 429, con nota di SIGISMONDI ed
oggetto della
News US del 22.05.2018 con ampi riferimenti di
dottrina e di giurisprudenza, cui si rinvia anche avuto
riguardo ai più recenti approdi della Corte costituzionale
in punto di impossibilità di configurare la tutela
dell’interesse meramente strumentale dell’impresa che non
abbia partecipato ad una gara), secondo cui “va rimesso
alla Corte di Giustizia Ue il seguente quesito
interpretativo: se l’articolo 1, paragrafi 1, terzo comma, e
3, della direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del 21.12.1989,
che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e
amministrative relative all’applicazione delle procedure di
ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici
di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva
2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio
dell’11.12.2007, possa essere interpretato nel senso che
esso consente che allorché alla gara abbiano partecipato più
imprese e le stesse non siano state evocate in giudizio (e
comunque avverso le offerte di talune di queste non sia
stata proposta impugnazione) sia rimessa al Giudice, in
virtù dell’autonomia processuale riconosciuta agli Stati
membri, la valutazione della concretezza dell’interesse
dedotto con il ricorso principale da parte del concorrente
destinatario di un ricorso incidentale escludente reputato
fondato, utilizzando gli strumenti processuali posti a
disposizione dell’ordinamento, e rendendo così armonica la
tutela di detta posizione soggettiva rispetto ai consolidati
principi nazionali in punto di domanda di parte (art. 112
c.p.c.), prova dell’interesse affermato (art. 2697 cc),
limiti soggettivi del giudicato che si forma soltanto tra le
parti processuali e non può riguardare la posizione dei
soggetti estranei alla lite (art. 2909 cc)”;
r) sulla definitività dell’esclusione, ove non impugnata con
il rito super accelerato, con conseguente preclusione alla
impugnazione dell’aggiudicazione, per difetto di
legittimazione, si vedano:
r1)
Corte di giustizia UE, sez. VIII, 21.12.2016, C- 355/15,
GesmbH (in Gazzetta forense, 2017, 80, con nota
di GILIBERTI, nonché oggetto della
News US del 04.01.2017 ai cui approfondimenti si
rinvia), la quale ha affermato che “l’articolo 1,
paragrafo 3, della direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del
21.12.1989, che coordina le disposizioni legislative,
regolamentari e amministrative relative all’applicazione
delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione
degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come
modificata dalla direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo
e del Consiglio, dell’11.12.2007, dev’essere interpretato
nel senso che esso non osta a che a un offerente escluso da
una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico con
una decisione dell’amministrazione aggiudicatrice divenuta
definitiva sia negato l’accesso ad un ricorso avverso la
decisione di aggiudicazione dell’appalto pubblico di cui
trattasi e la conclusione del contratto, allorché a
presentare offerte siano stati unicamente l’offerente
escluso e l’aggiudicatario e detto offerente sostenga che
anche l’offerta dell’aggiudicatario avrebbe dovuto essere
esclusa”;
r2) tuttavia, in assenza di una esclusione “definitiva”,
la successiva
Corte di giustizia dell’UE, sez. VIII, 10.05.2017, C-131/16,
Archus (in Foro amm., 2017, 999 e Riv. giur. edilizia, 2017,
I, 533, nonché oggetto della
News US del 19.05.2017 ai cui approfondimenti si
rinvia), ha precisato che “la direttiva 92/13/CE del
Consiglio, del 25.02.1992, che coordina le disposizioni
legislative, regolamentari e amministrative relative
all’applicazione delle norme comunitarie in materia di
procedure di appalto degli enti erogatori di acqua e di
energia e degli enti che forniscono servizi di trasporto
nonché degli enti che operano nel settore delle
telecomunicazioni, come modificata dalla direttiva
2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio,
dell’11.12.2007, deve essere interpretata nel senso che, in
una situazione come quella di cui al procedimento
principale, in cui una procedura di aggiudicazione di un
appalto pubblico ha dato luogo alla presentazione di due
offerte e all’adozione, da parte dell’amministrazione
aggiudicatrice, di due decisioni in contemporanea recanti
rispettivamente rigetto dell’offerta di uno degli offerenti
e aggiudicazione dell’appalto all’altro, l’offerente
escluso, che ha presentato un ricorso avverso tali due
decisioni, deve poter chiedere l’esclusione dell’offerta
dell’offerente aggiudicatario, in modo tale che la nozione
di «un determinato appalto», ai sensi dell’articolo 1,
paragrafo 3, della direttiva 92/13, come modificata dalla
direttiva 2007/66, può, se del caso, riguardare l’eventuale
avvio di una nuova procedura di aggiudicazione di un appalto
pubblico”;
r3) già con la
sentenza 05.04.2016 C- 689/13, Puligienica, (in
Foro it., 2016, IV, 324, con nota di SIGISMONDI oggetto
della
News US del 07.04.2016 cui si rinvia per gli
approfondimenti), in linea con la sentenza 04.07.2013, n.
100, Fastweb, (in Foro it., 2015, IV, 311, con nota di
CONDORELLI), la Corte di Giustizia aveva chiarito che “l’articolo
1, paragrafi 1, terzo comma, e 3, della direttiva 89/665/CEE
del Consiglio, del 21.12.1989, che coordina le disposizioni
legislative, regolamentari e amministrative relative
all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di
aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di
lavori, come modificata dalla direttiva 2007/66/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio dell’11.12.2007, deve
essere interpretato nel senso che osta a che un ricorso
principale proposto da un offerente, il quale abbia
interesse a ottenere l’aggiudicazione di un determinato
appalto e che sia stato o rischi di essere leso a causa di
una presunta violazione del diritto dell’Unione in materia
di appalti pubblici o delle norme che traspongono tale
diritto, e diretto a ottenere l’esclusione di un altro
offerente, sia dichiarato irricevibile in applicazione di
norme processuali nazionali che prevedono l’esame
prioritario del ricorso incidentale presentato dall’altro
offerente”;
s) sulla tutelabilità dell’interesse strumentale
nell’ordinamento nazionale e comunitario si segnala quanto
segue:
s1) nel senso della impossibilità di configurare la tutela
del c.d. interesse strumentale nell’attuale ordinamento del
processo amministrativo nazionale, caratterizzato dalla
peculiare disciplina delle condizioni delle azioni (in
particolare interesse ad agire e legittimazione),
strumentale alla realizzazione del giusto processo ex art.
111 Cost., si vedano: Cons. Stato, Ad. plen., 27.04.2015, n.
5 (specie §§ 5 ss., e 9.2. ss., in Foro it., 2015, III, 265,
con nota di TRAVI; Riv. dir. proc., 2015, 1256, con nota di
FANELLI; Giur. it., 2015, 2192 con nota di FOLLIERI; Dir.
proc. ammin., 2016, 205, con nota di PERFETTI e TROPEA);
Cons. Stato, sez. V, 22.01.2015, n. 272, in Foro it., 2015,
III, 345; Cons. Stato, Ad. plen., 25.02.2014, n. 9 in Foro
it., 2014, III, 429, con nota di SIGISMONDI, Dir. proc. amm.,
2014, 544, con nota di BERTONAZZI, Urbanistica e appalti,
2014, 1075 (m), con nota di FANTINI, Giornale dir. amm.,
2014, 918 (m), con note di FERRARA, BARTOLINI, Nuovo
notiziario giur., 2014, 550, con nota di BARBIERI; le citate
sentenze sono tutte nel senso:
I) di non consentire la tutela del c.d. interesse
strumentale perché in contrasto con le esigenze di evitare
l’abuso del processo ed il sindacato su poteri non ancora
esercitati dalla stazione appaltante;
II) di considerare il processo quale risorsa scarsa da
attingere solo dopo essere stato superato il filtro delle
condizioni dell’azione in cui è insito un giudizio di
meritevolezza della pretesa;
III) di esigere che il processo sia volto a tutelare
interessi concreti ed attuali e non futuri ed incerti, di
mero fatto quando non emulativi, per giunta rimessi ad una
incoercibile nuova determinazione dell’Amministrazione;
s2) successivamente alla pubblicazione della sentenza della
Corte di giustizia Puligienica, le conclusioni cui è
pervenuta la sentenza GesmbH, sono state anticipate dal
Consiglio di Stato in una sequela di pronunce, fra cui si
segnalano: Cons. Stato, sez. IV, 11.10.2016, n. 4180; Cons.
Stato, sez. IV, 25.08.2016, n. 3688; Cons. Stato, sez. IV,
20.04.2016, n. 1560; per tali arresti, è inammissibile per
difetto di legittimazione l’impugnativa dell’impresa che non
abbia partecipato ab imis alla procedura, ovvero sia
stata legittimamente esclusa dalla gara, dato che tale
soggetto, per effetto dell'esclusione o della mancata
presentazione della domanda, rimane privo non soltanto del
titolo a partecipare alla gara ma anche a contestarne gli
esiti e la legittimità delle scansioni procedimentali; il
suo interesse protetto, invero, da qualificare interesse di
mero fatto o strumentale, non è diverso da quello di
qualsiasi operatore del settore che, non avendo partecipato
alla gara, non ha titolo a impugnare gli atti, essendo
portatore di un interesse di mero fatto alla caducazione
dell'intera selezione, al fine di poter presentare la
propria offerta in ipotesi di riedizione della nuova gara;
Cons. Stato sez. III, 26.08.2016, n. 3708, secondo cui non
potrebbe ammettersi l’impugnativa dell’aggiudicazione di una
gara da parte di un’impresa che certamente da un tale
annullamento non potrebbe ricavare alcun vantaggio (anche di
ordine strumentale in quanto relativo alla possibilità di
ripetizione della gara), perché non ha partecipato alla
medesima gara, o non ha proposto censure nei confronti di
tutte le imprese che la precedono in graduatoria (ovvero non
le ha evocate in giudizio) e di cui si lamenta, però la
illegittimità della mancata esclusione; tali conclusioni
potrebbero tuttavia necessitare una rimeditazione alla luce
della sentenza della Corte di giustizia Archus cit.;
s3) in dottrina R. DE NICTOLIS,
Codice del processo amministrativo, IV ed., Milano, 2017,
759 ss, 2056 ss., nega in radice che l’interesse strumentale
sia configurabile quale interesse legittimo; G. SIGISMONDI,
Ricorso incidentale escludente: l’ultimo orientamento della
Corte di giustizia porta all’emersione di un contrasto più
profondo, in Foro it., 2016, IV, 336, secondo cui il punto
di maggiore criticità nell’indirizzo a base della sentenza
Puligienica, consiste nel fatto che esso “…si pone in
contrasto diretto con i principî di fondo del nostro
ordinamento processuale, del quale vengono disgregati la
coerenza interna e i principî fondanti".
Si pone allora una seria questione di compatibilità tra la
prospettiva comunitaria e il sistema di principî (e per
certi aspetti di valori) definito dalla Costituzione
italiana (che disegna il diritto alla tutela giurisdizionale
e il principio di azionabilità nei confronti delle decisioni
dell’amministrazione in chiave espressamente soggettiva e in
modo non condizionato dalla materia): un problema che sta
emergendo in modo sempre più consistente, nonostante la
dichiarata autonomia riconosciuta agli Stati membri nella
definizione delle proprie regole processuali.
---------------
MASSIMA
«Rinvio pregiudiziale – Appalti pubblici – Procedure
di ricorso – Direttiva 89/665/CEE – Articoli 1 e 2-quater –
Ricorso contro i provvedimenti di ammissione o esclusione
degli offerenti – Termini di ricorso – Termine di decadenza
di 30 giorni – Normativa nazionale che esclude la
possibilità di eccepire l’illegittimità di un provvedimento
di ammissione nell’ambito di un ricorso contro gli atti
successivi – Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea – Articolo 47 – Diritto ad una tutela
giurisdizionale effettiva»
...
Per questi motivi, la Corte (Ottava Sezione) dichiara:
1) La direttiva 89/665/CEE del
Consiglio, del 21.12.1989, che coordina le disposizioni
legislative, regolamentari e amministrative relative
all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di
aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di
lavori, come modificata dalla direttiva 2014/23/UE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014, e in
particolare i suoi articoli 1 e 2-quater, letti alla luce
dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea, deve essere interpretata nel senso che
essa non osta ad una normativa nazionale, come quella di cui
trattasi nel procedimento principale, che prevede che i
ricorsi avverso i provvedimenti delle amministrazioni
aggiudicatrici recanti ammissione o esclusione dalla
partecipazione alle procedure di aggiudicazione degli
appalti pubblici debbano essere proposti, a pena di
decadenza, entro un termine di 30 giorni a decorrere dalla
loro comunicazione agli interessati, a condizione che i
provvedimenti in tal modo comunicati siano accompagnati da
una relazione dei motivi pertinenti tale da garantire che
detti interessati siano venuti o potessero venire a
conoscenza della violazione del diritto dell’Unione dagli
stessi lamentata.
2) La direttiva 89/665, come modificata dalla direttiva 2014/23, e
in particolare i suoi articoli 1 e 2-quater, letti alla luce
dell’articolo 47 della Cartadei diritti fondamentali
dell’Unione europea, deve essere interpretata nel senso che
essa non osta ad una normativa nazionale, come quella di cui
trattasi nel procedimento principale, che prevede che, in
mancanza di ricorso contro i provvedimenti delle
amministrazioni aggiudicatrici recanti ammissione degli
offerenti alla partecipazione alle procedure di appalto
pubblico entro un termine di decadenza di 30 giorni dalla
loro comunicazione, agli interessati sia preclusa la facoltà
di eccepire l’illegittimità di tali provvedimenti
nell’ambito di ricorsi diretti contro gli atti successivi,
in particolare avverso le decisioni di aggiudicazione,
purché tale decadenza sia opponibile ai suddetti interessati
solo a condizione che essi siano venuti o potessero venire a
conoscenza, tramite detta comunicazione, dell’illegittimità
dagli stessi lamentata. |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Falsa attestazione presenza in servizio.
Il ricorso di un dipendente comunale avverso la sentenza di condanna per
truffa aggravata, per aver falsamente attestato in varie occasioni a propria
presenza in servizio, è stato respinto dalla Corte di Cassazione,
Sez. II penale, con la
sentenza 13.02.2019 n.
7005.
La questione non è rivolta esclusivamente al danno patrimoniale, che
potrebbe essere anche di pochi euro, ma sono determinanti, oltre al valore
economico del danno, anche gli ulteriori effetti pregiudizievoli cagionati
alla persona offesa dalla condotta delittuosa complessivamente valutata.
È
importante anche l'incidenza dell'accertata condotta delittuosa
sull'organizzazione dell'ente interessato, che ben potrebbe aver subito
pregiudizio rilevante per effetto delle pur minime assenze de quibus, poiché
esse (e il danno che ne consegue a carico della Pa interessata) vanno
valutate non soltanto sotto un profilo quantitativo, in riferimento al
quantum di retribuzione in ipotesi indebitamente percepito dal deceptor, ma
anche in quanto mettano in pericolo l'efficienza degli uffici: le singole
assenze, infatti, incidono sull'organizzazione dell'ufficio, alterando la
preordinata dislocazione delle risorse umane, nella quale il singolo
funzionario non può ingerirsi, modificando arbitrariamente le prestabilite
modalità di prestazione della propria opera quanto agli specifici orari di
presenza.
La dislocazione degli impiegati nei singoli uffici, infatti, è predisposta
dai dirigenti a ciò preposti curando l'utile e razionale impiego delle
risorse disponibili, per assicurare la proficuità (anche in favore
dell'utenza) dello svolgimento della quotidiana attività amministrativa,
certamente messa a repentaglio dalle personali iniziative di quei dipendenti
che mutino a proprio piacimento i prestabiliti orari di presenza in ufficio
(con il rischio di creare nocive scoperture ed inutili accavallamenti, e
comunque fornendo una prestazione diversa da quella doverosa, non soltanto
per durata, ma anche quanto all'orario di inizio e di fine)
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 25.02.2019).
---------------
MASSIMA
2. Questa Corte (Sez. 5, sentenza n. 8426 del 17/12/2013, dep. 2014, Rv.
258987 - 01) ha già osservato che la falsa attestazione del
pubblico dipendente relativa alla sua presenza in ufficio, riportata sui
cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, integra il reato di truffa
aggravata ove il soggetto si allontani senza far risultare, mediante
timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza,
sempre che questi ultimi siano economicamente apprezzabili, osservando che
anche una indebita percezione di poche centinaia di euro, corrispondente
alla porzione di retribuzione conseguita in difetto di prestazione
lavorativa, costituisce un danno economicamente apprezzabile per
l'amministrazione pubblica.
2.1. L'affermazione può essere condivisa, ma con la
precisazione che la speciale tenuità del danno arrecato alla PA potrebbe al
più legittimare il riconoscimento della circostanza attenuante di cui
all'art. 62, comma 1, n. 4, c.p. (tenuto anche conto dell'entità del
profitto percepito), non certo impedire la configurabilità del reato.
2.2. Questa Corte (Sez. 6, sentenza n. 30177 del 04/06/2013, Rv. 256643) ha
già chiarito che, anche ai fini della configurabilità della
circostanza attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità, rilevano,
oltre al valore economico del danno, anche gli ulteriori effetti
pregiudizievoli cagionati alla persona offesa dalla condotta delittuosa
complessivamente valutata
(fattispecie relativa ad una truffa commessa in danno di Poste Italiane
S.p.A. attraverso l'utilizzo abusivo dei cartellini di ingresso e la
conseguente alterazione dei dati sulle presenze in ufficio, in cui è stata
esclusa l'attenuante, richiamando la grave lesione del rapporto fiduciario
determinata dalla condotta delittuosa).
2.3. Osserva, in proposito, il collegio che assume all'uopo
rilievo anche l'incidenza dell'accertata condotta delittuosa
sull'organizzazione dell'ente interessato, che ben potrebbe aver subito
pregiudizio rilevante per effetto delle pur minime assenze de quibus,
poiché esse (ed il danno che ne consegue a carico della PA interessata)
vanno valutate non soltanto sotto un profilo quantitativo, in riferimento al
quantum di retribuzione in ipotesi indebitamente percepito dal deceptor,
ma anche in quanto mettano in pericolo l'efficienza degli uffici: le singole
assenze incidono, infatti, sull'organizzazione dell'ufficio, alterando la
preordinata dislocazione delle risorse umane, nella quale il singolo
funzionario non può ingerirsi, modificando arbitrariamente le prestabilite
modalità di prestazione della propria opera quanto agli specifici orari di
presenza.
La dislocazione degli impiegati nei singoli uffici è,
infatti, predisposta dai dirigenti a ciò preposti curando l'utile e
razionale impiego delle risorse disponibili, al fine di assicurare la
proficuità (anche in favore dell'utenza) dello svolgimento della quotidiana
attività amministrativa, certamente messa a repentaglio dalle personali
iniziative di quei dipendenti che mutino a proprio piacimento i prestabiliti
orari di presenza in ufficio (con il rischio di creare nocive scoperture ed
inutili accavallamenti, e comunque fornendo una prestazione diversa da
quella doverosa, non soltanto per durata, ma anche quanto all'orario di
inizio e di fine).
2.4. Di qui, il profitto consistente nell'essersi sottratto
ai doveri di ufficio e nell'indebita percezione di apprezzabile retribuzione
(cfr. f. 6 dell'ordinanza impugnata), ed il danno patito dalla PA.
Il primo motivo risulta, pertanto, manifestamente infondato.
...
5. Il quarto motivo è manifestamente infondato.
Come già correttamente chiarito dal Tribunale, è,
infatti, configurabile il concorso materiale tra il reato
di truffa aggravata e quello di false attestazioni o certificazioni previsto
dall'art. 55-quinquies D.Lgs. 30.03.2001, n. 165
(Sez. 3, Sentenza n. 47043 del 27/10/2015, Rv. 265223 — 01: fattispecie in
tema di indebito utilizzo dei badges attestanti la presenza in
ufficio da parte di dipendenti comunali). |
EDILIZIA PRIVATA:
Mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante -
Nozione di destinazione d'uso - Connotazione del bene
immobile a precisi scopi di interesse pubblico -
Organizzazione e gestione del territorio comunale - Carichi
urbanistici.
La destinazione d'uso è un elemento che
qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a
precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di
attuazione della pianificazione. Essa individua il bene
sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di
zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione
della differenziazione infrastrutturale del territorio,
prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard,
diversi per qualità e quantità proprio a seconda della
diversa destinazione di zona.
L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello
stesso vengono realizzate attraverso il coordinamento delle
varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili
relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono
negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando
appunto il complessivo assetto territoriale.
Il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante
è dunque solo quello tra categorie funzionalmente autonome
dal punto di vista urbanistico, tenuto conto che nell'ambito
delle stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma
non diversi regimi urbanistico - contributivi, stanti le
sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell'ambito
della medesima categoria.
...
Mutamento di destinazione d'uso senza opere - Necessità di
S.C.I.A. o permesso di costruire - Destinazione d'uso
funzionale - Condizioni - Artt. 31, 44, D.P.R. n. 380/2001.
Il mutamento di destinazione d'uso senza
opere è attualmente assoggettato a S.C.I.A., purché
intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica,
mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche
di destinazione che comportino il passaggio di categoria o,
se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche
all'interno di una stessa categoria omogenea.
Sicché, deve ritenersi consentita la modifica di
destinazione d'uso funzionale, purché non comporti una
oggettiva modificazione dell'assetto urbanistico ed edilizio
del territorio e non incida sugli indici di edificabilità,
che non determini, cioè, un aggravio del carico urbanistico,
inteso come maggiore richiesta di servizi cosiddetti
secondari, come ad esempio gli spazi pubblici destinati a
parcheggio e le esigenze di trasporto, smaltimento di
rifiuti e viabilità derivante dalla diversa destinazione
impressa al bene (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 11.02.2019 n. 6366 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Come più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità, in tema di reati
edilizi, il direttore dei lavori riveste una posizione di garanzia
circa la regolare esecuzione delle opere, con la conseguente responsabilità
per le ipotesi di reato configurate, dalla quale può andare esente solo
ottemperando agli obblighi di comunicazione e rinuncia all'incarico previsti
dall'art. 29, comma secondo, del d.P.R. n. 380 del 2001, sempre che il
recesso dalla direzione dei lavori sia stato tempestivo, ossia sia
intervenuto non appena l'illecito edilizio si sia evidenziato in modo
obiettivo, o non appena abbia avuto conoscenza che le direttive impartite
erano state disattese o violate, essendo stato chiarito
che, proprio
per la posizione di "garante" assunta dal direttore dei lavori e per
il suo precipuo obbligo di vigilare sulla corretta esecuzione delle opere,
questi risponde penalmente anche allorché si disinteressi dei lavori, pur
senza formalizzare o formalizzandole in ritardo, le proprie dimissioni;
dunque, l'assenza dal cantiere non esclude la penale responsabilità per gli
abusi commessi dal direttore dei lavori, sul quale ricade l'onere di
vigilare sulla regolare esecuzione delle opere edilizie e il dovere di
contestare le irregolarità riscontrate, se del caso rinunziando all'incarico.
---------------
2.2. Ribadita la configurabilità dei reati dal punto di vista oggettivo,
deve parimenti ritenersi immune da censure l'attribuzione degli stessi al
ricorrente.
In tal senso, è stata infatti ragionevolmente valorizzata la posizione di Ro.,
che era quella di direttore dei lavori, dovendosi in proposito evidenziare
che, come più volte affermato dalla giurisprudenza di
legittimità (cfr. in termini Sez.
3, n. 14504 del 20/01/2009, Rv. 243474), in tema di reati
edilizi, il direttore dei lavori riveste una posizione di garanzia
circa la regolare esecuzione delle opere, con la conseguente responsabilità
per le ipotesi di reato configurate, dalla quale può andare esente solo
ottemperando agli obblighi di comunicazione e rinuncia all'incarico previsti
dall'art. 29, comma secondo, del d.P.R. n. 380 del 2001, sempre che il
recesso dalla direzione dei lavori sia stato tempestivo, ossia sia
intervenuto non appena l'illecito edilizio si sia evidenziato in modo
obiettivo, o non appena abbia avuto conoscenza che le direttive impartite
erano state disattese o violate, essendo stato chiarito
(Sez. 3, n. 38924 del 7/11/2006, Rv. 235465) che, proprio
per la posizione di "garante" assunta dal direttore dei lavori e per
il suo precipuo obbligo di vigilare sulla corretta esecuzione delle opere,
questi risponde penalmente anche allorché si disinteressi dei lavori, pur
senza formalizzare o formalizzandole in ritardo, le proprie dimissioni;
dunque, l'assenza dal cantiere non esclude la penale responsabilità per gli
abusi commessi dal direttore dei lavori, sul quale ricade l'onere di
vigilare sulla regolare esecuzione delle opere edilizie e il dovere di
contestare le irregolarità riscontrate, se del caso rinunziando all'incarico
(così Sez. 3, n. 7406 del 15/01/2015, Rv. 262423).
Orbene, alla luce di tali premesse ermeneutiche, l'ascrivibilità delle
condotte illecite all'odierno ricorrente non presta il fianco alle censure
difensive, avendo i giudici di merito, con argomentazioni tutt'altro che
illogiche, evidenziato che delle difformità delle opere, e in particolare
del mancato adeguamento della struttura all'intervento restrittivo del
responsabile del procedimento, doveva essere chiamato a rispondere
senz'altro il direttore dei lavori, che per le sue capacità tecniche
connesse con la veste assunta, aveva precisi doveri di indirizzo e di
controllo durante l'esecuzione delle attività esecutive, essendo senz'altro
legittimato in ogni momento, ove necessario, a confrontarsi con la P.A., non
tanto per sostituirsi al committente, ma piuttosto per verificare la
compatibilità dei lavori in corso di esecuzione con i titoli legittimanti
l'intervento edilizio.
Non può condividersi in tal senso la lettura difensiva volta sostanzialmente
a "minimizzare" i compiti del direttore dei lavori, dovendosi
ribadire che questi ha il dovere di sovraintendere dall'inizio alla fine
alle attività edilizie, curandone la coerenza rispetto agli atti
autorizzativi e ai relativi elaborati tecnici presupposti.
L'affermazione della penale responsabilità di Ro. resiste dunque alle
obiezioni difensive, risultando generiche le censure in ordine alla presunta
violazione dell'art. 5 cod. pen. (e non 4 come erroneamente indicato nel
ricorso), posto che nel caso di specie alcuna incertezza interpretativa era
configurabile, riferendosi il breve passaggio motivazionale della sentenza
impugnato citato dal ricorrente non all'esistenza di una situazione di
confusione generata dagli organi tecnici che in ipotesi avrebbe potuto
creare dubbi sull'iter tecnico-amministrativo da seguire, ma alla "difficoltà,
probabilmente interpretativa" nella fase esecutiva, che eventualmente
avrebbe potuto crearsi laddove, a seguito del sopravvenuto intervento
limitativo del responsabile del procedimento, si fosse operata una
conseguente revisione integrale del progetto per garantire la stabilità
dell'opera.
Piuttosto, rispetto alla valutazione dell'elemento psicologico, è
sufficiente richiamare la natura anche colposa delle fattispecie per cui si
è proceduto (discorso questa che, come si vedrà di qui a breve, riguarda
anche la contestazione di cui al capo Aw), per ritenere pienamente integrati
anche dal punto di vista soggettivo i reati addebitati al direttore dei
lavori, alla luce almeno dell'accertata violazione dei doveri di vigilanza
sullo stesso incombenti.
Allo stesso modo, non può sottacersi che parimenti generiche sono le
doglianze difensive in ordine alla presunta realizzazione delle opere
abusive nella fase temporale compresa tra la comunicazione dell'ultimazione
dei lavori da parte di Ro. (luglio 2013) e l'epoca del sopralluogo della
P.G. (marzo 2014), avendo sul punto la Corte territoriale ragionevolmente
osservato come, in assenza peraltro di evidenze probatorie di segno
contrario, fosse del tutto inverosimile che siano avvenute in un tempo così
ristretto la differente strutturazione degli ambienti, rispetto peraltro a
due distinti livelli, l'interclusione degli spazi inutilizzabili e la
realizzazione delle opere tecniche accessorie, trattandosi di interventi che
richiedevano ben altri tempi di esecuzione, coinvolgendo l'opera nel suo
complesso, per cui non è immaginabile che tale attività sia stata compiuta
solo dopo che Ro. aveva terminato il suo incarico, prolungatosi peraltro
per 5 anni.
2.3. Tanto premesso, deve tuttavia precisarsi, quanto all'imputazione
cristallizzata al capo Aw della rubrica, che i fatti delineati dagli
elementi probatori acquisiti devono essere più correttamente inquadrati non
nella fattispecie delittuosa di cui all'art. 181, comma 1-bis, del d.lgs. n.
42 del 2004, ma in quella contravvenzionale di cui al comma 1 del medesimo
art. 181.
Deve infatti evidenziarsi che, con la sentenza della Corte costituzionale n.
56 del 23.03.2016, è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale
dell'art. 181, comma 1-bis, del d.lgs. n. 42 del 22.01.2004, nella parte in
cui prevede «:a) ricadano su immobili od aree che, per le loro
caratteristiche paesaggistiche siano stati dichiarati di notevole interesse
pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla
realizzazione dei lavori; b) ricadano su immobili od aree tutelati per legge
ai sensi dell'articolo 142 ed».
Per effetto dell'intervento della Consulta, dunque, la natura delittuosa
della condotta illecita permane ormai soltanto con riguardo alla seconda
parte della lettera b), concernente gli interventi che abbiano comportato un
aumento dei manufatti superiore al trenta per cento della volumetria della
costruzione originaria o, in alternativa, un ampliamento della medesima
superiore a settecentocinquanta metri cubi, ovvero ancora abbiano comportato
una nuova costruzione con una volumetria superiore ai mille metri cubi;
quanto, invece, alla prima parte della stessa lett. b), così come alla lett.
a), sopra citate, le relative ipotesi mantengono comunque rilevanza penale,
ma vengono attratte nel comma 1 del medesimo art. 181 e, pertanto, sono
punite con le pene previste dall'art. 44, comma 1, lett. c), del d.P.R. n.
380/2001, proprie delle fattispecie contravvenzionali, al pari della "comune"
esecuzione di lavori di qualsiasi genere su beni paesaggistici senza la
prescritta autorizzazione o in difformità di essa.
In definitiva, con la sentenza n. 56 del 2016, talune condotte di reato sono
state private della natura delittuosa, per assumere quella contravvenzionale,
cioè quella che possedevano fino all'emanazione della legge n. 308/2004, che
aveva appunto inserito il predetto comma 1-bis all'art. 181 del d.lgs.
42/2004. Come già chiarito da questa Corte (cfr. Sez. 3, n. 38691
dell'11/07/2017, Rv. 271301), gli effetti in bonam partem della
pronuncia manipolativa della Corte costituzionale, stante l'invalidità
originaria della norma, sono destinati, sin dalla pubblicazione delle
sentenza, a riverberarsi sia nei giudizi ancora in corso, sia nella fase
esecutiva, ovviamente entro il limite dei rapporti ormai esauriti.
Ciò posto, nel caso di specie, la declaratoria di incostituzionalità della
norma incriminatrice assume senz'altro rilievo, dovendosi cioè escludere che
le opere realizzate abbiano superato i limiti dimensionali prima indicati,
avendo la stessa sentenza impugnata specificato che l'aumento della
volumetria "rasenta il 30% del progetto originale", affermazione
questa che non consente di ritenere comprovato il requisito dell'aumento
superiore al 30% della volumetria della costruzione originaria, imposto
dalla previsione delittuosa del reato de quo, né potendosi ritenere superati
gli ulteriori parametri volumetrici sopra richiamati.
Ne consegue che il fatto contestato al capo Aw, alla luce delle consistenze
volumetriche desumibili dalle sentenze di merito, deve essere inquadrato non
nella più grave fattispecie delittuosa di cui all'art. 181, comma 1-bis, del
d.lgs. 42/2004, ma in quella contravvenzionale di cui al comma 1 del citato
art. 181
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
11.02.2019 n. 6359). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Nozione di acque meteoriche di
dilavamento - Contaminazioni con altre sostanze o materiali
inquinanti - Qualificazione come acque reflue industriali -
Assenza della prescritta autorizzazione - Configurabilità
del reato ambientale - Responsabilità dell'amministratore -
Direttore tecnico - Artt. 74, 113, 124, c. 1, e 137, c. 1,
d.Lgs. n. 152/2006.
Le acque meteoriche di dilavamento sono
costituite dalle sole acque che, cadendo al suolo per
effetto di precipitazioni atmosferiche, si depositano su un
suolo impermeabilizzato, dilavando le superfici e attingendo
indirettamente i corpi recettori, senza subire
contaminazioni di sorta con altre sostanze o materiali
inquinanti, come avvenuto nel caso di specie (acque
meteoriche contaminate con i materiali stoccati sul piazzale
dello stabilimento dell'impresa).
Di qui la coerente esclusione dell'incidenza in materia
della competenza regionale fissata dall'art. 113 del d.Lgs.
n. 152 del 2006, avendo tale competenza ad oggetto, per
espresso dettato normativo, soltanto le acque meteoriche di
dilavamento, le acque di prima pioggia e le acque di
lavaggio di aree esterne.
In conclusione, in tema di tutela penale dall'inquinamento,
le acque meteoriche da dilavamento sono costituite dalle
sole acque piovane che, cadendo al suolo, non subiscono
contaminazioni con sostanze o materiali inquinanti, poiché,
altrimenti, esse vanno qualificate come reflui industriali
ai sensi dell'art. 74, lett. h), del d.Lgs. n. 152 del 2006 (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.02.2019 n. 6260 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nozione di opera precaria - Manufatti precari e assenza di
titolo abilitativo - Presupposti - Artt. 3, 6, 44, lett. c),
93, 94 e 95 d.P.R. n. 380/2001 - Art. 181, c. 1, d.lgs. n.
42/2004
L'opera precaria, per la sua stessa
natura e destinazione non comporta effetti permanenti e
definitivi sull'originario assetto del territorio tali da
richiedere il preventivo rilascio di un titolo abilitativo,
sicché, l'intervento precario deve necessariamente possedere
alcune specifiche caratteristiche.
Pertanto, la sua precarietà non può essere desunta dalla
temporaneità della destinazione soggettivamente data
all'opera dall'utilizzatore e sono irrilevanti le
caratteristiche costruttive i materiali impiegati e
l'agevole amovibilità, infatti, l'opera deve avere una
intrinseca destinazione materiale ad un uso realmente
precario per fini specifici, esigenze contingenti e limitati
nel tempo, per cui, deve essere destinata ad una sollecita
eliminazione alla cessazione dell'uso (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.02.2019 n. 5821 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Intervento abusivo - Violazioni urbanistiche/paesaggistiche
e verifica della particolare tenuità del fatto - Elementi.
In materia di violazioni urbanistiche e
paesaggistiche, la consistenza dell'intervento abusivo
(tipologia di intervento, dimensioni e caratteristiche
costruttive) costituisce solo uno dei parametri di
valutazione utilizzabili ai fini della verifica della
particolare tenuità del fatto, assumendo rilievo anche altri
elementi, quali, ad esempio, la destinazione dell'immobile,
l'incidenza sul carico urbanistico, l'eventuale contrasto
con gli strumenti urbanistici e l'impossibilità di
sanatoria, il mancato rispetto di vincoli (idrogeologici,
paesaggistici, ambientali, etc.), l'eventuale collegamento
dell'opera abusiva con interventi preesistenti, il rispetto
o meno di provvedimenti autoritativi emessi
dall'amministrazione competente (ad es. l'ordinanza di
demolizione), la totale assenza di titolo abilitativo o il
grado di difformità dallo stesso, le modalità di esecuzione
dell'intervento, ritenendo anche indice sintomatico della
non particolare tenuità del fatto la contestuale violazione
di più disposizioni quale conseguenza dell'intervento
abusivo, come nel caso in cui siano contestualmente violate,
mediante la realizzazione dell'opera, anche altre
disposizioni finalizzate alla tutela di interessi diversi
(norme in materia di costruzioni in zone sismiche, di opere
in cemento armato, di tutela del paesaggio e dell'ambiente,
a quelle relative alla fruizione delle aree demaniali).
...
DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Eliminazione dell'opera abusiva
- Effetti - Cessazione della permanenza - Applicazione della
causa di non punibilità e assenza dei presupposti -
Motivazione implicita in presenza di dati obiettivamente
preclusivi - Art. 131-bis cod. pen..
L'eliminazione dell'opera abusiva,
attraverso la sua demolizione o la rimessione in pristino
dello stato dei luoghi, implicando la cessazione della
permanenza, può consentire, a condizioni esatte,
l'applicazione della causa di non punibilità introdotta
dall'art. 131-bis cod. pen.
(Cass. Sez. 3, n. 4123 del 11/07/2017 (dep. 2018), PG. in
proc. Zoccarato).
Tuttavia, l'assenza dei presupposti per
l'applicabilità dell'art. 131-bis cod. pen. può essere
rilevata anche con motivazione implicita
(Sez. 3, n. 48317 del 11/10/2016 Scopazzo),
ovviamente in presenza di dati obiettivamente
preclusivi di una valutazione di particolare tenuità del
fatto, ritenendo quindi del tutto adeguata la motivazione
espressa che valorizzi l'assenza anche di uno solo dei
requisiti richiesti dall'art. 131-bis cod. pen.
(Sez. 3, n. 34151 del 18/06/2018, Foglietta e altro) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.02.2019 n. 5821 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Illecita gestione di rifiuti - Configurabilità del
reato - Verifica del titolo abilitativo - Distinzione tra
requisiti e condizioni incidenti - Carenza dei requisiti e
delle condizioni per le iscrizioni o comunicazioni -
Modalità di esercizio dell'attività - Artt. 184, 216, 256,
258 d.lgs. n. 152/2006.
Con l'art. 256, d.lgs. 152/2006 opera
una distinzione tra requisiti e condizioni incidenti sulla
medesima sussistenza del titolo abilitativo e quelli che,
invece, riguardano unicamente le modalità di esercizio della
medesima attività. Per cui, nell'ipotesi di carenza dei
requisiti e delle condizioni richiesti per le iscrizioni o
comunicazioni, il reato di cui all'art. 256, comma 4, d.lgs.
152/2006 è configurabile nei soli casi in cui tale carenza
sia attinente alle modalità di esercizio dell'attività,
mentre, nella diversa ipotesi in cui essa si risolva nella
sostanziale inesistenza del titolo abilitativo, si configura
una illecita gestione che certamente sussiste quando oggetto
dell'attività sono rifiuti diversi da quelli indicati nelle
comunicazioni ed iscrizioni.
...
RIFIUTI - Svolgimento di attività di gestione in forma
semplificata - Condizioni prescritte all'atto della
richiesta iniziale o nella richiesta di rinnovo - Attività
ad un controllo della Pubblica Amministrazione - Effetti
della prosecuzione in difformità.
In tema di rifiuti, lo svolgimento di
attività di gestione in forma semplificata, art. 216 d.lgs.
152/2006, al di fuori delle condizioni prescritte all'atto
della richiesta iniziale o nella richiesta di rinnovo, fa
insorgere il pericolo, che il legislatore ha voluto
prevenire, richiedendo l'assoggettamento dell'attività ad un
controllo della Pubblica Amministrazione, divenendo
conseguentemente illegale ai sensi dell'art. 256, comma
primo, lett. a), d.lgs. n. 152 del 2006, la prosecuzione in
difformità dal titolo o dalle condizioni indicate nella
richiesta, di rinnovo o di rilascio iniziale
(Sez. 3, n. 2401 del 05/10/2017 (dep. 2018), Mascheroni).
...
RIFIUTI - Nozione della messa in riserva - Attività
prodromica al recupero dei rifiuti - Giurisprudenza.
La messa in riserva costituisce
un'attività prodromica al recupero dei rifiuti, come si
ricava dalle definizioni di "stoccaggio" di cui all'art.
183, lett. aa), d.lgs. 152/2006, il quale individua come
tale "le attività di smaltimento consistenti nelle
operazioni di deposito preliminare di rifiuti di cui al
punto D15 dell'allegato B alla parte quarta del presente
decreto, nonché le attività di recupero consistenti nelle
operazioni di messa in riserva di rifiuti di cui al punto
R13 dell'allegato C alla medesima parte quarta" e nella
definizione di "recupero", definito, sempre, nell'art. 183,
alla lett. t), come "qualsiasi operazione il cui principale
risultato sia di permettere ai rifiuti di svolgere un ruolo
utile, sostituendo altri materiali che sarebbero stati
altrimenti utilizzati per assolvere una particolare funzione
o di prepararli ad assolvere tale funzione, all'interno
dell'impianto o nell'economia in generale" (Sez. 3, n. 7160
del 15/12/2016 (dep. 2017), Bozza) (Corte
di cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.02.2019 n. 5817 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Scarichi e rifiuti liquidi -
Abusivo smaltimento su suolo di effluenti provenienti dal
proprio allevamento - Disciplina applicabile - RIFIUTI -
Reflui da considerarsi rifiuti allo stato liquido - Artt.
101 e 256 D.Lgs. n. 152/2006 - Giurisprudenza.
La disciplina sui reflui trova
applicazione solo se il collegamento fra ciclo di produzione
e recapito finale sia diretto ed attuato, senza soluzione di
continuità, mediante una condotta o altro sistema stabile di
collettamento, atteso che l'art. 183, lett. h), del d.lgs.
152/2006 definisce quale scarico, che rimanda alla normativa
sui reflui, solo l'immissione effettuata tramite un sistema
stabile e diretto di collettannento.
Consegue che in assenza di diretta immissione nel suolo, nel
sottosuolo o nella rete fognaria mediante una condotta o un
sistema stabile di collettamento i reflui sono da
considerarsi rifiuti allo stato liquido, soggetti alla
distinta disciplina dell'art. 256 D.Lgs. n. 152 del 2006
(Cass. Sez. 3, n. 6998/2018; Sez. 3, n. 16623/2015
D'Aniello) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.02.2019 n. 5813 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Alla Corte costituzionale la norma veneta che prevede la
riscossione del contributo di costruzione solo se
determinato contestualmente al rilascio del titolo.
Il Tar per il Veneto rimette alla Corte costituzionale la
q.l.c. della norma regionale veneta (art. 2, comma 3, l.r.
16.03.2015, n. 4) che, nel prevedere la possibilità per
l’ente locale di riscuotere il contributo di costruzione
solo se determinato contestualmente al rilascio del titolo,
impedisce retroattivamente le azioni necessarie alla
riscossione delle richieste di conguaglio il cui importo non
è stato determinato contestualmente al rilascio del titolo.
---------------
Il Tar per il Veneto rimette alla Corte costituzionale la
q.l.c. della norma regionale veneta (art. 2, comma 3, l.r.
16.03.2015, n. 4) che, nel prevedere la possibilità per
l’ente locale di riscuotere il contributo di costruzione
solo se determinato contestualmente al rilascio del titolo,
impedisce retroattivamente le azioni necessarie alla
riscossione delle richieste di conguaglio il cui importo non
è stato determinato contestualmente al rilascio del titolo.
...
Edilizia – Legge regionale – Contributo per il rilascio del
permesso di costruire – Questione non manifestamente
infondata di costituzionalità
È rilevante e non manifestamente
infondata, in relazione agli artt. 3, 5, 97, 114, 117, 118 e
119 della Costituzione, la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 2, comma 3, della Legge Regionale
della Regione Veneto 16.03.2015, n. 4, nella parte in cui
prevede che resta fermo quanto già determinato dal comune,
in relazione alla quota del costo di costruzione, solo
qualora la determinazione del contributo sia avvenuta
all’atto del rilascio del permesso di costruire e non con
una successiva richiesta di conguaglio (1).
---------------
(1) I. – Con l’ordinanza in epigrafe, il Tar per il Veneto ha
rimesso alla Corte costituzionale,
in relazione agli artt. 3, 5, 97, 114, 117, 118 e 119 della
Costituzione, la questione di legittimità
costituzionale della disciplina del contributo di
costruzione contenuta nell’art. 2, comma 3,
della legge regionale della Regione Veneto 16.03.2015, n.
4, nella parte in cui introduce
un regime differenziato e derogatorio della disciplina
statale di cui all’art. 16, comma 9,
d.p.r. n. 380 del 2001 (t.u. edilizia).
In particolare,
l’art. 16, comma 9, del citato d.p.r. prevede,
con una norma cedevole, che le disposizioni del testo unico,
attuative dei principi di riordino
in esso contenuti, operano direttamente nei riguardi delle
regioni a statuto ordinario, fino a
quando esse non si adeguano ai principi medesimi. Con l’art.
2, comma 3, della legge veneta
del 2015, il legislatore regionale è intervenuto sul regime
anteriore all’entrata in vigore della
medesima legge regionale e, quindi, sulla disciplina
transitoria di fonte regionale
prevedendo che il contributo di costruzione determinato dal
comune rimanga fermo solo
qualora la determinazione del contributo sia avvenuta
all’atto del rilascio del permesso di
costruire e non con una successiva richiesta di conguaglio.
Nel caso di specie, il Comune resistente, nel 2014,
rettificava la determinazione del
contributo di costruzione stabilito nel 2008. Con l’atto
introduttivo del giudizio, la società
ricorrente chiedeva, tra l’altro, sulla base della l.r. n. 4
del 2015, l’accertamento negativo del
diritto del Comune di pretendere il conguaglio del costo di
costruzione e l’annullamento
dell’atto di intimazione emanato.
II. – Premessa la ricostruzione del quadro normativo di
riferimento, il Collegio osserva che:
a) la controversia in ordine alla spettanza e alla
liquidazione del contributo per gli
oneri di urbanizzazione ha ad oggetto l’accertamento di un
rapporto di credito
e non è, pertanto, soggetta alle regole delle azioni
impugnatorie–annullatorie
degli atti amministrativi e ai rispettivi termini di
decadenza;
b) in relazione alla rilevanza della q.l.c. ai fini della
definizione del giudizio,
b1) l’art. 2, comma 3, l.r. Veneto, 16.03.2015, n. 4,
prevede che “Resta fermo
quanto già determinato dal comune, in relazione alla quota
del costo di
costruzione, prima dell'entrata in vigore della presente
legge in diretta
attuazione del comma 9 dell'articolo 16 del decreto del
Presidente della
Repubblica n. 380 del 2001, purché la determinazione sia
avvenuta all'atto del
rilascio del permesso di costruire e non con una successiva
richiesta di
conguaglio”;
b2) la richiesta di conguaglio è stata inviata
dall’amministrazione il 04.12.2014 e la legge regionale è entrata in vigore il
04.04.2015;
b3) tuttavia, la disposizione, pur non qualificandosi
espressamente come
retroattiva, deve ritenersi applicabile anche ai casi in cui
la richiesta di
conguaglio da parte dell’amministrazione sia stata
effettuata prima della
sua entrata in vigore;
b4) infatti, con essa, il legislatore regionale, nel
mantenere ferme le sole
determinazioni con cui si è fatta diretta applicazione della
normativa
statale che siano avvenute contestualmente al rilascio del
permesso di
costruire e non con successivi conguagli, ha escluso
l’ammissibilità del
conguaglio che miri a recuperare l’importo del contributo
nella misura
minima prevista dalla legislazione statale se non
contestuale al rilascio
del titolo edilizio;
b5) la norma ha pertanto portata retroattiva, nel senso che
inibisce il
conguaglio non contestuale al rilascio del titolo edilizio
anche se la
relativa richiesta, come nel caso di specie, è avvenuta
anteriormente
all’entrata in vigore della legge regionale del 2015;
c) sempre in punto di rilevanza, la norma non appare
suscettibile di alcuna
interpretazione costituzionalmente orientata atteso che essa
esclude
espressamente l’applicazione della disposizione di principio
di fonte statale per
i rapporti conseguenti alle determinazioni e liquidazioni
del contributo che
siano state erroneamente effettuate, impedendo, così,
l’applicazione diretta
della norma di principio dettata dal legislatore statale in
materia di legislazione concorrente a tutela di esigenze
unitarie di prelievo e violando l’autonomia di
entrata e di spesa dei Comuni;
d) vi sono dubbi sulla compatibilità costituzionale della
norma in relazione agli
artt. 3, 5, 117, terzo comma, 119, primo, secondo e quarto
comma della
Costituzione, in quanto:
d1) con l’art. 2, comma 3, l.r. n. 4 del 2015, il
legislatore ha esercitato la propria
potestà legislativa in violazione della norma di principio
contenuta
nell’art. 16, comma 9, d.p.r. n. 380 del 2001, così violando
l’art. 117, terzo
comma, ultimo periodo, Cost., che riserva al legislatore
statale la
determinazione dei principi fondamentali delle materie di
legislazione
concorrente; il legislatore regionale ha, infatti,
disciplinato i rapporti
ancora pendenti sorti nel periodo vigente anteriormente alla
sua entrata
in vigore sottraendo all’applicazione della norma statale
quei rapporti in
cui, all’atto del rilascio del titolo, l’amministrazione
erroneamente aveva
omesso di dare applicazione della norma statale di
principio;
d2) l’art. 16, comma 9, d.p.r. n. 380 del 2001, nel dettare
i criteri di
determinazione del contributo di costruzione, contribuisce a
definire il
contenuto dell’onere economico gravante sul soggetto che
intenda
esercitare lo ius aedificandi, così concorrendo a
determinare l’effettiva
portata e la caratterizzazione positiva del principio di
onerosità del
permesso di costruire, che, secondo la giurisprudenza
costituzionale,
costituisce un principio fondamentale della materia di
competenza
concorrente “governo del territorio”; “la disposizione di
cui al comma 9 dell’art.
16 DPR 380/2001, nella parte in cui individua i parametri
per la determinazione
del contributo, nella sua componente relativa al costo di
costruzione, appare
riconducibile a tale categoria di norme di principio, poiché
concorrendo a definire
il contenuto dell’onere economico gravante sul soggetto che
intenda esercitare lo
ius aedificandi, ne integra un aspetto essenziale”;
d3) l’art. 16, comma 9, d.p.r. n. 380 del 2001, costituisce
anche principio di
coordinamento della finanza pubblica ai sensi dell’art. 119,
secondo
comma, Cost. e dell’art. 117, terzo comma, Cost., in quanto
la definizione
di criteri uniformi di determinazione della prestazione
imposta per
l’intero territorio nazionale mira, da un lato, a garantire
a tutti i cittadini
parità di condizioni nell’esercizio dello ius aedificandi,
dall’altro, ai
Comuni una quota minima di compartecipazione ai benefici
derivanti
dall’esercizio dell’attività edificatoria; il contributo di
costruzione
costituisce, per la giurisprudenza maggioritaria, un
corrispettivo di
diritto pubblico, avente carattere generale e non tributario
di cui è titolare il Comune che rilascia il titolo edilizio,
rientrando, quindi, nel novero
delle risorse autonome di cui i Comuni, secondo quanto
prevede l’art.
119, secondo comma, Cost., sono titolari; alle disposizioni
di legge statale
che definiscono i criteri per la quantificazione delle
prestazioni imposte
spettanti ai Comuni dovrebbe riconoscersi natura di principi
di
coordinamento della finanza pubblica, poiché anche da esse
dipende
l’autonomia di entrata e di spesa riconosciuta agli enti
territoriali, nonché
la concreta possibilità di assolvere alle funzioni ad essi
attribuite, atteso
che il quarto comma dell’art. 119 Cost., esclude che essi
possano ricevere,
in via ordinaria, ulteriori risorse rispetto a quelle
previste dal medesimo
articolo;
d4) l’art. 16, comma 9, d.p.r. n. 380 del 2001, nel
prevedere che “Le disposizioni,
anche di dettaglio, del presente testo unico, attuative dei
principi di riordino in
esso contenuti operano direttamente nei riguardi delle
regioni a statuto ordinario,
fino a quando esse non si adeguano ai principi medesimi”,
contiene una
disciplina transitoria e cedevole, mediante la quale le
disposizioni di
dettaglio, attuative di norme di principio contenute nel
medesimo d.p.r.
trovano immediata applicazione fino all’adeguamento da parte
delle
Regioni; le norme statali di dettaglio, espressione di
principi generali,
mirano ad evitare che l’inerzia regionale ponga nel nulla
l’individuazione
dei principi fondamentali delle materie di legislazione
concorrente, che è
riservata al legislatore statale, così preservando la
suddetta riserva e
garantendo l’uniforme disciplina nazionale in conformità con
gli stessi;
l’art. 2, comma terzo, l.r. n. 4 del 2015, introducendo un
regime
differenziato di determinazione del contributo di
costruzione rispetto a
quello applicabile sull’intero territorio nazionale per
talune fattispecie
(quelle per le quali il contributo fosse stato determinato
secondo
parametri diversi da quello minimo previsti dall’art. 16,
comma 9, d.p.r.
n. 380 del 2001), si è posto contro quelle esigenze di
uniforme
regolamentazione presidiate dagli artt. 118, commi primo e
quinto, della
Costituzione, rendendo definitiva la violazione della norma
di principio
che il mancato tempestivo adeguamento della legislazione
regionale
aveva prodotto;
d5) la disposizione regionale, escludendo che i Comuni
possano pretendere
con una richiesta di conguaglio il pagamento del contributo
nella misura
minima prevista dalla legge statale, incide e viola il
principio di
equiordinazione tra enti territoriali previsto dall’art. 114 Cost., nonché
l’autonomia di entrata e di spesa riconosciuta ai Comuni
dall’art. 119, commi primo, secondo e quarto, Cost., e il
principio di buona
amministrazione previsto dall’art. 97 Cost.; la norma
regionale, in
particolare, nell’escludere il diritto dei Comuni di
pretendere il
pagamento del contributo nella misura determinata dalla
legge statale,
incide su un credito già acquisito al patrimonio comunale
per effetto del
rilascio del permesso di costruire, viola l’autonomia di
entrata e di spesa
riservata ai Comuni e impedisce ai Comuni di far valere e
riscuotere nella
loro interezza crediti già acquisiti al patrimonio in
assenza di alcuna
valutazione sulla sostenibilità economica di tale rinuncia;
d6) la norma invade, inoltre, la sfera di potestà
legislativa esclusiva nella
disciplina dell’ordinamento civile riservata al legislatore
statale dall’art.
117, secondo comma, lett. l), Cost.; infatti, con la
disposizione in esame il
legislatore statale ha dettato una disciplina speciale per
gli atti di
determinazione e liquidazione del contributo di costruzione
già emessi,
sottraendo ai Comuni il potere di rideterminare l’importo
già liquidato in
base alla disciplina regionale previgente, prendendo
posizione sulla
natura, autoritativa o paritetica, degli atti con cui
l’amministrazione
determina e liquida l’importo del contributo di costruzione
e
sull’ammissibilità, e le relative condizioni, della
rideterminazione del
suddetto importo.
In particolare, la legge regionale ha
manifestato una
chiara opzione per la tesi che esclude la modificabilità
della liquidazione
del contributo di costruzione effettuata dal Comune
contestualmente al
rilascio del titolo; i rapporti obbligatori, già instaurati
alla data della sua
entrata in vigore, vengono sottoposti a una disciplina
peculiare, mediante
la quale la pretesa creditoria del Comune viene ridotta nel
quantum
rispetto al suo contenuto legale, ove non esercitata in tale
misura fin dal
momento della sua originaria quantificazione ed è
riconosciuta una tutela
dell’affidamento del privato del tutto avulsa dalla verifica
dei profili di
conoscibilità della normativa applicabile.
Il legislatore
regionale ha,
quindi, dettato disposizioni che incidono sul regime
giuridico di un
rapporto obbligatorio di contenuto essenzialmente pecuniario
e soggetto
alle disposizioni di diritto privato, invadendo una
competenza riservata
dall’art. 117, secondo comma, Cost., alla potestà
legislativa statale;
d7) la norma non può, inoltre, ritenersi conforme ai
principi di uguaglianza e
ragionevolezza, in quanto disciplina diversamente rapporti
obbligatori di
fonte legale, integralmente definiti nel loro contenuto, per
effetto della
medesima legge, in funzione della circostanza, meramente
casuale, che il Comune abbia o non abbia fatto corretta
applicazione della legge vigente
in sede di rilascio del titolo.
III. – Per completezza si segnala che:
e) sulla natura della prestazione contributiva e della
relativa obbligazione, sul
momento in cui si deve determinare il contributo, sulla rettificabilità del
contributo,
Cons. Stato, Ad. plen., 30.08.2018, n. 12
(in Foro it., 2018, III, 618,
con nota di TRAVI – BORGIANI, nonché oggetto della
News US,
in data 17.09.2018, alla quale si rinvia per ulteriori
approfondimenti), secondo cui,
tra l’altro:
e1) “gli atti con i quali la pubblica amministrazione
determina e liquida il contributo
di costruzione, previsto dall’art. 16 del d.P.R. n. 380 del
2001, non hanno natura
autoritativa, non essendo espressione di una potestà
pubblicistica, ma
costituiscono l’esercizio di una facoltà connessa alla
pretesa creditoria
riconosciuta dalla legge al Comune per il rilascio del
permesso di costruire, stante
la sua onerosità, nell’ambito di un rapporto obbligatorio a
carattere paritetico e
soggetta, in quanto tale, al termine di prescrizione
decennale, sicché ad essi non
possono applicarsi né la disciplina dell’autotutela dettata
dall’art. 21-nonies della
l. n. 241 del 1990 né, più in generale, le disposizioni
previste dalla stessa legge
per gli atti provvedimentali manifestazioni di imperio”;
e2) “la pubblica amministrazione, nel corso di tale
rapporto, può pertanto sempre
rideterminare, sia a favore che a sfavore del privato,
l’importo di tale contributo,
in principio erroneamente liquidato, richiedendone o
rimborsandone a questi la
differenza nell’ordinario termine di prescrizione decennale
(art. 2946 c.c.)
decorrente dal rilascio del titolo edilizio, senza incorrere
in alcuna decadenza,
mentre per parte sua il privato non è tenuto ad impugnare
gli atti determinativi
del contributo nel termine di decadenza, potendo ricorrere
al giudice
amministrativo, munito di giurisdizione esclusiva ai sensi
dell’art. 133, comma
1, lett. f), c.p.a., nel medesimo termine di dieci anni,
anche con un’azione di mero
accertamento”;
e3) “l’amministrazione comunale, nel richiedere i detti
importi con atti non aventi
natura autoritativa, agisce quindi secondo le norme di
diritto privato, ai sensi
dell’art. 1, comma 1-bis, della l. n. 241 del 1990, ma si
deve escludere
l’applicabilità dell’art. 1431 c.c. a questa fattispecie, in
quanto l’errore nella
liquidazione del contributo, compiuto dalla pubblica
amministrazione, non
attiene ad elementi estranei o ignoti alla sfera del
debitore ed è quindi per lui in
linea di principio riconoscibile, in quanto o riguarda
l’applicazione delle tabelle
parametriche, che al privato sono o devono essere ben note,
o è determinato da un mero errore di calcolo, ben
percepibile dal privato, errore che dà luogo alla
semplice rettifica”;
e4) “la tutela dell’affidamento e il principio della buona
fede, che in via generale
devono essere osservati anche dalla pubblica amministrazione
nell’attuazione del
rapporto obbligatorio, possono trovare applicazione ad una
fattispecie come quella
in esame nella quale, ordinariamente, la predeterminazione e
l’oggettività dei
parametri da applicare al contributo di costruzione, di cui
all’art. 16 del d.P.R.
n. 380 del 2001, rendono vincolato il conteggio da parte
della pubblica
amministrazione, consentendone a priori la conoscibilità e
la verificabilità da
parte dell’interessato con l’ordinaria diligenza, solo nella
eccezionale ipotesi in
cui tali conoscibilità e verificabilità non siano possibili
con l’ordinaria diligenza
richiesta al debitore, secondo buona fede (artt. 1175 e 1375
c.c.), nell’ottica di una
leale collaborazione volta all’attuazione del rapporto
obbligatorio e al
soddisfacimento dell’interesse creditorio vantato dal
Comune”;
e5) il contributo di costruzione è una prestazione
patrimoniale imposta, di
natura non tributaria, a carico del privato, a titolo di
partecipazione ai
costi delle opere di urbanizzazione e in proporzione
all'insieme dei
benefici che la nuova costruzione ne ritrae, senza alcun
vincolo di scopo
in relazione alla zona interessata alla trasformazione
urbanistica e
indipendentemente dalla concreta utilità che il privato può
conseguire
dal titolo edificatorio e dalle spese effettivamente
occorrenti per la
realizzazione delle opere stesse. La circostanza che
un'obbligazione
patrimoniale abbia una fonte pubblicistica non esclude che
le vicende del
rapporto siano assoggettate anche alle ordinarie regole civilistiche;
e6) l'atto del comune che stabilisce la misura del
contributo è un mero atto di
liquidazione, a carattere ricognitivo e contabile, in quanto
il contributo,
nelle sue due diverse componenti, è dovuto in base a criteri
puntuali
predeterminati (cfr. art. 16 d.p.r. n. 380 del 2001), con la
conseguenza che
il suo concreto ammontare è il risultato soltanto di
un'operazione
aritmetica, mentre il fatto costitutivo dell’obbligazione è
il rilascio del
titolo edilizio. La determinazione del contributo non
avrebbe pertanto
carattere provvedimentale e l'atto del comune non sarebbe
neppure
passibile di autotutela;
e7) sebbene il credito dell’amministrazione, per la sua
particolare finalità, sia
assistito da particolari sanzioni e da speciali procedure
coattive di
riscossione ciò non contrasta con la fondamentale natura del
rapporto
obbligatorio paritetico inerente al momento del pagamento
del contributo
e accessorio al rilascio del permesso di costruire;
f) prima dell’intervento dell’Adunanza plenaria potevano
registrarsi tre
orientamenti principali sul tema della rettifica del
contributo di costruzione e
sulle condizioni che un comune deve rispettare per
correggere errori del
proprio atto di determinazione del contributo:
f1) un primo orientamento (Cons. giust. amm. reg. sic., 15.06.2007, n.
422; Id., 18.05.2007, n. 373; Id., 21.03.2007, n.
244, in Foro amm. –
Cons. Stato, 2007, 1063; Id., 02.03.2007, n. 64, in Giurisdiz. amm., 2007, I,
412; Cons. Stato, sez. IV, 28.11.2012, n. 6033, in Giurisdiz. amm.,
2012, I, 1631; Cons. Stato, sez. V, 04.05.1992, n. 360,
in Riv. giur. ed.,
1992, I, 624) riconosceva che il contributo di costruzione
fosse oggetto di
un rapporto obbligatorio sottoposto in quanto tale al
termine ordinario di
prescrizione (art. 2946 c.c.), decorrente dalla data del
rilascio del titolo.
Tuttavia, la liquidazione iniziale del contributo operata
dal comune
sarebbe suscettibile di modifica in peius esclusivamente in
caso di mero
errore di calcolo, che, di per sé, comporterebbe solo
l’esigenza di una
rettifica, con preclusione per il comune di ricorrere
all’istituto
dell’autotutela amministrativa. L’amministrazione
rimarrebbe, tuttavia,
vincolata alla propria liquidazione in quanto l’errore, in
base al principio
enunciato dall’art. 1431 c.c., non potrebbe essere
riconoscibile per il
privato che è indotto a prestare affidamento nella
determinazione del
contributo operata dall’amministrazione;
f2) un secondo orientamento (cfr. in particolare, Cons.
Stato, sez. IV, 27.09.2017, n. 4515; Cons. Stato, sez. IV, 12.06.2017, n. 2821), pur
muovendo dalla natura paritetica del rapporto, afferma che,
trattandosi
di un rapporto di debito-credito di natura paritetica, la
rettifica sarebbe
sempre possibile, entro il termine decennale di
prescrizione, perché, per
un verso, il procedimento sarebbe svincolato dal rispetto
delle condizioni
di esercizio dell’autotutela amministrativa e, per altro
verso, la
rideterminazione del contributo dovuto secondo rigidi
parametri
regolamentari o tabellari costituirebbe un atto dovuto;
f3) un terzo orientamento (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 21.12.2016, n. 5402;
manifesta preferenza per tale ricostruzione anche
l’ordinanza di
rimessione all’Adunanza plenaria resa da
Cons. giust. amm.
reg. sic., 27.03.2018, n. 175, oggetto della
News US in data
03.04.2018) sostiene
la natura pubblicista del rapporto nascente dalla
determinazione del
contributo, trattandosi di prestazione patrimoniale imposta
di carattere
non tributario, per affermare la conseguente applicabilità
in astratto delle
regole dell’autotutela amministrativa;
g) sulla disciplina pubblicistica delle sanzioni per il
ritardato pagamento del
contributo di costruzione,
Cons. Stato, Ad. plen., sentenza
07.12.2016, n.
24 (in Foro it., 2017, III, 129, in Giornale dir. amm.,
2017, 528 (m), con nota di
CUTINI, in Riv. giur. edilizia, 2017, I, 104, e in Riv. amm.,
2017, 274, nonché
oggetto della
News US in data
03.01.2017 alla quale si
rinvia per ulteriori
approfondimenti), secondo cui, tra l’altro:
g1) “l’amministrazione comunale ha il pieno potere di
applicare, nei confronti
dell’intestatario di un titolo edilizio, la sanzione
pecuniaria prescritta dalla legge
per il caso di ritardo ovvero di omesso pagamento degli
oneri relativi al contributo
di costruzione anche ove, in caso di pagamento dilazionato
di detto contributo,
abbia omesso di escutere la garanzia fideiussoria in esito
alla infruttuosa scadenza
dei singoli ratei di pagamento ovvero abbia comunque omesso
di svolgere attività
sollecitatoria del pagamento presso il debitore principale”;
g2) il contributo di costruzione rappresenta una
compartecipazione del
privato alla spesa pubblica occorrente alla realizzazione
delle opere di
urbanizzazione; la ragione di tale compartecipazione è da
ricollegare sul
piano eziologico al surplus di opere di urbanizzazione che
l’amministrazione comunale è tenuta ad affrontare in
relazione al nuovo
intervento edificatorio del richiedente il titolo edilizio;
il contributo ha,
pertanto, natura di prestazione patrimoniale imposta,
d’indole non
tributaria ma di carattere generale (prescindendo totalmente
dalle singole
opere di urbanizzazione che devono in concreto eseguirsi e
venendo
altresì determinato indipendentemente sia dall’utilità che
il
concessionario ritrae dal titolo edificatorio, sia dalle
spese effettivamente
occorrenti per realizzare dette opere); quand’anche
risultino trasfuse in
apposita convenzione urbanistica, le prestazioni da
adempiere da parte
dell’amministrazione comunale e del privato intestatario del
titolo
edilizio non sono tra loro in posizione sinallagmatica; da
ciò discende che
il soggetto obbligato sia tenuto a corrispondere il
contributo di
costruzione nel rispetto dei termini convenuti e che
l’amministrazione
comunale deve eseguire le opere di urbanizzazione in
coerenza, anche sul
piano temporale, allo sviluppo edilizio del territorio,
nell’ambito di un
rapporto che è qualificabile in termini di diritto pubblico;
g3) non sussiste alcuna base normativa che correli il potere
sanzionatorio del
comune al previo esercizio dell’onere di sollecitazione del
pagamento
presso il debitore principale ovvero presso il fideiussore.
Il sistema di
pagamento del contributo di costruzione è caratterizzato
dalla presenza
solo eventuale di una garanzia prestata per l’adempimento
del debito principale e di un parallelo strumento a sanzioni
crescenti, con chiara
funzione di deterrenza dell’inadempimento, che trova
applicazione, in
base alla legge, al verificarsi dell’inadempimento
dell’obbligato
principale.
In tale sistema, l’amministrazione comunale,
allo scadere del
termine originario di pagamento della rata, ha solo la
facoltà di escutere
immediatamente il fideiussore onde ottenere il
soddisfacimento del suo
credito, ma, ove ciò non accada, l’amministrazione dovrà
sanzionare il
ritardo nel pagamento con la maggiorazione del contributo a
percentuali
crescenti all’aumentare del ritardo; solo alla scadenza di
tutti i termini
fissati al debitore per l’adempimento (e quindi dopo aver
applicato le
massime maggiorazioni di legge), l’Amministrazione avrà il
potere di
agire nelle forme della riscossione coattiva del credito nei
confronti del
debitore principale (art. 43, d.P.R. n. 380 del 2001);
g4) la stretta osservanza del principio di legalità comporta
pertanto che va
ritenuta legittima l’applicazione delle sanzioni per il
ritardo, a
prescindere da richieste di pagamento inoltrate
all’interessato o al suo
fideiussore dalla amministrazione concedente il titolo
edilizio;
h) sulla quantificazione del costo di costruzione, sulle
tabelle parametriche, sui
poteri e l’inerzia delle Regioni:
h1) in dottrina: FERRARIO – GIUFFRE’, in Testo unico
dell’edilizia, a cura di
MARIA ALESSANDRA SANDULLI, Milano, 2015, III ed., 447 ss.;
h2) in giurisprudenza: Cons. Stato, sez. IV, 21.12.2016, n. 5402, cit.,
secondo cui, tra l’altro, “sebbene alle Regioni spetti la
disciplina di dettaglio
pure in soggetta materia, al più la diretta applicazione
comunale della norma
statale, che nel fissare direttamente l’aliquota minima di
legge è comunque
inderogabile e ineludibile in base al principio di
coordinamento della finanza
pubblica ai sensi dell’art. 119, co. 2, Cost., serve altresì
ad evitare gli effetti nocivi
d’ogni inerzia del legislatore regionale, onde essa vige
fintanto che la Regione non
intervenga o a confermarla o a porne una superiore a quella
minima, ossia a quella
ritenuta congrua quale livello essenziale di prestazione
imposta, ad evidenti fini
perequativi del prelievo, per tutto il territorio della
Repubblica”, “non è
correttamente invocata la tutela dell’affidamento a causa
d’un overruling
sostanziale da parte del Comune, poiché, per un verso, la
potestà di ripensamento
ovvero di correzione dei propri errori o illegittimità è,
per la P.A., immanente
nell’ordinamento ed è espressamente codificata negli artt.
21-quinquies e 21–nonies della l. 07.08.1990 n. 241 anche per quanto
attiene alla decorrenza dei
relativi effetti e, per altro verso, non esiste un correlato
ed inderogabile principio
per cui il mutamento d’avviso della P.A. stessa debba valere
solo per l’avvenire l’interpretazione delle norme, invero, è
sempre retroattiva, salvo eccezionali
ipotesi non ricorrenti nella specie”, “l’attrazione a
contribuzione del cespite
imponibile non esclude, di per sé solo, effetti in varia
guisa “retroattivi” della
potestà contributiva fintanto che sia ancora attuale
l’attitudine soggettiva ed
oggettiva alla contribuzione stessa (in particolare, se non
v’è stata ancora
decadenza o prescrizione di tal potestà), maxime quando si
deve doverosamente
applicare l’aliquota (minima) di legge ed impedire così
forme surrettizie di
beneficio o di elusione nel caso concreto, donde la
superfluità dell’avviso ex art.
10-bis della l. 241/1990 in relazione al successivo art.
21-octies, co. 2, nonché
l’insussistenza di affidamenti tutelabili a favore
dell’appellante, nonché la
inconfigurabilità della violazione delle garanzie
partecipative”; Cons. Stato, sez.
V, 13.02.1995, n. 229 (in Foro amm., 1995, 348),
secondo cui “ai sensi
dell'art. 5 l. 28.01.1977 n. 10 la determinazione degli
oneri di
urbanizzazione è stabilita in base alle tabelle parametriche
fissate dalle regioni e
nell'attesa della loro emanazione i comuni provvedono in via
provvisoria salvo
conguaglio; pertanto, la determinazione a conguaglio sulla
base di tabelle
sopravvenute all'ultimazione della costruzione è legittima e
non richiede alcuna
dimostrazione analitica della liquidazione”; Cons. Stato,
sez. V, 13.07.1994,
n. 752 (in Ambiente, 1994, fasc. 10, 108, e in Giur. it.,
1995, III, 1, 36), secondo
cui “legittimamente, gli oneri di urbanizzazione relativi
alla nuova costruzione
di magazzini per il deposito e per il commercio di materie
prime tessili, vengono
determinati facendo riferimento alle tabelle parametriche
relative agli edifici
commerciali, direzionali e turistici e non invece sulla base
delle tabelle per gli
edifici aventi natura industriale o artigianale; infatti,
tali locali non risultano
destinati esclusivamente al deposito di materie prime, che
si configura essere una
fase del ciclo produttivo, bensì ad attività promiscua di
deposito e di commercio
delle stesse materie prime; a tal proposito trattandosi di
edifici commerciali
nessuna rilevanza assume l'edificazione su area identificata
«zona D» dal p.r.g.,
poiché per tali edifici non è prevista alcuna zona
territoriale omogenea, potendo
sorgere in ogni parte del territorio, quindi anche in «zone
D» (insediamento
produttivo artigianale-industriale)”; Cons. Stato, sez. V,
27.02.1998, n.
201 (in Riv. giur. urbanistica, 1999, 139, con nota di
FIORINI), secondo cui
“Il contributo per oneri di urbanizzazione è un
corrispettivo di diritto pubblico,
di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a
titolo di partecipazione
ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione
all'insieme dei benefici che
la nuova costruzione ne trae”; Cass. civ., sez. I, 27.09.1994, n. 7874 (in
Foro it., 1995, I, 1921, e in Riv. giur. edilizia, 1995, I,
92), secondo cui “poiché
il contributo per le opere di urbanizzazione non ha natura
di contro-prestazione in rapporto sinallagmatico rispetto al
rilascio della concessione edilizia, ma
rappresenta una prestazione di natura tributaria, o al più
un corrispettivo di
diritto pubblico, che trova il suo fondamento negli oneri
che gravano sulla
collettività in rapporto alle opere di trasformazione del
territorio, il comune non
può ritenersi obbligato, per effetto del versamento degli
oneri, all'esecuzione delle
opere di urbanizzazione primaria”;
i) sulla individuazione dei principi fondamentali in materia
di governo del
territorio, ex art. 117 Cost., all’interno del t.u.
edilizia:
i1) Corte cost., 13.04.2017, n. 84 (in Riv. giur.
edilizia, 2017, I, 246), secondo
cui “la questione di legittimità costituzionale dell'art. 9,
1° comma, lett. b), d.leg. 06.06.2001, n. 378, recante «disposizioni legislative in
materia edilizia (Testo
B)», trasfuso nell'art. 9, 1° comma, lett. b), d.p.r. 06.06.2001 n. 380, recante
il «testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia edilizia
(Testo A) », va rigettata in quanto infondata, non
sussistendo la dedotta
violazione degli art. 3, 41, 1° comma, 42, 2° e 3° comma, 76
e 117, 3° comma,
cost.”;
i2) Corte cost., 03.11.2016, n. 231 (in Foro it., 2017,
I, 2566, in Urbanistica
e appalti, 2017, 51, con nota di DI MARIO, in Giur. costit.,
2017, 421, con
nota di CHIEPPA, e in Riv. giur. edilizia, 2016, I, 952),
secondo cui, tra
l’altro: “L'onerosità del titolo abilitativo «riguarda
infatti un principio della
disciplina un tempo urbanistica e oggi ricompresa fra le
funzioni legislative
concorrenti sotto la rubrica "governo del territorio"»
(sentenza n. 303 del 2003),
e anche le deroghe al principio (elencate all'art. 17 del
TUE), in quanto legate a
quest'ultimo da un rapporto di coessenzialità, partecipano
della stessa natura di
principio fondamentale (sentenze n. 1033 del 1988 e n. 13
del 1980)”; “È
dichiarato costituzionalmente illegittimo -per violazione
dell'art. 117, 3º comma,
cost.- l'art. 6, 20º e 21º comma, primo trattino, l.reg.
Liguria n. 12 del 2015, con
cui sono stati modificati gli art. 38, 1º comma, lett. a) e
c), e 39, 1º comma (con
l'aggiunta della lett. g-bis), l.reg. Liguria n. 16 del
2008; le disposizioni
impugnate dal governo esonerano dal contributo di
costruzione due categorie di
«interventi sul patrimonio edilizio esistente» (quelli con
un aumento della
superficie agibile inferiore a venticinque metri quadrati o
con variazione di
superficie derivante da mera eliminazione di muri divisori;
e quelli di
frazionamento di unità immobiliari che determinino un numero
di unità
immobiliari inferiore al doppio di quelle esistenti, sia pur
con aumento della
superficie agibile) che possono rientrare, a seconda delle
loro caratteristiche, nella
nozione di «manutenzione straordinaria» (come definita agli
art. 3, 1º comma,
lett. b), e 6, 2º comma, lett. a), t.u. edilizia) o in
quella di «ristrutturazione edilizia» (come definita
dall'art. 3, 1º comma, lett. c), t.u. edilizia); tali
fattispecie
di totale esonero contrastano con i principi fondamentali
della materia, che
prevedono per la manutenzione straordinaria (ove ricorrano i
presupposti
dell'art. 17, 4º comma, t.u. edilizia) una riduzione del
contributo alla sola parte
corrispondente alla incidenza delle opere di urbanizzazione,
e per la
ristrutturazione edilizia il pagamento del contributo per
intero, salvi casi
particolari di esonero o di riduzione (art. 17, 3º comma,
lett. b), e 4º comma bis,
t.u. edilizia); l'onerosità del titolo abilitativo e le
coessenziali deroghe ad esso
(elencate all'art. 17 del t.u. edilizia) partecipano della
stessa natura di principio
fondamentale della materia «governo del territorio»”;
i3) Corte cost., 09.03.2016, n. 49 (in Riv. giur.
edilizia, 2016, I, 8, con nota di
STRAZZA, in Giur. it., 2016, 2233 (m), con nota di VIPIANA
PERPETUA,
e in Riv. giur. urbanistica, 2016, fasc. 4, 87, con nota di
CERBO), secondo
cui “È costituzionalmente illegittimo, per violazione
dell'art. 117, 3º comma,
cost., l'art. 84-bis, 2º comma, lett. b), l.reg. Toscana 03.01.2005 n. 1, che
stabilisce la possibilità per l'amministrazione di
esercitare poteri sanzionatori per
la repressione degli abusi edilizi, anche oltre il termine
di trenta giorni dalla
presentazione della Scia, in un numero più ampio di ipotesi
rispetto alla
previsione statale; nell'ambito della materia concorrente
del «governo del
territorio», i titoli abilitativi agli interventi edilizi
costituiscono oggetto di una
disciplina che assurge a principio fondamentale e tale
valutazione deve ritenersi
valida anche per la denuncia di inizio attività (Dia) e per
la segnalazione
certificata di inizio attività (Scia), che si inseriscono in
una fattispecie, il cui
effetto è pur sempre quello di legittimare il privato ad
effettuare gli interventi
edilizi; tale fattispecie ha una struttura complessa e non
si esaurisce,
rispettivamente, con la dichiarazione o la segnalazione, ma
si sviluppa in due fasi
ulteriori: una prima, di ordinaria attività di controllo
dell'amministrazione; una
seconda, in cui può esercitarsi l'autotutela amministrativa;
anche le condizioni e
le modalità di esercizio dell'intervento della p.a., una
volta che siano esauriti i
termini prescritti dalla normativa statale, devono
considerarsi il necessario
completamento della disciplina dei titoli abitativi, poiché
l'individuazione della
loro consistenza e della loro efficacia non può prescindere
dalla capacità di
resistenza rispetto alle verifiche effettuate
dall'amministrazione successivamente
alla maturazione degli stessi; la disciplina di questa fase
ulteriore è, dunque, parte
integrante del titolo abilitativo e costituisce un tutt'uno
inscindibile; il suo perno
è costituito da un istituto di portata generale -quello
dell'autotutela- che si
colloca allo snodo delicatissimo del rapporto fra il potere
amministrativo e il suo
riesercizio, da una parte, e la tutela dell'affidamento del
privato, dall'altra; ne deriva che la disciplina de qua
costituisce espressione di un principio
fondamentale della materia «governo del territorio»; la
normativa regionale,
nell'attribuire all'amministrazione un potere di intervento,
lungi dall'adottare
disposizioni di dettaglio, ha introdotto una disciplina
sostitutiva dei principi
fondamentali dettati dal legislatore statale, toccando i
punti nevralgici del
sistema elaborato nella legge sul procedimento
amministrativo e con tutti i rischi
per la certezza e l'unitarietà dello stesso”;
i4) Corte cost., 12.04.2013, n. 64 (in Foro it., 2014,
I, 2299), secondo cui “È
incostituzionale l'art. 1, 1º e 2º comma, l.reg. Veneto 24.02.2012 n. 9, nella
parte in cui prevede che, nell'ambito degli interventi
edilizi nelle zone classificate
sismiche, è esclusa, anche con riguardo ai procedimenti in
corso, la necessità del
previo rilascio delle autorizzazioni del competente ufficio
tecnico regionale per i
«progetti» e le «opere di modesta complessità strutturale»,
privi di rilevanza per
la pubblica incolumità, individuati dalla giunta regionale
in base ad una
procedura nella quale è prevista l'obbligatoria assunzione
di un semplice parere
da parte della commissione sismica regionale”;
i5) Corte cost., 15.11.1988, n. 1033 (in Cons. Stato,
1988, II, 2067, in
Giust. civ., 1989, I, 265, in Riv. giur. edilizia, 1989, I,
10, e in Riv. amm., 1989,
503), secondo cui: “Il d.l. 23.01.1982, n. 9 convertito
con modificazioni
dalla l. 25.03.1982, n. 94 detta norme integratrici delle
norme fondamentali
di riforme economico-sociali contenute nella l. 28.01.1977, n. 10
sull'edificabilità dei suoli e, come tale, pone limiti
costituzionalmente giustificati
sia nei confronti della competenza legislativa spettante
alle regioni a statuto
ordinario in materia urbanistica, ai sensi dell'art. 117
cost., sia nei confronti della
competenza legislativa delle regioni a statuto speciale e in
particolare della
regione Sardegna ai sensi della l. cost. 26.02.1948,
n. 3”; “Le norme che
dettano deroghe al principio dell'onerosità della
concessione edilizia rientrano fra
le norme fondamentali delle riforme economico sociali; gli
art. 7 e 9, d.l. 23.01.1982, n. 9 convertito con modificazioni dalla l. 25.03.1982, n. 94,
non è in contrasto con gli art. 13, lett. f), l. cost. 26.02.1948, n. 3 (statuto
reg. Sardegna) e 117 cost. nelle parti in cui gli articoli
stessi prevedono deroghe
al principio dell'onerosità delle concessioni edilizie”;
i6) dalle pronunce descritte si ricava che la Corte
costituzionale ha ritenuto
che l’urbanistica e l’edilizia vadano ricondotte alla
materia «governo del
territorio» (Corte cost., 28.06.2004, n. 196, in Foro it., 2005, I, 327, in
Riv. corte conti, 2004, fasc. 3, 301, in Riv. giur.
urbanistica, 2005, 38, con nota
di CALEGARI, in Quaderni regionali, 2004, 1166, in Giust.
amm., 2004, 778
(m), con nota di MORBIDELLI, in Regioni, 2004, 1355 (m), con
note di SORACE, TORRICELLI, in Riv. not., 2004, 1487, con
nota di CASU, in
Giur. costit., 2004, 1930, con note di CHIEPPA, PINELLI,
STELLA
RICHTER, in Giust. civ., 2005, I, 16, in Riv. trim. dir.
pen. economia, 2004,
1249, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2004, 1219, con nota di
MAIELLO, in Rass.
avv. Stato, 2004, 576, con nota di FIENGO, e in Giur. it.,
2005, 2024, con
nota di ANGELINI; Corte cost., 19.12.2003, n. 362, in
Quaderni
regionali, 2004, 399, in Foro amm.-Cons. Stato, 2003, 3559,
con nota di FOÀ,
in Cons. Stato, 2003, II, 2317, in Riv. giur. edilizia,
2004, I, 383, e in Giur.
costit., 2003, 3736; Corte cost., 07.10.2003, n. 307, in
Foro it., 2004, I,
1365, con nota di MIGLIORANZA, in Giur. it., 2004, 397, in
Urbanistica e
appalti, 2004, 295 (m), con nota di MANFREDI, in Foro amm.-Cons.
Stato,
2003, 2791, con nota di DE LEONARDIS, in Quaderni regionali,
2004, 311,
in Giur. costit., 2003, 2841, in Ragiusan, 2004, fasc. 239,
258, in Riv. giur.
edilizia, 2004, I, 411, in Riv. giur. ambiente, 2004, 257
(m), con nota di
CERUTI, MAZZOLA, in Rass. giur. energia elettrica, 2003,
523, con nota di
ORO NOBILI, in Resp. civ., 2004, 441 (m), con nota di
ROLANDO, e in
Regioni, 2004, 603, con nota di CAMERLENGO; Corte cost., 01.10.2003,
n. 303, in Foro it., 2004, I, 1004, con note di VIDETTA,
FRACCHIA,
FERRARA, in Corriere giur., 2004, 29, con nota di DICKMANN,
in
Urbanistica e appalti, 2004, 295 (m), con nota di MANFREDI,
in Riv. giur.
Mezzogiorno, 2003, 1472, in Quaderni regionali, 2003, 1012,
in Riv. corte conti,
2003, fasc. 6, 181, in Riv. giur. edilizia, 2004, I, 10, con
nota di CELOTTO, in
Giur. costit., 2003, 2675, con note di D'ATENA, ANZON,
MOSCARINI,
GENTILINI, in Appalti urbanistica edilizia, 2004, 13, in
RivistAmbiente, 2003,
1257, in Cons. Stato, 2003, II, 2007, con nota di D'ARPE, in
Urbanistica e
appalti, 2003, 1399, con nota di CAPUTO, in Guida al dir.,
2003, fasc. 40, 67,
con nota di FORLENZA, in Dir. e giustizia, 2003, fasc. 37,
58, con nota di
MAGNI, in Cons. Stato, 2004, II, 1307 (m), con nota di MILO,
in Giur. it.,
2004, 1567, con nota di MASSA PINTO, in Dir. maritt., 2004,
955, con nota
di CARPANETO, e in Regioni, 2004, 535, con note di BARTOLE,
VIOLINI), di cui all’art. 117, terzo comma, Cost.: materia
di legislazione
concorrente nella quale lo Stato ha il potere di fissare i
principi
fondamentali, mentre spetta alle Regioni il potere di
emanare la
normativa di dettaglio;
i7) le dichiarazioni di incostituzionalità (in particolare
Corte cost., 12.04.2013, n. 64, cit.) sono motivate con riguardo alla
violazione di un principio
fissato dalla legge statale e da ritenersi, per la regione,
principio
fondamentale della materia e come tale non derogabile. Con
riguardo alla portata dei «principi fondamentali» riservati
alla legislazione statale nelle
materie di potestà concorrente, la Corte ha precisato, tra
l’altro, che il
rapporto tra normativa di principio e normativa di dettaglio
deve essere
inteso nel senso che l’una è volta a prescrivere criteri e
obiettivi, mentre
all’altra spetta l’individuazione degli strumenti concreti
da utilizzare per
raggiungere quegli obiettivi;
i8) anche la previsione di limiti invalicabili
all’edificazione nelle “zone
bianche” ha le caratteristiche intrinseche del principio
fondamentale della
legislazione statale in materia di governo del territorio,
coinvolgendo
valori di rilievo costituzionale quali il paesaggio,
l’ambiente e i beni
culturali (Corte cost., 13.04.2017, n. 84, cit.).
In quest’ottica, la
fissazione di standard rigorosi, ma cedevoli di fronte a
qualsiasi
regolamentazione regionale rappresenterebbe una soluzione
contraddittoria, in quanto lascerebbe aperta la possibilità
che eventuali
legislatori regionali finiscano con il frustrare la ratio
della disciplina,
compromettendo in modo tendenzialmente irreversibile
interessi di
rango costituzionale.
La norma statale, anche se prevede la
puntuale
quantificazione dei limiti di cubatura e di superficie,
svolge la funzione
di impedire, tramite l’applicazione di standard legali, una
incontrollata
espansione edilizia in caso di vuoti urbanistici,
suscettibile di
compromettere l’ordinato (futuro) governo del territorio e
di determinare
la totale consumazione del suolo nazionale, a garanzia di
valori di chiaro
rilievo costituzionale. Funzione rispetto alla quale la
specifica previsione
di livelli minimi di tutela si presenta coessenziale, in
quanto necessaria
per esprimere la regola;
i9) nell’ambito della materia concorrente «governo del
territorio», i titoli abilitativi agli interventi edilizi
costituiscono oggetto di una disciplina che assurge a
principio fondamentale e tale valutazione deve ritenersi
valida anche per la denuncia di inizio attività (DIA) e per
la SCIA (cfr., in particolare, Corte cost., 09.03.2016, n.
49) che, seppure con la loro indubbia specificità, si
inseriscono in una fattispecie il cui effetto è pur sempre
quello di legittimare il privato ad effettuare gli
interventi edilizi; anche le condizioni e le modalità di
esercizio dell’intervento della pubblica amministrazione,
una volta che siano decorsi i termini in questione, devono
considerarsi il necessario completamento della disciplina di
tali titoli abilitativi, poiché l’individuazione della loro
consistenza e della loro efficacia non può prescindere dalla
capacità di resistenza rispetto alle verifiche effettuate
dall’amministrazione successivamente alla maturazione degli
stessi.
La disciplina di questa fase ulteriore, dunque, è
parte integrante di quella del titolo abilitativo e
costituisce con essa un tutt’uno inscindibile. Ne discende
che, anche per questa parte, la disciplina in questione
costituisce espressione di un principio fondamentale della
materia «governo del territorio» (TAR
Veneto, Sez. II,
ordinanza 05.02.2019 n. 159 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Alla Corte costituzionale la legge regionale sugli oneri di
costruzione.
---------------
Edilizia – Omeri di costruzione – Regione Veneto - Art.
2, comma 3, l.reg. Veneto n. 4 del 2015 – Violazione artt.
3, 5, 97, 114, 117, 118 e 119 Cost. – Rilevante e non
manifestamente infondata.
E’ rilevante e non manifestamente
infondata, in relazione agli artt. 3, 5, 97, 114, 117, 118 e
119 Cost., la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 2, comma 3, l. reg. Veneto 16.03.2015, n. 4, nella
parte in cui incide sulla pretesa creditoria dei Comuni ad
ottenere il pagamento della quota del costo di costruzione
nella misura determinata ai sensi del comma 9, ultimo
periodo, dell’art. 16, d.P.R. n. 380 del 2001 (1).
---------------
(1) L’art. 16, comma 9, d.P.R. n. 380 del 2001 prevede che le
Regioni determinino i criteri per il calcolo di tale
componente del contributo di costruzione e definisce i
parametri a cui il Legislatore Regionale deve far
riferimento: il contributo per il costo di costruzione deve
costituire una quota del suddetto costo compresa tra il
cinque ed il venti percento, variabile in funzione delle
caratteristiche, delle tipologie, della destinazione e
dell’ubicazione delle costruzioni.
Il Legislatore Veneto, ha dato attuazione all’art. 16, comma
9, d.P.R. n. 380 del 2001, sostituendo con il comma 1
dell’art. 2, l.reg. 16.03.2015, n. 4 la tabella A4 della
l.reg. n. 61 del 1985. Al comma 2, ha, poi, previsto che i
nuovi criteri si applichino anche “ai procedimenti in
corso relativi ai permessi di costruire nei quali il comune
non abbia ancora provveduto a determinare la quota del costo
di costruzione”. Infine, al comma 3, ha stabilito che: “Resta
fermo quanto già determinato dal comune, in relazione alla
quota del costo di costruzione, prima dell'entrata in vigore
della presente legge in diretta attuazione del comma 9
dell'articolo 16 del decreto del Presidente della Repubblica
n. 380 del 2001, purché la determinazione sia avvenuta
all'atto del rilascio del permesso di costruire e non con
una successiva richiesta di conguaglio”.
La previgente tabella A4 della l.reg. 27.06.1985, n. 61 (“Norme
per l’assetto e l’uso del territorio”) prevedeva
un’aliquota minima del 1,5%. La disposizione aveva dato
attuazione all'art. 6, comma 3, l. reg. n. 10 del 1977 che,
nel testo allora vigente (risultante dalle modifiche di cui
all'art. 9, comma 6, d.l. 23.01.1982, n. 9, convertito, con
modificazioni, dalla L. 25.03.1982, n. 94), senza prevedere
un’aliquota minima, stabiliva che il contributo afferente al
costo di costruzione fosse determinato in misura percentuale
non superiore al 10%.
Successivamente, con l'art. 7, comma 2, l. 24.12.1993, n.
537 (rimasto in vigore fino all’entrata in vigore del Testo
Unico dell’edilizia) il Legislatore Statale aveva già
modificato il parametro, prevedendo che il contributo fosse
determinato in una percentuale compresa tra il cinque ed il
venti per cento del costo di costruzione, così riportandolo
alla cornice prevista dalla formulazione originaria
dell’art. 6, comma 3, l. 28.01.1977, n. 10. Il Legislatore
Veneto, tuttavia, non aveva apportato modifiche alla tabella
A4 della l.reg. 27.06.1985, n. 61, rimasta in vigore nella
sua originaria formulazione.
Ha quindi affermato il Tar che l’art. 2, comma 3, l.reg. n.
4 del 2015 appare più chiaro nel suo contenuto dispositivo.
Il tenore letterale della disposizione sembra sovvertire gli
esiti dell’elaborazione giurisprudenziale circa l’assetto
dei rapporti tra norma statale e norma regionale nella
materia della determinazione del contributo afferente al
costo di costruzione.
Infatti, quasi che a prevalere dovesse essere la
disposizione di fonte regionale, si afferma che “resta
fermo” quanto determinato in diretta applicazione
dell’art. 16, comma 9, d.P.R. n. 380 del 2001, ma soltanto
se tale determinazione sia stata effettuata contestualmente
al rilascio del titolo (“Resta fermo quanto già
determinato dal comune (…) in diretta attuazione del comma 9
dell'articolo 16 del decreto del Presidente della Repubblica
n. 380 del 2001, purché la determinazione sia avvenuta
all'atto del rilascio del permesso di costruire e non con
una successiva richiesta di conguaglio”). Quale che sia
il presupposto in forza del quale il Legislatore si sia
determinato ad esprimersi in tale forma, comunque, al
contenuto dispositivo della norma sembra doversi attribuire
portata retroattiva.
La disposizione sembra, infatti, chiara nel consentire ai
Comuni di chiedere e di riscuotere soltanto gli importi del
contributo quantificati in base alla norma statale
contestualmente al rilascio del titolo, inibendo la
riscossione del conguaglio anche ove la relativa richiesta
sia stata effettuata prima dell’entrata in vigore della
l.reg. n. 4 del 2015.
Infatti, atteso che la norma si inserisce all’interno del testo normativo
di fonte regionale che ha dato attuazione all’art. 16, comma
9, d.P.R. n. 380 del 2001, essa non può applicarsi alle
determinazioni del contributo successive all’entrata in
vigore della norma stessa, per le quali si applicheranno le
nuove aliquote. Essa si rivolge, quindi alle “determinazioni”
già avvenute (quindi ai titoli già rilasciati) per affermare
che quelle effettuate dando diretta attuazione all’art. 16,
comma 9, d.P.R. n. 380 del 2001, restano ferme – e quindi
potranno essere fatte valere e portate ad esecuzione – solo
se contestuali al rilascio del titolo. Il contenuto
precettivo della disposizione appare integralmente definito
in tale parte del comma: esso determina compiutamente sia la
sorte delle “determinazioni” effettuate sulla scorta
dell’art. 16, comma 9, d.P.R. n. 380 del 2001 (che “restano
ferme”), sia di quelle effettuate sulla scorta della
legislazione regionale (che non potranno essere integrate).
Il riferimento alle “successive richieste di conguaglio”,
appare una semplice specificazione di un concetto già
compiutamente espresso con la locuzione che la precede e,
pertanto, non sembra potersi valorizzare al fine di
affermare che l’impedimento alla riscossione derivante dalla
disposizione riguardi soltanto le richieste di conguaglio
successive alla sua entrata in vigore. Il tenore precettivo
della disposizione –che consente di far valere solo le
determinazioni direttamente attuative della norma statale
effettuate contestualmente al rilascio del titolo–
resterebbe, infatti, intatto anche in assenza di tale
specificazione.
D’altronde una diversa soluzione interpretativa –che la
difesa del Comune ha proposto nei suoi scritti difensivi–
appare incompatibile con la natura non autoritativa
riconosciuta agli atti di determinazione del contributo ed a
quelli con i quali tale determinazione venga modificata.
Solo attribuendo ad essi natura provvedimentale, potrebbe
distinguersi tra la sorte delle richieste di conguaglio
inviate prima e dopo l’entrata in vigore della norma.
Poiché, però, è stato ormai chiarito che tali atti hanno
natura paritetica e costituiscono atti di esercizio di un
diritto di credito, la norma viene ad incidere sui rapporti
obbligatori che sono sorti, ex lege, per effetto del
rilascio del titolo, e quindi appare, nel suo contenuto
dispositivo, volta ad impedire le azioni necessarie alla
riscossione anche delle richieste di conguaglio precedenti
alla sua entrata in vigore. Da tutto quanto sopra, emerge la
rilevanza della questione di legittimità costituzionale
della norma nel presente giudizio
(TAR Veneto, Sez. II,
ordinanza 05.02.2019 n. 159 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
12. Il Collegio dubita della legittimità
costituzionale dell’art. 2, c. 3, L.R. Veneto, 16.03.2015, n. 4, nella parte in cui incide sulla pretesa creditoria dei Comuni ad ottenere il pagamento della quota
del costo di costruzione nella misura determinata ai sensi
del comma 9, ultimo periodo, dell’art. 16, c. 9, D.P.R.
380/2001, per violazione degli artt. 3, 5, 97, 114, 117 comma
III; 118, comma I; 119, commi I, II e IV; 117, comma II,
lett. l), della Costituzione.
13. Preliminarmente, al fine di evidenziare la rilevanza
della questione di legittimità costituzionale per la
decisione dell’odierno ricorso, è necessario soffermarsi
sull’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dal
Comune resistente.
Il Comune afferma, infatti, che la nota prot. 3713 del 13.03.2017, oggetto dell’odierna impugnazione, costituisca
atto meramente confermativo dell’intimazione di pagamento
notificata alla società ricorrente in data 04.12.2014 e
non impugnata, e che, pertanto, il ricorso sarebbe da
ritenersi inammissibile per carenza di interesse, essendo
stato impugnato un atto privo di efficacia immediatamente
lesiva.
L’eccezione non è fondata. Essa presuppone la natura
provvedimentale ed autoritativa degli atti con i quali
l’Amministrazione determina e liquida il contributo di
costruzione e la loro conseguente impugnabilità entro il
termine decadenziale previsto dall’art. 29 c.p.a. Solo
partendo da tale premessa, infatti, potrebbe sostenersi che
l’impugnazione di una diffida di pagamento successiva alla
riliquidazione del contributo sia tardiva ed inammissibile.
L’assunto di partenza, tuttavia, è smentito
dall’orientamento giurisprudenziale, ormai consolidato (cfr.
da ultimo, Cons. Stato, Ad. Plen., 30/08/2018, n. 12; cfr.,
altresì, ex multis Cons. Stato Sez. IV Sent., 27/09/2017, n.
4515, TAR Veneto Venezia Sez. II Sent., 13/05/2016, n.
479), dal quale il Collegio non rinviene ragioni per
discostarsi, secondo cui le controversie in materia di
determinazione della misura dei contributi edilizi non hanno
natura impugnatoria, concernendo l’accertamento di una
pretesa creditoria dell’Amministrazione, avente natura di
prestazione patrimoniale imposta, non tributaria, di cui la
legge integralmente predetermina presupposto e contenuti
(così, Cons. Stato, Ad. Plen., 30/08/2018, n. 12: “la
controversia in ordine alla spettanza e alla liquidazione
del contributo per gli oneri di urbanizzazione, riservata
alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo a
norma dell'art. 16 della L. n. 10 del 1977 e, oggi,
dell'art. 133, comma 1, lett. f), c.p.a., ha ad oggetto
l'accertamento di un rapporto di credito a prescindere
dall'esistenza di atti della pubblica amministrazione e non
è soggetta alle regole delle azioni
impugnatorie-annullatorie degli atti amministrativi e ai
rispettivi termini di decadenza.”).
Tali controversie, pertanto, non soggiacciono al termine
decadenziale previsto per le azioni di annullamento (“le
controversie in tema di determinazione della misura dei
contributi edilizi concernono l'accertamento di diritti
soggettivi che traggono origine direttamente da fonti
normative, sicché sarebbero proponibili, a prescindere
dall'impugnazione di provvedimenti dell'amministrazione, nel
termine di prescrizione” Cons. St., sez. IV, 20.11.2012 n. 6033; Cons. St., sez. V,
04.05.1992, n. 360).
Pertanto la mancata impugnazione, entro il termine
decadenziale previsto dall’art. 29 c.p.a. dell’atto di
riliquidazione del contributo e richiesta di conguaglio
notificato nel 2014, non incide sull’ammissibilità del
giudizio con cui è contestata la suddetta pretesa creditoria,
ciò anche ove l’azione proposta fosse di annullamento.
Nel caso di specie, peraltro, il ricorrente ha espressamente
proposto –oltre all’azione impugnatoria- l’azione di
accertamento negativo del credito vantato
dall’Amministrazione comunale con le richieste di pagamento,
sì che neppure si pone un problema di riqualificazione della
pretesa azionata.
14. In merito alla rilevanza della questione ai fini del
presente giudizio il Collegio osserva quanto segue.
14.1 Pacifici tra le parti i fatti, la decisione della
controversia impone la soluzione di un’unica questione di
diritto, ovvero l’applicabilità alla fattispecie della
disposizione di cui all’art. 2, c. 3, L.R. Veneto, 16.03.2015, n. 4.
Il ricorrente, infatti, afferma che la pretesa del Comune al
pagamento del conguaglio sarebbe infondata, ostando al suo
accoglimento l’entrata in vigore la L.R. Veneto, 16.03.2015, n. 4, il cui art. 2, comma 3, così recita: “3. Resta
fermo quanto già determinato dal comune, in relazione alla
quota del costo di costruzione, prima dell'entrata in vigore
della presente legge in diretta attuazione del comma 9
dell'articolo 16 del decreto del Presidente della Repubblica
n. 380 del 2001, purché la determinazione sia avvenuta
all'atto del rilascio del permesso di costruire e non con
una successiva richiesta di conguaglio.”.
14.2 La difesa del Comune sostiene che la disposizione, non
avendo efficacia retroattiva, non si applicherebbe alla
fattispecie in esame, in cui la richiesta di conguaglio è
stata inviata dall’Amministrazione, per la prima volta, il 04.12.2014 (con intimazione ad eseguire il pagamento
entro 60 giorni), ossia in data anteriore al 04.04.2015,
data di entrata in vigore della Legge Regionale n. 4/2015
(pubblicata sul Bollettino Ufficiale della Regione Veneto
del 20.03.2015, n. 27).
Ad avviso del Comune, il ricorrente, resosi inadempiente
all’obbligo di corrispondere la somma dovuta a titolo di
conguaglio entro i sessanta giorni dalla ricezione
dell’intimazione, non potrebbe giovarsi della disposizione
sopravvenuta.
14.3 Il Collegio ritiene che l’interpretazione della
disposizione offerta dal Comune non sia condivisibile e che
la norma debba, invece, trovare applicazione anche nel
presente giudizio.
Benché la disposizione non si qualifichi espressamente come
retroattiva, tuttavia, un’esegesi della medesima, condotta
sulla scorta dei canoni ermeneutici letterale, teleologico e
sistematico, pare deporre per l’applicabilità della stessa
anche ai casi in cui la richiesta di conguaglio da parte
dell’Amministrazione sia stata effettuata prima della sua
entrata in vigore.
14.4 Giova premettere, al fine di illustrare le ragioni di
quanto si afferma, la ricostruzione del quadro ordinamentale
entro cui la norma si inserisce e della evoluzione
giurisprudenziale che ne ha preceduto l’approvazione.
14.5 La disposizione in esame è contenuta all’interno del
testo normativo con cui il Legislatore Regionale, a quasi
dodici anni di distanza dall’entrata in vigore del Testo
Unico dell’Edilizia, ha dato attuazione al disposto di cui
all’art. 16, c. 9, D.P.R. 380/2001, definendo i criteri per
il calcolo del contributo afferente al costo di costruzione,
sulla base dei parametri previsti dalla disposizione di
fonte statale.
L’art. 16, c. 9, D.P.R. 380/2001 prevede che le Regioni
determinino i criteri per il calcolo di tale componente del
contributo di costruzione e definisce i parametri a cui il
Legislatore Regionale deve far riferimento: il contributo
per il costo di costruzione deve costituire una quota del
suddetto costo compresa tra il cinque ed il venti percento,
variabile in funzione delle caratteristiche, delle
tipologie, della destinazione e dell’ubicazione delle
costruzioni (art. 16, c. 9, D.P.R. 380/2001: “Il costo di
costruzione per i nuovi edifici è determinato periodicamente
dalle regioni con riferimento ai costi massimi ammissibili
per l'edilizia agevolata, definiti dalle stesse regioni a
norma della lettera g) del primo comma dell'articolo 4 della
legge 05.08.1978, n. 457. Con lo stesso provvedimento le
regioni identificano classi di edifici con caratteristiche
superiori a quelle considerate nelle vigenti disposizioni di
legge per l'edilizia agevolata, per le quali sono
determinate maggiorazioni del detto costo di costruzione in
misura non superiore al 50 per cento. Nei periodi
intercorrenti tra le determinazioni regionali, ovvero in
eventuale assenza di tali determinazioni, il costo di
costruzione è adeguato annualmente, ed autonomamente, in
ragione dell'intervenuta variazione dei costi di costruzione
accertata dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT). Il
contributo afferente al permesso di costruire comprende una
quota di detto costo, variabile dal 5 per cento al 20 per
cento, che viene determinata dalle regioni in funzione delle
caratteristiche e delle tipologie delle costruzioni e della
loro destinazione ed ubicazione.”).
Il Legislatore Veneto, ha dato attuazione all’art. 16, c. 9,
D.P.R. 380/2001, sostituendo con il comma 1 dell’art. 2, della
Legge Regionale n. 4/2015 la tabella A4 della Legge Regionale
n. 61 del 1985.
Al comma 2, ha, poi, previsto che i nuovi criteri si
applichino anche “ai procedimenti in corso relativi ai
permessi di costruire nei quali il comune non abbia ancora
provveduto a determinare la quota del costo di costruzione”.
Infine, al comma 3, ha stabilito che: “Resta fermo quanto
già determinato dal comune, in relazione alla quota del
costo di costruzione, prima dell'entrata in vigore della
presente legge in diretta attuazione del comma 9
dell'articolo 16 del decreto del Presidente della Repubblica
n. 380 del 2001, purché la determinazione sia avvenuta
all'atto del rilascio del permesso di costruire e non con
una successiva richiesta di conguaglio”.
La previgente tabella A4 della Legge Regionale 27.06.1985, n. 61 (“Norme per l’assetto e l’uso del territorio”)
prevedeva un’aliquota minima del 1,5%. La disposizione aveva
dato attuazione all'art. 6, co. 3, della Legge 10/1977 che,
nel testo allora vigente (risultante dalle modifiche di cui
all'art. 9, comma 6, D.L. 23.01.1982, n. 9, convertito,
con modificazioni, dalla L. 25.03.1982, n. 94), senza
prevedere un’aliquota minima, stabiliva che il contributo
afferente al costo di costruzione fosse determinato in
misura percentuale non superiore al 10%.
Per vero, successivamente, con l'art. 7, comma 2, L. 24.12.1993, n. 537 (rimasto in vigore fino all’entrata in
vigore del Testo Unico dell’edilizia) il Legislatore Statale
aveva già modificato il parametro, prevedendo che il
contributo fosse determinato in una percentuale compresa tra
il cinque ed il venti per cento del costo di costruzione,
così riportandolo alla cornice prevista dalla formulazione
originaria dell’art. 6, c. 3, Legge 28.01.1977, n. 10.
Il Legislatore Veneto, tuttavia, non aveva apportato
modifiche alla tabella A4 della Legge Regionale 27.06.1985, n. 61, rimasta in vigore nella sua originaria
formulazione.
L’entrata in vigore del D.P.R. 380/2001 (il 30.06.2003),
avvenuta quasi contestualmente alla modifica del Titolo V
della Costituzione, ad opera della Legge costituzionale 30.05.2003, n. 1, ha imposto la verifica della conformità
della legislazione regionale in materia edilizia alle norme
di principio poste dal Testo Unico, atteso che i suoi artt.
1 e 2 espressamente qualificano le norme di principio in
esso contenute, come principi fondamentali della materia,
entro cui le Regioni esercitano la potestà legislativa
concorrente.
Anche nell’assetto dei rapporti tra Stato e Regioni
risultante dalla riforma costituzionale, infatti, la materia
dell’edilizia è rimasta attratta alla potestà legislativa
concorrente, essendo riconducibile –come ha confermato la
Corte Costituzionale (sentenze n. 303, 307, 362 del 2003, n.
196 del 2004)– alla materia “governo del territorio”
contenuta nell’elenco di cui al comma III dell’art. 117
Cost.
La questione fu affrontata con una norma transitoria, l’art.
13 L.R. Veneto n. 16/2003, ma non risolta, poiché essa si
limitava a prevedere che: “1. Fino all'entrata in vigore
della legge regionale di riordino della disciplina edilizia
trovano applicazione le disposizioni di cui al D.P.R. 06.06.2001, n. 380 "Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia di edilizia"e
successive modificazioni, nonché le disposizioni della legge
regionale 27.06.1985, n. 61 "Norme per l'assetto e l'uso
del territorio" e successive modificazioni, che regolano la
materia dell'edilizia in maniera differente dal testo unico
e non siano in contrasto con i princìpi fondamentali
desumibili dal testo unico medesimo.”.
Nel dibattito che la norma ha suscitato sull’individuazione,
per i vari istituti, delle norme di fonte statale
direttamente applicabili e di quelle della L.R. 27.06.1985, n. 61, non in contrasto con i principi fondamentali
desumibili dal testo unico, si sono inserite diverse
pronunce di questo TAR, che –per quanto rileva in questa
sede– hanno affrontato la questione relativa alla diretta
applicabilità sul territorio regionale della aliquota minima
prevista dall’art. 16, c. 9, D.P.R. 380/2001, sia in sede di
determinazione del contributo all’atto del rilascio del
titolo, sia con successive richieste di conguaglio.
Le pronunce (TAR Veneto, Sez. II, 01.02.2011, n.
181; TAR Veneto, Sez. II, 01.02.2011, n. 189; TAR
Veneto, Sez. II, 09.10.2014, n. 1285; TAR Veneto, Sez. II, 16.07.2014, n. 1035) hanno risolto la questione
affermando che la norma di cui all’art. 16, c. 9, D.P.R.
380/2001 “deve essere interpretata nel senso di disporre
l’immediata applicazione della percentuale minima prevista,
corrispondente al 5%, mentre resta nella discrezionalità
delle Regioni determinare in misura superiore detta
percentuale, in relazione ai parametri individuati dal
medesimo comma 9” e che “Tale interpretazione (…) risponde
anche all’esigenza di assicurare un’uniformità nella
determinazione del costo di costruzione su tutto il
territorio nazionale, a prescindere dall’esercizio del
potere normativo riconosciuto alle singole Regioni.” (cfr.
TAR Veneto, Sez. II, 01.02.2011, n. 181).
La soluzione interpretativa accolta dal TAR ha trovato
conferma anche presso il Giudice amministrativo d’appello.
Il Consiglio di Stato, nella sentenza 21.12.2016, n.
5402, pronunciandosi sul gravame proposto avverso la
sentenza TAR Veneto, Sez. II, 16.07.2014, n. 1035, ha
affermato che la norma statale, “nel fissare direttamente
l’aliquota minima di legge è comunque inderogabile e ineludibile in base al principio di coordinamento della
finanza pubblica ai sensi dell’art. 119, co. 2, Cost., serve
altresì ad evitare gli effetti nocivi d’ogni inerzia del
legislatore regionale, onde essa vige fintanto che la
Regione non intervenga o a confermarla o a porne una
superiore a quella minima, ossia a quella ritenuta congrua
quale livello essenziale di prestazione imposta, ad evidenti
fini perequativi del prelievo, per tutto il territorio della
Repubblica”.
Chiarito dalle suddette pronunce che l’importo del
contributo andava quantificato facendo applicazione della
norma statale, le Amministrazioni comunali che avevano
continuato ad applicare la normativa regionale hanno dato
avvio alle azioni necessarie per ottenere il pagamento del
maggiore importo dovuto in diretta attuazione della norma
statale, mediante richieste di conguaglio.
Come emerge dal comunicato con il quale il Consiglio
regionale ha dato notizia dell’approvazione della legge
regionale di attuazione dell’art. 16, c. 9, del D.P.R.
380/2001, l’avvio di tali azioni ha indotto il Legislatore
Regionale ad introdurre la previsione di cui all’art. 2,
comma 3, sopra riportato.
Il Consiglio regionale ha, infatti, affermato che con
l’intervento normativo in esame “non potranno esserci
richieste di conguaglio successive all’atto del rilascio del
permesso di costruire, cosa che alcuni Comuni, per timore di
possibili responsabilità contabili, stavano iniziando a
fare”.
14.6 Merita, inoltre, osservare che l’intervento normativo -oltre al problema interpretativo relativo alla disciplina
applicabile nelle more dell’adeguamento della legislazione
regionale a quella statale di principio- incrocia
l’ulteriore dibattuta tematica -che solo di recente ha
trovato compiuta soluzione- sulla natura degli atti di
determinazione e liquidazione del contributo di costruzione, nonché sulla ammissibilità ed i presupposti della loro
modificazione.
Prima che si esprimesse l’Adunanza Plenaria del Consiglio di
Stato, con la sentenza 11.07.2018 n. 12, le
differenziate posizioni della giurisprudenza si erano
polarizzate su tre impostazioni interpretative.
Secondo una prima tesi, la determinazione del contributo
darebbe luogo ad un rapporto paritetico che, seppur
azionabile da ambo le parti nel rispetto del termine
prescrizionale ordinario di dieci anni, si cristallizzerebbe
nel quantum al momento del rilascio del titolo edilizio,
ostando a successive sue modifiche la disciplina dell’errore
riconoscibile prevista dall’art. 1431 c.c. L’errore nella
quantificazione costituirebbe una vicenda tutta interna al
dichiarante che, per tale ragione, non potrebbe essere posto
a fondamento di alcuna modifica in peius del contenuto
dell’obbligazione così come originariamente definito.
Una seconda tesi, muovendo anch’essa dalla natura paritetica
del rapporto, perveniva all’opposta conseguenza della sua
libera rettificabilità entro il termine di prescrizione
decennale, perché, per un verso, non venendo in rilievo atti
autoritativi, il procedimento sarebbe svincolato dal
rispetto delle condizioni di esercizio dell’autotutela
amministrativa e, per altro verso, essendo l’obbligazione
definita da rigidi parametri regolamentari o tabellari, la
sua quantificazione secondo il contenuto legale
costituirebbe per l’Amministrazione un atto dovuto.
Terza e più recente impostazione, muove dalla natura
pubblicistica del rapporto nascente dalla determinazione del
contributo, per affermare la conseguente applicabilità, in
astratto, delle regole dell’autotutela amministrativa.
Il Legislatore regionale, con la disposizione in esame -nella quale prevede di “tener ferme” le sole determinazioni
con cui si è fatta diretta applicazione dell’art. 16, c. 9,
D.P.R. 380/2001 che siano avvenute contestualmente al rilascio
del permesso di costruire e non con successivi conguagli-
ha espresso una chiara opzione per la prima delle tesi
richiamate, codificandone gli esiti.
Ha, infatti, escluso per espressa disposizione di legge
l’ammissibilità del conguaglio che miri a recuperare
l’importo del contributo nella misura minima prevista dalla
legislazione statale, con il chiaro intento di evitare che i
Comuni potessero accedere ad altre possibili opzioni
interpretative della disciplina degli atti di determinazione
e liquidazione del contributo di costruzione.
14.7 Tenendo conto del contesto nel quale è maturata la
previsione in esame, l’art. 2, comma 3, L.R. Veneto 16.03.2015, n. 4 appare più chiaro nel suo contenuto dispositivo.
14.8 Il tenore letterale della disposizione sembra
sovvertire gli esiti dell’elaborazione giurisprudenziale
circa l’assetto dei rapporti tra norma statale e norma
regionale nella materia della determinazione del contributo
afferente al costo di costruzione.
Infatti, quasi che a prevalere dovesse essere la
disposizione di fonte regionale, si afferma che “resta
fermo” quanto determinato in diretta applicazione dell’art.
16, c. 9, D.P.R. 380/2001, ma soltanto se tale determinazione
sia stata effettuata contestualmente al rilascio del titolo
(“Resta fermo quanto già determinato dal comune (…) in
diretta attuazione del comma 9 dell'articolo 16 del decreto
del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, purché la
determinazione sia avvenuta all'atto del rilascio del
permesso di costruire e non con una successiva richiesta di
conguaglio”).
Quale che sia il presupposto in forza del quale il
Legislatore si sia determinato ad esprimersi in tale forma,
comunque, al contenuto dispositivo della norma sembra
doversi attribuire portata retroattiva.
La disposizione sembra, infatti, chiara nel consentire ai
Comuni di chiedere e di riscuotere soltanto gli importi del
contributo quantificati in base alla norma statale
contestualmente al rilascio del titolo, inibendo la
riscossione del conguaglio anche ove la relativa richiesta
sia stata effettuata prima dell’entrata in vigore della L.R.
Veneto n. 4/2015.
Infatti, atteso che la norma si inserisce all’interno del
testo normativo di fonte regionale che ha dato attuazione
all’art. 16, c. 9, DPR 380/2001, essa non può applicarsi alle
determinazioni del contributo successive all’entrata in
vigore della norma stessa, per le quali si applicheranno le
nuove aliquote.
Essa si rivolge, quindi alle “determinazioni” già avvenute
(quindi ai titoli già rilasciati) per affermare che quelle
effettuate dando diretta attuazione all’art. 16, c. 9, DPR
380/2001, restano ferme –e quindi potranno essere fatte
valere e portate ad esecuzione– solo se contestuali al
rilascio del titolo.
Il contenuto precettivo della disposizione appare
integralmente definito in tale parte del comma: esso
determina compiutamente sia la sorte delle “determinazioni”
effettuate sulla scorta dell’art. 16, c. 9, D.P.R. 380/2001
(che “restano ferme”), sia di quelle effettuate sulla scorta
della legislazione regionale (che non potranno essere
integrate).
Il riferimento alle “successive richieste di conguaglio”,
appare una semplice specificazione di un concetto già
compiutamente espresso con la locuzione che la precede e,
pertanto, non sembra potersi valorizzare al fine di
affermare che l’impedimento alla riscossione derivante dalla
disposizione riguardi soltanto le richieste di conguaglio
successive alla sua entrata in vigore.
Il tenore precettivo della disposizione –che consente di
far valere solo le determinazioni direttamente attuative
della norma statale effettuate contestualmente al rilascio
del titolo– resterebbe, infatti, intatto anche in assenza
di tale specificazione.
D’altronde una diversa soluzione interpretativa –che la
difesa del Comune ha proposto nei suoi scritti difensivi–
appare incompatibile con la natura non autoritativa
riconosciuta agli atti di determinazione del contributo ed a
quelli con i quali tale determinazione venga modificata.
Solo attribuendo ad essi natura provvedimentale, potrebbe
distinguersi tra la sorte delle richieste di conguaglio
inviate prima e dopo l’entrata in vigore della norma.
Poiché, però, è stato ormai chiarito che tali atti hanno
natura paritetica e costituiscono atti di esercizio di un
diritto di credito, la norma viene ad incidere sui rapporti
obbligatori che sono sorti, ex lege, per effetto del
rilascio del titolo, e quindi appare, nel suo contenuto
dispositivo, volta ad impedire le azioni necessarie alla
riscossione anche delle richieste di conguaglio precedenti
alla sua entrata in vigore.
Da tutto quanto sopra, emerge la rilevanza della questione
di legittimità costituzionale della norma nel presente
giudizio.
15. Deve, inoltre, premettersi, sempre in punto di
rilevanza, che la norma non appare suscettibile di alcuna
interpretazione costituzionalmente orientata, atteso che
essa esclude espressamente l’applicazione della disposizione
di principio di fonte statale per i rapporti conseguenti
alle determinazioni e liquidazioni del contributo che siano
state erroneamente effettuate sulla scorta dei parametri
previsti dalla previgente tabella A4 della Legge Regionale
n. 61/1985, impedendo, così -in violazione degli artt. 3, 5,
117, II comma, lett. l) e III comma, 118, I comma, 119, I,
II e IV comma, Cost.- l’applicazione diretta della norma di
principio dettata dal Legislatore statale in materia di
legislazione concorrente a tutela di esigenze unitarie di
prelievo e violando l’autonomia di entrata e di spesa dei
Comuni.
La difesa del Comune, peraltro, nell’evidenziare il
contrasto della disposizione con la “norma cornice”, di cui
all’art. 16, c. 9, D.P.R. 380/2001 ed invocare per tale ragione
un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma,
non propone alcuna soluzione ermeneutica diversa dalla mera disapplicazione della norma regionale, che non trova
cittadinanza nell’ordinamento e che contrasterebbe con la
equiordinazione della funzione legislativa statale e
regionale prevista e tutelata dall’art. 117, I comma, Cost.
Né costituirebbe un’interpretazione costituzionalmente
orientata quella volta ad escludere l’applicazione della
norma per le richieste di conguaglio anteriori all’entrata
in vigore della disposizione. Non si tratterebbe, infatti,
di un’interpretazione che, tra i possibili significati del
testo normativo, accolga quello conforme alle disposizioni
di rango costituzionale, ma solo di un’interpretazione che
mira a limitare la rilevanza della questione di legittimità
costituzionale alle richieste di conguaglio successive
all’entrata in vigore della disposizione.
Si è già detto, comunque, che tale interpretazione non è
praticabile, alla luce della formulazione della norma e
dello scopo avuto di mira dal Legislatore.
16. Così ricostruita la genesi e la portata applicativa
della disposizione, per come risulta dalla sua
interpretazione letterale e teleologica, il Collegio dubita
della compatibilità della norma che da essa si ricava con
gli artt. 3, 5, 117, III comma, 119 I, II e IV comma, della
Costituzione.
16.1 Il Legislatore Regionale con l’art. 2, c. 3, L. R.
4/2015, affermando che restano ferme solo le determinazioni
del contributo effettuate in base dell’art. 16, c. 9, D.P.R.
380/2001 contestualmente al rilascio del titolo edilizio -ed escludendo, per tale via, che la pretesa ad ottenere il
pagamento del contributo nella misura minima del 5% previsto
dalla Legge Statale possa farsi valere dai Comuni con una
successiva richiesta di conguaglio- ha esercitato la
propria potestà legislativa in violazione della norma di
principio contenuta nell’art. 16, c. 9, DPR 380/2001, così
violando l’art. 117, III comma, ultimo periodo, che riserva
al Legislatore Statale la determinazione dei principi
fondamentali delle materie di legislazione concorrente.
Il Legislatore regionale, infatti, ha disciplinato i
rapporti ancora pendenti –tra le Amministrazioni comunali e
i cittadini– sorti nel periodo antevigente alla sua entrata
in vigore sottraendo all’applicazione della norma statale
quei rapporti in cui, all’atto del rilascio del titolo,
l’Amministrazione erroneamente avesse omesso di dare
applicazione della norma statale di principio, rifacendosi,
invece, alle tabelle previste dalla Legislazione Regionale
(la tabella A4 della Legge Regionale 27.06.1985, n. 61).
16.2 La natura di norma di principio dell’art. 16, c. 9,
D.P.R. 380/2001, nella parte in cui definisce i limiti minimo
e massimo di incidenza percentuale sul costo di costruzione
della relativa componente del contributo, la sua non
derogabilità dal Legislatore Regionale e l’immediata
applicabilità della stessa da parte dei Comuni, anche in
assenza della normativa regionale di adeguamento, è stata
più volte ribadita dalla giurisprudenza amministrativa di
questo TAR e del Consiglio di Stato.
Nella sentenza del TAR Veneto, Sez. II, 01.02.2011, n.
181, si legge: “La richiamata disposizione, nel disciplinare
le modalità di calcolo del costo di costruzione, prevede che
una quota dello stesso, variabile dal 5% al 20%, sia
determinata dalle Regioni in funzione delle caratteristiche
e delle tipologie delle costruzioni e della loro
destinazione e ubicazione. In applicazione dei criteri ermeneutici letterale e teleologico, ad avviso del Collegio,
la detta disposizione deve essere interpretata nel senso di
disporre l’immediata applicazione della percentuale minima
prevista, corrispondente al 5%, mentre resta nella
discrezionalità delle Regioni determinare in misura
superiore detta percentuale, in relazione ai parametri
individuati dal medesimo comma 9.
3.5. Tale interpretazione, peraltro, risponde anche
all’esigenza di assicurare un’uniformità nella
determinazione del costo di costruzione su tutto il
territorio nazionale, a prescindere dall’esercizio del
potere normativo riconosciuto alle singole Regioni. La
suddetta disposizione, dunque, non reca alcuna disciplina
transitoria, dovendo trovare immediata applicazione.
La disposizione in esame, più specificamente, distingue i
meccanismi di determinazione del costo di costruzione dalle
modalità di adeguamento automatico di detto costo; solo in
relazione a queste ultime, infatti, si prevede
un’applicazione degli indici ISTAT “nei periodi
intercorrenti tra le determinazioni regionali, ovvero in
eventuale assenza di tali determinazioni”. Da ciò si trae,
dunque, ulteriore conferma dell’immediata applicabilità
della richiamata disposizione nella parte riferita alla
percentuale del 5%, ai fini della determinazione del costo
di costruzione in sé considerato.”.
Il Consiglio di Stato, Sez. I, nel parere del 03.12.2014, n. 3819 reso in seno al ricorso straordinario al Capo
dello Stato affare n. 213/2013, ha affermato che, poiché viene
in rilievo una materia di competenza legislativa
concorrente: “le leggi regionali possono essere emanate
nell’ambito dei principi fissati dalle leggi dello Stato”
mentre “è evidente che le Regioni non hanno il potere di
derogare ai minimi stabiliti nell’art. 16 della d.P.R. n.
380/2001 per quanto attiene l’applicazione delle percentuali
da applicare per il calcolo e la definizione dei contributi
afferente al permesso di costruire. Quindi, l’articolo 16
deve essere interpretato nel senso che la percentuale
minima, corrispondente al 5%, deve essere applicata a
partire dall’entrata in vigore delle legge statale, restando
nella discrezionalità delle Regioni determinare in misura
superiore detta percentuale, in relazione ai parametri
individuati dal medesimo comma 9 dell’art. 16.”.
Tali affermazioni sono riprese dalla Sesta Sezione del
Consiglio di Stato nella sentenza del 21.12.2016, n.
5402, che ancora specifica: “per contro e sebbene alle
Regioni spetti la disciplina di dettaglio pure in soggetta
materia, al più la diretta applicazione comunale della norma
statale, che nel fissare direttamente l’aliquota minima di
legge è comunque inderogabile e ineludibile in base al
principio di coordinamento della finanza pubblica ai sensi
dell’art. 119, co. 2, Cost., serve altresì ad evitare gli
effetti nocivi d’ogni inerzia del legislatore regionale,
onde essa vige fintanto che la Regione non intervenga o a
confermarla o a porne una superiore a quella minima, ossia a
quella ritenuta congrua quale livello essenziale di
prestazione imposta, ad evidenti fini perequativi del
prelievo, per tutto il territorio della Repubblica”.
È opinione del Collegio che la ricostruzione operata dalla
giurisprudenza vada confermata, anche alla luce della
giurisprudenza della Corte costituzionale in materia.
16.3 L’art. 16 del DPR 380/2001, nel dettare i criteri di
determinazione del contributo di costruzione contribuisce a
definire il contenuto dell’onere economico gravante sul
soggetto che intenda esercitare lo ius aedificandi, così
concorrendo a determinare l'effettiva portata e la
caratterizzazione positiva del principio di onerosità del
permesso di costruire.
La Corte Costituzionale, a più riprese, ha affermato che
costituiscono principi fondamentali della materia di
competenza concorrente “governo del territorio” (e prima
della riforma del Titolo V della Costituzione, della materia
“urbanistica”) le norme che concernono l’onerosità del
permesso di costruire, nonché le deroghe ed eccezioni al
relativo principio.
Nella sentenza n. 1033 del 1988, la Consulta, chiamata ad
esprimersi sulla compatibilità con le norme di attuazione
dello Statuto della Regione Sicilia (L. cost. 26.02.1948, n. 3), degli artt. 7 e 9 del D.L. 23/01/1982, n. 9
(convertito nella L. 25.03.1982, n. 94), con cui il
legislatore statale aveva previsto talune ipotesi di deroga
all’obbligo del pagamento del contributo di costruzione e
ipotesi di riduzione del contributo, ha evidenziato che
rientrano nell’ambito delle disposizioni di principio non
soltanto quelle che definiscono l’onerosità dell’attività
edilizia, ma anche quelle che, incidendo su tale principio,
“concorrono a determinare l'effettiva portata e la
caratterizzazione positiva del principio medesimo”, in
quanto ad esso “legate da un rapporto di coessenzialità o di
integrazione necessaria”.
Sulla scorta di tali argomentazioni la Corte Costituzionale
ha riconosciuto la natura di norme di principio alle
disposizioni contenenti deroghe o riduzioni dell’importo
ordinariamente previsto del contributo di costruzione.
Le medesime argomentazioni sono state ribadite, più di
recente, nell’attuale quadro costituzionale di riparto della
potestà legislativa, nella sentenza del 03.11.2016, n.
231, con la quale la Corte costituzionale si è pronunciata
sulla questione di legittimità costituzionale dell’art.
dell'art. 6, commi 20 e 21, primo trattino della Legge della
Regione Liguria n. 12 del 2015, con cui si prevedeva
l’esonero dal contributo di costruzione per due categorie di
interventi che, in base alla legge statale, avrebbero dovuto
essere assoggettate a contribuzione.
In tale occasione la Corte, richiamando il precedente del
1988, ha nuovamente affermato che: “L'onerosità del titolo abilitativo «riguarda infatti un principio della disciplina
un tempo urbanistica e oggi ricompresa fra le funzioni
legislative concorrenti sotto la rubrica "governo del
territorio"» (sentenza n. 303 del 2003), e anche le deroghe
al principio (elencate all'art. 17 del TUE), in quanto
legate a quest'ultimo da un rapporto di coessenzialità,
partecipano della stessa natura di principio fondamentale
(sentenze n. 1033 del 1988 e n. 13 del 1980).”.
Anche la disposizione di cui al comma 9 dell’art. 16 DPR
380/2001, nella parte in cui individua i parametri per la
determinazione del contributo, nella sua componente relativa
al costo di costruzione, appare riconducibile a tale
categoria di norme di principio, poiché concorrendo a
definire il contenuto dell’onere economico gravante sul
soggetto che intenda esercitare lo ius aedificandi, ne
integra un aspetto essenziale.
16.4 Sotto altro profilo, l’art. 16, c. 9, DPR 380/2001,
come condivisibilmente ritenuto da Consiglio di Stato, 21.12.2016, n. 5402, costituisce, altresì, “principio di
coordinamento della finanza pubblica ai sensi dell’art. 119, co. 2, Cost.” e dell’art. 117, co. 3, Cost.
La giurisprudenza, sia amministrativa che civile, rinviene
il fondamento causale dell’obbligo al pagamento del
contributo di costruzione nella compartecipazione del
soggetto che assuma l’iniziativa edificatoria ai costi per
la realizzazione delle opere di urbanizzazione in
proporzione all'insieme dei benefici che la nuova
costruzione consegue (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria,
30.08.2018, n. 12; Cons. Stato Sez. V, 13.05.2002, n.
2575; Cons. Stato, sez. V, 27.02.1998, n. 201; Cass.
sez. I, 27.09.1994, n. 7874).
La definizione di criteri uniformi di determinazione della
prestazione imposta per l’intero territorio nazionale mira,
da un lato, a garantire a tutti i cittadini parità di
condizioni nell’esercizio dello ius aedificandi, dall’altro,
e correlativamente, ai Comuni una quota minima di
compartecipazione ai benefici derivanti dall’esercizio
dell’attività edificatoria.
Il contributo di costruzione costituisce, per la
giurisprudenza maggioritaria, un corrispettivo di diritto
pubblico, avente carattere generale e non tributario (cfr.
da ultimo Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 30.08.2018, n. 12) di cui è titolare il Comune che rilascia il
titolo edilizio. Esso rientra, dunque, nel novero di quelle
“risorse autonome” di cui i Comuni, secondo quanto prevede
l’art. 119, co. 2 Cost., sono titolari.
Con la riforma del Titolo V della Costituzione, infatti, è
stata prevista, in linea di principio, l’equiordinazione di
Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni, sul piano
della “autonomia finanziaria di entrata e di spesa" (primo
comma).
L’art. 119, prevede che i suddetti enti hanno "risorse
autonome" e "stabiliscono e applicano tributi ed entrate
propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi
di coordinamento della finanza pubblica e del sistema
tributario". Inoltre "dispongono di compartecipazioni al
gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio"
(secondo comma).
Le risorse derivanti da tali fonti, e dal fondo perequativo
istituito dalla legge dello Stato, consentono -vale a dire
devono consentire (cfr. Corte costituzionale 26.01.2004, n. 37)- agli enti di "finanziare integralmente le
funzioni pubbliche loro attribuite" (quarto comma), salva la
possibilità per lo Stato di destinare risorse aggiuntive ed
effettuare interventi speciali in favore di determinati
Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni, per gli
scopi di sviluppo e di garanzia enunciati dalla stessa norma
o "per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio"
delle funzioni degli enti autonomi (quinto comma).
Pertanto, alle disposizioni di Legge statale che, ai sensi
dell’art. 23 Cost., definiscono i criteri per la
quantificazione delle prestazioni imposte spettanti ai
Comuni dovrebbe riconoscersi natura di principi di
coordinamento della finanza pubblica, poiché anche da esse
dipende l’autonomia di entrata e di spesa riconosciuta agli
Enti territoriali, nonché la concreta possibilità di
assolvere alle funzioni ad essi attribuite, atteso che il IV
comma dell’art. 119, esclude che essi possano ricevere, in
via ordinaria, ulteriori risorse rispetto a quelle previste
dal medesimo articolo.
16.5 Ad ulteriore conferma che l’art. 16, c. 9, D.P.R.
380/2001 costituisca una norma di principio, si osserva che
i limiti quantitativi, minimo e massimo, da essa individuati
sono i medesimi di quelli che, fin dall’approvazione
dell’art. 6 della L. 10 del 28.01.1977 (che ha sancito
l’onerosità dell’attività edificatoria), il Legislatore
statale aveva stabilito.
Tale criterio è rimasto invariato fino al 25.01.1982,
quando l'art. 9, comma 6, D.L. 23.01.1982, n. 9,
(convertito, con modificazioni, dalla L. 25.03.1982, n.
94) l’ha modificato, eliminando il limite minimo e riducendo
il massimo al 10%. Tuttavia, le percentuali minima e massima
del costo di costruzione, sono state riportate a quelle
originarie con l’entrata in vigore dell'art. 7, comma 2, L.
24.12.1993, n. 537 e riprodotte nel Testo Unico
dell’edilizia.
16.6 L’art. 2, c. 3, L.R. Veneto n. 4/2015 nell’introdurre
una disciplina parzialmente derogatoria rispetto all’art.
16, c. 9, D.P.R. 380/2001 si pone in contrasto anche con gli artt. 117, III comma, 118, comma I e 5 della Costituzione di
cui costituisce diretta applicazione l’art. 2, c. 3, D.P.R.
380/2001.
La norma (“Le disposizioni, anche di dettaglio, del presente
testo unico, attuative dei principi di riordino in esso
contenuti operano direttamente nei riguardi delle regioni a
statuto ordinario, fino a quando esse non si adeguano ai
principi medesimi.”) contiene una disciplina transitoria –destinata a trovare applicazione nelle more dell’adeguamento
della legislazione regionale ai principi contenuti nel Testo
Unico dell’Edilizia- e cedevole, mediante la quale le
disposizioni di dettaglio, attuative di norme di principio
contenute nel D.P.R. 380/2001, trovano immediata
applicazione, fino all’adeguamento da parte delle Regioni.
Il meccanismo di coordinamento tra normativa statale e
regionale nelle materie di competenza concorrente,
costituito dalle “norme cedevoli”, è stato ritenuto dalla
Corte costituzionale attuativo di quelle esigenze unitarie
di regolamentazione uniforme che l’ordinamento
costituzionale continua a riconoscere anche nel differente
sistema di rapporti tra Stato e Regioni delineato dalla
Legge costituzionale n. 1 del 2003 e che rinvengono il
proprio referente normativo nell’art. 118, c. 1 Cost., nella
parte in cui codifica il principio di sussidiarietà.
Nella sentenza n. 303/2003, la Corte costituzionale ha
affermato che benché “l'inversione della tecnica di riparto
delle potestà legislative e l'enumerazione tassativa delle
competenze dello Stato dovrebbe portare ad escludere la
possibilità di dettare norme suppletive statali in materie
di legislazione concorrente, (e) tuttavia una simile lettura
dell'art. 117 svaluterebbe la portata precettiva dell'art.
118, comma primo, che consente l'attrazione allo Stato, per
sussidiarietà e adeguatezza, delle funzioni amministrative e
delle correlative funzioni legislative” e che “la disciplina
statale di dettaglio a carattere suppletivo determina una
temporanea compressione della competenza legislativa
regionale che deve ritenersi non irragionevole, finalizzata
com'è ad assicurare l'immediato svolgersi di funzioni
amministrative che lo Stato ha attratto per soddisfare
esigenze unitarie e che non possono essere esposte al
rischio della ineffettività”.
Le norme statali di dettaglio, espressione di principi
generali, alle quali è attribuita temporanea vigenza nelle
more dell’adeguamento da parte delle Regioni (per questo
dette “cedevoli” rispetto alla legislazione regionale
sopravvenuta), mirano ad evitare che l’inerzia regionale
ponga nel nulla l’individuazione dei principi fondamentali
delle materie di legislazione concorrente, che è “riservata”
al Legislatore statale, così preservando la suddetta riserva
e garantendo, nel contempo l’uniforme disciplina nazionale
in conformità con gli stessi.
A tale esigenza di uniforme disciplina dei criteri di
determinazione del contributo di costruzione è improntata,
per quanto si è esposto nei punti del paragrafo 4, la
disposizione di cui all’art. 16, c. 9, DPR 380/2001, nella
parte in cui definisce la percentuale minima e massima del
costo di costruzione entro cui le Regioni devono individuare
la quota di contributo di costruzione per singole categorie
di edifici.
L’art. 2, c. 3, L.R. 4/2015, introducendo un regime
differenziato di determinazione del contributo di
costruzione rispetto a quello applicabile sull’intero
territorio nazionale per talune fattispecie (quelle per le
quali il contributo fosse stato determinato secondo
parametri diversi da quello minimo previsti dall’art. 16, c.
9, DPR 380/2001), si è posto contro quelle esigenze di uniforme
regolamentazione presidiate dagli artt. 118, c. I e 5 della
Costituzione, rendendo definitiva la violazione della norma
di principio che il mancato tempestivo adeguamento della
legislazione regionale aveva prodotto.
17. Sotto altro profilo, l’art. 2, c. 3, L.R. Veneto n.
4/2015, escludendo che i Comuni possano pretendere con una
richiesta di conguaglio il pagamento del contributo nella
misura minima prevista dalla norma di legge statale, incide
e viola il principio di equiordinazione tra Enti
territoriali, previsto dall’art. 114 Cost., nonché
l’autonomia di entrata e di spesa riconosciuta ai Comuni
dall’art. 119, c. I, II e IV Cost. e il principio di buona
amministrazione, previsto dall’art. 97 Cost.
Il contributo di costruzione, come si è detto, essendo una
prestazione imposta che i Comuni hanno diritto di riscuotere
in conseguenza del rilascio del permesso di costruire, ne
costituisce un’entrata propria, istituita con legge statale.
Ai sensi del IV comma dell’art. 119 Cost., questa entrata
concorre con le altre entrate di natura tributaria e non
tributaria, nonché con le risorse trasferite ai sensi ed
alle condizioni di cui ai commi III e V, al finanziamento
“integrale” delle spese necessarie per l’espletamento delle
proprie funzioni.
La norma regionale, escludendo che i Comuni possano
pretendere con una richiesta di conguaglio il pagamento del
contributo nella misura minima prevista dalla norma di legge
statale, incide su un credito già acquisito al patrimonio
comunale per effetto del rilascio del permesso di costruire
e viola l’autonomia di entrata e di spesa riservata ai
Comuni, in tal modo ledendo anche il principio di
equiordinazione tra gli enti territoriali che compongono la
Repubblica, sancito dall’art. 114 Cost.
Inoltre, la norma si pone in contrasto con il principio di
buon andamento della Pubblica Amministrazione perché
impedisce ai Comuni di far valere e riscuotere nella loro
interezza crediti già acquisiti al patrimonio, in assenza di
alcuna valutazione sulla sostenibilità economica di tale
rinuncia.
18. La norma, inoltre, invade la sfera di potestà
legislativa esclusiva nella disciplina dell’ordinamento
civile riservata al Legislatore statale dall’art. 117, c. II,
lett. l e viola i principi di uguaglianza e ragionevolezza
previsti dall’art. 3 Cost.
Come si è già evidenziato, il Legislatore regionale con la
norma in esame ha dettato una disciplina speciale per gli
atti di determinazione e liquidazione del contributo di
costruzione già emessi, sottraendo ai Comuni il potere di
rideterminare l’importo già liquidato sulla scorta della
disciplina regionale antevigente e di riscuoterlo.
Così facendo si è inserita nel dibattito –all’epoca non
ancora sopito sulla natura, autoritativa o paritetica,
degli atti con cui l’Amministrazione determina e liquida
l’importo del contributo di costruzione e
sull’ammissibilità, e le relative condizioni, della
rideterminazione del suddetto importo.
Prima dell’intervento dell’Adunanza Plenaria del Consiglio
di Stato, con la sentenza del 30.08.2018, n. 12, sulla
questione, si erano contrapposti tre orientamenti
interpretativi.
Secondo una prima impostazione, fatta propria dal Consiglio
di giustizia amministrativa (nelle sentenze nn. 64, 188,
244, 373, 422 e 790 del 2007), la determinazione del
contributo darebbe luogo ad un rapporto paritetico che,
seppur azionabile da ambo le parti nel rispetto del termine
prescrizionale ordinario di dieci anni, si cristallizzerebbe
nel quantum al momento del rilascio del titolo edilizio, nel
senso che lo stesso non sarebbe suscettibile di modifiche
successive (se non nei casi di manifesto errore di calcolo),
in quanto, in applicazione dei principi desumibili dalla
disciplina dei contratti, non darebbe mai luogo ad un errore
riconoscibile (donde l’intangibilità pressoché assoluta
della originaria determinazione amministrativa).
Una seconda tesi, che è stata seguita in alcune sentenze
della sez. IV del Consiglio di Stato (Cons. St., sez. IV, 27.09.2017 n. 4515, Cons. St., sez. IV, 12.06.2017
n. 2821), pur muovendo, come la prima, dalla natura
paritetica del rapporto, trae da tale assunto conseguenze
opposte, affermando che proprio perché si tratta di un
rapporto di debito-credito di natura paritetica, la
rettifica sarebbe sempre possibile, entro il termine
decennale di prescrizione, perché, per un verso, il
procedimento sarebbe svincolato dal rispetto delle
condizioni di esercizio dell’autotutela amministrativa e,
per altro verso, la rideterminazione del contributo dovuto
secondo rigidi parametri regolamentari o tabellari
costituirebbe un atto dovuto.
Terza e più recente impostazione, muove dalla natura
pubblicistica (Cons. St., sez. IV, 21.12.2016, n.
5402) del rapporto nascente dalla determinazione del
contributo, trattandosi di prestazione patrimoniale imposta
di carattere non tributario, per affermare la conseguente
applicabilità, in astratto, delle regole dell’autotutela
amministrativa.
L’Adunanza Plenaria ha risolto il contrasto, affermando che
“L'atto di imposizione e di liquidazione del contributo,
quale corrispettivo di diritto pubblico richiesto per la
compartecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione,
non ha natura autoritativa né costituisce esplicazione di
una potestà pubblicistica, ma si risolve in un mero atto
ricognitivo e contabile, in applicazione di rigidi e
prestabiliti parametri regolamentari e tabellari” e che “la
natura paritetica dell'atto di determinazione consente che
la pubblica amministrazione possa apportarvi modifiche, sia
in favore del privato che in senso contrario, purché ciò
avvenga nei limiti della prescrizione decennale del relativo
diritto di credito (v., inter multas, Cons. St., sez. IV, 28.11.2012, n. 6033, Cons. St., sez. IV, 17.09.2010, n. 6950)”.
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha, quindi,
ritenuto non condivisibili, sia la tesi dell’assoluta
immodificabilità del contributo, affermata sul presupposto
della non riconoscibilità dell’errore nel quale è incorsa
l’Amministrazione, sia la tesi secondo la quale la
riliquidazione del contributo sarebbe ammessa solo in
presenza dei presupposti previsti per l’autotutela.
Ha, invece, affermato la doverosità della rideterminazione
dell’importo del contributo che, per errore, sia stato
originariamente liquidato in violazione delle norme di legge
che regolano i criteri del relativo calcolo, pena la
violazione del principio di legalità delle prestazioni
imposte sancito dall'art. 23 della Costituzione.
Ha, altresì, stabilito che la natura di prestazione
patrimoniale imposta riconosciuta al contributo in esame non
comporta l’attrazione nella sfera pubblicistica
dell’obbligazione di cui costituisce oggetto. L’obbligazione
nasce ex lege in conseguenza del rilascio del titolo
edilizio ed è imposta nel senso che il privato non può
sottrarsi al vincolo se non rinunciando a richiedere il
titolo, tuttavia, “esclusa pacificamente la sua natura
tributaria”, il pagamento del contributo “non può che
costituire l'oggetto di un ordinario rapporto obbligatorio,
disciplinato dalle norme di diritto privato, come prescrive
l'art. 1, comma 1-bis, della L. n. 241 del 1990, salvo che
la legge disponga diversamente.”.
Discende dalle esposte premesse che gli atti con i quali la
pubblica amministrazione determina e liquida il contributo
di costruzione costituiscono l'esercizio di una facoltà
connessa alla pretesa creditoria riconosciuta dalla legge al
Comune per il rilascio del permesso di costruire,
nell'ambito di un rapporto obbligatorio a carattere
paritetico.
“Si è cioè al cospetto di un rapporto obbligatorio, di
contenuto essenzialmente pecuniario (salva l'ipotesi di
opere a scomputo di cui all'art. 16, comma 1, del D.P.R. n.
380 del 2001), al quale si applicano le disposizioni di
diritto privato, salve le specifiche disposizioni previste
dalla legge (come, ad esempio, i già citati artt. 42 e 43
del D.P.R. n. 380 del 2001) per la peculiare finalità del
credito vantato dall'amministrazione comunale in ordine al
pagamento del contributo (oneri di urbanizzazione e costo di
costruzione).”.
Quanto alle esigenze di tutela dell’affidamento ingenerato
dall’erronea liquidazione del contributo all’atto del
rilascio del titolo, l’Adunanza Plenaria ha affermato che
esse sono sufficientemente garantite nei limiti previsti
dagli artt. 1175 e 1375 c.c..
Pertanto, “la complessità delle operazioni di calcolo o
l'eventuale incertezza nell'applicazione di alcune tabelle o
coefficienti determinativi, dovuti a ragioni di ordine
tecnico, non sono eventi estranei o ignoti alla sfera del
debitore, che invece con l'ordinaria diligenza, richiesta
dagli artt. 1175 e 1375 c.c., può e deve controllarne
l'esattezza sin dal primo atto di loro determinazione”.
Quindi “La tutela del legittimo affidamento e il principio
della buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.), che in via
generale devono essere osservati anche dalla pubblica
amministrazione nell'attuazione del rapporto obbligatorio
(v., sul punto, Cass., sez. L, 07.04.1992, n. 4226),
possono trovare applicazione ad una fattispecie come quella
in esame nella quale, ordinariamente, l'oggettività dei
parametri da applicare al contributo di costruzione rende
vincolato il conteggio da parte della pubblica
amministrazione, consentendone a priori la conoscibilità e
la verificabilità da parte dell'interessato con l'ordinaria
diligenza, solo nella eccezionale ipotesi in cui tali
conoscibilità e verificabilità non siano possibili con il
normale sforzo richiesto al debitore, secondo appunto buona
fede, nell'ottica di una leale collaborazione finalizzata
all'attuazione del rapporto obbligatorio e al
soddisfacimento dell'interesse creditorio.”.
Come si è detto, il Legislatore regionale con l’art. 2, c. 3, L.R. Veneto n. 4/2015 si è inserito nel dibattito,
manifestando una chiara opzione per la tesi che escludeva la
modificabilità della liquidazione del contributo di
costruzione effettuata dal Comune contestualmente al
rilascio del titolo.
I rapporti obbligatori già instaurati alla data della sua
entrata in vigore vengono assoggettati ad una disciplina
peculiare, mediante la quale la pretesa creditoria del
Comune viene ridotta nel quantum rispetto al suo contenuto
legale, ove non esercitata in tale misura fin dal momento
della sua originaria quantificazione, ed è riconosciuta una
tutela dell’affidamento del privato del tutto avulsa dalla
verifica dei profili di conoscibilità della normativa
applicabile.
Ed, infatti, anche ove si ritenesse che la stratificazione
delle disposizioni di fonte statale e regionale abbia potuto
ingenerare una situazione di incertezza tale da incidere
sulla conoscibilità dei criteri di calcolo del contributo,
ciò non potrebbe comunque affermarsi con riguardo alle
determinazioni nelle quali fosse esplicitamente fatta salva
la possibilità di successivi conguagli, o a quelle adottate
dopo le pronunce del TAR Veneto e del Consiglio di Stato con
le quali il dubbio interpretativo sulla normativa
applicabile era stato risolto nel senso della prevalenza
della norma di fonte statale.
Così facendo, il Legislatore regionale ha dettato
disposizioni che incidono sul regime giuridico di “un
rapporto obbligatorio, di contenuto essenzialmente
pecuniario”, in quanto tale soggetto alle “disposizioni di
diritto privato, salve le specifiche disposizioni previste
dalla legge”, invadendo una competenza riservata, dall’art.
117, c. II, Cost. alla potestà legislativa statale.
19. Infine, la norma di legge regionale appare in contrasto
anche con l’art. 3 Cost.
Non può, infatti, ritenersi conforme ai principi di
uguaglianza e di ragionevolezza una norma che disciplina
diversamente rapporti obbligatori di fonte legale,
integralmente definiti, nel loro contenuto, per effetto
della medesima legge, in funzione della circostanza,
meramente casuale, che il Comune abbia o non abbia fatto
corretta applicazione della legge vigente in sede di
rilascio del titolo.
Neppure può addursi a giustificazione di una tale disparità
di trattamento l’affidamento ingenerato dal Comune con
l’erronea determinazione iniziale dell’importo del
contributo, poiché, come ha ritenuto l’Adunanza Plenaria
nella sentenza n. 12/2018, tale affidamento è meritevole di
tutela soltanto ove esso sia incolpevole, ovvero non fosse
evitabile con l’ordinaria diligenza, circostanza da
valutarsi in concreto.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per
il Veneto (Sezione Seconda), dichiara rilevante e non
manifestamente infondata, in relazione agli artt. 3, 5, 97,
114, 117, 118 e 119 della Costituzione, la questione di
legittimità costituzionale dell’art.
2, comma 3, della Legge Regionale 16.03.2015, n. 4.
Sospende il giudizio in corso e dispone, a cura della
segreteria della Sezione, che gli atti dello stesso siano
trasmessi alla Corte Costituzionale per la risoluzione della
prospettata questione, nonché la notifica della presente
ordinanza alle parti in causa ed al Presidente della Giunta
Regionale e la comunicazione della medesima al presidente
del Consiglio Regionale per il Veneto. |
APPALTI:
Costo del lavoro autonomo e verifica della anomalia
dell’offerta.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta –
Offerta anomala – Verifica – Costo del lavoro – Congruità –
Rapporti di lavoro autonomo - Accertamento – Va fatto.
E’ necessario, nell’ambito della
verifica dell’anomalia dell’offerta, procedere alla
valutazione della congruità del costo del lavoro anche
quando si tratti non di rapporti di lavoro subordinato ma di
rapporti di lavoro autonomo (1).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che anche in un giudizio sull’anomalia
dell’offerta non possano essere sindacate le modalità di
organizzazione interna di un operatore economico, né è
possibile ritenere che debbano essere imposti determinati
tipi contrattuali in luogo di altri per ottenere la
collaborazione dei prestatori d’opera.
Ma, nel giudizio di verifica della possibile anomalia di
un’offerta, se occorre valutare la congruità del costo del
lavoro (e quindi la congruità e serietà dell’offerta), si
deve ritenere comunque necessario, nei casi in cui non sia
possibile fare un immediato riferimento agli importi dei
contratti collettivi nazionali -per la molteplicità delle
modalità di lavoro anche non dipendente con le quali oggi è
possibile assicurare una prestazione lavorativa- che la
Stazione appaltante valuti la corretta determinazione del
costo del lavoro anche con strumenti diversi.
E ciò anche per il doveroso rispetto delle disposizioni
dettate per la tutela di rilevanti interessi pubblici in
materia di lavoro, sicurezza e previdenza ai quali si è
fatto prima cenno. Senza contare che la mancanza di un
qualsiasi parametro nella valutazione della congruità del
costo del lavoro “non dipendente” determinerebbe
effetti palesemente distorsivi del mercato, quali quelli che
sono stati evidenziati nella gara in esame.
Non può essere pertanto condiviso il principio secondo cui
ogni valutazione sulla congruità del costo del lavoro della
prestazione offerta nella fattispecie non poteva essere
compiuta perché tra l’impresa e il prestatore d’opera di
lavoro non dipendente esiste solo la libera contrattazione
del compenso.
Se si affermasse la correttezza di tale principio, alle
stazioni appaltanti sarebbe preclusa ogni forma di controllo
sulla serietà e sostenibilità del costo del lavoro delle
offerte presentate e della stessa serietà dell’offerta,
soprattutto quando il costo del lavoro ne è, come nella
fattispecie, un elemento preponderante.
Né può valere l’obiezione secondo cui le eventuali patologie
sono questioni proprie della fase esecutiva del contratto.
La procedura di gara serve, tra le tante altre cose, anche a
prevenire situazioni patologiche quali quelle che possono
determinarsi con la presentazione di un’offerta anomala.
Si deve quindi ribadire che non può essere condivisa la tesi
secondo cui l’operatore economico che decide
(legittimamente) di organizzarsi con collaboratori che non
sono lavoratori subordinati è esentato da qualsiasi
giustificazione in ordine al costo di tali collaboratori
nell’offerta che ha presentato.
Alcuni parametri normativi esistono comunque, perlomeno da
utilizzare come punto di riferimento per valutare la serietà
e attendibilità di un’offerta e del costo del lavoro nella
stessa dichiarato. Il diritto del lavoro (subordinato e
autonomo) così come la disciplina del codice del consumo
dettano disposizioni di mitigazione della forza contrattuale
del committente.
Per esempio, l'art. 3 della recente l. 22.05.2017, n. 81,
recante “Misure per la tutela del lavoro autonomo non
imprenditoriale e misure volte a favorire l'articolazione
flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”
colpisce le clausole e le condotte abusive nonché l'abuso di
“dipendenza economica” (art. 9, l. n. 192 del 1992).
I copiosi riferimenti all'“abuso” presenti
nell'articolato della citata l. n. 81 del 2017, per esempio,
evocano il complesso tema delle relazioni sbilanciate tra
soggetti economici (i cosiddetti “contratti asimmetrici”),
nel cui ambito la dottrina ha elaborato la nozione di “terzo
contratto”.
Tale figura identifica quei contesti negoziali in cui, come
accade sovente nel caso del lavoro autonomo, si rileva una
debolezza non inerente a un determinato status, come per il
consumatore, protagonista di un ideale “secondo contratto”,
ma relativa a una condizione di fatto di disparità economica
che si riflette sul piano dell'equilibrio contrattuale.
L'ottica comune alle discipline in questione è spiccatamente
rimediale. Ciò significa che quelle regole, sul piano
individuale, mirano al ripristino in via giudiziale
dell'equilibrio che il rapporto economico sbilanciato ha
messo in discussione. Si parla non a caso di “giustizia
contrattuale”.
Occorre chiedersi se quelle regole che permeano ormai il
sistema giuridico, possano operare altresì in funzione del
perseguimento di più ampi obiettivi, come il miglioramento
qualitativo della concorrenza. E la risposta deve ritenersi
affermativa tanto che, esplorando il contesto dei rapporti
asimmetrici tra imprese, si accosta alla lesione della
libertà negoziale della parte debole la violazione
dell'ordine pubblico del mercato.
Ha aggiunto la Sezione di essere consapevole del fatto che
la l. n. 81 del 2017 non ha dettato anche disposizioni
specifiche sul compenso dei lavoratori autonomi. Il
principio cardine è la libera pattuizione del compenso e
solamente in assenza di un accordo o di riferimenti a usi e
tariffe si ammette l'intervento sussidiario del giudice ai
sensi dell’art. 2225 c.c. che stabilisce il corrispettivo in
base al risultato ottenuto e al lavoro normalmente
necessario per ottenerlo, con la correzione del criterio di
adeguatezza all'importanza dell'opera e al decoro della
professione ex art. 2233 c.c.
Però da una lettura sistematica delle disposizioni della
Direttiva 24/2014, delle disposizioni del Codice dei
contratti pubblici, e dei principi che presidiano l’intera
materia degli appalti si può giungere alla conclusione che
la stazione appaltante non può completamente omettere di
valutare, in sede di giudizio di anomalia dell’offerta, le
modalità con le quali l’operatore economico che aspira ad
ottenere una commessa pubblica, intende utilizzare e
compensare i propri collaboratori (TAR
Sardegna, Sez. I,
sentenza 05.02.2019 n. 94 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La funzione della motivazione del
provvedimento amministrativo, come chiarito dalla consolidata
giurisprudenza, è diretta a consentire al destinatario di ricostruire l'iter
logico-giuridico in base al quale l'amministrazione è pervenuta all'adozione
di tale atto, nonché le ragioni ad esso sottese; e ciò allo scopo di
verificare la correttezza del potere in concreto esercitato, nel rispetto di
un obbligo da valutarsi caso per caso in relazione alla tipologia dell'atto
considerato.
In particolare, in caso di domanda di titolo abilitativo edilizio, poiché il
presupposto per il rilascio dello stesso è la conformità del progetto agli
strumenti urbanistici e alla normativa urbanistico edilizia vigenti, il
provvedimento di diniego, per essere legittimo, deve contenere una specifica
esposizione delle ragioni di contrasto del progetto con le norme che
regolano gli insediamenti sul territorio.
---------------
Nel caso di specie, il Comune no ha dato conto in motivazione delle
specifiche e reali ragioni ostative al mancato accoglimento della SCIA
relativa al titolo abilitativo in sanatoria; ragioni che non potevano che
essere il frutto di un’attività vincolata, consistente nella verifica della
conformità o meno dell’intervento edilizio in questione con la disciplina
urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello
stesso, sia al momento della presentazione della domanda (cd. doppia
conformità).
Nella vicenda sottoposta all’esame del Collegio, il Comune si è, tuttavia,
limitato a comunicare ai ricorrenti che: … la pratica edilizia relativa alla
comunicazione relativa alla SCIA in sanatoria ex art. 37 d.P.R. 380/2001,
non può essere accolta, e ciò richiamando unicamente il sopralluogo disposto
da parte della Regione Lazio - servizio Genio Civile di Frosinone e la
trascrizione per esteso delle disposizioni del Testo unico dell’edilizia
allegatamente ostativo all’accoglimento della segnalazione in sanatoria.
E’ evidente che la comunicazione di mancato accoglimento della S.c.i.a. in
sanatoria in esame è viziata per carenza assoluta di motivazione, come
denunciato da parte ricorrente con il primo motivo di ricorso, non essendo
state affatto indicate le effettive ragioni ostative alla positiva
definizione della comunicazione della Scia in sanatoria, e ciò in violazione
dell’art. 3 della L. n. 241 del 1990.
In particolare, non risulta, che gli interventi realizzati dal ricorrente
(realizzazione della pensilina e della veranda in difformità) siano in
contrasto le norme legislative o con quelle dettate dagli strumenti
urbanistici vigenti e, comunque, pena la violazione del divieto di aggravare
il procedimento di cui all’art. 1 della L. 241/1990, non può
l’amministrazione onerare, genericamente, l’istante di “dimostrare il
requisito della doppia conformità delle opere oggetto di regolarizzazione”,
senza che la stessa, in seguito all’idonea istruttoria che le compete, abbia
previamente segnalato le specifiche criticità dell’intervento sotto tali
profili (veranda e pensilina).
Per altro verso, poi, all’amministrazione non è richiesta un’indagine (sulla
ricorrenza di tale presupposto) che si estenda fino alla ricerca d’ufficio
di eventuali elementi limitativi, preclusivi o estintivi del titolo di
disponibilità allegato dal richiedente, ma solo la verifica dell’esistenza
di un titolo sostanziale idoneo a costituire in capo a quest’ultimo il
diritto di sfruttare la potenzialità edificatoria dell’immobile.
---------------
Il ricorso è fondato.
In particolare merita accoglimento la censura relativa al difetto di
motivazione dei provvedimenti impugnati.
Osserva, anzitutto, il Collegio, che la funzione della motivazione del
provvedimento amministrativo, come chiarito dalla consolidata
giurisprudenza, è diretta a consentire al destinatario di ricostruire l'iter
logico-giuridico in base al quale l'amministrazione è pervenuta all'adozione
di tale atto, nonché le ragioni ad esso sottese; e ciò allo scopo di
verificare la correttezza del potere in concreto esercitato, nel rispetto di
un obbligo da valutarsi caso per caso in relazione alla tipologia dell'atto
considerato.
In particolare, in caso di domanda di titolo abilitativo edilizio, poiché il
presupposto per il rilascio dello stesso è la conformità del progetto agli
strumenti urbanistici e alla normativa urbanistico edilizia vigenti, il
provvedimento di diniego, per essere legittimo, deve contenere una specifica
esposizione delle ragioni di contrasto del progetto con le norme che
regolano gli insediamenti sul territorio.
Tanto premesso, nel caso di specie, il Comune di Piglio avrebbe dovuto dar
conto in motivazione delle specifiche e reali ragioni ostative al mancato
accoglimento della Segnalazione relativa al titolo abilitativo in sanatoria;
ragioni che non potevano che essere il frutto di un’attività vincolata,
consistente nella verifica della conformità o meno dell’intervento edilizio
in questione con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al
momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione
della domanda (cd. doppia conformità).
Nella vicenda sottoposta all’esame del Collegio, il Comune di Piglio
(Ufficio edilizia privata) si è, tuttavia, limitato a comunicare ai
ricorrenti che: … la pratica edilizia relativa alla comunicazione relativa
alla SCIA in sanatoria ex art. 37 d.P.R. 380/2001, non può essere accolta, e
ciò richiamando unicamente il sopralluogo disposto da parte della Regione
Lazio - servizio Genio Civile di Frosinone e la trascrizione per esteso
delle disposizioni del Testo unico dell’edilizia allegatamente ostativo
all’accoglimento della segnalazione in sanatoria.
E’ evidente che la comunicazione di mancato accoglimento della S.c.i.a. in
sanatoria in esame è viziata per carenza assoluta di motivazione, come
denunciato da parte ricorrente con il primo motivo di ricorso, non essendo
state affatto indicate le effettive ragioni ostative alla positiva
definizione della comunicazione della Scia in sanatoria, e ciò in violazione
dell’art. 3 della L. n. 241 del 1990.
In particolare, non risulta, che gli interventi realizzati dal ricorrente
(realizzazione della pensilina e della veranda in difformità) siano in
contrasto le norme legislative o con quelle dettate dagli strumenti
urbanistici vigenti e, comunque, pena la violazione del divieto di aggravare
il procedimento di cui all’art. 1 della L. 241/1990, non può
l’amministrazione onerare, genericamente, l’istante di “dimostrare il
requisito della doppia conformità delle opere oggetto di regolarizzazione”,
senza che la stessa, in seguito all’idonea istruttoria che le compete, abbia
previamente segnalato le specifiche criticità dell’intervento sotto tali
profili (veranda e pensilina).
Per altro verso, poi, all’amministrazione non è richiesta un’indagine (sulla
ricorrenza di tale presupposto) che si estenda fino alla ricerca d’ufficio
di eventuali elementi limitativi, preclusivi o estintivi del titolo di
disponibilità allegato dal richiedente (Cons. St, sez. V, 22.06.2000, n.
3525), ma solo la verifica dell’esistenza di un titolo sostanziale idoneo a
costituire in capo a quest’ultimo il diritto di sfruttare la potenzialità
edificatoria dell’immobile (cfr. Cons. St. n. 368/2004).
Pertanto, nel caso in esame, non sembra si possa dubitare dell’astratta
sanabilità delle opere oggetto di causa ai sensi del d.lgs. 380/2001 e della
giurisprudenza formatasi sulla sanabilità delle opere in questione.
Inoltre, per quanto concerne la pensilina parte ricorrente deduce che la
struttura risale a periodo anteriore al 1967, essendo stata apposta sul
prospetto dell’edificio nell’anno 1962. A comprova allega relazione peritale
e una stampa dell’epoca.
In conclusione il ricorso deve essere accolto con riferimento alle censure
esaminate, potendo restare assorbiti gli ulteriori profili di doglianza.
Ne consegue, per invalidità derivata, l’illegittimità dell’ordine di
demolizione gravato con i motivi aggiunti (TAR Lazio-Latina,
sentenza 05.02.2019 n. 79 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
RIFIUTI - Operazioni di deposito delle terre e delle rocce
da scavo - Mancanza di autorizzazione e del controllo
amministrativo preventivo - Inosservanza delle prescrizioni
- Procedura di conformità "end of wast" - Potenziali danni
per l'ambiente - Art. 256 d.lgs. n. 152/2006.
L'inosservanza delle prescrizioni e la
mancanza di autorizzazione, quantunque in astratto
concedibile, e dunque la carenza del prescritto controllo
amministrativo preventivo sullo svolgimento dell'attività
determinano situazioni intrinseche di rischio, essendo
suscettibili di mettere in pericolo la salubrità
dell'ambiente.
Pertanto, le operazioni di deposito delle terre e delle
rocce da scavo in vista di un successivo riutilizzo
effettivo sono "atte a configurare un onere per il detentore
e sono potenzialmente fonte di quei danni per l'ambiente"
che la disciplina comunitaria sui rifiuti "mira
specificamente a limitare (...), cosicché la sostanza di cui
trattasi deve essere considerata, in linea di massima, come
rifiuto" (in tal
senso, anche, Sez. 3, n. 19439 del 17/01/2012, cit., in
motiv.).
...
RIFIUTI - Reato di attività di gestione di rifiuti non
autorizzata - Natura di reato di pericolo - Principio della
personalità della responsabilità penale - Verifiche e
compiti del giudice di merito.
Il reato di attività di gestione di
rifiuti non autorizzata è un reato di pericolo, sicché la
valutazione in ordine all'offesa al bene giuridico protetto
va retrocessa al momento della condotta secondo un giudizio
prognostico "ex ante", essendo irrilevante l'assenza in
concreto, successivamente riscontrata, di qualsivoglia
lesione.
In questo delicato settore del diritto penale, il compito
del giudice di merito si risolve, nel rispetto assoluto dei
principio della personalità della responsabilità penale, in
un accertamento diretto a verificare, specialmente
nell'interpretazione dei reati formali e di pericolo
presunto, che il fatto di reato abbia effettivamente leso o
messo in pericolo il bene o l'interesse tutelato dalla
disposizione incriminatrice.
Infatti, nei reati di pericolo, l'offesa al bene giuridico
protetto si traduce in un nocumento potenziale dello stesso,
che viene soltanto minacciato (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 01.02.2019 n. 4973 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Nozione di miscelazione dei rifiuti - Attività non
consentita di miscelazione - Accatastamento di vari rifiuti
aventi codici identificativi diversi - Prova della
miscelazione - Attività di gestione dei rifiuti da
autodemolizione - Disciplina, applicabile e limiti - Att. 6
e 13 d.lgs. n. 209/2003 - Artt. 187, 256 d.lgs. n. 152/2006
La miscelazione dei rifiuti può essere
definita come l'operazione consistente nella mescolanza,
volontaria o involontaria, di due o più tipi di rifiuti
aventi codici identificativi diversi in modo da dare origine
ad una miscela per la quale invece non esiste uno specifico
codice identificativo.
Nella fattispecie, la prova della miscelazione è stata
legittimamente desunta dai verbali di sopralluogo e dagli
accertamenti in conseguenza dei quali è emerso che alcuni
spazi erano occupati, non solo da materiale ferroso
proveniente dalla demolizione di autoveicoli, attività per
la quale l'imputato era autorizzato, ma anche da rifiuti
ferrosi e non ferrosi, di altro tipo, posto che in loco si
erano riscontrate tracce di olio e di altri liquidi.
Tale accatastamento di vari rifiuti e la presenza di tracce
di diversi liquidi dimostra inequivocabilmente la
configurabilità del reato atteso che sono stati comunque
mescolati rifiuti anche pericolosi aventi codici
identificativi diversi (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 01.02.2019 n. 4976 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Nozione di sottoprodotto - Sanza - Operazioni di
asciugatura ed essiccazione - Riconducibilità nella
categoria dei rifiuti - Normale pratica industriale -
Esclusione - Attività di raccolta e gestione di rifiuti
speciali non pericolosi - Artt. 183, 184-bis, 256, D.Lgs. n.
152/2006.
Non rientrano nella nozione di
sottoprodotto ex art. 184-bis del d.lgs. n. 152 del 2006 i
materiali che non possono essere utilizzati direttamente dal
produttore ma devono essere sottoposti ad una trasformazione
preliminare. Sicché, il propedeutico procedimento di
asciugatura ed essicazione della sansa, si connota in un
trattamento diverso dalla normale pratica industriale con
conseguente riconducibilità nella categoria dei rifiuti (Corte
d Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 01.02.2019 n. 4952 - link a www.ambientediritto.it). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Risarcimento del danno per perdita di “chance”
lavorativa.
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Risarcimento danni – Concorso – Illegittima esclusione –
Mancanza del requisito di residenza – Annullamento in sede
di ricorso straordinario al Capo dello Stato – Procedura
selettiva ormai espletata – Istanza risarcitoria – Danno
risarcibile da perdita di chance – Spetta.
Va risarcito a titolo di perdita di
chance il concorrente escluso da una selezione, ormai
conclusa, che era stata bandita per l’istaurazione di
rapporti di lavoro a tempo determinato per mancanza del
requisito della residenza in un Comune della Regione,
requisito dichiarato illegittimo a seguito di decisione di
ricorso straordinario al Presidente della Repubblica (1).
---------------
(1) Il Tar, preliminarmente, ha disatteso l’eccezione di
inammissibilità della domanda risarcitoria, in relazione al
principio di pregiudizialità dell’azione giurisdizionale di
annullamento, atteso che nel vigente ordinamento, la domanda
risarcitoria ha una propria autonomia. Ha chiarito il Tar
che, nel caso di specie, la decisione del ricorso
straordinario al Capo dello Stato ha accertato
l’illegittimità della procedura selettiva impugnata ed ha
censurato la condotta tenuta dalla Provincia, in violazione
dei principi informatori dell’azione amministrativa
pubblica.
Il Tar ha quindi affermato che il pregiudizio patrimoniale
patito a causa dalla condotta colpevole della P.A., è
senz’altro risarcibile a tenore dell’art. 2043 cod. civ.,
norma che impone il dovere primario di non cagionare danni
ingiusti.
Il Tar ha ritenuto che l’imposizione quale requisito della
residenza dei concorrenti in un Comune molisano, censurata
perché contraria alla legge e ai principi costituzionali, è
rilevante ai fini dell’invocata tutela risarcitoria e spiega
il nesso di causalità tra la condotta antigiuridica (colposa
o dolosa) e il procurato pregiudizio patito dagli aspiranti
che hanno subito l’esclusione dal bando per via della
mancanza del requisito di residenza.
Ha affermato il Tar che non vi è necessità di ulteriore
prova della condotta arrecante il danno ingiusto, ex art.
2043 cod.civ., né sussiste margine per la scusabilità
dell’errore della P.A., atteso che non poteva
giustificabilmente sfuggire all’Amministrazione (e ai suoi
funzionari) il dato palese e inequivocabile
dell’illegittimità radicale della clausola di preclusione
territoriale contenuta nel bando.
Ha aggiunto il Tar che appare, altresì, evidente e non
necessita di prova il fatto che dal comportamento
illegittimo della Provincia sia derivato un danno
patrimoniale, qualificabile in termini di pregiudizio per la
perdita di chance, da parte dei ricorrenti. E’ palese la
sussistenza del rapporto causale tra il fatto ostativo
(l’esclusione dalla selezione) e il pregiudizio della
perdita di una ragionevole probabilità di conseguimento del
risultato atteso dai ricorrenti, di collocarsi, previo
superamento della prova, in una posizione non solo idonea ma
utile nello scorrimento di una delle sei graduatorie di
concorso definitivamente approvate.
I giudici molisani hanno poi ricordato che il danno da
perdita di chance si verifica tutte le volte in cui il venir
meno di un’occasione favorevole, cioè la perdita della
possibilità di conseguire un risultato utile, è determinato
e causato dell’adozione di un atto illegittimo da parte
della P.A., determinando un mancato guadagno. La chance è un
bene giuridico autonomo, integrante il patrimonio del
soggetto. Va così risarcita la perdita di essa, ove sussista
la lesione di un interesse giuridicamente tutelato, avendo
la pretesa di risarcimento a oggetto non un danno futuro e
incerto ma un danno attuale, quale è appunto la perdita
dell’occasione favorevole. La lesione della chance, quindi,
comporta un danno valutabile in relazione alla probabilità
perduta, piuttosto che al vantaggio sperato.
La risarcibilità della perdita di chance trova fonte nella
compromissione di un’opportunità -essa stessa bene
autonomamente identificabile e tutelabile sul piano
giuridico- di conseguire un bene della vita, sicché la
determinazione del risarcimento può avvenire secondo una
valutazione equitativa, ex art. 1226 c.c., commisurandola
ove possibile al grado di probabilità che quel risultato
favorevole avrebbe potuto essere conseguito.
Ha aggiunto il Tar che la perdita di chance non può essere
retribuita come se il danneggiato avesse effettivamente
superato la selezione ed effettuato la prestazione
lavorativa, poiché la prestazione lavorativa in effetti non
c’è mai stata e il diritto a percepire la retribuzione per
il periodo di mancata prestazione lavorativa deve escludersi
nell’ipotesi in cui il rapporto di lavoro non si sia mai
instaurato.
Il Tar ha poi considerato che non può essere, nella
fattispecie, riconosciuta la sussistenza di un danno
esistenziale, poiché non vi è prova alcuna che dall’evento
dannoso (l’esclusione dal concorso) sia derivata una
compromissione dell'integrità psico-fisica dei ricorrenti
(Cass. civ. 31.05.2003, n. 8827) e, non essendo stato
provato alcun danno emergente (quale potrebbe essere stata,
ad esempio, un’eventuale spesa sostenuta da ciascun
ricorrente per acquisire la possibilità di partecipare alla
selezione), il Tar ha quindi verificato la misura del
mancato guadagno
(TAR Molise,
sentenza 31.01.2019 n. 46 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
RIFIUTI - Attività di gestione di rifiuti costituiti da
materiale inerte - Trasporto, deposito e abbandono in modo
incontrollato sul terreno di terzi - Disciplina normativa
dei rifiuti ed emergenziale - Criteri di applicazione - Art.
256 d.lgs. n. 152/2006.
In materia di rifiuti, integra il reato
di cui all'art. 6, comma 1, lett. d), della legge n. 210 del
2008, la gestione di rifiuti in assenza di autorizzazione,
nonché il compimento di atti idonei diretti modo non
equivoco quali il trasporto a mezzo autocarro, l'abbandono
in modo incontrollato e il deposito dei suddetti rifiuti sul
terreno di terzi.
...
RIFIUTI - Emergenza rifiuti - Questione di legittimità
costituzionale - Disciplina eccezionale e temporanea -
Principio della riserva di legge - Art. 6, D.L. n. 172/2008
- Giurisprudenza.
In tema di "emergenza" rifiuti, deve
ritenersi manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale dell'art. 6, D.L. 06.11.2008, n.
172 per violazione dell'art. 3 Cost., poiché non lede i
principi di uguaglianza e ragionevolezza la scelta normativa
del legislatore di differenziare, con la previsione di una
disciplina eccezionale e temporanea, l'applicazione della
norma penale, apparendo oggettivamente più grave la
violazione della disciplina normativa dei rifiuti nelle zone
ove vige lo stato di emergenza rispetto alle altre zone del
territorio nazionale dove l'emergenza non sussista o sia
cessata.
Parimenti manifestamente infondato è l'ulteriore profilo di
violazione del principio della riserva di legge, ex. art. 25
Cost., in materia penale poiché la durata ed estensione
dello stato di emergenza costituisce mero fatto presupposto
da cui dipende l'applicazione della legge penale di cui
all'art. 6 del citato decreto e non è elemento costitutivo
del reato.
...
RIFIUTI - Stato di emergenza e adozione di norme derogatorie
nel settore dei rifiuti - Criteri e presupposti.
Lo stato di emergenza costituisce il
necessario presupposto di fatto per l'adozione di norme
derogatorie alle ordinarie disposizioni legislative che
giustificano un trattamento differenziato e non è elemento
normativo della fattispecie che ne delimita l'ambito di
applicazione.
Ed invero, la fattispecie penale è prevista dall'art. 6 del
d.l. n. 172 del 2008, conv. dalla legge n. 210 del 2018 che
punisce, quanto alla condotta tipica, le condotte ivi
descritte che riprendono in larga misura quelle condotte già
ricomprese nell'art. 256 del d.lgs n. 152 de 2006, condotte
che se poste in essere nei territori dove vige la
dichiarazione dello stato di emergenza nel settore dei
rifiuti, sono punite più severamente.
La dichiarazione dello stato di emergenza, a sua volta,
trova i suoi presupposti nella legge n. 252 del 1992 che
attribuisce al DPCM la competenza a determinare la durata
del medesimo e l'ambito spaziale in vige, cosicché l'atto
diviene elemento integrativo della fattispecie penale
costituendone un presupposto di fatto dal quale dipende
l'applicazione dell'art. 6 del d.l. 172 del 2008 (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.01.2019 n. 3582 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Rifiuti speciali prodotti da terzi - Attività di
raccolta e trasporto senza autorizzazione svolta in maniera
non professionale o in forma non imprenditoriale - Illecita
gestione di rifiuti - Elemento psicologico del reato - Buona
fede - Onere della prova - Art. 256 d.lgs. n. 152/2006.
In tema di rifiuti, integra il reato di
cui all'art. 256, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 152 del
2006, l'attività di raccolta e trasporto, senza
autorizzazione, di rifiuti speciali prodotti da terzi (per
lo più rottami ferrosi) conferendoli presso l'impianto di
recupero.
In tale ambito, non è richiesta per l'integrazione della
fattispecie contravvenzionale, una vera e propria
organizzazione strutturata, in quanto il reato è
configurabile anche quando l'attività illecita sia svolta in
maniera non professionale o in forma non imprenditoriale.
Inoltre, in tema di elemento psicologico del reato,
l'ignoranza da parte dell'agente sulla normativa di settore
e sull'illiceità della propria condotta è idonea ad
escludere la sussistenza della colpa, se indotta da un
fattore positivo esterno ricollegabile ad un comportamento
della pubblica amministrazione. Nella specie, fattore
neppure prospettato dal ricorrente che si è limitato, in
definitiva, ad invocare la buona fede (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.01.2019 n. 3579 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Direttore
dei lavori - Responsabilità ed esonero - Irregolare
vigilanza sull'esecuzione delle opere edilizie -
Contestazione ad altri soggetti la violazione delle
prescrizioni del permesso di costruire - Rinuncia
contestuale all'incarico - Comunicazione resa al dirigente
UTC - Art. 29 d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
In tema di reati edilizi ed urbanistici,
il direttore dei lavori è penalmente responsabile, salva
l'ipotesi d'esonero prevista dall'art. 29 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380, per l'attività edificatoria non conforme
alle prescrizioni del permesso di costruire in caso
d'irregolare vigilanza sull'esecuzione delle opere edilizie,
in quanto deve sovrintendere con continuità alle opere della
cui esecuzione ha assunto la responsabilità tecnica
(Cass. Sez. 3, n. 14504 del 20/01/2009; Sez. 3, n. 38924 del
07/11/2006).
Pertanto, l'art. 29, comma 2, esclude la
responsabilità del direttore dei lavori solo qualora abbia
contestato agli altri soggetti la violazione delle
prescrizioni del permesso di costruire, con esclusione delle
varianti in corso d'opera, fornendo al dirigente o
responsabile del competente ufficio comunale contemporanea e
motivata comunicazione della violazione stessa. Nei casi di
totale difformità o di variazione essenziale rispetto al
permesso di costruire, il direttore dei lavori deve inoltre
rinunziare all'incarico contestualmente alla comunicazione
resa al dirigente.
Nella specie, nulla di tutto ciò è avvenuto e lo stesso
ricorrente ha sostanzialmente ammesso di non essersi
sufficientemente interessato dell'esecuzione delle opere
oggetto del permesso di costruire e non si è attivato né
durante né dopo la loro esecuzione per segnalare e riparare
la violazione (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.01.2019 n. 2833 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Sversamento di materiale olioso inquinante -
Configurabilità della responsabilità della società (rectius:
del legale rappresentante) - Necessità di sopralluogo nelle
aziende vicine - Esclusione se individuata la sostanza nei
pozzetti dell’azienda - Presenza in azienda di impianto di
riciclo dell'olio - Ininfluenza se contrastante con evidenze
indiziarie - gravi - Art. 256, c. 1 e 2, d.lgs. n. 152/2006.
In tema di rifiuti, nell’ipotesi di
sversamento di materiale inquinante, per la configurabilità
della contravvenzione di cui all'art. 256, commi 1 e 2,
d.lgs. n. 152 del 2006, non può rilevare il fatto che non
siano stati effettuati sopralluoghi anche in aziende vicine,
quando è sicura la presenza dello stesso materiale oleoso
nei pozzetti dell’azienda -in uno con la speculare assenza
dello stesso in quelli posti più a monte e con il diretto
collegamento della rete fognaria aziendale con quella
comunale- renda certa la responsabilità della società (rectius:
del suo legale rappresentante).
Pertanto, l'eventuale sversamento di materiale inquinante
anche da parte di altre aziende vicine determinerebbe, al
più, una autonoma fonte di responsabilità concorrente
(comunque esclusa nel caso di specie, avendo gli operanti
"risalito" tutti i chiusini dal torrente fino all’azienda
imputata).
Infine, neanche la presenza in azienda di impianto di
riciclo dell'olio utilizzato per le lavorazioni -non attivo
nel giorno del sopralluogo- in sé, non poteva contrastare le
evidenze indiziarie -gravi, precise e concordanti di
sversamento (Corte
di Cassazione, Sez. VII penale,
ordinanza 22.01.2019 n. 2765 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il cartello dei lavori e piena conoscenza
dell’autorizzazione. La presenza del cartello dei lavori
integra una presunzione di conoscenza del provvedimento e
dei lavori, con onere di contestarli entro i 60 giorni.
La presenza del cartello dei lavori di
cantiere, per il vicino di casa, corrispondono alla piena
conoscenza della concessione edilizia e della DIA, ai fini
della decorrenza dei termini per la loro impugnazione.
Il Consiglio di Stato ha ritenuto tardivo il ricorso contro
una concessione edilizia, ritenendo che i termini
decorressero a partire dall’apposizione del cartello di
cantiere.
I principi in materia di piena conoscenza e
tempestiva contestazione dei titoli edilizi
Con specifico riferimento alla impugnazione dei titolo
edilizi, la vicinitas di un soggetto rispetto
all’area deve indurre a ritenere che lo stesso, in
particolare se residente nel lotto circostante, abbia potuto
avere più facilmente conoscenza dell’entità delle opere
anche prima della conclusione dei lavori.
Da questo punto di vista i giudici di Palazzo Spada
riprendono il principio generale, per cui la decorrenza del
termine decadenziale di impugnazione 60 giorni dalla “piena
conoscenza” del provvedimento non implica la conoscenza
piena ed integrale del provvedimento stesso, dovendosi
invece ritenere che sia sufficiente la conoscenza o la
percezione dell’esistenza di un provvedimento amministrativo
e degli aspetti che ne possono evidenziare la lesività della
sfera giuridica del potenziale ricorrente.
Pertanto, secondo il Consiglio di Stato, la presenza del
cartello dei lavori integra poi una presunzione di
conoscenza del provvedimento e della tipologia dei lavori,
cosicché una successiva richiesta di accesso non è idonea a
far differire i termini di proposizione del ricorso
La prova dell’apposizione del cartello di
cantiere
La posizione del vicino nei confronti dei titoli edilizi è
ulteriormente complicata dal fatto che l’apposizione del
cartello di cantiere si presume sempre realizzata, fino a
prova contraria
Infatti l’apposizione del cartello di cantiere deve poi
ritenersi, in assenza di prova contraria fornita
dall’appellante, intervenuta in quanto adempimento
obbligatorio per il soggetto autorizzato ai lavori.
La violazione dell’obbligo di esposizione del cartello
indicante gli estremi del permesso di costruire configura,
infatti, una ipotesi di reato, ai sensi dell’art. 27 e 44
del TU edilizia (DPR n. 380/2001), a carico del titolare del
permesso, del direttore dei lavori e dell’esecutore
(commento tratto da www.giurdanella.it).
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MASSIMA
8. L’appello non è fondato.
9. L’appellante ha impugnato con il ricorso di primo grado
la concessione edilizia n. 242 del 16.06.2003 rilasciata dal
comune de L'aquila alla società CO.BE.CO. s.r.l., per i
lavori di ristrutturazione con demolizione e ricostruzione
di un fabbricato per civile abitazione.
10. Il Tar per l’Abruzzo ha tuttavia ritenuto il ricorso
tardivo, mentre l’appellante col primo motivo di appello
deduce di aver tempestivamente notificato il ricorso.
11. La tesi dell’appellante non è fondata.
12. Il fabbricato oggetto di giudizio e per il quale è stata
rilasciata la concessione edilizia impugnata, dista pochi
metri da quello della signora Se..
12.1. Come rilevato dal Tar, tale condizione di ''vicinitas''
tra le due strutture depone in senso contrario a quanto
prospettato dall’appellante, la quale sostiene che solo in
un secondo tempo avrebbe percepito l’esatta portata delle
opere assentite.
Deve in proposito evidenziarsi che dallo stesso ricorso in
appello emerge che la ricorrente aveva percepito la lesività
dell’intervento ben prima del completamento dei lavori e, in
particolare, al più tardi alla data dell’08.09.2005, data in
cui trasmetteva al Comune una richiesta di accesso agli
atti, essendo precisato a pag. 2 che “Man mano che veniva
costruito il nuovo fabbricato l'appellante notava che questo
presentava caratteristiche del tutto diverse da quello
precedente. Pertanto, in data 08.09.2005, con lettera A.R.
n. 121189249884, pervenuta all'amministrazione in data
09.09.2005 (doc. 6), ha chiesto al Comune de L'Aquila di
prendere' visione del relativo fascicolo edilizio”.
Nello stesso senso alla pag. 4 dell’appello si ribadiva che
“l'appellante ha potuto avere la percezione dell'aumento
di cubatura e della modifica dell'altezza e della forma,
solo con la realizzazione delle opere in cemento armato;
L'appellante ha, pertanto, immediatamente inviato al comune
de L'Aquila un'istanza per visionare il fascicolo relativo
al permesso 242/03, ricevuta dallo stesso comune in data
09.09.2005, come risulta dalla relativa A.R depositata in
giudizio”.
12.2. Ciò a maggior ragione considerando che la tabella di
cantiere, contenente l’indicazione del titolo autorizzativo,
era stata affissa da tempo (all’inizio dei lavori nel giugno
2004) e che era pertanto onere dell’appellante, in relazione
alla conoscenza del provvedimento concessorio, acquisire,
mediante accesso ai relativi atti, maggiori elementi di
conoscibilità.
12.3. L’apposizione del cartello di cantiere deve poi
ritenersi, in assenza di prova contraria fornita
dall’appellante, intervenuta in quanto adempimento
obbligatorio per il soggetto autorizzato ai lavori. La
violazione dell'obbligo di esposizione del cartello
indicante gli estremi del permesso di costruire configura,
infatti, una ipotesi di reato, ai sensi dell’art. 27 e 44
del TU edilizia (DPR n. 380/2001), a carico del titolare del
permesso, del direttore dei lavori e dell'esecutore (nel
caso di specie nessuna denuncia di tale mancanza risulta
essere stata presentata dall’appellante).
12.4. In ogni caso, la stessa appellante ha ammesso che
prima della proposizione del ricorso era a conoscenza
dell’inizio dei lavori (giugno 2004) e della D.I.A. in
variante presentata il 26.01.2005 (quest’ultima relativa a
modifiche esterne rispetto ad una struttura quasi ultimata).
12.5. Il ricorso di primo grado è stato tuttavia notificato
alla Co.Be.Co il 15.11.2005 (oltre il termine del 14
novembre indicato da Cass. 02.08.1990, n. 7720), e,
comunque, al Comune solo il 16.11.2005; quindi la notifica
all’Amministrazione sarebbe in ogni caso intervenuta oltre
il termine decadenziale di sessanta giorni di cui all’art.
21, comma 1, della legge n. 1034/1971 (“Il ricorso deve
essere notificato tanto all'organo che ha emesso l'atto
impugnato quanto ai controinteressati ai quali l'atto
direttamente si riferisce, o almeno ad alcuno tra essi,
entro il termine di sessanta giorni da quello in cui
l'interessato ne abbia ricevuta la notifica, o ne abbia
comunque avuta piena conoscenza […]”).
13. D’altra parte, la decorrenza di tale termine
decadenziale di impugnazione non implica la conoscenza piena
ed integrale del provvedimento stesso, dovendosi invece
ritenere che sia sufficiente la conoscenza o la percezione
dell’esistenza di un provvedimento amministrativo e degli
aspetti che ne possono evidenziare la lesività della sfera
giuridica del potenziale ricorrente.
14. In particolare, con specifico
riferimento alla impugnazione dei titolo edilizi, la
vicinitas di un soggetto rispetto all’area deve, come
detto, indurre a ritenere che lo stesso abbia potuto avere
più facilmente conoscenza dell’entità delle opere anche
prima della conclusione dei lavori. In aggiunta, la presenza
del cartello dei lavori integra poi una presunzione di
conoscenza del provvedimento e della tipologia dei lavori,
cosicché una successiva richiesta di accesso non è idonea a
far differire i termini di proposizione del ricorso
(cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV, n. 3075/2018).
15. Restano di conseguenza assorbiti gli ulteriori motivi di
gravame.
16. Per le ragioni sopra esposte l’appello va respinto e,
per l’effetto, va confermata la sentenza impugnata (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 22.01.2019 n. 534 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La contestazione degli oneri di urbanizzazione,
qualora non vengano dedotte censure derivanti da atti
generali autoritativi di determinazione degli oneri
presupposti di quello impugnato, attengono a posizioni di
diritto soggettivo azionabili innanzi al Giudice
amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva nel
termine di prescrizione, e a prescindere dall’impugnazione
del relativo atto di imposizione.
Ciò in quanto gli atti con i quali, in applicazione dei
criteri legislativi e regolamentari stabiliti,
l’amministrazione comunale quantifica le somme dovute e le
pone a carico del titolare, sia a titolo di oblazione che a
titolo di contributo, hanno natura di atti paritetici. Fatta
quindi eccezione per le impugnative degli atti regolamentari
con i quali le Regioni e i Consigli comunali stabiliscono i
criteri generali per la determinazione del contributo, tutte
le altre controversie relative all’an e al quantum delle
somme dovute a tali titoli, riservate dalla legge alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo,
riguardano diritti soggettivi delle parti in relazione ai
quali l’amministrazione è sfornita di potestà autoritativa,
dovendo compiere un’attività di mero accertamento in base ai
parametri normativi prefissati.
Ne consegue, pertanto, il diritto per i soggetti interessati
di contestare, mediante azione di accertamento, l’erroneità
della imposizione operata dall’Amministrazione secondo i
criteri fissati in via normativa o regolamentare,
indipendentemente dalla rituale impugnazione degli atti
emanati, i quali si risolvono in definitiva in mere
operazioni materiali o di calcolo.
In secondo luogo, occorre evidenziare, in linea generale,
che il contributo di costruzione dovuto dal soggetto che
intraprenda un’iniziativa edificatoria rappresenta una
compartecipazione del privato alla spesa pubblica occorrente
alla realizzazione delle opere di urbanizzazione.
In altri termini, fin dalla legge che ha introdotto
nell’ordinamento il principio della onerosità del titolo a
costruire (art. 1 della legge n. 10 del 1977), la ragione
della compartecipazione alla spesa pubblica del privato è da
ricollegare sul piano eziologico al surplus di opere di
urbanizzazione che l’amministrazione comunale è tenuta ad
affrontare in relazione al nuovo intervento edificatorio del
richiedente il titolo edilizio.
Pertanto, laddove l’intervento edilizio non determini alcun
aumento del carico insediativo a livello urbanistico nessun
contributo risulta dovuto in capo al privato che realizza il
predetto intervento.
---------------
Per giurisprudenza costante, “i provvedimenti con cui l'ente
locale reclama somme dovute a titolo di oneri concessori non
richiedono specifica motivazione, in quanto la
determinazione di tali somme costituisce il risultato di una
mera operazione materiale, applicativa di parametri
stabiliti dalla legge o da norme di natura regolamentare
stabilite dall'Amministrazione”.
---------------
1. Parte ricorrente impugna il provvedimento del Comune di
Nova Milanese che ingiunge alla società il pagamento della
somma complessiva pari ad euro 143.082,64 a titolo di
contributo di costruzione (oneri di urbanizzazione e costo
di costruzione) per gli interventi realizzati sull’immobile
sito a Nova Milanese, in via ..., n. 21 piano T-1-S1 (foglio
2, particella 26 sub 707).
2. Il Collegio ritiene di poter esaminare congiuntamente i
due motivi di ricorso articolati dalla società in ragione
dell’evidente connessione tra gli stessi. Infatti, con il
primo motivo la società ricorrente lamenta sotto plurimi
profili l’insussistenza dei presupposti per la richiesta di
pagamento formulata dall’Amministrazione comunale. Con il
secondo motivo la Sa.Be. – società Immobiliare s.r.l.
censura il provvedimento impugnato per difetto di
istruttoria e di motivazione.
2.1. Prima di entrare nel merito, pare opportuno evidenziare
come la controversia debba ascriversi nell’alveo della
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Infatti, secondo un consolidato orientamento
giurisprudenziale la contestazione degli oneri di
urbanizzazione, qualora non vengano dedotte censure
derivanti da atti generali autoritativi di determinazione
degli oneri presupposti di quello impugnato, attengono a
posizioni di diritto soggettivo azionabili innanzi al
Giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva
nel termine di prescrizione, e a prescindere
dall’impugnazione del relativo atto di imposizione (cfr.,
ex multis, Consiglio di Stato, sez. V, 27.09.2004, n.
6281, Id., sez. V, 09.02.2001, n. 584, Id., sez. V,
21.04.2006, n. 2258).
Ciò in quanto gli atti con i quali, in applicazione dei
criteri legislativi e regolamentari stabiliti,
l’amministrazione comunale quantifica le somme dovute e le
pone a carico del titolare, sia a titolo di oblazione che a
titolo di contributo, hanno natura di atti paritetici. Fatta
quindi eccezione per le impugnative degli atti regolamentari
con i quali le Regioni e i Consigli comunali stabiliscono i
criteri generali per la determinazione del contributo, tutte
le altre controversie relative all’an e al quantum
delle somme dovute a tali titoli, riservate dalla legge alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo,
riguardano diritti soggettivi delle parti in relazione ai
quali l’amministrazione è sfornita di potestà autoritativa,
dovendo compiere un’attività di mero accertamento in base ai
parametri normativi prefissati (in questi termini: Consiglio
di Stato, sez. V, 22.11.1996, n. 1388; in termini, cfr.
anche: TAR per la Campania – sede di Napoli, sez. III,
17.09.2009, n. 4983; TAR per il Lazio – sede di Roma, sez.
II, 15.11.2006, n. 12461; TAR per la Puglia – sede di Lecce,
sez. III, 13.05.2005, n. 2744).
Ne consegue, pertanto, il diritto per i soggetti interessati
di contestare, mediante azione di accertamento, l’erroneità
della imposizione operata dall’Amministrazione secondo i
criteri fissati in via normativa o regolamentare,
indipendentemente dalla rituale impugnazione degli atti
emanati, i quali si risolvono in definitiva in mere
operazioni materiali o di calcolo (TAR per la Campania, sede
di Napoli, sez. III, 17.09.2009, n. 4983).
2.2. In secondo luogo, occorre evidenziare, in linea
generale, che il contributo di costruzione dovuto dal
soggetto che intraprenda un’iniziativa edificatoria “rappresenta
una compartecipazione del privato alla spesa pubblica
occorrente alla realizzazione delle opere di urbanizzazione.
In altri termini, fin dalla legge che ha introdotto
nell’ordinamento il principio della onerosità del titolo a
costruire (art. 1 della legge n. 10 del 1977), la ragione
della compartecipazione alla spesa pubblica del privato è da
ricollegare sul piano eziologico al surplus di opere di
urbanizzazione che l’amministrazione comunale è tenuta ad
affrontare in relazione al nuovo intervento edificatorio del
richiedente il titolo edilizio” (Consiglio di Stato,
Adunanza plenaria, 07.12.2016, n. 24).
Pertanto, laddove l’intervento edilizio non determini alcun
aumento del carico insediativo a livello urbanistico nessun
contributo risulta dovuto in capo al privato che realizza il
predetto intervento (cfr., ancora, TAR per la Lombardia –
sede di Milano – sez. II, 10.05.2018, n. 1242; Id., sez. II,
08.01.2019, n. 32).
...
4. In ultimo, risulta infondato il secondo motivo di
ricorso con il quale si lamenta la carenza di motivazione
del provvedimento.
In primo luogo, va notato che, per giurisprudenza costante,
“i provvedimenti con cui l'ente locale reclama somme
dovute a titolo di oneri concessori non richiedono specifica
motivazione, in quanto la determinazione di tali somme
costituisce il risultato di una mera operazione materiale,
applicativa di parametri stabiliti dalla legge o da norme di
natura regolamentare stabilite dall'Amministrazione” (cfr.,
da ultimo, TAR per la Puglia – sede di Lecce, sez. I,
04.09.2018, n. 1319).
In ogni caso, le doglianze della ricorrente sono relative
all’assenza di un effettivo accertamento sulle
caratteristiche degli interventi e sul mutamento della
destinazione d’uso con aumento del carico urbanistico.
Censure che, come spiegato, risultano infondate nel merito e
non costituiscono neppure omissioni della motivazione.
Infatti, il provvedimento richiama ai punti 3.1 e 3.2 le
note dello S.U.E. del 30.03.2016 e del 10.05.2016 ove sono
compiutamente spiegate le ragioni a sostegno della richiesta
di pagamento.
Va poi considerato che la controversia in ordine alla
spettanza e alla liquidazione del contributo per gli oneri
di urbanizzazione, riservata alla giurisdizione esclusiva
del giudice amministrativo a norma dell'art. 16 della L. n.
10 del 1977 e, oggi, dell'articolo 133, comma 1, lettera f),
c.p.a., ha ad oggetto l'accertamento di un rapporto di
credito, come di recente ribadito dalla sentenza
dell’Adunanza plenaria, 30.08.2018, n. 12, con conseguente
inoperatività delle regole tipiche dell’attività
autoritativa che, comunque, risultano rispettate nel caso di
specie (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 22.01.2019 n. 124 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Secondo un consolidato orientamento
giurisprudenziale, le convenzioni urbanistiche rientrano nel
novero degli accordi tra privati e amministrazione, ai sensi
dell’articolo 11 della legge n. 241 del 1990.
Tale qualificazione impone che l’interpretazione della
convenzione avvenga utilizzando i criteri ermeneutici di cui
agli articoli 1362 e seguenti del codice civile, visto
l’esplicito richiamo di cui al comma 2 dell’art. 11
medesimo, e come, del resto, confermato dalla
giurisprudenza, sia di questo Tribunale sia del Consiglio di
Stato.
L’operazione ermeneutica indicata al precedente punto deve,
quindi, necessariamente prendere le mosse dalla disposizione
contenuta all’interno dell’articolo 1362 c.c. a mente della
quale: “1. Nell'interpretare il contratto si deve indagare
quale sia stata la comune intenzione delle parti e non
limitarsi al senso letterale delle parole. 2. Per
determinare la comune intenzione delle parti, si deve
valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore
alla conclusione del contratto”.
Sul punto, la giurisprudenza della Corte di Cassazione
chiarisce che:
a) “ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti il
primo e principale strumento è rappresentato dal senso
letterale delle parole e delle espressioni utilizzate”;
b) “il rilievo da assegnare alla formulazione letterale va invero
verificato alla luce dell'intero contesto contrattuale, le
singole clausole dovendo essere considerate in correlazione
tra loro procedendosi al relativo coordinamento ai sensi
dell'art. 1363 c.c., giacché per senso letterale delle
parole va intesa tutta la formulazione letterale della
dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola
che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una
singola clausola di un contratto composto di più clausole,
dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e
parole al fine di chiarirne il significato”.
Inoltre, la Corte di Cassazione sottolinea che: “pur
assumendo l'elemento letterale funzione fondamentale nella
ricerca della reale o effettiva volontà delle parti, il
giudice deve invero a tal fine necessariamente riguardarlo
alla stregua degli ulteriori criteri di interpretazione, e
in particolare di quelli (quali primari criteri
d'interpretazione soggettiva, e non già oggettiva, del
contratto) dell'interpretazione funzionale ex art. 1369 c.c.
e dell'interpretazione secondo buona fede o correttezza ex
art. 1366 c.c., avendo riguardo allo scopo pratico
perseguito dalle parti con la stipulazione del contratto e
quindi alla relativa causa concreta.
Il primo di tali criteri (art. 1369 c.c.) consente di
accertare il significato dell'accordo in coerenza appunto
con la relativa ragione pratica o causa concreta. L'obbligo
di buona fede oggettiva o correttezza ex art. 1366 c.c.
quale criterio d'interpretazione del contratto (fondato
sull'esigenza definita in dottrina di "solidarietà
contrattuale") si specifica in particolare nel significato
di lealtà, sostanziantesi nel non suscitare falsi
affidamenti e non speculare su di essi, come pure nel non
contestare ragionevoli affidamenti comunque ingenerati nella
controparte.
A tale stregua esso non consente di dare ingresso ad
interpretazioni cavillose delle espressioni letterali
contenute nelle clausole contrattuali, non rispondenti alle
intese raggiunte e deponenti per un significato in contrasto
con la ragione pratica o causa concreta dell'accordo
negoziale.
Assume dunque fondamentale rilievo che il contratto venga
interpretato avuto riguardo alla sua ratio, alla sua ragione
pratica, in coerenza con gli interessi che le parti hanno
specificamente inteso tutelare mediante la stipulazione
contrattuale, con convenzionale determinazione della regola
volta a disciplinare il rapporto contrattuale (art. 1372 c.c.)”.
---------------
1. Parte ricorrente impugna il provvedimento del Comune di
Nova Milanese che ingiunge alla società il pagamento della
somma complessiva pari ad euro 143.082,64 a titolo di
contributo di costruzione (oneri di urbanizzazione e costo
di costruzione) per gli interventi realizzati sull’immobile
sito a Nova Milanese, in via ..., n. 21 piano T-1-S1 (foglio
2, particella 26 sub 707).
...
3. Entrando nel merito, occorre preliminarmente verificare
la correttezza della qualificazione degli interventi
effettuata dall’Amministrazione che ritiene complessivamente
realizzata una ristrutturazione edilizia. La valutazione si
sorregge sulle risultanze del computo metrico effettuato dal
responsabile dello S.U.E. del Comune di Nova Milanese,
allegato all’ordinanza ingiunzione. Tale documento indica
una serie di interventi ritenuti significativi per
l’imposizione del contributo, suddivisi tra la fase di
demolizione e quella di ricostruzione.
In relazione alla prima fase il documento elenca: a) la
demolizione parziale di elementi di fabbricati (cemento
armato) entro terra effettuati con mezzi meccanici; b) la
demolizione di strutture di rampe e pianerottoli di scale
con strutture in cemento armato e con strutture in legno e
ferro; c) la demolizione di tavolati interni, carico e
trasporto discarica; d) la demolizione massetti, anche
armati, in calcestruzzo, compreso abbassamento del piano di
carico; e) la rimozione del rivestimento dei gradini; f) la
rimozione del rivestimento degli interni; g) la rimozione
dei pavimenti esterni; h) la rimozione della
controsoffittatura; i) la rimozione dei serramenti in legno
e ferro; l) la rimozione delle linee di alimentazione
impiantistiche compreso abbassamento del piano di carico; m)
la rimozione completa dell’impianto dell’ascensore; n) il
taglio di strutture in conglomerato cementizio per
formazione di giunti, tagli, aperture vani.
Inoltre, per la fase di ricostruzione il documento indica:
a) la fornitura e posa in opera di calcestruzzo durevole in
accordo con la UNI En 206-1 e UNI 11104; b) la fornitura,
lavorazione e posa in opera di acciaio per cemento armato
secondo UNI EN 13670; c) la realizzazione di casseri per
fondazioni continue, travi rovesce e platee; d) la
realizzazione di casseri per pareti in elevazione per vani
scala ed ascensori con altezza netta del piano di appoggio
fino a 3.50 m; e) le murature a cassa vuota per chiusure
perimetrali; f) il Tavolato interno di laterizio; g)
l’intonaco delle pareti; h) la posa di isolamento termico
compatto con sbarramento al gas Radon Rn222 sotto strutture
di fondazioni orizzontali in falda (plinti, fondazioni
continue, platee), eseguito con lastre o pannelli rigidi in
vetro cellulare; h) la realizzazione di un vespaio areato
costituito con casseri; i) la realizzazione di un massetto
cementizio; l) la fornitura e posa in opera di rete zincata
antiritiro; m) la realizzazione di controsoffitto; n) la
realizzazione di pavimento; o) la realizzazione di
servoscala; p) la realizzazione di ascensore per disabili;
q) la realizzazione di impianti di montacarichi; r) la
realizzazione di impianto idrico ed elettrico; s) la
realizzazione di finestre e portefinestre in acciaio; t) la
realizzazione di impianti di condizionamento.
3.1. Dall’indicazione fornita nel documento allegato al
provvedimento impugnato e non contestato dalla parte
ricorrente, emerge con chiarezza come gli interventi
complessivamente realizzati costituiscano una
ristrutturazione edilizia.
Come ricordato da costante giurisprudenza, “ai sensi
dell'art. 10, comma 1, lettera c), tu edilizia, le opere di
ristrutturazione edilizia” consistono in interventi che
portano “ad un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente e comportino, modifiche del volume o
dei prospetti, nonché gli interventi che comportino
modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli
ai sensi del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42” (cfr., da ultimo,
Consiglio di Stato, sez. VI, 14.01.2019, n. 317).
Nel caso di specie, la creazione di un organismo
parzialmente diverso da quello preesistente risulta
agevolmente verificabile dalla disamina dei lavori
complessivamente svolti che comportano la demolizione di
elementi di fabbricati, la realizzazione di scale ed
ascensori per disabili, la realizzazione di tavolati
interni, massetti in calcestruzzo, anche armati, il taglio
di strutture in conglomerato cementizio, la creazione di
vespai. Pertanto, complessivamente considerati gli
interventi non possono che ritenersi rientranti nella
nozione di ristrutturazione edilizia con conseguente onere
di pagamento del contributo di costruzione.
3.2. In ragione di quanto esposto al precedente punto, il
provvedimento comunale risulta conforme alle disposizioni
normative vigenti e alla previsione abilitante la
valutazione complessiva degli interventi ai fini della
determinazione del contributo di costruzione.
Il riferimento è alla previsione di cui all’articolo 15,
comma 5, del Regolamento Edilizio del Comune di Nova
Milanese che, ex aliis, preclude “l’artificioso
frazionamento degli interventi finalizzato ad eludere il
versamento del contributo di costruzione o ad operare
nell’ambito di una tipologia di intervento per il quale
siano previste procedure più snelle”, consentendo allo
S.U.E. di prendere in considerazione “precedenti
interventi eseguiti nell’ultimo quinquennio”.
Né l’esclusione di tale disposizione può giustificarsi in
ragione della necessità di venire incontro alla richieste
formulate nel tempo da parte della locataria degli immobili
atteso che è onere della ricorrente verificare
preventivamente se tali richieste non incidano sugli impegni
convenzionalmente assunti e, più in generale, sulle
conseguenze delle risposte positive a tali richieste in
termini di oneri concessori.
3.3. Inoltre, deve osservarsi come non sia fornita dalla
parte una smentita puntuale della ricostruzione effettuata
dal Comune considerato che la documentazione fotografica
allegata (documento n. 20 di parte ricorrente) si riferisce
esclusivamente all’esterno dell’immobile mentre, nel caso di
specie, la comparazione deve essere effettuata in relazione
all’assetto interno, oggetto dei plurimi interventi
realizzati. Né tale smentita è offerta nel corso del
procedimento tenuto conto che la parte nega al Comune la
possibilità di un sopralluogo impedendo, in tal modo, di
apprezzare l’effettivo stato dell’immobile.
Il diniego all’accesso non pare, inoltre, sorretto da
apprezzabili ragioni. La parte evidenzia che il sopralluogo
sarebbe “pretestuoso e non dovuto” atteso che un
precedente sopralluogo viene svolto in occasione del
rilascio del certificato di agibilità. Tuttavia, è evidente
come si sarebbe trattato di un sopralluogo dettato da una
diversa necessità ed ossia da quella di apprezzare il
complesso degli interventi eseguiti.
3.4. L’operazione di qualificazione degli interventi
effettuata dal Comune non risulta illegittima per mancata
rimozione dei titoli che, come ribadito dall’Amministrazione
in sede procedimentale e processuale, rimangono validi ed
efficaci. Infatti, la richiesta di intervento postula la
validità del titolo e non ne impone la preventiva rimozione
atteso che, diversamente, la richiesta di pagamento
risulterebbe priva di causa. Né una diversa conclusione può
affermarsi in ragione della previsione di cui all’articolo 7
della convenzione del 15.11.2012 atteso che l’esonero dal
pagamento del contributo si riferisce ai soli interventi di
manutenzione e già aventi destinazione d’uso direzionale.
Deve considerarsi, infatti, che secondo un consolidato
orientamento giurisprudenziale, le convenzioni urbanistiche
–come quella in esame– rientrano nel novero degli accordi
tra privati e amministrazione, ai sensi dell’articolo 11
della legge n. 241 del 1990 (cfr., ex multis: Cassazione
civile, sez. I, 28.01.2015, n. 1615; Cassazione civile,
sezioni unite, 09.03.2012, n. 3689; nella giurisprudenza di
questa sezione, cfr. TAR per la Lombardia – sede di Milano,
sez. II, 18.06.2018, n. 1525).
Tale qualificazione impone che l’interpretazione della
convenzione avvenga utilizzando i criteri ermeneutici di cui
agli articoli 1362 e seguenti del codice civile, visto
l’esplicito richiamo di cui al comma 2 dell’art. 11
medesimo, e come, del resto, confermato dalla
giurisprudenza, sia di questo Tribunale sia del Consiglio di
Stato (cfr., ex multis, TAR per la Lombardia – sede
di Milano, sez. II, 05.05.2015, n. 1103, e la giurisprudenza
ivi richiamata; Consiglio di Stato, sez. IV, 17.12.2014, n.
6164).
3.4.1. L’operazione ermeneutica indicata al precedente punto
deve, quindi, necessariamente prendere le mosse dalla
disposizione contenuta all’interno dell’articolo 1362 c.c. a
mente della quale: “1. Nell'interpretare il contratto si
deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle
parti e non limitarsi al senso letterale delle parole. 2.
Per determinare la comune intenzione delle parti, si deve
valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore
alla conclusione del contratto”.
Sul punto, la giurisprudenza della Corte di Cassazione
chiarisce che:
a) “ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti
il primo e principale strumento è rappresentato dal senso
letterale delle parole e delle espressioni utilizzate” (cfr.,
Cassazione civile, sez. III, 19.03.2018, n. 6675);
b) “il rilievo da assegnare alla formulazione letterale va
invero verificato alla luce dell'intero contesto
contrattuale, le singole clausole dovendo essere considerate
in correlazione tra loro procedendosi al relativo
coordinamento ai sensi dell'art. 1363 c.c., giacché per
senso letterale delle parole va intesa tutta la formulazione
letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte
ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte
soltanto, quale una singola clausola di un contratto
composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e
raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il
significato” (Cfr. Cassazione civile, sez. III,
16.01.2007, n. 828; Cassazione civile, sez. I, 22.12.2005,
n. 28479).
Inoltre, la Corte di Cassazione sottolinea che: “pur
assumendo l'elemento letterale funzione fondamentale nella
ricerca della reale o effettiva volontà delle parti, il
giudice deve invero a tal fine necessariamente riguardarlo
alla stregua degli ulteriori criteri di interpretazione, e
in particolare di quelli (quali primari criteri
d'interpretazione soggettiva, e non già oggettiva, del
contratto: v. Cass., 23/10/2014, n. 22513; Cass.,
27/06/2011, n. 14079; Cass., 23/05/2011, n. 11295; Cass.,
19/05/2011, n. 10998; con riferimento agli atti unilaterali
v. Cass., 06/05/2015, n. 9006) dell'interpretazione
funzionale ex art. 1369 c.c. e dell'interpretazione secondo
buona fede o correttezza ex art. 1366 c.c., avendo riguardo
allo scopo pratico perseguito dalle parti con la
stipulazione del contratto e quindi alla relativa causa
concreta (cfr. Cass., 23/05/2011, n. 11295).
Il primo di tali criteri (art. 1369 c.c.) consente di
accertare il significato dell'accordo in coerenza appunto
con la relativa ragione pratica o causa concreta. L'obbligo
di buona fede oggettiva o correttezza ex art. 1366 c.c.
quale criterio d'interpretazione del contratto (fondato
sull'esigenza definita in dottrina di "solidarietà
contrattuale") si specifica in particolare nel significato
di lealtà, sostanziantesi nel non suscitare falsi
affidamenti e non speculare su di essi, come pure nel non
contestare ragionevoli affidamenti comunque ingenerati nella
controparte (v. Cass., 06/05/2015, n. 9006; Cass.,
23/10/2014, n. 22513; Cass., 25/05/2007, n. 12235; Cass.,
20/05/2004, n. 9628).
A tale stregua esso non consente di dare ingresso ad
interpretazioni cavillose delle espressioni letterali
contenute nelle clausole contrattuali, non rispondenti alle
intese raggiunte (v. Cass., 23/05/2011, n. 11295) e
deponenti per un significato in contrasto con la ragione
pratica o causa concreta dell'accordo negoziale (cfr., con
riferimento alla causa concreta del contratto autonomo di
garanzia, Cass., Sez. Un., 18/02/2010, n. 3947).
Assume dunque fondamentale rilievo che il contratto venga
interpretato avuto riguardo alla sua ratio, alla sua ragione
pratica, in coerenza con gli interessi che le parti hanno
specificamente inteso tutelare mediante la stipulazione
contrattuale (v. Cass., 22/11/2016, n. 23701), con
convenzionale determinazione della regola volta a
disciplinare il rapporto contrattuale (art. 1372 c.c.)”
(Cassazione civile, sez. III, 19.03.2018, n. 6675).
3.4.2. Applicando le coordinate ermeneutiche sopra tracciate
al caso di specie, deve ritenersi che con la clausola si sia
inteso esclusivamente determinare un esonero dal versamento
del pagamento nei casi di realizzazione di interventi
meramente manutentivi. La clausola, al contrario, non
inibisce la formazione dei titoli edilizi che, come
osservato dal Comune, continuano a permanere validi ed
efficaci e non possono annullarsi per la sola contrarietà
alla clausola.
Ciò che le parti hanno inteso disciplinare è, pertanto, la
sola esclusione del pagamento ove gli interventi rimangano
nell’alveo stabilito in sede convenzionale. Ne consegue che,
superato il perimetro applicativo della clausola, trovano
applicazione le regole generali che impongono il pagamento
del contributo. Del resto, la clausola appare rispondente al
principio generale indicato al punto 2.2 di questa parte
della presente sentenza ove si esclude l’onere di pagamento
in caso di mancato aumento dell’onere insediativo che, al
contrario, si realizza nel caso di specie (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 22.01.2019 n. 124 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La disposizione di cui all’articolo 43, comma 1,
della L.R. 12 del 2005 prevede: “I titoli abilitativi per
interventi di nuova costruzione, ampliamento di edifici
esistenti e ristrutturazione edilizia sono soggetti alla
corresponsione degli oneri di urbanizzazione primaria e
secondaria, nonché del contributo sul costo di costruzione,
in relazione alle destinazioni funzionali degli interventi
stessi”.
Come notato dalla sezione, la disposizione “non distingue,
all’interno della categoria della ristrutturazione edilizia,
fra interventi che determinano ed interventi che
non determinano un aumento del carico urbanistico”;
distinzione che, al contrario, viene presa in considerazione
dalla normativa statale di riferimento.
Tuttavia, “l’aumento del carico urbanistico non si realizza
solo in caso di modifica della destinazione funzionale
dell’immobile, ben potendo accadere che, come nel caso in
esame, esso si determini anche qualora la destinazione non
venga mutata, essendo a tal fine esclusivamente rilevante la
circostanza che le opere si prestino a rendere la struttura
un polo di attrazione per un maggior numero di persone con
conseguente necessità di più intenso utilizzo delle
urbanizzazioni esistenti”.
Nel caso di specie, l’immobile perde la destinazione
originariamente assentita ed assume una diversa funzione
divenendo un polo attrattivo per l’attività di ristorazione
ivi svolta e determinando un vantaggio patrimoniale per il
proprietario, testimoniato dal bilancio d’esercizio prodotto
dalla difesa comunale.
Pertanto, pur ammettendo il mancato mutamento della
destinazione, sussistono, in ogni caso, le circostanze che
legittimano la pretesa comunale.
---------------
1. Parte ricorrente impugna il provvedimento del Comune di
Nova Milanese che ingiunge alla società il pagamento della
somma complessiva pari ad euro 143.082,64 a titolo di
contributo di costruzione (oneri di urbanizzazione e costo
di costruzione) per gli interventi realizzati sull’immobile
sito a Nova Milanese, in via ..., n. 21 piano T-1-S1 (foglio
2, particella 26 sub 707).
...
3.5. In relazione al profilo da ultimo evidenziato nel
precedente punto deve poi osservarsi come la disposizione di
cui all’articolo 43, comma 1, della L.R. 12 del 2005
preveda: “I titoli abilitativi per interventi di nuova
costruzione, ampliamento di edifici esistenti e
ristrutturazione edilizia sono soggetti alla corresponsione
degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, nonché
del contributo sul costo di costruzione, in relazione alle
destinazioni funzionali degli interventi stessi”.
Come notato dalla sezione, la disposizione “non
distingue, all’interno della categoria della
ristrutturazione edilizia, fra interventi che determinano
ed interventi che non determinano un aumento del
carico urbanistico”; distinzione che, al contrario,
viene presa in considerazione dalla normativa statale di
riferimento (TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II,
04.08.2016, n. 1561).
Tuttavia, nel caso di specie, non risulta necessario porsi
il problema relativo alla prevalenza di uno dei due
complessi normativi atteso che, comunque, si realizza un
aumento del carico urbanistico.
Come spiegato dalla sentenza della sezione in ultimo
richiamata, “l’aumento del carico urbanistico non si
realizza solo in caso di modifica della destinazione
funzionale dell’immobile, ben potendo accadere che, come nel
caso in esame, esso si determini anche qualora la
destinazione non venga mutata, essendo a tal fine
esclusivamente rilevante la circostanza che le opere si
prestino a rendere la struttura un polo di attrazione per un
maggior numero di persone con conseguente necessità di più
intenso utilizzo delle urbanizzazioni esistenti” (TAR
per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 04.08.2016, n.
1561).
Nel caso di specie, l’immobile perde la destinazione
originariamente assentita ed assume una diversa funzione
divenendo un polo attrattivo per l’attività di ristorazione
ivi svolta e determinando un vantaggio patrimoniale per il
proprietario, testimoniato dal bilancio d’esercizio prodotto
dalla difesa comunale. Pertanto, pur ammettendo il mancato
mutamento della destinazione, sussistono, in ogni caso, le
circostanze che legittimano la pretesa comunale (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 22.01.2019 n. 124 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA
- TRIBUTI:
RIFIUTI - Criteri di assimilabilità ai rifiuti urbani i
rifiuti speciali - Potere regolamentare dei Comuni in
assenza del decreto Ministeriale - Criteri qualitativi e
quantitativi per la gestione dei rifiuti speciali assimilati
a quelli urbani - Art. 195, c. 2, lett. e), d.lgs. n.
152/2006.
L'articolo 195, comma 2, lettera e), del
d.lgs. n. 152 del 2006 non può, in virtù di disposizioni
dotate anch'esse di forza di legge, divenire operativo in
assenza del decreto del Ministro dell'ambiente e della
tutela del territorio e del mare, adottato d'intesa con il
Ministro dello sviluppo economico, il quale è finalizzato a
definire "i criteri per l'assimilabilità ai rifiuti urbani"
ed è menzionato nello stesso articolo 195.
Pertanto, continua a sussistere il potere regolamentare dei
Comuni di assimilare a quelli urbani i rifiuti speciali, che
era stato mantenuto fermo dall'articolo 21, comma 2, lettera
g), del d.lgs. n. 22 del 1997, sicché la deliberazione
relativa, ove adottata, costituisce titolo per la
riscossione della tassa nei confronti dei soggetti che tali
rifiuti producano nel territorio comunale, a prescindere dal
fatto che il contribuente ne affidi a terzi lo smaltimento.
A conferma della inapplicabilità del d.lgs. n. 152 del 2006
la giurisprudenza di legittimità menziona pure la sentenza
n. 4611/2017 del Tar Lazio, che ha imposto al Ministero
dell'Ambiente di adottare con decreto i criteri qualitativi
e quantitativi per la gestione dei rifiuti speciali
assimilati a quelli urbani
(Cass., Sez. 5, n. 9214 del 13/04/2018; Cass., Sez. 5, n.
1987 del 26/01/2018; Cass., Sez. 5, n. 18101 del 21/07/2017;
Cass., Sez. 5, n. 17932 del 06/09/2004; Cass., Sez. 5, n.
4960 del 02/03/2018) (Corte
di Cassazione, Sez. V civile,
ordinanza 18.01.2019 n. 1344 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
In caso di rinvenimento di rifiuti da parte di
terzi ignoti, il proprietario non può essere chiamato a
rispondere della fattispecie di abbandono o deposito
incontrollato di rifiuti sulla propria area se non viene
individuato a suo carico l'elemento soggettivo del dolo o
della colpa, per cui lo stesso soggetto non può essere
destinatario di ordinanza sindacale di rimozione e rimessione
in pristino.
Tanto perché l'art. 14 D.L.vo 05.02.1997, n. 22, in
tema di divieto di abbandono incontrollato sul suolo e nel
suolo, oltre a chiamare a rispondere dell'illecito
ambientale l'eventuale "responsabile dell'inquinamento",
accolla in solido anche al proprietario dell'area la
rimozione, l'avvio a recupero o lo smaltimento dei rifiuti
ed il ripristino dello stato dei luoghi, ma ciò solo nel
caso in cui la violazione sia imputabile a titolo di dolo o
di colpa.
Tale rigorosa disciplina trova conferma nel sistema
normativo attualmente vigente, quale quello del D.L.vo n.
152/2006, segnatamente nel disposto di cui all'art. 192, in
tema di ambiente, con la conseguente illegittimità degli
ordini di smaltimento dei rifiuti indiscriminatamente
rivolti al proprietario di un fondo in ragione della sua
mera qualità ed in mancanza di adeguata dimostrazione da
parte dell'Amministrazione procedente, sulla base di
un'istruttoria completa e di un'esauriente motivazione,
dell'imputabilità soggettiva della condotta.
In siffatto disposto normativo tutto incentrato su una
rigorosa tipicità dell'illecito ambientale, alcun spazio v'è
per una responsabilità oggettiva, nel senso che -in base
all'art. 192- per essere ritenuti responsabili della
violazione dalla quale è scaturita la situazione di
inquinamento, occorre quantomeno la colpa. E tale regola di
imputabilità a titolo di dolo o colpa non ammette eccezioni,
anche in relazione ad un'eventuale responsabilità solidale
del proprietario dell'area ove si è verificato l'abbandono
ed il deposito incontrollato di rifiuti sul suolo e nel
suolo.
Infatti non facendosi cenno nell'ordinanza impugnata ad
accertamenti o a verifiche dai quali emerga che l'abbandono
dei rifiuti sia ascrivibile (anche) a responsabilità dei
ricorrenti, una presunta culpa in vigilando di questi ultimi
(comunque non evidenziata nel gravato provvedimento) non
sarebbe in ogni caso sufficiente ad addebitargli la
responsabilità per lo sversamento di rifiuti.
Infatti, il dovere di diligenza che fa carico al titolare
del fondo, non può arrivare al punto di richiedere un
costante vigilanza, da esercitarsi giorno e notte, per
impedire ad estranei di invadere l'area e, per quanto
riguarda la fattispecie regolata dall'art. 14, comma 3, del
D.L.vo n. 22 del 1997 (ora art. 192 del D.L.vo n. 152 del
2006) di abbandonarvi rifiuti. La richiesta di un impegno di
tale entità travalicherebbe oltremodo gli ordinari canoni
della diligenza media (e del buon padre di famiglia) che è
alla base della nozione di colpa.
Ne deriva che, in tale situazione, e senza che sia stato
comprovato l'esistenza di un nesso causale tra la condotta
del proprietario e l'abusiva immissione di rifiuti
nell'ambiente, un concreto obbligo di garanzia a carico dei
ricorrenti, per la mera qualità di proprietari, sarebbe
inesigibile, in quanto riconducibile ad una responsabilità
oggettiva che, però, esula anche dal dovere di custodia di
cui all'art. 2051 cod. civ., il quale consente sempre la
prova liberatoria in presenza di caso fortuito (da
intendersi in senso ampio, comprensiva anche del fatto del
terzo e della colpa esclusiva del danneggiato).
---------------
Mentre l'art. 7 della legge n. 241/1990, con previsione di
carattere generale, prescrive la doverosa comunicazione
dell'avvio del procedimento agli interessati, l'art. 192,
comma 3, D.L.vo n. 152/2006, nella specifica materia
ambientale, prescrive che i controlli svolti
dall'Amministrazione riguardo all'abbandono di rifiuti
debbano essere effettuati in contraddittorio con i soggetti
interessati, con la conseguente osservanza delle regole che
garantiscono la partecipazione dell'interessato
all'istruttoria amministrativa.
---------------
11. Peraltro, a prescindere da tale motivo di carattere
assorbente, il ricorso appare fondato anche in relazione
agli ulteriori due motivi di ricorso.
12. Quanto al secondo motivo di ricorso va rammentato che la
giurisprudenza ha infatti evidenziato in numerose occasioni
(ex multis, cfr.: TAR Campania, sez. V, 06.10.2008,
n. 13004), che, in caso di rinvenimento di rifiuti da parte
di terzi ignoti, il proprietario non può essere chiamato a
rispondere della fattispecie di abbandono o deposito
incontrollato di rifiuti sulla propria area se non viene
individuato a suo carico l'elemento soggettivo del dolo o
della colpa, per cui lo stesso soggetto non può essere
destinatario di ordinanza sindacale di rimozione e rimessione in pristino (cfr.: TAR Campania, Sez. I; 19.03.2004, n. 3042, TAR Toscana, 12.05.2003, n.
1548, C. di S., IV Sez. 20.01.2003, n. 168).
Tanto perché l'art. 14 D.L.vo 05.02.1997, n. 22, in
tema di divieto di abbandono incontrollato sul suolo e nel
suolo, oltre a chiamare a rispondere dell'illecito
ambientale l'eventuale "responsabile dell'inquinamento",
accolla in solido anche al proprietario dell'area la
rimozione, l'avvio a recupero o lo smaltimento dei rifiuti
ed il ripristino dello stato dei luoghi, ma ciò solo nel
caso in cui la violazione sia imputabile a titolo di dolo o
di colpa (Cfr.: TAR Lombardia, Sez. I, 26.01.2000,
n. 292 e TAR Umbria 10.03.2000, n. 253).
Tale rigorosa disciplina trova conferma nel sistema
normativo attualmente vigente, quale quello del D.L.vo n.
152/2006, segnatamente nel disposto di cui all'art. 192, in
tema di ambiente, con la conseguente illegittimità degli
ordini di smaltimento dei rifiuti indiscriminatamente
rivolti al proprietario di un fondo in ragione della sua
mera qualità ed in mancanza di adeguata dimostrazione da
parte dell'Amministrazione procedente, sulla base di
un'istruttoria completa e di un'esauriente motivazione,
dell'imputabilità soggettiva della condotta (Cfr. C. di S.,
V, 19.03.2009, n. 1612, 25.08.2008, n. 4061).
In siffatto disposto normativo tutto incentrato su una
rigorosa tipicità dell'illecito ambientale, alcun spazio v'è
per una responsabilità oggettiva, nel senso che -in base
all'art. 192- per essere ritenuti responsabili della
violazione dalla quale è scaturita la situazione di
inquinamento, occorre quantomeno la colpa. E tale regola di
imputabilità a titolo di dolo o colpa non ammette eccezioni,
anche in relazione ad un'eventuale responsabilità solidale
del proprietario dell'area ove si è verificato l'abbandono
ed il deposito incontrollato di rifiuti sul suolo e nel
suolo (TAR Campania, sez. V 03/03/2014 n. 1294).
Infatti non facendosi cenno nell'ordinanza impugnata ad
accertamenti o a verifiche dai quali emerga che l'abbandono
dei rifiuti sia ascrivibile (anche) a responsabilità dei
ricorrenti, una presunta culpa in vigilando di questi ultimi
(comunque non evidenziata nel gravato provvedimento) non
sarebbe in ogni caso sufficiente ad addebitargli la
responsabilità per lo sversamento di rifiuti.
Infatti, il dovere di diligenza che fa carico al titolare
del fondo, non può arrivare al punto di richiedere un
costante vigilanza, da esercitarsi giorno e notte, per
impedire ad estranei di invadere l'area e, per quanto
riguarda la fattispecie regolata dall'art. 14, comma 3, del
D.L.vo n. 22 del 1997 (ora art. 192 del D.L.vo n. 152 del
2006) di abbandonarvi rifiuti. La richiesta di un impegno di
tale entità travalicherebbe oltremodo gli ordinari canoni
della diligenza media (e del buon padre di famiglia) che è
alla base della nozione di colpa, (Cfr., ex plurimis: C. di
S., Sez. V, 08.03.2005, n. 935; TAR Campania, Sez. V,
05.08.2008, n. 9795; TAR Campania, sez. V 03/03/2014 n. 1294 cit.).
Ne deriva che, in tale situazione, e senza che sia stato
comprovato l'esistenza di un nesso causale tra la condotta
del proprietario e l'abusiva immissione di rifiuti
nell'ambiente, un concreto obbligo di garanzia a carico dei
ricorrenti, per la mera qualità di proprietari, sarebbe
inesigibile, in quanto riconducibile ad una responsabilità
oggettiva che, però, esula anche dal dovere di custodia di
cui all'art. 2051 cod. civ., il quale consente sempre la
prova liberatoria in presenza di caso fortuito (da
intendersi in senso ampio, comprensiva anche del fatto del
terzo e della colpa esclusiva del danneggiato).
12.1. Ciò a prescindere dalla circostanza, dedotta in
ricorso, che il fondo de quo non sarebbe nella disponibilità
del ricorrenti in quanto oggetto di contratto di affitto
tuttora in essere.
13. Quanto si è andato esponendo rafforza la fondatezza del
terzo motivo di ricorso, attinente alla violazione delle
regole poste a presidio del giusto procedimento e del
principio del contraddittorio.
Al riguardo, mentre l'art. 7 della legge n. 241/1990, con
previsione di carattere generale, prescrive la doverosa
comunicazione dell'avvio del procedimento agli interessati,
l'art. 192, comma 3, D.L.vo n. 152/2006, nella specifica
materia ambientale, prescrive che i controlli svolti
dall'Amministrazione riguardo all'abbandono di rifiuti
debbano essere effettuati in contraddittorio con i soggetti
interessati, con la conseguente osservanza delle regole che
garantiscono la partecipazione dell'interessato
all'istruttoria amministrativa [ex multis TAR Campania, sez.
V 03/03/2014 n. 1294 cit.; TAR Lazio-Roma sez. 2°
17/09/20013 n. 8302 secondo cui "ai procedimenti preordinati
all'emanazione dell'ordinanza di rimozione e smaltimento dei
rifiuti ai sensi dell'art. 192 del d.lgs. n. 152 del 2006,
si deve applicare la disciplina sulla comunicazione di avvio
del procedimento ex articolo 7 della legge n. 241 del 1990,
in quanto adempimento obbligatorio, rispetto al quale
risulta recessivo, nella specifica materia, l'articolo 21-octies, con conseguente illegittimità dell'ordinanza non
preceduta dalla comunicazione stessa (TAR Lombardia-Milano, sez. IV, 14.01.2013, n. 93)"].
Al riguardo non solo nell'ordinanza gravata non vi è alcun
riferimento al preventivo invio della nota di comunicazione
di avvio del procedimento, ma l'Amministrazione, non avendo
inteso costituirsi, non ha fornito alcuna prova, come suo
onere (stante il principio della vicinanza della prova e
dell'impossibilità di prova negativa, richiamati tra le
altre dalla nota sentenza SS.UU. n. 13533 del 30.10.2001) dell'invio di tale nota.
14. Il ricorso va dunque accolto, con conseguente
annullamento dell’ordinanza gravata (TAR Campania-Napoli,
Sez. V,
sentenza 15.01.2019 n. 211 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Discarica abusiva - Responsabilità e limiti del
proprietario del terreno - Accordo verbale con il
proprietario - Concorso nel reato - Condotta commissiva alla
illecita gestione dei rifiuti - Art. 184-bis, 256 d.lvo n.
152/2006 - Giurisprudenza.
In linea generale, il proprietario di un
terreno non risponde, in quanto tale, dei reati di
realizzazione e gestione di discarica non autorizzata o di
abbandono o deposito incontrollato di rifiuti non
autorizzata, anche nel caso in cui non si attivi per la
rimozione dei rifiuti, in quanto tale responsabilità
sussiste solo in presenza di un obbligo giuridico di
impedire la realizzazione o il mantenimento dell'evento
lesivo, che il proprietario può assumere solo ove compia
atti di gestione o movimentazione dei rifiuti.
Inoltre, la condotta prevista dall'art. 256, comma 3, d.lgs.
152/2006 riguarda l'abusiva realizzazione e gestione di una
discarica, cui consegue la confisca obbligatoria dell'area
ad essa adibita, mentre, è illegittima la confisca dell'area
con riguardo al reato di abbandono o deposito incontrollato
di rifiuti.
Fattispecie: deposito incontrollato di rifiuti da parte di
un terzo a seguito di accordo verbale con il proprietario
che in tal modo concorreva nel reato con una condotta
commissiva alla illecita gestione dei rifiuti (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.01.2019 n. 1517 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’opera abusiva consiste nella chiusura di un
balcone mediante la costruzione di muri perimetrali e di una
copertura.
Trattandosi di un ampliamento del manufatto “all'esterno
della sagoma esistente”, esso costituisce “nuova
costruzione” (art. 3, lett. e.1), D.P.R. 380/2001); la
qualificazione in termini di ristrutturazione edilizia
operata dal Comune è, quindi, errata per difetto e non per
eccesso come pretenderebbe la parte ricorrente.
Il regime autorizzativo è, peraltro, il medesimo in quanto
per entrambe le tipologie di intervento è richiesto il
permesso di costruire ed è applicabile la sanzione
demolitoria (artt. 10, 31, 33 D.P.R. 380/2001).
---------------
1 – La parte ricorrente, Ca.BE., ha impugnato il
provvedimento, indicato in epigrafe, con cui il Comune di
Napoli ha ordinato la demolizione delle opere con cui la
stessa ha “chiuso” il balconcino di servizio mediante
la costruzione di pareti in muratura e di una copertura in
lamiere (dimensioni m 3,50 x 2,00 x 3,00 di altezza).
...
3 – Il ricorso è manifestamente infondato.
L’opera, come descritta in fatto, consiste nella chiusura di
un balcone mediante la costruzione di muri perimetrali e di
una copertura. Trattandosi di un ampliamento del manufatto “all'esterno
della sagoma esistente”, esso costituisce “nuova
costruzione” (art. 3, lett. e.1), D.P.R. 380/2001); la
qualificazione in termini di ristrutturazione edilizia
operata dal Comune è, quindi, errata per difetto e non per
eccesso come pretenderebbe la parte ricorrente.
Il regime autorizzativo è, peraltro, il medesimo in quanto
per entrambe le tipologie di intervento è richiesto il
permesso di costruire ed è applicabile la sanzione
demolitoria (artt. 10, 31, 33 D.P.R. 380/2001) (TAR
Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 10.01.2019 n. 137 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il provvedimento sanzionatorio di abusi edilizi è
da intendersi quale atto rigidamente vincolato e la
vincolatezza dell’ordine di demolizione -in presenza di un
intervento di nuova costruzione pacificamente effettuato
senza titolo- rende ultronea una puntuale motivazione
sull’interesse pubblico alla demolizione, sull’effettivo
danno all’ambiente o al paesaggio (in rapporto anche al già
elevato grado di urbanizzazione dell’area) o, ancora, sulla
proporzionalità in relazione al sacrificio imposto al
privato: è sufficiente evidenziare la violazione della
normativa edilizia e l’avvenuta costruzione in assenza del
titolo abilitativo, ciò che nel caso di specie è avvenuto..
L’interesse pubblico alla demolizione è, infatti, ‘in re
ipsa’, consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico
violato.
---------------
Ancora, occorre ribadire che, come affermato univocamente in
giurisprudenza, in presenza di un abuso edilizio, la vigente
normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo
all'autorità comunale, prima di emanare l'ordinanza di
demolizione, di verificarne la sanabilità ai sensi dell'art.
36, d.P.R. n. 380 del 2001.
Tanto si evince chiaramente dagli artt. 27 e 31, d.P.R. n.
380 del 2001 che, in tal caso, obbligano il responsabile del
competente ufficio comunale a reprimere l'abuso, senza
alcuna valutazione di sanabilità, nonché dagli stessi artt.
36, d.P.R. n. 380 del 2001 e 167, co. 5, d.lgs. 42/2004, che
rimettono all'esclusiva iniziativa della parte interessata
l'attivazione del procedimento di accertamento di conformità
urbanistica ivi disciplinato.
---------------
Come più volte affermato dal Giudice Amministrativo,
l'ordinanza di demolizione «va emanata senza indugio e, in
quanto tale, non deve essere preceduta da comunicazione di
avvio del procedimento, trattandosi di una misura
sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di
disposizioni urbanistiche, secondo un procedimento di natura
vincolata tipizzato dal legislatore e rigidamente
disciplinato, che si ricollega ad un preciso presupposto di
fatto, cioè l'abuso, di cui peraltro l'interessato non può
non essere a conoscenza, rientrando direttamente nella sua
sfera di controllo».
Peraltro, non può dubitarsi dell’operatività dell’art.
21-octies, co. 2, secondo periodo, della legge 241 del 1990
a mente del quale «il provvedimento amministrativo non è
comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio
del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in
giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato».
---------------
4 – Tanto dimostra l’infondatezza delle censure proposte in
quanto, come si è costantemente affermato da parte della
giurisprudenza amministrativa e anche da questa Sezione, il
provvedimento sanzionatorio di abusi edilizi è da intendersi
quale atto rigidamente vincolato e la vincolatezza
dell’ordine di demolizione -in presenza di un intervento di
nuova costruzione pacificamente effettuato senza titolo-
rende ultronea una puntuale motivazione sull’interesse
pubblico alla demolizione, sull’effettivo danno all’ambiente
o al paesaggio (in rapporto anche al già elevato grado di
urbanizzazione dell’area) o, ancora, sulla proporzionalità
in relazione al sacrificio imposto al privato: è sufficiente
evidenziare la violazione della normativa edilizia e
l’avvenuta costruzione in assenza del titolo abilitativo,
ciò che nel caso di specie è avvenuto (cfr., ex multis,
TAR Campania Napoli, sez. VI, n. 9718/2008 e 4037/2013).
L’interesse pubblico alla demolizione è, infatti, ‘in re
ipsa’, consistendo nel ripristino dell’assetto
urbanistico violato (fra le tante: cfr. C.d.S. sez. V,
09.09.2013, n. 4470, C.d.S., sez. IV, 12.04.2011, n. 2266,
TAR Campania Napoli, sez. II, 14.02.2011, n. 922; TAR
Campania, sez. IV, n. 5236/2015).
5 – Ancora, occorre ribadire che, come affermato
univocamente in giurisprudenza, in presenza di un abuso
edilizio, la vigente normativa urbanistica non pone alcun
obbligo in capo all'autorità comunale, prima di emanare
l'ordinanza di demolizione, di verificarne la sanabilità ai
sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001.
Tanto si evince chiaramente dagli artt. 27 e 31, d.P.R. n.
380 del 2001 che, in tal caso, obbligano il responsabile del
competente ufficio comunale a reprimere l'abuso, senza
alcuna valutazione di sanabilità, nonché dagli stessi artt.
36, d.P.R. n. 380 del 2001 e 167, co. 5, d.lgs. 42/2004, che
rimettono all'esclusiva iniziativa della parte interessata
l'attivazione del procedimento di accertamento di conformità
urbanistica ivi disciplinato (cfr. TAR Campania Napoli, sez.
VI, n. 5226/2013 e n. 227/2015; TAR Campania–Napoli, sez. IV,
06.07.2007, n. 6552).
È pacifico, peraltro, nessuna richiesta di sanatoria sia
stata presentata. Anche da questo punto di vista non
sussiste, quindi, alcun difetto di motivazione.
...
7 - La descritta vincolatezza dell’ordine di demolizione
determina, altresì, l’infondatezza della censura relativa
alla mancata comunicazione di avvio del procedimento (ex L.
241/1990).
Come più volte affermato dal Giudice Amministrativo,
infatti, l'ordinanza di demolizione «va emanata senza
indugio e, in quanto tale, non deve essere preceduta da
comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di una
misura sanzionatoria per l'accertamento dell'inosservanza di
disposizioni urbanistiche, secondo un procedimento di natura
vincolata tipizzato dal legislatore e rigidamente
disciplinato, che si ricollega ad un preciso presupposto di
fatto, cioè l'abuso, di cui peraltro l'interessato non può
non essere a conoscenza, rientrando direttamente nella sua
sfera di controllo» (TAR Napoli, sez. III, 07/09/2015,
n. 4392).
Peraltro, non può dubitarsi dell’operatività dell’art.
21-octies, co. 2, secondo periodo, della legge 241 del 1990
a mente del quale «il provvedimento amministrativo non è
comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio
del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in
giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato»
(sul punto, la giurisprudenza, anche della sezione è
costante; v., ex plurimis, Cons. St., sez. IV,
26.08.2014 n. 4279; id., 07.07.2014 n. 3438; id., 20.05.2014
n. 2568; id., 09.05.2014 n. 2380; TAR Milano, sez. IV,
22.05.2014 n. 1324; TAR Napoli sez. IV, 16.05.2014 n. 2718;
id., sez. II 15.05.2014 n. 2713; id., 18.12.2013, n. 5853 e
n. 5811) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 10.01.2019 n. 137 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Quanto alla mancata considerazione della
impossibilità di effettuare il ripristino senza danneggiare
le porzioni del fabbricato illegittimamente edificate, va
detto che la possibilità di sostituire la demolizione con la
sanzione pecuniaria attiene alla fase dell'esecuzione
dell'ordine di ripristino e presuppone, da parte del
destinatario, la prova dell’impossibilità di demolire senza
nocumento per la restante parte (legittima) dell’immobile.
Sul punto, va ribadito, per un verso, che, mentre
l’ingiunzione di demolizione costituisce la prima ed
obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto ha
natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo
analitico-ricognitivo dell’abuso commesso, il giudizio
sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la
rilevanza dell’abuso e la possibilità di sostituire la
demolizione con la sanzione pecuniaria (art. 33, co. 2,
d.p.r. 380/2001) può essere effettuato soltanto in un
secondo momento, cioè quando il soggetto privato non ha
ottemperato spontaneamente alla demolizione e l'organo
competente emana l'ordine (indirizzato ai competenti uffici
dell’Amministrazione) di esecuzione in danno delle
ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale
difformità dal permesso di costruire o delle opere edili
costruite in parziale difformità dallo stesso; soltanto
nella predetta seconda fase non può ritenersi legittima
l’ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi valutazione
intorno all'entità degli abusi commessi e alla possibile
sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria,
sempre se vi sia stata la richiesta dell'interessato in tal
senso.
Per altro verso, l’affermazione sul pregiudizio del
preesistente non è supportata da elementi tecnici atti a
dimostrare la sussistenza del pregiudizio di cui
l’amministrazione si sarebbe dovuta far carico: il che
preclude l’ingresso all’accoglimento di tale profilo di
denuncia alla stregua del condiviso orientamento
giurisprudenziale secondo cui la sanzione pecuniaria va
disposta, in via alternativa, “soltanto” nel caso in cui sia
“oggettivamente impossibile” procedere alla demolizione e,
quindi, “soltanto” nel caso in cui risulti “in maniera
inequivoca che la demolizione, per le sue conseguenze
materiali, inciderebbe sulla stabilità dell’edificio nel suo
complesso senza che, pertanto, possano venire in rilievo
aspetti relativi all’eccessiva onerosità dell’intervento”.
In merito, va detto che, per la stessa natura
dell’intervento, consistente in una superfetazione edificata
su un balconcino, appare evidente la possibilità di
rimuovere la volumetria abusiva senza alcun apprezzabile
pregiudizio delle altre porzioni del fabbricato.
---------------
6 - Quanto alla mancata considerazione della impossibilità
di effettuare il ripristino senza danneggiare le porzioni
del fabbricato illegittimamente edificate, va detto che la
possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione
pecuniaria attiene alla fase dell'esecuzione dell'ordine di
ripristino e presuppone, da parte del destinatario, la prova
dell’impossibilità di demolire senza nocumento per la
restante parte (legittima) dell’immobile.
Sul punto, va ribadito, per un verso, che, mentre
l’ingiunzione di demolizione costituisce la prima ed
obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto ha
natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo
analitico-ricognitivo dell’abuso commesso, il giudizio
sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la
rilevanza dell’abuso e la possibilità di sostituire la
demolizione con la sanzione pecuniaria (art. 33, co. 2,
d.p.r. 380/2001) può essere effettuato soltanto in un
secondo momento, cioè quando il soggetto privato non ha
ottemperato spontaneamente alla demolizione e l'organo
competente emana l'ordine (indirizzato ai competenti uffici
dell’Amministrazione) di esecuzione in danno delle
ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale
difformità dal permesso di costruire o delle opere edili
costruite in parziale difformità dallo stesso; soltanto
nella predetta seconda fase non può ritenersi legittima
l’ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi valutazione
intorno all'entità degli abusi commessi e alla possibile
sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria,
sempre se vi sia stata la richiesta dell'interessato in tal
senso (ex multis, v. Sent. TAR Napoli, sez. IV, n.
3120/2015, cit., nonché TAR Napoli, sez. VII, 14.06.2010 n.
14156).
Per altro verso, l’affermazione sul pregiudizio del
preesistente non è supportata da elementi tecnici atti a
dimostrare la sussistenza del pregiudizio di cui
l’amministrazione si sarebbe dovuta far carico: il che
preclude l’ingresso all’accoglimento di tale profilo di
denuncia alla stregua del condiviso orientamento
giurisprudenziale secondo cui la sanzione pecuniaria va
disposta, in via alternativa, “soltanto” nel caso in
cui sia “oggettivamente impossibile” procedere alla
demolizione e, quindi, “soltanto” nel caso in cui
risulti “in maniera inequivoca che la demolizione, per le
sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla stabilità
dell’edificio nel suo complesso senza che, pertanto, possano
venire in rilievo aspetti relativi all’eccessiva onerosità
dell’intervento” (cfr., Cons. Stato, sezione quinta,
sentenze 09.04.2013, n. 1912, 29.11.2012, n. 6071 e
05.09.2011, n. 4982, TAR Campania, sez. IV, n. 770/2015).
In merito, va detto che, per la stessa natura
dell’intervento, consistente in una superfetazione edificata
su un balconcino, appare evidente la possibilità di
rimuovere la volumetria abusiva senza alcun apprezzabile
pregiudizio delle altre porzioni del fabbricato (TAR
Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 10.01.2019 n. 137 - link a
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AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
RIFIUTI - Reato di attività organizzate per il traffico
illecito di rifiuti - Nozione e configurabilità del reato -
Elementi e presupposti - Conseguimento di un ingiusto
profitto - Art. 260, D.L.vo 152/2006 oggi art.
452-quattuordecies cod. pen. - APPALTI - Esecuzione di un
contratto di appalto - Reato di concorso in frode nelle
pubbliche forniture.
In materia di rifiuti, l'art. 260, comma
1, D.L.vo 152/2006 contempla un reato abituale (già
previsto, del resto, dall'art. 53-bis, d.lgs. n. 22 del
1997, come introdotto dalla legge 23.03.2001, n. 93, oggi
art. 452-quattuordecies cod. pen. come introdotto dal d.Lgs.
10.03.2018, n. 21) che punisce chi, al fine di conseguire un
ingiusto profitto, allestisce una organizzazione di traffico
di rifiuti, volta a gestire continuativamente, in modo
illegale, ingenti quantitativi degli stessi materiali.
Tale gestione deve concretizzarsi in una pluralità di
operazioni con allestimento di mezzi ed attività
continuative organizzate, ovvero attività di intermediazione
e commercio, e tale attività deve essere "abusiva", ossia
effettuata o senza le autorizzazioni necessarie (ovvero con
autorizzazioni illegittime o scadute) o violando le
prescrizioni e/o i limiti delle autorizzazione stesse (ad
esempio, la condotta avente per oggetto una tipologia di
rifiuti non rientranti nel titolo abilitativo, ed anche
tutte quelle attività che, per le modalità concrete con cui
sono esplicate, risultano totalmente difformi da quanto
autorizzato, sì da non essere più giuridicamente
riconducibili al titolo abilitativo rilasciato dalla
competente Autorità amministrativa).
Il delitto in esame, dunque, sanziona comportamenti non
occasionali di soggetti che, al fine di conseguire un
ingiusto profitto, fanno della illecita gestione dei rifiuti
la loro redditizia, anche se non esclusiva attività, sicché
per perfezionare il reato è necessaria una, seppure
rudimentale, organizzazione professionale (mezzi e capitali)
che sia in grado di gestire ingenti quantitativi di rifiuti
in modo continuativo, ossia con pluralità di operazioni
condotte in continuità temporale, operazioni che vanno
valutate in modo globale: alla pluralità delle azioni, che è
elemento costitutivo del fatto, corrisponde una unica
violazione di legge, e perciò il reato è abituale dal
momento che per il suo perfezionamento è necessaria le
realizzazione di più comportamenti della stessa specie.
Fattispecie: gestione abusiva di ingenti quantitativi di
rifiuti costituiti da scorie di acciaieria, illecitamente
smaltiti per la realizzazione dei sottofondi e dei rilevati
stradali in esecuzione di un contratto di appalto,
risultando colpevoli anche del reato di concorso in frode
nelle pubbliche forniture.
...
RIFIUTI - Attività organizzate per il traffico illecito di
rifiuti configurabilità del reato di cui all'art.
452-quaterdecies cod. pen. - Natura di reato abituale -
Elementi tipici - Consumazione del reato - DANNO AMBIENTALE
- Pregiudizio o pericolo per l'ambiente - Esclusione -
Giurisprudenza - Fattispecie.
Il delitto di attività organizzate per
il traffico illecito di rifiuti, previsto dall'art. 260,
d.lgs. 03.04.2006, n. 152 (oggi art. 452-quaterdecies cod.
pen., giusta il d.Lgs. 10.03.2018, n. 21) è un reato
abituale, che si perfeziona soltanto attraverso la
realizzazione di più comportamenti non occasionali della
stessa specie, finalizzati al conseguimento di un ingiusto
profitto, con la necessaria predisposizione di una, pur
rudimentale, organizzazione professionale di mezzi e
capitali, che sia in grado di gestire ingenti quantitativi
di rifiuti in modo continuativo
(tra le molte, Sez. 3, n. 52838 del 14/07/2016, Serrao).
Si consuma nel luogo in cui avviene la
reiterazione delle condotte illecite
(Cass., Sez. 3, n. 48350 del 29/09/2017, Perego);
ossia, laddove si realizzano -con il citato
carattere dell'abitualità- le condotte che costituiscono
l'in sé del reato, che ne integrano gli elementi tipici, che
ne evidenziano i caratteri essenziali per come individuati
dal legislatore.
Per cui, ai fini della integrazione del reato qui in
argomento, non sono necessari un danno ambientale né la
minaccia grave di esso, atteso che la previsione di
ripristino ambientale contenuta nel comma quarto del citato
articolo si riferisce alla sola eventualità in cui il
pregiudizio o il pericolo si siano effettivamente verificati
e, pertanto, non è idonea a mutare la natura della
fattispecie da reato di pericolo presunto a reato di danno
(Sez. 3, n. 19018 del 20/12/2012, Accarino; conforme, tra le
altre, Sez. 3, n. 4503 del 16/12/2005, Sannarati).
Nella specie, l'interramento dei rifiuti
sicuramente può essere una frazione della condotta punibile,
ma non è necessaria ai fini della rilevanza penale della
fattispecie e della sua consumazione, che può essere
raggiunta a monte, quando la pluralità e ripetitività delle
operazioni di gestione inerenti quantitativi ingenti di
rifiuti abbia raggiunto una intensità tale da mettere in
pericolo il bene protetto (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.12.2018 n. 58448 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI:
APPALTI - Esecuzione di un contratto di appalto -
Configurabilità del delitto di frode in pubbliche forniture
o nell'adempimento degli altri obblighi contrattuali - Reato
in concorso - Principio di buona fede nell'esecuzione del
contratto - Violazione - Art. 356 cod. pen.
Ai fini della configurabilità del
delitto di frode in pubbliche forniture, è sufficiente il
dolo generico, costituito dalla consapevolezza di consegnare
cose in tutto od in parte difformi (per origine,
provenienza, qualità o quantità) in modo significativo dalle
caratteristiche convenute, o disposte con legge o con atto
amministrativo, non occorrendo necessariamente la dazione di
"aliud pro alio" in senso civilistico o un comportamento
subdolo o artificioso
(tra le altre, Sez. 6, n. 6905 del 25/10/2016, Milesi ed
altri; Sez. 6, n. 28301 dell'08/04/2016, Dolce).
Al riguardo, si è affermato che l'indirizzo
che interpreta la "frode nell'esecuzione dei contratti di
fornitura o nell'adempimento degli altri obblighi
contrattuali" nel senso che, per la sua configurabilità,
sarebbe insufficiente il semplice inadempimento del
contratto, perché la norma incriminatrice richiederebbe
anche la presenza di un espediente malizioso o di un
inganno, che faccia apparire l'esecuzione del contratto
conforme agli obblighi assunti confonde l'idea di frode come
semplice inganno con quella di truffa (inganno mediante
artificio o raggiro), mentre l'espressione "commette frode",
contenuta nell'art. 356 cod. pen., non allude
necessariamente a un comportamento subdolo o artificioso,
perché si riferisce a ogni violazione contrattuale, a
prescindere dal proposito dell'autore di conseguire un
indebito profitto o dal danno patrimoniale del quale possa
risentire l'ente committente.
In altri termini, l'art. 356 cod. pen. sanziona le condotte
contrattuali che, nei rapporti con l'amministrazione,
violano il principio di buona fede nell'esecuzione del
contratto, principio sancito dall'art. 1375 cod. civ.. "La
frode è un fatto oggettivo che danneggia l'interesse
pubblico indipendentemente dall'aggiungersi di espedienti
truffaldini e, in un rapporto con la Pubblica
Amministrazione, non contano le condizioni psicologiche
delle persone fisiche contraenti ma le modalità di
presentazione del bene in relazione a quanto oggettivamente
convenuto o disposto con legge o atto amministrativo, per
cui la frode non è esclusa dalla conoscenza o conoscibilità
del difetto della cosa da parte di coloro che agirono per
conto della Pubblica Amministrazione".
Dal che, la conclusione per cui il reato di frode nelle
pubbliche forniture non richiede una condotta implicante
artifici o raggiri, propri del delitto di truffa, né un
evento di danno per la parte offesa, coincidente con il
profitto dell'agente, essendo sufficiente la dolosa
inesecuzione del contratto pubblico di fornitura di cose o
servizi, ritenendo, pertanto, configurabile -ove ricorrano
anche i suddetti elementi caratterizzanti la truffa- il
concorso tra i due delitti.
...
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Differenza tra art. 356 cod. pen.
(frode in pubbliche forniture) e art. 355 cod. pen.
(Inadempimento di contratti di pubbliche forniture).
La differenza tra i rapporti contenuti
nella fattispecie di cui all'art. 356 cod. pen. (frode in
pubbliche forniture) e quella di cui all'articolo 355 cod.
pen. (inadempimento di contratti di pubbliche forniture) sta
nel fatto che, l'inadempimento contrattuale preso in
considerazione dall'art 355 cod. pen. consiste nella mancata
consegna, totale o parziale, ovvero nella ritardata
consegna, delle cose od opere dovute; ipotesi per le quali
occorre la sola constatazione dell'illiceità civile
dell'inadempimento per la configurazione del reato, che può
essere doloso o colposo secondo che vi sia la volontà di
cagionare la mancanza della fornitura, ovvero la colpa
(imprudenza, negligenza eccetera) dell'agente.
Nelle ipotesi previste dall'art 356 cod. pen., che in genere
riguardano gli inadempimenti che si concretano nella
consegna di cosa od opera completamente diversa da quella
pattuita, o di cosa od opera affetta da vizi o difetti, si
richiede anche un comportamento, da parte del privato
fornitore, non conforme ai doveri di lealtà e moralità
commerciale e di buona fede contrattuale: ed in questo
consiste l'elemento frode.
Non si richiede, pertanto, un comportamento tendente a
trarre in inganno il committente ed a dissimulare le
deficienze della fornitura, ma semplicemente la malafede
nell'eseguire il contratto in difformità dei patti (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.12.2018 n. 58448 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
RIFIUTI - Attività di gestione di rifiuti da demolizione
utilizzati per riempimento di cava - Responsabilità del
proprietario del terreno e dell'esecutore dei lavori - Artt.
183 e 256 d.l.vo n. 152/2006.
In materia di rifiuti, si configura il
reato di cui all'art. 256, comma 1, lett. a), d.Lgs.
152/2006, anche per i soggetti che rivestono la qualità di
legale rappresentante della società esecutrice dei lavori,
in concorso con il proprietario dei terreni in qualità di
soggetto interessato al risultato finale.
Nella specie, il proprietario del terreno e committente dei
lavori in concorso con l'appaltatore dei lavori avevano
effettuato attività di raccolta di rifiuti speciali non
pericolosi provenienti da demolizioni edilizia ed avevano
utilizzato gli stessi unitamente alla terra per effettuare
il riempimento di cava.
...
RIFIUTI - Terre e rocce da scavo - Sottoprodotto - Requisiti
- Disciplina eccezionale e derogatoria - Onere della prova -
Art. 184-bis D.L.vo n. 152/2006.
In tema di gestione dei rifiuti, la
prova dell'esistenza dei requisiti del sotto-prodotto grava
sull'imputato, perché la disciplina sulle terre e rocce da
scavo ha natura eccezionale e derogatoria rispetto a quella
ordinaria (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 27.12.2018 n. 58302 - link a www.ambientediritto.it). |
TRIBUTI: Fisco,
delibere tardive efficaci solo dall'anno dopo.
Le delibere tributarie tardive, cioè approvate oltre il termine previsto per
l'adozione del bilancio di previsione, non vanno annullate ma sono solo da
ritenersi inefficaci per l'anno di riferimento.
Lo ha deciso il Consiglio di
Stato con la
sentenza
27.12.2018 n. 7273, ribadendo il nuovo orientamento
inaugurato con la decisione n. 4104/2017 (si veda il Quotidiano degli enti
locali e della Pa del 5 settembre).
La questione e la recente giurisprudenza
Sul tema la giurisprudenza di vertice ha più volte affermato che il termine
per l'adozione delle delibere tariffarie e regolamentari è da ritenersi
perentorio, quindi anche il ritardo di appena un giorno produce l'invalidità
delle stesse (Consiglio di Stato n. 3808/2014, n. 3817/2014, n. 4409/2014 e
n. 1495/2015).
La questione è poi esplosa nel 2015, con diverse sentenze di Tar, ma
recentemente la giurisprudenza è passata dalla tesi dell'illegittimità della
delibera tardiva a quella della sua inefficacia retroattiva. Per intenderci,
il mancato rispetto del termine di legge non comporterebbe di per se
l'invalidità della delibera ma inciderebbe solo sulla sua efficacia
temporale, non potendo essere applicata dal 1° gennaio dell'anno di
riferimento (Consiglio di Stato n. 4104/2017 e n. 267/2018; Tar Torino n.
39/2018; Tar Bari n. 397/2018). Tuttavia il Tar Napoli (sentenze n.
3277/2018 e n. 6535/2018) ha ripreso la tesi dell'illegittimità delle
delibere tardive e la questione è stata rimessa all'esame del Consiglio di
Stato.
La sentenza del Consiglio di Stato
Il caso sottoposto all'esame dei giudici di Palazzo Spada riguarda le
delibere Imu, Tasi e Tari 2015 approvate in ritardo dal Comune di Napoli e
impugnate davanti al Tar dal ministero dell'Economia e delle Finanze. Con la
sentenza n. 3277/2018 il Tar partenopeo ha accolto il ricorso del Mef ritenendo
le delibere invalide e quindi da annullare. Il Comune di Napoli ha proposto
comunque appello evidenziando che, in ogni caso, il mancato rispetto dei
termini di legge non avrebbe potuto determinare l'illegittimità delle
delibere, ma avrebbe semmai precluso la loro applicazione a decorrere dal 01.01.2015.
Il Consiglio di Stato accoglie l'appello richiamando la sentenza n.
4104/2017, ritenendo quindi che l'adozione tardiva delle delibere non
determina in radice la loro illegittimità, ma non ne consente l'applicazione
per l'anno di riferimento.
I contrasti giurisprudenziali
Vanno comunque evidenziati diversi contrasti giurisprudenziali sulla
questione delle delibere tardive. In primo luogo la tesi dell'illegittimità,
all'inizio maggioritaria e poi abbandonata dallo stesso Consiglio di Stato,
è stata ripresa dal Tar Napoli con argomentazioni persuasive (si veda la
sentenza n. 6535/2018).
È stato poi affermato che le delibere tardive non possono avere efficacia
retroattiva ma sono comunque valide dalla data della loro adozione (Tar
Torino n. 39/2018), conclusione non condivisibile perché comporterebbe una
duplicazione di tariffe in corso d'anno introducendo così un doppio regime
tributario (in tal senso Tar Napoli n. 6535/2018).
Sarebbero inoltre valide le delibere approvate in ritardo purché entro il
termine ultimo, intimato dal Prefetto, per l'approvazione del bilancio (Tar
Bari n. 240/2018), conclusione che tuttavia non trova conferma nella
giurisprudenza di vertice, non essendo la proroga concessa dal Prefetto
riferita anche alle delibere dei tributi (Consiglio di Stato nn. 3808/2014 e
3817/2014).
Il Consiglio di Stato ha poi ritenuto valida la delibera di giunta che
approva le tariffe se ratificata dal consiglio comunale (sentenza n.
4435/2018), ma gli stessi giudici di Palazzo Spada con la decisione n.
7273/2018 affermano che la delibera di giunta è una mera proposta di
approvazione delle aliquote, che vengono poi formalmente approvate solo dal
consiglio comunale.
Insomma, la questione rischia di diventare una storia infinita perché ormai
la giurisprudenza ha detto tutto e il contrario di tutto, senza tuttavia
pervenire ad alcun approdo definitivo ed univoco
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.01.2019). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Nozione di rifiuto - Beni destinati al riuso -
Individuablità e limiti - Fattispecie: Materiale corroso e
totalmente ricoperto dalla vegetazione riversato all'esterno
di un capannone in seguito ad alluvione - Art. 256, c. 2,
d.lgs. n. 152/2006.
In tema di riuso dei rifiuti, si possono
escludere dei beni destinati al riuso, anche semplicemente,
per le condizioni di fatto in cui si trovavano.
Nella specie, se i beni fossero stati destinati al riuso
sarebbero stati conservati con ben altra cura ed attenzione
e non lasciati abbandonati a sé stessi, con il materiale
corroso e totalmente ricoperto dalla vegetazione.
Sicché, la natura di rifiuto è stata quindi correttamente
dedotta dalle condizioni in cui si trovavano i materiali (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 21.12.2018 n. 58001 - link a www.ambientediritto.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L’ufficio
dei procedimenti disciplinari può essere «individuato» dal dirigente.
La legge non vincola la Pa a individuare un ufficio distinto da altre
strutture che si occupi dei procedimenti disciplinari. Una sanzione è
legittima se all’organo che la eroga sia stato attribuito chiaramente il
potere di farlo. Ciò al solo fine di assicurare la sua posizione di terzietà.
La normativa, facendo riferimento all’«individuazione» e non all’istituzione
obbligatoria dell’ufficio sanzioni disciplinari, non richiede che questa
individuazione sia espressa e debba avvenire con specifico provvedimento.
Questo premesso, la Corte di Cassazione (Sez. lavoro,
sentenza
21.12.2018 n. 33314) ha giudicato
legittima, pertanto, l'individuazione dell'ufficio per i provvedimenti
disciplinari da parte del dirigente del settore gestione risorse umane e non
su disposizione dell'organo esecutivo.
Le motivazioni del licenziamento
A un dipendente di una Regione è stato contestato, dall'ufficio dei
procedimenti disciplinari, di aver fatto timbrare da un collega, in otto
occasioni, il cartellino marcatempo in entrata e in uscita, consentendogli
che le entrate in ritardo e le uscite anticipate avvenissero nel pieno
rispetto dell'orario di obbligo. Inoltre, in contropartita, in dodici
diverse altre occasioni, è stato osservato e certificato che il dipendente
timbrasse a suo volta il cartellino dei colleghi permettendo anche a loro di
presentarsi in ritardo e di uscire in anticipo sempre nel rispetto
dell'orario di obbligo.
Dopo specifica udienza in difesa, il dipendente è stato licenziato per
giusta causa. Non avendo il ricorso sortito esito positivo né in primo grado
né in appello, il dipendente si è rivolto in Cassazione. A supporto delle
sue motivazioni ha evidenziato l'errore dei giudici del lavoro che non hanno
considerato, in modo adeguato, la sua difesa. Il ricorrente ha, quindi,
insistito sulla nullità della sanzione disciplinare in quanto erogata da
organo incompetente, essendo l'Ufficio per i provvedimenti disciplinari
stato nominato dal dirigente e non dall'organo esecutivo.
Le precisazioni della Cassazione
I giudici di Piazza Cavour confermano quanto già detto dalla Corte d’appello
che ha correttamente ritenuto la piena libertà, da parte della Pa, di creare
un apposito ufficio o avvalersi di strutture già esistenti. Nel caso di
specie, è indubbio che l'Upd sia stato individuato con decreto del dirigente
delle risorse umane, cui spetta la competenza della gestione del personale e
dunque anche l'esercizio della potestà disciplinare, quale naturale
completamento del suo potere direttivo.
D'altra parte, la giurisprudenza di
legittimità non ha mai previsto che la normativa sul rapporto di lavoro nel
pubblico impiego postulasse l’stituzione di un ufficio specifico competente
all'irrogazione delle sanzioni disciplinari. Anzi, è stato sempre precisato
che, per poter essere legittima, la sanzione disciplinare dovesse provenire
da organo cui fosse stato attribuito in modo chiaro il potere, tale da poter
assicurare quella posizione di terzietà che il legislatore, attraverso la
previsione di un apposito ufficio, ha voluto tutelare (Cassazione n. 22487
del 2016).
L'articolo 55-bis, comma 4, del Dlgs 165/2001 ha voluto, quindi, enfatizzare
la difesa del dipendente e non la formale costituzione dell'Upd. D'altra
parte, la normativa, oltre a richiamare l'ordinamento proprio di ciascuna
amministrazione, fa riferimento alla «individuazione» e non alla
obbligatoria «istituzione» di uno specifico ufficio competente per i
procedimenti disciplinari e non richiede che l’individuazione sia espressa e
debba avvenire con apposito provvedimento.
In conclusione, in considerazione della gravità della condotta del
dipendente, conclamata dalla reiterazione degli episodi in un ristretto
lasso di tempo, quale pervicace propensione abituale alle pratiche elusive
dei sistemi di rilevazione delle presenze, la Cassazione ha confermato la
legittimità della giusta causa del licenziamento
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 09.01.2019). |
APPALTI: Sempre
revocabili incarichi sotto 40 mila. Scelta della stazione appaltante.
Legittima la revoca di un incarico sotto i 40 mila
euro e l'affidamento ad altri professionisti; sussiste ampia libertà di
scelta in capo alla stazione appaltante.
È
quanto ha affermato il TAR Puglia-Bari, Sez I, con la
sentenza
20.12.2018 n. 1654, in un
caso di affidamento di servizi inferiore a 40 mila euro, ha ritenuto
legittima la delibera dell'amministrazione di affidamento dell'incarico ad
altri professionisti rispetto a quelli individuati con una precedente
determina.
Al centro della disputa vi era l'affidamento di un incarico di
direzione lavori effettuato a favore di alcuni professionisti e riguardante
gli stessi incarichi professionali già affidati invece ai ricorrenti con
precedente determina. Veniva, pertanto, contestato il nuovo affidamento che
vedeva altri professionisti destinatari dell'incarico, ma il Tar Puglia ha
respinto il ricorso.
Nella motivazione, i giudici hanno dato rilievo alla tipologia di
affidamento, cioè al fatto che si tratta di un incarico inferiore a 40 mila
euro per il quale il codice dei contratti pubblici consente di affidare
direttamente. Secondo i giudici quindi, «ove pure venga annullato il
provvedimento di affidamento dei nuovi incarichi, restando ferma la
precedente revoca il comune potrà comunque rivolgersi a terzi, non essendo negozialmente obbligato nei confronti dei ricorrenti». Del resto, spiegano i
magistrati pugliesi, l'art. 31, comma 8, del dlgs n. 50/2016 prevede la
possibilità dell'affidamento diretto per gli incarichi di importo inferiore
a 40 mila euro, sicché la libera possibilità di scelta dell'operatore per
l'ente priva gli odierni ricorrenti di qualsivoglia interesse qualificato e
differenziato, che non sia di mero fatto».
Infine, ha chiosato il Tar, «al di là di numerose incertezze procedimentali,
l'amministrazione ha perseguito nella sostanza un apprezzabile interesse
pubblico, realizzando in concreto un importante risparmio di spesa, posto
che gli incarichi (63 mila euro invece di 125 mila) prestando un effettivo
ossequio al principio di economicità, che impone alla pubblica
amministrazione di conseguire gli obiettivi statuiti con il minor dispendio
di mezzi e strumenti, oltre che a quelli di efficacia dell'azione
amministrativa e di efficienza della medesima»
(articolo ItaliaOggi dell'11.01.2019). |
APPALTI: Anomalie, solo il giudizio negativo va motivato.
Nelle offerte per un appalto pubblico.
Il
giudizio favorevole di non anomalia di una offerta per un appalto pubblico
non necessita di motivazione puntuale e analitica.
Lo ha affermato il
Consiglio di Stato, Sez. III, con la
sentenza
18.12.2018 n. 7129 in merito ad una fattispecie nella quale la stazione
appaltante aveva espresso un giudizio favorevole di non anomalia
dell'offerta in una gara d'appalto. Tale giudizio, dicono i giudici, «non
richiede una motivazione puntuale ed analitica, essendo sufficiente anche
una motivazione espressa per relationem alle giustificazioni rese
dall'impresa offerente, sempre che queste ultime siano a loro volta congrue
ed adeguate».
Pertanto, solo in caso di giudizio negativo sussiste l'obbligo di una
puntuale motivazione. Dal punto di vista della modalità di verifica il
consiglio di Stato ha ricordato che la stazione appaltante non è tenuta a
chiedere chiarimenti su tutti gli elementi dell'offerta e su tutti i costi.
Può quindi legittimamente limitarsi a verificare se, nel complesso,
l'offerta sia remunerativa e in grado di assicurare il corretto svolgimento
del servizio. Ad esempio, può limitarsi a chiedere le giustificazioni con
riferimento alle sole di voci di costo più rilevanti, le quali, da sole,
potrebbero incidere in modo determinante sull'attendibilità dell'offerta
complessiva.
Inoltre, afferma la sentenza, «la valutazione di congruità deve essere
globale e sintetica, senza concentrarsi esclusivamente e in modo
parcellizzato sulle singole voci, dal momento che l'obiettivo dell'indagine
è l'accertamento dell'affidabilità dell'offerta nel suo complesso e non già
delle singole voci che la compongono». In altre parole, dicono i
giudici, quel che conta è «l'accertamento della serietà dell'offerta
desumibile dalle giustificazioni fornite dalla concorrente e dunque la sua
complessiva attendibilità». Pertanto si provvede invece all'esclusione
dalla gara solo a seguito della prova dell'inattendibilità complessiva
dell'offerta, per cui «eventuali inesattezze su singole voci devono
ritenersi irrilevanti».
In tutte queste operazioni, chiude la sentenza, la commissione di gara
dispone di ampia discrezionalità circa le modalità prescelte per il
compimento del sub-procedimento di anomalia e le sue valutazioni sono solo
limitatamente sindacabili da parte del giudice
(articolo ItaliaOggi del 04.01.2019). |
APPALTI: Impresa di un Rti può
sostituire la mandataria. Con l'interdittiva
dell'Antimafia.
È ammessa la sostituzione, anche plurima, della mandataria o di una mandante
con un altro soggetto del raggruppamento (Rti), in caso di controindicazioni
antimafia.
Lo ha chiarito il TAR Lazio-Latina, Sez. I, con la
sentenza 17.12.2018 n. 655 in riferimento a una gara bandita da
Autostrade per l'Italia con procedura aperta per la stipula di un accordo
quadro.
Era accaduto che la mandataria di un raggruppamento era stata
oggetto di interdittiva antimafia e quindi era stata sostituita con una
delle mandanti. I giudici hanno preliminarmente osservato che né la
legislazione sui contratti pubblici né quella antimafia prevedono una
specifica causa di esclusione o di incapacità a contrarre in capo al
raggruppamento in cui più di un'impresa sia stata colpita da un
provvedimento prefettizio interdittivo.
Nel merito, poi, il codice dei
contratti (art. 48, commi 17 e 19-ter), nei casi previsti dalla normativa
antimafia, consente la sostituzione dell'impresa mandataria con una delle
mandanti anche nel caso in cui le controindicazioni prefettizie si
verifichino in corso di gara. Per i giudici non si può «trarre alcuna
conclusione automatica sulla sussistenza di rischi di infiltrazione mafiosa
in capo ad una data impresa per il solo fatto che si fosse associata ad
altra ritenuta controindicata».
Non osta a tale conclusione l'art. 95, comma
1, dlgs 06.09.2011 n. 159, per il quale, in presenza di pregiudizi
antimafia che attingano un'impresa diversa da quella mandataria di un Rti,
le cause di divieto o di sospensione di cui all'art. 67, dlgs n. 159 del
2011, non operano nei confronti delle altre imprese partecipanti quando la
predetta impresa sia estromessa o sostituita anteriormente alla stipulazione
del contratto, poiché l'art. 95, comma 1, dlgs n. 159 cit. è una norma
anteriore derogata dalla disciplina posteriore.
È inoltre consentita
l'espulsione di una delle imprese mandanti di un raggruppamento anche nel
caso in cui si sia già proceduto, in precedenza, alla sostituzione
dell'impresa mandataria con una delle mandanti, in quanto la possibilità di
sostituzioni multiple nello stesso raggruppamento temporaneo, dovuta al
sopravvenire di differenti controindicazioni antimafia, non è espressamente
preclusa da alcuna disposizione di legge, anche perché si violerebbe l'art.
41 della Costituzione (articolo ItaliaOggi del 21.12.2018). |
APPALTI: Appalti
pubblici: i patti di integrità vincolano l'impresa per il futuro contratto.
Gli impegni assunti dai concorrenti con la sottoscrizione dei «patti di
integrità» operano pro futuro in relazione al contratto da affidare e non
costituiscono dichiarazioni in ordine al possesso di pregressi requisiti
rilevanti per la partecipazione alle procedure di gara.
È questo il principio affermato dal TAR Lazio-Roma, Sez. I, con la
sentenza 14.12.2018 n. 12178.
Il caso
Nel febbraio 2017 una stazione appaltante segnalava all’Autorità
anticorruzione l’esclusione di un operatore economico da una procedura di
gara. L’esclusione –o meglio l’annullamento dell’intera procedura di gara–
era stata disposta dall’Amministrazione a seguito di una sentenza di
patteggiamento emessa dal Tribunale penale di Velletri nei confronti
dell’amministratore unico della società. Dopo l’aggiudicazione della gara
era stato infatti accertato che la gara era stata oggetto di turbativa
d’asta.
La stazione appaltante comunicava poi ad Anac l’annullamento in
autotutela anche di un’altra aggiudicazione in favore della medesima
impresa, provvedimento che prendeva anch’esso le mosse dalla medesima
pronuncia del Tribunale di Velletri. L’Anac disponeva pertanto l’iscrizione,
all’interno del Casellario informatico degli operatori economici,
dell’annotazione contenente la menzione dell’esclusione dell’impresa dalle
due gare citate per aver reso false dichiarazioni ai fini della
dimostrazione del requisito di cui all’articolo 38 dell’allora vigente Dlgs
163/2006.
A tali fini, veniva in particolare richiamato dall’Anac il patto
di integrità, sottoscritto ai fini della partecipazione ad entrambe le due
gare, con il quale l’impresa si era impegnata «a conformare i propri
comportamenti ai principi di lealtà, trasparenza e correttezza, a non
offrire, accettare o richiedere somme di danaro o qualsiasi altra
ricompensa, vantaggio o beneficio, sia direttamente che indirettamente
tramite intermediari, al fine dell’assegnazione del contratto e/o al fine di
distorcerne la relativa corretta esecuzione; a segnalare alla stazione
appaltante qualsiasi tentativo di turbativa, irregolarità o distorsione
nelle fasi di svolgimento della gara e/o durante l’esecuzione dei contratti
da parte di ogni interessato o addetto o di chiunque possa influenzare le
decisioni relative alla gara in oggetto; ad assicurare di non trovarsi in
situazioni di controllo o di collegamento (formale e/o sostanziale con altri
concorrente e che non si è accordata e non si accorderà con altri
partecipanti alla gara)».
La decisione
Con la pronuncia in rassegna il Tar Lazio annulla l’iscrizione dell’impresa
all’interno del Casellario informatico, evidenziando che gli impegni assunti
dall’operatore economico mediante la sottoscrizione del «patto di integrità»
operano su un piano squisitamente contrattuale e non costituiscono, di
conseguenza, «dichiarazioni» in ordine alla ricorrenza di requisiti e
condizioni rilevanti per la partecipazione alla procedure, la falsità delle
quali è considerata l’unica condizione rilevante ai sensi dell’articolo 38,
comma 1, lett. h), del Dlgs 163/2006.
Più in particolare, l’Autorità evidenzia che i patti di integrità
costituiscono condizioni generali di contratto predisposte dalla stazione
appaltante ed accettate dall'impresa concorrente, con la conseguenza che la
relativa accettazione è presupposto necessario e condizionante la
partecipazione delle imprese alla specifica gara: si tratta, infatti, di
condizioni finalizzate ad ampliare gli impegni cui si obbliga, pro futuro,
il concorrente.
L’approfondimento
Secondo la giurisprudenza amministrativa richiamata nella pronuncia in
commento, infatti, i «patti di integrità» costituiscono condizioni generali
di contratto predisposte dalla stazione appaltante che devono essere
necessariamente accettate dall’impresa concorrente (Consiglio di Stato,
Sezione V, 05.02.2018, n. 722).
Si tratta, in particolare, di un «sistema di condizioni la cui accettazione
è presupposto necessario e condizionante la partecipazione delle imprese
alla specifica gara di cui trattasi», condizioni finalizzate dunque ad
ampliare gli impegni cui si obbliga il concorrente, e ciò sotto un duplice
punto di vista:
1) sotto il profilo temporale, nel senso che gli impegni assunti
dalle imprese rilevano sin dalla fase precedente alla stipula del contratto
di appalto;
2) sotto il profilo del contenuto, nel senso che si richiede
all’impresa di impegnarsi, non tanto e non solo alla corretta esecuzione del
contratto di appalto per il quale la stessa concorre alla gara, ma
soprattutto ad un comportamento leale, corretto e trasparente, sottraendosi
a qualsiasi tentativo di corruzione o condizionamento dell’aggiudicazione
del contratto (così Consiglio di Stato, Sezione V, 09.09.2011 n.
5066).
L’articolo 1, comma 17, della legge 06.11.2012 n. 190, recante le
disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e
dell'illegalità nella pubblica amministrazione, prevede, in particolare,
che: «le stazioni appaltanti possono prevedere negli avvisi, bandi di gara o
lettere di invito che il mancato rispetto delle clausole contenute nei
protocolli di legalità o nei patti di integrità costituisce causa di
esclusione dalla gara».
Il patto di integrità fa dunque sorgere obbligazioni
strettamente connesse alla specifica procedura cui l’operatore economico
partecipa e per la quale sottoscrive il patto, e non si riferisce quindi a
comportamenti tenuti dall’impresa in occasione di precedenti appalti: ed
infatti, ove fosse imposto con il patto di integrità un impegno di lealtà,
trasparenza e correttezza riferito anche ad appalti precedentemente
eseguiti, si verificherebbe un’indebita sovrapposizione con le cause di
esclusione (ex articolo 38 Dlgs 163/2006 ed, attualmente, ex articolo 80
Dlgs 50/2016) relative alla pregressa condotta dell’impresa, cause che
invece sono tassativamente ricondotte dal Codice dei contratti pubblici ad
inadempimenti di obblighi assunti dall'impresa nei rapporti contrattuali,
mentre gli impegni assunti nei patti di integrità si riferiscono
esclusivamente alla singola gara per la quale ciascun patto viene
predisposto ed accettato
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell' 08.01.2019). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
RIFIUTI - Terre e rocce da scavo (materiale tufaceo e
terreno vegetale) - Attività organizzate per traffico
illecito e gestione illecita di rifiuti - Differenze -
Attività organizzate per traffico illecito - Configurabilità
del reato - Compimento di più operazioni e l'allestimento di
mezzi e attività continuative organizzate - Nozione di
condotta abusiva - Soglia minima di rilevanza penale della
condotta - Ulteriori requisiti e azioni propedeutiche -
Definizione di "finalità di ingiusto profitto" - Artt. 186,
256 e 260 d.lgs. n. 152/2006 - Art. 452-quaterdecies c.p. -
Giurisprudenza.
In tema di rifiuti per l'integrazione
del reato di cui all'art. 260 d.lgs. n. 152/2006 devono
individuarsi, il compimento di più operazioni e
l'allestimento di mezzi e attività continuative organizzate,
che le stesse siano con l'attività organizzate per il
traffico illecito di rifiuti strettamente correlate, posto
che il legislatore utilizza la congiunzione "e".
E' richiesto anche il requisito dell'abusività della
condotta. Tale requisito può sussistere a fronte di una
struttura organizzativa di tipo imprenditoriale, idonea ed
adeguata a realizzare l'obiettivo criminoso preso di mira,
anche quando la struttura non sia destinata, in via
esclusiva, alla commissione di attività illecite, cosicché
il reato può configurarsi anche quando l'attività criminosa
sia marginale o secondaria rispetto all'attività principale
lecitamente svolta.
In questi casi si parla di reato abituale, in quanto
integrato necessariamente dalla realizzazione di più
comportamenti della stessa specie. L'apprezzamento circa la
soglia minima di rilevanza penale della condotta deve essere
effettuato non soltanto attraverso il riferimento al mero
dato numerico, ma, ovviamente, anche considerando gli
ulteriori rimandi, contenuti nella norma, a «più operazioni»
ed all'allestimento di mezzi e attività continuative
organizzate» finalizzate alla abusiva gestione di ingenti
quantità di rifiuti.
Ulteriori requisiti sono l'attività di cessione, ricezione,
trasporto, esportazione, importazione, o comunque gestione
abusiva di rifiuti che già risultano sanzionate penalmente e
vengono agevolate dalle azioni propedeutiche, nonché
l'ingente quantitativo di rifiuti, che non può essere
individuato a priori, attraverso riferimenti esclusivi a
dati specifici, quali, ad esempio, quello ponderale,
dovendosi al contrario basare su un giudizio complessivo che
tenga conto delle peculiari finalità perseguite dalla norma,
della natura del reato e della pericolosità per la salute e
l'ambiente e nell'ambito del quale l'elemento quantitativo
rappresenta solo uno dei parametri di riferimento.
Infine, la verifica deve essere effettuata considerando il
quantitativo complessivo di rifiuti trattati attraverso la
pluralità delle operazioni svolte, anche quando queste
ultime, singolarmente considerate, possono essere
qualificate di modesta entità. Quanto alla finalità di
ingiusto profitto, pure richiesta dalla norma in esame per
la configurabilità del delitto, si è precisato che esso non
deve necessariamente consistere in un ricavo patrimoniale,
potendosi ritenere integrato anche dal mero risparmio di
costi o dal perseguimento di vantaggi di altra natura, senza
che sia necessario, ai fini della configurazione del reato,
l'effettivo conseguimento di tale vantaggio (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.12.2018 n. 56101 - link a www.ambientediritto.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Procedimenti disciplinari, conta la notizia dell'infrazione. La
corte di cassazione sulla decorrenza del termine perentorio per la
conclusione dell'iter.
Il
termine perentorio, per la conclusione del procedimento disciplinare,
comincia a decorrere esclusivamente dal momento in cui l'ufficio competente
acquisisce una «notizia di infrazione» (art. 55-bis, comma 4, del dlgs n.
165/2001) di contenuto tale da consentire, in modo corretto, l'avvio al
procedimento stesso.
Questo è il principio affermato dalla Corte di Cassazione, Sez.
lavoro, con la
sentenza
12.12.2018 n. 32156.
Gli Ermellini hanno
ritenuto (respingendo il ricorso) legittimo il licenziamento disciplinare
(istruito e sottoscritto dagli autori), comminato da un ente locale a un
proprio dirigente a tempo indeterminato, per l'incompatibilità della
funzione di pubblico dipendente con l'esercizio della professione forense.
Il ricorrente aveva mantenuto l'iscrizione all'Albo degli avvocati ed
esercitato la professione, anche dopo l'assunzione in qualità di dirigente
amministrativo.
Al momento della sottoscrizione del contratto non aveva dichiarato la
sussistenza dell'incompatibilità, dichiarando, quindi il falso. Tra le
argomentazioni a sua difesa, questi aveva sostenuto che il termine
decadenziale del procedimento disciplinare dovesse computarsi dalla data
della prima richiesta di chiarimenti, che era stata formulata dall'ente in
ordine alla sua posizione.
La sentenza, confermando, invero, quanto argomentato nello stesso
provvedimento conclusivo del procedimento, ha, invece, evidenziato che
nell'esame, da parte della Corte d'Appello, era emerso che, dalla sequenza
dei fatti e dal tenore delle richieste avanzate dall'ente, alla data
indicata dal ricorrente (dicembre 2013) ancora non era chiara la sua
posizione, sussistendo dubbi circa l'effettiva situazione di
incompatibilità.
Soltanto con la risposta dell'interessato, giunta in via
«indiretta», dopo quasi due anni, l'Ufficio procedimento disciplinare ha
avuto gli elementi sufficienti a consentire la formulazione della
contestazione. La sentenza in esame ha, altresì, sancito che
l'amministrazione deve poter valutare la consistenza dei fatti acquisiti,
per stabilire se questi siano idonei a integrare una fattispecie di illecito
disciplinare.
Contrariamente, argomenta la Cassazione, la pubblica amministrazione sarebbe
costretta a formulare contestazioni approssimative, sulla scorta di fatti di
consistenza generica, rischiando, per non incorrere in decadenze, di avviare
procedimenti destinati a essere inficiati da vizi formali e sostanziali.
Di conseguenza, l'ente può anche svolgere indagini pre-procedimentali, così
da chiarire i termini della vicenda e valutare se sussista rilevanza
disciplinare, in relazione ai fatti emersi a carico del dipendente. Non
costituisce, inoltre, violazione del principio di immutabilità tra la
contestazione dell'addebito e l'irrogazione della sanzione disciplinare,
l'individuazione, nel provvedimento finale, di ragioni e fatti materiali
ulteriori, quando questi costituiscano, esclusivamente, una maggiore
specificazione di quanto già contestato.
In sostanza, nel caso di specie, gli elementi rafforzativi di quanto già
ritenuto sussistente sulla base della conclamata iscrizione all'albo, non
costituiscono fatti nuovi ulteriori e diversi, lesivi del diritto di difesa,
ma soltanto la comprova di quanto inizialmente contestato. Censurato è stato
anche il rilievo che la mancata cancellazione dall'Albo dovesse ascriversi
al Consiglio dell'Ordine, che non aveva provveduto in merito.
I giudici
hanno ritenuto che dall'istruttoria e dai fatti di causa era adeguatamente
provato che il dirigente, al momento dell'assunzione, non poteva non essere
consapevole della falsa dichiarazione che stava effettuando, sulla
insussistenza di cause di incompatibilità, atteso che all'epoca non esisteva
la cancellazione dall'albo degli avvocati e, contemporaneamente, continuava
l'effettivo esercizio dell'attività professionale.
La sentenza n. 32156/2018 non lascia, infine, alcun dubbio sulla
incompatibilità tra la professione di avvocato di libero foro e l'impiego
pubblico. I giudici hanno richiamato (come lo stesso provvedimento impugnato
aveva effettuato) l'art. 53 del dlgs n. 165/2001 (Incompatibilità, cumulo di
impieghi e incarichi), rammentando che al comma 1 viene sancita l'estensione
a tutti i dipendenti pubblici, contrattualizzati e non, della disciplina
delle incompatibilità dettata dal testo unico degli impiegati civili dello
Stato, agli artt. 60 e seguenti. L'articolo 53 ribadisce, pertanto, il
generale principio dell'incompatibilità, con riferimento a tutti i pubblici
dipendenti
(articolo ItaliaOggi del 21.12.2018). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - TRIBUTI: Solo
spese vive al Comune rappresentato in giudizio da un funzionario delegato.
La Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la
sentenza
10.12.2018 n. 31860, nell’accogliere il
ricorso di un cittadino nei confronti di un Comune, ha affermato che l'ente
pubblico che ha emesso il provvedimento sanzionatorio, quando è in giudizio
personalmente o avvalendosi di un funzionario delegato non può ottenere la
condanna dell'opponente, che sia soccombente, al pagamento delle spese di
liti.
Il contenzioso
Il tribunale, riformando la sentenza del giudice di pace, aveva annullato la
comunicazione (articolo 126 del Dlgs 285/1992) del ministero delle
Infrastrutture e dei trasporti del 21.12.2010, con la quale era stata
disposta la variazione del punteggio della patente di guida di un cittadino.
Il tribunale, inoltre, aveva regolato le spese di entrambi i gradi del
giudizio condannando il cittadino a rifondere il Comune per complessivi
mille euro. Nel ricorso per Cassazione il cittadino ha censurato la sentenza
del Tribunale perché il giudice aveva liquidato in favore del Comune spese
legali anche in relazione al primo grado, durante il quale l'ente
territoriale non era stato assistito da un avvocato, essendosi limitato alla
sola produzione documentale.
Inoltre, ha contestato il fatto che la sentenza ha quantificato le spese
liquidate in favore del Comune senza specificare il computo per gradi e,
comunque, oltre il massimo consentito per il grado d'appello.
L'analisi della Cassazione
Per la Corte di cassazione il primo motivo di ricorso è fondato. I giudici
di legittimità osservano che la Cassazione ha reiteratamente affermato che
l'autorità amministrativa che ha emesso il provvedimento sanzionatorio,
quando sta in giudizio personalmente o avvalendosi di un funzionario
specificamente delegato, «non può ottenere la condanna dell'opponente, che
sia soccombente, al pagamento dei diritti di procuratore e degli onorari di
avvocato, difettando le relative qualità nel funzionario amministrativo che
sta in giudizio, per cui sono, in questo caso, liquidabili in favore
dell'ente le spese, diverse da quelle generali, che abbia concretamente
affrontato in quel giudizio e purché risultino da apposita nota».
Per i giudici di legittimità, se mancano le indicazioni delle spese vive
effettivamente sborsate per il primo grado, al Comune devono essere
rimborsate solo le spese legali dell'appello, considerando il valore e la
qualità della causa, nonché delle attività espletate
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 09.01.2019). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
RIFIUTI - Materiali provenienti da demolizione - Regime
giuridico applicabile - Deposito temporaneo o sottoprodotto
- Requisiti - Inosservanza anche di una sola delle
condizioni - Illecita gestione dei rifiuti o in abbandono di
rifiuti - Grava sul produttore dei rifiuti l'onere della
prova - Artt. 183 e 256, D.L.vo n. 152/2006 -
Giurisprudenza.
Ai fini della configurabilità del reato
previsto dall'art. 256, commi 1 e 3, del d.lgs. 03.04.2006,
n. 152, i materiali provenienti da demolizione debbono
essere qualificati dal giudice come rifiuti, in quanto
oggettivamente destinati all'abbandono, salvo che
l'interessato non fornisca la prova della sussistenza dei
presupposti previsti dalla legge per l'applicazione di un
regime giuridico più favorevole, quale quello relativo al
"deposito temporaneo" o al "sottoprodotto"
(Sez. 3, n. 29084 del 14/05/2015, dep. 08/07/2015, Favazzo).
Va, infatti, ricordato che, in tema di
rifiuti, al fine di qualificare il deposito come temporaneo,
il produttore può alternativamente e facoltativamente
scegliere di adeguarsi al criterio quantitativo o a quello
temporale, ovvero può conservare i rifiuti per tre mesi in
qualsiasi quantità, oppure conservarli per un anno purché
essi non raggiungano, anche con riferimento ai rifiuti
pericolosi, i limiti volumetrici previsti dall'art. 183,
lett. bb), d.lgs. n. 152 del 2006
(cfr., tra le tante, Sez. 3, n. 38046 del 27/06/2013,
Speranza); sicché l'inosservanza anche di
una sola delle condizioni imposte per il deposito temporaneo
trasforma l'attività oggetto del deposito in illecita
gestione dei rifiuti o in abbandono di rifiuti.
A tal proposito, si è, inoltre, chiarito che l'onere della
prova relativa alla sussistenza delle condizioni di liceità
del deposito cosiddetto controllato o temporaneo, fissate
dall'art. 183 d.lgs. n. 152 del 2006, grava sul produttore
dei rifiuti, in considerazione della natura eccezionale e
derogatoria di tale deposito rispetto alla disciplina
ordinaria (Sez. 3,
n. 35494 del 10/05/2016, dep. 26/08/2016, Di Stefano)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.12.2018 n. 54702 - link a www.ambientediritto.it). |
LAVORI PUBBLICI: Pf, interesse non vincola la stazione appaltante.
La manifestazione non è impugnabile.
Una
manifestazione di interesse per proposte di project financing non vincola la
stazione appaltante e non è soggetta ad impugnazione in quanto fase
connotata da amplissima discrezionalità amministrativa.
Lo ha affermato il TAR Campania-Salerno, Sez. I, con la
sentenza 07.12.2018 n. 1772 in merito alla
legittimità ad impugnare un avviso pubblico per la manifestazione di
interesse alla successiva presentazione di proposte di project financing ai
sensi dell'art. 183, comma 15, del codice dei contratti pubblici.
Al
riguardo il Tar ha ricordato come l'Adunanza plenaria del consiglio ha
precisato in passato che la legittimazione all'impugnazione di atti e
provvedimenti afferenti «gare di appalto e affidamento di servizi» spetta
esclusivamente all'impresa che abbia partecipato alla procedura, ancorché vi
siano anche alcune eccezioni motivate dalla necessità di tutelare il
principio di «concorrenza» tra le imprese.
Nel caso esaminato dai giudici, si trattava dell'indizione di una fase
preliminare di individuazione del promotore e quindi di una fattispecie
«connotata da amplissima discrezionalità amministrativa, poiché volta non
già alla scelta della migliore fra una pluralità di offerte sulla base di
criteri tecnici ed economici preordinati, ma alla valutazione di un
interesse pubblico che giustifichi, alla stregua della programmazione delle
opere pubbliche, la decisione se indire o meno la procedura con gli indicati
requisiti di partecipazione».
Il Tar campano ha ricordato che l'azione di
annullamento davanti al giudice amministrativo è soggetta a due condizioni:
l'esistenza di una posizione di interesse legittimo, direttamente
discendente da una situazione qualificata che distingue questa posizione
soggettiva rispetto a quella di tutti gli altri soggetti; e la sussistenza
dell'interesse ad agire per ottenere un risultato utile e concreto,
collegato al conseguimento di un preciso e ben individuato «bene della
vita».
In una manifestazione di interesse «la titolarità di una tale posizione
non è configurabile, deponendo in tal senso l'esigua consistenza giuridica
che inequivocabilmente connota la scelta dell'amministrazione di bandire
l'avviso de quo e, quindi, la connessa piena facoltà dell'amministrazione di
abbandonare l'iniziativa finanche successivamente alla scelta del progetto
dichiarato di pubblico interesse»
(articolo ItaliaOggi del 14.12.2018).
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MASSIMA
Ciò detto, diviene doveroso ricordare che il project
financing è stato ordinariamente ricostruito come un istituto
caratterizzato da una pluralità di fasi, solitamente indicate in "due"
logicamente e cronologicamente distinte (salvo i casi in cui il giudice
amministrativo ha avuto modo di individuare sì due fasi ma una di esse
connotata -a sua volta- da due sub fasi o, ancora, proprio tre sub
procedimenti), rispettivamente dirette alla promozione dell'opera pubblica,
in cui l'Amministrazione valuta la proposta presentata da un soggetto
promotore sotto il profilo della fattibilità e dell'interesse pubblico,
nonché all'espletamento della procedura selettiva ad evidenza pubblica fra
più aspiranti alla concessione in base al progetto presentato (tanto da
configurare una "fattispecie a formazione progressiva"), connotate da
una propria autonomia ma -comunque- nel pieno ed indiscusso riconoscimento
della sussistenza tra di esse di un rapporto di "interdipendenza"
(cfr., ex multis, C.d.S., Sez. V, 31.08.2015, n. 4035; C.d.S., Sez.
V, 14.04.2015, n. 1872; C.d.S., Sez. III, 20.03.2014, n. 1365; TAR Veneto,
Sez. I, 28.01.2013, n. 99; TAR Campania, Napoli, Sez. I, 22.05.2012, n.
2358).
Le peculiarità dell'istituito hanno, dunque, determinato l'insorgenza di
dubbi e perplessità in ordine alla sindacabilità delle scelte operate
dall'Amministrazione.
In particolare, è stato posto il problema della sussistenza di un danno
attuale e, quindi, di un concreto ed effettivo interesse a proporre
impugnative avverso gli atti della procedura di project financing
preordinati alla selezione e/o alla scelta del promotore.
A seguito di un orientamento di pressoché unanime chiusura della
giurisprudenza amministrativa a ritenere ammissibili impugnative di tal
genere, in ragione della più volte affermata inidoneità della mera "dichiarazione
di pubblico interesse di un determinato progetto" a assicurare "di
per sé al relativo soggetto presentatore alcuna diretta ed immediata utilità"
e, quindi, del sostanziale collegamento dell'apprezzamento di un eventuale
lesività "solo all'esito del successivo procedimento di gara e
dell'eventuale aggiudicazione", tanto più che al concorrente che ha
presentato "la proposta non selezionata come progetto di pubblico
interesse non risulta affatto impedita la partecipazione alla gara
successiva per l'individuazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa"
(cfr., tra le altre, TAR Lazio, Roma, Sez. III, 28.07.2010, n. 28920, la
quale -a sua volta- richiama C.d.S., Sez. V. 28.05.2009, n. 3319; C.d.S.,
Sez. V, 26.01.2009, n. 392; C.d.S., Sez. V, nn. 4972 e 4973 del 23.09.2008;
C.d.S., Sez. V, 25.01.2005, n. 142), con sentenza n. 7277 dell'01.10.2010 la
Sezione V del Consiglio di Stato ha ravvisato validi motivi per rimettere
all'Adunanza Plenaria la "controversa questione" inerente alla
sindacabilità della "fase di selezione del promotore finanziario" e,
precipuamente, dell'immediata impugnabilità dell'individuazione del progetto
dichiarato di pubblico interesse, indipendentemente dalla conclusione del
procedimento mediante aggiudicazione della concessione.
Premesso che il Consiglio di Stato ha rimesso la questione all'Adunanza
Plenaria esclusivamente sulla base della specifica considerazione della
posizione del "concorrente, che pur ha partecipato alla fase di
individuazione del promotore finanziario, senza essere stato scelto come
tale", ossia del soggetto che, pur essendosi proposto come promotore, è
risultato soccombente e non è stato prescelto, e, dunque, della
configurazione di "un interesse strumentale" (ma non per questo non
autonomo e non meritevole di tutela) ad ottenere un immediato giudizio sul
provvedimento di scelta del promotore, l'Adunanza Plenaria si è pronunciata
con la sentenza n. 1 del 28.01.2012, statuendo -in sintesi- quanto segue:
a) "l'atto con cui la stazione appaltante
conclude la c.d. prima fase di selezione di una proposta, da porre a base
della successiva gara" è "immediatamente impugnabile da coloro che abbiano
presentato proposte concorrenti in relazione alla medesima opera pubblica";
b) più specificamente, tale atto risulta connotato
da "lesività", atteso che, da un lato, crea, per il soggetto
prescelto "una posizione di vantaggio certa e non meramente eventuale",
mentre, "sul versante opposto, per i concorrenti non prescelti, ...
determina un definitivo arresto procedimentale" e, comunque, pone quest'ultimi
"in una posizione di pati rispetto al diritto potestativo di prelazione
del promotore";
c) "in definitiva, il bene della vita nel
procedimento di project financing è il conseguimento della concessione sulla
base del progetto presentato nella prima fase, sicché se tale progetto non
viene selezionato come di pubblico interesse, è immediatamente leso
l'interesse a conseguire la concessione sulla base del proprio progetto",
con la conseguenza che l'atto di scelta "del promotore è immediatamente e
autonomamente lesivo, e immediatamente impugnabile da parte degli
interessati";
pervenendo, in conclusione, ad affermare il "principio di diritto"
secondo il quale "nel procedimento di project financing,
articolato in più fasi, la prima delle quali si conclude con la scelta, da
parte della stazione appaltante, del promotore, l'atto di scelta del
promotore determina una immediata posizione di vantaggio per il soggetto
prescelto e un definitivo arresto procedimentale per i concorrenti non
prescelti; tale atto è pertanto lesivo e deve essere immediatamente
impugnato dai concorrenti non prescelti, senza attendere l'esito degli
ulteriori subprocedimenti di aggiudicazione della concessione".
Tutto ciò detto, appare doveroso convenire con la parte resistente in ordine
all'impossibilità di ritenere applicabile il principio di cui sopra in
ordine alla controversia in trattazione, atteso che, in quest'ultima, la
ricorrente non assume la veste di "concorrente non prescelto", ossia
non si pone in alcun modo come tale.
In definitiva, chiara si rivela l'insussistenza di utili condizioni che
possano indurre a riconoscere operante in relazione alla ricorrente il
principio in precedenza richiamato, atteso che l’avviso de quo era
volto esclusivamente ad operare una ricerca di mercato, il cui esito non
sarebbe stato affatto vincolante per la PA con riguardo all’indizione della
gara, all’individuazione dei futuri soggetti legittimati a concorrere
nonché, infine, alla determinazione dei requisiti di partecipazione
eventualmente richiesti.
Ad una differente conclusione non vale -del resto- a condurre il richiamo
dei principi di carattere generale che governano l'interesse e la
legittimazione ad agire nell'azione di annullamento dinanzi al giudice
amministrativo.
In primo luogo, non può che prendersi atto che la giurisprudenza in
precedenza richiamata già vale di per sé a dare conto dell'inidoneità degli
atti afferenti la scelta del promotore a comportare un "danno attuale"
se non a carico -appunto- dei soggetti che, propostisi come tali, non sono
stati utilmente selezionati, a cui non può logicamente che riconnettersi il
riconoscimento dell'inammissibilità di eventuali impugnative proposte da
soggetti che risultino estranei alla fase di selezione del promotore nella
specie neppure indetta.
In secondo luogo, è noto che la proposizione dell'azione di annullamento
richiede l'effettiva titolarità di "un interesse differenziato e
qualificato".
Come già ricordato, l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (cfr. anche
le decisioni n. 1 del 2003 e n. 9 del 2014) ha avuto modo in più occasioni
di affermare la regola secondo cui la legittimazione all'impugnazione di
atti e provvedimenti afferenti "gare di appalto e affidamento di servizi"
spetta esclusivamente all'impresa che abbia partecipato alla procedura
(fatte salve precise e ben definite "eccezioni", comunque tese a
tutelare il principio di "concorrenza" tra le imprese).
Tenuto conto delle peculiarità del caso e, precipuamente, della circostanza
che, nell'ipotesi in trattazione, si tratta semplicemente della fase
preliminare di individuazione del promotore, connotata da amplissima
discrezionalità amministrativa, poiché volta "non già alla scelta della
migliore fra una pluralità di offerte sulla base di criteri tecnici ed
economici preordinati, ma alla valutazione di un interesse pubblico che
giustifichi, alla stregua della programmazione delle opere pubbliche, la
decisione se indire o meno la procedura con gli indicati requisiti di
partecipazione" (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. V, 31.08.2015, n.
4035, già cit.), non può, peraltro, che aderirsi all'orientamento
giurisprudenziale secondo il quale l'azione di annullamento
davanti al giudice amministrativo è soggetta a due condizioni,
rispettivamente consistenti nell'esistenza di una posizione di interesse
legittimo, direttamente discendente da una situazione qualificata (legitimatio
ad causam) che distingue il soggetto dal quisque de populo, e
nella sussistenza dell'interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. ad ottenere un
risultato utile e concreto, collegato al conseguimento di un preciso e ben
individuato bene della vita (legitimatio ad processum).
In altri termini, la legittimazione ad agire richiede la
titolarità in capo al soggetto che propone l'azione dell'interesse a
conseguire un determinato "vantaggio", sempre che, però, l'obiettivo
di cui si tratta risulti correlato ad una posizione differenziata e "qualificata"
che si profili idonea -in quanto tale- a porre il predetto nell'effettiva e
concreta condizione di ottenere il bene della vita a cui lo stesso aspira
(cfr. anche C.d.S., Ad.Pl., n. 449 dell'01.09.2014).
In sintesi, il soggetto che contesta la legittimità di un
provvedimento amministrativo e, quindi, aspira alla rimozione di quest'ultimo
deve rivelarsi titolare di una posizione meritevole di tutela in ragione
delle specifiche peculiarità che la connotano, atte a porre il soggetto in
questione nella effettiva condizione di conseguire un vantaggio pratico e
concreto dal buon esito della proposizione dell'azione.
Orbene, nel caso in trattazione, la titolarità di una tale posizione non è
configurabile, deponendo in tal senso l'esigua consistenza giuridica che
inequivocabilmente connota la scelta dell’amministrazione di bandire
l’avviso de quo e, quindi, la connessa piena facoltà
dell'Amministrazione di abbandonare l’iniziativa finanche successivamente
alla scelta del progetto dichiarato di pubblico interesse, senza, tra
l'altro, che una tale condotta valga ad integrare "alcuna forma
risarcitoria e nemmeno indennitaria", specie "quando, come nel caso,
la proposta di progetto sia ad iniziativa privata" (cfr. C.d.S., Sez. V,
26.06.2015, n. 3237 ma anche Sez. V, n. 7277 del 2010).
Del resto, non vi è chi non veda come la controversia prospettata investa
-in definitiva- la legittimità della scelta operata dal Comune di Salerno di
avviare un’indagine di mercato tesa anche ad individuare i profili
professionali dei possibili offerenti e, dunque, ammetterne la sindacabilità
da parte di un soggetto privo di una differenziata e ben qualificata
situazione giuridica non potrebbe che determinare uno sconvolgimento dei
principi che governano la legitimatio ad processum.
In forza di tutte le ragioni illustrate, il ricorso introduttivo del
presente giudizio va dichiarato inammissibile. |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Ascensori,
via libera facilitato. Installazione a carico di un solo condomino, senza
delibera. La conferma dell’indirizzo
giurisprudenziale di legittimità arriva dall’ordinanza n. 31462.
Corsia preferenziale per gli ascensori in condominio.
L'installazione dell'impianto nell'edificio che ne sia privo può infatti
essere eseguita anche da un solo condomino e senza autorizzazione
assembleare, purché i relativi costi siano integralmente sostenuti da quest'ultimo
e siano nel contempo adeguatamente salvaguardati gli interessi degli altri
comproprietari.
La conferma dell'indirizzo giurisprudenziale di legittimità di sempre
maggiore apertura verso gli interventi volti alla rimozione delle cosiddette
barriere architettoniche e alla garanzia di una reale accessibilità degli
edifici viene dall'ultima pronuncia sul tema della Corte di Cassazione,
Sez. II civile, con l'ordinanza 05.12.2018 n. 31462.
Il caso concreto.
Nella specie alcuni condomini avevano chiesto al tribunale di accertare e
dichiarare l'illegittimità dell'impianto di ascensore realizzato da un altro
comproprietario nell'edificio condominiale, con condanna alla riduzione in
pristino dello stato dei luoghi e al risarcimento del danno. Quest'ultimo si
era quindi costituito in giudizio per difendere la legittimità del proprio
operato. Il giudice di primo grado aveva rigettato la domanda e la sentenza
era quindi stata appellata. Anche i giudici del riesame avevano però
ritenuto infondata la domanda dei condomini, confermando a loro volta la
decisione impugnata.
I giudici di appello, dopo avere richiamato le indagini peritali svolte nel
corso del precedente giudizio, avevano infatti preso posizione sulle varie
questioni poste dai condomini a fondamento della propria domanda. Questi si
erano infatti lamentati in primo luogo del fatto che l'installazione del
nuovo impianto nell'edificio che ne era privo aveva ridotto lo spazio utile
per il passaggio delle persone e di eventuali biciclette e scooter. La Corte
di appello aveva a questo proposito evidenziato come dalla relazione tecnica
d'ufficio fosse stata evidenziata la possibilità di risolvere questo
problema con la rimozione degli scarichi e la demolizione della muratura di
rivestimento, allargando in tal modo il varco rimasto a seguito
dell'installazione dell'impianto in modo da consentire anche il passaggio
delle moto.
Quanto poi alla dedotta riduzione dell'illuminazione dei locali,
era stato rilevato come fossero comunque garantiti gli standard minimi
previsti dal regolamento edilizio comunale per le nuove costruzioni,
potendosi inoltre fare ricorso, come già avveniva, all'illuminazione
artificiale, tenuto conto del fatto che si trattava di locali comuni per i
quali non era prevista la permanenza di persone. Infine, quanto alla
contestata riduzione della ventilazione, era stato evidenziato come con
lavori di modesta entità sarebbe stato possibile ripristinare i requisiti
previsti dal menzionato regolamento edilizio, potendosi anche in tal caso
fare ricorso a un impianto di ventilazione meccanica.
La Corte di appello, confermando la decisione di primo grado, aveva quindi
evidenziato come, avendo i convenuti assunto a proprio carico tutte le spese
connesse alla realizzazione dell'impianto, costituisse un loro diritto, ai
sensi dell'art. 1102 c.c., procedere alla realizzazione dell'ascensore,
dovendosi attribuire la prevalenza all'esigenza di avvalersi di uno
strumento indispensabile per un completo ed effettivo godimento del bene
immobile.
La garanzia dell'esercizio di tale diritto era inoltre da
ritenersi nella specie adeguatamente contemperata con gli opposti diritti
vantati dai condomini appellanti, poiché i menzionati effetti negativi sulle
rispettive proprietà scaturenti dal nuovo impianto dovevano ritenersi
limitati e facilmente risolvibili. Di qui la decisione dei predetti
comproprietari di impugnare anche tale sentenza dinanzi alla Suprema corte,
contestando il fatto che i giudici di appello avessero fatto applicazione
dell'art. 1102 c.c. invece che dell'art. 1120 c.c. in materia di
innovazioni.
La decisione della Cassazione.
I giudici di legittimità, nel respingere a loro volta l'impugnazione, hanno
in primo luogo ricordato e confermato la più recente giurisprudenza che, nel
corso degli ultimi anni, facendo leva sul disposto dell'art. 1102 c.c., è
giunta a inquadrare l'intervento volto all'installazione di un impianto di
ascensore all'interno di un edificio che ne sia privo, utilizzando a tale
fine le parti comuni dell'edificio, come indispensabile ai fini
dell'accessibilità dell'immobile e della reale ed effettiva abitabilità del
medesimo.
La Suprema corte (sentenza n. 7938/2017) ha quindi recentemente ribadito
come in tema di eliminazione delle c.d. barriere architettoniche la legge n.
13/1989 costituisca espressione di un principio di solidarietà sociale e
persegua finalità di carattere pubblicistico volte a favorire,
nell'interesse generale, l'accessibilità degli edifici. Detto principio
implica il contemperamento di vari interessi, tra i quali deve includersi
anche quello delle persone disabili all'eliminazione delle barriere
architettoniche, trattandosi di un diritto fondamentale che prescinde
dall'effettiva utilizzazione, da parte di costoro, degli edifici interessati
e che conferisce comunque legittimità all'intervento innovativo, purché lo
stesso sia idoneo, anche se non a eliminare del tutto, quantomeno ad
attenuare le condizioni di disagio nella fruizione del bene primario
dell'abitazione (sentenze nn. 6129/2017 e 18334/2012).
Del resto, è stato sottolineato dai giudici della seconda sezione civile
della Cassazione, nei casi in cui non debba procedersi a una ripartizione
tra tutti i condomini della spesa di installazione dell'impianto, in quanto
assunta interamente dal solo comproprietario interessato (come avvenuto nel
caso di specie), trova in ogni caso applicazione il ricordato art. 1102 c.c.,
che contempla anche le innovazioni e in forza del quale ciascun partecipante
può servirsi del bene comune, a condizione che non ne alteri la destinazione
e non impedisca agli altri condomini di farne parimenti uso, apportandovi
quindi a proprie spese le modificazioni necessarie per il suo miglior
godimento (sentenze nn. 25872/2010 e 24006/2004).
Detta valutazione di
merito, secondo la Cassazione, era stata compiuta dalla corte di appello,
che aveva effettivamente escluso che sussistesse una limitazione dell'altrui
proprietà incompatibile con la realizzazione dell'opera. Di qui il rigetto
del ricorso e la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese
processuali.
Le ultime decisioni della Suprema corte in tema di
ascensori. I giudici di
legittimità si sono pronunciati più volte nell'ultimo periodo in merito
all'installazione e all'utilizzo dell'impianto di ascensore. Con la sentenza
n. 20713/2017 (si veda ItaliaOggi Sette del 18/09/2017) è stato precisato
per esempio che l'installazione dell'ascensore nell'edificio che ne sia
privo può essere effettuata anche da una parte dei condomini, a condizione
che gli stessi ne sopportino per intero la relativa spesa.
Tuttavia gli
altri condomini, ove in prosieguo intendano utilizzare a loro volta
l'impianto, saranno legittimati a farlo la saranno tenuti a rifondere ai
primi una quota delle spese sostenute, opportunamente rivalutata, divenendo
così a loro volta comproprietari dell'impianto. Con la più recente ordinanza
n. 22157 del 12/09/2018 (si veda ItaliaOggi Sette del 24/09/2018), è stato
invece chiarito che anche i proprietari dei negozi o dei locali siti al
piano terra con accesso diretto dalla strada sono tenuti a concorrere nelle
spese di manutenzione straordinaria o di sostituzione dell'impianto di
ascensore.
E, infatti, come illustrato nella precedente sentenza n. 14697
del 14/07/2015 (si veda ItaliaOggi Sette del 03/08/2015), l'ascensore
condominiale si presume bene di proprietà comune, salvo diversa ed espressa
previsione contenuta in un regolamento di natura contrattuale o in una
delibera assembleare assunta all'unanimità dei partecipanti al condominio. A
eccezione di questo caso, le spese di conservazione dell'impianto restano
quindi a carico dell'intera collettività condominiale, anche dei proprietari
delle unità immobiliari site al piano terreno (articolo ItaliaOggi Sette del 24.12.2018). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Il rimborso non è diritto.
In materia di oneri di assistenza legale per fatti commessi dal pubblico
dipendente nell'espletamento del servizio, non sussiste un diritto
incondizionato ed assoluto al rimborso delle spese da parte
dell'amministrazione pubblica.
Questo il principio che è stato affermato dalla Corte di Cassazione, Sez.
lavoro, nella recente
sentenza 04.12.2018 n. 31324.
Affrontando la disciplina prevista dall'articolo 28 del contratto collettivo
nazionale di lavoro (Ccnl) del 14.09.2000, applicabile al personale del
comparto regioni-autonomie locali, la Corte di cassazione precisa che la
stessa va interpretata nel senso che l'obbligo del datore di lavoro, avente
a oggetto l'assunzione diretta degli oneri di difesa fin dall'inizio del
procedimento, con la nomina di un difensore di comune gradimento, non può
ritenersi sussistente, qualora il dipendente abbia unilateralmente
provveduto a scelta e nomina del legale, senza previa comunicazione
all'amministrazione, ancorché successivamente abbia effettuato la
comunicazione della nomina (già) compiuta.
La Corte territoriale aveva accertato che il dipendente protagonista della
vicenda non aveva richiesto autorizzazione al Comune e aveva pertanto
ritenuto irrilevante la circostanza che l'ente fosse a conoscenza di una
contravvenzione.
La Corte di cassazione accoglie l'orientamento adottato dalla Corte
territoriale e ne amplifica la logica interpretativa, muovendo dall'esigenza
di consentire all'ente pubblico di valutare preventivamente anche l'assenza
di un possibile conflitto d'interesse con il dipendente sottoposto a
giudizio
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.12.2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
Zone terremotate ed emergenza "sisma" - Opere precarie e
manufatti leggeri, prefabbricati, strutture di qualsiasi
genere quali roulotte, camper, case mobili ecc. - Concetto
di "temporaneità" - Artt. 6, 7, 10, 44 d.P.R. n. 380/2001 -
Artt. 142, 181 d.lgs. n. 42/2004.
Tutte le opere, (ancorché destinate a
soddisfare esigenze abitative certamente temporanee ma
nemmeno di immediata risoluzione), realizzate al fine di
superare l'emergenza "sisma" devono possedere
caratteristiche tali da poter essere rimosse alla cessazione
dell'esigenza stessa.
Diversamente ragionando si consentirebbe la violazione delle
norme che disciplinano il governo del territorio al di fuori
delle specifiche esigenze che ne giustificano la deroga.
Pertanto, l'interpretazione del concetto di "temporaneità"
deve essere rigorosa e riguardare aspetti oggettivi
dell'opera, non potendo tale predicato derivare, per
proprietà transitiva, dalla natura extra ordinem della fonte
di diritto che ne legittima la costruzione.
...
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Stato di emergenza - Autorità
amministrative munite di poteri di ordinanza - Carattere
eccezionale del potere di deroga della normativa primaria -
Nesso di strumentalità.
Il carattere eccezionale del potere di
deroga della normativa primaria, conferito ad autorità
amministrative munite di poteri di ordinanza, sulla base di
specifica autorizzazione, implica che lo stesso sia
temporalmente delimitato e ben definito nel contenuto, tempi
e modalità di esercizio, dovendo altresì essere specificato
il nesso di strumentalità tra lo stato di emergenza e le
norme di cui si consente la temporanea sospensione.
In particolare, l"emergenza", pur se riferita a finalità di
interesse generale, non può compromettere il nucleo
essenziale delle attribuzioni regionali e, a tal proposito,
va rilevato che la legge sulla protezione civile n. 225 del
1992 si fa carico di dette esigenze, apparendo peraltro
rispettosa del principio della necessaria proporzione tra
"evento" e misure da adottare (v. art. 5, primo comma) e che
nell'ipotesi di dubbi applicativi, tale normativa va
comunque interpretata 'secundum ordinem', in modo da
scongiurare qualsiasi pericolo di alterazione del sistema
delle fonti (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.11.2018 n. 53638 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nozione di carico urbanistico - Elementi c.d. primari e
secondari o di servizio - Proporzione con l'insediamento
primario - Opere abusive - Ordine di demolizione - Natura di
sanzione amministrativa.
Il concetto di carico urbanistico,
deriva dall'osservazione che ogni insediamento umano è
costituito da un elemento c.d. primario (abitazioni, uffici,
opifici, negozi) e da uno secondario di servizio (opere
pubbliche in genere, uffici pubblici, parchi, strade,
fognature, elettrificazione, servizio idrico, condutture di
erogazione del gas) che deve essere proporzionato
all'insediamento primario ossia al numero degli abitanti
insediati ed alle caratteristiche dell'attività da costoro
svolte.
Quindi, il carico urbanistico è l'effetto che viene prodotto
dall'insediamento primario come domanda di strutture ed
opere collettive, in dipendenza del numero delle persone
insediate su di un determinato territorio.
Tale risultato viene verificato e conseguito con
l'emanazione, per le opere abusive, dell'ordine di
demolizione (adottato dal giudice con la sentenza di
condanna, salvo che le opere siano state altrimenti
demolite).
Detto provvedimento è formalmente giurisdizionale ma
qualificabile sostanzialmente come sanzione amministrativa;
esso, comunque, pur esulando dalla nozione di effetto
penale, costituisce atto dovuto per l'Autorità giudiziaria,
privo di contenuto discrezionale e conseguenziale alla
sentenza di condanna
(Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.11.2018 n. 53638 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati paesaggistici - Sequestro preventivo - Effettiva
lesione dell'ambiente e del paesaggio - Necessità -
Giurisprudenza.
In tema di sequestro preventivo per
reati paesaggistici, la sola esistenza di una struttura
abusiva ultimata non integra i requisiti della concretezza
ed attualità del pericolo, in assenza di ulteriori elementi
idonei a dimostrare che la disponibilità della stessa, da
parte del soggetto indagato o di terzi, possa implicare una
effettiva lesione dell'ambiente e del paesaggio
(Cass. Sez. 3, n. 2001 del 24/11/2017, dep. 2018, Dessi;
Sez. 3, n. 50336 del 05/07/2016, Del Gaizo) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.11.2018 n. 53638 - link a www.ambientediritto.it). |
VARI: Il
danno non passa all'erede.
Il danno erariale, anche se accertato con sentenza passata in giudicato, non
è automaticamente trasmissibile agli eredi.
Così la Corte di Cassazione, Sez. III civile, con
sentenza 29.11.2018, n. 30856.
L'Agenzia per la riscossione di Milano aveva notificato ai figli, in qualità
di eredi, una cartella di pagamento per euro 3.921.989,91, relativa
all'importo che il padre, deceduto nel 2007, era stato condannato a pagare a
titolo di risarcimento danni nei confronti dell'erario con sentenza della
Corte dei conti passata in giudicato. Gli eredi avevano così proposto
opposizione ex art. 615, comma 1, cpc, contro la cartella di pagamento,
puntualizzando di aver accettato l'eredità con beneficio di inventario e
deducendo in via principale l'inesistenza di un titolo esecutivo nei loro
confronti.
Sostenevano che il titolo esecutivo emesso prima del decesso del
responsabile dell'illecito, ex art. 1, comma 1, legge 20/1994 avrebbe potuto
essere azionato esecutivamente nei loro confronti «solo previo
l'accertamento della sussistenza delle condizioni di illecito arricchimento
del dante causa e di conseguente indebito arricchimento degli eredi stessi»,
richieste dalla legge ai fini della trasferibilità dell'obbligazione in capo
agli eredi. La Cassazione, ponendo definitivamente fine alla controversia,
accoglie la posizione dei figli ricorrenti.
In tema di responsabilità
amministrativa, infatti, anche quando il debito risarcitorio del pubblico
dipendente sia stato accertato dal giudice contabile con sentenza passata in
giudicato, la trasmissibilità agli eredi si verifica soltanto nei casi in
cui il fatto illecito abbia non soltanto arrecato un danno all'erario, ma
anche procurato al dante causa, autore dello stesso, un illecito
arricchimento, il che richiede che tale presupposto –così come il
conseguente indebito arricchimento degli eredi– sia stato «accertato nel
giudizio dinanzi al giudice contabile».
Pertanto non è riscontrabile alcun automatismo nella trasmissione del
debito, perché soggetto a presupposti che devono essere accertati in sede di
giurisdizione contabile
(articolo ItaliaOggi Sette del 17.12.2018). |
TRIBUTI: Avviso di accertamento valido anche se non allega la delibera.
È legittimo l'avviso di accertamento emanato dal comune di Milano nonostante
non abbia allegato all'atto la delibera con la quale ha determinato le
tariffe relative all'imposta sulla pubblicità. Agli atti impositivi devono
essere allegati i documenti non conosciuti e non conoscibili dai
contribuenti. Quindi, è escluso l'obbligo di allegazione per le delibere su
aliquote e tariffe che devono essere necessariamente pubblicate.
È quanto ha
affermato la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con la
sentenza
21.11.2018 n. 30053.
Per i giudici di piazza Cavour, le delibere comunali relative alla
determinazione delle tariffe «non rientrano tra i documenti che debbono
essere allegati agli avvisi di accertamento, atteso che si tratta di atti
amministrativi di carattere generale». L'obbligo di allegazione imposto
dall'art. 7 dello Statuto del contribuente (legge 212/2000) riguarda «gli
atti non conosciuti e non altrimenti conoscibili dal contribuente, ma non
gli atti generali come le delibere del consiglio comunale che essendo
soggette a pubblicità legale, si presumono conoscibili».
In effetti,
l'obbligo di allegazione agli avvisi d'accertamento degli atti cui si fa
riferimento nella motivazione, in base al citato art. 7, non si estende
anche agli atti generali come le delibere comunali, la cui conoscibilità si
ritiene presunta. La loro affissione all'albo pretorio, effettuata nei modi
e nei termini previsti dalla legge, costituisce una forma di pubblicità di
per sé esaustiva ai fini della presunzione di piena conoscenza erga omnes.
Si tratta infatti di atti a contenuto generale che costituiscono un
presupposto dell'avviso di accertamento e non un elemento motivazionale
dello stesso.
L'obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi è
stato introdotto nel nostro ordinamento dall'art. 3 della legge 241/1990. Ma
la motivazione e l'allegazione non è richiesta per gli atti normativi e per
quelli a contenuto generale. Nello specifico, l'onere di allegazione posto a
carico dell'amministrazione si riferisce agli atti che rappresentano la
motivazione della pretesa tributaria e non agli atti di carattere normativo
o regolamentare.
Ancora oggi, però, è dibattuta la questione relativa alla
motivazione delle delibere, soprattutto per quelle adottate in materia di
tassa rifiuti, tra giudici di legittimità e di merito e anche tra giudici
amministrativi. Per esempio, il Tar per l'Emilia Romagna (sentenza
1056/2015) ha sostenuto che la delibera che fissa le tariffe della tassa
rifiuti deve essere motivata e deve indicare i costi di esercizio dell'anno
precedente, le stime dell'anno di competenza, il gettito della tassa e le
ragioni dell'eventuale aumento dei costi e delle tariffe.
Il Tar per la
Puglia (sentenza 1238/2013), invece, ha stabilito che il comune non è tenuto
a motivare l'aumento delle tariffe Tarsu. L'aumento può essere giustificato
dalla necessità di coprire i costi del servizio. In senso contrario si è
espresso il Consiglio di Stato (sentenze 5616/2010 e 504/2015)), secondo cui
l'aumento delle tariffe va sempre motivato. Mentre per la Cassazione
(sentenza 22804/2006; ordinanza 26132/2011) è escluso questo adempimento per
gli atti generali
(articolo ItaliaOggi del 14.12.2018). |
APPALTI SERVIZI:
Affidamento in house e obbligo di motivazione: alla Consulta
norma del Codice Appalti.
Il Tar per la Liguria solleva questione di legittimità
costituzionale dell’art. 192, comma 2, del d.lgs. n. 50 del
2016 (nuovo codice dei contratti pubblici), nella parte in
cui esso impone all’amministrazione, che voglia avvalersi
dell’affidamento in house per servizi disponibili sul
mercato in regime di concorrenza, di esternare le ragioni
della propria scelta, motivando sulle ragioni del mancato
ricorso al mercato.
---------------
Contratti pubblici – Affidamento in house – Obbligo di
motivazione sulle ragioni del mancato ricorso al mercato –
Eccesso di delega legislativa – Questione non manifestamente
infondata di costituzionalità
E’ rilevante e non manifestamente
infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.
192, comma 2, del d.lgs. n. 50 del 2016, nella
parte in cui prevede che le stazioni appaltanti diano conto,
nella motivazione del provvedimento di affidamento in house,
“delle ragioni del mancato ricorso al mercato”, per
contrasto con l’art. 76 della Costituzione, in relazione
all’art. 1, lettere a) ed eee), della legge di delegazione
n. 11 del 2016 (recante deleghe al Governo per l'attuazione
delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014). (1)
---------------
(1)
I. – Un’impresa, gestore uscente del servizio di parcheggio
a pagamento nel Comune di Alassio, impugnava dinnanzi al Tar
per la Liguria la deliberazione della Giunta comunale con
cui veniva disposto l’affidamento del servizio in house (in
favore di una società partecipata interamente dal Comune
stesso).
A sostegno del gravame era dedotta la violazione
dell’articolo 106 del TFUE e dei principi comunitari in
materia di in house providing –lamentandosi, in
particolare, che l’amministrazione non avrebbe dato
adeguatamente conto della preferenza per il modello dell’in
house e che detta scelta non sarebbe stata preceduta da una
concreta e trasparente disamina delle alternative esistenti,
in contrasto con quanto prescrive l’art. 192, comma 2, del
codice– oltre al vizio di eccesso di potere per sviamento.
L’adito Collegio, con l’ordinanza qui in esame, ha sospeso
il processo ed ha rimesso alla Corte costituzionale la
questione di legittimità della menzionata disposizione,
laddove essa impone alla stazione appaltante di motivare le
ragioni del mancato ricorso al mercato.
Premessa la sussistenza del requisito della rilevanza
(trattandosi di commessa pubblica avente ad oggetto servizi
disponibili sul mercato in regime di concorrenza, e
rientrante, in ragione del suo importo, nella soglia di
rilevanza comunitaria, non essendo peraltro contestato che
il soggetto individuato quale affidatario possegga
effettivamente i requisiti della società in house).
II. – Il Tar ha così motivato in punto di non manifesta
infondatezza:
a) l’in house providing (di cui al 5°
considerando della direttiva n. 2014/24/UE ed all’art. 2,
comma 1, della direttiva n. 2014/23/UE) costituisce una
specifica applicazione del principio di autorganizzazione o
di libera amministrazione delle autorità pubbliche,
affermato anche dalla giurisprudenza della Corte di
Lussemburgo nella sentenza Stadt Halle al punto n. 48 (Corte
di giustizia UE, 11.01.2005, C-26/03, in Foro it., 2005, IV,
136, con nota di R. URSI, Una svolta nella gestione dei
servizi pubblici locali: non c’è «casa» per le
società a capitale misto, in Giur. comm., 2007, II, 60, con
nota di R. OCCHILUPO, L’ordinamento comunitario, gli
affidamenti in house e il nuovo diritto societario,
in Giorn. dir. amm., 2005, 271, con nota di C. GUCCIONE,
L’affidamento diretto di servizi a società mista, in
Urbanistica e appalti, 2005, 288, con nota di R. DE NICTOLIS,
La Corte CE si pronuncia in tema di tutela nella trattativa
privata, negli affidamenti in house e a società
miste, in Nuovo dir., 2005, 351, con nota di IERA, in
Contratti Stato enti pubbl., 2005, 231, con nota di
ASTEGIANO, in Foro amm.- Cons. Stato, 2005, 665, con nota di
E. SCOTTI, Le società miste tra in house providing e
partenariato pubblico privato: osservazioni a margine di una
recente pronuncia della Corte di giustizia, in Dir. comm.
internaz., 2005, 167, con nota di FERRANDO, in Riv. it. dir.
pubbl. comunitario, 2005, 992, con nota di V. FERRARO, La
nuova ricostruzione dell'in house providing proposta
dalla Corte di giustizia nella sentenza Stadt Halle, in
Guida al dir., 2005, 4, 101, con nota di SCINO, in Dir. e
giustizia, 2005, 5, 93, con nota di M. ALESIO, Società
miste, no all'affidamento diretto - mai appalti in house
se ci sono i privati, in Servizi pubbl. e appalti, 2005,
453, con nota di F. ROSSI, Gli affidamenti (quasi) in house:
la partecipazione pubblica totalitaria come elemento
essenziale.
Problemi e quesiti, ed in Rass. avv. Stato, 2004, 1100, con
nota di MORICCA); coerentemente con questi principi, l’art.
12 della direttiva n. 2014/24/UE “esclude espressamente
dal proprio ambito di applicazione, cioè dalla necessità di
una previa procedura ad evidenza pubblica, gli appalti
aggiudicati da un'amministrazione aggiudicatrice a una
persona giuridica di diritto pubblico o di diritto privato,
quando siano soddisfatte le tre condizioni proprie dell’in
house” (condizioni che, riepilogativamente, sono le
seguenti:
i) l'amministrazione aggiudicatrice esercita sulla persona
giuridica di cui trattasi un controllo analogo a quello da
essa esercitato sui propri servizi;
ii) oltre l'80% delle attività della persona giuridica
controllata sono effettuate nello svolgimento dei compiti ad
essa affidati dall'amministrazione aggiudicatrice
controllante o da altre persone giuridiche controllate
dall'amministrazione aggiudicatrice di cui trattasi;
iii) nella persona giuridica controllata non vi è alcuna
partecipazione diretta di capitali privati, ad eccezione di
forme di partecipazione di capitali privati che non
comportano controllo o potere di veto, prescritte dalle
disposizioni legislative nazionali, in conformità dei
trattati, che non esercitano un'influenza determinante sulla
persona giuridica controllata);
b) deve quindi ritenersi ormai definitivamente
acquisito –quantomeno in ambito europeo– il principio che l’in
house providing non configura affatto un’ipotesi
eccezionale e derogatoria di gestione dei servizi pubblici
rispetto all’ordinario espletamento di una procedura di
evidenza pubblica, ma costituisce una delle ordinarie forme
organizzative di conferimento della titolarità del servizio,
la cui individuazione in concreto è rimessa alle
amministrazioni, sulla base di un mero giudizio di
opportunità e convenienza economica;
c) tale principio può anzi ritenersi operante
anche nell’ordinamento interno, come riconosciuto da diversi
arresti del Consiglio di Stato (vengono citate: Consiglio di
Stato, sezione V, 15.03.2016, n. 1034, in Riv. giur. servizi
pubbl., 2016, 489, solo massima, con nota di SORRENTINO;
Consiglio di Stato, sezione III, 24.10.2017, n. 4902, in
Foro amm., 2017, 1991; Consiglio di Stato, sezione V,
18.07.2017, n. 3554, in Guida al dir., 2017, 34, 62, con
nota di D. PONTE), dovendosi valorizzare il disposto
dell’art. 34, comma 20, del decreto-legge n. 179 del 2012,
convertito in legge n. 221 del 2012, norma quest’ultima che,
per i servizi pubblici locali di rilevanza economica,
prevede che “l'affidamento del servizio è effettuato
sulla base di apposita relazione, pubblicata sul sito
internet dell'ente affidante, che dà conto delle ragioni e
della sussistenza dei requisiti previsti dall'ordinamento
europeo per la forma di affidamento prescelta e che
definisce i contenuti specifici degli obblighi di servizio
pubblico e servizio universale, indicando le compensazioni
economiche se previste”;
d) tale norma, specificamente dettata per i
servizi pubblici locali di rilevanza economica, “non
contiene alcun riferimento alle ragioni del mancato ricorso
prioritario al mercato, che sono ultronee rispetto
all’istituto dell’in house”; ciò, diversamente dall’art.
192, comma 2, del codice appalti, il quale, nell’imporre un
onere motivazionale supplementare relativamente alle “ragioni
del mancato ricorso al mercato”, finisce con l’eccedere
rispetto ai principi ed ai criteri direttivi contenuti nella
legge di delega n. 11 del 2016, segnatamente con
riferimento:
d1) alla lett. a) dell’art. 1,
che prevede il c.d. divieto di gold plating (ossia il
divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di
regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle
direttive, come definiti dall'articolo 14, commi 24-ter e
24-quater, della legge n. 246 del 2005): l’onere
amministrativo di motivazione circa le ragioni del mancato
ricorso al mercato appare infatti “maggiore e più gravoso
di quelli strettamente necessari per l’attuazione della
direttiva n. 2014/24/UE, la quale, come visto supra, per un
verso ammette senz’altro gli affidamenti in house a patto
che ricorrano le tre condizioni di cui all’art. 12, per
altro verso ha escluso i relativi contratti dal proprio
campo di applicazione, e dunque dall’obbligo di esperire
preventivamente una procedura di gara ad evidenza pubblica
(cioè, il ricorso al mercato)”;
d2) alla lett. eee)
dell’art. 1 la quale, nel riferirsi alla “garanzia di
adeguati livelli di pubblicità e trasparenza delle procedure
anche per gli appalti pubblici e i contratti di concessione
tra enti nell'ambito del settore pubblico, cosiddetti
affidamenti in house, prevedendo, anche per questi enti,
l'obbligo di pubblicazione di tutti gli atti connessi
all'affidamento, assicurando, anche nelle forme di
aggiudicazione diretta, la valutazione sulla congruità
economica delle offerte, avuto riguardo all'oggetto e al
valore della prestazione, e prevedendo l'istituzione, a cura
dell'ANAC, di un elenco di enti aggiudicatori di affidamenti
in house ovvero che esercitano funzioni di controllo o di
collegamento rispetto ad altri enti, tali da consentire gli
affidamenti diretti”, secondo il Tar non menziona in
alcun modo la necessità di motivare le ragioni del mancato
ricorso al mercato e, soprattutto, “non ha nulla a che
vedere con la valutazione sulla congruità economica delle
offerte, che attiene piuttosto alla loro sostenibilità in
termini di prezzi e di costi proposti (argomenta ex art. 97,
comma 1, del D.Lgs. n. 50/2016), cioè con l’unico elemento
che il criterio direttivo imponeva di valutare, oltre a
quello di pubblicità e trasparenza degli affidamenti,
mediante l'istituzione, a cura dell'ANAC, dell’elenco di
enti aggiudicatori di affidamenti in house”.
III. – Per completezza, si segnala quanto segue:
e) in sede di parere sullo schema di decreto
legislativo recante “Codice degli appalti pubblici e dei
contratti di concessione”, ai sensi dell'articolo 1,
comma 3, della legge n. 11 del 2016, il Consiglio di Stato,
aveva osservato che l’onere di motivazione imposto da
(quello che sarebbe diventato) l’art. 192, comma 2, secondo
cui “Ai fini dell'affidamento in house di un contratto
avente ad oggetto servizi disponibili sul mercato in regime
di concorrenza, le stazioni appaltanti effettuano
preventivamente la valutazione sulla congruità economica
dell'offerta dei soggetti in house, avuto riguardo
all'oggetto e al valore della prestazione, dando conto nella
motivazione del provvedimento di affidamento delle ragioni
del mancato ricorso al mercato, nonché dei benefici per la
collettività della forma di gestione prescelta, anche con
riferimento agli obiettivi di universalità e socialità, di
efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché
di ottimale impiego delle risorse pubbliche”,
costituisce “un onere motivazionale rafforzato, il quale
consente un penetrante controllo della scelta effettuata
dall'Amministrazione, anzitutto sul piano dell'efficienza
amministrativa e del razionale impiego delle risorse
pubbliche” (comm. spec., parere 01.04.2016, n. 464, le
cui massime sono riportate in Foro amm., 2016, 824);
f) la giurisprudenza amministrativa, in sede di
delibazione della “motivazione” resa dalla stazione
appaltante sul “mancato ricorso al mercato”, si
mostra al momento piuttosto rigorosa: cfr., di recente,
Consiglio di Stato, sezione V, sentenza 16.11.2018, n. 6456,
la quale –pronunciandosi sulla legittimità di un affidamento
diretto, in house, del servizio di gestione dei
rifiuti per un gruppo di Comuni ricompresi in un’Assemblea
territoriale d’ambito marchigiana (ATO 2 Ancona)– ha
ritenuto che tale onere motivazionale debba essere adempiuto
mediante un “compiuto esame comparativo”, da parte
dell’amministrazione, sui costi medi del servizio da
affidarsi e sulle relative performances che, nel
medesimo ambito territoriale, risultino già svolti sia da
operatori privati sia da altre società ad integrale
partecipazione pubblica, statuendosi per l’effetto che “è
onere dell’autorità amministrativa affidante quello di
rendere comunque comparabili i dati su cui il confronto
viene svolto”, con necessaria allegazione di “dati di
dettaglio” (nella fattispecie, posto che simili dati non
erano stati forniti, si è quindi concluso nel senso di "un
approfondimento insufficiente delle implicazioni derivanti
dalla scelta del modello di gestione in house del servizio
relativo ai rifiuti”, con conseguente annullamento,
in parte qua, della delibera che aveva affidato il
servizio in via diretta);
g) analogamente il Consiglio di Stato, questa
volta nella sede consultiva, ha affermato che “L’opzione
di fondo, secondo il Collegio, dovrebbe essere nel senso
che, fermo restando specifiche prescrizioni imposte dal
diritto europeo, la decisione di non esternalizzare
l’attività deve essere rigorosamente motivata dimostrando
che la scelta organizzativa interna si risolve in un
maggiore vantaggio per i cittadini. La mancanza di una
libera decisione da parte dell’amministrazione pubblica è
maggiormente coerente con il principio generale di tutela
della concorrenza...” (così il parere della Commissione
speciale n. 968 del 21.04.2016, reso in sede di analisi
dello schema di decreto legislativo recante Testo unico in
materia di società a partecipazione pubblica, poi confluito
nel d.lgs. n. 175 del 2016 il cui art. 5, comma 1, ha poi
stabilito che “l’atto deliberativo di costituzione di una
società a partecipazione pubblica, […] deve essere
analiticamente motivato […] evidenziando, altresì, le
ragioni e le finalità che giustificano tale scelta, anche
sul piano della convenienza economica e della sostenibilità
finanziaria, nonché di gestione diretta o esternalizzata del
servizio affidato”).
In altra occasione, ancora in sede consultiva, va ricordato
che il Consiglio di Stato –nel rilasciare il parere sullo
schema del regolamento di attuazione degli interventi di cui
all’articolo 1, commi 648 e 649, della legge n. 208 del 2015
(si tratta dello schema poi confluito nei dd.mm. nn. 125 e
126 del 2017, in tema di contributi per il
decongestionamento della rete viaria e del trasporto
marittimo e per i servizi di trasporto ferroviario
intermodale)– ha affermato che l’affidamento ad una società
in house, in via diretta, di molteplici attività di
gestione (per come previsto all’art. 4 dello schema) non era
assistito da un’adeguata motivazione, ricordando che, “ai
sensi della vincolante disciplina sovranazionale,
l’affidamento diretto di attività remunerate, da parte di
pubbliche amministrazioni in favore di soggetti privati in
house, non può giustificarsi solo in forza di una
valutazione giuridico-formale, ma deve anche essere sorretto
dalla dimostrazione della ragionevolezza economica della
scelta compiuta”, con espresso richiamo proprio alla
norma di cui all’art. 192 del d.lgs. n. 50 del 2016; così,
in particolare, si legge nel parere: “Il Collegio dà per
scontato che, anche nel caso di specie, tale valutazione di
meritevolezza dell’affidamento alla RAM s.p.a. sia stata
compiuta (giacché, diversamente, la scelta regolatoria
sarebbe illegittima); sennonché, pure in questo caso, si
deve purtroppo registrare un’assoluta laconicità sia della
relazione tecnica sia di quella AIR (relazioni queste che,
per i provvedimenti normativi, contengono, insieme all’ATN e
alla relazione ministeriale, la “motivazione” degli
intervento regolatori). Si impone, pertanto, la necessaria
integrazione in parte qua della documentazione di supporto
dello schema in esame” (Consiglio di Stato, sez.
consultiva atti normativi, parere n. 774 del 29.03.2017, le
cui massime si trovano in Foro amm., 2017, 610);
h) alcune oscillazioni, circa la maggiore o
minore intensità dell’onere di motivazione ai sensi
dell’art. 192, comma 2, del d.lgs. n. 50 del 2016, si
rinvengono nella giurisprudenza di primo grado:
h1) Tar per la Lombardia,
sezione III, sentenza 03.10.2016, n. 1781 (in Foro amm.,
2016, 2453), ha annullato un affidamento in house (si
trattava dell’affidamento del servizio idrico integrato per
la Provincia di Varese) proprio per la “laconicità”
della motivazione spesa dall’amministrazione: si è rilevato
che la relazione all’uopo predisposta (ossia, la relazione
predisposta ai sensi dell’art. 34, comma 20, del
decreto-legge n. 179 del 2012, convertito in legge n. 221
del 2012, atto prodromico all’affidamento dei servizi
pubblici locali di rilevanza economica) “non contiene
alcuna valutazione di tipo concreto, riscontrabile,
controllabile, intellegibile e pregnante sui profili della
convenienza, anche non solo economica, della gestione
prescelta, limitandosi ad apodittici riferimenti alla
gestione in house che, come tali, sono da ritenersi privi di
quel livello di concreta pregnanza richiesto per soddisfare
l’onere di motivazione aggravato e di istruttoria ai sensi
del combinato disposto degli art. 3 l. n. 241 del 1990 e 34,
comma 20, D.L. 18.10.2012, n. 179. In altri termini nella
relazione si dà per presupposta e scontata la scelta circa
la forma di gestione del servizio senza che ne vengano
illustrate le ragioni e gli elementi concreti su cui si
fonda”, giungendosi pertanto alla conclusione che “la
scelta e il conseguente affidamento diretto fondati su
determinazioni che non forniscono alcuna ragione
dell’opzione esercitata a monte, sono da ritenersi di per sé
illegittimi...”);
h2) con
riferimento ad una commessa relativa all’affidamento del
servizio di igiene urbana, Tar per la Sardegna, sezione I,
sentenza 04.05.2018, n. 405 (in Foro amm., 2018, 923), ha
ritenuto che, in simile fattispecie, non sarebbe in radice
applicabile l’art. 192, comma 2, del d.lgs. n. 50 del 2016,
con conseguente non necessità della motivazione in caso di
affidamento in house, “ove si tenga conto del
fatto che il servizio di igiene urbana non è riconducibile
alla categoria dei servizi disponibili sul mercato in regime
di concorrenza; e ciò per la semplice ragione che l’art. 198
del d.lgs. n. 152/2006 (norme in materia ambientale) riserva
ai comuni «in regime di privativa» la «gestione dei rifiuti
urbani e dei rifiuti assimilati avviati allo smaltimento»,
sottraendolo, pertanto, al mercato concorrenziale”;
h3) per un caso in
cui il giudice amministrativo ha ritenuto “esaurientemente
e convincentemente motivata, tanto nei suoi profili in fatto
quanto in quelli in diritto”, la delibera con cui
un’Azienda sanitaria aveva affidato il servizio di pulizia e
sanificazione in favore di una propria società in house,
cfr. Tar per la Puglia–Lecce, sezione II, sentenza
05.03.2018, n. 383;
h4) per la
riaffermazione degli approdi cui era giunta, in precedenza,
la giurisprudenza amministrativa in tema di motivazione
sull’affidamento in house, e sui relativi limiti del
sindacato del giudice amministrativo –quindi pur sempre in
applicazione del nuovo art. 192, comma 2, del d.lgs. n. 50
del 2016– Tar per l’Abruzzo–Pescara, sentenza 29.01.2018, n.
35, secondo cui “la scelta, espressa da un ente locale,
nella specie da un Comune, nel senso di rendere un dato
servizio alla cittadinanza con una certa modalità
organizzativa piuttosto di un'altra, ovvero in questo caso
di ricorrere allo in house e non esternalizzare, è
ampiamente discrezionale, e quindi, secondo giurisprudenza
assolutamente costante e pacifica, è sindacabile nella
presente sede giurisdizionale nei soli casi di illogicità
manifesta ovvero di altrettanto manifesto travisamento dei
fatti”;
h5) sempre in
occasione della applicazione dell’art. 192, comma 2, del
d.lgs. n. 50 del 2016, la giurisprudenza amministrativa ha
avuto modo di osservare che detta norma, nell’onerare le
stazioni appaltanti di effettuare una preventiva valutazione
economica della congruità dell'offerta dei soggetti in
house, tuttavia non impone alcuna gara, neppure
informale, fra operatori del mercato: pertanto la
valutazione delle congruità delle offerte dei soggetti in
house prevista dal nuovo codice dei contratti pubblici non
può essere confusa con una sorta di gara, alla quale l'ente
affidante dovrebbe invitare le imprese del settore, fra le
quali il gestore uscente del servizio (così Tar per la
Lombardia, sezione IV, 22.03.2017, n. 694, in Foro amm.,
2017, 697);
i) sulla “non eccezionalità” del ricorso
al modello dell’in house cfr., da ultimo, Consiglio
di Stato, sezione III, sentenza 24.10.2017, n. 4902, cit.,
che ha ribadito la più recente giurisprudenza del medesimo
consesso, ricordando che:
i1) stante
l’abrogazione referendaria dell’art. 23-bis del
decreto-legge n. 112 del 2008, convertito in legge n. 133
del 2008, e la declaratoria di incostituzionalità dell’art.
4 del decreto-legge n. 138 del 2011, convertito in legge n.
148 del 2011, “è venuto meno il principio, con tali
disposizioni perseguito, della eccezionalità del modello in
house per la gestione dei servizi pubblici locali di
rilevanza economica; mentre, con l’art. 34 del d.l.
18.10.2012, n. 197, sono venute meno le ulteriori
limitazioni all’affidamento in house, contenute nell’art. 4,
comma 8, del predetto d.l. n. 238 del 2011” (così Sez.
VI, 11.02.2013, n. 762, in Dir. giur. agr. ambiente,
2013, 328, con nota di PIEROBON);
i2) a sua volta,
la Sezione V (sentenza 22.01.2015, n. 257, in Foro amm.,
2015, 76, solo massima) ha non solo ribadito la natura
ordinaria e non eccezionale dell’affidamento in house,
ricorrendone i presupposti, ma ha pure rilevato come la
relativa decisione dell’amministrazione, ove motivata,
sfugge al sindacato di legittimità del giudice
amministrativo, salva l’ipotesi di macroscopico travisamento
dei fatti o di illogicità manifesta;
i3) ancora, la
stessa Sezione V (sentenza 18.07.2017, n. 3554, cit.), ha
richiamato, in senso rafforzativo, la chiara dizione del
quinto “considerando” della direttiva n. 2014/24/UE,
laddove si ricorda che “nessuna disposizione della
presente direttiva obbliga gli Stati membri ad affidare a
terzi o a esternalizzare la prestazione di servizi che
desiderano prestare essi stessi o organizzare con strumenti
diversi dagli appalti pubblici ai sensi della presente
direttiva”;
j) in dottrina, circa l’ambito di applicazione
dell’art. 192 del d.lgs. n. 50 del 2016 e la sua conformità
ai criteri della legge di delegazione, cfr. R. DE NICTOLIS,
I nuovi appalti pubblici, Bologna, 2017, 266 ss.; nel senso
che la norma del codice costituisca una violazione del c.d.
divieto di gold plating, in quanto l’onere di motivazione
circa la scelta dell’in house determina un livello di
regolazione maggiore o più incisivo rispetto a quelli
contenuti nelle disposizioni della direttiva n. 2014/24/UE,
cfr. anche F.E. RIZZI, La società in house: dalla
natura giuridica al riparto di giurisdizione, in Società,
2018, 71 ss.; in argomento, più in generale, cfr. anche: G.
VELTRI, Il nuovo codice dei contratti pubblici - L'in
house nel nuovo codice dei contratti pubblici, in Giorn.
dir. amm., 2016, 436;
k) sulla possibile estensione della delega
legislativa, e sui limiti di esercizio della delega da parte
del Governo, ai sensi dell’art. 76 Cost., si segnala, di
recente, la
sentenza n. 104 del 2017 della Corte costituzionale
(in Foro it., 2017, I, 2540, con nota di G. PASCUZZI, Il
fascino discreto degli indicatori: quale impatto
sull’università?, ed in Giur. cost., 2017, 1063, con note di
G. SERGES, Delegazione legislativa, legislazione regionale e
ruolo del potere regolamentare, e di G. TARLI BARBIERI, L'“erompere”
dell'attività normativa del governo alla luce della sent. n.
104 del 2017: conferme e novità da un'importante pronuncia
della corte costituzionale, nonché oggetto della
News US in data 16.05.2017, cui si rinvia per
ulteriori indicazioni in tema), in cui si è affermato che “il
legislatore delegante, nel conferire al Governo l’esercizio
di una porzione di funzione legislativa, è tenuto a
circoscriverne adeguatamente l’ambito, predeterminandone i
limiti di oggetto e di contenuto, oltre che di tempo. Di
conseguenza la legge delega non deve contenere enunciazioni
troppo generali o comunque inidonee ad indirizzare
l’attività normativa del legislatore delegato, ma può essere
abbastanza ampia da preservare un margine di discrezionalità
al Governo, sì da poter agevolmente svolgere la propria
attività di ‘riempimento’ normativo”.
Più in generale, preme qui ricordare che, secondo la
costante giurisprudenza costituzionale, la verifica di
costituzionalità per eccesso di delega legislativa deve
compiersi sulla base di “un confronto tra gli esiti di
due processi ermeneutici paralleli: l’uno, relativo alle
norme che determinano l’oggetto, i principi e i criteri
direttivi indicati dalla delega, da svolgere tenendo conto
del complessivo contesto in cui esse si collocano ed
individuando le ragioni e le finalità poste a fondamento
della stessa; l’altro, relativo alle norme poste dal
legislatore delegato, da interpretarsi nel significato
compatibile con i principi e i criteri direttivi della
delega”: al riguardo, al legislatore delegato spettano
margini di discrezionalità nell’attuazione della delega,
sempre che ne sia rispettata la ratio e che
l’attività del delegato si inserisca in modo coerente nel
complessivo quadro normativo di riferimento, dovendosi
escludere che l’art. 76 Cost. riduca la funzione del
legislatore delegato ad una mera “scansione linguistica”
delle previsioni stabilite dal legislatore delegante, e
fermo comunque restando che l’ambito della discrezionalità
lasciata al delegato muta a seconda della specificità dei
criteri fissati nella legge delega (così, da ultimo,
Corte cost., sentenza n. 10 del 2018, in Foro it.,
2018, I, 1119, ed in Giur. cost., 2018, 137, con nota di G.
TARLI BARBIERI, Storia di una delega “inutile”? Lo “strano
caso” deciso dalla sent. n. 10/2018 della Corte
costituzionale, nonché oggetto della
News US in data 31.01.2018, cui si rimanda per
gli opportuni approfondimenti in tema) (TAR
Liguria, Sez. II,
ordinanza 15.11.2018 n. 886
- commento tratto
da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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ORDINANZA
Con ricorso notificato in data 08.06.2018 e depositato in data
20.06.2018 la società S.C.T. Sistemi di Controllo Traffico
s.r.l. (di seguito, SCT senz’altro), che gestiva, in esito a
procedura aperta bandita nel corso del 2011, il servizio di
parcheggio a pagamento nel comune di Alassio, ha impugnato
la deliberazione della giunta comunale 07.05.2018, n.
154, concernente “l’affidamento del servizio di gestione dei
parcheggi a pagamento senza custodia alla società in house GESCO s.r.l. per il periodo 11.06.2018-31.12.2023”, nonché la presupposta deliberazione del consiglio
comunale n. 25 del 05.04.2018, di approvazione della
relazione illustrativa delle ragioni e della sussistenza dei
requisiti previsti dall’ordinamento europeo per
l’affidamento in house dei servizi pubblici locali di
rilevanza economica, prevista dall’art. 34 del D.L.
18.10.2012, n. 179, convertito in legge 17.12.2012, n. 221.
...
Il motivo è articolato sotto due distinti profili, come
segue.
1.A. sulla necessità di una motivazione specifica e di una
comparazione concreta tra le differenti modalità di gestione
nella scelta della gestione in house.
Sotto un primo profilo denuncia la violazione dell’articolo
106 del trattato sul funzionamento dell’Unione Europea e dei
principi comunitari in materia di in house providing.
Premessa la asserita valenza derogatoria dell’in house providing rispetto alla regola generale dell’evidenza
pubblica (ciò che –in tesi- implicherebbe che i princìpi
che governano tale istituto debbano essere interpretati in
maniera rigorosa e restrittiva), lamenta che
l’amministrazione non abbia dato adeguatamente conto della
preferenza per il modello in house, e che la scelta del
modello in house non sia stata preceduta da una concreta e
trasparente disamina delle alternative esistenti, sotto i
profili della comparazione tra le varie forme di gestione,
delle valutazioni economico/qualitative dei servizi offerti
e della verifica della effettiva capacità del gestore di
svolgere correttamente il servizio affidato.
Ai sensi dell’art. 192, comma 2, del D.Lgs. n. 50/2016, il
provvedimento di scelta per il modulo di gestione in house
dovrebbe invece essere necessariamente preceduto da una
valutazione che dia conto, in motivazione, delle ragioni che
fanno propendere per una delle diverse tipologie, motivando,
secondo una logica di preferenza via via decrescente, in
ordine all’impossibilità di utilizzare: 1) in prima battuta,
lo strumento -altrimenti sempre preferibile-
dell’affidamento mediante procedura di evidenza pubblica; 2)
in subordine, quello dell’affidamento a società mista, che
in ogni caso presuppone la gara per la scelta del socio
privato; 3) in via di ulteriore subordine, quello
dell’affidamento in house e senza gara.
I.B. Sulla inesistenza di qualsiasi comparazione tra le
forme di gestione, sulla carenza di motivazione e di
istruttoria e sullo sviamento dell’affidamento a GESCO del
servizio di gestione dei parcheggi.
Sotto un secondo profilo, deduce che sarebbe quantomeno
“sospetto” il comportamento del comune, il quale, dopo avere
bandito una procedura andata deserta alla luce di
valutazioni tecnico-economiche palesemente erronee circa gli
investimenti necessari, anziché “aggiustare il tiro” con
l’indizione di una nuova procedura strutturata su un
progetto tecnico-economico sostenibile per il mercato, ha
invece sottratto ad ogni possibile confronto concorrenziale
soltanto una parte dei servizi precedentemente posti in gara
(la gestione dei parcheggi a pagamento).
La stessa progressione temporale degli atti impugnati
costituirebbe spia dell’eccesso di potere per sviamento,
apparendo verosimile che la decisione di affidare il
servizio in house fosse antecedente, e prescindesse del
tutto dalle valutazioni contenute nella relazione
illustrativa, predisposta dal comune ai sensi dell’art. 34,
comma 20, del D.L. 179/2012.
La motivazione del provvedimento sarebbe poi del tutto
carente sia sotto il profilo della capacità tecnica di GESCO,
sia sotto il profilo economico, giacché da un lato la
preferenza per l’offerta di GESCO non sarebbe stata
preceduta da alcuna indagine di mercato, dall’altro il piano
economico finanziario contenuto nella relazione sarebbe del
tutto privo di qualsiasi asseverazione da parte di istituto
di credito o società di servizi (in violazione di quanto
statuito dall’articolo 3-bis, commi 1-bis e 6-bis, del D.L.
n. 138/2011, che peraltro riguarda i soli servizi “a rete”),
sicché non vi sarebbe certezza circa l’utile di gestione.
...
Ciò premesso, può procedersi all’esame dell’unico motivo di
ricorso, con il quale la società ricorrente contesta
l’incongruità e l’insufficienza delle motivazioni che la
relazione approvata con deliberazione C.C. n. 25/2018 ha
posto a sostegno della decisione di affidare in house il
servizio di gestione dei parcheggi a pagamento.
In particolare, deduce la ricorrente che né la relazione
approvata dal consiglio comunale ai sensi dell’art. 34 del
D.L. 18.10.2012, n. 179, né la delibera di giunta di
affidamento del servizio avrebbero dato conto –come invece
impone l’art. 192, comma 2, del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50-
delle ragioni del mancato ricorso al mercato (così detto outsourcing), che costituirebbe l’opzione prioritaria ed
ordinaria.
Difatti, ai sensi dell’art. 192, comma 2, del D.Lgs.
18.04.2016, n. 50, “ai fini dell'affidamento in house di un
contratto avente ad oggetto servizi disponibili sul mercato
in regime di concorrenza, le stazioni appaltanti effettuano
preventivamente la valutazione sulla congruità economica
dell'offerta dei soggetti in house, avuto riguardo
all'oggetto e al valore della prestazione, dando conto nella
motivazione del provvedimento di affidamento delle ragioni
del mancato ricorso al mercato, nonché dei benefici per la
collettività della forma di gestione prescelta, anche con
riferimento agli obiettivi di universalità e socialità, di
efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché
di ottimale impiego delle risorse pubbliche”.
Il collegio dubita della legittimità costituzionale
dell’art. 192, comma 2, del D.Lgs. 18.4.2016, n. 50, nella
parte in cui prevede che le stazioni appaltanti diano conto
nella motivazione del provvedimento di affidamento in house
di un contratto “delle ragioni del mancato ricorso al
mercato”, per contrasto con l’art. 76 della Costituzione, in
relazione all’art. 1 lettere a) ed eee) della legge
28.1.2016, n. 11 (recante deleghe al Governo per
l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e
2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014).
La questione è innanzitutto rilevante.
Giova premettere come il contratto in questione abbia ad
oggetto servizi disponibili sul mercato in regime di
concorrenza, e rientri, in ragione del suo importo (canone
di concessione fisso di € 200.000,00 l’anno, dall’11.06.2018
al 31.12.2023), nella soglia di rilevanza comunitaria di cui
all’art. 4, lett. c), della direttiva n. 2014/24/UE (€
221.000,00 per gli appalti pubblici di forniture e di
servizi aggiudicati da amministrazioni aggiudicatrici
sub-centrali).
Ciò premesso, la disposizione sospettata di
incostituzionalità –la cui violazione è specificamente
contestata nell’unico motivo di ricorso- impone alle
stazioni appaltanti di valutare l’opportunità e convenienza
dei provvedimenti di affidamento in house alla luce,
innanzitutto, “delle ragioni del mancato ricorso al
mercato”, delle quali occorre dare espressamente conto in
motivazione.
Essa costituisce dunque, alla luce del motivo dedotto, il
parametro legislativo alla stregua del quale questo giudice
è chiamato a valutare la legittimità dei provvedimenti
impugnati, sotto il profilo dell’indicazione espressa delle
ragioni del mancato ricorso al mercato, e della congruità
e/o adeguatezza delle stesse: e ciò, in quanto la società
SCT non contesta affatto il ricorrere, in capo alla
controinteressata GESCO s.r.l., delle tre condizioni
stabilite dall’art. 5 del D.Lgs. n. 50/2016 (controllo
dell’amministrazione aggiudicatrice analogo a quello
esercitato sui propri servizi; 80% dell’attività della
controllata effettuato nello svolgimento dei compiti
affidati dall’amministrazione aggiudicatrice controllante;
assenza di partecipazione diretta di capitali privati) per
il legittimo ricorso all’in house providing, condizioni che
sono dunque pacifiche tra le parti.
Donde la rilevanza della questione, non potendo il giudizio
essere definito indipendentemente dalla risoluzione della
relativa questione di legittimità costituzionale.
Ma la questione pare al collegio anche non manifestamente
infondata.
E’ noto l’ampio dibattito dottrinale e giurisprudenziale
circa la figura dell’in house providing (o autoproduzione),
che costituisce una modalità di aggiudicazione di una
concessione o di un appalto pubblico a soggetti formalmente
distinti, ma sottoposti ad un controllo tanto penetrante di
un’amministrazione da costituirne sostanzialmente
un’articolazione organizzativa, modalità alternativa al
ricorso all’esternalizzazione (così detto outsourcing)
mediante l’avvio di una procedura ad evidenza pubblica.
L’istituto, di origine pretoria (cfr. la sentenza della
C.G.C.E., V, 18.11.1999, n. 107, società Teckal), ha trovato
la sua prima codificazione nell’ordinamento europeo ad opera
della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio
26.02.2014, n. 2014/24/UE per i settori ordinari.
In particolare, il 5° considerando della direttiva n.
2014/24/UE chiarisce che “è opportuno rammentare che nessuna
disposizione della presente direttiva obbliga gli Stati
membri ad affidare a terzi o a esternalizzare la prestazione
di servizi che desiderano prestare essi stessi o organizzare
con strumenti diversi dagli appalti pubblici ai sensi della
presente direttiva”.
Si tratta di una specifica applicazione del principio di
autorganizzazione o di libera amministrazione delle autorità
pubbliche, più efficacemente scolpito dall’art. 2, comma 1,
della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio
26.02.2014, n. 2014/23/UE sull'aggiudicazione dei contratti
di concessione, a mente del quale “la presente direttiva
riconosce il principio per cui le autorità nazionali,
regionali e locali possono liberamente organizzare
l'esecuzione dei propri lavori o la prestazione dei propri
servizi in conformità del diritto nazionale e dell'Unione.
Tali autorità sono libere di decidere il modo migliore per
gestire l'esecuzione dei lavori e la prestazione dei servizi
per garantire in particolare un elevato livello di qualità,
sicurezza e accessibilità, la parità di trattamento e la
promozione dell'accesso universale e dei diritti dell'utenza
nei servizi pubblici. Dette autorità possono decidere di
espletare i loro compiti d'interesse pubblico avvalendosi
delle proprie risorse o in cooperazione con altre
amministrazioni aggiudicatrici o di conferirli a operatori
economici esterni” (cfr., in merito, anche CGCE, 11.01.2005, C- 26/03, Stadt Halle, punto 48: “un’autorità
pubblica, che sia un’amministrazione aggiudicatrice, ha la
possibilità di adempiere ai compiti di interesse pubblico ad
essa incombenti mediante propri strumenti, amministrativi,
tecnici e di altro tipo, senza essere obbligata a far
ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri
servizi”).
Coerentemente con il citato principio di autorganizzazione o
di libera amministrazione delle autorità pubbliche
riconosciuto nel 5° considerando, l’art. 12 della direttiva
n. 2014/24/UE esclude espressamente dal proprio ambito di
applicazione, cioè dalla necessità di una previa procedura
ad evidenza pubblica, gli appalti aggiudicati da
un'amministrazione aggiudicatrice a una persona giuridica di
diritto pubblico o di diritto privato, quando siano
soddisfatte le tre condizioni proprie dell’in house (a.
l'amministrazione aggiudicatrice esercita sulla persona
giuridica di cui trattasi un controllo analogo a quello da
essa esercitato sui propri servizi; b. oltre l'80% delle
attività della persona giuridica controllata sono effettuate
nello svolgimento dei compiti ad essa affidati
dall'amministrazione aggiudicatrice controllante o da altre
persone giuridiche controllate dall'amministrazione
aggiudicatrice di cui trattasi; c. nella persona giuridica
controllata non vi è alcuna partecipazione diretta di
capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di
capitali privati che non comportano controllo o potere di
veto, prescritte dalle disposizioni legislative nazionali,
in conformità dei trattati, che non esercitano un'influenza
determinante sulla persona giuridica controllata).
Dunque, a seguito della positivizzazione dell’istituto ad
opera della direttiva n. 24/2014, che, in virtù della
salvaguardia del principio di autorganizzazione degli Stati
membri (5° considerando), esclude espressamente gli
affidamenti in house dal proprio ambito di applicazione
(art. 12), può ritenersi definitivamente acquisito –quantomeno in ambito europeo– il principio che l’in house providing non configura affatto un’ipotesi eccezionale e
derogatoria di gestione dei servizi pubblici rispetto
all’ordinario espletamento di una procedura di evidenza
pubblica, ma costituisce una delle ordinarie forme
organizzative di conferimento della titolarità del servizio,
la cui individuazione in concreto è rimessa alle
amministrazioni, sulla base di un mero giudizio di
opportunità e convenienza economica.
In realtà, tale principio può ritenersi oggi operante anche
nell’ordinamento nazionale (in tal senso cfr., per esempio,
Cons. di St., V, 15.03.2016, n. 1034; id., III, 24.10.2017,
n. 4902; id., V, 18.07.2017, n. 3554), posto che, ai sensi
dell’art. 34, comma 20, del D.L. 18.10.2012, n. 179
(convertito in legge 17.12.2012, n. 221), “per i servizi
pubblici locali di rilevanza economica, al fine di
assicurare il rispetto della disciplina europea, la parità
tra gli operatori, l'economicità della gestione e di
garantire adeguata informazione alla collettività di
riferimento, l'affidamento del servizio è effettuato sulla
base di apposita relazione, pubblicata sul sito internet
dell'ente affidante, che dà conto delle ragioni e della
sussistenza dei requisiti previsti dall'ordinamento europeo
per la forma di affidamento prescelta e che definisce i
contenuti specifici degli obblighi di servizio pubblico e
servizio universale, indicando le compensazioni economiche
se previste”.
Come si vede, la norma specificamente dettata per i servizi
pubblici locali di rilevanza economica –diversamente
dall’art. 192, comma 2, del D.Lgs. n. 50/2016- non contiene
alcun riferimento alle ragioni del mancato ricorso
prioritario al mercato, che sono ultronee rispetto
all’istituto dell’in house.
Tale essendo il quadro normativo di riferimento, ritiene il
collegio che la disposizione di cui all’art. 192, comma 2, del D.Lgs. n. 50/2016, nell’imporre un onere motivazionale
supplementare relativamente alle “ragioni del mancato
ricorso al mercato” abbia palesemente ecceduto rispetto ai
principi ed ai criteri direttivi contenuti nella legge di
delega 28.01.2016, n. 11 (recante deleghe al Governo per
l'attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e
2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014), in violazione dell’art. 76 della
Costituzione.
L’art. 1 della legge di delegazione legislativa n. 11/2016
ha infatti fissato, tra l’altro, i seguenti princìpi e
criteri direttivi specifici: a) divieto di introduzione o di
mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli
minimi richiesti dalle direttive, come definiti
dall'articolo 14, commi 24-ter e 24-quater, della legge 28.11.2005, n. 246 (così detto divieto di
gold plating);
eee) garanzia di adeguati livelli di pubblicità e
trasparenza delle procedure anche per gli appalti pubblici e
i contratti di concessione tra enti nell'ambito del settore
pubblico, cosiddetti affidamenti in house, prevedendo, anche
per questi enti, l'obbligo di pubblicazione di tutti gli
atti connessi all'affidamento, assicurando, anche nelle
forme di aggiudicazione diretta, la valutazione sulla
congruità economica delle offerte, avuto riguardo
all'oggetto e al valore della prestazione, e prevedendo
l'istituzione, a cura dell'ANAC, di un elenco di enti
aggiudicatori di affidamenti in house ovvero che esercitano
funzioni di controllo o di collegamento rispetto ad altri
enti, tali da consentire gli affidamenti diretti.
L'iscrizione nell'elenco avviene a domanda, dopo che sia
stata riscontrata l'esistenza dei requisiti. La domanda di
iscrizione consente all'ente aggiudicatore, sotto la propria
responsabilità, di conferire all'ente con affidamento in
house, o soggetto al controllo singolo o congiunto o al
collegamento, appalti o concessioni mediante affidamento
diretto.
Orbene, la disposizione sospettata di incostituzionalità
avrebbe innanzitutto violato il criterio direttivo sub a) –nonché l'articolo 14 commi 24-ter e 24-quater della legge 28.11.2005, n. 246, cui fa espresso rinvio- in quanto
avrebbe introdotto un onere amministrativo di motivazione -circa le ragioni del mancato ricorso al mercato- maggiore e
più gravoso di quelli strettamente necessari per
l’attuazione della direttiva n. 2014/24/UE, la quale, come
visto supra, per un verso ammette senz’altro gli affidamenti
in house a patto che ricorrano le tre condizioni di cui
all’art. 12, per altro verso ha escluso i relativi contratti
dal proprio campo di applicazione, e dunque dall’obbligo di
esperire preventivamente una procedura di gara ad evidenza
pubblica (cioè, il ricorso al mercato).
Donde la violazione del divieto di gold plating, che
costituiva uno specifico criterio di delega legislativa
(lett. a).
Secondariamente, avrebbe violato il criterio direttivo sub
eee) della legge di delega n. 11/2016, in quanto
l’introduzione dell’obbligo di motivazione circa le ragioni
del mancato ricorso al mercato per un verso non trova alcun
addentellato nel criterio direttivo, che non lo menziona
affatto, per altro verso –e soprattutto– non ha nulla a
che vedere con la valutazione sulla congruità economica
delle offerte, che attiene piuttosto alla loro sostenibilità
in termini di prezzi e di costi proposti (argomenta ex art.
97, comma 1, del D.Lgs. n. 50/2016), cioè con l’unico
elemento che il criterio direttivo imponeva di valutare,
oltre a quello di pubblicità e trasparenza degli
affidamenti, mediante l'istituzione, a cura dell'ANAC,
dell’elenco di enti aggiudicatori di affidamenti in house.
Donde la violazione dell’art. 1, lett. a) ed eee), della legge
di delegazione legislativa n. 11/2016 (parametro interposto)
e, indirettamente, dell’art. 76 della Costituzione.
In conclusione il collegio, per le ragioni sopra esposte,
ritiene rilevante e non manifestamente infondata la
questione legittimità costituzionale dell’art. 192, comma 2,
del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, nella parte in cui prevede che
le stazioni appaltanti diano conto nella motivazione del
provvedimento di affidamento in house “delle ragioni del
mancato ricorso al mercato”, per contrasto con l’art. 76
della Costituzione, in relazione all’art. 1 lettere a) ed eee) della legge 28.01.2016, n. 11 (recante deleghe al
Governo per l'attuazione delle direttive 2014/23/UE,
2014/24/UE e 2014/25/UE del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 26.02.2014).
Resta sospesa ogni decisione sul ricorso in epigrafe,
dovendo la questione essere demandata al giudizio della
Corte costituzionale.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria
(Sezione Seconda),
Visti gli artt. 1 della legge costituzionale 09.02.1948, n. 1
e 23 della legge 11.03.1953, n. 87;
Ritenuta rilevante ai fini della decisione e non
manifestamente infondata la questione di costituzionalità
dell'art. 192, comma 2, del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50, nella
parte in cui prevede che le stazioni appaltanti diano conto
nella motivazione del provvedimento di affidamento in
house “delle ragioni del mancato ricorso al mercato”, per
contrasto con l’art. 76 della Costituzione, in relazione
all’art. 1, lettere a) ed eee), della legge 28.01.2016, n. 11
(recante deleghe al Governo per l'attuazione delle direttive
2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE del Parlamento europeo e
del Consiglio, del 26.02.2014);
Sospende il giudizio in corso;
Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte
costituzionale (TAR Liguria, Sez. II,
ordinanza 15.11.2018 n. 886 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Graduatorie
valide, concorsi da motivare.
Nell'impiego pubblico, in presenza di graduatorie concorsuali valide ed
efficaci, l'amministrazione, se stabilisce di provvedere alla copertura dei
posti vacanti mediante l'indizione di un nuovo concorso, deve motivare
adeguatamente la propria determinazione, pena la illegittimità della propria
scelta.
Così il TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis, con
sentenza
12.11.2018 n. 10862.
Il Tar ricorda
che l'art. 3, comma 87, della legge 244/2007 (Finanziaria 2008), che ha
aggiunto il comma 5-ter all'art. 35 del dlgs 165/2001, ha stabilito che le
graduatorie dei concorsi per il reclutamento del personale delle p.a.
rimangono valide per un termine di tre anni dalla data di pubblicazione.
La ratio sottesa alla norma è quella di favorire, ove possibile, lo scorrimento
delle graduatorie, con il solo limite, quanto agli idonei, del rispetto del
criterio di equivalenza delle professionalità necessarie per l'ente e
presenti nelle graduatorie ancora valide.
Con l'indicata disposizione si è
realizzata la sostanziale inversione del rapporto tra la decisione di
scorrimento della graduatoria preesistente ed efficace e l'opzione per un
nuovo concorso, rappresentando quest'ultima modalità, ormai, un'eccezione
che richiede un'apposita motivazione che, dando conto del sacrificio imposto
ai concorrenti idonei e alle preminenti esigenze di interesse pubblico,
fornisca adeguato riscontro dell'effettiva carenza in concreto di
professionalità equivalenti nell'ambito delle graduatorie concorsuali ancora
valide, pena l'illegittimità della decisione assunta
(articolo ItaliaOggi del 04.01.2019). |
APPALTI: I troppi intrecci creano conflitto.
Il Consiglio di stato sul codice dei contratti.
La concomitante presenza in commissione di ben due commissari che
hanno avuto rapporti –direttamente o indirettamente– con uno dei concorrenti
appare integrare l'ipotesi di conflitto di interessi di cui all'art. 42 del
codice dei contratti.
Lo ha chiarito il Consiglio di
Stato, Sez. III con la
sentenza 07.11.2018 n. 6299.
Nel caso in esame una commissione di
gara era composta, tra gli altri, da un commissario che era stato 14 anni
prima un dipendente dell'aggiudicataria e un altro con un figlio che era –sia pure tramite società interinale– dipendente della stessa impresa.
Pertanto, una delle ditte partecipanti aveva impugnato la nomina della
commissione sopra citata.
I giudici di primo grado avevano ritenuto
infondata la «violazione degli obblighi di segnalazione e di apprezzamento
delle situazioni potenzialmente incidenti sulla legittimità dell'atto di
nomina» con riguardo ai due membri della commissione poiché i fatti evocati
avrebbero semmai potuto comportare solo una causa di astensione facoltativa.
Il Consiglio di stato, al contrario, accoglie il ricorso, annulla la
delibera di designazione dei componenti della commissione e,
conseguentemente gli atti successivi della procedura.
Dispone, quindi, la
nuova nomina della Commissione di gara e la riedizione delle valutazioni. I
giudici di Palazzo Spada ritengono, infatti, che la compresenza nella
medesima Commissione di due commissari legati (seppure in passato o
indirettamente per tramite del figlio) alle imprese concorrenti rafforza la
percezione di compromissione dell'imparzialità che, invece, la disciplina
vuole garantire al massimo livello, al fine di scongiurare il ripetersi
nelle gare pubbliche di fenomeni distorsivi della par condicio e di una
«sana» concorrenza tra gli operatori economici.
Tale interpretazione
risulta, peraltro, confermata dalla molteplicità di strumenti che il nostro
ordinamento ha predisposto con finalità di prevenzione dei fenomeni
corruttivi e dell'azione della criminalità organizzata, strumenti che hanno
passato il vaglio del giudice sovrannazionale proprio in considerazione
della peculiarità della situazione nazionale (articolo ItaliaOggi Sette del 19.11.2018). |
APPALTI: Il
Rup può essere anche commissario di gara.
Il Rup può essere anche commissario di gara. Nella vigenza del nuovo codice
dei contratti, ai sensi dell'art. 77, comma 4, dlgs n. 50 del 2016, nelle
procedure di evidenza pubblica, il ruolo di responsabile unico del
procedimento può coincidere con le funzioni di commissario di gara e di
presidente della commissione giudicatrice, a meno che non sussista la
concreta dimostrazione dell'incompatibilità tra i due ruoli, desumibile da
una qualche comprovata ragione di interferenza e di condizionamento tra gli
stessi.
Così si è pronunciato il Consiglio di Stato, Sez. III, con la
sentenza
26.10.2018 n. 6082.
Nel caso portato all'attenzione del collegio, un concorrente
impugnava gli esiti di una gara ad evidenza pubblica indetta dal Comune di
Carpi - Unione delle Terre d'Argine per l'individuazione di un
concessionario di servizio farmaceutico per una farmacia comunale di nuova
istituzione, lamentando la violazione dell'art. 77 del dlgs n. 50/2016 per
avere un unico soggetto ricoperto le cariche, tra loro asseritamente
incompatibili, di dirigente della centrale unica di committenza oltre che di
presidente della commissione giudicatrice.
Chiamato a decidere la
controversia, il consiglio di stato ha avuto modo di ribadire, in concorde
indirizzo con l'autorità nazionale anticorruzione (Anac), l'inesistenza di
una automatica causa di incompatibilità tra i ruoli, a meno che non sussista
la concreta dimostrazione di una comprovata ragione di interferenza e di
condizionamento tra gli stessi. La soluzione così avallata, afferma la
sentenza, costituisce l'esito maggiormente coerente con l'opzione
interpretativa che il legislatore ha inteso consolidare con le modifiche
apportate al codice dei contratti pubblici con il dlgs n. 56/2017.
Ed
infatti, integrando il disposto dell'art. 77, comma 4, con l'inciso «la
nomina del Rup a membro delle commissioni di gara è valutata con riferimento
alla singola procedura», si è esclusa ogni automatica incompatibilità
conseguente al cumulo delle funzioni, rimettendo all'amministrazione la
valutazione della sussistenza o meno dei presupposti affinché il Rup possa
legittimamente far parte della commissione gara
(articolo ItaliaOggi Sette del 19.11.2018). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
I consiglieri comunali, con la loro manifestazione di volontà,
concorrono a formare la volontà dell’ente di cui fanno parte, inteso nella
sua unitarietà e nella sua significazione pubblica: essi sono pertanto
legittimati a ricorrere (e di conseguenza anche a contraddire) solo
nell’ipotesi di violazione del loro ius ad officium.
Conseguentemente essi non hanno (neppure) un interesse protetto e
differenziato all’impugnazione delle deliberazioni dell’ente del quale fanno
parte, salvo il caso in cui venga lesa in modo diretto ed immediato la
propria sfera giuridica per effetto di atti direttamente incidenti sul
diritto all’ufficio o sullo status ad essi spettante, che compromettano il
corretto esercizio del loro mandato (come nel caso di erronee modalità di
convocazione dell’organo, violazione dell’ordine del giorno, inosservanza
del termine della documentazione necessaria per poter consapevolmente
deliberare, etc.): del resto il giudizio amministrativo non è di regola
aperto alle controversie tra organi o componenti di organo di uno stesso
ente, ma è diretto a risolvere controversie intersoggettive.
---------------
Anche la seconda eccezione preliminare deve essere disattesa, tenuto conto
che i singoli consiglieri che hanno approvato la delibera gravata si sono
limitati ad esprimere un voto che, una volta raggiunto il quorum
rappresentativo della maggioranza consiliare, ha materializzato la volontà
dell’ente comunale al quale in via esclusiva è quindi imputabile l’interesse
e la legittimazione a resistere nel presente giudizio, senza che sia
individuabile un autonomo e personale interesse dei singoli consiglieri.
Infatti i consiglieri comunali non sono soggetti contemplati nel
provvedimento amministrativo, concorrendo essi, con la loro manifestazione
di volontà, a formare la volontà dell’ente di cui fanno invece parte, inteso
nella sua unitarietà e nella sua significazione pubblica: essi sono pertanto
legittimati a ricorrere (e di conseguenza anche a contraddire) solo
nell’ipotesi di violazione del loro ius ad officium (tra le più
recenti, C.d.S., sez. V, 21.03.2012, n. 1610; 29.04.2010, n. 2457; sez. IV,
26.01.2012, n. 351, 16.10.2007, n. 5396).
Conseguentemente (cfr. Cons. Stato, sez. V, 24.03.2011, n. 1771) essi non
hanno (neppure) un interesse protetto e differenziato all’impugnazione delle
deliberazioni dell’ente del quale fanno parte, salvo il caso in cui venga
lesa in modo diretto ed immediato la propria sfera giuridica per effetto di
atti direttamente incidenti sul diritto all’ufficio o sullo status ad
essi spettante, che compromettano il corretto esercizio del loro mandato
(come nel caso di erronee modalità di convocazione dell’organo, violazione
dell’ordine del giorno, inosservanza del termine della documentazione
necessaria per poter consapevolmente deliberare, etc.): del resto il
giudizio amministrativo non è di regola aperto alle controversie tra organi
o componenti di organo di uno stesso ente, ma è diretto a risolvere
controversie intersoggettive (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 19.05.2010, n.
3130; sez. V, 15.12.2005, n. 7122; 23.05.1994, n. 437).
Il ricorso introduttivo del presente giudizio non doveva pertanto essere
notificato agli altri consiglieri comunali, avendo l’interessata denunciato
esclusivamente la violazione del proprio jus ad officium per non
essere stata asseritamente posta in condizione di partecipare alla riunione
dell’organo consiliare, fattispecie rispetto alla quale non è ipotizzabile
l’esistenza di un interesse protetto e qualificato (oltre che diretto e
contrario) degli altri consiglieri alla conservazione delle delibere assunte
(TAR Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza
22.10.2018 n. 6129 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
L’avviso
di convocazione delle sedute consiliari è lo strumento indispensabile per il
corretto e regolare funzionamento dell’organo consiliare, consentendo ai
consiglieri comunali, diretti rappresentanti della comunità, non solo di
essere informati delle riunioni dell’assise cittadina, ma soprattutto di
potervi partecipare attivamente, contribuendo in modo pieno e consapevole
alle scelte strategiche e alle decisioni fondamentali della vita stessa
dell’ente, anche attraverso il necessario ruolo di controllo sull’organo
esecutivo.
In tal senso non è sufficiente che l’avviso di convocazione, con il relativo
ordine del giorno, sia solo regolarmente inviato al consigliere comunale, ma
è necessario che lo stesso non solo lo abbia effettivamente ricevuto, ma che
tra il momento della ricezione e quello della seduta consiliare intercorra
un ragionevole lasso temporale affinché il mandato consiliare possa essere
effettivamente svolto in modo serio, completo e consapevole.
---------------
Passando al merito della controversia, la questione sottesa ad entrambi i
motivi di ricorso riguarda la regolarità della comunicazione dell’avviso di
convocazione della seduta del consiglio di Trentola Ducenta del 03.08.2018
che la ricorrente contesta sul presupposto che essa sia stata eseguita
mediante consegna al proprio padre avente residenza e domicilio diversi dal
proprio, negando di avere avuto tempestiva conoscenza della convocazione ed
affermando di non avere esaminato i documenti necessari ad esprimersi sulla
gravata delibera in violazione dell’art. 174 TUEL.
Dall’altra parte l’ente comunale adduce che anche in passato la
comunicazione era stata consegnata al padre e non vi erano state
contestazioni e che alla seduta del 3 agosto la ricorrente è comunque
intervenuta, affermando che in tal modo la comunicazione aveva raggiunto il
proprio scopo e che la preventiva comunicazione dei documenti sia necessaria
solo nel caso di approvazione dei documenti contabili del Comune.
I motivi, da esaminarsi congiuntamente sono fondati alla stregua della
seguenti considerazioni.
Giova premettere che l’avviso di convocazione delle sedute consiliari è lo
strumento indispensabile per il corretto e regolare funzionamento
dell’organo consiliare, consentendo ai consiglieri comunali, diretti
rappresentanti della comunità, non solo di essere informati delle riunioni
dell’assise cittadina, ma soprattutto di potervi partecipare attivamente,
contribuendo in modo pieno e consapevole alle scelte strategiche e alle
decisioni fondamentali della vita stessa dell’ente, anche attraverso il
necessario ruolo di controllo sull’organo esecutivo.
In tal senso non è sufficiente che l’avviso di convocazione, con il relativo
ordine del giorno, sia solo regolarmente inviato al consigliere comunale, ma
è necessario che lo stesso non solo lo abbia effettivamente ricevuto, ma che
tra il momento della ricezione e quello della seduta consiliare intercorra
un ragionevole lasso temporale affinché il mandato consiliare possa essere
effettivamente svolto in modo serio, completo e consapevole (cfr. tra le
altre Consiglio di Stato, Sez. V, 14.09.2012, n. 4892).
Ora nel caso di specie non è contestato che l’avviso di convocazione della
seduta del consiglio comunale del 03.08.2018 sia stato consegnato al padre
della ricorrente e non invece presso il suo domicilio, come invece
prescritto dall’art. 28 del regolamento del consiglio comunale di Trentola
Ducenta; né risulta che la stessa ricorrente abbia designato o delegato
formalmente il padre a ritirare per proprio conto l’avviso stesso, con la
conseguenza che tale modalità di consegna non era idonea a garantire la
necessaria comunicazione della convocazione con conseguente oggettiva
lesione dello ius ad officium e illegittimità delle delibere assunte
nella seduta del consiglio comunale del 03.08.2018 che devono quindi essere
annullate.
Né può sostenersi che la circostanza che la ricorrente abbia comunque preso
parte alla seduta del Consiglio valga poi a sanare la mancata osservanza
delle formalità di convocazione previste dal regolamento, in quanto la
stessa ricorrente ha partecipato alla seduta al solo scopo di chiedere un
rinvio per poter studiare la documentazione e prendere parte alla seduta in
modo informato, secondo quanto risultante dal verbale versato in atti.
Al riguardo, rileva la previsione di cui all’art. 29, co. 1, del Regolamento
del Consiglio comunale di Trentola Ducenta secondo cui l’avviso di
convocazione deve essere consegnato ai consiglieri almeno cinque giorni
liberi prima della delibera, sicché la circostanza dell’avvenuta
partecipazione alla seduta non vale a sanare la mancata prova dell’avvenuta
consegna della convocazione nel termine prescritto.
In definitiva il ricorso deve essere accolto nei sensi e termini di cui in
motivazione (TAR Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza
22.10.2018 n. 6129 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Dichiarazione
mendace, c'è esclusione dalla gara.
In tema di appalti, la dichiarazione mendace presentata dall'operatore
economico, anche con riguardo alla posizione dell'impresa ausiliaria,
comporta l'esclusione dalla gara.
Così si è pronunciato il Consiglio di Stato, Sez. V, con
sentenza
19.10.2018 n. 6529.
Un'impresa non aggiudicataria proponeva appello avverso la
sentenza del Tar Lazio con la quale si confermava la legittimità
dell'aggiudicazione di un appalto per l'esecuzione di lavori ad una società
che, secondo la prospettazione del ricorrente, avrebbe dovuto essere esclusa
dalla gara per la falsità delle dichiarazioni rese in ordine all'assenza di
pregiudizi influenti sulla c.d. moralità professionale di un ex esponente di
un'impresa ausiliaria, invero condannato per gestione non autorizzata di
rifiuti.
Chiamato a decidere la controversia, il collegio ha avuto modo di
chiarire che la dichiarazione non veritiera è sanzionata in quanto
circostanza che rileva nella prospettiva dell'affidabilità del futuro
contraente, a prescindere dalla gravità, fondatezza e pertinenza degli
episodi non dichiarati, e dunque anche a prescindere dal fatto che il
precedente penale non influisca sulla moralità professionale dell'impresa
ausiliaria.
La sanzione della reticenza, infatti, è funzionale
all'affermazione dei principi di lealtà ed affidabilità, in altre parole,
della correttezza dell'aspirante contraente, che permea la procedura di
formazione dei contratti pubblici ed i rapporti con la stazione appaltante.
Sulla base di tali assunti, il collegio ha precisato che la condanna penale,
quand'anche non rilevi di per sé, per non essere contemplata tra quelle che
comportano l'esclusione ex lege dalla procedura, assume valore quale
«grave illecito professionale» per il quale si configura un obbligo
dichiarativo per la concorrente in fase procedurale, dal momento che,
trattandosi di un reato ambientale, può astrattamente mettere in dubbio
l'integrità o affidabilità dell'operatore e ciò anche se la valutazione
della condanna è rimessa alla discrezionalità della stazione appaltante
(articolo ItaliaOggi Sette del 10.12.2018). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Esistenza dell'atto, basta la percezione.
Il concetto di piena conoscenza dell'atto ai fini della decadenza dei
termini di impugnazione, non deve essere inteso quale conoscenza perfetta
dello stesso, è sufficiente la «percezione» dell'esistenza del provvedimento
che s'intende impugnare, ovvero degli atti endoprocedimentali la cui
illegittimità infici in via derivata il provvedimento finale.
Il TAR Toscana, Sez. I
sentenza 17.10.2018 n. 1348 ha dichiarato irricevibile un ricorso, in base a questa innovativa impostazione
ermeneutica. In altre parole, a giudizio della Sezione, ciò che è
sufficiente a integrare il concetto di «piena conoscenza», che fissa il
dies
a quo per il termine decadenziale, è la «consapevolezza» dell'esistenza di
un provvedimento amministrativo, lesivo del potenziale ricorrente, tale da
rendere percepibile l'attualità dell'interesse ad agire.
Diversamente,
qualora la piena conoscenza dovesse essere intesa come conoscenza perfetta,
il rimedio dei motivi aggiunti non avrebbe ragion d'essere o sarebbe
residuale, ricorrendone l'esperibilità nel solo caso di atto
endoprocedimentale assolutamente ignoto all'atto del ricorso introduttivo.
Nel caso esaminato dal Tar Toscana, laddove si facesse decorrere il termine
per impugnare l'aggiudicazione definitiva, dal momento in cui la parte
interessata ha avuto materiale accesso a tutti gli atti di gara, si
renderebbe mobile il dies a quo per la proposizione del ricorso, viepiù
nella materia degli appalti, in cui il legislatore, ha introdotto un rito
accelerato e dai tratti di specialità: impossibilità di impugnare gli atti
con ricorso straordinario al Capo dello Stato; dimezzamento di tutti i
termini processuali; svolgimento del processo con la massima celerità;
fissazione a breve dell'udienza di merito, anche in caso di rigetto
dell'istanza cautelare.
Applicando detti principi, il Tar Toscana ha
ritenuto evidente la tardività del ricorso, in quanto la ricorrente aveva
già manifestato alla stazione appaltante (anteriormente alla scadenza del
termine dei 30 giorni) le circostanze ritenute lesive, confluite poi nel
secondo motivo del ricorso
(articolo ItaliaOggi Sette del 12.11.2018).
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MASSIMA
1.7 Secondo un prevalente orientamento giurisprudenziale
il concetto di "piena conoscenza" dell'atto amministrativo lesivo, ai
fini della sua impugnazione, non deve essere inteso quale "conoscenza
piena ed integrale" dei provvedimenti che si intendono impugnare, ovvero
di eventuali atti endoprocedimentali, la cui illegittimità infici, in via
derivata, il provvedimento finale.
Ciò che è invece sufficiente ad integrare il concetto di "piena
conoscenza" -il verificarsi della quale determina il dies a quo
per il computo del termine decadenziale per la proposizione del ricorso
giurisdizionale- è la percezione dell'esistenza di un provvedimento
amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidente la lesività della
sfera giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere percepibile
l'attualità dell'interesse ad agire contro di esso
(Cons. Stato Sez. IV Sent., 09/05/2013, n. 2521; Tar Campania-Salerno, sez.
II, n. 361/2011).
Si è affermato, infatti, che
se, ai fini dell'impugnazione di un provvedimento amministrativo, la piena
conoscenza dello stesso dovesse essere intesa come conoscenza integrale,
allora il tradizionale rimedio dei motivi aggiunti non avrebbe ragion
d'essere, o dovrebbe essere considerato residuale, ricorrendone l'esperibilità
(forse) solo nel caso di atto endoprocedimentale completamente ignoto
all'atto di proposizione del ricorso introduttivo del giudizio
(Cons. Stato Sez. IV, 29.10.2015, n. 4945; Tar Puglia, Bari, sez. III, n.
1367/2014; TAR Veneto, Sez. I, 23.08.2017, n. 802). |
EDILIZIA PRIVATA:
Posto che la primaria finalità del provvedimento
impugnato è l’ingiunzione dell’ordine di demolizione e
ripristino dello stato dei luoghi nel termine di giorni 90,
ad avviso di questo Tribunale, “la mancata esatta
indicazione delle aree da acquisire al patrimonio comunale
in caso di inottemperanza all’ordine impartito non comporta
giammai l’allegata illegittimità del provvedimento
impugnato, considerato che l’acquisizione gratuita delle
opere, della relativa area di sedime e dell’area di
pertinenza urbanistica al patrimonio comunale costituisce
una conseguenza ex lege dell’inottemperanza all’ordine
impartito, e ben può essere operata “con un successivo e
separato atto”, come affermato da condivisibile
giurisprudenza".
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0. Il ricorso è manifestamente infondato nel merito e deve
essere respinto.
In particolare, con riguardo ai singoli profili di
doglianza, il Collegio osserva quanto segue.
1. Anzitutto non è ravvisabile la violazione dell'art. 31,
commi 2°-3°, del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, dedotta con il
primo motivo di ricorso, a cagione della mancata
indicazione, nel provvedimento impugnato, dell'area di sedime, nonché di quella necessaria, secondo le vigenti
prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere
analoghe a quelle abusive, che verrebbero acquisite di
diritto gratuitamente al patrimonio comunale in caso di
inottemperanza all'ordine impartito.
Invero, posto che la primaria finalità del provvedimento
impugnato è l’ingiunzione dell’ordine di demolizione e
ripristino dello stato dei luoghi nel termine di giorni 90,
ad avviso di questo Tribunale, “la mancata esatta
indicazione delle aree da acquisire al patrimonio comunale
in caso di inottemperanza all’ordine impartito non comporta
giammai l’allegata illegittimità del provvedimento
impugnato, considerato che l’acquisizione gratuita delle
opere, della relativa area di sedime e dell’area di
pertinenza urbanistica al patrimonio comunale costituisce
una conseguenza ex lege dell’inottemperanza all’ordine
impartito, e ben può essere operata “con un successivo e
separato atto”, come affermato da condivisibile
giurisprudenza (cfr. TAR Napoli Campania, Sez. VI,
05.06.2012 n. 2635)” (TAR Puglia, Lecce, III,
05.03.2018, n. 367 e TAR Puglia, Lecce, III, 16/08/2018, n.
1301; nello stesso senso TAR Puglia, Lecce, III, 25/06/2018,
n. 1062 e TAR Puglia, Lecce, III, 27/06/2018, n. 1075) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 11.10.2018 n. 1474 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Questo Tribunale ha già avuto modo di rilevare,
con riferimento alla possibilità di sostituire la
demolizione con la sanzione pecuniaria di cui all’invocato
art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 (il quale -si
ribadisce- non risulta applicabile nel caso di specie), “che la giurisprudenza
costante e condivisibile ritiene che <<l’applicazione della
sanzione pecuniaria abbia comunque carattere residuale, e possa
essere irrogata non in base ad una verifica tecnica a carico
della parte pubblica, ma a seguito di un’istanza presentata
a tal fine dalla parte privata ad essa interessata.
In altri termini, ai fini della legittimità dell’ordine di
demolizione, che essendo finalizzato a ripristinare la
legalità violata, costituisce il contenuto che, in via
ordinaria, è tenuto ad assumere l’atto repressivo
dell’illecito, l’amministrazione è tenuta al solo
accertamento che l’opera sia abusiva, posto che ulteriori
adempimenti, relativi all’eseguibilità dell’ordine “senza
pregiudizio per la parte conforme” richiederebbero
sopralluoghi ed accertamenti incompatibili con lo stesso
principio di buon andamento dell’azione amministrativa,
entro il quale la giurisprudenza costituzionale colloca
l’esigenza che essa sia strutturata normativamente in
termini tali, da assicurare il soddisfacimento degli
interessi pubblici cui è preposta.
Ne consegue che la parte pubblica non può essere onerata di
verifiche tecniche, anche complesse, da effettuarsi
d’ufficio in una fase anteriore all’emissione dell’ordine di
demolizione. Si deve perciò ritenere che l’ordine di
demolizione vada adottato anche in assenza di una verifica
di tale profilo, la cui rilevanza va invece segnalata, e
comprovata, dalla parte che vi abbia interesse durante la
fase esecutiva.
L’ingiunzione di demolizione costituisce la prima ed
obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto ha
natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo
analitico-ricognitivo dell’abuso commesso, mentre il
giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale,
circa la rilevanza dell’abuso e la possibilità di sostituire
la demolizione con la sanzione pecuniaria (disciplinato
dall’art. 33, comma 2, e 34, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001) può essere effettuato soltanto in un secondo momento, cioè
quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente
alla demolizione e l’organo competente emana l’ordine
(questa volta non indirizzato all’autore dell’abuso, ma agli
uffici e relativi dipendenti dell’Amministrazione competenti
e/o preposti in materia di sanzioni edilizie) di esecuzione
in danno….; …. soltanto nella predetta seconda fase non può
ritenersi legittima l’ingiunzione a demolire sprovvista di
qualsiasi valutazione intorno all’entità degli abusi
commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con
la sanzione pecuniaria, così come previsto dagli artt. 33,
comma 2, e 34, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001>>".
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2. Con il secondo motivo di gravame, la ricorrente
contesta, poi, la riconducibilità delle opere edilizie de
quibus nel novero degli interventi soggetti al massimo
regime repressivo-sanzionatorio della demolizione ex art. 31
D.P.R. n. 380/2001, in quanto non si tratterebbe di
interventi realizzati in “totale difformità” dal
permesso di costruire n. 60/2008.
Neanche tale censura è suscettibile di positiva delibazione
tenuto conto che, nella fattispecie per cui è causa, si
tratta, con ogni evidenza, di opere realizzate in totale
difformità dal permesso di costruire n. 60/2008 (e non già
in parziale difformità da esso), sia perché quest’ultimo era
relativo alla realizzazione di un mero “volume tecnico”
(come testualmente riportato, e non specificamente
contestato da parte ricorrente, nell’ordinanza di
demolizione impugnata), sia perché trattasi di intervento
realizzato in zona sottoposta a vincolo paesaggistico (come
altresì riportato, e non specificamente contestato da parte
ricorrente, nella gravata ordinanza, ove si legge che: “Le
opere sopra descritte ricadono: (…) • In area tipizzata dal
vigente PRG come zona E.2. ZONA “AGRICOLA DI SALVAGUARIA
PAESAGGISTICA”; • In area sottoposta alla tutela
paesaggistica ai sensi del D.Lgs.vo n. 42/2004; • In area
soggetta a vincolo idrogeologico ai sensi del R.D.L. n.
3267/1923 (…)”), e, per tale ragione, da considerarsi,
in base al disposto dell’art. 32, comma 3, del D.P.R. n.
380/2001, “in totale difformità dal permesso, ai sensi e
per gli effetti degli articoli 31 e 44” del D.P.R. n.
380/2001.
Non ha pregio, pertanto, il richiamo operato dalla
ricorrente all’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001, il
quale disciplina invece “gli interventi e le opere
realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire”,
prevedendo, al secondo comma, che “quando la demolizione
non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in
conformità, il dirigente o il responsabile dell’ufficio
applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione
(…)”.
Sotto altro (concomitante) aspetto, peraltro, questo
Tribunale ha già avuto modo di rilevare, con riferimento
alla possibilità di sostituire la demolizione con la
sanzione pecuniaria di cui all’invocato art. 34, comma 2,
del D.P.R. n. 380/2001 (il quale -si ribadisce- non risulta
applicabile nel caso di specie), “che la giurisprudenza
costante e condivisibile ritiene che <<l’applicazione della
sanzione pecuniaria abbia comunque carattere residuale (Cons.
Stato, sez. VI, n. 1793 del 2012; n. 4577 del 2013), e possa
essere irrogata non in base ad una verifica tecnica a carico
della parte pubblica, ma a seguito di un’istanza presentata
a tal fine dalla parte privata ad essa interessata.
In altri termini, ai fini della legittimità dell’ordine di
demolizione, che essendo finalizzato a ripristinare la
legalità violata, costituisce il contenuto che, in via
ordinaria, è tenuto ad assumere l’atto repressivo
dell’illecito, l’amministrazione è tenuta al solo
accertamento che l’opera sia abusiva, posto che ulteriori
adempimenti, relativi all’eseguibilità dell’ordine “senza
pregiudizio per la parte conforme” richiederebbero
sopralluoghi ed accertamenti incompatibili con lo stesso
principio di buon andamento dell’azione amministrativa,
entro il quale la giurisprudenza costituzionale colloca
l’esigenza che essa sia strutturata normativamente in
termini tali, da assicurare il soddisfacimento degli
interessi pubblici cui è preposta (Corte Cost. n. 188 del
2012).
Ne consegue che la parte pubblica non può essere onerata di
verifiche tecniche, anche complesse, da effettuarsi
d’ufficio in una fase anteriore all’emissione dell’ordine di
demolizione. Si deve perciò ritenere che l’ordine di
demolizione vada adottato anche in assenza di una verifica
di tale profilo, la cui rilevanza va invece segnalata, e
comprovata, dalla parte che vi abbia interesse durante la
fase esecutiva (Tar Lazio I-quater n. 316 del 2014, 5277 del
2013; n. 762 del 2013).
L’ingiunzione di demolizione costituisce la prima ed
obbligatoria fase del procedimento repressivo, in quanto ha
natura di diffida e presuppone solo un giudizio di tipo
analitico-ricognitivo dell’abuso commesso, mentre il
giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale,
circa la rilevanza dell’abuso e la possibilità di sostituire
la demolizione con la sanzione pecuniaria (disciplinato
dall’art. 33, comma 2, e 34, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001) può essere effettuato soltanto in un secondo momento, cioè
quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente
alla demolizione e l’organo competente emana l’ordine
(questa volta non indirizzato all’autore dell’abuso, ma agli
uffici e relativi dipendenti dell’Amministrazione competenti
e/o preposti in materia di sanzioni edilizie) di esecuzione
in danno….; …. soltanto nella predetta seconda fase non può
ritenersi legittima l’ingiunzione a demolire sprovvista di
qualsiasi valutazione intorno all’entità degli abusi
commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con
la sanzione pecuniaria, così come previsto dagli artt. 33,
comma 2, e 34, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001 (Tar Lazio
I-quater n. 3105 del 2012)>> (TAR Lazio, Roma, Sez.
II-quater, 14.10.2015, n. 11671)” (TAR Puglia, Lecce,
III, 25/06/2018, n. 1062, cit.).
3. Per tutto quanto innanzi sinteticamente esposto, il
ricorso deve essere respinto (TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 11.10.2018 n. 1474 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Busta
non incollata, candidato escluso.
Il candidato che non incolli i lembi della busta con le generalità è
escluso.
Con la
sentenza
28.09.2018 n. 5571 il Consiglio di Stato, Sez. IV, ha respinto il ricorso di un
candidato scartato da una pubblica selezione poiché la busta risultava non
incollata.
Il regolamento
L'art. 14 del regolamento dei concorsi (dpr 487/1994) prescrive che al
candidato sono consegnate due buste, una grande e una piccola. Il candidato
dopo aver svolto la prova mette i fogli nella busta grande, scrive le
generalità sul cartoncino e lo chiude nella busta piccola. Pone la busta
piccola nella grande che chiude e consegna.
La tesi del ricorrente
A parere del ricorrente non c'è una norma che sanzioni con l'esclusione la
mancata incollatura della busta. Per di più l'apertura della busta non
precostituirebbe segno di riconoscimento. Non vi sarebbe stata inoltre,
valutazione in concreto della violazione dell'anonimato, mancando nel
regolamento e nel bando, la previsione dell'automatica esclusione in tal
caso.
Quando a farlo è la Commissione
L'adunanza plenaria con sentenza 26/2013 nel caso di violazione del
principio di anonimato da parte della Commissione, ha statuito che comporta
illegittimità della procedura per pericolo astratto. Vizio derivante da
violazione di norma d'azione, sanzionato in via presuntiva senza accertare
l'effettiva lesione dell'imparzialità.
Il giudizio
Palazzo Spada ha stabilito che l'esclusione è garanzia del principio di par condicio. La busta con le generalità era aperta: è irrilevante che il bando
o il regolamento non sanzionino espressamente con l'esclusione la mancata
incollatura. Non rileva neppure che il ricorrente abbia intenzionalmente o
meno reso riconoscibile la prova, essendo l'apertura della busta, comunque
suscettibile di compromettere l'anonimato. Secondo i verbali neppure era
stato un mero cedimento della colla.
In sostanza, non occorre accertare se
si sia in concreto sviata la procedura di correzione, è sufficiente la
teorica possibilità di tale evenienza. Il criterio dell'anonimato nelle
prove scritte delle selezioni è precipitato dei principi costituzionali di
uguaglianza, buon andamento, imparzialità della p.a.
(articolo ItaliaOggi Sette del 10.12.2018). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Pur essendo espressione di un potere officioso del giudice,
la condanna alle spese in favore della parte vittoriosa che
non si sia difesa e non abbia, quindi, sopportato il
corrispondente carico, non può essere disposta ed è
assimilabile ad una pronuncia resa in mancanza del suddetto
potere”.
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6. Con un quarto motivo si prospetta "violazione
di legge in materia di soccombenza e condanna alle spese
(art. 360 n. 3 c.p.c., in relaz. all'art. 91 c.p.c.) in
relazione alla natura della decisione". Il motivo, con
una prima censura, si duole della circostanza che sia stata
disposta condanna alle spese giudiziali a favore della Longo
non solo per le spese di appello, ma anche per quelle del
giudizio di primo grado, ancorché in quest'ultimo essa fosse
rimasta contumace.
6.1. Questa censura è fondata, atteso che «Presupposto
indefettibile della condanna alle spese di lite è che la
parte, a cui favore dette spese sono attribuite, le abbia in
realtà sostenute per lo svolgimento dell'attività difensiva
correlata alla sua partecipazione in giudizio. Pertanto, la
parte vittoriosa nel giudizio di secondo grado non può
chiedere la attribuzione delle spese non erogate per la
prima fase del giudizio, nella quale essa è rimasta
contumace, né il giudice può provvedere alla liquidazione di
esse» (così, ex multis, già Cass. n. 5897 del
1982).
La sentenza impugnata, provvedendo in sede di appello a
favore della Lo. riguardo alle spese concernenti il giudizio
di primo grado, che essa non aveva sostenuto, essendo
rimasta contumace in quel grado, ha tratto dalla circostanza
che la medesima era vittoriosa in appello una conseguenza
che, in ossequio al principio di causalità che regola il
carico delle spese all'esito del giudizio, non avrebbe
potuto trarre. Infatti, la mancata costituzione della Lo. in
primo grado si risolveva in una situazione nella quale la
controparte non risultava aver causato a carco della
medesima spese per la difesa in quel grado.
Ne segue che, ancorché la statuizione sulle spese sia
espressione di un potere del giudice officioso e non
dipendente da una domanda, dovendosi comunque considerare
che essa è effetto automatico della proposizione della
domanda giudiziale e dello svolgimento di cui è convenuto
della difesa nel giudizio, la statuizione, essendo resa in
mancanza del potere del giudice in concreto, è riconducibile
alla fattispecie dell'art. 382, terzo comma, cod. proc. civ..
Tale norma, quando allude alla circostanza che l'azione non
potesse essere proposta, supponendo che il giudice abbia
pronunciato su di essa, si presta, infatti, a ricomprendere
pure l'ipotesi in cui abbia pronunciato sull'amminícolo
normalmente necessario di essa, che è rappresentato dalla
statuizione sulle spese, atteso che esso è pur parte del
dover pronunciare sulla domanda, sebbene non a richiesta
necessaria della parte che l'azione ha proposto o che
all'azione ha reagito.
Deve, dunque, essere affermato il principio di diritto
secondo cui «la
statuizione sulle spese giudiziali di primo grado a favore
della parte vittoriosa in appello, che, però, nel giudizio
di primo grado sia rimasta contumace, integra un'ipotesi
nella quale la Corte di Cassazione deve applicare l'art.
382, terzo comma, cod. proc. civ., e, dunque cassarla senza
rinvio, in quanto, essendo il potere officioso del giudice
di statuire sulle spese una necessaria implicazione del
potere di pronunciare sulla domanda in maniera tale da
assicurare alla parte vittoriosa completa tutela, il
provvedere a favore di quella vittoriosa che non si sia
difesa e non abbia sopportato il carico delle spese è
situazione assimilabile ad una pronuncia senza che la
domanda per come trattata in giudizio lo giustificasse».
Siffatta formula decisoria si giustifica a preferenza di
quella che potrebbe concretarsi una cassazione della
statuizione e, quindi, nel non dar corso a rinvio e
pronunciare sul "merito" la non debenza delle spese
di primo grado
(Corte di Cassazione, Sez. III civile,
sentenza 26.06.2018 n. 16786). |
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