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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di GENNAIO 2019

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aggiornamento al 15.01.2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 15.01.2019

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IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI: Convegno gratuito dal titolo: RIFLESSIONI SULLA CORTE DEI CONTI E SULLE SUE FUNZIONI in occasione della presentazione del volume: La nuova Corte dei Conti: responsabilità, pensioni, controlli (Milano, mercoledì 23.01.2019 - Corte dei Conti, Sezione per la Lombardia, Via Marina 5, Milano).

A.N.AC.

APPALTICommissari di gara esterni, rinvio al 15/4.
Rinvio di tre mesi, al 15.04.2019, dell'obbligo di nomina dei commissari di gara esterni alla stazione appaltante per l'aggiudicazione dei contratti di appalto pubblico.

Lo slittamento della scadenza del 15 gennaio è stato disposto dall'Autorità nazionale anticorruzione mercoledì sera, con un Comunicato del Presidente 09.01.2019 pubblicato sul proprio sito.
La data del 15 gennaio era stata prevista in un Comunicato Anac del 18.07.2018 a valle delle linee guida n. 5 e della definizione dei requisiti per l'iscrizione, tramite un apposto sistema informatico, sull'elenco tenuto dalla stessa Anac e già attivo dal 10.09.2018. Nel comunicato firmato dal presidente Raffaele Cantone l'Autorità rende noto che ad oggi «il numero di iscritti nelle diverse sottosezioni dell'Albo ammonta a circa 2.100, di cui solo la metà estraibili per commissioni esterne alle amministrazioni aggiudicatrici».
Un numero basso, ma preoccupa che non tutte le professionalità risultino adeguatamente coperte; infatti «numerose sottosezioni (circa il 30%) risultano completamente prive di esperti iscritti, altre (circa il 40%) con un numero di esperti molto ridotto (meno di 10)».
Anche in ragione di questi elementi e tenuto conto del previsto numero di gare bandite annualmente che richiedono la nomina di commissari esterni (su un totale di 120.000, qualche decina di migliaia saranno aggiudicate con l'offerta economicamente più vantaggiosa), l'Autorità prende atto che «allo stato, il numero degli esperti iscritti all'Albo non consente di soddisfare le richieste stimate in relazione al numero di gare previste».
Ma il comunicato fa cenno anche ad una rilevante motivazione che suggerisce il rinvio e cioè l'incerto quadro normativo (alla luce delle imminenti modifiche al codice dei contratti che saranno veicolate sul decreto semplificazioni) che quindi «non sembra consentire la possibilità di nominare i commissari con modalità diverse da quelle descritte all'art. 77 per i casi di assenza e/o carenza di esperti».
Da qui la scelta di differire di tre mesi la scadenza «per evitare ricadute sul mercato degli appalti», cioè un possibile blocco delle attività delle stazioni appaltanti. Il comunicato chiude annunciando che «le criticità evidenziate saranno oggetto di segnalazione al Governo e al Parlamento da parte dell'Autorità».
A breve si vedrà se l'intero meccanismo, più volte avversato dalle amministrazioni, reggerà sotto la spinta delle semplificazioni volute dal governo, con tutte le evidenti ricadute in termini di trasparenza e buon andamento dell'azione amministrativa (articolo ItaliaOggi dell'11.01.2019).

APPALTICommissari di gara, slitta l’Albo. Obbligo rinviato al 15 aprile. Cantone: ha pesato l’incertezza normativa.
Slitta di tre mesi, al prossimo 15 aprile, l’obbligo di utilizzare esperti indipendenti sorteggiati all’interno dell’albo gestito dall’Anac per aggiudicare gli appalti pubblici, come previsto dal codice dei contratti in vigore dal 2016. Codice che il Governo si appresta peraltro a riformare, intervenendo sul decreto Semplificazioni all’esame del Senato.

Toppo pochi gli esperti iscritti all’albo, aperto dal 10 settembre, per garantire la funzionalità del sistema senza rischiare pesanti contraccolpi su un mercato degli appalti che già sconta gli effetti di un crisi pluriennale, soprattutto nelle costruzioni. «Ci aspettavamo di dover far fronte a un’alluvione di richieste -commenta senza nascondere la sorpresa il presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone- ma evidentemente ha pesato di più l’incertezza legata al fatto che molte novità possano venire messe in discussione».
Di certo l’alluvione non c’è stata. E ieri l’Autorità (Comunicato del Presidente 09.01.2019) ha dovuto prendere atto che non era il caso di far partire l’albo senza la garanzia di poter mettere a disposizione delle stazioni appaltanti un numero di commissari sufficiente a far fronte alle gare.
Al momento nell’albo risultano 2.179 esperti iscritti. Di questi, inoltre, 1.040 sono dipendenti di Pa che intendono partecipare solo a commissioni interne, dunque non disponibili a ottenere incarichi in qualità di “indipendenti”.
Per Cantone ad aver ridotto l’appeal dell’albo «su cui avevamo registrato un forte interesse all’indomani del nuovo codice» è stata proprio l’incertezza sul mantenimento dell’attuale assetto normativo. Per iscriversi all’albo è necessario versare una tassa annuale di 168 euro, oltre a stipulare una copertura assicurativa. Anche se non si tratta di cifre particolarmente onerose, di fronte alla percezione del rischio di un passo indietro normativo, questo fattore può aver esercitato il suo peso.
Oltre alla penuria di iscrizioni, sulla scelta di far slittare l’avvio dell’albo al 15 aprile ha giocato anche il fatto che allo stato le norme non consentono alle Pa di «nominare commissari con modalità diverse» in caso di «carenza di esperti». Su questo punto specifico, l’Anac, invierà una segnalazione a Governo e Parlamento chiedendo di intervenire sul codice permettendo, in questo caso, alle Pa di andare avanti con commissari interni. «Mantenendo però un minimo di trasparenza», conclude l’ex magistrato (articolo Il Sole 24 Ore del 10.01.2019).

APPALTIAnac: vicinanza al cantiere irrilevante per l'assegnazione di un appalto.
È illegittimo valutare in sede di offerta la presenza di dipendenti «a chilometro zero», della vicinanza al cantiere e dell'anzianità di servizio presso la stessa azienda.

È quanto afferma l'Autorità nazionale anticorruzione con la delibera 12.12.2018 n. 1142 in una fattispecie riguardante un appalto da 2,5 milioni di euro, bandito dall'Ater di Vicenza per due nuovi fabbricati residenziali con 18 alloggi a Schio.
Nel disciplinare di gara alcuni sub criteri del criterio generale «Risorse umane», avevano ad oggetto: il numero dei dipendenti (maestranze) con anzianità professionale significativa; il numero di dipendenti in possesso di diploma/laurea; la vicinanza della manodopera; la professionalità del referente tecnico del concorrente.
Inoltre era stato inserito anche il criterio della vicinanza (della sede operativa) al sito del cantiere elemento tale da conferire un punteggio aggiuntivo in caso di subappalto o «prestazioni affidate a terzi non considerate subappalto».
La vicenda esaminata dall'Anac attiene dell'art. 95, comma 6, lett. e, che ammette la previsione tra i criteri di valutazione anche dei seguenti elementi: «l'organizzazione, le qualifiche e l'esperienza del personale effettivamente utilizzato», nel presupposto che per determinate categorie di prestazioni, le caratteristiche del personale impiegato possono incidere sulla qualità dell'offerta.
Anche leggendo le linee guida Anac n. 2 si evince che la valutazione di profili soggettivi in fase di offerta risulta corretta: a) se aspetti dell'attività dell'impresa possano effettivamente «illuminare» la qualità dell'offerta e b) a condizione che lo specifico punteggio assegnato non incida in maniera rilevante sulla determinazione del punteggio complessivo.
Premessi questi «paletti», l'Anac ha bocciato l'individuazione dei citati criteri, in primo luogo perché «sotto il profilo formativo ed esperienziale, non risulta in alcun modo dimostrato che la prestazione resa da un componente delle maestranze impiegate nel cantiere possa rivelarsi più efficiente ed efficace, e dunque migliorativa sotto il profilo qualitativo, qualora il dipendente di cui trattasi sia diplomato, o addirittura laureato, ed abbia un'anzianità professionale particolarmente elevata, svolta sempre presso l'operatore economico che presenta l'offerta».
In secondo luogo perché rivestono «contenuto contrario ai principi concorrenziali» anche i criteri relativi all'attribuzione do un ulteriore punteggio agli operatori economici che siano in grado di dimostrare l'impiego di personale (maestranze e referente tecnico) proveniente dal territorio di riferimento, nonché quello della vicinanza (della sede operativa) al sito del cantiere.
Per l'Anac, è «di assoluta evidenza come i criteri in questione, non potendo essere ragionevolmente giustificati in nome di un'effettiva incidenza sulla prestazione richiesta -essendo evidentemente ben possibile che anche operatori aventi dipendenti e organizzazione stabile al di fuori della distanza richiamata possiedano i requisiti tecnico-organizzativi richiesti per assicurare un'efficiente esecuzione dei lavori a farsi- finiscano per determinare un vantaggio del tutto svincolato dalle caratteristiche oggettive dell'offerta, in violazione dei principi che reggono il mercato concorrenziale» (articolo ItaliaOggi del 10.01.2019).

APPALTIRegolamento per l’esercizio della funzione consultiva svolta dall’Autorità nazionale anticorruzione ai sensi della Legge 06.11.2012, n. 190 e dei relativi decreti attuativi e ai sensi del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, al di fuori dei casi di cui all’art. 211 del decreto stesso (regolamento 07.12.2018 - link a www.anticorruzione.it).

LAVORI PUBBLICIGare, doppia certificazione. Ambientale insieme con l'attestato soa.
È legittimo che la stazione appaltante chieda ai concorrenti a una gara d'appalto di lavori –come è sua facoltà– il possesso di una certificazione ambientale, in aggiunta all'attestato Soa.

Lo precisa l'Anac col Parere di Precontenzioso 05.12.2018 n. 1129 - rif. PREC 219/18/L che segue la richiesta di una impresa che, viceversa, aveva sostenuto la sufficienza dell'attestato Soa per partecipare alle gare di appalto.
L'Anac legittima la richiesta della certificazione Emas (reg. 1221/2009) o di certificazione Iso 14001 come requisito di ammissione alla gara, in relazione al fatto che l'articolo 71 del codice dei contratti pubblici prevede che i bandi di gara contengano i criteri ambientali minimi (cosiddetti Cam) di cui all'articolo 34 del codice stesso.
Quest'ultima norma, a sua volta stabilisce al comma 1 che l'obbligo di inserimento nella documentazione di gara riguarda almeno le specifiche tecniche e le clausole contrattuali contenute nei Cam. Per quanto concerne i criteri di selezione dei concorrenti, nello specifico, l'allegato 2 del dm 11.01.2017 (ora sostituito dal dm 11.10.2017 che peraltro non innova su questo profilo) prevede, al paragrafo 2.1, che l'appaltatore dimostri la propria capacità di applicare misure di gestione ambientale durante l'esecuzione del contratto e, quale modalità di verifica, che l'offerente sia in possesso di una registrazione Emas o certificazione Iso 14001 o sistemi equivalenti.
L'Anac richiama quanto specificato nel decreto del ministero dell'ambiente per rilevare che tali criteri non sono obbligatori ma, al pari dei criteri premianti suggeriti per la valutazione delle offerte, rappresentano una chiara indicazione (rimessa alla valutazione discrezionale della stazione appaltante) al fine del conseguimento degli obiettivi ambientali del Piano d'azione per la sostenibilità ambientale dei consumi della pubblica amministrazione (Pan Gpp), dal quale i Cam prendono le mosse.
Dal momento che nel decreto del ministero dell'ambiente era stato precisato che, seppure non obbligatori, i Cam «soprattutto in caso di gare per lavori, sono fortemente consigliati per i risvolti positivi che può avere la gestione ambientale dell'impresa o la corretta gestione del personale», l'Anac chiarisce che «in questo senso, la certificazione Emas non si pone in contrasto con il sistema unico di qualificazione ma lo integra». Da ciò deriva che l'attestazione Soa, nell'ambito degli interventi per i quali possono essere richiesti i Cam, non costituisce condizione sufficiente per partecipare alle gare di appalto di lavori di importo superiore ai 150 mila euro.
La certificazione, però, può anche essere oggetto di avvalimento, così come aveva già affermato la giurisprudenza nella vigenza del codice del 2006 e così come confermato con il nuovo codice, laddove uno specifico criterio di delega (art. 1, comma 1, lett. zz) del dlgs 11/2016 faceva riferimento anche al fatto che l'oggetto di avvalimento potesse essere costituito da «certificazioni di qualità o certificati attestanti il possesso di adeguata organizzazione imprenditoriale ai fini della partecipazione alla gara»
(articolo ItaliaOggi del 21.12.2018).

LAVORI PUBBLICI: Lavori di manutenzione, niente affidamenti diretti. Delibera Anac sull’uso illegittimo della somma urgenza.
Illegittimo l'uso improprio della somma urgenza per affidare in via diretta lavori alla stessa impresa; per interventi di mera manutenzione si deve ricorrere alla usuali procedure ad evidenza pubblica.

Lo ha affermato l'Anac con la delibera 21.11.2018 n. 1079 relativamente ad alcune procedure di affidamento di lavori di cosiddetta somma urgenza ex art. 176, dpr 207/2010 espletate dall'Azienda sanitaria locale Napoli 1 centro nel 2016.
Nella sostanza, era stato segnalato che una impresa, pur non essendo in possesso dell'attestato di qualificazione per l'esecuzione di lavori pubblici, fosse risultata ugualmente affidataria di tre interventi al di sopra della soglia consentita dei 150 mila euro e, inoltre, che quattro procedure fossero state assegnate per affidamento diretto utilizzando il procedimento previsto dall'art. 176 del dpr n. 207 del 2010 e indicando circostanze straordinarie ed eccezionali di somma urgenza.
Nel complesso si trattava di sette affidamenti per oltre un milione e mezzo di euro a rischio illegittimità, affidati quando la normativa di riferimento vigente all'epoca degli affidamenti sopra indicati era costituita dal dlgs 163/2006, unitamente al dpr. 207/2010.
L'Anac, a seguito delle segnalazioni, procede quindi allo svolgimento di indagini per ognuno dei singoli affidamenti rilevando un utilizzo eccessivo della somma urgenza strumentale all'affidamento alla stessa ditta di lavori senza alcun confronto concorrenziale, pur trattandosi di interventi banali di manutenzione di immobili.
La delibera ha chiarito che «l'intervento di estrema urgenza deve, per sua natura, riguardare l'intervento di messa in sicurezza del bene immobile oggetto di intervento al fine di evitare rischi e deve, dunque, consistere nell'eliminazione dell'imminente pregiudizio, e non può, invece, coinvolgere l'esecuzione di interventi ordinariamente volti a eliminare il degrado dello stesso che, in quanto implicanti interventi di mera manutenzione, non potranno che essere affidati con le usuali procedure ad evidenza pubblica».
Risulta, in particolare, illegittimo far ricorso alle procedure di somma urgenza «nel caso in cui l'urgenza stessa sia sopravvenuta a causa del comportamento colpevole dell'amministrazione, la quale, pur potendo prevedere l'evento, non ne abbia tuttavia tenuto conto al fine di valutare i tempi tecnici necessari alla realizzazione del proprio intervento».
Inoltre, occorre anche guardare alla natura degli interventi perché l'intervento di estrema urgenza deve, «per sua natura, riguardare l'intervento di messa in sicurezza del bene immobile oggetto di intervento al fine di evitare rischi e deve, dunque, consistere nell'eliminazione dell'imminente pregiudizio, e non può, invece, coinvolgere l'esecuzione di interventi ordinariamente volti ad eliminare il degrado dello stesso che, in quanto implicanti interventi di mera manutenzione, non potranno che essere affidati con le usuali procedure ad evidenza pubblica».
Da qui la trasmissione degli atti alla procura e alla corte dei conti per l'accertamento delle responsabilità (articolo ItaliaOggi del 21.12.2018).

QUESITI & PARERI

ENTI LOCALI: Compenso revisori dei conti.
Domanda
Il mio organo di revisione sostiene che qualche settimana ha letto sulla stampa di un’imminente modifica della disciplina del compenso spettante ai revisori dei conti e preme per un intervento di adeguamento dello stesso. Sapete dirmi se è stata inserita in qualche testo di legge e come devo comportarmi per procedere?
Risposta
Il quesito del lettore fa riferimento al decreto del Ministro dell’Interno, di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze del 21.12.2018 che fissa i nuovi limiti massimi del compenso base annuo lordo spettante agli organi di revisione economico-finanziaria degli enti locali.
La sua pubblicazione, è stata fatta sulla Gazzetta Ufficiale n. 3 dello scorso 4 gennaio (il testo integrale del provvedimento è reperibile cliccando qui).
Il decreto sostituisce l’analogo provvedimento in vigore a tutto il 31.12.2018 di cui al precedente decreto ministeriale del 20.05.2015. Dopo oltre tredici anni, pertanto, il Legislatore è intervenuto modificando i limiti massimi del compenso base spettante ai revisori dei conti, secondo quando previsto dall’art. 241 del TUEL. Quest’ultimo infatti, al comma 1 prevede che: “Con decreto del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica vengono fissati i limiti massimi del compenso base spettante ai revisori, da aggiornarsi triennalmente. Il compenso base è determinato in relazione alla classe demografica ed alle spese di funzionamento e di investimento dell’ente locale.”.
I nuovi limiti massimi previsti trovano applicazione a partire dal 01.01.2019 e, precisa l’articolo 1, comma 3 del decreto, non hanno effetto retroattivo. Il successivo articolo 2 conferma che i limiti massimi del compenso sono da intendersi al netto di IVA (dovuta nel caso in cui il revisore sia soggetto passivo dell’imposta) e dei contributi previdenziali posti a carico dell’ente da specifiche disposizioni di legge.
Sono confermate le tipologie delle eventuali maggiorazioni già previste dal previgente decreto del 20.05.2005 e dal suddetto art. 241 del TUEL, da riconoscersi secondo i parametri delle nuove tabelle B e C allegate al decreto. Esse sono rapportate rispettivamente alla spesa corrente e alla spesa per investimenti annuali pro-capite sostenute dall’ente, come desumibili dall’ultimo bilancio preventivo approvato. Le maggiorazioni sono tra loro cumulabili. L’articolo 3, infine, conferma l’attuale disciplina del rimborso delle spese di viaggio e di quelle per il vitto e l’alloggio effettivamente sostenute dai revisori dei conti per l’esercizio delle proprie funzioni.
È bene precisare che gli importi previsti dal decreto, differenziati per fascia demografica di appartenenza del singolo ente, rappresentano dei limiti massimi. L’eventuale adeguamento del compenso dovrà essere deliberato dal consiglio comunale dell’ente e potrà attestarsi su importi anche inferiori ai suddetti limiti, che restano quali importi massimi invalicabili.
Ad esempio: per un comune di 7500 abitanti il limite massimo del compenso annuo base è di € 10.150,00, rientrando l’ente nella fascia e) dei comuni da 5.000 a 9.999 abitanti, di cui alla tabella A allegata al decreto. Il consiglio comunale potrà pertanto deliberare, qualora intenda avvalersi della facoltà di aumento, qualunque importo quale compenso annuo base per il proprio revisore unico dei conti, purché non superiore al suddetto importo.
Resta inteso che l’adeguamento è facoltativo, non essendovi alcun obbligo di incrementare il compenso attualmente riconosciuto al proprio organo di revisione economico-finanziaria. E’ qui solo il caso di ricordare che la riduzione del compenso a suo tempo prevista dall’art. 6, comma 3, del decreto legge 31.05.2010, n. 78 non trova più applicazione a partire dal 01.01.2018. Da tale data, pertanto, il compenso base dell’organo di revisione è tornato ad essere pari a quello riconosciuto prima dell’entrata in vigore del suddetto decreto legge.
Infine, si evidenzia come il decreto motivi l’incremento del compenso base con l’aumento esponenziale delle funzioni dei revisori dei conti intervenute nell’ultimo decennio alla luce dell’evoluzione della legislazione in materia di finanza pubblica. Ciò ha imposto, precisa la premessa del decreto, l’adeguamento dei compensi base, anche per garantire il rispetto dei principi sull’equo compenso di cui all’art. 13-bis della L. 247 del 31.12.2012 (14.01.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Minoranze da tutelare. No all’ostruzionismo della maggioranza. Illegittime le modifiche regolamentari tese a far mancare il numero legale.
Qual è il quorum necessario affinché possano considerarsi valide le sedute consiliari di seconda convocazione?
L'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 demanda al regolamento comunale, «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto», la determinazione del «numero dei consiglieri necessario per la validità delle sedute», con il limite che tale numero non può, in ogni caso, scendere sotto la soglia del «terzo dei consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a tale fine il sindaco e il presidente della provincia».
Nella fattispecie in esame, il consiglio comunale ha deliberato la modifica della disposizione regolamentare sul funzionamento dell'organo consiliare recante la disciplina relativa alla seduta di seconda convocazione prevedendo, ai fini della validità della seduta stessa, la presenza di «almeno quattro consiglieri». Poiché il consiglio comunale in questione è composto solo da tre consiglieri di minoranza, emergerebbe la difficoltà, per questi ultimi, di poter esercitare il proprio mandato elettivo a causa del ripetersi delle assenze della maggioranza e alla conseguente mancanza del numero legale previsto per la validità delle sedute del consiglio.
In merito, il Tar Sicilia, Catania, sez. I 18/07/2006, n. 1181, pronunciandosi in tema di c.d. «ostruzionismo di maggioranza», ha evidenziato che il comportamento preordinato al conseguimento della mancanza del numero legale delle assemblee rappresentative costituisce una inammissibile prevaricazione della maggioranza nei confronti delle minoranze, alle quali viene impedito di esercitare il proprio ruolo di opposizione e quindi l'esercizio di un diritto politico costituzionalmente garantito. Secondo il Tar citato, l'art. 49 della Costituzione preclude ai partiti politici e ai loro rappresentanti «qualunque opera non solo di aperto sabotaggio ma anche di subdola, lenta e surrettizia erosione delle istituzioni democratiche».
La modifica regolamentare proposta, pertanto, unitamente alla lamentata assenza sistematica dei componenti di maggioranza potrebbero configurare un inammissibile svilimento dei diritti e delle prerogative dei consiglieri di minoranza. Premesso che il vigente ordinamento non prevede poteri di controllo di legittimità sugli atti degli enti locali in capo al ministero dell'interno, l'ente locale in questione dovrebbe valutare l'opportunità di rivedere la propria normativa regolamentare
(articolo ItaliaOggi dell'11.01.2019).

PUBBLICO IMPIEGO: Cumulo congedo biennale e permessi l. 104/1992.
Domanda
Un dipendente è stato collocato in congedo straordinario ex art. 42, comma 5, del d.lgs. 151/2001 per il periodo dal 1 gennaio al 28 gennaio.
Lo stesso ha fatto pervenire all’ente una richiesta di permessi ex art. 33 della l. 104/1992 per i giorni 29, 30 e 31 gennaio. È possibile accogliere la summenzionata richiesta?
Risposta
Occorre in primis rilevare che il d.lgs. 119/2011 ha parzialmente riordinato la normativa in materia del congedo (parentale e straordinario) e di permessi per l’assistenza a persone con disabilità grave modificando l’articolo 42, comma 5, del d.lgs. 151/2001.
Infatti, fino all’entrata in vigore del d.lgs. 119/2011, permessi e congedo straordinario erano considerati due benefici aventi la medesima finalità, ragion per cui non era prevista la possibilità di contemporanea fruizione (cumulabilità invece ammessa esplicitamente per i permessi l. 104/1992 e congedo parentale ordinario o congedo per la malattia del figlio).
Con l’entrata in vigore del citato d.lgs. 119/2011 il cumulo è invece possibile.
Possibilità che è stata recepita dal Dipartimento della Funzione Pubblica con circolare n. 1 del 03/02/2012.
Si segnala che di recente l’INPS è ritornata sull’argomento con il messaggio n. 3114 del 07.08.2018, nella quale al punto 4 ha avuto modo di precisare che “è possibile cumulare nello stesso mese, purché in giornate diversi, i periodi di congedo straordinario ex art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151/2001 con i permessi ex art. 33 della legge n. 104/1992 ed ex art. 33, comma 1, del d.lgs. n. 151/2001 (3 giorni di permesso mensili, prolungamento del congedo parentale e ore di riposo alternative al prolungamento del congedo parentale). Si precisa, al riguardo, che i periodi di congedo straordinario possono essere cumulati con i permessi previsti dall’articolo 33 della legge n. 104/1992 senza necessità di ripresa dell’attività lavorativa tra la fruizione delle due tipologie di benefici. Quanto sopra può accadere anche a capienza di mesi interi e indipendentemente dalla durata del congedo straordinario” (10.01.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI: Pubblicazione bandi concessione sui quotidiani.
Domanda
Il comune deve affidare in concessione un servizio per l’ammodernamento degli impianti di pubblica illuminazione e successiva gestione, quali sono gli obblighi di pubblicazione di un bando di gara considerato che il decreto del MIT 02.12.2016, con riferimento alla pubblicazione sui quotidiani disciplina solo quello relativo agli avvisi e bandi di concessione di importo compreso tra gli euro 500.000 e la soglia comunitaria?
Risposta
La procedura di gara richiamata nel quesito segue la pubblicità legale come prevista dagli artt. 72 e 73 del d.lgs. 50/2016 e del decreto MIT n. 02.12.2016 rubricato “Definizione degli indirizzi generali di pubblicazione degli avvisi e dei bandi di gara di cui agli artt. 70, 71 e 98 del d.lgs. 50/2016.
Nel caso di concessione di servizi di importo compreso tra i 500.000 euro e la soglia comunitaria, l’art. 3 del decreto del MIT alla lettera a) prevede la pubblicazione per estratto su almeno uno dei principali quotidiani a diffusione nazionale e su almeno uno a maggiore diffusione locale nel luogo ove si eseguono i contratti, mentre nulla è precisato nella successiva lettera b), dove la pubblicazione sui quotidiani è limitata “agli avvisi e bandi relativi ad appalti pubblici di lavori, servizi e forniture di importo superiore alle soglie di cui all’art. 35 del codice”.
Si ritiene tuttavia che tale obbligo possa comunque derivare dall’art. 164, co. 2, del d.lgs. 50/2016 che estende alle procedure di aggiudicazione dei contratti di concessione di lavori o di servizi, in quanto compatibili, le disposizioni contenute nella parte I e nella parte II del codice, relativamente alle modalità di pubblicazione e redazione dei bandi degli avvisi.
Pertanto, seppure non espressamente richiamato nella sopra citata lettera b) del decreto del MIT, si ritiene che nel caso di concessione sopra soglia comunitaria i bandi e gli avvisi di gara debbano essere pubblicati, oltre che sulla GUUE, sulla piattaforma ANAC (non ancora operativa), sul profilo del committente (Amministrazione trasparente – sezione livello 1: Bandi di gara e contratti – sotto-sezione 2: Atti delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori distintamente per ogni procedura – Avvisi e bandi), sulla piattaforma del Ministero delle Infrastrutture (anche tramite i sistemi regionali) per estratto, dopo 12 giorni dall’invio alla GUUE, anche su due dei principali quotidiani a diffusione nazionale e su 2 a maggiore diffusione locale nel luogo ove si eseguono i contratti. Per area interessata si intende il territorio della provincia (09.01.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Codice di comportamento.
Domanda
Il nostro comune ha approvato il codice di comportamento di ente a gennaio 2014, secondo le indicazioni del d.p.r. 62/2013 e la delibera ANAC n. 75 del 24.10.2013. Dobbiamo procedere all’approvazione di un nuovo codice?
Risposta
Tra le numerose misure previste dalla legge Severino (legge 06.11.2012, n. 190) in materia di prevenzione della corruzione, l’adozione del Codice di comportamento di amministrazione, rappresenta una delle misure più significative e pregnanti, dal momento che riguarda lo strumento con cui vengono regolate le condotte dei dirigenti e dei dipendenti, finalizzandole verso una migliore attenzione per l’interesse pubblico e l’imparzialità della pubblica amministrazione, prevista dall’art. 97 della costituzione.
La materia risulta, ad oggi, disciplinata dal nuovo articolo 54 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, rubricato, appunto, “Codice di comportamento”.
La vigente normativa prevede, infatti:
   a) un codice nazionale, definito dal Governo e approvato con decreto del Presidente della Repubblica (DPR 16.04.2013, n. 62), la cui violazione è “fonte di responsabilità disciplinare”;
   b) un codice per ogni amministrazione pubblica, definito con “procedura aperta alla partecipazione” e con parere obbligatorio dell’OIV o NdV, la cui violazione è anch’essa fonte di responsabilità disciplinare.
Entrambi i codici devono essere pubblicati, nel sito web istituzionale, nella sezione Amministrazione trasparente> Disposizioni generali> Atti generali.
È bene, inoltre, ricordare (art. 2, DPR 62/2013) che i codici di comportamento, per quanto compatibili, si applicano anche:
   – a tutti i collaboratori e consulenti con qualsiasi tipologia di contratto o incarico e a qualsiasi titolo;
   – ai titolari di organi e di incarichi negli uffici di diretta collaborazione delle autorità politiche;
   – ai collaboratori, a qualsiasi titolo, di imprese fornitrici di beni o servizi e che realizzano opere in favore dell’amministrazione.
Sulla pratica e concreta applicazione delle norme contenute nei due codici (nazionale e di ente) devono vigilare i dirigenti o le posizioni organizzative, negli enti senza la dirigenza, nonché le strutture di controllo interno (art. 147, TUEL 267/2000) e gli UPD (Uffici Provvedimenti Disciplinari, art. 55-bis, d.lgs. 165/2001).
Chiarito ciò, rispondendo al quesito, è possibile sostenere che, al momento attuale, nessuna norma di legge prevede l’obbligo di procedere alla revisione del codice di comportamento approvato nell’ente, qualche anno fa.
Possiamo aggiungere, però, che la materia è oggetto di specifico studio da parte dell’ANAC, che sta svolgendo un doveroso approfondimento sui punti più rilevanti della disciplina, partendo dalla constatazione della scarsa innovatività dei codici di amministrazione “di prima generazione”, approvati – come prevedeva la norma – entro sei mesi dall’emanazione del DPR 62/2013.
Secondo l’ANAC, infatti, nella stragrande maggioranza dei casi, il codice di ente si è limitato a riprodurre le previsioni del codice nazionale, omettendo di individuare quegli obiettivi di lunga durata, finalizzati alla riduzione del rischio corruttivo. Per tale ragione l’ANAC (delibera n. 1074 del 21/11/2018, Parte Generale, Paragrafo 8 “I codici di comportamento”), ha previsto di emanare delle apposite Linee guida sull’adozione dei nuovi codici di comportamento di amministrazione (definiti “di seconda generazione”), preannunciando che le suddette Linee guida saranno emanate nei primi mesi dell’anno 2019.
Alla luce del manifestato intendimento dell’ANAC, è consigliabile procedere all’approvazione del Piano triennale Anticorruzione e Trasparenza 2019/2012, secondo la normale scadenza di legge del 31.01.2019, riservandosi di “mettere mano” al nuovo codice di comportamento di amministrazione –che dovrà essere approvato sempre previo svolgimento della procedura aperta– appena saranno applicabili le Linee guida dell’ANAC sulla specifica materia (08.01.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI: FPV e Indagine di mercato.
Domanda
Sono il ragioniere di un piccolo comune e sto iniziando a chiudere i conti del 2018 in vista del riaccertamento ordinario. Il mio tecnico pretende di conservare a residuo passivo una spesa per la quale a dicembre ha fatto una semplice un’indagine di mercato, senza alcuna aggiudicazione. Io non ne sono affatto convinto. Mi potete aiutare?
Risposta
La corretta attivazione del Fondo pluriennale vincolato è un tema che sta molto a cuore ai responsabili dei servizi finanziari ed è fondamentale ai fini del corretto riaccertamento ordinario dei residui al 31 dicembre, quale atto propedeutico alla stesura del rendiconto di esercizio. Come noto la sua definizione è contenuta al punto 5.4 del principio contabile applicato concernente la contabilità finanziaria, allegato n. 4/2 al d.lgs. 118/2011: il FPV è un saldo finanziario, costituito da risorse già accertate destinate al finanziamento di obbligazioni passive dell’ente già impegnate, ma esigibili in esercizi successivi a quello in cui è accertata l’entrata.
Esso è formato solo da entrate correnti vincolate e da entrate destinate al finanziamento di investimenti, accertate e imputate agli esercizi precedenti a quelli di imputazione delle relative spese. La presenza di un’obbligazione passiva verso terzi è condizione necessaria per la sua attivazione, tranne –ad oggi– che in due ipotesi, puntualmente elencate dal principio:
   a) per spese di investimento per lavori pubblici, per i quali il Fondo si può attivare anche senza aggiudicazione (e conseguente impegno), a condizione che l’ente abbia impegnato una parte del quadro tecnico-economico diversa dalle spese di progettazione;
   b) per spese per le quali l’ente abbia avviato almeno la procedura di selezione del contraente ai sensi dell’articolo 53, comma 2, del decreto legislativo n. 163 del 2006, unitamente alle voci di spesa contenute nel quadro economico dell’opera, ancorché non impegnate.
Su quest’ultima fattispecie è intervenuta di recente la Corte dei conti, sezione regionale di controllo per il Veneto, con propria deliberazione n. 439/2018/PAR, depositata il 14/11/2018, in risposta a specifico quesito formulato dal comune di Padova.
La Corte, dopo aver premesso che sulla questione vi sarebbero opinioni contrastanti, in quanto nel principio non si fa menzione della procedura dell’indagine di mercato di cui all’art. 36 dell’attuale codice dei contratti, ha precisato che il riferimento normativo ivi contenuto (l’art.53, comma 2 del previgente codice) debba intendersi in senso dinamico e non in senso statico. Il vecchio codice (di cui al d.lgs. 163/2006) è infatti stato abrogato dal vigente codice, approvato con d.lgs. 50/2016, poi modificato con d.lgs. 56/2017. L’indagine di mercato, al pari della pubblicazione del bando e l’invito a presentare le offerte, segna l’avvio della procedura selettiva.
Il rinvio alla previgente norma operato dal principio ha il solo scopo di richiamare in senso dinamico la normativa in tema di procedure di affidamento, che oggi, a distanza di alcuni anni dall’entrata in vigore del principio stesso, è stata sostituita dal nuovo codice. L’eccezione prevista dal principio si deve applicare anche ai nuovi e diversi istituti per l’avvio della procedura volta ad individuare il soggetto affidatario, ivi previsti. Fra queste rientra a pieno titolo l’indagine di mercato di cui all’art. 36, comma 2 del d.lgs. 50/2016, analogamente alla pubblicazione del bando di gara e all’invito a presentare le offerte, già previste e disciplinate dal vecchio codice degli appalti.
Ecco perché essa, conclude la Corte, l’avvio dell’indagine di mercato è condizione sufficiente per assicurare, in mancanza dell’impegno di spesa (e, dunque, di un’obbligazione giuridicamente perfezionata) il necessario ancoraggio giuridico della copertura delle spese per lavori pubblici mediante il Fondo Pluriennale Vincolato, e possa ritenersi sufficiente a consentire il trasferimento al Fondo medesimo del finanziamento oggetto di “prenotazione”.
Infine si evidenzia come la recente legge di bilancio 2019 sia intervenuta in maniera decisa sulla disciplina delle spese di investimento degli enti locali, modificando l’art. 183 del TUEL. Essa dispone infatti che le economie di spesa relative a lavori pubblici concorrano alla determinazione del Fondo secondo le modalità da definirsi con apposito decreto ministeriale da adottarsi entro il 30 aprile prossimo che aggiorni ed adegui, sentita Arconet, il principio contabile allegato n. 4/2 (07.01.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PATRIMONIO: Applicazione riduzione canone locazioni passive, ex art. 3, comma 4, D.L. n. 95/2012, a contratti tra pubbliche amministrazioni.
Secondo la giurisprudenza contabile, l’art. 3, c. 4, D.L. n. 95/2012, come da ultimo novellato dal D.L. n. 66/2014, che stabilisce dall’01.01.2014 la riduzione del 15% dei canoni di locazione passiva stipulati dalle Amministrazioni centrali, si applica anche nell’ipotesi di locazioni stipulate con altre amministrazioni pubbliche.
Con particolare riferimento ad immobili comunali locati ad uso stazione dell’Arma dei carabinieri, per la Corte dei conti Friuli Venezia Giulia, sez. reg. contr., deliberazione n. 40/2016, la riduzione ex lege dei canoni di locazione per gli immobili pubblici locati alle Forze dell’Ordine rappresenta una forma di sostegno consentita dall’ordinamento, assimilabile al contributo diretto dei Comuni per il pagamento dei canoni di locazione di caserme ospitate in immobili privati, possibile ai sensi dell’art. 1, c. 500, L. n. 208/2015.

Il Comune riferisce di un proprio immobile dato in locazione nel 2007 ad una pubblica amministrazione centrale ad uso “stazione dell’Arma dei Carabinieri” e che il relativo canone, “soggetto ad aggiornamento annuale ai sensi dell’art. 1, comma 9-sexies della L. n. 118/1985
[1] secondo espressa previsione pattizia, è stato unilateralmente ridotto del 15% dalla p.a. locataria ai sensi dell’art. 3, c. 4, D.L. n. 95/2012 [2].
Il Comune chiede se sia legittima la suddetta riduzione avuto riguardo in particolare alla deliberazione 15.12.2015, n. 157, della Corte dei conti, sez. reg. contr. Emilia Romagna.
L’art. 3, c. 4, D.L. n. 95/2012, come da ultimo novellato dall’art. 24, c. 4, lett. a), D.L. n. 66/2014, ai fini del contenimento della spesa pubblica, con riferimento ai contratti di locazione passiva aventi ad oggetto immobili a uso istituzionale stipulati dalle amministrazioni centrali, prevede la riduzione del 15% dei canoni di locazione, a decorrere dall’01.07.2014
[3]. La riduzione del canone di locazione si inserisce automaticamente nei contratti in corso ai sensi dell’art. 1339 c.c., anche in deroga alle eventuali clausole difformi apposte dalle parti [4].
Un tanto richiamato sul piano normativo, si concentra ora l’attenzione sul quadro giurisprudenziale nella materia di interesse, osservato necessariamente nella sua evoluzione anche alla luce della normativa introdotta dopo la deliberazione della Corte dei conti Emilia Romagna richiamata dall’Ente istante.
Con riferimento a quest’ultima, si esprimono, comunque, alcune considerazioni in via del tutto collaborativa e lungi da qualsiasi valutazione in ordine alla lettura della stessa data dalle parti del contratto di locazione in essere.
La richiesta di parere su cui si pronuncia la Corte dei conti emiliana concerne l’applicazione dell’art. 3, c. 4, D.L. n. 95/2012, “nell’ipotesi in cui il comune abbia dato in concessione e non in locazione un determinato immobile ad altro ente pubblico”.
La questione viene esaminata dal Giudice contabile sotto il profilo soggettivo dell’applicabilità della norma quando le parti del rapporto di concessione siano due pubbliche amministrazioni e sotto il profilo oggettivo dell’applicazione della norma medesima prevista per i rapporti di locazione anche ai rapporti di concessione di beni pubblici. Ebbene, la Corte dei conti osserva che sotto il primo profilo l’art. 3, c. 4, D.L. n. 95/2012, non pare applicabile nell’ipotesi in cui il rapporto intervenga tra due pubbliche amministrazioni: preclusiva al riguardo è la finalità della norma del “contenimento della spesa pubblica” che non si realizza qualora il rapporto concessorio intervenga tra due pubbliche amministrazioni.
D’altro canto –osserva ancora il Giudice contabile emiliano– sotto il profilo oggettivo, il carattere eccezionale della disposizione di cui all’art. 3, c. 4, D.L. n. 95/2012, insuscettibile di interpretazione analogica (art. 14 delle Preleggi) inevitabilmente preclude che la stessa, formulata per un contratto di locazione, trovi applicazione per la fattispecie non sovrapponibile di un rapporto concessorio.
Un tanto esposto in ordine alla deliberazione della Corte dei conti Emilia Romagna n. 157/2015, si osserva, peraltro, che altre posizioni giurisprudenziali sono state espresse sul tema che ci occupa.
Sempre nell’ambito della magistratura contabile, la Corte dei conti, sez. reg. contr. Piemonte, deliberazione 21.05.2015, n. 76, ha affermato che l’art. 3, c. 4, D.L. n. 95/2012, deve trovare applicazione generalizzata in favore delle p.a. conduttrici quale che sia la natura dei locatori, pubblica o privata, condividendo in tal senso integralmente i passaggi argomentativi della Corte dei conti, sez. reg. contr. Lombardia, deliberazione 12.11.2014, n. 285.
In particolare, se il legislatore avesse voluto escludere dalla misura riduttiva del canone di cui all’art. 3, c. 4, in argomento, le locazioni stipulate con altre amministrazioni pubbliche, anche territoriali, proprietarie dell’immobile locato, lo avrebbe fatto in modo espresso. Per cui la misura di contenimento dei costi per le locazioni passive a carico dei bilanci pubblici, in assenza di una contraria disposizione di legge, trova applicazione anche rispetto a contratti stipulati con enti territoriali proprietari, per i quali rimane salvo il diritto di recesso.
Sulla questione dell’applicazione della riduzione del canone di locazione del 15%, di cui all’art. 3, c. 4, D.L. n. 95/2012, nell’ipotesi in cui i contraenti del contratto di locazione siano entrambi parti pubbliche e con specifico riferimento a locazione di immobile comunale adibito a locale caserma dei Carabinieri, si è espressa anche la Corte dei conti, sez. reg. contr. Friuli Venezia Giulia, deliberazione 27.04.2016, n. 40.
La Corte dei conti friulana osserva che la problematica posta dal Comune richiedente, che al riguardo richiama la deliberazione n. 157/2015 della Corte dei conti Emilia Romagna, va esaminata con i necessari raccordi anche con la normativa intervenuta successivamente a detta deliberazione, in relazione ad una fattispecie diversa, che la Corte ritiene tuttavia connessa a quella in esame.
In particolare, la deliberazione n. 40/2016 prende in considerazione l’art. 1, c. 500, L. 28.12.2015, n. 208 (Legge di stabilità per il 2016), il quale ha introdotto il comma 4-bis all’art. 3 del D.L. n. 95/2012, secondo cui “per le caserme delle Forze dell’ordine e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco ospitate presso proprietà private, i comuni appartenenti al territorio di competenza delle stesse possono contribuire al pagamento del canone di locazione come determinato dall’Agenzia delle entrate”.
Alla luce della novella del 2015 –afferma la Corte dei conti friulana– è da ritenersi superato l’orientamento espresso dalla Corte dei conti, Sezione Autonomie, deliberazione 09.06.2014, n. 16, secondo cui, nell’ambito del coordinamento fra Amministrazioni statali e periferiche, in vista del potenziamento della sicurezza a livello locale (art. 118, comma 3, Cost.), tra gli strumenti di concertazione interistituzionale non sarebbe possibile prevedere forme di contribuzione da parte dei Comuni volte al pagamento del canone di locazione per le caserme delle Forze dell’ordine. Orientamento di cui –ad avviso della Corte dei conti Friuli Venezia Giulia– la deliberazione della Corte dei conti Emilia Romagna n. 157/2015 pare porsi come un’applicazione seppur indiretta.
Ed invero, il contributo diretto ai canoni di locazione per caserme ospitate in immobili privati rappresenterebbe una forma di aiuto economico assimilabile alla riduzione ex lege dei canoni di locazione per gli immobili pubblici locati alle Forze dell’ordine, trattandosi in ambedue i casi di forme di sostegno consentite dall’ordinamento.
Ne consegue –osserva la Corte dei conti– che:
   a) opera ex lege la riduzione del canone del 15% per tutte le locazioni passive gravanti su Amministrazioni pubbliche per il godimento di immobili adibiti ad uso istituzionale, senza distinzione tra immobili di proprietà pubblica o privata;
   b) per i soli immobili di proprietà privata adibiti a caserme è eventualmente consentito ai Comuni di contribuire al pagamento del canone di locazione come determinato dall’Agenzia delle entrate.
E tale impostazione giuridica per la Corte dei conti friulana appare già di per sé risolutiva (in senso affermativo n.d.r.) della questione ad essa sottoposta
[5] circa l’applicazione della riduzione del canone quando i contraenti del contratto di locazione –nel caso, di immobile comunale adibito a locale caserma dei Carabinieri– siano entrambi parti pubbliche [6].
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[1] La legge 05.04.1985 n. 118 ha convertito, con modificazioni, il D.L. 07.02.1985, n. 12, al cui art. 1 ha aggiunto il comma 9-sexies in argomento, che sostituisce l’art. 32 (Aggiornamento del canone), L. 27.07.1978, n. 392, alla cui lettura si rinvia.
[2] Si riporta il testo dell’art. 3, comma 4, in parola: “Ai fini del contenimento della spesa pubblica, con riferimento ai contratti di locazione passiva aventi ad oggetto immobili a uso istituzionale stipulati dalle Amministrazioni centrali, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica ai sensi dell’art. 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196, nonché dalle Autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob) i canoni di locazione sono ridotti a decorrere dal 01.07.2014 della misura del 15 per cento di quanto attualmente corrisposto. A decorrere dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presene decreto la riduzione di cui al periodo precedente si applica comunque ai contratti di locazione scaduti o rinnovati dopo tale data. La riduzione del canone di locazione si inserisce automaticamente nei contratti in corso ai sensi dell’art. 1339 c.c., anche in deroga alle eventuali clausole difformi apposte dalle parte, salvo il diritto di recesso del locatore. Analoga riduzione si applica anche agli utilizzi in essere in assenza di titolo alla data di entrata in vigore del presente decreto. Il rinnovo del rapporto di locazione è consentito solo in presenza e coesistenza delle seguenti condizioni: a) disponibilità delle risorse finanziarie necessarie per il pagamento dei canoni, degli oneri e dei costi d’uso, per il periodo di durata del contratto di locazione; b) permanenza per le Amministrazioni dello Stato delle esigenze allocative in relazione ai fabbisogni espressi agli esiti dei piani di razionalizzazione di cui all’articolo 2, comma 222, della legge 23.12.2009, n. 191, ove già definiti, nonché di quelli di riorganizzazione ed accorpamento delle strutture previste dalle norme vigenti”.
[3] La novella del 2014 anticipa all’01.07.2014 la decorrenza della decurtazione del 15% originariamente fissata all’01.01.2015.
[4] Il comma 7 del richiamato art. 3, a seguito della novella del 2014, estende la riduzione del 15% ai contratti di locazione passiva stipulati dalle altre amministrazioni di cui all’art. 1, c. 2, D.Lgs. n. 165/2001 (art. 24, c. 4, lett. b), D.L. n. 66/2014).
[5] E ciò –osserva la Corte dei conti– ancorché dalla normativa citata non si evinca una espressa indicazione circa l’applicabilità della predetta riduzione ai canoni di locazione relativi ad immobili di proprietà pubblica locati ad altra pubblica Amministrazione.
[6] Su questa linea, v. anche Corte dei conti Emilia Romagna, deliberazioni 03.05.2016, n. 45, e 24.10.2017, n. 155, ove la Corte richiama integralmente –condividendole– le argomentazioni della Corte dei conti Lombardia n. 285/2014 citata, nel senso dell’applicazione dell’art. 3, c. 4, D.L. n. 95/2012, pure alle locazioni stipulate con altre amministrazioni pubbliche, anche territoriali, proprietarie dell’immobile locato
(04.01.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Gestionale senza segreti. Accesso al sistema informatico contabile. I consiglieri hanno diritto di visionare documenti senza limitazioni.
Ai sensi della vigente normativa, è consentito al consigliere comunale di accedere al sistema informatico gestionale, anche contabile, dell'ente locale?
Il Tar Sardegna, con sentenza n. 29/2007, in merito alla questione prospettata, ha affermato che è consentito prendere visione del protocollo generale senza alcuna esclusione di oggetti e notizie riservate e di materie coperte da segreto, posto che i consiglieri comunali sono tenuti al segreto ai sensi dell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000. Il Tar Lombardia, Brescia, inoltre, con sentenza n. 163/2004, ha ritenuto non ammissibile imporre ai consiglieri l'onere di specificare in anticipo l'oggetto degli atti che intendono visionare poiché trattasi di informazioni di cui gli stessi possono disporre solo in conseguenza dell'accesso.
La previa visione dei vari protocolli, tra cui il protocollo informatico, previsto dall'art. 17 del decreto legislativo n. 82/05 e successive modificazioni (codice dell'amministrazione digitale), è pertanto necessaria per poter individuare gli estremi degli atti sui quali si andrà ad esercitare l'accesso vero e proprio.
In tal senso, anche la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, con parere del 22.02.2011, ha osservato che, ai sensi della vigente normativa (dpr 20.10.1998, n. 428, dpcm 31.10.2000, dpr 28.12.2000 n. 445, dpcm 14.10.2003) ogni comune deve provvedere a realizzare il protocollo informatico, a cui possono liberamente accedere i consiglieri comunali che, quindi, possono prendere visione in via informatica delle determinazioni e delle delibere adottate dall'ente; ciò, in ottemperanza al principio generale di economicità dell'azione amministrativa, che riduce allo stretto necessario la redazione in forma cartacea dei documenti amministrativi. I precedenti pareri espressi dalla commissione per l'accesso ai documenti amministrativi rafforzano, peraltro, tale favorevole orientamento.
In particolare la Commissione, con il parere del 03.02.2009, ha precisato che «il ricorso a supporti magnetici o l'accesso al sistema informatico interno dell'ente, ove operante, sono strumenti di accesso certamente consentiti al consigliere comunale, poiché favoriscono la tempestiva acquisizione delle informazioni richieste senza aggravare l'ordinaria attività amministrativa».
Inoltre, con il parere del 16.03.2010, ha ribadito l'accessibilità del consigliere comunale al sistema informatico dell'ente tramite utilizzo di apposita password, ove operante, ferma restando la responsabilità della segretezza della password di cui il consigliere è stato messo a conoscenza a tali fini (art. 43, comma 2, Tuel); infine, con il parere del 25.05.2010, ha rimarcato il diritto del consigliere di accedere anche al protocollo informatico
(articolo ItaliaOggi del 04.01.2019).

CONSIGLIERI COMUNALI: Accesso agli atti da parte di un consigliere comunale.
Ai sensi dell’art. 43, co. 2, TUEL, sussiste il diritto del consigliere comunale di accedere a determinati atti relativi ad un singolo contribuente.
Il diritto di accesso ai documenti esercitato dai consiglieri comunali, infatti, in quanto espressione delle loro prerogative di controllo democratico, non incontra alcuna limitazione in relazione all'eventuale natura riservata degli atti, stante anche il vincolo del segreto d'ufficio cui gli stessi sono tenuti in forza della citata norma di legge.

Il Comune chiede un parere in materia di diritto di accesso agli atti spettante ai consiglieri comunali. Più in particolare, nel riferire di una richiesta avanzata da un amministratore locale del seguente tenore: “situazione/accertamenti/tassazione immobili di proprietà di… .omissis … siti in ……” chiede se l’istanza di accesso debba essere accolta atteso che la stessa riguarda un singolo contribuente.
In via preliminare si ricorda che il diritto di accesso agli atti amministrativi da parte degli amministratori locali è disciplinato dall’articolo 43, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 il quale prevede che: “I consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato. Essi sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge.”
La giurisprudenza, anche di recente, ha ribadito che “l'accesso ai documenti esercitato dai consiglieri comunali e provinciali, e, per estensione, anche regionali, espressione delle loro prerogative di controllo democratico, non incontra alcuna limitazione in relazione all'eventuale natura riservata degli atti, stante anche il vincolo del segreto d'ufficio che lo astringe. Inoltre, tale accesso non deve essere motivato, atteso che, diversamente, sarebbe consentito un controllo da parte degli uffici dell'Amministrazione sull'esercizio delle funzioni del consigliere. La locuzione aggettivale "utile", contenuta nell'art. 43 del t.u.e.l., non vale ad escludere il carattere incondizionato del diritto (soggettivo pubblico) di accesso del consigliere, ma piuttosto comporta l'estensione di tale diritto a qualsiasi atto ravvisato "utile" per l'esercizio delle funzioni
[1].
L’ampiezza di legittimazione all’accesso riconosciuta ai consiglieri comunali si giustifica “in ragione del particolare munus espletato dal consigliere comunale, affinché questi possa valutare con piena cognizione di causa la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, al fine di poter esprimere un giudizio consapevole sulle questioni di competenza della P.A., opportunamente considerando il ruolo di garanzia democratica e la funzione pubblicistica da questi esercitata
[2].
In relazione all’esigenza di salvaguardia della riservatezza dei terzi, si osserva ancora come la giurisprudenza
[3] abbia rilevato che la stessa è soddisfatta dall’articolo 43, comma 2, del D.Lgs. 267/2000, laddove statuisce che i consiglieri stessi sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge: “Il diritto del consigliere comunale o provinciale di avere accesso, ex art. 43 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, a tutte le informazioni che siano utili all'espletamento del mandato non incontra alcuna limitazione derivanti da esigenze di riservatezza o privacy dei terzi, in quanto il consigliere è vincolato all'osservanza del segreto. L'art. 43, comma 2 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267, prevede infatti che i consiglieri comunali sono tenuti al segreto nel caso accedano ad atti che incidono sulla sfera giuridica e soggettiva di terzi[4].
Con riferimento ad una richiesta di un consigliere comunale “di accedere ai fascicoli personali di 154 contribuenti fisici e giuridici -iscritti a ruolo per il tributo sui rifiuti Tarsu/Tares– che hanno ricevuto l’avviso di accertamento per omessa/infedele denuncia” il Ministero dell’Interno, in un proprio parere
[5], nel richiamare i principi già sopra esposti ha ulteriormente ribadito che “gli Uffici comunali non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l’oggetto delle richieste di informazione avanzate da un consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da questi espletato. Ciò, anche nel rispetto della separazione dei poteri (art. 4 e art. 14 del d.lgs. n. 165/2001) sancita per gli enti locali dall’art. 107 del TUOEL n. 267/2000 che richiama il principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo politico- amministrativo spettano agli organi di governo, essendo riservata ai dirigenti la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica [6].
Da ultimo, sempre a favore dell’ostensibilità, nel caso di specie, della documentazione richiesta dall’amministratore locale si segnala un parere della Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi
[7] relativa ad una istanza ex art. 43, comma 2, TUEL inerente il pagamento dei tributi per le concessioni cimiteriali nel quale la stessa ha affermato che “deve essere accolta la richiesta d’accesso formulata dal consigliere comunale, affinché questi possa valutare con piena cognizione di causa la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, ad atti inerenti il pagamento dei tributi per le concessioni cimiteriali. Infatti, le informazioni richieste attengono un settore particolarmente nevralgico come quello dell’effettiva riscossione delle imposte comunali da parte dell’amministrazione competente”.
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[1] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 02.03.2018, n. 1298. Si veda, anche, TAR Sardegna, Cagliari sez. I sentenza del 28.11.2017, n. 740 ove si afferma che: “I consiglieri comunali vantano un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d’utilità all’espletamento delle loro funzioni; ciò anche al fine di permettere di valutare con piena cognizione la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell’ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale”.
[2] Così, Ministero dell’Interno, parere del 23.05.2014.
[3] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 04.05.2004, n. 2716. Nello stesso senso, tra le altre, TAR Veneto Venezia, sez. I, sentenza del 15.02.2008, n. 385 e TAR Lazio, Latina, sez. I, sentenza del 19.02.2013, n. 171.
[4] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza dell’11.12.2013, n. 5931. Nello stesso senso si veda, anche, TAR Campania, Napoli, sez. VI, sentenza del 06.06.2014, n. 3161 la quale afferma: “In particolare, nessuna limitazione può derivare al diritto d'accesso del consigliere comunale agli atti del Comune, qualunque sia il loro destinatario, dalla natura riservata delle informazioni richieste essendo per legge vincolato al segreto d'ufficio”.
[5] Ministero dell’Interno parere del 23.05.2014.
[6] Per completezza espositiva si segnala che il Ministero dell’Interno nell’indicato parere ha, altresì, precisato che “in ogni caso, ad avviso di questa Direzione Centrale, appare necessaria una regolamentazione della materia da parte del Consiglio comunale nell’ambito anche degli strumenti di autorganizzazione dello stesso Consiglio”. Nel medesimo parere si ricorda, infatti l’orientamento espresso da un indirizzo giurisprudenziale consolidato (cfr. C.d.S. Sez. V. n. 929/2007) secondo cui «il diritto di accesso da parte del consigliere “non può subire compressioni per pretese esigenze di natura burocratica dell’ente con l’unico limite di potere esaudire la richiesta (qualora sia di una certa gravosità) secondo i tempi necessari per non determinare interruzione delle attività di tipo corrente” (limite della proporzionalità e ragionevolezza delle richieste), restando ferma la “necessità di contemperare nel modo più ragionevole e adeguato possibile dette richieste, finalizzate all’espletamento del mandato, con le esigenze di funzionamento degli uffici” (C.d.S., Sezione V, del 17.09.2010, n. 6963)».
[7] Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, parere del 14.12.2010
(28.12.2018 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Statuto, il sindaco vota. Deve essere computato nel quorum funzionale. Il primo cittadino è a tutti gli effetti componente del consiglio comunale.
Deve essere annullata la deliberazione consiliare con la quale è stata approvata una modifica allo statuto dell'ente, nel caso in cui sia stato computato nel quorum funzionale, previsto dall'art. 6, comma 4, del decreto legislativo n. 267/2000, anche il voto del sindaco?
Premesso che sulla questione l'orientamento del giudice amministrativo non è univoco (cfr. Tar Puglia sent. 1301/2004, Tar Lazio, sez. II-ter, sentenza n. 497/2011 e Tar Lombardia sentenza n. 1604/2011), l'art. 6, comma 4, del dlgs n. 267/2000 dispone che «gli statuti sono deliberati dai rispettivi consigli con il voto favorevole dei due terzi dei consiglieri assegnati … le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche alle modifiche statutarie».
La citata normativa prevede un «procedimento aggravato» per l'approvazione delle norme statutarie, nonché delle relative modifiche; in particolare prescrive che, in caso di mancata approvazione dei due terzi dell'assemblea, si deve ripetere la votazione entro 30 giorni e, inoltre, stabilisce che lo statuto si ritiene approvato se ottiene per due volte, in sedute successive, il voto favorevole della maggioranza assoluta dei membri assegnati al collegio.
L'approvazione dello statuto, pertanto, comporta -attesa la natura di atto normativo «fondamentale» sua propria (comma 2, art. 6 cit.)- che su di esso converga il più elevato numero di consensi attraverso un'ampia discussione e comparazione d'interessi da parte della maggioranza e dell'opposizione consiliare. Tale esigenza ha determinato, conseguentemente, la previsione di maggioranze speciali disponendo che i quorum, rispettivamente della prima e delle altre votazioni, siano ragguagliati ai due terzi o alla maggioranza assoluta non dei votanti, ma dei consiglieri assegnati.
Dunque, l'iter deliberativo di approvazione dello statuto e delle sue modifiche implica che in sede di prima votazione la delibera sia approvata con il voto favorevole dei due terzi dei consiglieri assegnati ivi compreso il sindaco, che è componente del consiglio comunale ai sensi dell'art. 37 del citato testo unico.
Infatti, nelle ipotesi in cui l'ordinamento non ha inteso computare il sindaco, o il presidente della provincia, nel quorum richiesto per la validità di una seduta, lo ha indicato espressamente usando la formula «senza computare a tal fine il sindaco e il presidente della provincia» (articolo ItaliaOggi del 28.12.2018).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Quorum, vince lo statuto. Se c’è discrasia con le previsioni regolamentari. Cosa succede quando c’è contrasto sul numero minimo di consiglieri.
Come deve essere determinato il quorum strutturale affinché possa essere considerata valida una seduta del consiglio comunale, riunito in seconda convocazione?

L'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, demanda al regolamento comunale, «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto», la determinazione del «numero dei consiglieri necessario per la validità delle sedute» del consiglio riunito in seconda convocazione, con il limite che tale numero non può, in ogni caso, scendere sotto la soglia del «terzo dei consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a tale fine il sindaco e il presidente della provincia»; intendendosi con ciò che, limitatamente al computo del «terzo» dei consiglieri, il sindaco deve essere escluso.
Nel caso in esame, il regolamento di organizzazione e funzionamento del consiglio comunale prevede, per la validità delle sedute del consiglio comunale convocate in seconda convocazione, la presenza di almeno 14 consiglieri. Lo statuto comunale, invece, dispone che le medesime sedute siano valide con la presenza di almeno un terzo dei consiglieri assegnati, escluso il sindaco.
La discrasia tra tali norme deve ricondursi alla modifica, introdotta dalla legge n. 148/2011, che ha inciso sulla composizione dei consigli operando una riduzione del numero dei consiglieri rientranti nella fascia demografica dell'ente locale di cui trattasi.
Tuttavia, in ossequio al principio della gerarchia delle fonti, e conformemente anche all'articolo 7 del citato decreto legislativo n. 267/2000, che disciplina l'adozione dei regolamenti comunali «nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dallo statuto» (cfr. sentenza Tar Lombardia, Brescia, n. 2625 del 28.12.2009, Tar Lazio, n. 497 del 2011), la disposizione regolamentare deve essere disapplicata, in considerazione della prevalenza della norma statutaria
(articolo ItaliaOggi del 21.12.2018).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Commissioni, esterni out. Possono farne parte solo i consiglieri comunali. Illegittimo il regolamento che apre a soggetti estranei al consiglio.
È legittimo, ai sensi dell'art. 38, comma 6, del dlgs n. 267/2000, il regolamento del consiglio comunale di un ente locale in cui si prevede che la composizione delle commissioni consiliari permanenti sia integrata con la presenza di membri esterni al consiglio, nominati dalla giunta comunale?
Il citato art. 38, comma 6, stabilisce che lo statuto può prevedere la costituzione di commissioni consiliari istituite dal consiglio «nel proprio seno». Se istituite, tali commissioni sono disciplinate dal regolamento comunale con l'unico limite, posto dal legislatore, del rispetto del criterio proporzionale. Ciò significa che le forze politiche presenti in consiglio debbono essere il più possibile rispecchiate anche nelle commissioni, in modo che in ciascuna di esse sia riprodotto il loro peso numerico e di voto.
Nel caso di specie, lo statuto comunale dispone che il consiglio possa costituire, «nel proprio seno», le commissioni consiliari permanenti.
Il regolamento sul funzionamento del consiglio comunale prevede, invece, che la composizione delle stesse commissioni consiliari possa essere integrata dalla presenza di membri non consiglieri nominati dalla giunta.
La disposizione regolamentare, che sembrerebbe essere espressione dell'intento della amministrazione di dare attuazione ai principi della partecipazione popolare di cui all'art. 8 del Testo unico sugli enti locali (dlgs n. 267/2000), non appare coerente con la disciplina dettata dal legislatore, e ribadita dallo statuto dell'ente, riguardante la indefettibilità dello status di consigliere comunale in capo ai componenti delle commissioni consiliari ex art. 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000.
Ai sensi della norma statale citata, infatti, «il consiglio si avvale di commissioni costituite nel proprio seno con criterio proporzionale» ed è, quindi, preclusiva della possibilità che soggetti estranei al consiglio possano farne parte a titolo di veri e propri componenti.
Tale impostazione risulta confermata anche dalla dottrina, secondo cui la composizione delle commissioni deve rispecchiare, con criterio proporzionale, le forze politiche presenti in consiglio, «con esclusione di componenti non facenti parte del consiglio stesso».
L'ente, pertanto, dovrà valutare l'opportunità di pervenire a una modifica della normativa regolamentare
(articolo ItaliaOggi del 14.12.2018).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Diritto d’accesso ripetuto. Ai consiglieri vanno riconosciuti poteri ampi. Il componente di minoranza può presentare istanze reiterate.
È legittima la condotta di un consigliere di minoranza che presenta numerose e reiterate istanze di accesso al protocollo del comune?

L'art. 22, comma 2, della legge n. 241/1990 stabilisce che l'accesso ai documenti amministrativi, in virtù delle sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce principio generale dell'attività amministrativa, in quanto favorisce la partecipazione e assicura l'imparzialità' e la trasparenza dell'azione amministrativa.
L'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000, invece, consente ai consiglieri comunali di accedere a tutte le notizie e le informazioni in possesso dell'ente, utili all'espletamento del proprio mandato.
Nel caso in esame, il sindaco ha sospeso le richieste di accesso del consigliere di minoranza al protocollo, ritenendole «formalizzate in modo abnorme, generico, indiscriminato e reiterato e finalizzate a strategie ostruzionistiche comportanti aggravi dell'attività amministrativa dell'ente».
Tuttavia, al consigliere comunale, in relazione proprio al munus rivestito, deve essere riconosciuto un diritto più ampio rispetto a quello esercitabile dal semplice cittadino, che si estende oltre le competenze attribuite al consiglio comunale, al fine della necessaria valutazione della correttezza ed efficacia dell'operato dell'amministrazione comunale (cfr.: Cds n. 4525 del 05.09.2014, Cds sez. V n. 5264/07 che richiama Cons. stato, V sez. 21.02.1994 n. 119, Cons. stato, V sez. 26.09.2000 n. 5109, Cons. stato, V sez. 02.04.2001 n. 1893). La giurisprudenza, fatta salva la necessità di non aggravare la funzionalità amministrativa dell'ente con richieste emulative, è infatti orientata a ritenere illegittimo il diniego opposto dall'amministrazione di prendere visione del protocollo generale e di quello riservato del sindaco, comprensivo sia della posta in arrivo che di quella in uscita.
I giudici del Tar Sardegna, nella citata sentenza n. 29/2007, hanno, peraltro, affermato che è consentito prendere visione del protocollo generale senza alcuna esclusione di oggetti e notizie riservate e di materie coperte da segreto, posto che i consiglieri comunali sono comunque tenuti al segreto ai sensi dell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000, mentre il Tar Lombardia, Brescia, 01.03.2004 n. 163, ha ritenuto non ammissibile imporre al consigliere l'onere di specificare in anticipo l'oggetto degli atti che intendono visionare giacché trattasi di informazioni di cui gli stessi possono disporre solo in conseguenza dell'accesso.
Pertanto, la previa visione dei vari protocolli, tra cui il protocollo informatico (il cui esame, ormai consolidato, era già previsto dall'art. 17, del dlgs. n. 82/2005), è necessaria per poter individuare gli estremi degli atti sui quali si andrà ad esercitare l'accesso vero e proprio, e potrà trovare apposita disciplina di dettaglio nel regolamento dell'ente.
La Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, esprimendosi sull'esercizio del diritto d'accesso, sulla base del principio di economicità che incombe sia sugli uffici tenuti a provvedere, sia sui soggetti che chiedono prestazioni amministrative, ha riconosciuto «la possibilità per il consigliere di avere accesso diretto al sistema informatico interno, anche contabile, dell'ente attraverso l'uso della password di servizio» (articolo ItaliaOggi del 07.12.2018).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Parità nei piccoli comuni. Uguaglianza uomo-donna anche nei mini-enti. Principio applicabile pur in assenza di una espressa previsione statutaria.
In tema di parità di genere, nella composizione della giunta comunale, quale normativa è applicabile ad un ente locale con popolazione inferiore a 3 mila abitanti?

La materia è disciplinata dalla legge n. 56 del 07.04.2014 che, all'art. 1, comma 137, per i soli comuni con popolazione superiore ai 3 mila abitanti, ha stabilito un preciso quorum del 40%, affinché sia rispettato il principio della parità di genere; per i comuni al di sotto di tale soglia demografica la norma di riferimento è, invece, l'art. 6, comma 3, del decreto legislativo n. 267/2000.
Secondo tale disposizione legislativa gli statuti comunali e provinciali devono prevedere norme che assicurino condizioni di pari opportunità tra uomo e donna e garantiscano la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali non elettivi del comune e della provincia, nonché degli enti, aziende ed istituzioni da essi dipendenti.
La citata disposizione è stata poi modificata della legge n. 215 del 2012 che ha sostituito il verbo «promuovere» con il verbo «garantire» ed ha aggiunto alla espressione «organi collegiali» la dicitura «non elettivi» (art. 1, comma 1); inoltre, ha previsto che gli enti locali, entro sei mesi dall'entrata in vigore della legge stessa, dovessero adeguare i propri statuti e regolamenti alle disposizioni dell'art. 6, comma 3, del Tuel (art. 1, comma 2).
L'art. 2, comma 1, lett. b) della citata legge n. 215/2012 ha modificato l'art. 46, comma 2, del decreto legislativo n. 267/00, disponendo che il sindaco e il presidente della provincia nominino i componenti della giunta «nel rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la presenza di entrambi i sessi».
La citata normativa va letta alla luce dell'art. 51 della Costituzione, come modificato dalla legge costituzionale n. 1/03, che ha riconosciuto dignità costituzionale al principio della promozione delle pari opportunità tra donne e uomini.
Nel caso dei comuni rientranti nella suddetta fascia demografica, pertanto, devono trovare applicazione le disposizioni contenute nei citati articoli 6, comma 3, e 46, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 e nella legge n. 215/2012.
Tali disposizioni, recependo i principi sulle pari opportunità dettati dall'art. 51 della Costituzione, dall'art. 1 del decreto legislativo dell'11.04.2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità) e dall'art. 23 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, hanno carattere precettivo e non meramente programmatico, e sono finalizzate a rendere effettiva la partecipazione di entrambi i sessi alla vita istituzionale degli enti territoriali, in condizioni di pari opportunità.
Ferma restando la necessità dell'adeguamento statutario da parte dell'ente, le richiamate disposizioni normative sulla parità di genere risultano immediatamente applicabili, anche in carenza di una espressa previsione statutaria (articolo ItaliaOggi del 30.11.2018).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Alla Corte costituzionale la legge regionale Veneto che consente di non rispettare le distanze dai confini.
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Edilizia – Distanze – Regione Veneto – Art. 64, l.reg. n. 30 del 2016 – Deroghe – Violazione artt. 3, 5, 114, comma 2, 117, comma 2, lett. l), e comma 6, nonché 118 Cost. – Rilevanza e non manifesta infondatezza.
E’ rilevante e non manifestamene infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 64, l.reg. Veneto 30.12.2016, n. 30, per contrasto con gli artt. 3, 5, 114, comma 2, 117, comma 2, lett. l), e comma 6, nonché 118 Cost. nella parte in cui dispone la deroga della distanza dai confini prevista dagli strumenti urbanistici e dai regolamenti dei Comuni (1).
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   (1) Ad avviso del Tar la norma si porrebbe innanzitutto in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lett. l), Cost. perché il legislatore regionale disponendo la deroga delle distanze dai confini previste dagli strumenti urbanistici e dai regolamenti comunali, è intervenuto in un ambito normativo riservato alla potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di “ordinamento civile”.
Per pacifica giurisprudenza della Cassazione (sez. II, 03.11.2000, n. 14351) le norme edilizie locali le quali prescrivono maggiori distanze nelle costruzioni fissandole in relazione al confine, anziché direttamente tra le costruzioni medesime, hanno anch'esse carattere integrativo della disciplina codicistica, con la conseguenza che la loro violazione dà diritto a pretendere la riduzione in pristino, oltre al risarcimento dei danni.
Ancora la giurisprudenza ha chiarito che al pari dei regolamenti locali, anche le disposizioni del d.m. 02.04.1968, n. 1444 devono ritenersi immediatamente operative nei rapporti tra privati in quanto integrative dell’art. 873 c.c. (Cass. civ., sez. II, 23.01.2018, n. 1616; id. 26.07.2016, n. 15458; id. 15.07.2016, n. n. 14552).
Il Tar ha quindi affermato che sul piano delle fonti il rapporto di integrazione che si instaura tra l’art. 873 c.c. e i regolamenti locali, non è dissimile al rapporto di integrazione che intercorre, in forza dell’art. 41-quinquies, l. 17.08.1942, n. 1150, tra l’art. 873 c.c. e il d.m. 02.04.1968, n. 1444.
Pertanto anche per la distanza dai confini, così come per la distanza tra costruzioni, devono valere i principi affermati dalla Corte costituzionale (sentenza 24.02.2017, n. 41) la quale ha ribadito che la disciplina delle distanze fra costruzioni, ed in particolare quella degli artt. 873 e 875 cod. civ., attiene in via primaria e diretta ai rapporti tra proprietari di fondi finitimi. Non si può pertanto dubitare che la disciplina delle distanze, per quanto concerne i rapporti su indicati, rientri nella materia dell’ordinamento civile, di competenza legislativa esclusiva dello Stato (sentenza n. 232 del 2005).
Ne discende che tutte le norme integrative delle disposizioni di cui all’art. 873 c.c., e pertanto anche quelle dei regolamenti locali oltre a quelle previste dal d.m. 02.04.1968, n. 1444, concorrendo alla configurazione del diritto di proprietà nella disciplina dei rapporti di vicinato al fine di assicurare un’equità nell’utilizzazione edilizia dei suoli privati attribuendo un vero e proprio diritto soggettivo al reciproco rispetto, che in quanto tale gode di tutela reale mediante la riduzione in pristino in caso di violazione, rientrano nella materia dell’ordinamento civile.
Sotto questo profilo la norma regionale di cui all’art. 64, l.reg. 30.12.2016, n. 30, nella parte in cui consente di non rispettare le distanze dai confini stabilite dagli strumenti urbanistici e dai regolamenti locali integrative dell’art. 873 c.c., a giudizio del Tar risulta pertanto invasiva della competenza legislativa esclusiva statale in materia di ordinamento civile.
Il secondo profilo che risulta violato è quello della lesione della sfera di autonomia normativa comunale in violazione degli artt. 5, 114, comma 2, 117, comma 6 e 118 Cost. (con riguardo a quest’ultima norma per la violazione del principio della sussidiarietà verticale). Infatti la legge statale storicamente riconosce in capo al Comune l’esercizio delle competenze pianificatorie e regolatorie dell’uso del territorio (cfr. la l. 17.08.1942, n. 1150) e gli articoli 114, comma 2, e 117, comma 6, Cost., nonché l’art. 4, l. 05.06.2003, n. 131, riconoscono un ambito di autonomia regolamentare dei Comuni che, qualora come nel caso di specie sia da esercitare in una funzione attribuita dalla legislazione dello Stato, la Regione non può conculcare.
Sul punto devono pertanto ritenersi ancora validi i principi affermati dalla Corte Costituzionale in un contesto antecedente alla riforma del Titolo V della Costituzione, ma che risultano ancor più attuali per effetto dell’espresso riconoscimento, ad opera di tale riforma, dell’autonomia normativa dei Comuni nella Costituzione.
La Corte Costituzionale ha infatti affermato che “gli artt. 5 e 128 della Costituzione presuppongono una posizione di autonomia dei comuni, che le leggi regionali non possono mai comprimere fino a negarla” (sentenze nn. 286 e 83 del 1997), precisando che tale principio deve essere inteso nel senso che "il potere dei comuni di autodeterminarsi in ordine all’assetto e alla utilizzazione del proprio territorio non costituisce elargizione che le regioni, attributarie di competenza in materia urbanistica siano libere di compiere", in quanto l’art. 128 Cost. "garantisce, con previsione di principio, l’autonomia degli enti infraregionali, non solo nei confronti dello Stato, ma anche nei rapporti con le stesse regioni" (cfr. sentenza n. 83 del 1997; si vedano altresì le sentenze n. 157 del 1990; n. 212 del 1991; n. 61 del 1994).
Pertanto l’art. 64, l.reg. 30.12.2016, n. 30, avendo esautorato i Comuni dal disciplinare in conformità con le specifiche esigenze di un ordinato sviluppo del proprio territorio ed in modo equo i rapporti tra i proprietari confinanti per una intera categoria di interventi edilizi che corrispondono a quelli attuativi della legge sul piano casa, viola l’autonomia normativa dei Comuni riconosciuta dagli artt. 5, 114, comma 2, 117, comma 6, e 118 Cost..
Infine risulta altresì violato l’art. 3 Cost. sotto il profilo della ragionevolezza e della disparità di trattamento che costituiscono un parametro particolarmente rilevante rispetto alla norma della cui legittimità costituzionale si dubita che è una norma di interpretazione autentica al primo comma, e retroattiva al secondo comma, che per essere costituzionalmente legittima deve trovare adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non deve contrastare con altri valori ed interessi costituzionalmente protetti (ex pluribus cfr. Corte Costituzionale n. 73 del 2017; n. 170 del 2013, nonché le sentenze n. 78 del 2012 e n. 209 del 2010).
Infatti la previsione, nell’ambito degli strumenti urbanistici e nei regolamenti comunali, di una distanza di cinque metri dal confine persegue chiaramente una finalità di carattere perequativo, imponendo una ripartizione equa, in parti uguali, del sacrificio derivante dal necessario rispetto della distanza di dieci metri da pareti finestrate prevista dal d.m. 02.04.1968, n. 1444 (TAR Veneto, Sez. II, ordinanza 12.12.2018 n. 1166 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
7. Ciò premesso, il Collegio non può esimersi dal sollevare la questione di legittimità costituzionale della norma di cui all’art. 64 della legge regionale n. 30 del 2016, nella parte in cui dispone la deroga della distanza dai confini prevista dagli strumenti urbanistici e dai regolamenti dei Comuni.
La questione di legittimità costituzionale deve ritenersi senz’altro rilevante nel giudizio a quo, perché il diniego è stato motivato con esclusivo riferimento alla non derogabilità della distanza dai confini, e un’eventuale dichiarazione dell’illegittimità costituzionale della norma regionale di interpretazione autentica di cui al citato art. 64 comporterebbe il rigetto del ricorso, dato che troverebbe in tal modo applicazione il testo originario dell’art. 9, comma 8, della legge regionale n. 14 del 2009, con possibile esplicazione dell’interpretazione sistematica del medesimo data dalla sentenza Tar Veneto, Sez. II, 14.10.2016, n. 1128, e condivisa dal Comune di Altavilla Vicentina.
Un’eventuale dichiarazione di infondatezza della questione di legittimità costituzionale comporterebbe invece l’accoglimento del ricorso in epigrafe, il conseguente annullamento del diniego, con l’obbligo per il Comune di riesaminare l’originaria denuncia di inizio attività adeguandosi alla norma regionale sopravvenuta di interpretazione autentica.
8. Quanto alla non manifesta infondatezza il Collegio ritiene violati gli artt. 3, 5, 114, comma 2, 117, comma 2, lett. l), e comma 6, nonché 118 della Costituzione.
Il primo profilo da esaminare riguarda la violazione dell’art. 117, secondo comma, lett. l), della Costituzione perché il legislatore regionale disponendo la deroga delle distanze dai confini previste dagli strumenti urbanistici e dai regolamenti comunali, è intervenuto in un ambito normativo riservato alla potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di “ordinamento civile”.
L’art. 873 c.c. “Distanze nelle costruzioni” dispone che “le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri. Nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore”.
L’art. 872, comma 2, c.c. prevede che “colui che per effetto della violazione ha subito danno deve esserne risarcito, salva la facoltà di chiedere la riduzione in pristino quando si tratta della violazione delle norme contenute nella sezione seguente o da questa richiamate”.
Per pacifica giurisprudenza della Cassazione (cfr. Cass. Civ. Sez. II, 03.11.2000, n. 14351) “
le norme edilizie locali le quali prescrivono maggiori distanze nelle costruzioni fissandole in relazione al confine, anziché direttamente tra le costruzioni medesime, hanno anch'esse carattere integrativo della disciplina codicistica, con la conseguenza che la loro violazione dà diritto a pretendere la riduzione in pristino, oltre al risarcimento dei danni (v., ex plurimis, sent. 24.06.1996 n. 5831, 08.07.1996 n. 6209, 02.05.1997 n. 3820, 18.06.1998 n. 6088, 28.11.98 n. 12103)”.
I medesimi concetti sono ribaditi anche dalla giurisprudenza più recente (cfr. Cassazione civile, sez. II, 28.09.2018, n. 23543) che ha avuto modo di affermare che “
in tema di distanze legali, le norme degli strumenti urbanistici integrano la disciplina dettata dal codice civile nelle materie regolate dagli artt. 873 c.c. e segg., ove tendano ad armonizzare l'interesse pubblico ad un ordinato assetto urbanistico del territorio con l'interesse privato relativo ai rapporti intersoggettivi di vicinato, sicché vanno incluse in tale novero le disposizioni del piano regolatore generale dell'ente territoriale che stabiliscano la distanza minima delle costruzioni dal confine del fondo e non tra contrapposti edifici (cfr. Cass. sez. un. 24.09.2014, n. 20107)” e che “la violazione delle norme degli strumenti urbanistici integrative della disciplina dettata dal codice civile nelle materie regolate dagli artt. 873 c.c. e segg., conferisce senz'altro al vicino la facoltà di ottenere la riduzione in pristino (Cass. 05.11.1990, n. 10615; Cass. 30.07.1984, n. 4519)” (cfr. tra le tante Cass. Civ. sez. II, 12.05.2011, n. 10459; id. 23.07.2009, n. 17338; id. 16.01.2009, n. 1073; id. 30.08.2004, n. 17390; id. 09.12.1996, n. 10935).
Ancora la giurisprudenza ha chiarito che
al pari dei regolamenti locali, anche le disposizioni del DM 02.04.1968, n. 1444 devono ritenersi immediatamente operative nei rapporti tra privati in quanto integrative dell’art. 873 c.c. (cfr. Cass. civ., sez. II, 23 gennaio 2018, n. 1616; Cass. civ. 26.07.2016, n. 15458; Cass. Civ. 15.07.2016, n. n. 14552; Cass. Civ. sez. II, 29.03.2007, n. 7702).
Ritiene pertanto il Collegio di poter affermare che
sul piano delle fonti il rapporto di integrazione che si instaura tra l’art. 873 c.c. e i regolamenti locali, non è dissimile al rapporto di integrazione che intercorre, in forza dell’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150, tra l’art. 873 c.c. e il DM 02.04.1968, n. 1444.
Pertanto
anche per la distanza dai confini, così come per la distanza tra costruzioni, devono valere i medesimi consolidati principi anche di recente affermati dalla Corte Costituzionale (cfr. la sentenza 24.02.2017, n. 41) la quale ha ribadito che “secondo la giurisprudenza di questa Corte, la disciplina delle distanze fra costruzioni ha la sua collocazione anzitutto nella sezione VI del Capo II del Titolo II del Libro III del codice civile, intitolata appunto <<Delle distanze nelle costruzioni, piantagioni e scavi, e dei muri, fossi e siepi interposti tra fondi>>. «Tale disciplina, ed in particolare quella degli articoli 873 e 875 che viene qui in più specifico rilievo, attiene in via primaria e diretta ai rapporti tra proprietari di fondi finitimi. […] Non si può pertanto dubitare che la disciplina delle distanze, per quanto concerne i rapporti suindicati, rientri nella materia dell’ordinamento civile, di competenza legislativa esclusiva dello Stato» (sentenza n. 232 del 2005)”.
Ne discende che
tutte le norme integrative delle disposizioni di cui all’art. 873 c.c., e pertanto anche quelle dei regolamenti locali oltre a quelle previste dal DM 02.04.1968, n. 1444, concorrendo alla configurazione del diritto di proprietà nella disciplina dei rapporti di vicinato al fine di assicurare un’equità nell’utilizzazione edilizia dei suoli privati attribuendo un vero e proprio diritto soggettivo al reciproco rispetto, che in quanto tale gode di tutela reale mediante la riduzione in pristino in caso di violazione, rientrano nella materia dell’ordinamento civile.
Sotto questo profilo la norma regionale di cui all’art. 64 della legge regionale 30.12.2016, n. 30, nella parte in cui consente di non rispettare le distanze dai confini stabilite dagli strumenti urbanistici e dai regolamenti locali integrative dell’art. 873 c.c., a giudizio del Collegio risulta pertanto invasiva della competenza legislativa esclusiva statale in materia di ordinamento civile.
Invero una norma di tale tenore non appare poter essere ricondotta alla competenza ricorrente in materia di governo del territorio perché, come anche recentemente chiarito dalla Corte Costituzionale (cfr. la già citata Corte Costituzionale n. 41 del 2017) “
nel delimitare i rispettivi ambiti di competenza −statale in materia di «ordinamento civile» e concorrente in materia di «governo del territorio»− questa Corte ha individuato il punto di equilibrio nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968, più volte ritenuto dotato di particolare «efficacia precettiva e inderogabile» (sentenza n. 185 del 2016, ma anche sentenze n. 114 del 2012 e n. 232 del 2005), in quanto richiamato dall’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 (Legge urbanistica), introdotto dall’art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765 (Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150).
Pertanto, è stata giudicata legittima la previsione regionale di distanze in deroga a quelle stabilite dalla normativa statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche»
(ex plurimis, sentenza n. 231 del 2016). In definitiva, le deroghe all’ordinamento civile delle distanze tra edifici sono consentite «se inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio» (sentenza n. 134 del 2014; analogamente sentenze n. 178, n. 185, n. 189, n. 231 del 2016), poiché «la loro legittimità è strettamente connessa agli assetti urbanistici generali e quindi al governo del territorio, non, invece, ai rapporti tra edifici confinanti isolatamente considerati» (sentenza n. 114 del 2012; nello stesso senso, sentenza n. 232 del 2005)
”.
La medesima pronuncia ha altresì osservato che “
i medesimi principi sono stati ribaditi anche dopo l’introduzione dell’art. 2-bis del TUE, da parte dell’art. 30, comma 1, lettera a), del decreto-legge 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 09.08.2013, n. 98. La disposizione, infatti, ha sostanzialmente recepito l’orientamento della giurisprudenza costituzionale, inserendo nel testo unico sull’edilizia i principi fondamentali della vincolatività, anche per le Regioni e le Province autonome, delle distanze legali stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968 e dell’ammissibilità delle deroghe, solo a condizione che siano «inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio» (sentenza n. 185 del 2016; nello stesso senso, ex plurimis, sentenza n. 189 del 2016)”.
Alla luce di tali principi il Collegio ritiene pertanto che, al di fuori di queste specifiche e limitate ipotesi previste dall’ultimo comma dell’art. 9 del DM 02.04.1968, n. 1444, una legge regionale che incida in maniera diretta su diritti soggettivi già sorti in forza di norme integrative dell’art. 873 c.c., siano esse derivanti dal citato decreto ministeriale n. 1444 del 1968 o dai regolamenti locali, di fatto annullandoli, deve ritenersi violare la potestà legislativa statale in materia di ordinamento civile.
9. Il secondo profilo che a giudizio del Collegio risulta al contempo violato è quello della lesione della sfera di autonomia normativa comunale in violazione degli artt. 5, 114, comma 2, 117, comma 6 e 118 della Costituzione (con riguardo a quest’ultima norma per la violazione del principio della sussidiarietà verticale).
Infatti la legge statale storicamente riconosce in capo al Comune l’esercizio delle competenze pianificatorie e regolatorie dell’uso del territorio (cfr. la legge 17.08.1942, n. 1150) e gli articoli 114, comma 2, e 117, comma 6, della Costituzione, nonché l’art. 4 della legge 05.06.2003, n. 131, riconoscono un ambito di autonomia regolamentare dei Comuni che, qualora come nel caso di specie sia da esercitare in una funzione attribuita dalla legislazione dello Stato, la Regione non può conculcare.
Sul punto devono pertanto ritenersi ancora validi i principi affermati dalla Corte Costituzionale in un contesto antecedente alla riforma del Titolo V della Costituzione, ma che risultano ancor più attuali per effetto dell’espresso riconoscimento, ad opera di tale riforma, dell’autonomia normativa dei Comuni nella Costituzione.
La Corte Costituzionale ha infatti affermato che “gli artt. 5 e 128 della Costituzione presuppongono una posizione di autonomia dei comuni, che le leggi regionali non possono mai comprimere fino a negarla” (sentenze nn. 286 e 83 del 1997), precisando che tale principio deve essere inteso nel senso che "il potere dei comuni di autodeterminarsi in ordine all’assetto e alla utilizzazione del proprio territorio non costituisce elargizione che le regioni, attributarie di competenza in materia urbanistica siano libere di compiere", in quanto l’art. 128 della Costituzione "garantisce, con previsione di principio, l’autonomia degli enti infraregionali, non solo nei confronti dello Stato, ma anche nei rapporti con le stesse regioni" (cfr. sentenza n. 83 del 1997; si vedano altresì le sentenze n. 157 del 1990; n. 212 del 1991; n. 61 del 1994).
Pertanto a giudizio del Collegio l’art. 64 della legge regionale 30.12.2016, n. 30, avendo esautorato i Comuni dal disciplinare in conformità con le specifiche esigenze di un ordinato sviluppo del proprio territorio ed in modo equo i rapporti tra i proprietari confinanti per una intera categoria di interventi edilizi che corrispondono a quelli attuativi della legge sul piano casa, viola l’autonomia normativa dei Comuni riconosciuta dagli articoli 5, 114, comma 2, 117, comma 6, e 118 della Costituzione.
10. Infine risulta altresì violato l’art. 3 della Costituzione sotto il profilo della ragionevolezza e della disparità di trattamento che costituiscono un parametro particolarmente rilevante rispetto alla norma della cui legittimità costituzionale si dubita che è una norma di interpretazione autentica al primo comma, e retroattiva al secondo comma, che per essere costituzionalmente legittima deve trovare adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non deve contrastare con altri valori ed interessi costituzionalmente protetti (ex pluribus cfr. Corte Costituzionale n. 73 del 2017; n. 170 del 2013, nonché le sentenze n. 78 del 2012 e n. 209 del 2010).
Infatti la previsione, nell’ambito degli strumenti urbanistici e nei regolamenti comunali, di una distanza di cinque metri dal confine persegue chiaramente una finalità di carattere perequativo, imponendo una ripartizione equa, in parti uguali, del sacrificio derivante dal necessario rispetto della distanza di dieci metri da pareti finestrate prevista dal DM 02.04.1968, n. 1444.
In mancanza dell’operatività di una disposizione comunale di questo tipo, il soggetto preveniente costringe infatti il prevenuto ad arretrare per rispettare la distanza di dieci metri da pareti finestrate compromettendo seriamente il suo diritto ad edificare qualora lo stesso non possegga una superficie residua del lotto sufficiente a conservare le facoltà edificatorie che il medesimo lotto può esprimere in base allo strumento urbanistico.
Inoltre una tale eventualità può potenzialmente compromettere anche gli interessi pubblici coinvolti nella pianificazione urbanistica creando elementi edilizi estemporanei e distonici rispetto all’ordinato assetto urbanistico dato dalla presenza di caratteristiche tipologiche e architettoniche omogenee in un determinato ambito territoriale.
Pertanto la norma di cui all’art. 64 della legge regionale 30.12.2016, n. 30, consentendo la deroga alle distanze dai confini per i soli interventi di carattere eccezionale attuativi della legge sul piano casa, risulta anche irragionevole e discriminatoria perché introduce una disciplina non imparziale che favorisce solo chi intende dar corso ad un siffatto intervento edilizio a discapito del vicino confinante, comprime la posizione giuridica di quest’ultimo che ha la consistenza di un vero e proprio diritto soggettivo, e finisce per comportare elementi di squilibrio e distorsione nelle relazioni tra proprietari confinanti determinando situazioni di iniquità nei rapporti intersoggettivi.
Inoltre la posizione del terzo confinante nonostante abbia la medesima natura di diritto soggettivo perfetto finisce in tal modo per subire una diversa tutela a fronte di uno stesso intervento edilizio a seconda che venga realizzato in attuazione delle norme sulla legge regionale sul piano casa, o in forza delle ordinarie norme del piano regolatore.
Nel primo caso il vicino non può che costruire in arretramento, in quanto è privo dei rimedi giuridici per reagire alla compressione del proprio ius edificandi, nel secondo caso può ottenere una tutela ripristinatoria reale.
Sotto questo profilo la norma di interpretazione autentica di cui all’art. 64, comma 1, e la norma retroattiva di cui al comma 2, risultano violare l’art. 3 della Costituzione sotto il profilo della ragionevolezza e della disparità di trattamento.
11. In conclusione
il Collegio ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 64 della legge regionale 30.12.2016, n. 30, nella parte in cui dispone la non applicabilità delle disposizioni contenute negli strumenti urbanistici e nei regolamenti dei Comuni per gli interventi edilizi applicativi della legge regionale 08.07.2009, n. 14, per violazione degli artt. 3, 5, 114, comma 2, 117, comma 2, lett. l), e comma 6, nonché 118 della Costituzione.
Si deve pertanto disporre la sospensione del presente giudizio e la rimessione della questione all’esame della Corte costituzionale, ai sensi dell’art. 23, della legge 11.03.1953, n. 87, per la decisione sulla prospettata questione di costituzionalità.
P.Q.M.
Il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto (Sezione Seconda) solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 64 della legge regionale 30.12.2016, n. 30, per contrasto con gli artt. 3, 5, 114, comma 2, 117, comma 2, lett. l), e comma 6, nonché 118 della Costituzione, secondo quanto stabilito in motivazione.

APPALTI SERVIZI: Rimborso forfettario spese sostenute da associazioni di volontariato concorrenti a gara pubblica per affidamento servizio 118.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Appalto servizi – Servizio emergenza 118 – Riservato ad associazioni di volontariato – Rimborso forfettario spese sostenute – Illegittimità.
E’ illegittima la lex specialis della gara, riservata ad associazioni di volontariato, bandita per l’affidamento del servizio di emergenza 118, che in più punti contempla un rimborso forfettario mensile fisso in misura massima, in violazione delle innovative disposizioni del d.lgs. 03.07.2017, n. 117, che viceversa impongono in via esclusiva il rimborso sulla base delle spese effettivamente sostenute dagli enti no profit (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che l’art. 17, comma 3, d.lgs. 03.07.2017, n. 117 prevede che “L’attività del volontario non può essere retribuita in alcun modo nemmeno dal beneficiario. Al volontario possono essere rimborsate dall’ente del Terzo settore tramite il quale svolge l’attività soltanto le spese effettivamente sostenute e documentate per l’attività prestata, entro limiti massimi e alle condizioni preventivamente stabilite dall’ente medesimo. Sono in ogni caso vietati rimborsi spese di tipo forfetario”.
L’art. 33, comma 2, d.lgs. n. 117 del 2017 dispone “Per l’attività di interesse generale prestata le organizzazioni di volontariato possono ricevere, soltanto il rimborso delle spese effettivamente sostenute e documentate, salvo che tale attività sia svolta quale attività secondaria e strumentale nei limiti di cui all’articolo 6”.
Infine, l’art. 56, comma 2, d.lgs. n. 117 del 2017 statuisce che “Le convenzioni di cui al comma 1 possono prevedere esclusivamente il rimborso alle organizzazioni di volontariato e alle associazioni di promozione sociale delle spese effettivamente sostenute e documentate” (TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 11.01.2019 n. 48  - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Riserva di legge statale di cui all’art. 25, c. 2, Cost. - Oblazione di cui all’art. 36 TUE – Adempimento del procedimento amministrativo, estraneo allo schema penalistico – Legislatore regionale – Autonoma quantificazione della misura dell’oblazione – Espressione della funzione di governo del territorio.
La riserva di legge statale di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. si estende a tutte le vicende modificative ed estintive della punibilità, rendendo così illegittimi anche gli interventi normativi delle Regioni sulle cause di estinzione del reato (sentenze n. 183 del 2006, n. 70 del 2005, n. 196 del 2004).
Nondimeno, nelle materie di loro competenza le Regioni possono concorrere a precisare secundum legem i presupposti applicativi di norme penali, come può verificarsi nei casi in cui la legge statale subordina effetti incriminatori o decriminalizzanti ad atti amministrativi (o legislativi) regionali (sentenza n. 46 del 2014; nello stesso senso, sentenza n. 63 del 2012).
L’oblazione di cui all’art. 36 TUE appare tuttavia meglio qualificabile come un adempimento del procedimento amministrativo, estraneo allo schema penalistico, che assolve ad una funzione in parte ripristinatoria (laddove consente all’amministrazione di ottenere ora per allora l’importo corrispondente agli oneri concessori) ed in parte sanzionatoria (laddove si compone anche di una somma ulteriore rispetto a quanto originariamente dovuto).
In altri termini, l’effetto estintivo del reato è determinato da un atto amministrativo, il permesso in sanatoria; e la scelta del legislatore regionale di quantificare autonomamente la misura dell’oblazione interviene su un elemento che concorre a formare il procedimento destinato a sfociare in quell’atto, ma non altera il meccanismo estintivo del reato, che si fonda sulla verifica della “doppia conformità” dell’intervento.
Tale scelta, appare espressiva della funzione di «governo del territorio» tipica della disciplina urbanistica ed edilizia, rimessa alla potestà legislativa delle Regioni nel rispetto dei principi fondamentali stabiliti con leggi dello Stato (art. 117, terzo comma, Cost.), ed in particolare di quelli “desumibili” dal TUE, come sancito dall’art. 1 dello stesso.

...
Procedimento di sanatoria degli interventi edilizi eseguiti in base ad un titolo successivamente annullato – Sanatoria ex art. 36 d.P.R. n. 380/2001 – Minor disvalore – Previsioni di identiche conseguenze – Art. 22, c. 2, lett. s), l.r. Lazio n. 15/2008 – Illegittimità costituzionale.
Nel caso di cui all’art. 20 della legge regionale del Lazio 11.08.2008, n. 15 (che disciplina il procedimento di sanatoria degli interventi edilizi eseguiti in base a titolo abilitativo successivamente annullato), l’annullamento del titolo è indicativo dell’illegittimità sostanziale dell’intervento edilizio, rispetto al quale si renderebbe necessario il ricorso all’ordinario iter repressivo con la demolizione del manufatto, cui l’amministrazione decide invece di soprassedere per ragioni di materiale impossibilità; nel caso di cui all’art. 22, invece, è sufficiente disporre la regolarizzazione dell’aspetto formale dell’intervento realizzato, una volta accertato che lo stesso è comunque pienamente conforme alla normativa urbanistico-edilizia vigente ed a quella pregressa.
Significativo è il fatto che la disciplina statale –agli artt. 36 e 38 TUE– preveda costi differenziati per le due forme di sanatoria dell’abuso, in termini che non si giustificano se non in ragione dell’evidente minor disvalore della condotta di chi abbia realizzato un intervento conforme alla normativa urbanistico-edilizia.
La previsione di identiche conseguenze per condotte omogenee, ma caratterizzate da un minor disvalore dell’una rispetto all’altra, si traduce in una violazione del principio di ragionevolezza che designa l’illegittimità costituzionale dell’art. 22, comma 2, lettera a), della legge della Regione Lazio 11.08.2008, n. 15 (Vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia). per violazione dell’art. 3 Cost
. (Corte Costituzionale, sentenza 09.01.2019 n. 2 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Termine per proporre l’azione di risarcimento danni conseguente all’annullamento giurisdizionale del provvedimento lesivo.
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Risarcimento danni – Azione risarcitoria – Conseguente ad annullamento giurisdizionale del provvedimento – Termine – Dies a quo – Individuazione.
Il ricorrente asseritamente leso dall’attività amministrativa illegittima, ove non proponga azione autonoma ex art. 30, comma 3, c.p.a., è onerato ad agire per il ristoro dei danni entro centoventi dal passaggio in giudicato della sentenza che, accogliendo la domanda caducatoria avanzata dallo stesso, abbia annullato l’atto amministrativo, quale precondizione necessaria per l’integrazione di un contegno illecito della p.a. ai sensi dell’art. 2043 c.c. (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che il richiamato differimento del dies a quo per il decorso del termine decadenziale, previsto dal comma 5 dell’art. 30 c.p.a., è strettamente correlato alla circostanza che l’inoppugnabile pronuncia di annullamento derivi da un’azione proposta dal medesimo deducente che poi insta anche per il ristoro dei pregiudizi subiti.
Il descritto ed inscindibile legame si evince dal tenore letterale della norma, la quale -sul presupposto che sia stata esperita azione di annullamento ad opera del danneggiato- consente a quest’ultimo di agire per il ristoro del pregiudizio lamentato “nel corso del giudizio o, comunque, sino centoventi giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza”.
La legittimazione a presentare “nel corso del giudizio” caducatorio la domanda risarcitoria, per il tramite di motivi aggiunti, può essere riconosciuta al solo ricorrente che abbia chiesto l’annullamento dell’atto illegittimo ai sensi dell’art. 29 c.p.a., ferma la facoltà per il medesimo di agire per il ristoro entro centoventi giorni dal passaggio in giudicato della “relativa sentenza”, con chiara ed univoca inerenza tra il giudizio di annullamento da lui coltivato e la conseguente pronuncia.
La ratio sottesa alla riportata interpretazione, basata sulla littera legis, si rinviene dell’esigenza di circoscrivere il favor del termine più ampio per la proposizione della domanda di risarcimento nei riguardi del solo ricorrente, che con diligenza abbia già agito per la caducazione dell’atto amministrativo illegittimo.
La circostanza che il ricorrente sia stato intimato nei giudizi di annullamento del provvedimento di revoca e sia indicato formalmente tra le parti nella pronuncia del Consiglio di Stato non è di per sé idonea a legittimare l’azione di cui all’art. 30, comma 5, c.p.a.. Infatti, sebbene il giudicato caducatorio dell’illegittima revoca abbia prodotto effetti vantaggiosi sul piano sostanziale per tutti i partecipanti alla procedura selettiva utilmente collocati in graduatoria, tra cui il deducente, analoghi effetti non si rinvengono sul versante processuale della dilatazione temporale del termine decadenziale previsto dall’art. 30, comma 5 che, secondo quanto rilevato, trova una limitata applicazione nei soli riguardi del danneggiato che abbia agito per l’annullamento.
Nella delineata prospettiva, giova richiamare la disciplina civilistica prevista dall’art. 1310, comma 1, c.c., che nella diversa ipotesi del termine di prescrizione estende gli effetti favorevoli degli atti interruttivi posti in essere da un debitore o creditore in solido anche nei confronti degli altri debitori o creditori, mentre, di contro, l’art. 2964, comma 1, c.c. pone un limite all’estensione del più vantaggioso regime giuridico prescrizionale ove ricorra un termine decadenziale, statuendo che “quando un diritto deve esercitarsi entro un dato termine sotto pena di decadenza, non si applicano le norme relative all'interruzione della prescrizione”.
Con riferimento all’indicata e ritenuta esperibilità ad opera del deducente dell’actio iudicati per l’esecuzione della sentenza del Consiglio di Stato, torna utile evidenziare che, in esito alla riforma introdotta dal D.Lgs. n. 195/2011, è stato abrogato il comma 4 dell’art. 112 c.p.a., previsione foriera di molteplici perplessità in ambito dottrinale e giurisprudenziale, che in sede di ottemperanza consentiva al ricorrente di agire anche per il ristoro, non richiesto in pendenza del giudizio di legittimità, dei danni pregressi al giudicato.
Il vigente regime processuale ammette quindi in fase di ottemperanza solo l’azione risarcitoria per i pregiudizi intervenuti successivamente all’inoppugnabilità della sentenza, a conferma della distinta efficacia del giudicato annullatorio sul piano dell’utilità sostanziale e sul piano del differimento del decorso del termine decadenziale previsto dal comma 5 dell’art. 30 c.p.a. (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 09.01.2019 n. 37 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Trasmissione al 18.04.2018 del Documento di gara unico europeo in formato cartaceo.
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Contratti della Pubblica amministrazione - Documento di gara unico europeo – Trasmissione il 18.04.2018 in formato cartaceo – Possibilità
Non possono essere escluse da una gara le partecipanti che hanno ancora al 18.04.2018, secondo la previsione dell’art. 85 Codice appalti, trasmesso un Documento di gara unico europeo (DGUE) in formato cartaceo, essendo l’obbligo, in Italia, rinviato al 18.10.2018, secondo la generale previsione di cui all’art. 40 del medesimo Codice (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar, con una approfondita motivazione, che l’utilizzo del modello in formato elettronico del Documento di gara unico europeo (DGUE) in forma diversa dal cartaceo, è stato associato dalla normativa comunitaria alla contestuale necessità di comunicazione in forma elettronica.
Solo tale contestualità garantisce, oltre alla evidente semplificazione mediante un modello unico, complessivo di autodichiarazioni, l’effettiva immodificabilità di quanto prodotto, poiché solo il contestuale invio in formato elettronico (tracciabile) può assicurare che il file immodificabile non sia stato sostituito (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 08.01.2019 n 12 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Alla Corte di giustizia l’affidamento in house ex art. 192, comma 2, del Codice dei contratti.
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Contratti della Pubblica amministrazione - In house – Art. 192, comma 2, d.lgs. n. 50 del 2016 – Criterio di affidamento subordinato rispetto agli affidamenti tramite gara di appalto – Rimessione Corte di Giustizia Ue.
  
Enti pubblici – Partecipazione azionaria in società - Organismo pluriparecipato da altre amministrazioni – Acquisizione di quota di partecipazione – Divieto – Condizioni ex art. 4, comma 1, t.u. n. 175 del 2016 – Rimessione Corte di Giustizia Ue.
  
Deve essere rimessa alla Corte di giustizia Ue la questione se il diritto dell’Unione europea (e segnatamente il principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche e i principio di sostanziale equivalenza fra le diverse modalità di affidamento e di gestione dei servizi di interesse delle amministrazioni pubbliche) osti a una normativa nazionale (come quella dell’art. 192, comma 2, del ‘Codice dei contratti pubblici, approvato con d.lgs. n. 50 del 2016) il quale colloca gli affidamenti in house su un piano subordinato ed eccezionale rispetto agli affidamenti tramite gara di appalto: i) consentendo tali affidamenti soltanto in caso di dimostrato fallimento del mercato rilevante, nonché ii) imponendo comunque all’amministrazione che intenda operare un affidamento in regìme di delegazione interorganica di fornire una specifica motivazione circa i benefìci per la collettività connessi a tale forma di affidamento (1).
  
Deve essere rimessa alla Corte di giustizia Ue la questione se il diritto dell’Unione europea (e in particolare l’art. 12, paragrafo 3 della Direttiva 2014/24/UE in tema di affidamenti in house in regìme di controllo analogo congiunto fra più amministrazioni) osti a una disciplina nazionale (come quella dell’art. 4, comma 1, del Testo Unico delle società partecipate, approvato con d.lgs. n. 175 del 2016) che impedisce a un’amministrazione pubblica di acquisire in un organismo pluriparecipato da altre amministrazioni una quota di partecipazione (comunque inidonea a garantire controllo o potere di veto) laddove tale amministrazione intende comunque acquisire in futuro una posizione di controllo congiunto e quindi la possibilità di procedere ad affidamenti diretti in favore dell’Organismo pluripartecipate (2).
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   (1) La Sezione dubita che le disposizioni del diritto interno, nel subordinare gli affidamenti in house a condizioni aggravate e a motivazioni rafforzate rispetto alle altre modalità di affidamento, siano autenticamente compatibili con le pertinenti disposizioni e princìpi del diritto primario e derivato dell’Unione europea.
In particolare, l’art. 192, comma 2, del Codice degli appalti pubblici (d.lgs. n. 50 del 2016) impone che l’affidamento in house di servizi disponibili sul mercato sia assoggettato a una duplice condizione, che non è richiesta per le altre forme di affidamento dei medesimi servizi (con particolare riguardo alla messa a gara con appalti pubblici e alle forme di cooperazione orizzontale fra amministrazioni):
   a) la prima condizione consiste nell’obbligo di motivare le condizioni che hanno comportato l’esclusione del ricorso al mercato. Tale condizione muove dal ritenuto carattere secondario e residuale dell’affidamento in house, che appare poter essere legittimamente disposto soltanto in caso di, sostanzialmente, dimostrato ‘fallimento del mercato’ rilevante a causa di prevedibili mancanze in ordine a “gli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche” (risultando altrimenti tendenzialmente precluso), cui la società in house invece supplirebbe;
   b) la seconda condizione consiste nell’obbligo di indicare, a quegli tessi propositi, gli specifici benefìci per la collettività connessi all’opzione per l’affidamento in house (dimostrazione che non sarà invece necessario fornire in caso di altre forme di affidamento –con particolare riguardo all’affidamento tramite gare di appalto-).
Anche qui la previsione dell’ordinamento italiano di forme di motivazione aggravata per supportare gli affidamenti in house muove da un orientamento di sfavore verso gli affidamenti diretti in regime di delegazione interorganica e li relega ad un ambito subordinato ed eccezionale rispetto alla previa ipotesi di competizione mediante gara tra imprese.
Il restrittivo orientamento evidenziato dalla normativa italiana del 2016 si colloca in continuità con orientamenti analoghi manifestati dall’ordinamento almeno dal 2008 (sin dall’art. 23-bis, d.l. n. 112 del 2008).
Giova ricordare che con sentenza 17.11.2010, n. 325 la Corte costituzionale ha riconosciuto alla legge di poter prevedere “limitazioni dell'affidamento diretto più estese di quelle comunitarie” (per restringere ulteriormente le eccezioni alla regola della gara ad evidenza pubblica, per le quali il diritto dell’UE avrebbe solo previsto un minimo inderogabile).
La stessa giurisprudenza costituzionale ha ribadito con ulteriori pronunce che l’affidamento in regime di delegazione interorganica costituisce “un’eccezione rispetto alla regola generale dell’affidamento a terzi mediante gara ad evidenza pubblica” (Corte cost. 20.03.2013, n. 46).
Si tratta a questo punto di stabilire se questo restrittivo orientamento ultradecennale dell’ordinamento italiano in tema di affidamenti in house risulti conforme con i princìpi e disposizioni del diritto dell’Unione europea (con particolare riguardo al principio della libera organizzazione delle amministrazioni pubbliche sancita dall’art. 2 della Direttiva 2014/23/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014, sull’aggiudicazione dei contratti di concessione).
Ha osservato al riguardo la Sezione che, in tema di acquisizione dei servizi di interesse degli organismi pubblici, si fronteggiano due princìpi generali la cui contestuale applicazione può comportare antinomie:
   a) da un lato, il principio della libertà e autodeterminazione, per i soggetti pubblici, di organizzare come meglio stimano le prestazioni dei servizi di rispettivo interesse, senza che vincoli di particolare modalità gestionale derivanti dall’ordinamento dell’UE o da quello nazionale (ad es.: regime di affidamento con gara) rispetto a un'altra (ad es.: regime di internalizzazione ed autoproduzione);
   b) (dall’altro) il principio della piena apertura concorrenziale dei mercati degli appalti pubblici e delle concessioni.
Si osserva che il principio sub b) sembra presentare una valenza sussidiaria rispetto al principio sub a) (ossia, rispetto al principio della libertà nella scelta del modello gestionale).
Infatti, la prima scelta che viene demandata alle amministrazioni è di optare fra il regime di autoproduzione e quello di esternalizzazione (modelli che appaiono collocati dall’ordinamento dell’UE su un piano di equiordinazione) e, solo se si sia optato per il secondo di tali modelli, incomberà sull’amministrazione l’obbligo di operare nel pieno rispetto dell’ulteriore principio della massima concorrenzialità fra gli operatori di mercato.
Se questi sono gli esatti termini entro della questione, e se si considera che l’in house providing è per sua natura una delle forme caratteristiche di internalizzazione e autoproduzione, risulta che lo stesso in house providing rappresenta non un’eccezione residuale, ma una normale opzione di base, al pari dell’affidamento a terzi tramite mercato, cioè tramite gara: paradigma, quest’ultimo, che non gode di alcuna pregiudiziale preferenza.
Insomma, da parte dell’ordinamento dell’UE gli affidamenti in house (sostanziale forma di autoproduzione) non sembrano posti in una posizione subordinata rispetto agli affidamenti con gara; al contrario, sembrano rappresentare una sorte di prius logico rispetto a qualunque scelta dell’amministrazione pubblica in tema di autoproduzione o esternalizzazione dei servizi di proprio interesse.
In altri termini, sembra che per l’ordinamento UE da parte di una pubblica amministrazione si possa procedere all’esternalizzazione dell’approvvigionamento di beni, servizi o forniture solo una volta che le vie interne, dell’autoproduzione ovvero dell’internalizzazione, non si dimostrano precorribili o utilmente percorribili. Il che sembra corrispondere ad elementari esigenze di economia, per cui ci si rivolge all’esterno solo quando non si è ben in grado di provvedere da soli: nessuno, ragionevolmente, si rivolge ad altri quando è in grado di provvedere, e meglio, da solo.
La giurisprudenza della Corte di giustizia dell’UE ha chiarito a propria volta che l’ordinamento comunitario non pone limiti alla libertà, per le amministrazioni, di optare per un modello gestionale di autoproduzione, piuttosto che su un modello di esternalizzazione.
In particolare, con la sentenza della Grande Sezione del 09.06.2009, in causa C-480/06, Commissione CE c. Governo della Germania federale, la Corte di giustizia ha chiarito che “un’autorità pubblica può adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi e [può] farlo altresì in collaborazione con altre autorità pubbliche” (nell’occasione, la Corte di giustizia ha richiamato i princìpi già espressi con la sentenza della Terza Sezione del 13.11.2008 in causa C-324/07, Coditel Brabant).
Si pone a questo punto la questione della conformità fra da un lato i richiamati princìpi e disposizioni del diritto dell’Unione europea (i quali sembrano comportare una piena equiordinazione fra le diverse modalità di assegnazione dei servizi di interesse delle amministrazioni pubbliche, se non addirittura la prevalenza logica del sistema di autoproduzione rispetto ai modelli di esternalizzazione) e, dall’altro, le previsioni del diritto nazionale italiano (in particolare, il comma 2 dell’art. 192 del Codice degli appalti pubblici del 2016) i quali pongono invece gli affidamenti in house in una posizione subordinata e subvalente e –come detto- li ammettono soltanto in caso di dimostrato ‘fallimento del mercato’ di riferimento e a condizione che l’amministrazione dimostri in modo puntuale gli specifici benefìci per la collettività connessi a tale forma di gestione. Come dire, pretermettendo la ragionevolezza del loro comportamento economico, si presume senz’altro che le amministrazioni pubbliche non siano in grado di provvedere autonomamente solo perché non agiscono nel mercato; e per superare questa presunzione occorre dimostrare che il mercato, che ha comunque la priorità perché è mercato e non perché qui assicura condizioni migliori dell’autoproduzione, non è in concreto capace di corrispondere appieno all’esigenza di approvvigionamento.
Le restrittive condizioni poste dal diritto italiano potrebbero giustificarsi in relazione ai princìpi e alle disposizioni del diritto dell’UE solo a condizione che lo stesso diritto dell’Unione riconosca a propria volta priorità sistematica al principio di messa in concorrenza rispetto a quello della libera organizzazione. Ma così, ad avviso della Sezione, non pare essere.
Occorre inoltre chiarire se (ferma restando la sostanziale equivalenza, per il diritto dell’UE, fra le diverse forme di approvvigionamento di interesse delle amministrazioni) i singoli ordinamenti nazionali possano legittimamente porre una di tali forme di affidamento e gestione su un piano che si presume subordinato, assegnando comunque la priorità e la prevalenza al principio di apertura concorrenziale rispetto a quello della libera organizzazione delle amministrazioni pubbliche.
   (2) Ha affermato la Sezione che il particolarissimo schema della partecipazione societaria che si configura come organismo ‘in house’ per alcune amministrazioni pubbliche e come organismo ‘non-in house’ per altre amministrazioni pubbliche non sembra in contrasto con il diritto comunitario.
Tale schema, tuttavia, sembra sollevare seri dubbi di contrasto con le previsioni del diritto interno, di cui occorre quindi verificare la compatibilità con il diritto dell’UE.
In particolare, l’art. 4, comma 1, del Testo unico sulle società partecipate stabilisce che “le amministrazioni pubbliche non possono, direttamente o indirettamente, costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e servizi non direttamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né acquisire o mantenere partecipazioni, anche di minoranza, in tali società”.
La disposizione appare in linea l’indirizzo dell’ordinamento italiano inteso a ridurre dal punto di vista quantitativo e ad ottimizzare dal punto di vista qualitativo le partecipazioni delle amministrazioni pubbliche in società di capitali.
La possibilità che un’amministrazione ‘non affidante’ decida in un secondo momento di acquisire il controllo analogo (congiunto) e di procedere all’affidamento diretto del servizio in favore della società che si configura come organismo ‘in house’ per alcune amministrazioni pubbliche e come organismo ‘non-in house’ per altre amministrazioni pubbliche appare esclusa dal diritto nazionale in quanto -se (per un verso) la gestione dei servizi di igiene urbana rientra di certo fra le finalità istituzionali degli enti locali ‘non affidanti’- per altro verso, la semplice possibilità che l’acquisto del controllo analogo congiunto e l’affidamento diretto possano intervenire in futuro sembra non corrispondere al criterio della “stretta necessarietà” –evidentemente da considerare come attuale e non come meramente ipotetica e futura- che appare imposto dal richiamato art. 4, comma 1.
Occorre a questo punto interrogarsi circa la conformità fra il diritto dell’UE (in particolare, fra l’art. 5 della Direttiva 2014/24/UE), che ammette il controllo analogo congiunto nel caso di società non partecipata unicamente dalle amministrazioni controllanti e il diritto interno (in particolare, l’art. 4, comma 1, cit., interpretato nei detti sensi) che appare non consentire alle amministrazioni di detenere quote minoritarie di partecipazione in un organismo a controllo congiunto, neppure laddove tali amministrazioni intendano acquisire in futuro una posizione di controllo congiunto e quindi la possibilità di procedere ad affidamenti diretti in favore dell’organismo pluripartecipato (
Consiglio di Stato, Sez. V, ordinanza 07.01.2019 n. 138 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Alla Corte di giustizia UE la disciplina sulle “centrali di committenza” dei piccoli Comuni nella parte in cui limita i modelli organizzativi utilizzabili.
La Quinta Sezione del Consiglio di Stato sottopone al vaglio della Corte di giustizia UE la normativa interna sugli affidamenti contrattuali da parte dei piccoli comuni a mezzo delle “centrali di committenza”, nella parte in cui riduce i modelli organizzativi utilizzabili, esclude la partecipazione anche di soggetti privati e limita l’ambito territoriale della loro operatività.
Alla Corte di giustizia UE la disciplina sulle “centrali di committenza” dei piccoli Comuni nella parte in cui limita i modelli organizzativi utilizzabili (Consiglio di Stato, Sez. V, ordinanza 03.01.2019 n. 68 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Alla Corte di Giustizia Ue l’autonomia dei comuni nell’affidamento ad una centrale di committenza a due soli modelli organizzativi.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Stazioni appaltanti e soggetti aggiudicatori – Previsione di due modelli organizzativi – Art. 33, comma 3-bis, d.lgs. n. 163 del 2006 – Rimessione alla Corte di giustizia Ue.
Deve essere rimessa alla Corte di giustizia le questioni:
   a) se osta al diritto comunitario una norma nazionale, come l’art. 33, comma 3-bis, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 che limita l’autonomia dei Comuni nell’affidamento ad una centrale di committenza a due soli modelli organizzativi quali l’unione dei comuni se già esistente ovvero il consorzio tra comuni da costituire;
   b) se osta al diritto comunitario, e, in particolare, ai principi di libera circolazione dei servizi e di massima apertura della concorrenza nell’ambito degli appalti pubblici di servizi, una norma nazionale come l’art. 33, comma 3-bis, n. 163 del 2006 che, letto in combinato disposto con l’art. 3, comma 25, dello stesso decreto, in relazione al modello organizzativo dei consorzi di comuni, esclude la possibilità di costituire figure di diritto privato quali, ad es., il consorzio di diritto comune con la partecipazione anche di soggetti privati;
   c) se osta al diritto comunitario e, in particolare, ai principi di libera circolazione dei servizi e di massima apertura della concorrenza nell’ambito degli appalti pubblici di servizi, una norma nazionale, come l’art. 33, comma 3-bis, che, ove interpretato nel senso di consentire ai consorzi di Comuni che siano centrali di committenza di operare in un territorio corrispondente a quello dei comuni aderenti unitariamente considerato, e, dunque, al massimo, all’ambito provinciale, limita l’ambito di operatività delle predette centrali di committenza (1).

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   (1) Ha chiarito la Sezione che l’art. 33, comma 3-bis, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 va letta nel senso che le amministrazioni aggiudicatrici previste dal Codice dei contratti pubblici del 2006, vale a dire le amministrazioni dello Stato, gli enti pubblici territoriali, gli altri enti pubblici non economici, gli organismi di diritto pubblico, le associazioni, unioni, consorzi, comunque denominati, costituiti da siffatti soggetti, possono assumere la funzione di centrale di committenza, con obbligo, però, per i Comuni (dapprima con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti e, poi, non capoluogo di provincia) di rivolgersi a centrali di committenza configurate secondo un preciso modello organizzativo, quello dell’unione dei comuni di cui all’art. 32 del Testo unico degli enti locali qualora sia già esistente ovvero quello del consorzio tra i comuni che si avvale degli uffici delle province (nonché nell’ultima formulazione anche ad un soggetto aggregatore o alle province ai sensi della l. 07.04.2014, n. 56).
La disposizione sulle centrali di committenza che operano per i piccoli comuni appare, dunque, derogatoria rispetto alla regola generale, limitando il modello organizzativo utilizzabile a due soli schemi rispetto al più ampio novero di soggetti che, nella qualità di amministrazioni aggiudicatrici, potenzialmente possono assumere la veste di centrale di committenza.
Il modello organizzativo del consorzio tra i comuni –tenuto conto della definizione di “amministrazione aggiudicatrice” dell’art. 3, comma 25, in cui il riferimento è ai “consorzi, comunque denominati, costituiti da detti soggetti” ovvero ai consorzi costituiti solamente tra soggetti pubblici– sembra richiamare una forma di cooperazione tra comuni di tipo pubblicistico, come quella prevista dall’art. 31 del Testo unico degli enti locali, che esclude la partecipazione di soggetti privati.
Ciò comporta un’ulteriore limitazione del modello di centrale di committenza cui rimettere la funzione di acquisito di beni e servizi. La disciplina interna non definisce un ambito di operatività per le centrali di committenza né nelle disposizioni generali né nella disposizione speciale per i piccoli comuni; tuttavia, l’espresso riferimento ai comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti nell’originaria formulazione dell’art. 33, comma 3-bis, come pure ai comuni non capoluogo di provincia, nella formulazione più recente, ossia ad una connotazione territoriale degli enti aderenti, induce a ritenere che l’ordinamento interno si sia riferito a una corrispondenza tra il territorio dei comuni ricorrenti alla centrale di committenza e l’ambito di operatività della stessa. Quest’ultimo sarebbe limitato al territorio dei comuni compresi nell’unione dei comuni ovvero costituenti il consorzio.
Nella Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture 2004/18/CE era espresso il favore comunitario verso l’istituto delle centrali di committenza con implicito riconoscimento della possibilità di un più ampio ricorso ad esso.
Nel considerando 15, infatti, si legge: “In alcuni Stati si sono sviluppate tecniche di centralizzazione delle committenze. Diverse amministrazioni aggiudicatrici sono incaricate di procedere ad acquisti o di aggiudicare appalti pubblici/stipulare accordi quadro destinati ad altre amministrazioni aggiudicatrici. Tali tecniche consentono, dato il volume degli acquisti, un aumento della concorrenza e dell’efficacia della commessa pubblica”; nel considerando 16, inoltre, si legge che: “Al fine di tenere conto delle diversità esistenti negli Stati membri, occorre lasciare a questi ultimi la facoltà di prevedere la possibilità per le amministrazioni aggiudicatrici di ricorrere ad accordi quadro, a centrali di committenza, ai sistemi dinamici di acquisizione ad aste elettroniche e al dialogo competitivo, quali sono definiti e disciplinati dalla presente direttiva”.
La Corte di Giustizia delle Comunità europee, con sentenza 20.10.2005, causa C-246/03 Commissione delle Comunità europee c. Repubblica francese, ha ritenuto (§44) il “mandato di committenza” ovvero l’incarico affidato ad una persona giuridica di acquistare in nome e per conto del mandante beni e servizi, come una prestazione di servizi ai sensi del diritto comunitario (e le committenze come “prestatori di servizi”) e (§61) la legge francese esaminata (l. 85-704, successivamente modificata), che riservava detta prestazione solamente a persone giuridiche di diritto francese tassativamente enumerate, in contrasto con il principio della parità di trattamento tra i diversi prestatori di servizi.
La nozione di “impresa” adottata dal diritto comunitario ai fini della concorrenza è ampia, tale da comprendere “qualsiasi entità che esercita un’attività economica, a prescindere dallo status giuridico di detta entità e dalle modalità di finanziamento” (Corte di Giustizia ue 12.12.2013, nella causa C-372-12 Ministero dello sviluppo economico sull’attività delle SOA; sentenza 06.09.2011, nella causa C-108/10 Scattolon, e sin da Corte di Giustizia delle Comunità europee, 23.04.1991, nella causa C-41/90 Klaus Hofner e Elsen). L’“attività economica” è “qualsiasi attività che consista nell’offrire beni o servizi su un determinato mercato” (cfr. Corte di Giustizia delle Comunità europee, sentenza 25.10.2001, nella causa C-475/99 Ambulanz Glöckner).
Una centrale di committenza è dunque, per il diritto euro-unitario, un’impresa che offre il servizio dell’acquisto di beni e servizi a favore delle amministrazioni aggiudicatrici.
La Sezione dubita che il quadro normativo interno, come precedentemente ricostruito, sia compatibile con i principi del diritto euro-unitario richiamati quanto alla scelta:
   a) di limitare l’autonomia organizzativa dei piccoli comuni a due soli modelli di centrali di committenza;
   b) di imporre ai piccoli comuni di ricorrere a modelli organizzativi solamente pubblicistici;
   c) di limitare l’ambito di operatività della centrale di committenza al solo territorio dei comuni presenti nell’unione dei comuni ovvero costituenti il consorzio.
La scelta legislativa interna di imporre ai piccoli comuni di utilizzare quali centrali di committenza le unioni dei comuni se esistenti ovvero di costituire un consorzio di comuni sembra contrastare con la possibilità del più ampio ricorso alle centrali di committenza senza limitazione di forme di cooperazione. Infatti circoscrive i soggetti cui possono essere affidate funzioni di committenza, senza che ciò risulti adeguatamente giustificato dalla natura delle prestazioni, che non prevedono l’esercizio di prerogative pubblicistiche.
La scelta di ricorrere ad un modello organizzativo che esclude la partecipazione di soggetti privati, quale il consorzio di comuni di cui all’art. 31 del Testo unico degli enti locali, può apparire in contrasto con i principi euro-unitari di libera circolazione dei servizi e di massima apertura alla concorrenza, limitando ai soli soggetti pubblici italiani, tassativamente individuati, l’esercizio di una prestazione di servizi qualificabile come attività di impresa e che, in questa prospettiva, potrebbe meglio essere svolta in regime di libera concorrenza nel mercato interno.
La scelta di limitare l’ambito di operatività delle centrali di committenza che operano per i piccoli comuni al territorio comunale sembra, anch’essa, in contrasto con il principio di libera circolazione dei servizi e il principio di massima apertura alla concorrenza, poiché istituisce zone di esclusiva nell’operatività delle centrali di committenza (Consiglio di Stato, Sez. V, ordinanza 03.01.2019 n. 68 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Retrocessione parziale di beni espropriati.
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Espropriazione per pubblica utilità – Retrocessione – Parziale – Presupposti – Individuazione
La retrocessione parziale dei beni espropriati è subordinata ad una determinazione amministrativa di inservibilità dei fondi espropriati all’opera pubblica e, solo dopo che sia stata emanata la formale dichiarazione di inservibilità, gli espropriati sono titolari, come per la retrocessione totale, di un diritto soggettivo, lo jus ad rem, che consente loro di agire per chiedere la restituzione dei beni espropriati e non utilizzati (1).
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   (1) La retrocessione parziale (già prevista dagli artt. 60 e 61, l. n. 2359 del 1865 ed ora prevista dall’art. 47, d.P.R. n. 327 del 2001) si configura quando, dopo l’esecuzione totale o parziale dell’opera pubblica, alcuni dei fondi espropriati non abbiano ricevuto la prevista destinazione e rispetto ad essi può ancora esercitarsi una valutazione discrezionale circa la convenienza di utilizzarli in funzione dell’opera realizzata, sicché tali beni possono essere restituiti solo se l’Amministrazione abbia dichiarato che essi non servono più alla realizzazione dell’opera nel suo complesso.
La pretesa alla restituzione, pertanto, è subordinata ad una valutazione discrezionale dell’amministrazione, rispetto alla quale l’ex proprietario è titolare di un interesse legittimo pretensivo, tutelabile innanzi al giudice amministrativo.
La retrocessione parziale dei beni espropriati, in altri termini, è subordinata ad una determinazione amministrativa di inservibilità dei fondi espropriati all’opera pubblica e, solo dopo che sia stata emanata la formale dichiarazione di inservibilità, gli espropriati sono titolari, come per la retrocessione totale, di un diritto soggettivo, lo jus ad rem, che consente loro di agire per chiedere la restituzione dei beni espropriati e non utilizzati.
L’art. 47 del testo unico sugli espropri –come la previgente disciplina disposta dalla legge del 1865- ha preso in espressa considerazione il caso ordinario in cui il bene sia stato espropriato in esecuzione del precedente atto di dichiarazione della pubblica utilità, determinativo della specifica utilizzazione del medesimo bene, ma non anche i casi (presi in considerazione dalle leggi emanate dopo la citata legge del 1865) in cui la dichiarazione di pubblica utilità sia la conseguenza della approvazione di piani attuativi e, in particolare, di un piano per gli insediamenti produttivi.
Si deve pertanto verificare quali siano gli interessi pubblici che l’Amministrazione può prendere in considerazione, quando una istanza di retrocessione abbia per oggetto un’area espropriata in sede di esecuzione di un piano attuativo ed essa non sia stata specificamente modificata, per soddisfare interessi pubblici.
Ad avviso della Sezione:
   a) la valutazione in ordine all’esistenza di un persistente interesse pubblico all’attuazione dello strumento costituisce oggetto di una valutazione ampiamente discrezionale dell’Amministrazione, sindacabile in sede giurisdizionale solo in presenza di vizi di macroscopica illogicità o irragionevolezza o di travisamento del fatto;
   b) si deve tenere conto del principio per il quale dopo la scadenza degli effetti di un piano attuativo pèrdono efficacia i vincoli preordinati all’esproprio, ma restano fermi gli effetti urbanistici di natura conformativa, sicché ben può l’Amministrazione comunale rilasciare i titoli necessari per attuare il p.i.p. sulle aree già espropriate (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 02.01.2019 n. 22 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Il PIP è uno strumento urbanistico di natura attuativa, dotato di efficacia decennale dalla data di approvazione ed avente valore di piano particolareggiato di esecuzione, la cui funzione è quella di incentivare le imprese, offrendo ad un prezzo politico le aree occorrenti per il loro impianto ed espansione.
Il piano per gli insediamenti produttivi, quindi, non è soltanto uno strumento di pianificazione urbanistica nel senso tradizionale, ma è anche uno strumento di politica economica, perché ha la funzione di incentivare le imprese, che possono ottenere, ad un prezzo molto più basso del mercato, previa espropriazione ed urbanizzazione, le aree occorrenti per il loro impianto o la loro espansione.

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Avendo, per espressa disposizione di legge, il PIP approvato valore di piano particolareggiato di esecuzione ai sensi della legge n. 1150 del 1942, allo scadere del termine decennale il Comune consuma il proprio potere espropriativo, mentre la destinazione d’uso delle aree già impressa dallo strumento urbanistico attuativo permane fino a nuova disciplina.
La giurisprudenza Ha avuto modo di chiarire, in una fattispecie in cui si è affermata l’applicabilità del termine decennale di efficacia dei piani particolareggiati anche ai piani di lottizzazione, che, alla scadenza del termine di efficacia, sopravvivono la destinazione di zona, la destinazione ad uso pubblico di un bene privato, gli allineamenti, le prescrizioni di ordine generale e quant’altro attenga all’armonico assetto del territorio, trattandosi di misure che devono rimanere inalterate fino all’intervento di una nuova pianificazione, non essendo la stessa condizionata all’eventuale scadenza di vincoli espropriativi o di altra natura.
Il termine decennale di efficacia previsto per i piani particolareggiati, in sostanza, si applica solo alle disposizioni di contenuto espropriativo, non anche alle prescrizioni urbanistiche di piano, che rimangono pienamente operanti e vincolanti sino all’approvazione di un nuovo piano attuativo.
Tali coordinate ermeneutiche si applicano anche al Piano di Insediamenti Produttivi, avente per legge valore di piano particolareggiato di esecuzione, sebbene quest’ultimo abbia la particolarità di non concretarsi nella realizzazione di una specifica opera pubblica, in quanto, come già evidenziato, costituisce uno strumento di politica economica con la funzione di incentivare le imprese, offrendo loro, ad un prezzo politico, previa espropriazione ed urbanizzazione, le aree occorrenti per il loro impianto o la loro espansione.
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4. Nel caso di specie, l’Amministrazione comunale ha ritenuto che i relitti di cui è stata chiesta la restituzione dagli eredi Re. siano ancora funzionali all’opera pubblica.
L’art. 27, comma 1, della legge n. 865 del 1971 stabilisce che i comuni dotati di piano regolatore generale o di programma di fabbricazione approvati possono formare, previa autorizzazione della regione, un piano delle aree da destinare a insediamenti produttivi.
Il successivo comma terzo prevede che il piano approvato ha efficacia per dieci anni dalla data del decreto di approvazione ed ha valore di piano particolareggiato d’esecuzione ai sensi della legge 17.08.1942, n. 1150, e successive modificazioni; il comma quinto, inoltre, dispone che le aree comprese nel piano approvato sono espropriate dai comuni o loro consorzi secondo quanto previsto dalle stessa legge in materia di espropriazione per pubblica utilità.
Il PIP, quindi, è uno strumento urbanistico di natura attuativa, dotato di efficacia decennale dalla data di approvazione ed avente valore di piano particolareggiato di esecuzione, la cui funzione è quella di incentivare le imprese, offrendo ad un prezzo politico le aree occorrenti per il loro impianto ed espansione: il piano per gli insediamenti produttivi, quindi, non è soltanto uno strumento di pianificazione urbanistica nel senso tradizionale, ma è anche uno strumento di politica economica, perché ha la funzione di incentivare le imprese, che possono ottenere, ad un prezzo molto più basso del mercato, previa espropriazione ed urbanizzazione, le aree occorrenti per il loro impianto o la loro espansione.
5. La fondamentale questione di diritto posta dal ricorso in appello afferisce all’interpretazione del termine di efficacia decennale del PIP approvato.
Secondo la prospettazione degli appellanti, alla scadenza del termine decennale, se la dichiarazione di pubblica utilità del PIP non viene rinnovata, le aree espropriate e non utilizzate restano prive del loro scopo pubblico e devono essere restituite.
Tale era la situazione che si sarebbe presentata nel 1993, allorquando gli eredi Reggiani hanno avanzato al Comune di Bologna l’istanza di retrocessione.
Un nuovo Piano per gli Insediamenti Produttivi ex art. 27 della legge n. 865 del 1971 è stato successivamente approvato dal Comune di Bologna con OdG n. 104 del 12.04.1996, esecutivo dal 19.06.1996.
Il provvedimento impugnato, diversamente, ha posto in rilievo che, dal complesso della normativa recata dall’art. 27 della legge n. 865 del 1971 e dalla giurisprudenza formatasi sul punto, nel rispetto del termine decennale, il Comune è tenuto all’espropriazione dei lotti da assegnare successivamente alle imprese, non anche a procedere, nel decennio, alle singole assegnazioni dei lotti a favore delle imprese beneficiarie, sicché non sarebbe in discussione che le aree di cui trattasi siano state acquisite al patrimonio indisponibile del Comune in vigenza del Piano per gli Insediamenti Produttivi approvato nel 1979, ai sensi dell’art. 21, secondo comma, della legge n. 865 del 1971, secondo cui “le aree acquistate dal Comune fanno parte del suo patrimonio indisponibile”.
Il Collegio ritiene che, avendo, per espressa disposizione di legge, il PIP approvato valore di piano particolareggiato di esecuzione ai sensi della legge n. 1150 del 1942, allo scadere del termine decennale, il Comune consuma il proprio potere espropriativo, mentre la destinazione d’uso delle aree già impressa dallo strumento urbanistico attuativo permane fino a nuova disciplina.
La giurisprudenza di questo Consiglio, anche recentemente, ha avuto modo di chiarire, in una fattispecie in cui si è affermata l’applicabilità del termine decennale di efficacia dei piani particolareggiati anche ai piani di lottizzazione, che, alla scadenza del termine di efficacia, sopravvivono la destinazione di zona, la destinazione ad uso pubblico di un bene privato, gli allineamenti, le prescrizioni di ordine generale e quant’altro attenga all’armonico assetto del territorio, trattandosi di misure che devono rimanere inalterate fino all’intervento di una nuova pianificazione, non essendo la stessa condizionata all’eventuale scadenza di vincoli espropriativi o di altra natura (cfr. Cons. Stato, IV, 18.05.2018, n. 3002, che richiama Cons. Stato, IV, n. 4036 del 2017; V, n. 6823 del 2013; IV, n. 2045 del 2012, cfr. anche Cons. Stato, IV, 22.10.2018, n. 5994).
Il termine decennale di efficacia previsto per i piani particolareggiati, in sostanza, si applica solo alle disposizioni di contenuto espropriativo, non anche alle prescrizioni urbanistiche di piano, che rimangono pienamente operanti e vincolanti sino all’approvazione di un nuovo piano attuativo.
Tali coordinate ermeneutiche si applicano anche al Piano di Insediamenti Produttivi (Cons. Stato, Sez. III, 24.08.2010, n. 3904), avente per legge valore di piano particolareggiato di esecuzione, sebbene quest’ultimo abbia la particolarità di non concretarsi nella realizzazione di una specifica opera pubblica, in quanto, come già evidenziato, costituisce uno strumento di politica economica con la funzione di incentivare le imprese, offrendo loro, ad un prezzo politico, previa espropriazione ed urbanizzazione, le aree occorrenti per il loro impianto o la loro espansione.
Pertanto, scaduto il termine decennale dall’approvazione nel 1989 ed essendo stato concluso in precedenza il procedimento espropriativo con la cessione volontaria di aree, stipulata in data 02.06.1983, permane la destinazione degli immobili espropriati al perseguimento ed alla realizzazione degli obiettivi del PIP
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 02.01.2019 n. 22 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Previa comunicazione possono essere eseguiti, senza alcun titolo, sia gli interventi di manutenzione straordinaria di cui all'art. 3, comma 1, lett. b), d.P.R. 06.06.2001 n. 380, ivi compresa l'apertura di porte interne o lo spostamento di pareti interne, sempre che non riguardino le parti strutturali dell'edificio, sia le modifiche interne di carattere edilizio sulla superficie coperta dei fabbricati adibiti ad esercizio d'impresa, sempre che non riguardino le parti strutturali, ovvero le modifiche della destinazione d'uso dei locali adibiti ad esercizio d'impresa.
Sicché, “È illegittimo l'ordine di demolizione di opere edilizie e di ripristino dello stato dei luoghi nel caso di interventi ascrivibili alle fattispecie assoggettate al regime della comunicazione di inizio lavori (c.i.l.) di cui all'art. 6, comma 2, nonché 6-bis (c.i.l.a.) d.P.R. n. 380/2001, quando si sostanziano nella diversa distribuzione interna dell’attività commerciale senza interessamento delle parti strutturali dell'edificio, trattandosi sostanzialmente di operazioni di manutenzione straordinaria”.
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Il gravame è fondato in parte, nei sensi e limiti, di seguito specificati.
Ripercorrendo le censure, espresse in ricorso, sub I), avverso la contestata ordinanza di demolizione, e sopra dettagliatamente riferite, osserva il Collegio come sia, in parte, condivisibile la ricostruzione, in esse proposta, del regime edilizio delle opere abusive riscontrare, sanzionate con la più grave misura demolitoria, ex art. 31 d. P. R. 380/2001.
In particolare, s’osserva: a) relativamente alla porzione di capannone, adibita ad officina meccanica, e segnatamente alla: a.1) “struttura bipiano in blocchi di laterizio, autoportanti per il piano terra ed in gas beton per il primo piano”, realizzata all’interno del capannone e destinata ad uffici e deposito, collegati tramite una scala in ferro, va condivisa la riconduzione, della stessa, alla previsione di cui all’art. 6, comma 2, lett. e-bis), del d. P. R. 380/2001, trattandosi di “modifiche interne di carattere edilizio sulla superficie coperta dei fabbricati adibiti ad esercizio d’impresa sempre che non riguardino le parti strutturali (...)”, per le quali non era richiesto alcun titolo edilizio, risultando sufficiente una mera comunicazione.
In giurisprudenza, cfr. la massima seguente: “Previa comunicazione possono essere eseguiti, senza alcun titolo, sia gli interventi di manutenzione straordinaria di cui all'art. 3, comma 1, lett. b), d.P.R. 06.06.2001 n. 380, ivi compresa l'apertura di porte interne o lo spostamento di pareti interne, sempre che non riguardino le parti strutturali dell'edificio, sia le modifiche interne di carattere edilizio sulla superficie coperta dei fabbricati adibiti ad esercizio d'impresa, sempre che non riguardino le parti strutturali, ovvero le modifiche della destinazione d'uso dei locali adibiti ad esercizio d'impresa” (TAR Abruzzo–Pescara, Sez. I, 20/02/2017, n. 71).
Si tenga presente, altresì, la recente massima della Sezione: “È illegittimo l'ordine di demolizione di opere edilizie e di ripristino dello stato dei luoghi nel caso di interventi ascrivibili alle fattispecie assoggettate al regime della comunicazione di inizio lavori (c.i.l.) di cui all'art. 6, comma 2, nonché 6-bis (c.i.l.a.) d.P.R. n. 380/2001, quando si sostanziano nella diversa distribuzione interna dell’attività commerciale senza interessamento delle parti strutturali dell'edificio, trattandosi sostanzialmente di operazioni di manutenzione straordinaria” (TAR Campania–Salerno, Sez. II, 06/07/2018, n. 1042) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 02.01.2019 n. 1 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di un "box-container", stabilmente appoggiato al terreno, pur nella precarietà dei materiali e se destinato a svolgere funzione pertinenziale, costituisce permanente alterazione del terreno ai fini urbanistico-edilizi e richiede, pertanto, il rilascio del previo titolo edilizio.
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I manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze stabili nel tempo, vanno considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la potenziale rimovibilità della struttura e l’assenza di opere murarie.
Ciò, in quanto il manufatto non precario non risulta in concreto deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma viene destinato ad un utilizzo protratto nel tempo. Infatti, la “precarietà” dell’opera, che esonera dall’obbligo del possesso del permesso di costruire, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. e.5), d. P. R. n. 380 del 2001, postula un uso specifico e temporalmente delimitato del bene e non ammette che lo stesso possa essere finalizzato al soddisfacimento di esigenze permanenti nel tempo.
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La realizzazione di un container in rapporto di stabile connessione con il suolo ed utilizzato per soddisfare esigenze non temporanee dei detentori è soggetto a permesso di costruire.
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Un box (o un container) stabilmente infisso al suolo e di non irrilevanti dimensioni non costituisce opera precaria in quanto, in materia edilizia, il requisito della precarietà, in presenza del quale è esclusa la necessità del rilascio di concessione, non dipende dalla più o meno facile rimovibilità delle parti che compongono il manufatto, ma dalla sua concreta destinazione a sopperire ad una necessità contingente ed essere, poi, prontamente rimosso.
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Sempre relativamente alla porzione di capannone, adibita ad officina meccanica, quanto ai: a.2) “due containers in materiale metallico”, “di modeste dimensioni”, installati all’esterno, non può, invece, accogliersi la prospettazione dei ricorrenti, tendente a qualificarli tra gli interventi d’edilizia libera, ex art. 3 - comma 1 – lett. e.6) del d. P. R. 380/2001 (in quanto di volume inferiore al 20% dell’immobile principale), ovvero ex art. 6 – comma 1 – lett. e-bis) del medesimo d.P.R., attesa la loro natura precaria; ovvero ancora, a tutto concedere, tendente a riportarli alla disciplina residuale, di cui al successivo art. 6-bis, laddove resterebbe esclusa (la necessità del permesso di costruire, e quindi) l’applicabilità del regime sanzionatorio, ex art. 31 d. P. R. 380/2001.
In contrario, vale osservare, con la giurisprudenza, che: “La realizzazione di un "box-container", stabilmente appoggiato al terreno, pur nella precarietà dei materiali e se destinato a svolgere funzione pertinenziale, costituisce permanente alterazione del terreno ai fini urbanistico-edilizi e richiede, pertanto, il rilascio del previo titolo edilizio” (TAR Toscana, Sez. III, 28/02/2012, n. 391); “I manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze stabili nel tempo, vanno considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la potenziale rimovibilità della struttura e l’assenza di opere murarie. Ciò, in quanto il manufatto non precario non risulta in concreto deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma viene destinato ad un utilizzo protratto nel tempo. Infatti, la “precarietà” dell’opera, che esonera dall’obbligo del possesso del permesso di costruire, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. e.5), d.P.R. n. 380 del 2001, postula un uso specifico e temporalmente delimitato del bene e non ammette che lo stesso possa essere finalizzato al soddisfacimento di esigenze permanenti nel tempo” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 04/09/2015, n. 4116); “La realizzazione di un container in rapporto di stabile connessione con il suolo ed utilizzato per soddisfare esigenze non temporanee dei detentori è soggetto a permesso di costruire” (TAR Umbria, Sez. I, 29/01/2014, n. 66).
Tampoco può ritenersi che l’assimilazione, operata in ricorso, di tali containers a pertinenze della parte dell’edificio, adibita ad officina meccanica, possa implicare, sic et simpliciter, mercé l’applicazione dell’art. 3, comma 1, lett. e.6), del d. P. R. 380/2001 (secondo cui sono da ritenersi interventi di nuova costruzione gli interventi pertinenziali che le norme tecniche degli strumenti urbanistici, in relazione alla zonizzazione e al pregio ambientale e paesaggistico delle aree, qualifichino come tali, ovvero che comportino la realizzazione di un volume, superiore al 20% del volume dell’edificio principale), la loro esclusione (a cagione del mero dato quantitativo, costituito dal non superamento del limite volumetrico del 20%) dal novero degli interventi di “nuova costruzione”, con conseguente non necessità di munirsi d’idoneo titolo abilitativo, nella forma del permesso di costruire.
La tesi, per quanto suggestiva, costituisce un’evidente petizione di principio, non tenendo conto né di quanto sopra osservato, circa la “permanente alterazione del terreno ai fini urbanistico–edilizi” indotta dalla stabile posa in opera di manufatti di tal genere sul terreno, né –del resto– dell’insegnamento, secondo cui: “Un box (o un container) stabilmente infisso al suolo e di non irrilevanti dimensioni non costituisce opera precaria in quanto, in materia edilizia, il requisito della precarietà, in presenza del quale è esclusa la necessità del rilascio di concessione, non dipende dalla più o meno facile rimovibilità delle parti che compongono il manufatto, ma dalla sua concreta destinazione a sopperire ad una necessità contingente ed essere, poi, prontamente rimosso” (TAR Campania–Napoli, Sez. IV, 16/07/2002, n. 4141).
Ebbene, non pare davvero che, nella specie, possa parlarsi, a ragion veduta, di manufatti necessariamente pertinenziali, nonché precari: i medesimi erano infatti, nell’impugnata ordinanza, così descritti: “All’esterno, sull’area pertinenziale ed a servizio di tale attività, sono stati installati due containers in materiale metallico, aventi dimensioni in pianta pari a 5,00 x 2,60 m., con altezza alla gronda pari a 2,00 m.”; ebbene, nell’ordinanza il nesso di pertinenzialità è stato correttamente riferito al terreno, piuttosto che ai containers, ivi insistenti, essendo gli stessi evidentemente preordinati a soddisfare necessità non transeunti, bensì tendenzialmente stabili e prolungate, proprie dell’attività artigianale, ivi esercitata.
Inoltre –il dato è dirimente– i manufatti de quibus si presentano, ad avviso del Collegio, proprio per tali loro caratteristiche intrinseche, come potenzialmente autonomi, piuttosto che ineluttabilmente pertinenziali, rispetto allo stesso fabbricato, cui ineriscono (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 02.01.2019 n. 1 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: È illegittimo il provvedimento comunale con il quale è stata ingiunta la demolizione di alcune opere di modificazione delle tramezzature interne, di spostamento di un servizio igienico e di eliminazione di un precedente ambiente, ritenendole erroneamente, ai sensi dell'art. 3 del d.p.r. 06.06.2001 n. 380, interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire o in totale difformità, atteso che detti interventi non hanno condotto ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso rispetto al precedente.
Si tratta, infatti, di opere interne all'unità abitativa e, come tali, di manutenzione straordinaria.
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L'eliminazione e gli spostamenti di tramezzature, con conseguente diversa distribuzione degli ambienti interni, costituisce attività di manutenzione straordinaria assoggettata al semplice regime della comunicazione di inizio lavori, purché si tratti di interventi che non coinvolgano le parti strutturali dell'edificio.
In tali ipotesi, pertanto, l'omessa comunicazione non può giustificare l'adozione della sanzione demolitoria che presuppone la realizzazione dell'opera senza il prescritto titolo abilitativo; qualora invece questo stesso intervento interessi parti strutturali del fabbricato, la disciplina applicabile è quella della segnalazione certificata di inizio attività e, in mancanza di questa, può essere irrogata la sola sanzione pecuniaria.
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Per ciò che concerne, poi, l’altra porzione di capannone, adibita a luogo di culto, relativamente ai: b.1) “locali tra cui cucina, due depositi, una camera e servizi igienici”, ricavati all’interno della stessa, senz’altro gli stessi possono farsi rientrare nell’ambito degli interventi di “edilizia libera”, ex art. 6 del citato d.P.R., restando pertanto esclusa la necessità del permesso di costruire, con conseguente accoglimento del ricorso, per tale parte.
In termini, si legga Consiglio di Stato, Sez. VI, 14/10/2016, n. 4267: “È illegittimo il provvedimento comunale con il quale è stata ingiunta la demolizione di alcune opere di modificazione delle tramezzature interne, di spostamento di un servizio igienico e di eliminazione di un precedente ambiente, ritenendole erroneamente, ai sensi dell'art. 3 del d.p.r. 06.06.2001 n. 380, interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire o in totale difformità, atteso che detti interventi non hanno condotto ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso rispetto al precedente. Si tratta, infatti, di opere interne all'unità abitativa e, come tali, di manutenzione straordinaria”; nonché l’altra massima, ricavata dalla succitata sentenza della Sezione: “L'eliminazione e gli spostamenti di tramezzature, con conseguente diversa distribuzione degli ambienti interni, costituisce attività di manutenzione straordinaria assoggettata al semplice regime della comunicazione di inizio lavori, purché si tratti di interventi che non coinvolgano le parti strutturali dell'edificio. In tali ipotesi, pertanto, l'omessa comunicazione non può giustificare l'adozione della sanzione demolitoria che presuppone la realizzazione dell'opera senza il prescritto titolo abilitativo; qualora invece questo stesso intervento interessi parti strutturali del fabbricato, la disciplina applicabile è quella della segnalazione certificata di inizio attività e, in mancanza di questa, può essere irrogata la sola sanzione pecuniaria” (TAR Campania–Salerno, Sez. II, 06/07/2018, n. 1042; conforme: TAR Campania–Napoli, Sez. II, 22/08/2017, n. 4098) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 02.01.2019 n. 1 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Deve ritenersi necessario il permesso di costruire per la realizzazione di tettoie o di altre strutture che siano, comunque, apposte a parti di preesistenti edifici, qualora le stesse siano prive del carattere di precarietà e abbiano, inoltre, dimensioni tali da comportare una visibile alterazione dell'edificio o alle parti dello stesso su cui vengono inserite.
  
Una tettoia ancorata al suolo e di notevole dimensioni è idonea ad alterare lo stato dei luoghi in modo non transitorio; trattasi, quindi, di una nuova costruzione necessitante di titolo edilizio.
  
La tettoia necessita di un idoneo titolo allorché esula dai minimi contenuti che può avere un piccolo riparo aperto da tre lati, sì che essa costituisce spazio edificabile a tutti gli effetti quando viene realizzato un vero e proprio ambiente fruibile in via continuativa.
  
Una tettoia avente carattere di stabilità e idonea ad una utilizzazione autonoma, oltre a non poter essere considerata una mera pertinenza, non può ricadere nell'ambito dell'attività edilizia libera, costituendo un'opera esterna per la cui realizzazione occorre un idoneo titolo edilizio.
Alla medesima conclusione si può addivenire anche tenendo ferma la natura pertinenziale del manufatto, considerata l'idoneità di questo ad incidere sull'assetto edilizio preesistente.
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È illegittimo l'ordine di demolizione di una tettoia che per caratteristiche morfologiche di realizzazione e destinazione funzionale –struttura in ferro aperta sui lati, ricoperta da onduline, meramente strumentale all'opificio, di dimensioni adeguate ad assolvere le finalità produttive, senza incremento del carico urbanistico– è riconducibile alla nozione di pertinenza urbanistica, ordinariamente sottratta al regime del titolo edilizio concessorio.
  
In materia urbanistica può parlarsi di pertinenza solo quando si tratti di opere che non comportino un nuovo volume, come una tettoia o un porticato aperto da tre lati, nonché di opere che comportino un nuovo e modesto volume tecnico confermandosi con ciò, in definitiva, che devono essere tali da non alterare in modo significativo l'assetto del territorio o incidere sul carico urbanistico, caratteristiche queste la cui sussistenza deve essere peraltro dimostrata dall'interessato.
  
Le opere che non alterano in modo significativo l'assetto del territorio o non incidono sul carico urbanistico in quanto comportano un nuovo e modesto volume tecnico, quali le tettoie o i porticati aperti da tre lati, poiché hanno natura pertinenziale, non sono idonee a sviluppare un volume.
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Per ciò che concerne, invece, sempre la parte dell’edificio, adibita a luogo di culto, e segnatamente le: b.2) due tettoie, di cui una “con struttura in ferro, costituita da elementi tubolari (pilastri e travi) (...) coperta di lastre in lamiera, delimitata per un lato dallo stesso capannone e per i restanti tre lati da un muretto in blocchi (...) che inviluppa la struttura in ferro”, installata all’esterno del capannone (lo sviluppo superficiale di tale struttura era pari a circa 150,00 mq. (26,70 x 5,60 m.) con altezza minima pari a 3,15 m. e massima pari a 3,50 m.), e l’altra “sempre costituita da elementi tubolari in ferro, delimitata su un lato dallo stesso capannone e per gli altri due con pannelli di materiale plastico, così come per la copertura”, sul lato d’ingresso al capannone (lo sviluppo superficiale di tale struttura era pari a circa 23,00 mq (5,40 x 4,20 m) con altezza minima pari a 2,50 m. e massima pari a 3,00 m.), non può essere sottoscritta la tesi, patrocinata dai ricorrenti, secondo cui si sarebbe trattato di “manufatti minimi”, funzionali e pertinenziali all’immobile principale, costituenti:
   - a) interventi del tutto irrilevanti a fini volumetrici e/o della superficie e, quindi, del carico urbanistico; per l’effetto, non assoggettate al regime del permesso di costruire;
   - b) riconducibili al genus degli interventi pertinenziali “minimi”, ex art. 3, lett. e.6), d.P.R. 380/2001.
Valga, in contrario, la considerazione degli aspetti morfologici e dimensionali (questi ultimi non certo irrilevanti), di tali tettoie (soprattutto della prima), congiunta al riferimento alle seguenti massime, espressive di un orientamento, consolidato in giurisprudenza: “Deve ritenersi necessario il permesso di costruire per la realizzazione di tettoie o di altre strutture che siano, comunque, apposte a parti di preesistenti edifici, qualora le stesse siano prive del carattere di precarietà e abbiano, inoltre, dimensioni tali da comportare una visibile alterazione dell'edificio o alle parti dello stesso su cui vengono inserite” (TAR Campania–Napoli, Sez. III, 29/05/2018, n. 3545); “Una tettoia ancorata al suolo e di notevole dimensioni è idonea ad alterare lo stato dei luoghi in modo non transitorio; trattasi, quindi, di una nuova costruzione necessitante di titolo edilizio” (TAR Piemonte, Sez. II, 09/05/2018, n. 550); “La tettoia necessita di un idoneo titolo allorché esula dai minimi contenuti che può avere un piccolo riparo aperto da tre lati, sì che essa costituisce spazio edificabile a tutti gli effetti quando viene realizzato un vero e proprio ambiente fruibile in via continuativa” (TAR Liguria, Sez. I, 10/04/2018, n. 310); “Una tettoia avente carattere di stabilità e idonea ad una utilizzazione autonoma, oltre a non poter essere considerata una mera pertinenza, non può ricadere nell'ambito dell'attività edilizia libera, costituendo un'opera esterna per la cui realizzazione occorre un idoneo titolo edilizio. Alla medesima conclusione si può addivenire anche tenendo ferma la natura pertinenziale del manufatto, considerata l'idoneità di questo ad incidere sull'assetto edilizio preesistente” (TAR Lombardia–Milano, Sez. II, 11/01/2018, n. 40).
Laddove la possibilità di prescindere dal rilascio del massimo titolo edilizio è stata generalmente limitata, sempre in giurisprudenza, a casi di manufatti, che si differenziano nettamente da quelli in esame: “È illegittimo l'ordine di demolizione di una tettoia che per caratteristiche morfologiche di realizzazione e destinazione funzionale –struttura in ferro aperta sui lati, ricoperta da onduline, meramente strumentale all'opificio, di dimensioni adeguate ad assolvere le finalità produttive, senza incremento del carico urbanistico– è riconducibile alla nozione di pertinenza urbanistica, ordinariamente sottratta al regime del titolo edilizio concessorio” (Consiglio di Stato, Sez. VI , 13/12/2017, n. 5867); “In materia urbanistica può parlarsi di pertinenza solo quando si tratti di opere che non comportino un nuovo volume, come una tettoia o un porticato aperto da tre lati, nonché di opere che comportino un nuovo e modesto volume tecnico confermandosi con ciò, in definitiva, che devono essere tali da non alterare in modo significativo l'assetto del territorio o incidere sul carico urbanistico, caratteristiche queste la cui sussistenza deve essere peraltro dimostrata dall'interessato” (TAR Molise, Sez. I, 29/01/2016, n. 43); “Le opere che non alterano in modo significativo l'assetto del territorio o non incidono sul carico urbanistico in quanto comportano un nuovo e modesto volume tecnico, quali le tettoie o i porticati aperti da tre lati, poiché hanno natura pertinenziale, non sono idonee a sviluppare un volume” (TAR Abruzzo- Pescara, Sez. I, 01/07/2015, n. 277).
Le osservazioni, dianzi espresse, consentono, altresì, di respingere (limitatamente ai containers, posti all’esterno della parte dell’edificio, adibita ad officina meccanica e alle tettoie, poste all’esterno della parte dell’edificio, adibita a luogo di culto) anche la censura –sopra riportata sub VII)– secondo la quale tutte le opere contestate, non comportando alcun incremento di superficie e/o di volume, sarebbero scevre dalla necessità di munirsi di permesso di costruire, restando esclusa l’applicabilità del regime sanzionatorio, ex art. 31 d.P.R. 380/2001, trattandosi piuttosto di opere “libere, ai sensi dell’art. 6 del d.P.R. 380/2001, ovvero riconducibili –al più– al diverso regime sanzionatorio –meramente pecuniario– di cui al successivo art. 37, tipicamente previsto per gli interventi eseguiti in assenza o in difformità dalla s.c.i.a. e/o d.i.a.” (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 02.01.2019 n. 1 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: La Corte costituzionale amplia le possibilità di usufruire del congedo straordinario per assistenza al disabile, includendovi il figlio anche se non convivente.
La Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità) nella parte in cui consente al figlio del disabile grave di poter beneficiare del congedo (in mancanza degli altri parenti indicati dalla legge) solo a condizione che si tratti di figlio già convivente, consentendo, pertanto, che anche il figlio non convivente possa prendersi cura del genitore usufruendo del congedo straordinario, purché instauri la convivenza:
  
La Corte costituzionale amplia le possibilità di usufruire del congedo straordinario per assistenza al disabile, includendovi il figlio anche se non convivente;
  
Corte costituzionale, sentenza 07.12.2018 n. 232 (commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il procedimento volto ad attestare l’agibilità di un immobile non interferisce con l’esercizio del potere di repressione degli illeciti edilizi.
I due procedimenti hanno un differente oggetto: l’uno è finalizzato unicamente a verificare la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati, mentre l’altro è volto a sanzionare l’attività urbanistico edilizia, laddove non sia stata realizzata in rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici e alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi. Pertanto, il precedente rilascio del certificato di agibilità non è sintomo di contraddittorietà dell’irrogata sanzione demolitori.
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3.2. Asserisce altresì la parte ricorrente che il provvedimento demolitorio sarebbe illegittimo in quanto il Comune aveva già accertato l’agibilità dell’intervento edilizio realizzato, completo del cancello del quale oggi viene ordinata la demolizione.
Conseguentemente, essendo già stata valutata la conformità urbanistica dell’intervento, la successiva adozione dell’ordine di demolizione integrerebbe la fattispecie della contraddittorietà dell’azione amministrativa, figura sintomatica dell’eccesso di potere.
La censura non può trovare accoglimento.
Nessuna contraddizione sussiste infatti nell’adozione, da parte del Comune, di un’ordinanza di demolizione avente ad oggetto un immobile per il quale era già stata assentita l’agibilità.
La valutazione sfociante nel rilascio del certificato di agibilità ha infatti ad oggetto parametri differenti rispetto a quella posta in essere dalla p.a. in sede di emissione del provvedimento repressivo di un abuso edilizio. La prima, pertanto, non assorbe né tanto meno esclude la seconda.
Come sancito dalla giurisprudenza amministrativa, in termini condivisi dal Collegio, infatti: “Il procedimento volto ad attestare l’agibilità di un immobile non interferisce con l’esercizio del potere di repressione degli illeciti edilizi. I due procedimenti hanno un differente oggetto: l’uno è finalizzato unicamente a verificare la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati, mentre l’altro è volto a sanzionare l’attività urbanistico edilizia, laddove non sia stata realizzata in rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici e alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi. Pertanto, il precedente rilascio del certificato di agibilità non è sintomo di contraddittorietà dell’irrogata sanzione demolitoria” (TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 08.10.2015 n. 4717; cfr: TAR Valla d’Aosta, Aosta, Sez. I, 08.08.2015 n. 61).
Anche tale ulteriore censura deve dunque essere respinta in quanto infondata (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 19.12.2018 n. 1923 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAbusi edilizi, vale la delazione. Tar Lazio: sì all’utilizzo di fonti spurie.
Sì alla delazione contro gli abusi edilizi. Scatta la sanzione per il proprietario dell'immobile quando si scopre che ha installato manufatti senza autorizzazione. E ciò anche se a segnalare l'irregolarità è una lettera anonima arrivata ai vigili urbani. L'ha scritta un vicino infastidito o soltanto invidioso? Non importa. La denuncia proveniente dallo sconosciuto risulta utilizzabile: rappresenta soltanto un sollecito all'accertamento. La validità dell'accertamento è riconosciuta per analogia in base alle regole applicabili nel procedimento penale.
È quanto emerge dalla
sentenza 23.10.2018 n. 10268, pubblicata dalla Sez II-bis del TAR Lazio-Roma.
Giurisprudenza superata. Costa cara la gola profonda al proprietario del terreno: pagherà la sanzione di 1.668 euro notificata dal comune per le opere realizzate in assenza di Dia-Scia ex articolo 2, comma 60, della legge 662/1996; l'importo è pari al doppio dell'aumento del valore venale dell'immobile, determinato in 834 euro.
Risulta ancorata a un orientamento di giurisprudenza penale ormai superato la tesi del privato secondo cui la lettera anonima non potrebbe avviare il procedimento in base a un'applicazione analogica dell'articolo 333, comma terzo, cpp.
Attività informale. Il collegio aderisce all'indirizzo più recente secondo cui l'apporto dell'esposto di autore sconosciuto è limitato nella fase della pre-inchiesta, in cui gli investigatori cercano elementi utili per individuare la notizia di reato: in quel momento l'attività compiuta da pm e polizia giudiziaria resta informale e atipica e può attingere a fonti spurie ex articolo 330 cpp.
È vero, va escluso che la denuncia non firmata si possa porre a fondamento di intercettazioni telefoniche, perquisizioni e sequestri: si tratta infatti di atti tipici di indagine che presuppongono l'esistenza di indizi di colpevolezza. Ma gli elementi dell'esposto possono stimolare l'attività di iniziativa del pm e della polizia giudiziaria.
Altrettanto vale per i vigili urbani che hanno compiuto l'accertamento sulla base della «soffiata». Al privato non resta che pagare, anche le spese di lite, e guardarsi dai vicini
(articolo ItaliaOggi del 10.01.2019).

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