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AGGIORNAMENTO AL
15.01.2019 |
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IN EVIDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI: Convegno
gratuito dal titolo:
RIFLESSIONI SULLA CORTE DEI CONTI
E SULLE SUE FUNZIONI in occasione della presentazione del volume: La
nuova Corte dei Conti: responsabilità, pensioni, controlli
(Milano, mercoledì 23.01.2019 - Corte dei Conti, Sezione per la
Lombardia,
Via Marina 5, Milano). |
A.N.AC. |
APPALTI: Commissari
di gara esterni, rinvio al 15/4.
Rinvio di tre mesi, al 15.04.2019, dell'obbligo di nomina dei commissari di
gara esterni alla stazione appaltante per l'aggiudicazione dei contratti di
appalto pubblico.
Lo slittamento della scadenza del 15 gennaio è stato disposto dall'Autorità
nazionale anticorruzione mercoledì sera, con un
Comunicato del Presidente 09.01.2019 pubblicato sul
proprio sito.
La data del 15 gennaio era stata prevista in un Comunicato Anac del
18.07.2018 a valle delle linee guida n. 5 e della definizione dei requisiti
per l'iscrizione, tramite un apposto sistema informatico, sull'elenco tenuto
dalla stessa Anac e già attivo dal 10.09.2018. Nel comunicato firmato dal
presidente Raffaele Cantone l'Autorità rende noto che ad oggi «il numero
di iscritti nelle diverse sottosezioni dell'Albo ammonta a circa 2.100, di
cui solo la metà estraibili per commissioni esterne alle amministrazioni
aggiudicatrici».
Un numero basso, ma preoccupa che non tutte le professionalità risultino
adeguatamente coperte; infatti «numerose sottosezioni (circa il 30%)
risultano completamente prive di esperti iscritti, altre (circa il 40%) con
un numero di esperti molto ridotto (meno di 10)».
Anche in ragione di questi elementi e tenuto conto del previsto numero di
gare bandite annualmente che richiedono la nomina di commissari esterni (su
un totale di 120.000, qualche decina di migliaia saranno aggiudicate con
l'offerta economicamente più vantaggiosa), l'Autorità prende atto che «allo
stato, il numero degli esperti iscritti all'Albo non consente di soddisfare
le richieste stimate in relazione al numero di gare previste».
Ma il comunicato fa cenno anche ad una rilevante motivazione che suggerisce
il rinvio e cioè l'incerto quadro normativo (alla luce delle imminenti
modifiche al codice dei contratti che saranno veicolate sul decreto
semplificazioni) che quindi «non sembra consentire la possibilità di
nominare i commissari con modalità diverse da quelle descritte all'art. 77
per i casi di assenza e/o carenza di esperti».
Da qui la scelta di differire di tre mesi la scadenza «per evitare
ricadute sul mercato degli appalti», cioè un possibile blocco delle
attività delle stazioni appaltanti. Il comunicato chiude annunciando che «le
criticità evidenziate saranno oggetto di segnalazione al Governo e al
Parlamento da parte dell'Autorità».
A breve si vedrà se l'intero meccanismo, più volte avversato dalle
amministrazioni, reggerà sotto la spinta delle semplificazioni volute dal
governo, con tutte le evidenti ricadute in termini di trasparenza e buon
andamento dell'azione amministrativa (articolo ItaliaOggi dell'11.01.2019). |
APPALTI: Commissari
di gara, slitta l’Albo.
Obbligo rinviato al 15 aprile. Cantone: ha pesato l’incertezza normativa.
Slitta di tre mesi, al prossimo 15 aprile, l’obbligo di utilizzare esperti
indipendenti sorteggiati all’interno dell’albo gestito dall’Anac per
aggiudicare gli appalti pubblici, come previsto dal codice dei contratti in
vigore dal 2016. Codice che il Governo si appresta peraltro a riformare,
intervenendo sul decreto Semplificazioni all’esame del Senato.
Toppo pochi
gli esperti iscritti all’albo, aperto dal 10 settembre, per garantire la
funzionalità del sistema senza rischiare pesanti contraccolpi su un mercato
degli appalti che già sconta gli effetti di un crisi pluriennale,
soprattutto nelle costruzioni. «Ci aspettavamo di dover far fronte a
un’alluvione di richieste -commenta senza nascondere la sorpresa il
presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone- ma evidentemente ha pesato
di più l’incertezza legata al fatto che molte novità possano venire messe in
discussione».
Di certo l’alluvione non c’è stata. E ieri l’Autorità (Comunicato
del Presidente 09.01.2019) ha dovuto prendere
atto che non era il caso di far partire l’albo senza la garanzia di poter
mettere a disposizione delle stazioni appaltanti un numero di commissari
sufficiente a far fronte alle gare.
Al momento nell’albo risultano 2.179
esperti iscritti. Di questi, inoltre, 1.040 sono dipendenti di Pa che
intendono partecipare solo a commissioni interne, dunque non disponibili a
ottenere incarichi in qualità di “indipendenti”.
Per Cantone ad aver ridotto
l’appeal dell’albo «su cui avevamo registrato un forte interesse
all’indomani del nuovo codice» è stata proprio l’incertezza sul mantenimento
dell’attuale assetto normativo. Per iscriversi all’albo è necessario versare
una tassa annuale di 168 euro, oltre a stipulare una copertura assicurativa.
Anche se non si tratta di cifre particolarmente onerose, di fronte alla
percezione del rischio di un passo indietro normativo, questo fattore può
aver esercitato il suo peso.
Oltre alla penuria di iscrizioni, sulla scelta di far slittare l’avvio
dell’albo al 15 aprile ha giocato anche il fatto che allo stato le norme non
consentono alle Pa di «nominare commissari con modalità diverse» in caso di
«carenza di esperti». Su questo punto specifico, l’Anac, invierà una
segnalazione a Governo e Parlamento chiedendo di intervenire sul codice
permettendo, in questo caso, alle Pa di andare avanti con commissari
interni. «Mantenendo però un minimo di trasparenza», conclude l’ex
magistrato
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.01.2019). |
APPALTI: Anac:
vicinanza al cantiere irrilevante per l'assegnazione di un appalto.
È illegittimo valutare in sede di offerta la presenza di dipendenti «a
chilometro zero», della vicinanza al cantiere e dell'anzianità di servizio
presso la stessa azienda.
È quanto afferma l'Autorità nazionale anticorruzione con la
delibera
12.12.2018 n. 1142 in una
fattispecie riguardante un appalto da 2,5 milioni di euro, bandito dall'Ater
di Vicenza per due nuovi fabbricati residenziali con 18 alloggi a Schio.
Nel disciplinare di gara alcuni sub criteri del criterio generale «Risorse
umane», avevano ad oggetto: il numero dei dipendenti (maestranze) con
anzianità professionale significativa; il numero di dipendenti in possesso
di diploma/laurea; la vicinanza della manodopera; la professionalità del
referente tecnico del concorrente.
Inoltre era stato inserito anche il
criterio della vicinanza (della sede operativa) al sito del cantiere
elemento tale da conferire un punteggio aggiuntivo in caso di subappalto o
«prestazioni affidate a terzi non considerate subappalto».
La vicenda esaminata dall'Anac attiene dell'art. 95, comma 6, lett. e, che
ammette la previsione tra i criteri di valutazione anche dei seguenti
elementi: «l'organizzazione, le qualifiche e l'esperienza del personale
effettivamente utilizzato», nel presupposto che per determinate categorie di
prestazioni, le caratteristiche del personale impiegato possono incidere
sulla qualità dell'offerta.
Anche leggendo le linee guida Anac n. 2 si
evince che la valutazione di profili soggettivi in fase di offerta risulta
corretta: a) se aspetti dell'attività dell'impresa possano effettivamente
«illuminare» la qualità dell'offerta e b) a condizione che lo specifico
punteggio assegnato non incida in maniera rilevante sulla determinazione del
punteggio complessivo.
Premessi questi «paletti», l'Anac ha bocciato
l'individuazione dei citati criteri, in primo luogo perché «sotto il profilo
formativo ed esperienziale, non risulta in alcun modo dimostrato che la
prestazione resa da un componente delle maestranze impiegate nel cantiere
possa rivelarsi più efficiente ed efficace, e dunque migliorativa sotto il
profilo qualitativo, qualora il dipendente di cui trattasi sia diplomato, o
addirittura laureato, ed abbia un'anzianità professionale particolarmente
elevata, svolta sempre presso l'operatore economico che presenta l'offerta».
In secondo luogo perché rivestono «contenuto contrario ai principi
concorrenziali» anche i criteri relativi all'attribuzione do un ulteriore
punteggio agli operatori economici che siano in grado di dimostrare
l'impiego di personale (maestranze e referente tecnico) proveniente dal
territorio di riferimento, nonché quello della vicinanza (della sede
operativa) al sito del cantiere.
Per l'Anac, è «di assoluta evidenza come i criteri in questione, non potendo
essere ragionevolmente giustificati in nome di un'effettiva incidenza sulla
prestazione richiesta -essendo evidentemente ben possibile che anche
operatori aventi dipendenti e organizzazione stabile al di fuori della
distanza richiamata possiedano i requisiti tecnico-organizzativi richiesti
per assicurare un'efficiente esecuzione dei lavori a farsi- finiscano per
determinare un vantaggio del tutto svincolato dalle caratteristiche
oggettive dell'offerta, in violazione dei principi che reggono il mercato
concorrenziale»
(articolo ItaliaOggi del 10.01.2019). |
APPALTI: Regolamento
per l’esercizio della funzione consultiva svolta dall’Autorità nazionale
anticorruzione ai sensi della Legge 06.11.2012, n. 190 e dei relativi
decreti attuativi e ai sensi del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, al
di fuori dei casi di cui all’art. 211 del decreto stesso
(regolamento
07.12.2018 - link a
www.anticorruzione.it). |
LAVORI
PUBBLICI: Gare, doppia certificazione. Ambientale
insieme con l'attestato soa.
È legittimo che la stazione appaltante chieda ai concorrenti a una gara
d'appalto di lavori –come è sua facoltà– il possesso di una certificazione
ambientale, in aggiunta all'attestato Soa.
Lo precisa l'Anac
col
Parere di Precontenzioso 05.12.2018 n. 1129 - rif. PREC 219/18/L che segue la richiesta di una
impresa che, viceversa, aveva sostenuto la sufficienza dell'attestato Soa
per partecipare alle gare di appalto.
L'Anac legittima la richiesta della certificazione Emas (reg. 1221/2009) o
di certificazione Iso 14001 come requisito di ammissione alla gara, in
relazione al fatto che l'articolo 71 del codice dei contratti pubblici
prevede che i bandi di gara contengano i criteri ambientali minimi
(cosiddetti Cam) di cui all'articolo 34 del codice stesso.
Quest'ultima
norma, a sua volta stabilisce al comma 1 che l'obbligo di inserimento nella
documentazione di gara riguarda almeno le specifiche tecniche e le clausole
contrattuali contenute nei Cam. Per quanto concerne i criteri di selezione
dei concorrenti, nello specifico, l'allegato 2 del dm 11.01.2017 (ora
sostituito dal dm 11.10.2017 che peraltro non innova su questo profilo)
prevede, al paragrafo 2.1, che l'appaltatore dimostri la propria capacità di
applicare misure di gestione ambientale durante l'esecuzione del contratto
e, quale modalità di verifica, che l'offerente sia in possesso di una
registrazione Emas o certificazione Iso 14001 o sistemi equivalenti.
L'Anac richiama quanto specificato nel decreto del ministero dell'ambiente
per rilevare che tali criteri non sono obbligatori ma, al pari dei criteri
premianti suggeriti per la valutazione delle offerte, rappresentano una
chiara indicazione (rimessa alla valutazione discrezionale della stazione
appaltante) al fine del conseguimento degli obiettivi ambientali del Piano
d'azione per la sostenibilità ambientale dei consumi della pubblica
amministrazione (Pan Gpp), dal quale i Cam prendono le mosse.
Dal momento
che nel decreto del ministero dell'ambiente era stato precisato che, seppure
non obbligatori, i Cam «soprattutto in caso di gare per lavori, sono
fortemente consigliati per i risvolti positivi che può avere la gestione
ambientale dell'impresa o la corretta gestione del personale», l'Anac
chiarisce che «in questo senso, la certificazione Emas non si pone in
contrasto con il sistema unico di qualificazione ma lo integra». Da ciò
deriva che l'attestazione Soa, nell'ambito degli interventi per i quali
possono essere richiesti i Cam, non costituisce condizione sufficiente per
partecipare alle gare di appalto di lavori di importo superiore ai 150 mila
euro.
La certificazione, però, può anche essere oggetto di avvalimento, così come
aveva già affermato la giurisprudenza nella vigenza del codice del 2006 e
così come confermato con il nuovo codice, laddove uno specifico criterio di
delega (art. 1, comma 1, lett. zz) del dlgs 11/2016 faceva riferimento anche
al fatto che l'oggetto di avvalimento potesse essere costituito da
«certificazioni di qualità o certificati attestanti il possesso di adeguata
organizzazione imprenditoriale ai fini della partecipazione alla gara»
(articolo ItaliaOggi del 21.12.2018). |
LAVORI
PUBBLICI: Lavori di manutenzione,
niente affidamenti diretti. Delibera Anac sull’uso illegittimo della somma urgenza.
Illegittimo l'uso improprio della somma urgenza per affidare in via diretta
lavori alla stessa impresa; per interventi di mera manutenzione si deve
ricorrere alla usuali procedure ad evidenza pubblica.
Lo ha affermato l'Anac
con la
delibera
21.11.2018 n. 1079 relativamente ad alcune procedure di
affidamento di lavori di cosiddetta somma urgenza ex art. 176, dpr 207/2010
espletate dall'Azienda sanitaria locale Napoli 1 centro nel 2016.
Nella sostanza, era stato segnalato che una impresa, pur non essendo in
possesso dell'attestato di qualificazione per l'esecuzione di lavori
pubblici, fosse risultata ugualmente affidataria di tre interventi al di
sopra della soglia consentita dei 150 mila euro e, inoltre, che quattro
procedure fossero state assegnate per affidamento diretto utilizzando il
procedimento previsto dall'art. 176 del dpr n. 207 del 2010 e indicando
circostanze straordinarie ed eccezionali di somma urgenza.
Nel complesso si
trattava di sette affidamenti per oltre un milione e mezzo di euro a rischio
illegittimità, affidati quando la normativa di riferimento vigente all'epoca
degli affidamenti sopra indicati era costituita dal dlgs 163/2006,
unitamente al dpr. 207/2010.
L'Anac, a seguito delle segnalazioni, procede quindi allo svolgimento di
indagini per ognuno dei singoli affidamenti rilevando un utilizzo eccessivo
della somma urgenza strumentale all'affidamento alla stessa ditta di lavori
senza alcun confronto concorrenziale, pur trattandosi di interventi banali
di manutenzione di immobili.
La delibera ha chiarito che «l'intervento di estrema urgenza deve, per sua
natura, riguardare l'intervento di messa in sicurezza del bene immobile
oggetto di intervento al fine di evitare rischi e deve, dunque, consistere
nell'eliminazione dell'imminente pregiudizio, e non può, invece, coinvolgere
l'esecuzione di interventi ordinariamente volti a eliminare il degrado dello
stesso che, in quanto implicanti interventi di mera manutenzione, non
potranno che essere affidati con le usuali procedure ad evidenza pubblica».
Risulta, in particolare, illegittimo far ricorso alle procedure di somma
urgenza «nel caso in cui l'urgenza stessa sia sopravvenuta a causa del
comportamento colpevole dell'amministrazione, la quale, pur potendo
prevedere l'evento, non ne abbia tuttavia tenuto conto al fine di valutare i
tempi tecnici necessari alla realizzazione del proprio intervento».
Inoltre, occorre anche guardare alla natura degli interventi perché
l'intervento di estrema urgenza deve, «per sua natura, riguardare
l'intervento di messa in sicurezza del bene immobile oggetto di intervento
al fine di evitare rischi e deve, dunque, consistere nell'eliminazione
dell'imminente pregiudizio, e non può, invece, coinvolgere l'esecuzione di
interventi ordinariamente volti ad eliminare il degrado dello stesso che, in
quanto implicanti interventi di mera manutenzione, non potranno che essere
affidati con le usuali procedure ad evidenza pubblica».
Da qui la
trasmissione degli atti alla procura e alla corte dei conti per
l'accertamento delle responsabilità
(articolo ItaliaOggi del 21.12.2018). |
QUESITI & PARERI |
ENTI LOCALI:
Compenso revisori dei conti.
Domanda
Il mio organo di revisione sostiene che qualche settimana ha letto sulla
stampa di un’imminente modifica della disciplina del compenso spettante ai
revisori dei conti e preme per un intervento di adeguamento dello stesso.
Sapete dirmi se è stata inserita in qualche testo di legge e come devo
comportarmi per procedere?
Risposta
Il quesito del lettore fa riferimento al decreto del Ministro dell’Interno,
di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze del 21.12.2018 che
fissa i nuovi limiti massimi del compenso base annuo lordo spettante agli
organi di revisione economico-finanziaria degli enti locali.
La sua pubblicazione, è stata fatta sulla Gazzetta Ufficiale n. 3 dello
scorso 4 gennaio (il testo integrale del provvedimento è reperibile
cliccando qui).
Il decreto sostituisce l’analogo provvedimento in vigore a tutto il
31.12.2018 di cui al precedente decreto ministeriale del 20.05.2015. Dopo
oltre tredici anni, pertanto, il Legislatore è intervenuto modificando i
limiti massimi del compenso base spettante ai revisori dei conti, secondo
quando previsto dall’art. 241 del TUEL. Quest’ultimo infatti, al comma 1
prevede che: “Con decreto del Ministro dell’interno, di concerto con il
Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica vengono
fissati i limiti massimi del compenso base spettante ai revisori, da
aggiornarsi triennalmente. Il compenso base è determinato in relazione alla
classe demografica ed alle spese di funzionamento e di investimento
dell’ente locale.”.
I nuovi limiti massimi previsti trovano applicazione a partire dal
01.01.2019 e, precisa l’articolo 1, comma 3 del decreto, non hanno effetto
retroattivo. Il successivo articolo 2 conferma che i limiti massimi del
compenso sono da intendersi al netto di IVA (dovuta nel caso in cui il
revisore sia soggetto passivo dell’imposta) e dei contributi previdenziali
posti a carico dell’ente da specifiche disposizioni di legge.
Sono confermate le tipologie delle eventuali maggiorazioni già previste dal
previgente decreto del 20.05.2005 e dal suddetto art. 241 del TUEL, da
riconoscersi secondo i parametri delle nuove tabelle B e C allegate al
decreto. Esse sono rapportate rispettivamente alla spesa corrente e alla
spesa per investimenti annuali pro-capite sostenute dall’ente, come
desumibili dall’ultimo bilancio preventivo approvato. Le maggiorazioni sono
tra loro cumulabili. L’articolo 3, infine, conferma l’attuale disciplina del
rimborso delle spese di viaggio e di quelle per il vitto e l’alloggio
effettivamente sostenute dai revisori dei conti per l’esercizio delle
proprie funzioni.
È bene precisare che gli importi previsti dal decreto, differenziati per
fascia demografica di appartenenza del singolo ente, rappresentano dei
limiti massimi. L’eventuale adeguamento del compenso dovrà essere deliberato
dal consiglio comunale dell’ente e potrà attestarsi su importi anche
inferiori ai suddetti limiti, che restano quali importi massimi
invalicabili.
Ad esempio: per un comune di 7500 abitanti il limite massimo del compenso
annuo base è di € 10.150,00, rientrando l’ente nella fascia e) dei comuni da
5.000 a 9.999 abitanti, di cui alla tabella A allegata al decreto. Il
consiglio comunale potrà pertanto deliberare, qualora intenda avvalersi
della facoltà di aumento, qualunque importo quale compenso annuo base per il
proprio revisore unico dei conti, purché non superiore al suddetto importo.
Resta inteso che l’adeguamento è facoltativo, non essendovi alcun obbligo di
incrementare il compenso attualmente riconosciuto al proprio organo di
revisione economico-finanziaria. E’ qui solo il caso di ricordare che la
riduzione del compenso a suo tempo prevista dall’art. 6, comma 3, del
decreto legge 31.05.2010, n. 78 non trova più applicazione a partire dal
01.01.2018. Da tale data, pertanto, il compenso base dell’organo di
revisione è tornato ad essere pari a quello riconosciuto prima dell’entrata
in vigore del suddetto decreto legge.
Infine, si evidenzia come il decreto motivi l’incremento del compenso base
con l’aumento esponenziale delle funzioni dei revisori dei conti intervenute
nell’ultimo decennio alla luce dell’evoluzione della legislazione in materia
di finanza pubblica. Ciò ha imposto, precisa la premessa del decreto,
l’adeguamento dei compensi base, anche per garantire il rispetto dei
principi sull’equo compenso di cui all’art. 13-bis della L. 247 del
31.12.2012 (14.01.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Minoranze da tutelare. No
all’ostruzionismo della maggioranza. Illegittime le modifiche regolamentari
tese a far mancare il numero legale.
Qual è il quorum necessario affinché possano
considerarsi valide le sedute consiliari di seconda convocazione?
L'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 demanda al
regolamento comunale, «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto»,
la determinazione del «numero dei consiglieri necessario per la validità
delle sedute», con il limite che tale numero non può, in ogni caso,
scendere sotto la soglia del «terzo dei consiglieri assegnati per legge
all'ente, senza computare a tale fine il sindaco e il presidente della
provincia».
Nella fattispecie in esame, il consiglio comunale ha deliberato la modifica
della disposizione regolamentare sul funzionamento dell'organo consiliare
recante la disciplina relativa alla seduta di seconda convocazione
prevedendo, ai fini della validità della seduta stessa, la presenza di «almeno
quattro consiglieri». Poiché il consiglio comunale in questione è
composto solo da tre consiglieri di minoranza, emergerebbe la difficoltà,
per questi ultimi, di poter esercitare il proprio mandato elettivo a causa
del ripetersi delle assenze della maggioranza e alla conseguente mancanza
del numero legale previsto per la validità delle sedute del consiglio.
In merito, il Tar Sicilia, Catania, sez. I 18/07/2006, n. 1181,
pronunciandosi in tema di c.d. «ostruzionismo di maggioranza», ha
evidenziato che il comportamento preordinato al conseguimento della mancanza
del numero legale delle assemblee rappresentative costituisce una
inammissibile prevaricazione della maggioranza nei confronti delle
minoranze, alle quali viene impedito di esercitare il proprio ruolo di
opposizione e quindi l'esercizio di un diritto politico costituzionalmente
garantito. Secondo il Tar citato, l'art. 49 della Costituzione preclude ai
partiti politici e ai loro rappresentanti «qualunque opera non solo di
aperto sabotaggio ma anche di subdola, lenta e surrettizia erosione delle
istituzioni democratiche».
La modifica regolamentare proposta, pertanto, unitamente alla lamentata
assenza sistematica dei componenti di maggioranza potrebbero configurare un
inammissibile svilimento dei diritti e delle prerogative dei consiglieri di
minoranza. Premesso che il vigente ordinamento non prevede poteri di
controllo di legittimità sugli atti degli enti locali in capo al ministero
dell'interno, l'ente locale in questione dovrebbe valutare l'opportunità di
rivedere la propria normativa regolamentare (articolo ItaliaOggi dell'11.01.2019). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Cumulo congedo biennale e permessi l. 104/1992.
Domanda
Un dipendente è stato collocato in congedo straordinario ex art. 42, comma
5, del d.lgs. 151/2001 per il periodo dal 1 gennaio al 28 gennaio.
Lo stesso ha fatto pervenire all’ente una richiesta di permessi ex art. 33
della l. 104/1992 per i giorni 29, 30 e 31 gennaio. È possibile accogliere
la summenzionata richiesta?
Risposta
Occorre in primis rilevare che il d.lgs. 119/2011 ha parzialmente
riordinato la normativa in materia del congedo (parentale e straordinario) e
di permessi per l’assistenza a persone con disabilità grave modificando
l’articolo 42, comma 5, del d.lgs. 151/2001.
Infatti, fino all’entrata in vigore del d.lgs. 119/2011, permessi e congedo
straordinario erano considerati due benefici aventi la medesima finalità,
ragion per cui non era prevista la possibilità di contemporanea fruizione (cumulabilità
invece ammessa esplicitamente per i permessi l. 104/1992 e congedo parentale
ordinario o congedo per la malattia del figlio).
Con l’entrata in vigore del citato d.lgs. 119/2011 il cumulo è invece
possibile.
Possibilità che è stata recepita dal Dipartimento della Funzione Pubblica
con
circolare n. 1 del 03/02/2012.
Si segnala che di recente l’INPS è ritornata sull’argomento con il
messaggio n. 3114 del 07.08.2018, nella quale al punto 4 ha avuto
modo di precisare che “è possibile cumulare nello stesso mese, purché in
giornate diversi, i periodi di congedo straordinario ex art. 42, comma 5,
del d.lgs. n. 151/2001 con i permessi ex art. 33 della legge n. 104/1992 ed
ex art. 33, comma 1, del d.lgs. n. 151/2001 (3 giorni di permesso mensili,
prolungamento del congedo parentale e ore di riposo alternative al
prolungamento del congedo parentale). Si precisa, al riguardo, che i periodi
di congedo straordinario possono essere cumulati con i permessi previsti
dall’articolo 33 della legge n. 104/1992 senza necessità di ripresa
dell’attività lavorativa tra la fruizione delle due tipologie di benefici.
Quanto sopra può accadere anche a capienza di mesi interi e
indipendentemente dalla durata del congedo straordinario” (10.01.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
APPALTI:
Pubblicazione bandi concessione sui quotidiani.
Domanda
Il comune deve affidare in concessione un servizio per l’ammodernamento
degli impianti di pubblica illuminazione e successiva gestione, quali sono
gli obblighi di pubblicazione di un bando di gara considerato che il decreto
del MIT 02.12.2016, con riferimento alla pubblicazione sui quotidiani
disciplina solo quello relativo agli avvisi e bandi di concessione di
importo compreso tra gli euro 500.000 e la soglia comunitaria?
Risposta
La procedura di gara richiamata nel quesito segue la pubblicità legale come
prevista dagli artt. 72 e 73 del d.lgs. 50/2016 e del decreto MIT n.
02.12.2016 rubricato “Definizione degli indirizzi generali di pubblicazione
degli avvisi e dei bandi di gara di cui agli artt. 70, 71 e 98 del d.lgs.
50/2016.
Nel caso di concessione di servizi di importo compreso tra i 500.000 euro e
la soglia comunitaria, l’art. 3 del decreto del MIT alla lettera a) prevede
la pubblicazione per estratto su almeno uno dei principali quotidiani a
diffusione nazionale e su almeno uno a maggiore diffusione locale nel luogo
ove si eseguono i contratti, mentre nulla è precisato nella successiva
lettera b), dove la pubblicazione sui quotidiani è limitata “agli avvisi
e bandi relativi ad appalti pubblici di lavori, servizi e forniture di
importo superiore alle soglie di cui all’art. 35 del codice”.
Si ritiene tuttavia che tale obbligo possa comunque derivare dall’art. 164,
co. 2, del d.lgs. 50/2016 che estende alle procedure di aggiudicazione dei
contratti di concessione di lavori o di servizi, in quanto compatibili, le
disposizioni contenute nella parte I e nella parte II del codice,
relativamente alle modalità di pubblicazione e redazione dei bandi degli
avvisi.
Pertanto, seppure non espressamente richiamato nella sopra citata lettera b)
del decreto del MIT, si ritiene che nel caso di concessione sopra soglia
comunitaria i bandi e gli avvisi di gara debbano essere pubblicati, oltre
che sulla GUUE, sulla piattaforma ANAC (non ancora operativa), sul profilo
del committente (Amministrazione trasparente – sezione livello 1: Bandi di
gara e contratti – sotto-sezione 2: Atti delle amministrazioni
aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori distintamente per ogni procedura –
Avvisi e bandi), sulla piattaforma del Ministero delle Infrastrutture (anche
tramite i sistemi regionali) per estratto, dopo 12 giorni dall’invio alla
GUUE, anche su due dei principali quotidiani a diffusione nazionale e su 2 a
maggiore diffusione locale nel luogo ove si eseguono i contratti. Per area
interessata si intende il territorio della provincia (09.01.2019 -
tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Codice di
comportamento.
Domanda
Il nostro comune ha approvato il codice di comportamento di ente a gennaio
2014, secondo le indicazioni del d.p.r. 62/2013 e la delibera ANAC n. 75 del
24.10.2013. Dobbiamo procedere all’approvazione di un nuovo codice?
Risposta
Tra le numerose misure previste dalla legge Severino (legge 06.11.2012, n.
190) in materia di prevenzione della corruzione, l’adozione del Codice di
comportamento di amministrazione, rappresenta una delle misure più
significative e pregnanti, dal momento che riguarda lo strumento con cui
vengono regolate le condotte dei dirigenti e dei dipendenti, finalizzandole
verso una migliore attenzione per l’interesse pubblico e l’imparzialità
della pubblica amministrazione, prevista dall’art. 97 della costituzione.
La materia risulta, ad oggi, disciplinata dal nuovo articolo 54 del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165, rubricato, appunto, “Codice di
comportamento”.
La vigente normativa prevede, infatti:
a) un codice nazionale, definito dal Governo e approvato con
decreto del Presidente della Repubblica (DPR 16.04.2013, n. 62), la cui
violazione è “fonte di responsabilità disciplinare”;
b) un codice per ogni amministrazione pubblica, definito con “procedura
aperta alla partecipazione” e con parere obbligatorio dell’OIV o NdV, la
cui violazione è anch’essa fonte di responsabilità disciplinare.
Entrambi i codici devono essere pubblicati, nel sito web istituzionale,
nella sezione Amministrazione trasparente> Disposizioni generali> Atti
generali.
È bene, inoltre, ricordare (art. 2, DPR 62/2013) che i codici di
comportamento, per quanto compatibili, si applicano anche:
– a tutti i collaboratori e consulenti con qualsiasi tipologia di
contratto o incarico e a qualsiasi titolo;
– ai titolari di organi e di incarichi negli uffici di diretta
collaborazione delle autorità politiche;
– ai collaboratori, a qualsiasi titolo, di imprese fornitrici di
beni o servizi e che realizzano opere in favore dell’amministrazione.
Sulla pratica e concreta applicazione delle norme contenute nei due codici
(nazionale e di ente) devono vigilare i dirigenti o le posizioni
organizzative, negli enti senza la dirigenza, nonché le strutture di
controllo interno (art. 147, TUEL 267/2000) e gli UPD (Uffici Provvedimenti
Disciplinari, art. 55-bis, d.lgs. 165/2001).
Chiarito ciò, rispondendo al quesito, è possibile sostenere che, al momento
attuale, nessuna norma di legge prevede l’obbligo di procedere alla
revisione del codice di comportamento approvato nell’ente, qualche anno fa.
Possiamo aggiungere, però, che la materia è oggetto di specifico studio da
parte dell’ANAC, che sta svolgendo un doveroso approfondimento sui punti più
rilevanti della disciplina, partendo dalla constatazione della scarsa
innovatività dei codici di amministrazione “di prima generazione”,
approvati – come prevedeva la norma – entro sei mesi dall’emanazione del DPR
62/2013.
Secondo l’ANAC, infatti, nella stragrande maggioranza dei casi, il codice di
ente si è limitato a riprodurre le previsioni del codice nazionale,
omettendo di individuare quegli obiettivi di lunga durata, finalizzati alla
riduzione del rischio corruttivo. Per tale ragione l’ANAC (delibera n. 1074
del 21/11/2018, Parte Generale, Paragrafo 8 “I codici di comportamento”),
ha previsto di emanare delle apposite Linee guida sull’adozione dei nuovi
codici di comportamento di amministrazione (definiti “di seconda
generazione”), preannunciando che le suddette Linee guida saranno
emanate nei primi mesi dell’anno 2019.
Alla luce del manifestato intendimento dell’ANAC, è consigliabile procedere
all’approvazione del Piano triennale Anticorruzione e Trasparenza 2019/2012,
secondo la normale scadenza di legge del 31.01.2019, riservandosi di “mettere
mano” al nuovo codice di comportamento di amministrazione –che dovrà
essere approvato sempre previo svolgimento della procedura aperta– appena
saranno applicabili le Linee guida dell’ANAC sulla specifica materia (08.01.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
APPALTI:
FPV e
Indagine di mercato.
Domanda
Sono il ragioniere di un piccolo comune e sto iniziando a chiudere i conti
del 2018 in vista del riaccertamento ordinario. Il mio tecnico pretende di
conservare a residuo passivo una spesa per la quale a dicembre ha fatto una
semplice un’indagine di mercato, senza alcuna aggiudicazione. Io non ne sono
affatto convinto. Mi potete aiutare?
Risposta
La corretta attivazione del Fondo pluriennale vincolato è un tema che sta
molto a cuore ai responsabili dei servizi finanziari ed è fondamentale ai
fini del corretto riaccertamento ordinario dei residui al 31 dicembre, quale
atto propedeutico alla stesura del rendiconto di esercizio. Come noto la sua
definizione è contenuta al punto 5.4 del principio contabile applicato
concernente la contabilità finanziaria, allegato n. 4/2 al d.lgs. 118/2011:
il FPV è un saldo finanziario, costituito da risorse già accertate destinate
al finanziamento di obbligazioni passive dell’ente già impegnate, ma
esigibili in esercizi successivi a quello in cui è accertata l’entrata.
Esso è formato solo da entrate correnti vincolate e da entrate destinate al
finanziamento di investimenti, accertate e imputate agli esercizi precedenti
a quelli di imputazione delle relative spese. La presenza di un’obbligazione
passiva verso terzi è condizione necessaria per la sua attivazione, tranne
–ad oggi– che in due ipotesi, puntualmente elencate dal principio:
a) per spese di investimento per lavori pubblici, per i quali il
Fondo si può attivare anche senza aggiudicazione (e conseguente impegno), a
condizione che l’ente abbia impegnato una parte del quadro tecnico-economico
diversa dalle spese di progettazione;
b) per spese per le quali l’ente abbia avviato almeno la procedura
di selezione del contraente ai sensi dell’articolo 53, comma 2, del decreto
legislativo n. 163 del 2006, unitamente alle voci di spesa contenute nel
quadro economico dell’opera, ancorché non impegnate.
Su quest’ultima fattispecie è intervenuta di recente la Corte dei conti,
sezione regionale di controllo per il Veneto, con propria
deliberazione n. 439/2018/PAR, depositata il 14/11/2018, in
risposta a specifico quesito formulato dal comune di Padova.
La Corte, dopo aver premesso che sulla questione vi sarebbero opinioni
contrastanti, in quanto nel principio non si fa menzione della procedura
dell’indagine di mercato di cui all’art. 36 dell’attuale codice dei
contratti, ha precisato che il riferimento normativo ivi contenuto (l’art.53,
comma 2 del previgente codice) debba intendersi in senso dinamico e non in
senso statico. Il vecchio codice (di cui al d.lgs. 163/2006) è infatti stato
abrogato dal vigente codice, approvato con d.lgs. 50/2016, poi modificato
con d.lgs. 56/2017. L’indagine di mercato, al pari della pubblicazione del
bando e l’invito a presentare le offerte, segna l’avvio della procedura
selettiva.
Il rinvio alla previgente norma operato dal principio ha il solo scopo di
richiamare in senso dinamico la normativa in tema di procedure di
affidamento, che oggi, a distanza di alcuni anni dall’entrata in vigore del
principio stesso, è stata sostituita dal nuovo codice. L’eccezione prevista
dal principio si deve applicare anche ai nuovi e diversi istituti per
l’avvio della procedura volta ad individuare il soggetto affidatario, ivi
previsti. Fra queste rientra a pieno titolo l’indagine di mercato di cui
all’art. 36, comma 2 del d.lgs. 50/2016, analogamente alla pubblicazione del
bando di gara e all’invito a presentare le offerte, già previste e
disciplinate dal vecchio codice degli appalti.
Ecco perché essa, conclude la Corte, l’avvio dell’indagine di mercato è
condizione sufficiente per assicurare, in mancanza dell’impegno di spesa (e,
dunque, di un’obbligazione giuridicamente perfezionata) il necessario
ancoraggio giuridico della copertura delle spese per lavori pubblici
mediante il Fondo Pluriennale Vincolato, e possa ritenersi sufficiente a
consentire il trasferimento al Fondo medesimo del finanziamento oggetto di “prenotazione”.
Infine si evidenzia come la recente legge di bilancio 2019 sia intervenuta
in maniera decisa sulla disciplina delle spese di investimento degli enti
locali, modificando l’art. 183 del TUEL. Essa dispone infatti che le
economie di spesa relative a lavori pubblici concorrano alla determinazione
del Fondo secondo le modalità da definirsi con apposito decreto ministeriale
da adottarsi entro il 30 aprile prossimo che aggiorni ed adegui, sentita
Arconet, il principio contabile allegato n. 4/2 (07.01.2019 - tratto
da e link a www.publika.it). |
PATRIMONIO:
Applicazione riduzione canone locazioni passive, ex art. 3, comma 4, D.L. n.
95/2012, a contratti tra pubbliche amministrazioni.
Secondo la giurisprudenza contabile, l’art. 3, c. 4,
D.L. n. 95/2012, come da ultimo novellato dal D.L. n. 66/2014, che
stabilisce dall’01.01.2014 la riduzione del 15% dei canoni di locazione
passiva stipulati dalle Amministrazioni centrali, si applica anche
nell’ipotesi di locazioni stipulate con altre amministrazioni pubbliche.
Con particolare riferimento ad immobili comunali locati ad uso stazione
dell’Arma dei carabinieri, per la Corte dei conti Friuli Venezia Giulia,
sez. reg. contr., deliberazione n. 40/2016, la riduzione ex lege dei canoni
di locazione per gli immobili pubblici locati alle Forze dell’Ordine
rappresenta una forma di sostegno consentita dall’ordinamento, assimilabile
al contributo diretto dei Comuni per il pagamento dei canoni di locazione di
caserme ospitate in immobili privati, possibile ai sensi dell’art. 1, c.
500, L. n. 208/2015.
Il Comune riferisce di un proprio immobile dato in locazione nel 2007 ad una
pubblica amministrazione centrale ad uso “stazione dell’Arma dei
Carabinieri” e che il relativo canone, “soggetto ad aggiornamento
annuale ai sensi dell’art. 1, comma 9-sexies della L. n. 118/1985”
[1] secondo espressa
previsione pattizia, è stato unilateralmente ridotto del 15% dalla p.a.
locataria ai sensi dell’art. 3, c. 4, D.L. n. 95/2012 [2].
Il Comune chiede se sia legittima la suddetta riduzione avuto riguardo in
particolare alla deliberazione 15.12.2015, n. 157, della Corte dei conti,
sez. reg. contr. Emilia Romagna.
L’art. 3, c. 4, D.L. n. 95/2012, come da ultimo novellato dall’art. 24, c.
4, lett. a), D.L. n. 66/2014, ai fini del contenimento della spesa pubblica,
con riferimento ai contratti di locazione passiva aventi ad oggetto immobili
a uso istituzionale stipulati dalle amministrazioni centrali, prevede la
riduzione del 15% dei canoni di locazione, a decorrere dall’01.07.2014
[3]. La riduzione del
canone di locazione si inserisce automaticamente nei contratti in corso ai
sensi dell’art. 1339 c.c., anche in deroga alle eventuali clausole difformi
apposte dalle parti [4].
Un tanto richiamato sul piano normativo, si concentra ora l’attenzione sul
quadro giurisprudenziale nella materia di interesse, osservato
necessariamente nella sua evoluzione anche alla luce della normativa
introdotta dopo la deliberazione della Corte dei conti Emilia Romagna
richiamata dall’Ente istante.
Con riferimento a quest’ultima, si esprimono, comunque, alcune
considerazioni in via del tutto collaborativa e lungi da qualsiasi
valutazione in ordine alla lettura della stessa data dalle parti del
contratto di locazione in essere.
La richiesta di parere su cui si pronuncia la Corte dei conti emiliana
concerne l’applicazione dell’art. 3, c. 4, D.L. n. 95/2012, “nell’ipotesi
in cui il comune abbia dato in concessione e non in locazione un determinato
immobile ad altro ente pubblico”.
La questione viene esaminata dal Giudice contabile sotto il profilo
soggettivo dell’applicabilità della norma quando le parti del rapporto di
concessione siano due pubbliche amministrazioni e sotto il profilo oggettivo
dell’applicazione della norma medesima prevista per i rapporti di locazione
anche ai rapporti di concessione di beni pubblici. Ebbene, la Corte dei
conti osserva che sotto il primo profilo l’art. 3, c. 4, D.L. n. 95/2012,
non pare applicabile nell’ipotesi in cui il rapporto intervenga tra due
pubbliche amministrazioni: preclusiva al riguardo è la finalità della norma
del “contenimento della spesa pubblica” che non si realizza qualora il
rapporto concessorio intervenga tra due pubbliche amministrazioni.
D’altro canto –osserva ancora il Giudice contabile emiliano– sotto il
profilo oggettivo, il carattere eccezionale della disposizione di cui
all’art. 3, c. 4, D.L. n. 95/2012, insuscettibile di interpretazione
analogica (art. 14 delle Preleggi) inevitabilmente preclude che la stessa,
formulata per un contratto di locazione, trovi applicazione per la
fattispecie non sovrapponibile di un rapporto concessorio.
Un tanto esposto in ordine alla deliberazione della Corte dei conti Emilia
Romagna n. 157/2015, si osserva, peraltro, che altre posizioni
giurisprudenziali sono state espresse sul tema che ci occupa.
Sempre nell’ambito della magistratura contabile, la Corte dei conti, sez.
reg. contr. Piemonte, deliberazione 21.05.2015, n. 76, ha affermato che
l’art. 3, c. 4, D.L. n. 95/2012, deve trovare applicazione generalizzata in
favore delle p.a. conduttrici quale che sia la natura dei locatori, pubblica
o privata, condividendo in tal senso integralmente i passaggi argomentativi
della Corte dei conti, sez. reg. contr. Lombardia, deliberazione 12.11.2014,
n. 285.
In particolare, se il legislatore avesse voluto escludere dalla misura
riduttiva del canone di cui all’art. 3, c. 4, in argomento, le locazioni
stipulate con altre amministrazioni pubbliche, anche territoriali,
proprietarie dell’immobile locato, lo avrebbe fatto in modo espresso. Per
cui la misura di contenimento dei costi per le locazioni passive a carico
dei bilanci pubblici, in assenza di una contraria disposizione di legge,
trova applicazione anche rispetto a contratti stipulati con enti
territoriali proprietari, per i quali rimane salvo il diritto di recesso.
Sulla questione dell’applicazione della riduzione del canone di locazione
del 15%, di cui all’art. 3, c. 4, D.L. n. 95/2012, nell’ipotesi in cui i
contraenti del contratto di locazione siano entrambi parti pubbliche e con
specifico riferimento a locazione di immobile comunale adibito a locale
caserma dei Carabinieri, si è espressa anche la Corte dei conti, sez. reg.
contr. Friuli Venezia Giulia, deliberazione 27.04.2016, n. 40.
La Corte dei conti friulana osserva che la problematica posta dal Comune
richiedente, che al riguardo richiama la deliberazione n. 157/2015 della
Corte dei conti Emilia Romagna, va esaminata con i necessari raccordi anche
con la normativa intervenuta successivamente a detta deliberazione, in
relazione ad una fattispecie diversa, che la Corte ritiene tuttavia connessa
a quella in esame.
In particolare, la deliberazione n. 40/2016 prende in considerazione l’art.
1, c. 500, L. 28.12.2015, n. 208 (Legge di stabilità per il 2016), il quale
ha introdotto il comma 4-bis all’art. 3 del D.L. n. 95/2012, secondo cui “per
le caserme delle Forze dell’ordine e del Corpo nazionale dei vigili del
fuoco ospitate presso proprietà private, i comuni appartenenti al territorio
di competenza delle stesse possono contribuire al pagamento del canone di
locazione come determinato dall’Agenzia delle entrate”.
Alla luce della novella del 2015 –afferma la Corte dei conti friulana– è da
ritenersi superato l’orientamento espresso dalla Corte dei conti, Sezione
Autonomie, deliberazione 09.06.2014, n. 16, secondo cui, nell’ambito del
coordinamento fra Amministrazioni statali e periferiche, in vista del
potenziamento della sicurezza a livello locale (art. 118, comma 3, Cost.),
tra gli strumenti di concertazione interistituzionale non sarebbe possibile
prevedere forme di contribuzione da parte dei Comuni volte al pagamento del
canone di locazione per le caserme delle Forze dell’ordine. Orientamento di
cui –ad avviso della Corte dei conti Friuli Venezia Giulia– la deliberazione
della Corte dei conti Emilia Romagna n. 157/2015 pare porsi come
un’applicazione seppur indiretta.
Ed invero, il contributo diretto ai canoni di locazione per caserme ospitate
in immobili privati rappresenterebbe una forma di aiuto economico
assimilabile alla riduzione ex lege dei canoni di locazione per gli
immobili pubblici locati alle Forze dell’ordine, trattandosi in ambedue i
casi di forme di sostegno consentite dall’ordinamento.
Ne consegue –osserva la Corte dei conti– che:
a) opera ex lege la riduzione del canone del 15% per tutte
le locazioni passive gravanti su Amministrazioni pubbliche per il godimento
di immobili adibiti ad uso istituzionale, senza distinzione tra immobili di
proprietà pubblica o privata;
b) per i soli immobili di proprietà privata adibiti a caserme è
eventualmente consentito ai Comuni di contribuire al pagamento del canone di
locazione come determinato dall’Agenzia delle entrate.
E tale impostazione giuridica per la Corte dei conti friulana appare già di
per sé risolutiva (in senso affermativo n.d.r.) della questione ad essa
sottoposta [5]
circa l’applicazione della riduzione del canone quando i contraenti del
contratto di locazione –nel caso, di immobile comunale adibito a locale
caserma dei Carabinieri– siano entrambi parti pubbliche [6].
---------------
[1] La legge 05.04.1985 n. 118 ha convertito, con modificazioni, il D.L.
07.02.1985, n. 12, al cui art. 1 ha aggiunto il comma 9-sexies in argomento,
che sostituisce l’art. 32 (Aggiornamento del canone), L. 27.07.1978, n. 392,
alla cui lettura si rinvia.
[2] Si riporta il testo dell’art. 3, comma 4, in parola: “Ai fini del
contenimento della spesa pubblica, con riferimento ai contratti di locazione
passiva aventi ad oggetto immobili a uso istituzionale stipulati dalle
Amministrazioni centrali, come individuate dall’Istituto nazionale di
statistica ai sensi dell’art. 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196,
nonché dalle Autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per
le società e la borsa (Consob) i canoni di locazione sono ridotti a
decorrere dal 01.07.2014 della misura del 15 per cento di quanto attualmente
corrisposto. A decorrere dalla data di entrata in vigore della legge di
conversione del presene decreto la riduzione di cui al periodo precedente si
applica comunque ai contratti di locazione scaduti o rinnovati dopo tale
data. La riduzione del canone di locazione si inserisce automaticamente nei
contratti in corso ai sensi dell’art. 1339 c.c., anche in deroga alle
eventuali clausole difformi apposte dalle parte, salvo il diritto di recesso
del locatore. Analoga riduzione si applica anche agli utilizzi in essere in
assenza di titolo alla data di entrata in vigore del presente decreto. Il
rinnovo del rapporto di locazione è consentito solo in presenza e
coesistenza delle seguenti condizioni: a) disponibilità delle risorse
finanziarie necessarie per il pagamento dei canoni, degli oneri e dei costi
d’uso, per il periodo di durata del contratto di locazione; b) permanenza
per le Amministrazioni dello Stato delle esigenze allocative in relazione ai
fabbisogni espressi agli esiti dei piani di razionalizzazione di cui
all’articolo 2, comma 222, della legge 23.12.2009, n. 191, ove già definiti,
nonché di quelli di riorganizzazione ed accorpamento delle strutture
previste dalle norme vigenti”.
[3] La novella del 2014 anticipa all’01.07.2014 la decorrenza della
decurtazione del 15% originariamente fissata all’01.01.2015.
[4] Il comma 7 del richiamato art. 3, a seguito della novella del 2014,
estende la riduzione del 15% ai contratti di locazione passiva stipulati
dalle altre amministrazioni di cui all’art. 1, c. 2, D.Lgs. n. 165/2001
(art. 24, c. 4, lett. b), D.L. n. 66/2014).
[5] E ciò –osserva la Corte dei conti– ancorché dalla normativa citata non
si evinca una espressa indicazione circa l’applicabilità della predetta
riduzione ai canoni di locazione relativi ad immobili di proprietà pubblica
locati ad altra pubblica Amministrazione.
[6] Su questa linea, v. anche Corte dei conti Emilia Romagna, deliberazioni
03.05.2016, n. 45, e 24.10.2017, n. 155, ove la Corte richiama integralmente
–condividendole– le argomentazioni della Corte dei conti Lombardia n.
285/2014 citata, nel senso dell’applicazione dell’art. 3, c. 4, D.L. n.
95/2012, pure alle locazioni stipulate con altre amministrazioni pubbliche,
anche territoriali, proprietarie dell’immobile locato (04.01.2019
- link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Gestionale senza segreti. Accesso al sistema informatico contabile.
I consiglieri hanno diritto di visionare documenti senza limitazioni.
Ai
sensi della vigente normativa, è consentito al consigliere comunale di
accedere al sistema informatico gestionale, anche contabile, dell'ente
locale?
Il Tar Sardegna, con sentenza n. 29/2007, in merito alla questione
prospettata, ha affermato che è consentito prendere visione del protocollo
generale senza alcuna esclusione di oggetti e notizie riservate e di materie
coperte da segreto, posto che i consiglieri comunali sono tenuti al segreto
ai sensi dell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000. Il Tar Lombardia,
Brescia, inoltre, con sentenza n. 163/2004, ha ritenuto non ammissibile
imporre ai consiglieri l'onere di specificare in anticipo l'oggetto degli
atti che intendono visionare poiché trattasi di informazioni di cui gli
stessi possono disporre solo in conseguenza dell'accesso.
La previa visione dei vari protocolli, tra cui il protocollo informatico,
previsto dall'art. 17 del decreto legislativo n. 82/05 e successive
modificazioni (codice dell'amministrazione digitale), è pertanto necessaria
per poter individuare gli estremi degli atti sui quali si andrà ad
esercitare l'accesso vero e proprio.
In tal senso, anche la Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi, con parere del 22.02.2011, ha osservato che, ai sensi
della vigente normativa (dpr 20.10.1998, n. 428, dpcm 31.10.2000, dpr 28.12.2000 n. 445, dpcm 14.10.2003) ogni comune deve
provvedere a realizzare il protocollo informatico, a cui possono liberamente
accedere i consiglieri comunali che, quindi, possono prendere visione in via
informatica delle determinazioni e delle delibere adottate dall'ente; ciò,
in ottemperanza al principio generale di economicità dell'azione
amministrativa, che riduce allo stretto necessario la redazione in forma
cartacea dei documenti amministrativi. I precedenti pareri espressi dalla
commissione per l'accesso ai documenti amministrativi rafforzano, peraltro,
tale favorevole orientamento.
In particolare la Commissione, con il parere del 03.02.2009, ha
precisato che «il ricorso a supporti magnetici o l'accesso al sistema
informatico interno dell'ente, ove operante, sono strumenti di accesso
certamente consentiti al consigliere comunale, poiché favoriscono la
tempestiva acquisizione delle informazioni richieste senza aggravare
l'ordinaria attività amministrativa».
Inoltre, con il parere del 16.03.2010, ha ribadito l'accessibilità del
consigliere comunale al sistema informatico dell'ente tramite utilizzo di
apposita password, ove operante, ferma restando la responsabilità della
segretezza della password di cui il consigliere è stato messo a conoscenza a
tali fini (art. 43, comma 2, Tuel); infine, con il parere del 25.05.2010, ha
rimarcato il diritto del consigliere di accedere anche al protocollo
informatico (articolo ItaliaOggi del 04.01.2019). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Accesso agli atti da parte di un consigliere comunale.
Ai sensi dell’art. 43, co. 2, TUEL, sussiste il diritto
del consigliere comunale di accedere a determinati atti relativi ad un
singolo contribuente.
Il diritto di accesso ai documenti esercitato dai consiglieri comunali,
infatti, in quanto espressione delle loro prerogative di controllo
democratico, non incontra alcuna limitazione in relazione all'eventuale
natura riservata degli atti, stante anche il vincolo del segreto d'ufficio
cui gli stessi sono tenuti in forza della citata norma di legge.
Il Comune chiede un parere in materia di diritto di accesso agli atti
spettante ai consiglieri comunali. Più in particolare, nel riferire di una
richiesta avanzata da un amministratore locale del seguente tenore: “situazione/accertamenti/tassazione
immobili di proprietà di… .omissis … siti in ……” chiede se l’istanza di
accesso debba essere accolta atteso che la stessa riguarda un singolo
contribuente.
In via preliminare si ricorda che il diritto di accesso agli atti
amministrativi da parte degli amministratori locali è disciplinato
dall’articolo 43, comma 2, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 il
quale prevede che: “I consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di
ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché
dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in
loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato. Essi sono tenuti
al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge.”
La giurisprudenza, anche di recente, ha ribadito che “l'accesso ai
documenti esercitato dai consiglieri comunali e provinciali, e, per
estensione, anche regionali, espressione delle loro prerogative di controllo
democratico, non incontra alcuna limitazione in relazione all'eventuale
natura riservata degli atti, stante anche il vincolo del segreto d'ufficio
che lo astringe. Inoltre, tale accesso non deve essere motivato, atteso che,
diversamente, sarebbe consentito un controllo da parte degli uffici
dell'Amministrazione sull'esercizio delle funzioni del consigliere. La
locuzione aggettivale "utile", contenuta nell'art. 43 del t.u.e.l., non vale
ad escludere il carattere incondizionato del diritto (soggettivo pubblico)
di accesso del consigliere, ma piuttosto comporta l'estensione di tale
diritto a qualsiasi atto ravvisato "utile" per l'esercizio delle funzioni”
[1].
L’ampiezza di legittimazione all’accesso riconosciuta ai consiglieri
comunali si giustifica “in ragione del particolare munus espletato dal
consigliere comunale, affinché questi possa valutare con piena cognizione di
causa la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, al
fine di poter esprimere un giudizio consapevole sulle questioni di
competenza della P.A., opportunamente considerando il ruolo di garanzia
democratica e la funzione pubblicistica da questi esercitata”
[2].
In relazione all’esigenza di salvaguardia della riservatezza dei terzi, si
osserva ancora come la giurisprudenza [3]
abbia rilevato che la stessa è soddisfatta dall’articolo 43, comma 2, del
D.Lgs. 267/2000, laddove statuisce che i consiglieri stessi sono tenuti al
segreto nei casi specificamente determinati dalla legge: “Il diritto del
consigliere comunale o provinciale di avere accesso, ex art. 43 del D.Lgs.
18.08.2000, n. 267, a tutte le informazioni che siano utili all'espletamento
del mandato non incontra alcuna limitazione derivanti da esigenze di
riservatezza o privacy dei terzi, in quanto il consigliere è vincolato
all'osservanza del segreto. L'art. 43, comma 2 del D.Lgs. 18.08.2000, n.
267, prevede infatti che i consiglieri comunali sono tenuti al segreto nel
caso accedano ad atti che incidono sulla sfera giuridica e soggettiva di
terzi” [4].
Con riferimento ad una richiesta di un consigliere comunale “di accedere
ai fascicoli personali di 154 contribuenti fisici e giuridici -iscritti a
ruolo per il tributo sui rifiuti Tarsu/Tares– che hanno ricevuto l’avviso di
accertamento per omessa/infedele denuncia” il Ministero dell’Interno, in
un proprio parere [5],
nel richiamare i principi già sopra esposti ha ulteriormente ribadito che “gli
Uffici comunali non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra
l’oggetto delle richieste di informazione avanzate da un consigliere
comunale e le modalità di esercizio del munus da questi espletato. Ciò,
anche nel rispetto della separazione dei poteri (art. 4 e art. 14 del d.lgs.
n. 165/2001) sancita per gli enti locali dall’art. 107 del TUOEL n. 267/2000
che richiama il principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo
politico- amministrativo spettano agli organi di governo, essendo riservata
ai dirigenti la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica”
[6].
Da ultimo, sempre a favore dell’ostensibilità, nel caso di specie, della
documentazione richiesta dall’amministratore locale si segnala un parere
della Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi
[7] relativa ad una
istanza ex art. 43, comma 2, TUEL inerente il pagamento dei tributi per le
concessioni cimiteriali nel quale la stessa ha affermato che “deve essere
accolta la richiesta d’accesso formulata dal consigliere comunale, affinché
questi possa valutare con piena cognizione di causa la correttezza e
l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, ad atti inerenti il pagamento
dei tributi per le concessioni cimiteriali. Infatti, le informazioni
richieste attengono un settore particolarmente nevralgico come quello
dell’effettiva riscossione delle imposte comunali da parte
dell’amministrazione competente”.
---------------
[1] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 02.03.2018, n. 1298. Si
veda, anche, TAR Sardegna, Cagliari sez. I sentenza del 28.11.2017, n. 740
ove si afferma che: “I consiglieri comunali vantano un non condizionato
diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d’utilità
all’espletamento delle loro funzioni; ciò anche al fine di permettere di
valutare con piena cognizione la correttezza e l’efficacia dell’operato
dell’Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle
questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell’ambito
del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti
del corpo elettorale locale”.
[2] Così, Ministero dell’Interno, parere del 23.05.2014.
[3] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 04.05.2004, n. 2716. Nello
stesso senso, tra le altre, TAR Veneto Venezia, sez. I, sentenza del
15.02.2008, n. 385 e TAR Lazio, Latina, sez. I, sentenza del 19.02.2013, n.
171.
[4] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza dell’11.12.2013, n. 5931. Nello
stesso senso si veda, anche, TAR Campania, Napoli, sez. VI, sentenza del
06.06.2014, n. 3161 la quale afferma: “In particolare, nessuna limitazione
può derivare al diritto d'accesso del consigliere comunale agli atti del
Comune, qualunque sia il loro destinatario, dalla natura riservata delle
informazioni richieste essendo per legge vincolato al segreto d'ufficio”.
[5] Ministero dell’Interno parere del 23.05.2014.
[6] Per completezza espositiva si segnala che il Ministero dell’Interno
nell’indicato parere ha, altresì, precisato che “in ogni caso, ad avviso di
questa Direzione Centrale, appare necessaria una regolamentazione della
materia da parte del Consiglio comunale nell’ambito anche degli strumenti di
autorganizzazione dello stesso Consiglio”. Nel medesimo parere si ricorda,
infatti l’orientamento espresso da un indirizzo giurisprudenziale
consolidato (cfr. C.d.S. Sez. V. n. 929/2007) secondo cui «il diritto di
accesso da parte del consigliere “non può subire compressioni per pretese
esigenze di natura burocratica dell’ente con l’unico limite di potere
esaudire la richiesta (qualora sia di una certa gravosità) secondo i tempi
necessari per non determinare interruzione delle attività di tipo corrente”
(limite della proporzionalità e ragionevolezza delle richieste), restando
ferma la “necessità di contemperare nel modo più ragionevole e adeguato
possibile dette richieste, finalizzate all’espletamento del mandato, con le
esigenze di funzionamento degli uffici” (C.d.S., Sezione V, del 17.09.2010,
n. 6963)».
[7] Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, parere del
14.12.2010 (28.12.2018 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Statuto, il sindaco vota. Deve essere
computato nel quorum funzionale. Il primo cittadino è a tutti gli effetti
componente del consiglio comunale.
Deve essere annullata la deliberazione consiliare
con la quale è stata approvata una modifica allo statuto dell'ente, nel caso
in cui sia stato computato nel quorum funzionale, previsto dall'art. 6,
comma 4, del decreto legislativo n. 267/2000, anche il voto del sindaco?
Premesso che sulla questione l'orientamento del giudice amministrativo non è
univoco (cfr. Tar Puglia sent. 1301/2004, Tar Lazio, sez. II-ter, sentenza
n. 497/2011 e Tar Lombardia sentenza n. 1604/2011), l'art. 6, comma 4, del
dlgs n. 267/2000 dispone che «gli statuti sono deliberati dai rispettivi
consigli con il voto favorevole dei due terzi dei consiglieri assegnati … le
disposizioni di cui al presente comma si applicano anche alle modifiche
statutarie».
La citata normativa prevede un «procedimento aggravato» per
l'approvazione delle norme statutarie, nonché delle relative modifiche; in
particolare prescrive che, in caso di mancata approvazione dei due terzi
dell'assemblea, si deve ripetere la votazione entro 30 giorni e, inoltre,
stabilisce che lo statuto si ritiene approvato se ottiene per due volte, in
sedute successive, il voto favorevole della maggioranza assoluta dei membri
assegnati al collegio.
L'approvazione dello statuto, pertanto, comporta -attesa la natura di atto
normativo «fondamentale» sua propria (comma 2, art. 6 cit.)- che su
di esso converga il più elevato numero di consensi attraverso un'ampia
discussione e comparazione d'interessi da parte della maggioranza e
dell'opposizione consiliare. Tale esigenza ha determinato, conseguentemente,
la previsione di maggioranze speciali disponendo che i quorum,
rispettivamente della prima e delle altre votazioni, siano ragguagliati ai
due terzi o alla maggioranza assoluta non dei votanti, ma dei consiglieri
assegnati.
Dunque, l'iter deliberativo di approvazione dello statuto e delle sue
modifiche implica che in sede di prima votazione la delibera sia approvata
con il voto favorevole dei due terzi dei consiglieri assegnati ivi compreso
il sindaco, che è componente del consiglio comunale ai sensi dell'art. 37
del citato testo unico.
Infatti, nelle ipotesi in cui l'ordinamento non ha inteso computare il
sindaco, o il presidente della provincia, nel quorum richiesto per la
validità di una seduta, lo ha indicato espressamente usando la formula «senza
computare a tal fine il sindaco e il presidente della provincia»
(articolo ItaliaOggi del 28.12.2018). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Quorum, vince lo statuto. Se c’è discrasia con le previsioni regolamentari.
Cosa succede quando c’è contrasto sul numero minimo di consiglieri.
Come deve essere determinato il quorum strutturale affinché possa essere
considerata valida una seduta del consiglio comunale, riunito in seconda
convocazione?
L'art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, demanda al
regolamento comunale, «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto», la
determinazione del «numero dei consiglieri necessario per la validità delle
sedute» del consiglio riunito in seconda convocazione, con il limite che
tale numero non può, in ogni caso, scendere sotto la soglia del «terzo dei
consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a tale fine il
sindaco e il presidente della provincia»; intendendosi con ciò che,
limitatamente al computo del «terzo» dei consiglieri, il sindaco deve essere
escluso.
Nel caso in esame, il regolamento di organizzazione e funzionamento del
consiglio comunale prevede, per la validità delle sedute del consiglio
comunale convocate in seconda convocazione, la presenza di almeno 14
consiglieri. Lo statuto comunale, invece, dispone che le medesime sedute
siano valide con la presenza di almeno un terzo dei consiglieri assegnati,
escluso il sindaco.
La discrasia tra tali norme deve ricondursi alla modifica, introdotta dalla
legge n. 148/2011, che ha inciso sulla composizione dei consigli operando una
riduzione del numero dei consiglieri rientranti nella fascia demografica
dell'ente locale di cui trattasi.
Tuttavia, in ossequio al principio della gerarchia delle fonti, e
conformemente anche all'articolo 7 del citato decreto legislativo n. 267/2000,
che disciplina l'adozione dei regolamenti comunali «nel rispetto dei
principi fissati dalla legge e dallo statuto» (cfr. sentenza Tar Lombardia,
Brescia, n. 2625 del 28.12.2009, Tar Lazio, n. 497 del 2011), la
disposizione regolamentare deve essere disapplicata, in considerazione della
prevalenza della norma statutaria (articolo ItaliaOggi del 21.12.2018). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Commissioni, esterni out. Possono farne parte solo i
consiglieri comunali. Illegittimo il regolamento che apre a soggetti
estranei al consiglio.
È
legittimo, ai sensi dell'art. 38, comma 6, del dlgs n. 267/2000, il
regolamento del consiglio comunale di un ente locale in cui si prevede che
la composizione delle commissioni consiliari permanenti sia integrata con la
presenza di membri esterni al consiglio, nominati dalla giunta comunale?
Il citato art. 38, comma 6, stabilisce che lo statuto può prevedere la
costituzione di commissioni consiliari istituite dal consiglio «nel proprio
seno». Se istituite, tali commissioni sono disciplinate dal regolamento
comunale con l'unico limite, posto dal legislatore, del rispetto del
criterio proporzionale. Ciò significa che le forze politiche presenti in
consiglio debbono essere il più possibile rispecchiate anche nelle
commissioni, in modo che in ciascuna di esse sia riprodotto il loro peso
numerico e di voto.
Nel caso di specie, lo statuto comunale dispone che il consiglio possa
costituire, «nel proprio seno», le commissioni consiliari permanenti.
Il regolamento sul funzionamento del consiglio comunale prevede, invece, che
la composizione delle stesse commissioni consiliari possa essere integrata
dalla presenza di membri non consiglieri nominati dalla giunta.
La disposizione regolamentare, che sembrerebbe essere espressione
dell'intento della amministrazione di dare attuazione ai principi della
partecipazione popolare di cui all'art. 8 del Testo unico sugli enti locali
(dlgs n. 267/2000), non appare coerente con la disciplina dettata dal
legislatore, e ribadita dallo statuto dell'ente, riguardante la
indefettibilità dello status di consigliere comunale in capo ai componenti
delle commissioni consiliari ex art. 38, comma 6, del decreto legislativo n.
267/2000.
Ai sensi della norma statale citata, infatti, «il consiglio si avvale di
commissioni costituite nel proprio seno con criterio proporzionale» ed è,
quindi, preclusiva della possibilità che soggetti estranei al consiglio
possano farne parte a titolo di veri e propri componenti.
Tale impostazione risulta confermata anche dalla dottrina, secondo cui la
composizione delle commissioni deve rispecchiare, con criterio
proporzionale, le forze politiche presenti in consiglio, «con esclusione di
componenti non facenti parte del consiglio stesso».
L'ente, pertanto, dovrà valutare l'opportunità di pervenire a una modifica
della normativa regolamentare (articolo ItaliaOggi del 14.12.2018). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Diritto d’accesso ripetuto. Ai consiglieri
vanno riconosciuti poteri ampi. Il componente di
minoranza può presentare istanze reiterate.
È legittima la condotta di un consigliere di minoranza che presenta numerose
e reiterate istanze di accesso al protocollo del comune?
L'art. 22, comma 2, della legge n. 241/1990 stabilisce che l'accesso ai
documenti amministrativi, in virtù delle sue rilevanti finalità di pubblico
interesse, costituisce principio generale dell'attività amministrativa, in
quanto favorisce la partecipazione e assicura l'imparzialità' e la
trasparenza dell'azione amministrativa.
L'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000, invece, consente ai
consiglieri comunali di accedere a tutte le notizie e le informazioni in
possesso dell'ente, utili all'espletamento del proprio mandato.
Nel caso in esame, il sindaco ha sospeso le richieste di accesso del
consigliere di minoranza al protocollo, ritenendole «formalizzate in modo
abnorme, generico, indiscriminato e reiterato e finalizzate a strategie
ostruzionistiche comportanti aggravi dell'attività amministrativa dell'ente».
Tuttavia, al consigliere comunale, in relazione proprio al munus
rivestito, deve essere riconosciuto un diritto più ampio rispetto a quello
esercitabile dal semplice cittadino, che si estende oltre le competenze
attribuite al consiglio comunale, al fine della necessaria valutazione della
correttezza ed efficacia dell'operato dell'amministrazione comunale (cfr.:
Cds n. 4525 del 05.09.2014, Cds sez. V n. 5264/07 che richiama Cons. stato,
V sez. 21.02.1994 n. 119, Cons. stato, V sez. 26.09.2000 n. 5109, Cons.
stato, V sez. 02.04.2001 n. 1893). La giurisprudenza, fatta salva la
necessità di non aggravare la funzionalità amministrativa dell'ente con
richieste emulative, è infatti orientata a ritenere illegittimo il diniego
opposto dall'amministrazione di prendere visione del protocollo generale e
di quello riservato del sindaco, comprensivo sia della posta in arrivo che
di quella in uscita.
I giudici del Tar Sardegna, nella citata sentenza n. 29/2007, hanno,
peraltro, affermato che è consentito prendere visione del protocollo
generale senza alcuna esclusione di oggetti e notizie riservate e di materie
coperte da segreto, posto che i consiglieri comunali sono comunque tenuti al
segreto ai sensi dell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000, mentre il
Tar Lombardia, Brescia, 01.03.2004 n. 163, ha ritenuto non ammissibile
imporre al consigliere l'onere di specificare in anticipo l'oggetto degli
atti che intendono visionare giacché trattasi di informazioni di cui gli
stessi possono disporre solo in conseguenza dell'accesso.
Pertanto, la previa visione dei vari protocolli, tra cui il protocollo
informatico (il cui esame, ormai consolidato, era già previsto dall'art. 17,
del dlgs. n. 82/2005), è necessaria per poter individuare gli estremi degli
atti sui quali si andrà ad esercitare l'accesso vero e proprio, e potrà
trovare apposita disciplina di dettaglio nel regolamento dell'ente.
La Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, esprimendosi
sull'esercizio del diritto d'accesso, sulla base del principio di
economicità che incombe sia sugli uffici tenuti a provvedere, sia sui
soggetti che chiedono prestazioni amministrative, ha riconosciuto «la
possibilità per il consigliere di avere accesso diretto al sistema
informatico interno, anche contabile, dell'ente attraverso l'uso della
password di servizio»
(articolo ItaliaOggi del 07.12.2018). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Parità nei piccoli
comuni. Uguaglianza uomo-donna anche nei mini-enti.
Principio applicabile pur in assenza di una espressa previsione statutaria.
In tema di parità di genere, nella composizione della giunta comunale, quale
normativa è applicabile ad un ente locale con popolazione inferiore a 3 mila
abitanti?
La materia è disciplinata dalla legge n. 56 del 07.04.2014 che, all'art. 1,
comma 137, per i soli comuni con popolazione superiore ai 3 mila abitanti,
ha stabilito un preciso quorum del 40%, affinché sia rispettato il principio
della parità di genere; per i comuni al di sotto di tale soglia demografica
la norma di riferimento è, invece, l'art. 6, comma 3, del decreto
legislativo n. 267/2000.
Secondo tale disposizione legislativa gli statuti comunali e provinciali
devono prevedere norme che assicurino condizioni di pari opportunità tra
uomo e donna e garantiscano la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e
negli organi collegiali non elettivi del comune e della provincia, nonché
degli enti, aziende ed istituzioni da essi dipendenti.
La citata disposizione è stata poi modificata della legge n. 215 del 2012
che ha sostituito il verbo «promuovere» con il verbo «garantire»
ed ha aggiunto alla espressione «organi collegiali» la dicitura «non
elettivi» (art. 1, comma 1); inoltre, ha previsto che gli enti locali, entro
sei mesi dall'entrata in vigore della legge stessa, dovessero adeguare i
propri statuti e regolamenti alle disposizioni dell'art. 6, comma 3, del
Tuel (art. 1, comma 2).
L'art. 2, comma 1, lett. b) della citata legge n. 215/2012 ha modificato
l'art. 46, comma 2, del decreto legislativo n. 267/00, disponendo che il
sindaco e il presidente della provincia nominino i componenti della giunta «nel
rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la
presenza di entrambi i sessi».
La citata normativa va letta alla luce dell'art. 51 della Costituzione, come
modificato dalla legge costituzionale n. 1/03, che ha riconosciuto dignità
costituzionale al principio della promozione delle pari opportunità tra
donne e uomini.
Nel caso dei comuni rientranti nella suddetta fascia demografica, pertanto,
devono trovare applicazione le disposizioni contenute nei citati articoli 6,
comma 3, e 46, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 e nella legge n.
215/2012.
Tali disposizioni, recependo i principi sulle pari opportunità dettati
dall'art. 51 della Costituzione, dall'art. 1 del decreto legislativo
dell'11.04.2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità) e dall'art. 23 della
Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, hanno carattere
precettivo e non meramente programmatico, e sono finalizzate a rendere
effettiva la partecipazione di entrambi i sessi alla vita istituzionale
degli enti territoriali, in condizioni di pari opportunità.
Ferma restando la necessità dell'adeguamento statutario da parte dell'ente,
le richiamate disposizioni normative sulla parità di genere risultano
immediatamente applicabili, anche in carenza di una espressa previsione
statutaria
(articolo ItaliaOggi del 30.11.2018). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Alla Corte costituzionale la legge regionale Veneto che
consente di non rispettare le distanze dai confini.
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Edilizia – Distanze – Regione Veneto – Art. 64, l.reg. n.
30 del 2016 – Deroghe – Violazione artt. 3, 5, 114, comma 2,
117, comma 2, lett. l), e comma 6, nonché 118 Cost. –
Rilevanza e non manifesta infondatezza.
E’ rilevante e non manifestamene
infondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 64, l.reg. Veneto 30.12.2016, n. 30, per contrasto
con gli artt. 3, 5, 114, comma 2, 117, comma 2, lett. l), e
comma 6, nonché 118 Cost. nella parte in cui dispone la
deroga della distanza dai confini prevista dagli strumenti
urbanistici e dai regolamenti dei Comuni (1).
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(1) Ad avviso del Tar la norma si porrebbe
innanzitutto in contrasto con l’art. 117, secondo comma,
lett. l), Cost. perché il legislatore regionale disponendo
la deroga delle distanze dai confini previste dagli
strumenti urbanistici e dai regolamenti comunali, è
intervenuto in un ambito normativo riservato alla potestà
legislativa esclusiva dello Stato in materia di “ordinamento
civile”.
Per pacifica giurisprudenza della Cassazione (sez. II,
03.11.2000, n. 14351) le norme edilizie locali le quali
prescrivono maggiori distanze nelle costruzioni fissandole
in relazione al confine, anziché direttamente tra le
costruzioni medesime, hanno anch'esse carattere integrativo
della disciplina codicistica, con la conseguenza che la loro
violazione dà diritto a pretendere la riduzione in pristino,
oltre al risarcimento dei danni.
Ancora la giurisprudenza ha chiarito che al pari dei
regolamenti locali, anche le disposizioni del d.m.
02.04.1968, n. 1444 devono ritenersi immediatamente
operative nei rapporti tra privati in quanto integrative
dell’art. 873 c.c. (Cass. civ., sez. II, 23.01.2018, n.
1616; id. 26.07.2016, n. 15458; id. 15.07.2016, n. n.
14552).
Il Tar ha quindi affermato che sul piano delle fonti il
rapporto di integrazione che si instaura tra l’art. 873 c.c.
e i regolamenti locali, non è dissimile al rapporto di
integrazione che intercorre, in forza dell’art.
41-quinquies, l. 17.08.1942, n. 1150, tra l’art. 873 c.c. e
il d.m. 02.04.1968, n. 1444.
Pertanto anche per la distanza dai confini, così come per la
distanza tra costruzioni, devono valere i principi affermati
dalla Corte costituzionale (sentenza 24.02.2017, n. 41) la
quale ha ribadito che la disciplina delle distanze fra
costruzioni, ed in particolare quella degli artt. 873 e 875
cod. civ., attiene in via primaria e diretta ai rapporti tra
proprietari di fondi finitimi. Non si può pertanto dubitare
che la disciplina delle distanze, per quanto concerne i
rapporti su indicati, rientri nella materia dell’ordinamento
civile, di competenza legislativa esclusiva dello Stato
(sentenza n. 232 del 2005).
Ne discende che tutte le norme integrative delle
disposizioni di cui all’art. 873 c.c., e pertanto anche
quelle dei regolamenti locali oltre a quelle previste dal
d.m. 02.04.1968, n. 1444, concorrendo alla configurazione
del diritto di proprietà nella disciplina dei rapporti di
vicinato al fine di assicurare un’equità nell’utilizzazione
edilizia dei suoli privati attribuendo un vero e proprio
diritto soggettivo al reciproco rispetto, che in quanto tale
gode di tutela reale mediante la riduzione in pristino in
caso di violazione, rientrano nella materia dell’ordinamento
civile.
Sotto questo profilo la norma regionale di cui all’art. 64,
l.reg. 30.12.2016, n. 30, nella parte in cui consente di non
rispettare le distanze dai confini stabilite dagli strumenti
urbanistici e dai regolamenti locali integrative dell’art.
873 c.c., a giudizio del Tar risulta pertanto invasiva della
competenza legislativa esclusiva statale in materia di
ordinamento civile.
Il secondo profilo che risulta violato è quello della
lesione della sfera di autonomia normativa comunale in
violazione degli artt. 5, 114, comma 2, 117, comma 6 e 118
Cost. (con riguardo a quest’ultima norma per la violazione
del principio della sussidiarietà verticale). Infatti la
legge statale storicamente riconosce in capo al Comune
l’esercizio delle competenze pianificatorie e regolatorie
dell’uso del territorio (cfr. la l. 17.08.1942, n. 1150) e
gli articoli 114, comma 2, e 117, comma 6, Cost., nonché
l’art. 4, l. 05.06.2003, n. 131, riconoscono un ambito di
autonomia regolamentare dei Comuni che, qualora come nel
caso di specie sia da esercitare in una funzione attribuita
dalla legislazione dello Stato, la Regione non può
conculcare.
Sul punto devono pertanto ritenersi ancora validi i principi
affermati dalla Corte Costituzionale in un contesto
antecedente alla riforma del Titolo V della Costituzione, ma
che risultano ancor più attuali per effetto dell’espresso
riconoscimento, ad opera di tale riforma, dell’autonomia
normativa dei Comuni nella Costituzione.
La Corte Costituzionale ha infatti affermato che “gli
artt. 5 e 128 della Costituzione presuppongono una posizione
di autonomia dei comuni, che le leggi regionali non possono
mai comprimere fino a negarla” (sentenze nn. 286 e 83
del 1997), precisando che tale principio deve essere inteso
nel senso che "il potere dei comuni di autodeterminarsi
in ordine all’assetto e alla utilizzazione del proprio
territorio non costituisce elargizione che le regioni,
attributarie di competenza in materia urbanistica siano
libere di compiere", in quanto l’art. 128 Cost. "garantisce,
con previsione di principio, l’autonomia degli enti
infraregionali, non solo nei confronti dello Stato, ma anche
nei rapporti con le stesse regioni" (cfr. sentenza n. 83
del 1997; si vedano altresì le sentenze n. 157 del 1990; n.
212 del 1991; n. 61 del 1994).
Pertanto l’art. 64, l.reg. 30.12.2016, n. 30, avendo
esautorato i Comuni dal disciplinare in conformità con le
specifiche esigenze di un ordinato sviluppo del proprio
territorio ed in modo equo i rapporti tra i proprietari
confinanti per una intera categoria di interventi edilizi
che corrispondono a quelli attuativi della legge sul piano
casa, viola l’autonomia normativa dei Comuni riconosciuta
dagli artt. 5, 114, comma 2, 117, comma 6, e 118 Cost..
Infine risulta altresì violato l’art. 3 Cost. sotto il
profilo della ragionevolezza e della disparità di
trattamento che costituiscono un parametro particolarmente
rilevante rispetto alla norma della cui legittimità
costituzionale si dubita che è una norma di interpretazione
autentica al primo comma, e retroattiva al secondo comma,
che per essere costituzionalmente legittima deve trovare
adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e
non deve contrastare con altri valori ed interessi
costituzionalmente protetti (ex pluribus cfr. Corte
Costituzionale n. 73 del 2017; n. 170 del 2013, nonché le
sentenze n. 78 del 2012 e n. 209 del 2010).
Infatti la previsione, nell’ambito degli strumenti
urbanistici e nei regolamenti comunali, di una distanza di
cinque metri dal confine persegue chiaramente una finalità
di carattere perequativo, imponendo una ripartizione equa,
in parti uguali, del sacrificio derivante dal necessario
rispetto della distanza di dieci metri da pareti finestrate
prevista dal d.m. 02.04.1968, n. 1444 (TAR Veneto, Sez. II,
ordinanza 12.12.2018 n. 1166 - commento tratto da
e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
7. Ciò premesso, il Collegio non può esimersi dal
sollevare la questione di legittimità costituzionale della
norma di cui all’art. 64 della legge regionale n. 30 del
2016, nella parte in cui dispone la deroga della distanza
dai confini prevista dagli strumenti urbanistici e dai
regolamenti dei Comuni.
La questione di legittimità costituzionale deve ritenersi
senz’altro rilevante nel giudizio a quo, perché il
diniego è stato motivato con esclusivo riferimento alla non
derogabilità della distanza dai confini, e un’eventuale
dichiarazione dell’illegittimità costituzionale della norma
regionale di interpretazione autentica di cui al citato art.
64 comporterebbe il rigetto del ricorso, dato che troverebbe
in tal modo applicazione il testo originario dell’art. 9,
comma 8, della legge regionale n. 14 del 2009, con possibile
esplicazione dell’interpretazione sistematica del medesimo
data dalla sentenza Tar Veneto, Sez. II, 14.10.2016, n.
1128, e condivisa dal Comune di Altavilla Vicentina.
Un’eventuale dichiarazione di infondatezza della questione
di legittimità costituzionale comporterebbe invece
l’accoglimento del ricorso in epigrafe, il conseguente
annullamento del diniego, con l’obbligo per il Comune di
riesaminare l’originaria denuncia di inizio attività
adeguandosi alla norma regionale sopravvenuta di
interpretazione autentica.
8. Quanto alla non manifesta infondatezza il Collegio
ritiene violati gli artt. 3, 5, 114, comma 2, 117, comma 2,
lett. l), e comma 6, nonché 118 della Costituzione.
Il primo profilo da esaminare riguarda la violazione
dell’art. 117, secondo comma, lett. l), della Costituzione
perché il legislatore regionale disponendo la deroga delle
distanze dai confini previste dagli strumenti urbanistici e
dai regolamenti comunali, è intervenuto in un ambito
normativo riservato alla potestà legislativa esclusiva dello
Stato in materia di “ordinamento civile”.
L’art. 873 c.c. “Distanze nelle costruzioni” dispone
che “le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite
o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di
tre metri. Nei regolamenti locali può essere stabilita una
distanza maggiore”.
L’art. 872, comma 2, c.c. prevede che “colui che per
effetto della violazione ha subito danno deve esserne
risarcito, salva la facoltà di chiedere la riduzione in
pristino quando si tratta della violazione delle norme
contenute nella sezione seguente o da questa richiamate”.
Per pacifica giurisprudenza della Cassazione (cfr. Cass.
Civ. Sez. II, 03.11.2000, n. 14351) “le
norme edilizie locali le quali prescrivono maggiori distanze
nelle costruzioni fissandole in relazione al confine,
anziché direttamente tra le costruzioni medesime, hanno
anch'esse carattere integrativo della disciplina codicistica,
con la conseguenza che la loro violazione dà diritto a
pretendere la riduzione in pristino, oltre al risarcimento
dei danni (v., ex
plurimis, sent. 24.06.1996 n. 5831, 08.07.1996 n. 6209,
02.05.1997 n. 3820, 18.06.1998 n. 6088, 28.11.98 n. 12103)”.
I medesimi concetti sono ribaditi anche dalla giurisprudenza
più recente (cfr. Cassazione civile, sez. II, 28.09.2018, n.
23543) che ha avuto modo di affermare che “in
tema di distanze legali, le norme degli strumenti
urbanistici integrano la disciplina dettata dal codice
civile nelle materie regolate dagli artt. 873 c.c. e segg.,
ove tendano ad armonizzare l'interesse pubblico ad un
ordinato assetto urbanistico del territorio con l'interesse
privato relativo ai rapporti intersoggettivi di vicinato,
sicché vanno incluse in tale novero le disposizioni del
piano regolatore generale dell'ente territoriale che
stabiliscano la distanza minima delle costruzioni dal
confine del fondo e non tra contrapposti edifici
(cfr. Cass. sez. un. 24.09.2014, n. 20107)”
e che “la violazione delle norme degli
strumenti urbanistici integrative della disciplina dettata
dal codice civile nelle materie regolate dagli artt. 873
c.c. e segg., conferisce senz'altro al vicino la facoltà di
ottenere la riduzione in pristino
(Cass. 05.11.1990, n. 10615; Cass. 30.07.1984, n. 4519)”
(cfr. tra le tante Cass. Civ. sez. II, 12.05.2011, n. 10459;
id. 23.07.2009, n. 17338; id. 16.01.2009, n. 1073; id.
30.08.2004, n. 17390; id. 09.12.1996, n. 10935).
Ancora la giurisprudenza ha chiarito che
al pari dei regolamenti locali, anche le disposizioni del DM
02.04.1968, n. 1444 devono ritenersi immediatamente
operative nei rapporti tra privati in quanto integrative
dell’art. 873 c.c.
(cfr. Cass. civ., sez. II, 23 gennaio 2018, n. 1616; Cass.
civ. 26.07.2016, n. 15458; Cass. Civ. 15.07.2016, n. n.
14552; Cass. Civ. sez. II, 29.03.2007, n. 7702).
Ritiene pertanto il Collegio di poter affermare che
sul piano delle fonti il rapporto di integrazione
che si instaura tra l’art. 873 c.c. e i regolamenti locali,
non è dissimile al rapporto di integrazione che intercorre,
in forza dell’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n.
1150, tra l’art. 873 c.c. e il DM 02.04.1968, n. 1444.
Pertanto anche per la distanza dai
confini, così come per la distanza tra costruzioni, devono
valere i medesimi consolidati principi anche di recente
affermati dalla Corte Costituzionale
(cfr. la sentenza 24.02.2017, n. 41)
la quale ha ribadito che “secondo
la giurisprudenza di questa Corte, la disciplina delle
distanze fra costruzioni ha la sua collocazione anzitutto
nella sezione VI del Capo II del Titolo II del Libro III del
codice civile, intitolata appunto <<Delle distanze nelle
costruzioni, piantagioni e scavi, e dei muri, fossi e siepi
interposti tra fondi>>. «Tale disciplina, ed in particolare
quella degli articoli 873 e 875 che viene qui in più
specifico rilievo, attiene in via primaria e diretta ai
rapporti tra proprietari di fondi finitimi. […] Non si può
pertanto dubitare che la disciplina delle distanze, per
quanto concerne i rapporti suindicati, rientri nella materia
dell’ordinamento civile, di competenza legislativa esclusiva
dello Stato»
(sentenza n. 232 del 2005)”.
Ne discende che tutte le norme integrative
delle disposizioni di cui all’art. 873 c.c., e pertanto
anche quelle dei regolamenti locali oltre a quelle previste
dal DM 02.04.1968, n. 1444, concorrendo alla configurazione
del diritto di proprietà nella disciplina dei rapporti di
vicinato al fine di assicurare un’equità nell’utilizzazione
edilizia dei suoli privati attribuendo un vero e proprio
diritto soggettivo al reciproco rispetto, che in quanto tale
gode di tutela reale mediante la riduzione in pristino in
caso di violazione, rientrano nella materia dell’ordinamento
civile.
Sotto questo profilo la norma regionale di cui all’art. 64
della legge regionale 30.12.2016, n. 30, nella parte in cui
consente di non rispettare le distanze dai confini stabilite
dagli strumenti urbanistici e dai regolamenti locali
integrative dell’art. 873 c.c., a giudizio del Collegio
risulta pertanto invasiva della competenza legislativa
esclusiva statale in materia di ordinamento civile.
Invero una norma di tale tenore non appare poter essere
ricondotta alla competenza ricorrente in materia di governo
del territorio perché, come anche recentemente chiarito
dalla Corte Costituzionale (cfr. la già citata Corte
Costituzionale n. 41 del 2017) “nel
delimitare i rispettivi ambiti di competenza −statale in
materia di «ordinamento civile» e concorrente in materia di
«governo del territorio»− questa Corte ha individuato il
punto di equilibrio nell’ultimo comma dell’art. 9 del d.m.
n. 1444 del 1968, più volte ritenuto dotato di particolare
«efficacia precettiva e inderogabile»
(sentenza n. 185 del 2016, ma anche sentenze n. 114 del 2012
e n. 232 del 2005), in quanto richiamato
dall’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150
(Legge urbanistica), introdotto dall’art. 17 della legge
06.08.1967, n. 765 (Modifiche ed integrazioni alla legge
urbanistica 17.08.1942, n. 1150).
Pertanto, è stata giudicata legittima la previsione
regionale di distanze in deroga a quelle stabilite dalla
normativa statale, ma solo «nel caso di gruppi di edifici
che formino oggetto di piani particolareggiati o
lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche»
(ex plurimis, sentenza n. 231 del 2016).
In definitiva, le deroghe all’ordinamento civile delle
distanze tra edifici sono consentite «se inserite in
strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto
complessivo e unitario di determinate zone del territorio»
(sentenza n. 134 del 2014; analogamente sentenze n. 178, n.
185, n. 189, n. 231 del 2016), poiché «la loro legittimità è
strettamente connessa agli assetti urbanistici generali e
quindi al governo del territorio, non, invece, ai rapporti
tra edifici confinanti isolatamente considerati»
(sentenza n. 114 del 2012; nello stesso senso, sentenza n.
232 del 2005)”.
La medesima pronuncia ha altresì osservato che “i
medesimi principi sono stati ribaditi anche dopo
l’introduzione dell’art. 2-bis del TUE, da parte dell’art.
30, comma 1, lettera a), del decreto-legge 21.06.2013, n. 69
(Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia),
convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della
legge 09.08.2013, n. 98. La disposizione, infatti, ha
sostanzialmente recepito l’orientamento della giurisprudenza
costituzionale, inserendo nel testo unico sull’edilizia i
principi fondamentali della vincolatività, anche per le
Regioni e le Province autonome, delle distanze legali
stabilite dal d.m. n. 1444 del 1968 e dell’ammissibilità
delle deroghe, solo a condizione che siano «inserite in
strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto
complessivo e unitario di determinate zone del territorio»
(sentenza n. 185 del 2016; nello stesso senso, ex plurimis,
sentenza n. 189 del 2016)”.
Alla luce di tali principi il Collegio ritiene pertanto che,
al di fuori di queste specifiche e limitate ipotesi previste
dall’ultimo comma dell’art. 9 del DM 02.04.1968, n. 1444,
una legge regionale che incida in maniera diretta su diritti
soggettivi già sorti in forza di norme integrative dell’art.
873 c.c., siano esse derivanti dal citato decreto
ministeriale n. 1444 del 1968 o dai regolamenti locali, di
fatto annullandoli, deve ritenersi violare la potestà
legislativa statale in materia di ordinamento civile.
9. Il secondo profilo che a giudizio del Collegio
risulta al contempo violato è quello della lesione della
sfera di autonomia normativa comunale in violazione degli
artt. 5, 114, comma 2, 117, comma 6 e 118 della Costituzione
(con riguardo a quest’ultima norma per la violazione del
principio della sussidiarietà verticale).
Infatti la legge statale storicamente riconosce in capo al
Comune l’esercizio delle competenze pianificatorie e
regolatorie dell’uso del territorio (cfr. la legge
17.08.1942, n. 1150) e gli articoli 114, comma 2, e 117,
comma 6, della Costituzione, nonché l’art. 4 della legge
05.06.2003, n. 131, riconoscono un ambito di autonomia
regolamentare dei Comuni che, qualora come nel caso di
specie sia da esercitare in una funzione attribuita dalla
legislazione dello Stato, la Regione non può conculcare.
Sul punto devono pertanto ritenersi ancora validi i principi
affermati dalla Corte Costituzionale in un contesto
antecedente alla riforma del Titolo V della Costituzione, ma
che risultano ancor più attuali per effetto dell’espresso
riconoscimento, ad opera di tale riforma, dell’autonomia
normativa dei Comuni nella Costituzione.
La Corte Costituzionale ha infatti affermato che “gli
artt. 5 e 128 della Costituzione presuppongono una posizione
di autonomia dei comuni, che le leggi regionali non possono
mai comprimere fino a negarla” (sentenze nn. 286 e 83
del 1997), precisando che tale principio deve essere inteso
nel senso che "il potere dei comuni di autodeterminarsi
in ordine all’assetto e alla utilizzazione del proprio
territorio non costituisce elargizione che le regioni,
attributarie di competenza in materia urbanistica siano
libere di compiere", in quanto l’art. 128 della
Costituzione "garantisce, con previsione di principio,
l’autonomia degli enti infraregionali, non solo nei
confronti dello Stato, ma anche nei rapporti con le stesse
regioni" (cfr. sentenza n. 83 del 1997; si vedano
altresì le sentenze n. 157 del 1990; n. 212 del 1991; n. 61
del 1994).
Pertanto a giudizio del Collegio l’art. 64 della legge
regionale 30.12.2016, n. 30, avendo esautorato i Comuni dal
disciplinare in conformità con le specifiche esigenze di un
ordinato sviluppo del proprio territorio ed in modo equo i
rapporti tra i proprietari confinanti per una intera
categoria di interventi edilizi che corrispondono a quelli
attuativi della legge sul piano casa, viola l’autonomia
normativa dei Comuni riconosciuta dagli articoli 5, 114,
comma 2, 117, comma 6, e 118 della Costituzione.
10. Infine risulta altresì violato l’art. 3 della
Costituzione sotto il profilo della ragionevolezza e della
disparità di trattamento che costituiscono un parametro
particolarmente rilevante rispetto alla norma della cui
legittimità costituzionale si dubita che è una norma di
interpretazione autentica al primo comma, e retroattiva al
secondo comma, che per essere costituzionalmente legittima
deve trovare adeguata giustificazione sul piano della
ragionevolezza e non deve contrastare con altri valori ed
interessi costituzionalmente protetti (ex pluribus
cfr. Corte Costituzionale n. 73 del 2017; n. 170 del 2013,
nonché le sentenze n. 78 del 2012 e n. 209 del 2010).
Infatti la previsione, nell’ambito degli strumenti
urbanistici e nei regolamenti comunali, di una distanza di
cinque metri dal confine persegue chiaramente una finalità
di carattere perequativo, imponendo una ripartizione equa,
in parti uguali, del sacrificio derivante dal necessario
rispetto della distanza di dieci metri da pareti finestrate
prevista dal DM 02.04.1968, n. 1444.
In mancanza dell’operatività di una disposizione comunale di
questo tipo, il soggetto preveniente costringe infatti il
prevenuto ad arretrare per rispettare la distanza di dieci
metri da pareti finestrate compromettendo seriamente il suo
diritto ad edificare qualora lo stesso non possegga una
superficie residua del lotto sufficiente a conservare le
facoltà edificatorie che il medesimo lotto può esprimere in
base allo strumento urbanistico.
Inoltre una tale eventualità può potenzialmente
compromettere anche gli interessi pubblici coinvolti nella
pianificazione urbanistica creando elementi edilizi
estemporanei e distonici rispetto all’ordinato assetto
urbanistico dato dalla presenza di caratteristiche
tipologiche e architettoniche omogenee in un determinato
ambito territoriale.
Pertanto la norma di cui all’art. 64 della legge regionale
30.12.2016, n. 30, consentendo la deroga alle distanze dai
confini per i soli interventi di carattere eccezionale
attuativi della legge sul piano casa, risulta anche
irragionevole e discriminatoria perché introduce una
disciplina non imparziale che favorisce solo chi intende dar
corso ad un siffatto intervento edilizio a discapito del
vicino confinante, comprime la posizione giuridica di quest’ultimo
che ha la consistenza di un vero e proprio diritto
soggettivo, e finisce per comportare elementi di squilibrio
e distorsione nelle relazioni tra proprietari confinanti
determinando situazioni di iniquità nei rapporti
intersoggettivi.
Inoltre la posizione del terzo confinante nonostante abbia
la medesima natura di diritto soggettivo perfetto finisce in
tal modo per subire una diversa tutela a fronte di uno
stesso intervento edilizio a seconda che venga realizzato in
attuazione delle norme sulla legge regionale sul piano casa,
o in forza delle ordinarie norme del piano regolatore.
Nel primo caso il vicino non può che costruire in
arretramento, in quanto è privo dei rimedi giuridici per
reagire alla compressione del proprio ius edificandi,
nel secondo caso può ottenere una tutela ripristinatoria
reale.
Sotto questo profilo la norma di interpretazione autentica
di cui all’art. 64, comma 1, e la norma retroattiva di cui
al comma 2, risultano violare l’art. 3 della Costituzione
sotto il profilo della ragionevolezza e della disparità di
trattamento.
11. In conclusione il Collegio ritiene
rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 64 della legge
regionale 30.12.2016, n. 30, nella parte in cui dispone la
non applicabilità delle disposizioni contenute negli
strumenti urbanistici e nei regolamenti dei Comuni per gli
interventi edilizi applicativi della legge regionale
08.07.2009, n. 14, per violazione degli artt. 3, 5, 114,
comma 2, 117, comma 2, lett. l), e comma 6, nonché 118 della
Costituzione.
Si deve pertanto disporre la sospensione del presente
giudizio e la rimessione della questione all’esame della
Corte costituzionale, ai sensi dell’art. 23, della legge
11.03.1953, n. 87, per la decisione sulla prospettata
questione di costituzionalità.
P.Q.M.
Il Tribunale amministrativo regionale per
il Veneto (Sezione Seconda) solleva questione di legittimità
costituzionale dell’art. 64 della legge regionale
30.12.2016, n. 30, per contrasto con gli artt. 3, 5, 114,
comma 2, 117, comma 2, lett. l), e comma 6, nonché 118 della
Costituzione, secondo quanto stabilito in motivazione. |
APPALTI SERVIZI:
Rimborso forfettario spese sostenute da associazioni di
volontariato concorrenti a gara pubblica per affidamento
servizio 118.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Appalto
servizi – Servizio emergenza 118 – Riservato ad associazioni
di volontariato – Rimborso forfettario spese sostenute –
Illegittimità.
E’ illegittima la lex specialis
della gara, riservata ad associazioni di volontariato,
bandita per l’affidamento del servizio di emergenza 118, che
in più punti contempla un rimborso forfettario mensile fisso
in misura massima, in violazione delle innovative
disposizioni del d.lgs. 03.07.2017, n. 117, che viceversa
impongono in via esclusiva il rimborso sulla base delle
spese effettivamente sostenute dagli enti no profit (1).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che l’art. 17, comma 3,
d.lgs. 03.07.2017, n. 117 prevede che “L’attività del
volontario non può essere retribuita in alcun modo nemmeno
dal beneficiario. Al volontario possono essere rimborsate
dall’ente del Terzo settore tramite il quale svolge
l’attività soltanto le spese effettivamente sostenute e
documentate per l’attività prestata, entro limiti massimi e
alle condizioni preventivamente stabilite dall’ente
medesimo. Sono in ogni caso vietati rimborsi spese di tipo
forfetario”.
L’art. 33, comma 2, d.lgs. n. 117 del 2017 dispone “Per
l’attività di interesse generale prestata le organizzazioni
di volontariato possono ricevere, soltanto il rimborso delle
spese effettivamente sostenute e documentate, salvo che tale
attività sia svolta quale attività secondaria e strumentale
nei limiti di cui all’articolo 6”.
Infine, l’art. 56, comma 2, d.lgs. n. 117 del 2017 statuisce
che “Le convenzioni di cui al comma 1 possono prevedere
esclusivamente il rimborso alle organizzazioni di
volontariato e alle associazioni di promozione sociale delle
spese effettivamente sostenute e documentate” (TAR
Puglia-Bari, Sez. II,
sentenza 11.01.2019 n. 48 - commento tratto da e
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Riserva di legge statale di cui all’art. 25, c. 2, Cost. -
Oblazione di cui all’art. 36 TUE – Adempimento del
procedimento amministrativo, estraneo allo schema
penalistico – Legislatore regionale – Autonoma
quantificazione della misura dell’oblazione – Espressione
della funzione di governo del territorio.
La riserva di legge statale di cui
all’art. 25, secondo comma, Cost. si estende a tutte le
vicende modificative ed estintive della punibilità, rendendo
così illegittimi anche gli interventi normativi delle
Regioni sulle cause di estinzione del reato (sentenze n. 183
del 2006, n. 70 del 2005, n. 196 del 2004).
Nondimeno, nelle materie di loro competenza le Regioni
possono concorrere a precisare secundum legem i presupposti
applicativi di norme penali, come può verificarsi nei casi
in cui la legge statale subordina effetti incriminatori o
decriminalizzanti ad atti amministrativi (o legislativi)
regionali (sentenza n. 46 del 2014; nello stesso senso,
sentenza n. 63 del 2012).
L’oblazione di cui all’art. 36 TUE appare tuttavia meglio
qualificabile come un adempimento del procedimento
amministrativo, estraneo allo schema penalistico, che
assolve ad una funzione in parte ripristinatoria (laddove
consente all’amministrazione di ottenere ora per allora
l’importo corrispondente agli oneri concessori) ed in parte
sanzionatoria (laddove si compone anche di una somma
ulteriore rispetto a quanto originariamente dovuto).
In altri termini, l’effetto estintivo del reato è
determinato da un atto amministrativo, il permesso in
sanatoria; e la scelta del legislatore regionale di
quantificare autonomamente la misura dell’oblazione
interviene su un elemento che concorre a formare il
procedimento destinato a sfociare in quell’atto, ma non
altera il meccanismo estintivo del reato, che si fonda sulla
verifica della “doppia conformità” dell’intervento.
Tale scelta, appare espressiva della funzione di «governo
del territorio» tipica della disciplina urbanistica ed
edilizia, rimessa alla potestà legislativa delle Regioni nel
rispetto dei principi fondamentali stabiliti con leggi dello
Stato (art. 117, terzo comma, Cost.), ed in particolare di
quelli “desumibili” dal TUE, come sancito dall’art. 1 dello
stesso.
...
Procedimento di sanatoria degli interventi edilizi eseguiti
in base ad un titolo successivamente annullato – Sanatoria
ex art. 36 d.P.R. n. 380/2001 – Minor disvalore – Previsioni
di identiche conseguenze – Art. 22, c. 2, lett. s), l.r.
Lazio n. 15/2008 – Illegittimità costituzionale.
Nel caso di cui all’art. 20 della legge
regionale del Lazio 11.08.2008, n. 15 (che disciplina il
procedimento di sanatoria degli interventi edilizi eseguiti
in base a titolo abilitativo successivamente annullato),
l’annullamento del titolo è indicativo dell’illegittimità
sostanziale dell’intervento edilizio, rispetto al quale si
renderebbe necessario il ricorso all’ordinario iter
repressivo con la demolizione del manufatto, cui
l’amministrazione decide invece di soprassedere per ragioni
di materiale impossibilità; nel caso di cui all’art. 22,
invece, è sufficiente disporre la regolarizzazione
dell’aspetto formale dell’intervento realizzato, una volta
accertato che lo stesso è comunque pienamente conforme alla
normativa urbanistico-edilizia vigente ed a quella
pregressa.
Significativo è il fatto che la disciplina statale –agli
artt. 36 e 38 TUE– preveda costi differenziati per le due
forme di sanatoria dell’abuso, in termini che non si
giustificano se non in ragione dell’evidente minor disvalore
della condotta di chi abbia realizzato un intervento
conforme alla normativa urbanistico-edilizia.
La previsione di identiche conseguenze per condotte
omogenee, ma caratterizzate da un minor disvalore dell’una
rispetto all’altra, si traduce in una violazione del
principio di ragionevolezza che designa l’illegittimità
costituzionale dell’art. 22, comma 2, lettera a), della
legge della Regione Lazio 11.08.2008, n. 15 (Vigilanza
sull’attività urbanistico-edilizia). per violazione
dell’art. 3 Cost.
(Corte Costituzionale,
sentenza 09.01.2019 n. 2 - link a
www.ambientediritto.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Termine per proporre l’azione di risarcimento danni
conseguente all’annullamento giurisdizionale del
provvedimento lesivo.
---------------
Risarcimento danni – Azione risarcitoria – Conseguente ad
annullamento giurisdizionale del provvedimento – Termine –
Dies a quo – Individuazione.
Il ricorrente asseritamente leso
dall’attività amministrativa illegittima, ove non proponga
azione autonoma ex art. 30, comma 3, c.p.a., è onerato ad
agire per il ristoro dei danni entro centoventi dal
passaggio in giudicato della sentenza che, accogliendo la
domanda caducatoria avanzata dallo stesso, abbia annullato
l’atto amministrativo, quale precondizione necessaria per
l’integrazione di un contegno illecito della p.a. ai sensi
dell’art. 2043 c.c. (1).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che il richiamato
differimento del
dies a quo per il decorso del termine decadenziale,
previsto dal comma 5 dell’art. 30 c.p.a., è strettamente
correlato alla circostanza che l’inoppugnabile pronuncia di
annullamento derivi da un’azione proposta dal medesimo
deducente che poi insta anche per il ristoro dei pregiudizi
subiti.
Il descritto ed inscindibile legame si evince dal tenore
letterale della norma, la quale -sul presupposto che sia
stata esperita azione di annullamento ad opera del
danneggiato- consente a quest’ultimo di agire per il ristoro
del pregiudizio lamentato “nel corso del giudizio o,
comunque, sino centoventi giorni dal passaggio in giudicato
della relativa sentenza”.
La legittimazione a presentare “nel corso del giudizio”
caducatorio la domanda risarcitoria, per il tramite di
motivi aggiunti, può essere riconosciuta al solo ricorrente
che abbia chiesto l’annullamento dell’atto illegittimo ai
sensi dell’art. 29 c.p.a., ferma la facoltà per il medesimo
di agire per il ristoro entro centoventi giorni dal
passaggio in giudicato della “relativa sentenza”, con
chiara ed univoca inerenza tra il giudizio di annullamento
da lui coltivato e la conseguente pronuncia.
La ratio sottesa alla riportata interpretazione,
basata sulla littera legis, si rinviene dell’esigenza
di circoscrivere il favor del termine più ampio per la
proposizione della domanda di risarcimento nei riguardi del
solo ricorrente, che con diligenza abbia già agito per la
caducazione dell’atto amministrativo illegittimo.
La circostanza che il ricorrente sia stato intimato nei
giudizi di annullamento del provvedimento di revoca e sia
indicato formalmente tra le parti nella pronuncia del
Consiglio di Stato non è di per sé idonea a legittimare
l’azione di cui all’art. 30, comma 5, c.p.a.. Infatti,
sebbene il giudicato caducatorio dell’illegittima revoca
abbia prodotto effetti vantaggiosi sul piano sostanziale per
tutti i partecipanti alla procedura selettiva utilmente
collocati in graduatoria, tra cui il deducente, analoghi
effetti non si rinvengono sul versante processuale della
dilatazione temporale del termine decadenziale previsto
dall’art. 30, comma 5 che, secondo quanto rilevato, trova
una limitata applicazione nei soli riguardi del danneggiato
che abbia agito per l’annullamento.
Nella delineata prospettiva, giova richiamare la disciplina
civilistica prevista dall’art. 1310, comma 1, c.c., che
nella diversa ipotesi del termine di prescrizione estende
gli effetti favorevoli degli atti interruttivi posti in
essere da un debitore o creditore in solido anche nei
confronti degli altri debitori o creditori, mentre, di
contro, l’art. 2964, comma 1, c.c. pone un limite
all’estensione del più vantaggioso regime giuridico
prescrizionale ove ricorra un termine decadenziale,
statuendo che “quando un diritto deve esercitarsi entro
un dato termine sotto pena di decadenza, non si applicano le
norme relative all'interruzione della prescrizione”.
Con riferimento all’indicata e ritenuta esperibilità ad
opera del deducente dell’actio iudicati per
l’esecuzione della sentenza del Consiglio di Stato, torna
utile evidenziare che, in esito alla riforma introdotta dal
D.Lgs. n. 195/2011, è stato abrogato il comma 4 dell’art.
112 c.p.a., previsione foriera di molteplici perplessità in
ambito dottrinale e giurisprudenziale, che in sede di
ottemperanza consentiva al ricorrente di agire anche per il
ristoro, non richiesto in pendenza del giudizio di
legittimità, dei danni pregressi al giudicato.
Il vigente regime processuale ammette quindi in fase di
ottemperanza solo l’azione risarcitoria per i pregiudizi
intervenuti successivamente all’inoppugnabilità della
sentenza, a conferma della distinta efficacia del giudicato
annullatorio sul piano dell’utilità sostanziale e sul piano
del differimento del decorso del termine decadenziale
previsto dal comma 5 dell’art. 30 c.p.a. (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 09.01.2019 n. 37 - commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Trasmissione al 18.04.2018 del Documento di gara unico
europeo in formato cartaceo.
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Contratti della Pubblica amministrazione - Documento di
gara unico europeo – Trasmissione il 18.04.2018 in formato
cartaceo – Possibilità
Non possono essere escluse da una
gara le partecipanti che hanno ancora al 18.04.2018, secondo
la previsione dell’art. 85 Codice appalti, trasmesso un
Documento di gara unico europeo (DGUE) in formato cartaceo,
essendo l’obbligo, in Italia, rinviato al 18.10.2018,
secondo la generale previsione di cui all’art. 40 del
medesimo Codice (1).
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(1) Ha chiarito il Tar, con una approfondita
motivazione, che l’utilizzo del modello in formato
elettronico del Documento di gara unico europeo (DGUE) in
forma diversa dal cartaceo, è stato associato dalla
normativa comunitaria alla contestuale necessità di
comunicazione in forma elettronica.
Solo tale contestualità garantisce, oltre alla evidente
semplificazione mediante un modello unico, complessivo di
autodichiarazioni, l’effettiva immodificabilità di quanto
prodotto, poiché solo il contestuale invio in formato
elettronico (tracciabile) può assicurare che il file
immodificabile non sia stato sostituito (TAR Sicilia-Catania,
Sez. I,
sentenza 08.01.2019 n 12 - commento tratto da e
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Alla Corte di giustizia l’affidamento in house ex
art. 192, comma 2, del Codice dei contratti.
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●
Contratti della Pubblica amministrazione - In house – Art.
192, comma 2, d.lgs. n. 50 del 2016 – Criterio di
affidamento subordinato rispetto agli affidamenti tramite
gara di appalto – Rimessione Corte di Giustizia Ue.
●
Enti pubblici – Partecipazione azionaria in società -
Organismo pluriparecipato da altre amministrazioni –
Acquisizione di quota di partecipazione – Divieto –
Condizioni ex art. 4, comma 1, t.u. n. 175 del 2016 –
Rimessione Corte di Giustizia Ue.
●
Deve essere rimessa alla Corte di giustizia Ue la questione
se il diritto dell’Unione europea (e segnatamente il
principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche
e i principio di sostanziale equivalenza fra le diverse
modalità di affidamento e di gestione dei servizi di
interesse delle amministrazioni pubbliche) osti a una
normativa nazionale (come quella dell’art. 192, comma 2, del
‘Codice dei contratti pubblici, approvato con d.lgs. n. 50
del 2016) il quale colloca gli affidamenti in house su un
piano subordinato ed eccezionale rispetto agli affidamenti
tramite gara di appalto: i) consentendo tali affidamenti
soltanto in caso di dimostrato fallimento del mercato
rilevante, nonché ii) imponendo comunque all’amministrazione
che intenda operare un affidamento in regìme di delegazione
interorganica di fornire una specifica motivazione circa i
benefìci per la collettività connessi a tale forma di
affidamento (1).
●
Deve essere rimessa alla Corte di giustizia Ue la
questione se il diritto dell’Unione europea (e in
particolare l’art. 12, paragrafo 3 della Direttiva
2014/24/UE in tema di affidamenti in house in regìme di
controllo analogo congiunto fra più amministrazioni) osti a
una disciplina nazionale (come quella dell’art. 4, comma 1,
del Testo Unico delle società partecipate, approvato con
d.lgs. n. 175 del 2016) che impedisce a un’amministrazione
pubblica di acquisire in un organismo pluriparecipato da
altre amministrazioni una quota di partecipazione (comunque
inidonea a garantire controllo o potere di veto) laddove
tale amministrazione intende comunque acquisire in futuro
una posizione di controllo congiunto e quindi la possibilità
di procedere ad affidamenti diretti in favore dell’Organismo
pluripartecipate (2).
---------------
(1) La Sezione dubita che le disposizioni del
diritto interno, nel subordinare gli affidamenti in house a
condizioni aggravate e a motivazioni rafforzate rispetto
alle altre modalità di affidamento, siano autenticamente
compatibili con le pertinenti disposizioni e princìpi del
diritto primario e derivato dell’Unione europea.
In particolare, l’art. 192, comma 2, del Codice degli
appalti pubblici (d.lgs. n. 50 del 2016) impone che
l’affidamento in house di servizi disponibili sul
mercato sia assoggettato a una duplice condizione, che non è
richiesta per le altre forme di affidamento dei medesimi
servizi (con particolare riguardo alla messa a gara con
appalti pubblici e alle forme di cooperazione orizzontale
fra amministrazioni):
a) la prima condizione consiste nell’obbligo di motivare le
condizioni che hanno comportato l’esclusione del ricorso al
mercato. Tale condizione muove dal ritenuto carattere
secondario e residuale dell’affidamento in house, che appare
poter essere legittimamente disposto soltanto in caso di,
sostanzialmente, dimostrato ‘fallimento del mercato’
rilevante a causa di prevedibili mancanze in ordine a “gli
obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di
economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale
impiego delle risorse pubbliche” (risultando altrimenti
tendenzialmente precluso), cui la società in house invece
supplirebbe;
b) la seconda condizione consiste nell’obbligo di indicare, a
quegli tessi propositi, gli specifici benefìci per la
collettività connessi all’opzione per l’affidamento in house
(dimostrazione che non sarà invece necessario fornire in
caso di altre forme di affidamento –con particolare riguardo
all’affidamento tramite gare di appalto-).
Anche qui la previsione dell’ordinamento italiano di forme
di motivazione aggravata per supportare gli affidamenti
in house muove da un orientamento di sfavore verso gli
affidamenti diretti in regime di delegazione interorganica e
li relega ad un ambito subordinato ed eccezionale rispetto
alla previa ipotesi di competizione mediante gara tra
imprese.
Il restrittivo orientamento evidenziato dalla normativa
italiana del 2016 si colloca in continuità con orientamenti
analoghi manifestati dall’ordinamento almeno dal 2008 (sin
dall’art. 23-bis, d.l. n. 112 del 2008).
Giova ricordare che con sentenza 17.11.2010, n. 325 la Corte
costituzionale ha riconosciuto alla legge di poter prevedere
“limitazioni dell'affidamento diretto più estese di
quelle comunitarie” (per restringere ulteriormente le
eccezioni alla regola della gara ad evidenza pubblica, per
le quali il diritto dell’UE avrebbe solo previsto un minimo
inderogabile).
La stessa giurisprudenza costituzionale ha ribadito con
ulteriori pronunce che l’affidamento in regime di
delegazione interorganica costituisce “un’eccezione
rispetto alla regola generale dell’affidamento a terzi
mediante gara ad evidenza pubblica” (Corte cost.
20.03.2013, n. 46).
Si tratta a questo punto di stabilire se questo restrittivo
orientamento ultradecennale dell’ordinamento italiano in
tema di affidamenti in house risulti conforme con i princìpi
e disposizioni del diritto dell’Unione europea (con
particolare riguardo al principio della libera
organizzazione delle amministrazioni pubbliche sancita
dall’art. 2 della Direttiva 2014/23/UE del Parlamento
europeo e del Consiglio, del 26.02.2014, sull’aggiudicazione
dei contratti di concessione).
Ha osservato al riguardo la Sezione che, in tema di
acquisizione dei servizi di interesse degli organismi
pubblici, si fronteggiano due princìpi generali la cui
contestuale applicazione può comportare antinomie:
a) da un lato, il principio della libertà e autodeterminazione, per
i soggetti pubblici, di organizzare come meglio stimano le
prestazioni dei servizi di rispettivo interesse, senza che
vincoli di particolare modalità gestionale derivanti
dall’ordinamento dell’UE o da quello nazionale (ad es.:
regime di affidamento con gara) rispetto a un'altra (ad es.:
regime di internalizzazione ed autoproduzione);
b) (dall’altro) il principio della piena apertura concorrenziale
dei mercati degli appalti pubblici e delle concessioni.
Si osserva che il principio sub b) sembra presentare una
valenza sussidiaria rispetto al principio sub a) (ossia,
rispetto al principio della libertà nella scelta del modello
gestionale).
Infatti, la prima scelta che viene demandata alle
amministrazioni è di optare fra il regime di autoproduzione
e quello di esternalizzazione (modelli che appaiono
collocati dall’ordinamento dell’UE su un piano di
equiordinazione) e, solo se si sia optato per il secondo di
tali modelli, incomberà sull’amministrazione l’obbligo di
operare nel pieno rispetto dell’ulteriore principio della
massima concorrenzialità fra gli operatori di mercato.
Se questi sono gli esatti termini entro della questione, e
se si considera che l’in house providing è per sua
natura una delle forme caratteristiche di internalizzazione
e autoproduzione, risulta che lo stesso in house
providing rappresenta non un’eccezione residuale, ma una
normale opzione di base, al pari dell’affidamento a terzi
tramite mercato, cioè tramite gara: paradigma, quest’ultimo,
che non gode di alcuna pregiudiziale preferenza.
Insomma, da parte dell’ordinamento dell’UE gli affidamenti
in house (sostanziale forma di autoproduzione) non
sembrano posti in una posizione subordinata rispetto agli
affidamenti con gara; al contrario, sembrano rappresentare
una sorte di
prius logico rispetto a qualunque scelta
dell’amministrazione pubblica in tema di autoproduzione o
esternalizzazione dei servizi di proprio interesse.
In altri termini, sembra che per l’ordinamento UE da parte
di una pubblica amministrazione si possa procedere all’esternalizzazione
dell’approvvigionamento di beni, servizi o forniture solo
una volta che le vie interne, dell’autoproduzione ovvero
dell’internalizzazione, non si dimostrano precorribili o
utilmente percorribili. Il che sembra corrispondere ad
elementari esigenze di economia, per cui ci si rivolge
all’esterno solo quando non si è ben in grado di provvedere
da soli: nessuno, ragionevolmente, si rivolge ad altri
quando è in grado di provvedere, e meglio, da solo.
La giurisprudenza della Corte di giustizia dell’UE ha
chiarito a propria volta che l’ordinamento comunitario non
pone limiti alla libertà, per le amministrazioni, di optare
per un modello gestionale di autoproduzione, piuttosto che
su un modello di esternalizzazione.
In particolare, con la sentenza della Grande Sezione del
09.06.2009, in causa C-480/06, Commissione CE c. Governo
della Germania federale, la Corte di giustizia ha chiarito
che “un’autorità pubblica può adempiere ai compiti di
interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri
strumenti senza essere obbligata a far ricorso ad entità
esterne non appartenenti ai propri servizi e [può] farlo
altresì in collaborazione con altre autorità pubbliche”
(nell’occasione, la Corte di giustizia ha richiamato i
princìpi già espressi con la sentenza della Terza Sezione
del 13.11.2008 in causa C-324/07, Coditel Brabant).
Si pone a questo punto la questione della conformità fra da
un lato i richiamati princìpi e disposizioni del diritto
dell’Unione europea (i quali sembrano comportare una piena
equiordinazione fra le diverse modalità di assegnazione dei
servizi di interesse delle amministrazioni pubbliche, se non
addirittura la prevalenza logica del sistema di
autoproduzione rispetto ai modelli di esternalizzazione) e,
dall’altro, le previsioni del diritto nazionale italiano (in
particolare, il comma 2 dell’art. 192 del Codice degli
appalti pubblici del 2016) i quali pongono invece gli
affidamenti in house in una posizione subordinata e
subvalente e –come detto- li ammettono soltanto in caso di
dimostrato ‘fallimento del mercato’ di riferimento e
a condizione che l’amministrazione dimostri in modo puntuale
gli specifici benefìci per la collettività connessi a tale
forma di gestione. Come dire, pretermettendo la
ragionevolezza del loro comportamento economico, si presume
senz’altro che le amministrazioni pubbliche non siano in
grado di provvedere autonomamente solo perché non agiscono
nel mercato; e per superare questa presunzione occorre
dimostrare che il mercato, che ha comunque la priorità
perché è mercato e non perché qui assicura condizioni
migliori dell’autoproduzione, non è in concreto capace di
corrispondere appieno all’esigenza di approvvigionamento.
Le restrittive condizioni poste dal diritto italiano
potrebbero giustificarsi in relazione ai princìpi e alle
disposizioni del diritto dell’UE solo a condizione che lo
stesso diritto dell’Unione riconosca a propria volta
priorità sistematica al principio di messa in concorrenza
rispetto a quello della libera organizzazione. Ma così, ad
avviso della Sezione, non pare essere.
Occorre inoltre chiarire se (ferma restando la sostanziale
equivalenza, per il diritto dell’UE, fra le diverse forme di
approvvigionamento di interesse delle amministrazioni) i
singoli ordinamenti nazionali possano legittimamente porre
una di tali forme di affidamento e gestione su un piano che
si presume subordinato, assegnando comunque la priorità e la
prevalenza al principio di apertura concorrenziale rispetto
a quello della libera organizzazione delle amministrazioni
pubbliche.
(2) Ha affermato la Sezione che il particolarissimo schema della
partecipazione societaria che si configura come organismo ‘in
house’ per alcune amministrazioni pubbliche e come
organismo ‘non-in house’ per altre amministrazioni
pubbliche non sembra in contrasto con il diritto
comunitario.
Tale schema, tuttavia, sembra sollevare seri dubbi di
contrasto con le previsioni del diritto interno, di cui
occorre quindi verificare la compatibilità con il diritto
dell’UE.
In particolare, l’art. 4, comma 1, del Testo unico sulle
società partecipate stabilisce che “le amministrazioni
pubbliche non possono, direttamente o indirettamente,
costituire società aventi per oggetto attività di produzione
di beni e servizi non direttamente necessarie per il
perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né
acquisire o mantenere partecipazioni, anche di minoranza, in
tali società”.
La disposizione appare in linea l’indirizzo dell’ordinamento
italiano inteso a ridurre dal punto di vista quantitativo e
ad ottimizzare dal punto di vista qualitativo le
partecipazioni delle amministrazioni pubbliche in società di
capitali.
La possibilità che un’amministrazione ‘non affidante’
decida in un secondo momento di acquisire il controllo
analogo (congiunto) e di procedere all’affidamento diretto
del servizio in favore della società che si configura come
organismo ‘in house’ per alcune amministrazioni
pubbliche e come organismo ‘non-in house’ per altre
amministrazioni pubbliche appare esclusa dal diritto
nazionale in quanto -se (per un verso) la gestione dei
servizi di igiene urbana rientra di certo fra le finalità
istituzionali degli enti locali ‘non affidanti’- per
altro verso, la semplice possibilità che l’acquisto del
controllo analogo congiunto e l’affidamento diretto possano
intervenire in futuro sembra non corrispondere al criterio
della “stretta necessarietà” –evidentemente da
considerare come attuale e non come meramente ipotetica e
futura- che appare imposto dal richiamato art. 4, comma 1.
Occorre a questo punto interrogarsi circa la conformità fra
il diritto dell’UE (in particolare, fra l’art. 5 della
Direttiva 2014/24/UE), che ammette il controllo analogo
congiunto nel caso di società non partecipata unicamente
dalle amministrazioni controllanti e il diritto interno (in
particolare, l’art. 4, comma 1, cit., interpretato nei detti
sensi) che appare non consentire alle amministrazioni di
detenere quote minoritarie di partecipazione in un organismo
a controllo congiunto, neppure laddove tali amministrazioni
intendano acquisire in futuro una posizione di controllo
congiunto e quindi la possibilità di procedere ad
affidamenti diretti in favore dell’organismo
pluripartecipato (Consiglio
di Stato, Sez. V,
ordinanza 07.01.2019 n. 138
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Alla Corte di giustizia UE la disciplina sulle “centrali
di committenza” dei piccoli Comuni nella parte in cui
limita i modelli organizzativi utilizzabili.
La Quinta Sezione del Consiglio di Stato
sottopone al vaglio della Corte di giustizia UE la normativa
interna sugli affidamenti contrattuali da parte dei piccoli
comuni a mezzo delle “centrali di committenza”, nella
parte in cui riduce i modelli organizzativi utilizzabili,
esclude la partecipazione anche di soggetti privati e limita
l’ambito territoriale della loro operatività.
Alla Corte di giustizia UE la disciplina sulle “centrali
di committenza” dei piccoli Comuni nella parte in cui
limita i modelli organizzativi utilizzabili
(Consiglio di Stato, Sez. V,
ordinanza 03.01.2019 n. 68 - commento tratto da e
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Alla Corte di Giustizia Ue l’autonomia dei comuni
nell’affidamento ad una centrale di committenza a due soli
modelli organizzativi.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Stazioni
appaltanti e soggetti aggiudicatori – Previsione di due
modelli organizzativi – Art. 33, comma 3-bis, d.lgs. n. 163
del 2006 – Rimessione alla Corte di giustizia Ue.
Deve essere rimessa alla Corte di
giustizia le questioni:
a) se osta al diritto comunitario una norma nazionale, come l’art.
33, comma 3-bis, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 che limita
l’autonomia dei Comuni nell’affidamento ad una centrale di
committenza a due soli modelli organizzativi quali l’unione
dei comuni se già esistente ovvero il consorzio tra comuni
da costituire;
b) se osta al diritto comunitario, e, in particolare, ai principi
di libera circolazione dei servizi e di massima apertura
della concorrenza nell’ambito degli appalti pubblici di
servizi, una norma nazionale come l’art. 33, comma 3-bis, n.
163 del 2006 che, letto in combinato disposto con l’art. 3,
comma 25, dello stesso decreto, in relazione al modello
organizzativo dei consorzi di comuni, esclude la possibilità
di costituire figure di diritto privato quali, ad es., il
consorzio di diritto comune con la partecipazione anche di
soggetti privati;
c) se osta al diritto comunitario e, in particolare, ai principi di
libera circolazione dei servizi e di massima apertura della
concorrenza nell’ambito degli appalti pubblici di servizi,
una norma nazionale, come l’art. 33, comma 3-bis, che, ove
interpretato nel senso di consentire ai consorzi di Comuni
che siano centrali di committenza di operare in un
territorio corrispondente a quello dei comuni aderenti
unitariamente considerato, e, dunque, al massimo, all’ambito
provinciale, limita l’ambito di operatività delle predette
centrali di committenza (1).
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(1) Ha chiarito la Sezione che l’art. 33, comma
3-bis, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 va letta nel senso che le
amministrazioni aggiudicatrici previste dal Codice dei
contratti pubblici del 2006, vale a dire le amministrazioni
dello Stato, gli enti pubblici territoriali, gli altri enti
pubblici non economici, gli organismi di diritto pubblico,
le associazioni, unioni, consorzi, comunque denominati,
costituiti da siffatti soggetti, possono assumere la
funzione di centrale di committenza, con obbligo, però, per
i Comuni (dapprima con popolazione inferiore ai 5.000
abitanti e, poi, non capoluogo di provincia) di rivolgersi a
centrali di committenza configurate secondo un preciso
modello organizzativo, quello dell’unione dei comuni di cui
all’art. 32 del Testo unico degli enti locali qualora sia
già esistente ovvero quello del consorzio tra i comuni che
si avvale degli uffici delle province (nonché nell’ultima
formulazione anche ad un soggetto aggregatore o alle
province ai sensi della l. 07.04.2014, n. 56).
La disposizione sulle centrali di committenza che operano
per i piccoli comuni appare, dunque, derogatoria rispetto
alla regola generale, limitando il modello organizzativo
utilizzabile a due soli schemi rispetto al più ampio novero
di soggetti che, nella qualità di amministrazioni
aggiudicatrici, potenzialmente possono assumere la veste di
centrale di committenza.
Il modello organizzativo del consorzio tra i comuni –tenuto
conto della definizione di “amministrazione
aggiudicatrice” dell’art. 3, comma 25, in cui il
riferimento è ai “consorzi, comunque denominati,
costituiti da detti soggetti” ovvero ai consorzi
costituiti solamente tra soggetti pubblici– sembra
richiamare una forma di cooperazione tra comuni di tipo
pubblicistico, come quella prevista dall’art. 31 del Testo
unico degli enti locali, che esclude la partecipazione di
soggetti privati.
Ciò comporta un’ulteriore limitazione del modello di
centrale di committenza cui rimettere la funzione di
acquisito di beni e servizi. La disciplina interna non
definisce un ambito di operatività per le centrali di
committenza né nelle disposizioni generali né nella
disposizione speciale per i piccoli comuni; tuttavia,
l’espresso riferimento ai comuni con popolazione inferiore
ai 5.000 abitanti nell’originaria formulazione dell’art. 33,
comma 3-bis, come pure ai comuni non capoluogo di provincia,
nella formulazione più recente, ossia ad una connotazione
territoriale degli enti aderenti, induce a ritenere che
l’ordinamento interno si sia riferito a una corrispondenza
tra il territorio dei comuni ricorrenti alla centrale di
committenza e l’ambito di operatività della stessa. Quest’ultimo
sarebbe limitato al territorio dei comuni compresi
nell’unione dei comuni ovvero costituenti il consorzio.
Nella Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio
relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione
degli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture
2004/18/CE era espresso il favore comunitario verso
l’istituto delle centrali di committenza con implicito
riconoscimento della possibilità di un più ampio ricorso ad
esso.
Nel considerando 15, infatti, si legge: “In alcuni Stati
si sono sviluppate tecniche di centralizzazione delle
committenze. Diverse amministrazioni aggiudicatrici sono
incaricate di procedere ad acquisti o di aggiudicare appalti
pubblici/stipulare accordi quadro destinati ad altre
amministrazioni aggiudicatrici. Tali tecniche consentono,
dato il volume degli acquisti, un aumento della concorrenza
e dell’efficacia della commessa pubblica”; nel
considerando 16, inoltre, si legge che: “Al fine di
tenere conto delle diversità esistenti negli Stati membri,
occorre lasciare a questi ultimi la facoltà di prevedere la
possibilità per le amministrazioni aggiudicatrici di
ricorrere ad accordi quadro, a centrali di committenza, ai
sistemi dinamici di acquisizione ad aste elettroniche e al
dialogo competitivo, quali sono definiti e disciplinati
dalla presente direttiva”.
La Corte di Giustizia delle Comunità europee, con sentenza
20.10.2005, causa C-246/03 Commissione delle Comunità
europee c. Repubblica francese, ha ritenuto (§44) il “mandato
di committenza” ovvero l’incarico affidato ad una
persona giuridica di acquistare in nome e per conto del
mandante beni e servizi, come una prestazione di servizi ai
sensi del diritto comunitario (e le committenze come “prestatori
di servizi”) e (§61) la legge francese esaminata (l.
85-704, successivamente modificata), che riservava detta
prestazione solamente a persone giuridiche di diritto
francese tassativamente enumerate, in contrasto con il
principio della parità di trattamento tra i diversi
prestatori di servizi.
La nozione di “impresa” adottata dal diritto
comunitario ai fini della concorrenza è ampia, tale da
comprendere “qualsiasi entità che esercita un’attività
economica, a prescindere dallo status giuridico di detta
entità e dalle modalità di finanziamento” (Corte di
Giustizia ue 12.12.2013, nella causa C-372-12 Ministero
dello sviluppo economico sull’attività delle SOA; sentenza
06.09.2011, nella causa C-108/10 Scattolon, e sin da Corte
di Giustizia delle Comunità europee, 23.04.1991, nella causa
C-41/90 Klaus Hofner e Elsen). L’“attività economica”
è “qualsiasi attività che consista nell’offrire beni o
servizi su un determinato mercato” (cfr. Corte di
Giustizia delle Comunità europee, sentenza 25.10.2001, nella
causa C-475/99 Ambulanz Glöckner).
Una centrale di committenza è dunque, per il diritto
euro-unitario, un’impresa che offre il servizio
dell’acquisto di beni e servizi a favore delle
amministrazioni aggiudicatrici.
La Sezione dubita che il quadro normativo interno, come
precedentemente ricostruito, sia compatibile con i principi
del diritto euro-unitario richiamati quanto alla scelta:
a) di limitare l’autonomia organizzativa dei piccoli comuni a due
soli modelli di centrali di committenza;
b) di imporre ai piccoli comuni di ricorrere a modelli
organizzativi solamente pubblicistici;
c) di limitare l’ambito di operatività della centrale di
committenza al solo territorio dei comuni presenti
nell’unione dei comuni ovvero costituenti il consorzio.
La scelta legislativa interna di imporre ai piccoli comuni
di utilizzare quali centrali di committenza le unioni dei
comuni se esistenti ovvero di costituire un consorzio di
comuni sembra contrastare con la possibilità del più ampio
ricorso alle centrali di committenza senza limitazione di
forme di cooperazione. Infatti circoscrive i soggetti cui
possono essere affidate funzioni di committenza, senza che
ciò risulti adeguatamente giustificato dalla natura delle
prestazioni, che non prevedono l’esercizio di prerogative
pubblicistiche.
La scelta di ricorrere ad un modello organizzativo che
esclude la partecipazione di soggetti privati, quale il
consorzio di comuni di cui all’art. 31 del Testo unico degli
enti locali, può apparire in contrasto con i principi
euro-unitari di libera circolazione dei servizi e di massima
apertura alla concorrenza, limitando ai soli soggetti
pubblici italiani, tassativamente individuati, l’esercizio
di una prestazione di servizi qualificabile come attività di
impresa e che, in questa prospettiva, potrebbe meglio essere
svolta in regime di libera concorrenza nel mercato interno.
La scelta di limitare l’ambito di operatività delle centrali
di committenza che operano per i piccoli comuni al
territorio comunale sembra, anch’essa, in contrasto con il
principio di libera circolazione dei servizi e il principio
di massima apertura alla concorrenza, poiché istituisce zone
di esclusiva nell’operatività delle centrali di committenza
(Consiglio di Stato, Sez. V,
ordinanza 03.01.2019 n. 68 - commento tratto da e
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Retrocessione parziale di beni espropriati.
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Espropriazione per pubblica utilità – Retrocessione –
Parziale – Presupposti – Individuazione
La retrocessione parziale dei beni
espropriati è subordinata ad una determinazione
amministrativa di inservibilità dei fondi espropriati
all’opera pubblica e, solo dopo che sia stata emanata la
formale dichiarazione di inservibilità, gli espropriati sono
titolari, come per la retrocessione totale, di un diritto
soggettivo, lo jus ad rem, che consente loro di agire per
chiedere la restituzione dei beni espropriati e non
utilizzati (1).
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(1) La retrocessione parziale (già prevista
dagli artt. 60 e 61, l. n. 2359 del 1865 ed ora prevista
dall’art. 47, d.P.R. n. 327 del 2001) si configura quando,
dopo l’esecuzione totale o parziale dell’opera pubblica,
alcuni dei fondi espropriati non abbiano ricevuto la
prevista destinazione e rispetto ad essi può ancora
esercitarsi una valutazione discrezionale circa la
convenienza di utilizzarli in funzione dell’opera
realizzata, sicché tali beni possono essere restituiti solo
se l’Amministrazione abbia dichiarato che essi non servono
più alla realizzazione dell’opera nel suo complesso.
La pretesa alla restituzione, pertanto, è subordinata ad una
valutazione discrezionale dell’amministrazione, rispetto
alla quale l’ex proprietario è titolare di un interesse
legittimo pretensivo, tutelabile innanzi al giudice
amministrativo.
La retrocessione parziale dei beni espropriati, in altri
termini, è subordinata ad una determinazione amministrativa
di inservibilità dei fondi espropriati all’opera pubblica e,
solo dopo che sia stata emanata la formale dichiarazione di
inservibilità, gli espropriati sono titolari, come per la
retrocessione totale, di un diritto soggettivo, lo jus ad
rem, che consente loro di agire per chiedere la
restituzione dei beni espropriati e non utilizzati.
L’art. 47 del testo unico sugli espropri –come la previgente
disciplina disposta dalla legge del 1865- ha preso in
espressa considerazione il caso ordinario in cui il bene sia
stato espropriato in esecuzione del precedente atto di
dichiarazione della pubblica utilità, determinativo della
specifica utilizzazione del medesimo bene, ma non anche i
casi (presi in considerazione dalle leggi emanate dopo la
citata legge del 1865) in cui la dichiarazione di pubblica
utilità sia la conseguenza della approvazione di piani
attuativi e, in particolare, di un piano per gli
insediamenti produttivi.
Si deve pertanto verificare quali siano gli interessi
pubblici che l’Amministrazione può prendere in
considerazione, quando una istanza di retrocessione abbia
per oggetto un’area espropriata in sede di esecuzione di un
piano attuativo ed essa non sia stata specificamente
modificata, per soddisfare interessi pubblici.
Ad avviso della Sezione:
a) la valutazione in ordine all’esistenza di un persistente
interesse pubblico all’attuazione dello strumento
costituisce oggetto di una valutazione ampiamente
discrezionale dell’Amministrazione, sindacabile in sede
giurisdizionale solo in presenza di vizi di macroscopica
illogicità o irragionevolezza o di travisamento del fatto;
b) si deve tenere conto del principio per il quale dopo la scadenza
degli effetti di un piano attuativo pèrdono efficacia i
vincoli preordinati all’esproprio, ma restano fermi gli
effetti urbanistici di natura conformativa, sicché ben può
l’Amministrazione comunale rilasciare i titoli necessari per
attuare il p.i.p. sulle aree già espropriate (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 02.01.2019 n. 22 - link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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URBANISTICA:
Il PIP è
uno strumento urbanistico di natura attuativa, dotato di
efficacia decennale dalla data di approvazione ed avente
valore di piano particolareggiato di esecuzione, la cui
funzione è quella di incentivare le imprese, offrendo ad un
prezzo politico le aree occorrenti per il loro impianto ed
espansione.
Il piano per gli insediamenti produttivi, quindi, non è
soltanto uno strumento di pianificazione urbanistica nel
senso tradizionale, ma è anche uno strumento di politica
economica, perché ha la funzione di incentivare le imprese,
che possono ottenere, ad un prezzo molto più basso del
mercato, previa espropriazione ed urbanizzazione, le aree
occorrenti per il loro impianto o la loro espansione.
---------------
Avendo, per espressa disposizione di legge, il PIP approvato
valore di piano particolareggiato di esecuzione ai sensi
della legge n. 1150 del 1942, allo scadere del termine
decennale il Comune consuma il proprio potere espropriativo,
mentre la destinazione d’uso delle aree già impressa dallo
strumento urbanistico attuativo permane fino a nuova
disciplina.
La giurisprudenza Ha avuto modo di chiarire, in una
fattispecie in cui si è affermata l’applicabilità del
termine decennale di efficacia dei piani particolareggiati
anche ai piani di lottizzazione, che, alla scadenza del
termine di efficacia, sopravvivono la destinazione di zona,
la destinazione ad uso pubblico di un bene privato, gli
allineamenti, le prescrizioni di ordine generale e quant’altro
attenga all’armonico assetto del territorio, trattandosi di
misure che devono rimanere inalterate fino all’intervento di
una nuova pianificazione, non essendo la stessa condizionata
all’eventuale scadenza di vincoli espropriativi o di altra
natura.
Il termine decennale di efficacia previsto per i piani
particolareggiati, in sostanza, si applica solo alle
disposizioni di contenuto espropriativo, non anche alle
prescrizioni urbanistiche di piano, che rimangono pienamente
operanti e vincolanti sino all’approvazione di un nuovo
piano attuativo.
Tali coordinate ermeneutiche si applicano anche al Piano di
Insediamenti Produttivi, avente per legge valore di piano
particolareggiato di esecuzione, sebbene quest’ultimo abbia
la particolarità di non concretarsi nella realizzazione di
una specifica opera pubblica, in quanto, come già
evidenziato, costituisce uno strumento di politica economica
con la funzione di incentivare le imprese, offrendo loro, ad
un prezzo politico, previa espropriazione ed urbanizzazione,
le aree occorrenti per il loro impianto o la loro
espansione.
---------------
4. Nel caso di
specie, l’Amministrazione comunale ha ritenuto che i relitti
di cui è stata chiesta la restituzione dagli eredi Re. siano
ancora funzionali all’opera pubblica.
L’art. 27, comma 1, della legge n. 865 del 1971 stabilisce
che i comuni dotati di piano regolatore generale o di
programma di fabbricazione approvati possono formare, previa
autorizzazione della regione, un piano delle aree da
destinare a insediamenti produttivi.
Il successivo comma terzo prevede che il piano approvato ha
efficacia per dieci anni dalla data del decreto di
approvazione ed ha valore di piano particolareggiato
d’esecuzione ai sensi della legge 17.08.1942, n. 1150, e
successive modificazioni; il comma quinto, inoltre, dispone
che le aree comprese nel piano approvato sono espropriate
dai comuni o loro consorzi secondo quanto previsto dalle
stessa legge in materia di espropriazione per pubblica
utilità.
Il PIP, quindi, è uno strumento urbanistico di natura
attuativa, dotato di efficacia decennale dalla data di
approvazione ed avente valore di piano particolareggiato di
esecuzione, la cui funzione è quella di incentivare le
imprese, offrendo ad un prezzo politico le aree occorrenti
per il loro impianto ed espansione: il piano per gli
insediamenti produttivi, quindi, non è soltanto uno
strumento di pianificazione urbanistica nel senso
tradizionale, ma è anche uno strumento di politica
economica, perché ha la funzione di incentivare le imprese,
che possono ottenere, ad un prezzo molto più basso del
mercato, previa espropriazione ed urbanizzazione, le aree
occorrenti per il loro impianto o la loro espansione.
5. La fondamentale questione di diritto posta dal ricorso in
appello afferisce all’interpretazione del termine di
efficacia decennale del PIP approvato.
Secondo la prospettazione degli appellanti, alla scadenza
del termine decennale, se la dichiarazione di pubblica
utilità del PIP non viene rinnovata, le aree espropriate e
non utilizzate restano prive del loro scopo pubblico e
devono essere restituite.
Tale era la situazione che si sarebbe presentata nel 1993,
allorquando gli eredi Reggiani hanno avanzato al Comune di
Bologna l’istanza di retrocessione.
Un nuovo Piano per gli Insediamenti Produttivi ex art. 27
della legge n. 865 del 1971 è stato successivamente
approvato dal Comune di Bologna con OdG n. 104 del
12.04.1996, esecutivo dal 19.06.1996.
Il provvedimento impugnato, diversamente, ha posto in
rilievo che, dal complesso della normativa recata dall’art.
27 della legge n. 865 del 1971 e dalla giurisprudenza
formatasi sul punto, nel rispetto del termine decennale, il
Comune è tenuto all’espropriazione dei lotti da assegnare
successivamente alle imprese, non anche a procedere, nel
decennio, alle singole assegnazioni dei lotti a favore delle
imprese beneficiarie, sicché non sarebbe in discussione che
le aree di cui trattasi siano state acquisite al patrimonio
indisponibile del Comune in vigenza del Piano per gli
Insediamenti Produttivi approvato nel 1979, ai sensi
dell’art. 21, secondo comma, della legge n. 865 del 1971,
secondo cui “le aree acquistate dal Comune fanno parte
del suo patrimonio indisponibile”.
Il Collegio ritiene che, avendo, per espressa disposizione
di legge, il PIP approvato valore di piano particolareggiato
di esecuzione ai sensi della legge n. 1150 del 1942, allo
scadere del termine decennale, il Comune consuma il proprio
potere espropriativo, mentre la destinazione d’uso delle
aree già impressa dallo strumento urbanistico attuativo
permane fino a nuova disciplina.
La giurisprudenza di questo Consiglio, anche recentemente,
ha avuto modo di chiarire, in una fattispecie in cui si è
affermata l’applicabilità del termine decennale di efficacia
dei piani particolareggiati anche ai piani di lottizzazione,
che, alla scadenza del termine di efficacia, sopravvivono la
destinazione di zona, la destinazione ad uso pubblico di un
bene privato, gli allineamenti, le prescrizioni di ordine
generale e quant’altro attenga all’armonico assetto del
territorio, trattandosi di misure che devono rimanere
inalterate fino all’intervento di una nuova pianificazione,
non essendo la stessa condizionata all’eventuale scadenza di
vincoli espropriativi o di altra natura (cfr. Cons. Stato,
IV, 18.05.2018, n. 3002, che richiama Cons. Stato, IV, n.
4036 del 2017; V, n. 6823 del 2013; IV, n. 2045 del 2012,
cfr. anche Cons. Stato, IV, 22.10.2018, n. 5994).
Il termine decennale di efficacia previsto per i piani
particolareggiati, in sostanza, si applica solo alle
disposizioni di contenuto espropriativo, non anche alle
prescrizioni urbanistiche di piano, che rimangono pienamente
operanti e vincolanti sino all’approvazione di un nuovo
piano attuativo.
Tali coordinate ermeneutiche si applicano anche al Piano di
Insediamenti Produttivi (Cons. Stato, Sez. III, 24.08.2010,
n. 3904), avente per legge valore di piano particolareggiato
di esecuzione, sebbene quest’ultimo abbia la particolarità
di non concretarsi nella realizzazione di una specifica
opera pubblica, in quanto, come già evidenziato, costituisce
uno strumento di politica economica con la funzione di
incentivare le imprese, offrendo loro, ad un prezzo
politico, previa espropriazione ed urbanizzazione, le aree
occorrenti per il loro impianto o la loro espansione.
Pertanto, scaduto il termine decennale dall’approvazione nel
1989 ed essendo stato concluso in precedenza il procedimento
espropriativo con la cessione volontaria di aree, stipulata
in data 02.06.1983, permane la destinazione degli immobili
espropriati al perseguimento ed alla realizzazione degli
obiettivi del PIP
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 02.01.2019 n. 22 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Previa comunicazione possono essere eseguiti, senza alcun
titolo, sia gli interventi di manutenzione straordinaria di
cui all'art. 3, comma 1, lett. b), d.P.R. 06.06.2001 n. 380,
ivi compresa l'apertura di porte interne o lo spostamento di
pareti interne, sempre che non riguardino le parti
strutturali dell'edificio, sia le modifiche interne di
carattere edilizio sulla superficie coperta dei fabbricati
adibiti ad esercizio d'impresa, sempre che non riguardino le
parti strutturali, ovvero le modifiche della destinazione
d'uso dei locali adibiti ad esercizio d'impresa.
Sicché, “È illegittimo l'ordine di demolizione di opere
edilizie e di ripristino dello stato dei luoghi nel caso di
interventi ascrivibili alle fattispecie assoggettate al
regime della comunicazione di inizio lavori (c.i.l.) di cui
all'art. 6, comma 2, nonché 6-bis (c.i.l.a.) d.P.R. n.
380/2001, quando si sostanziano nella diversa distribuzione
interna dell’attività commerciale senza interessamento delle
parti strutturali dell'edificio, trattandosi sostanzialmente
di operazioni di manutenzione straordinaria”.
---------------
Il gravame è fondato in parte, nei sensi e limiti, di
seguito specificati.
Ripercorrendo le censure, espresse in ricorso, sub I),
avverso la contestata ordinanza di demolizione, e sopra
dettagliatamente riferite, osserva il Collegio come sia, in
parte, condivisibile la ricostruzione, in esse proposta, del
regime edilizio delle opere abusive riscontrare, sanzionate
con la più grave misura demolitoria, ex art. 31 d. P. R.
380/2001.
In particolare, s’osserva: a) relativamente alla porzione di
capannone, adibita ad officina meccanica, e segnatamente
alla: a.1) “struttura bipiano in blocchi di laterizio,
autoportanti per il piano terra ed in gas beton per il primo
piano”, realizzata all’interno del capannone e destinata
ad uffici e deposito, collegati tramite una scala in ferro,
va condivisa la riconduzione, della stessa, alla previsione
di cui all’art. 6, comma 2, lett. e-bis), del d. P. R.
380/2001, trattandosi di “modifiche interne di carattere
edilizio sulla superficie coperta dei fabbricati adibiti ad
esercizio d’impresa sempre che non riguardino le parti
strutturali (...)”, per le quali non era richiesto alcun
titolo edilizio, risultando sufficiente una mera
comunicazione.
In giurisprudenza, cfr. la massima seguente: “Previa
comunicazione possono essere eseguiti, senza alcun titolo,
sia gli interventi di manutenzione straordinaria di cui
all'art. 3, comma 1, lett. b), d.P.R. 06.06.2001 n. 380, ivi
compresa l'apertura di porte interne o lo spostamento di
pareti interne, sempre che non riguardino le parti
strutturali dell'edificio, sia le modifiche interne di
carattere edilizio sulla superficie coperta dei fabbricati
adibiti ad esercizio d'impresa, sempre che non riguardino le
parti strutturali, ovvero le modifiche della destinazione
d'uso dei locali adibiti ad esercizio d'impresa” (TAR
Abruzzo–Pescara, Sez. I, 20/02/2017, n. 71).
Si tenga presente, altresì, la recente massima della
Sezione: “È illegittimo l'ordine di demolizione di opere
edilizie e di ripristino dello stato dei luoghi nel caso di
interventi ascrivibili alle fattispecie assoggettate al
regime della comunicazione di inizio lavori (c.i.l.) di cui
all'art. 6, comma 2, nonché 6-bis (c.i.l.a.) d.P.R. n.
380/2001, quando si sostanziano nella diversa distribuzione
interna dell’attività commerciale senza interessamento delle
parti strutturali dell'edificio, trattandosi sostanzialmente
di operazioni di manutenzione straordinaria” (TAR
Campania–Salerno, Sez. II, 06/07/2018, n. 1042) (TAR
Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 02.01.2019 n. 1 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
La realizzazione di un "box-container", stabilmente
appoggiato al terreno, pur nella precarietà dei materiali e
se destinato a svolgere funzione pertinenziale, costituisce
permanente alterazione del terreno ai fini
urbanistico-edilizi e richiede, pertanto, il rilascio del
previo titolo edilizio.
---------------
I manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze
stabili nel tempo, vanno considerati come idonei ad alterare
lo stato dei luoghi, a nulla rilevando la precarietà
strutturale del manufatto, la potenziale rimovibilità della
struttura e l’assenza di opere murarie.
Ciò, in quanto il manufatto non precario non risulta in
concreto deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma
viene destinato ad un utilizzo protratto nel tempo. Infatti,
la “precarietà” dell’opera, che esonera dall’obbligo del
possesso del permesso di costruire, ai sensi dell’art. 3,
comma 1, lett. e.5), d. P. R. n. 380 del 2001, postula un
uso specifico e temporalmente delimitato del bene e non
ammette che lo stesso possa essere finalizzato al
soddisfacimento di esigenze permanenti nel tempo.
---------------
La realizzazione di un container in rapporto di stabile
connessione con il suolo ed utilizzato per soddisfare
esigenze non temporanee dei detentori è soggetto a permesso
di costruire.
---------------
Un box (o un container) stabilmente infisso al suolo e di
non irrilevanti dimensioni non costituisce opera precaria in
quanto, in materia edilizia, il requisito della precarietà,
in presenza del quale è esclusa la necessità del rilascio di
concessione, non dipende dalla più o meno facile
rimovibilità delle parti che compongono il manufatto, ma
dalla sua concreta destinazione a sopperire ad una necessità
contingente ed essere, poi, prontamente rimosso.
---------------
Sempre relativamente alla porzione di capannone, adibita ad
officina meccanica, quanto ai: a.2) “due containers in
materiale metallico”, “di modeste dimensioni”,
installati all’esterno, non può, invece, accogliersi la
prospettazione dei ricorrenti, tendente a qualificarli tra
gli interventi d’edilizia libera, ex art. 3 - comma 1 –
lett. e.6) del d. P. R. 380/2001 (in quanto di volume
inferiore al 20% dell’immobile principale), ovvero ex art. 6
– comma 1 – lett. e-bis) del medesimo d.P.R., attesa la loro
natura precaria; ovvero ancora, a tutto concedere, tendente
a riportarli alla disciplina residuale, di cui al successivo
art. 6-bis, laddove resterebbe esclusa (la necessità del
permesso di costruire, e quindi) l’applicabilità del regime
sanzionatorio, ex art. 31 d. P. R. 380/2001.
In contrario, vale osservare, con la giurisprudenza, che: “La
realizzazione di un "box-container", stabilmente appoggiato
al terreno, pur nella precarietà dei materiali e se
destinato a svolgere funzione pertinenziale, costituisce
permanente alterazione del terreno ai fini
urbanistico-edilizi e richiede, pertanto, il rilascio del
previo titolo edilizio” (TAR Toscana, Sez. III,
28/02/2012, n. 391); “I manufatti non precari, ma
funzionali a soddisfare esigenze stabili nel tempo, vanno
considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, a
nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la
potenziale rimovibilità della struttura e l’assenza di opere
murarie. Ciò, in quanto il manufatto non precario non
risulta in concreto deputato ad un suo uso per fini
contingenti, ma viene destinato ad un utilizzo protratto nel
tempo. Infatti, la “precarietà” dell’opera, che esonera
dall’obbligo del possesso del permesso di costruire, ai
sensi dell’art. 3, comma 1, lett. e.5), d.P.R. n. 380 del
2001, postula un uso specifico e temporalmente delimitato
del bene e non ammette che lo stesso possa essere
finalizzato al soddisfacimento di esigenze permanenti nel
tempo” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 04/09/2015, n.
4116); “La realizzazione di un container in rapporto di
stabile connessione con il suolo ed utilizzato per
soddisfare esigenze non temporanee dei detentori è soggetto
a permesso di costruire” (TAR Umbria, Sez. I,
29/01/2014, n. 66).
Tampoco può ritenersi che l’assimilazione, operata in
ricorso, di tali containers a pertinenze della parte
dell’edificio, adibita ad officina meccanica, possa
implicare, sic et simpliciter, mercé l’applicazione
dell’art. 3, comma 1, lett. e.6), del d. P. R. 380/2001
(secondo cui sono da ritenersi interventi di nuova
costruzione gli interventi pertinenziali che le norme
tecniche degli strumenti urbanistici, in relazione alla
zonizzazione e al pregio ambientale e paesaggistico delle
aree, qualifichino come tali, ovvero che comportino la
realizzazione di un volume, superiore al 20% del volume
dell’edificio principale), la loro esclusione (a cagione del
mero dato quantitativo, costituito dal non superamento del
limite volumetrico del 20%) dal novero degli interventi di “nuova
costruzione”, con conseguente non necessità di munirsi
d’idoneo titolo abilitativo, nella forma del permesso di
costruire.
La tesi, per quanto suggestiva, costituisce un’evidente
petizione di principio, non tenendo conto né di quanto sopra
osservato, circa la “permanente alterazione del terreno
ai fini urbanistico–edilizi” indotta dalla stabile posa
in opera di manufatti di tal genere sul terreno, né –del
resto– dell’insegnamento, secondo cui: “Un box (o un
container) stabilmente infisso al suolo e di non irrilevanti
dimensioni non costituisce opera precaria in quanto, in
materia edilizia, il requisito della precarietà, in presenza
del quale è esclusa la necessità del rilascio di
concessione, non dipende dalla più o meno facile
rimovibilità delle parti che compongono il manufatto, ma
dalla sua concreta destinazione a sopperire ad una necessità
contingente ed essere, poi, prontamente rimosso” (TAR
Campania–Napoli, Sez. IV, 16/07/2002, n. 4141).
Ebbene, non pare davvero che, nella specie, possa parlarsi,
a ragion veduta, di manufatti necessariamente pertinenziali,
nonché precari: i medesimi erano infatti, nell’impugnata
ordinanza, così descritti: “All’esterno, sull’area
pertinenziale ed a servizio di tale attività, sono stati
installati due containers in materiale metallico, aventi
dimensioni in pianta pari a 5,00 x 2,60 m., con altezza alla
gronda pari a 2,00 m.”; ebbene, nell’ordinanza il nesso
di pertinenzialità è stato correttamente riferito al
terreno, piuttosto che ai containers, ivi insistenti,
essendo gli stessi evidentemente preordinati a soddisfare
necessità non transeunti, bensì tendenzialmente stabili e
prolungate, proprie dell’attività artigianale, ivi
esercitata.
Inoltre –il dato è dirimente– i manufatti de quibus
si presentano, ad avviso del Collegio, proprio per tali loro
caratteristiche intrinseche, come potenzialmente autonomi,
piuttosto che ineluttabilmente pertinenziali, rispetto allo
stesso fabbricato, cui ineriscono (TAR Campania-Salerno,
Sez. II,
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EDILIZIA PRIVATA:
È illegittimo il provvedimento comunale con il quale è stata
ingiunta la demolizione di alcune opere di modificazione
delle tramezzature interne, di spostamento di un servizio
igienico e di eliminazione di un precedente ambiente,
ritenendole erroneamente, ai sensi dell'art. 3 del d.p.r.
06.06.2001 n. 380, interventi di ristrutturazione edilizia
in assenza di permesso di costruire o in totale difformità,
atteso che detti interventi non hanno condotto ad un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso rispetto al
precedente.
Si tratta, infatti, di opere interne all'unità abitativa e,
come tali, di manutenzione straordinaria.
---------------
L'eliminazione e gli spostamenti di tramezzature, con
conseguente diversa distribuzione degli ambienti interni,
costituisce attività di manutenzione straordinaria
assoggettata al semplice regime della comunicazione di
inizio lavori, purché si tratti di interventi che non
coinvolgano le parti strutturali dell'edificio.
In tali ipotesi, pertanto, l'omessa comunicazione non può
giustificare l'adozione della sanzione demolitoria che
presuppone la realizzazione dell'opera senza il prescritto
titolo abilitativo; qualora invece questo stesso intervento
interessi parti strutturali del fabbricato, la disciplina
applicabile è quella della segnalazione certificata di
inizio attività e, in mancanza di questa, può essere
irrogata la sola sanzione pecuniaria.
---------------
Per ciò che concerne, poi, l’altra porzione di capannone,
adibita a luogo di culto, relativamente ai: b.1) “locali
tra cui cucina, due depositi, una camera e servizi igienici”,
ricavati all’interno della stessa, senz’altro gli stessi
possono farsi rientrare nell’ambito degli interventi di “edilizia
libera”, ex art. 6 del citato d.P.R., restando pertanto
esclusa la necessità del permesso di costruire, con
conseguente accoglimento del ricorso, per tale parte.
In termini, si legga Consiglio di Stato, Sez. VI,
14/10/2016, n. 4267: “È illegittimo il provvedimento
comunale con il quale è stata ingiunta la demolizione di
alcune opere di modificazione delle tramezzature interne, di
spostamento di un servizio igienico e di eliminazione di un
precedente ambiente, ritenendole erroneamente, ai sensi
dell'art. 3 del d.p.r. 06.06.2001 n. 380, interventi di
ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di
costruire o in totale difformità, atteso che detti
interventi non hanno condotto ad un organismo edilizio in
tutto o in parte diverso rispetto al precedente. Si tratta,
infatti, di opere interne all'unità abitativa e, come tali,
di manutenzione straordinaria”; nonché l’altra massima,
ricavata dalla succitata sentenza della Sezione: “L'eliminazione
e gli spostamenti di tramezzature, con conseguente diversa
distribuzione degli ambienti interni, costituisce attività
di manutenzione straordinaria assoggettata al semplice
regime della comunicazione di inizio lavori, purché si
tratti di interventi che non coinvolgano le parti
strutturali dell'edificio. In tali ipotesi, pertanto,
l'omessa comunicazione non può giustificare l'adozione della
sanzione demolitoria che presuppone la realizzazione
dell'opera senza il prescritto titolo abilitativo; qualora
invece questo stesso intervento interessi parti strutturali
del fabbricato, la disciplina applicabile è quella della
segnalazione certificata di inizio attività e, in mancanza
di questa, può essere irrogata la sola sanzione pecuniaria”
(TAR Campania–Salerno, Sez. II, 06/07/2018, n. 1042;
conforme: TAR Campania–Napoli, Sez. II, 22/08/2017, n. 4098)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
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EDILIZIA PRIVATA:
●
Deve ritenersi necessario il permesso di
costruire per la realizzazione di tettoie o di altre
strutture che siano, comunque, apposte a parti di
preesistenti edifici, qualora le stesse siano prive del
carattere di precarietà e abbiano, inoltre, dimensioni tali
da comportare una visibile alterazione dell'edificio o alle
parti dello stesso su cui vengono inserite.
●
Una tettoia ancorata al suolo e di notevole
dimensioni è idonea ad alterare lo stato dei luoghi in modo
non transitorio; trattasi, quindi, di una nuova costruzione
necessitante di titolo edilizio.
●
La tettoia necessita di un idoneo titolo allorché
esula dai minimi contenuti che può avere un piccolo riparo
aperto da tre lati, sì che essa costituisce spazio
edificabile a tutti gli effetti quando viene realizzato un
vero e proprio ambiente fruibile in via continuativa.
●
Una tettoia avente carattere di stabilità e
idonea ad una utilizzazione autonoma, oltre a non poter
essere considerata una mera pertinenza, non può ricadere
nell'ambito dell'attività edilizia libera, costituendo
un'opera esterna per la cui realizzazione occorre un idoneo
titolo edilizio.
Alla medesima conclusione si può addivenire anche tenendo
ferma la natura pertinenziale del manufatto, considerata
l'idoneità di questo ad incidere sull'assetto edilizio
preesistente.
---------------
●
È illegittimo l'ordine di demolizione di una tettoia che per
caratteristiche morfologiche di realizzazione e destinazione
funzionale –struttura in ferro aperta sui lati, ricoperta da
onduline, meramente strumentale all'opificio, di dimensioni
adeguate ad assolvere le finalità produttive, senza
incremento del carico urbanistico– è riconducibile alla
nozione di pertinenza urbanistica, ordinariamente sottratta
al regime del titolo edilizio concessorio.
●
In materia urbanistica può parlarsi di pertinenza solo
quando si tratti di opere che non comportino un nuovo
volume, come una tettoia o un porticato aperto da tre lati,
nonché di opere che comportino un nuovo e modesto volume
tecnico confermandosi con ciò, in definitiva, che devono
essere tali da non alterare in modo significativo l'assetto
del territorio o incidere sul carico urbanistico,
caratteristiche queste la cui sussistenza deve essere
peraltro dimostrata dall'interessato.
●
Le opere che non alterano in modo significativo l'assetto
del territorio o non incidono sul carico urbanistico in
quanto comportano un nuovo e modesto volume tecnico, quali
le tettoie o i porticati aperti da tre lati, poiché hanno
natura pertinenziale, non sono idonee a sviluppare un
volume.
---------------
Per ciò che concerne, invece, sempre la parte dell’edificio,
adibita a luogo di culto, e segnatamente le: b.2) due
tettoie, di cui una “con struttura in ferro, costituita
da elementi tubolari (pilastri e travi) (...) coperta di
lastre in lamiera, delimitata per un lato dallo stesso
capannone e per i restanti tre lati da un muretto in blocchi
(...) che inviluppa la struttura in ferro”, installata
all’esterno del capannone (lo sviluppo superficiale di tale
struttura era pari a circa 150,00 mq. (26,70 x 5,60 m.) con
altezza minima pari a 3,15 m. e massima pari a 3,50 m.), e
l’altra “sempre costituita da elementi tubolari in ferro,
delimitata su un lato dallo stesso capannone e per gli altri
due con pannelli di materiale plastico, così come per la
copertura”, sul lato d’ingresso al capannone (lo
sviluppo superficiale di tale struttura era pari a circa
23,00 mq (5,40 x 4,20 m) con altezza minima pari a 2,50 m. e
massima pari a 3,00 m.), non può essere sottoscritta la
tesi, patrocinata dai ricorrenti, secondo cui si sarebbe
trattato di “manufatti minimi”, funzionali e
pertinenziali all’immobile principale, costituenti:
- a) interventi del tutto irrilevanti a fini volumetrici e/o della
superficie e, quindi, del carico urbanistico; per l’effetto,
non assoggettate al regime del permesso di costruire;
- b) riconducibili al genus degli interventi pertinenziali “minimi”,
ex art. 3, lett. e.6), d.P.R. 380/2001.
Valga, in contrario, la considerazione degli aspetti
morfologici e dimensionali (questi ultimi non certo
irrilevanti), di tali tettoie (soprattutto della prima),
congiunta al riferimento alle seguenti massime, espressive
di un orientamento, consolidato in giurisprudenza: “Deve
ritenersi necessario il permesso di costruire per la
realizzazione di tettoie o di altre strutture che siano,
comunque, apposte a parti di preesistenti edifici, qualora
le stesse siano prive del carattere di precarietà e abbiano,
inoltre, dimensioni tali da comportare una visibile
alterazione dell'edificio o alle parti dello stesso su cui
vengono inserite” (TAR Campania–Napoli, Sez. III,
29/05/2018, n. 3545); “Una tettoia ancorata al suolo e di
notevole dimensioni è idonea ad alterare lo stato dei luoghi
in modo non transitorio; trattasi, quindi, di una nuova
costruzione necessitante di titolo edilizio” (TAR
Piemonte, Sez. II, 09/05/2018, n. 550); “La tettoia
necessita di un idoneo titolo allorché esula dai minimi
contenuti che può avere un piccolo riparo aperto da tre
lati, sì che essa costituisce spazio edificabile a tutti gli
effetti quando viene realizzato un vero e proprio ambiente
fruibile in via continuativa” (TAR Liguria, Sez. I,
10/04/2018, n. 310); “Una tettoia avente carattere di
stabilità e idonea ad una utilizzazione autonoma, oltre a
non poter essere considerata una mera pertinenza, non può
ricadere nell'ambito dell'attività edilizia libera,
costituendo un'opera esterna per la cui realizzazione
occorre un idoneo titolo edilizio. Alla medesima conclusione
si può addivenire anche tenendo ferma la natura
pertinenziale del manufatto, considerata l'idoneità di
questo ad incidere sull'assetto edilizio preesistente”
(TAR Lombardia–Milano, Sez. II, 11/01/2018, n. 40).
Laddove la possibilità di prescindere dal rilascio del
massimo titolo edilizio è stata generalmente limitata,
sempre in giurisprudenza, a casi di manufatti, che si
differenziano nettamente da quelli in esame: “È
illegittimo l'ordine di demolizione di una tettoia che per
caratteristiche morfologiche di realizzazione e destinazione
funzionale –struttura in ferro aperta sui lati, ricoperta da
onduline, meramente strumentale all'opificio, di dimensioni
adeguate ad assolvere le finalità produttive, senza
incremento del carico urbanistico– è riconducibile alla
nozione di pertinenza urbanistica, ordinariamente sottratta
al regime del titolo edilizio concessorio” (Consiglio di
Stato, Sez. VI , 13/12/2017, n. 5867); “In materia
urbanistica può parlarsi di pertinenza solo quando si tratti
di opere che non comportino un nuovo volume, come una
tettoia o un porticato aperto da tre lati, nonché di opere
che comportino un nuovo e modesto volume tecnico
confermandosi con ciò, in definitiva, che devono essere tali
da non alterare in modo significativo l'assetto del
territorio o incidere sul carico urbanistico,
caratteristiche queste la cui sussistenza deve essere
peraltro dimostrata dall'interessato” (TAR Molise, Sez.
I, 29/01/2016, n. 43); “Le opere che non alterano in modo
significativo l'assetto del territorio o non incidono sul
carico urbanistico in quanto comportano un nuovo e modesto
volume tecnico, quali le tettoie o i porticati aperti da tre
lati, poiché hanno natura pertinenziale, non sono idonee a
sviluppare un volume” (TAR Abruzzo- Pescara, Sez. I,
01/07/2015, n. 277).
Le osservazioni, dianzi espresse, consentono, altresì, di
respingere (limitatamente ai containers, posti all’esterno
della parte dell’edificio, adibita ad officina meccanica e
alle tettoie, poste all’esterno della parte dell’edificio,
adibita a luogo di culto) anche la censura –sopra riportata
sub VII)– secondo la quale tutte le opere contestate, non
comportando alcun incremento di superficie e/o di volume,
sarebbero scevre dalla necessità di munirsi di permesso di
costruire, restando esclusa l’applicabilità del regime
sanzionatorio, ex art. 31 d.P.R. 380/2001, trattandosi
piuttosto di opere “libere, ai sensi dell’art. 6 del d.P.R.
380/2001, ovvero riconducibili –al più– al diverso regime
sanzionatorio –meramente pecuniario– di cui al successivo
art. 37, tipicamente previsto per gli interventi eseguiti in
assenza o in difformità dalla s.c.i.a. e/o d.i.a.” (TAR
Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 02.01.2019 n. 1 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
La Corte costituzionale amplia le possibilità di usufruire
del congedo straordinario per assistenza al disabile,
includendovi il figlio anche se non convivente.
La Corte costituzionale dichiara l’illegittimità
costituzionale dell’art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151 del
2001 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia
di tutela e sostegno della maternità e della paternità)
nella parte in cui consente al figlio del disabile grave di
poter beneficiare del congedo (in mancanza degli altri
parenti indicati dalla legge) solo a condizione che si
tratti di figlio già convivente, consentendo, pertanto, che
anche il figlio non convivente possa prendersi cura del
genitore usufruendo del congedo straordinario, purché
instauri la convivenza:
●
La Corte costituzionale amplia le possibilità di usufruire
del congedo straordinario per assistenza al disabile,
includendovi il figlio anche se non convivente;
●
Corte costituzionale, sentenza
07.12.2018 n. 232 (commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il procedimento volto ad attestare l’agibilità di
un immobile non interferisce con l’esercizio del potere di
repressione degli illeciti edilizi.
I due procedimenti hanno un differente oggetto: l’uno
è finalizzato unicamente a verificare la sussistenza delle
condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio
energetico degli edifici e degli impianti negli stessi
installati, mentre l’altro è volto a sanzionare
l’attività urbanistico edilizia, laddove non sia stata
realizzata in rispondenza alle norme di legge e di
regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici e
alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi.
Pertanto, il precedente rilascio del certificato di
agibilità non è sintomo di contraddittorietà dell’irrogata
sanzione demolitori.
---------------
3.2. Asserisce altresì la parte ricorrente che il
provvedimento demolitorio sarebbe illegittimo in quanto il
Comune aveva già accertato l’agibilità dell’intervento
edilizio realizzato, completo del cancello del quale oggi
viene ordinata la demolizione.
Conseguentemente, essendo già stata valutata la conformità
urbanistica dell’intervento, la successiva adozione
dell’ordine di demolizione integrerebbe la fattispecie della
contraddittorietà dell’azione amministrativa, figura
sintomatica dell’eccesso di potere.
La censura non può trovare accoglimento.
Nessuna contraddizione sussiste infatti nell’adozione, da
parte del Comune, di un’ordinanza di demolizione avente ad
oggetto un immobile per il quale era già stata assentita
l’agibilità.
La valutazione sfociante nel rilascio del certificato di
agibilità ha infatti ad oggetto parametri differenti
rispetto a quella posta in essere dalla p.a. in sede di
emissione del provvedimento repressivo di un abuso edilizio.
La prima, pertanto, non assorbe né tanto meno esclude la
seconda.
Come sancito dalla giurisprudenza amministrativa, in termini
condivisi dal Collegio, infatti: “Il procedimento volto
ad attestare l’agibilità di un immobile non interferisce con
l’esercizio del potere di repressione degli illeciti
edilizi. I due procedimenti hanno un differente oggetto:
l’uno è finalizzato unicamente a verificare la sussistenza
delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio
energetico degli edifici e degli impianti negli stessi
installati, mentre l’altro è volto a sanzionare l’attività
urbanistico edilizia, laddove non sia stata realizzata in
rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici e alle modalità
esecutive fissate nei titoli abilitativi. Pertanto, il
precedente rilascio del certificato di agibilità non è
sintomo di contraddittorietà dell’irrogata sanzione
demolitoria” (TAR Campania, Napoli, Sez. VIII,
08.10.2015 n. 4717; cfr: TAR Valla d’Aosta, Aosta, Sez. I,
08.08.2015 n. 61).
Anche tale ulteriore censura deve dunque essere respinta in
quanto infondata (TAR Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 19.12.2018 n. 1923 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Abusi
edilizi, vale la delazione. Tar Lazio: sì all’utilizzo di fonti spurie.
Sì alla delazione contro gli abusi edilizi. Scatta
la sanzione per il proprietario dell'immobile quando si scopre che ha
installato manufatti senza autorizzazione. E ciò anche se a segnalare
l'irregolarità è una lettera anonima arrivata ai vigili urbani. L'ha scritta
un vicino infastidito o soltanto invidioso? Non importa. La denuncia
proveniente dallo sconosciuto risulta utilizzabile: rappresenta soltanto un
sollecito all'accertamento. La validità dell'accertamento è riconosciuta per
analogia in base alle regole applicabili nel procedimento penale.
È quanto emerge dalla
sentenza 23.10.2018 n. 10268,
pubblicata dalla Sez II-bis del TAR Lazio-Roma.
Giurisprudenza superata. Costa cara la gola profonda al proprietario del
terreno: pagherà la sanzione di 1.668 euro notificata dal comune per le
opere realizzate in assenza di Dia-Scia ex articolo 2, comma 60, della legge
662/1996; l'importo è pari al doppio dell'aumento del valore venale
dell'immobile, determinato in 834 euro.
Risulta ancorata a un orientamento di giurisprudenza penale ormai superato
la tesi del privato secondo cui la lettera anonima non potrebbe avviare il
procedimento in base a un'applicazione analogica dell'articolo 333, comma
terzo, cpp.
Attività informale.
Il collegio aderisce all'indirizzo più recente secondo cui l'apporto
dell'esposto di autore sconosciuto è limitato nella fase della pre-inchiesta,
in cui gli investigatori cercano elementi utili per individuare la notizia
di reato: in quel momento l'attività compiuta da pm e polizia giudiziaria
resta informale e atipica e può attingere a fonti spurie ex articolo 330 cpp.
È vero, va escluso che la denuncia non firmata si possa porre a fondamento
di intercettazioni telefoniche, perquisizioni e sequestri: si tratta infatti
di atti tipici di indagine che presuppongono l'esistenza di indizi di
colpevolezza. Ma gli elementi dell'esposto possono stimolare l'attività di
iniziativa del pm e della polizia giudiziaria.
Altrettanto vale per i vigili urbani che hanno compiuto l'accertamento sulla
base della «soffiata». Al privato non resta che pagare, anche le
spese di lite, e guardarsi dai vicini (articolo ItaliaOggi del
10.01.2019). |
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