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AGGIORNAMENTO AL 31.12.2018 |
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ZONE
SISMICHE:
a bassa sismicità è solo la zona 4!!
Ecco la 2^
sentenza in ordine di tempo, in diversa
composizione del collegio giudicante, che conferma quella di fine anno 2017
che tanto scalpore ha destato e per la quale, ad
oggi, nessuno (Consiglio Superiore LL.PP., M.I.T.,
Governo) ha posto rimedio. |
EDILIZIA PRIVATA:
In conseguenza dell'eliminazione di quello che,
in precedenza, era definito "territorio non classificato" e
considerando che è attualmente prevista la facoltatività
della prescrizione dell'obbligo della progettazione
antisismica per le opere rientranti nella zona 4,
alla stessa devono ritenersi corrispondenti le aree a
bassa sismicità, di cui al combinato disposto degli artt.
83 e 94 d.PR. 380/2001.
Altresì, il reato di omessa denuncia lavori in zona sismica,
previsto dall'art. 93 d.P.R. 380/2001, è configurabile anche
in caso di esecuzione di opere in zona inclusa tra quelle a
basso indice sismico, atteso che l'art. 83, comma secondo,
del citato decreto, non pone alcuna distinzione in merito
alle categorie delle zone medesime.
---------------
Quanto alla consistenza delle opere, occorre ricordare che
la giurisprudenza di questa Corte ha, in più occasioni,
delimitato l'ambito di applicazione della normativa sulle
costruzioni in zona sismica con riferimento alla natura
degli interventi realizzati.
Seppure, in un primo tempo, si sia affermato che la funzione
di salvaguardia della pubblica utilità perseguita porta ad
escluderne l'applicazione per gli interventi che non
interessano la pubblica incolumità, quali quelli di
manutenzione ordinaria o straordinaria del patrimonio
edilizio già esistente, si è successivamente chiarito che la
natura delle opere è irrilevante e ciò in quanto la
violazione delle norme antisismiche richiede soltanto
l'esecuzione di lavori edilizi in zona sismica.
Altrettanto inconferente è stata ritenuta la natura dei
materiali usati e delle strutture realizzate, in quanto le
disposizioni relative alla disciplina antisismica hanno una
portata particolarmente ampia e si applicano a tutte le
costruzioni la cui sicurezza possa comunque interessare la
pubblica incolumità.
---------------
1. Il ricorso è inammissibile.
2. Occorre rilevare, con riferimento al primo motivo
di ricorso, la collocazione del comune di Licata tra le zone
con grado di sismicità 4, caratterizzate da
pericolosità sismica molto bassa, come risulta
dall'imputazione e dalla sentenza impugnata. Sulla base di
tale evenienza la ricorrente assume, del tutto
apoditticamente, che il giudice del merito non avrebbe
dovuto affermare la sua responsabilità penale.
A tale proposito richiama una recente pronuncia di questa
Corte (Sez.
3, n. 56040 del 15.12.2017, D'Alessio, non
massimata) la quale, considerando la eliminazione del
territorio non classificato e la previsione della
facoltatività della prescrizione dell'obbligo della
progettazione antisismica per le opere rientranti nella
zona 4, individua, in mancanza di altre definizioni
normative, come aree a bassa sismicità, di cui al combinato
disposto degli
artt. 83 e
94 d.P.R. 380/2001, solamente quelle ricomprese
nella zona 4.
3. Le conclusioni cui perviene la richiamata decisione sono
pienamente condivisibili.
La sentenza richiama, infatti, il contenuto dell'art.
94 d.P.R. 380/2001 nella parte in cui, al primo
comma, esclude la necessità della preventiva autorizzazione
scritta del competente Ufficio regionale per le opere da
realizzare in località a bassa sismicità, all'uopo indicate
nei decreti di cui all'articolo
83 del medesimo decreto, ricordando anche come il
secondo comma di tale ultima disposizione preveda la
definizione, con decreto del Ministro per le infrastrutture
e i trasporti, di concerto con il Ministro per l'interno,
sentiti il Consiglio superiore dei lavori pubblici, il
Consiglio nazionale delle ricerche e la Conferenza
unificata, dei criteri generali per l'individuazione delle
zone sismiche e dei relativi valori differenziati del grado
di sismicità, da prendere a base per la determinazione delle
azioni sismiche e di quant'altro specificato dalle norme
tecniche.
La decisione chiarisce, poi, che a tale fine è stata emanata
l'ordinanza
del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3274
del 20.03.2003 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 105
dell'08.05.2003), con la quale sono stati dettati i principi
generali sulla base dei quali le Regioni, a cui lo Stato ha
delegato l'adozione della classificazione sismica del
territorio, hanno redatto l'elenco dei comuni con la
relativa attribuzione a una delle quattro zone, a
pericolosità decrescente, nelle quali è stato riclassificato
il territorio nazionale. Ciò ha comportato, ricorda sempre
la sentenza D'Alessio, l'eliminazione del territorio "non
classificato" e l'introduzione della zona 4,
rispetto alla quale è data alle Regioni la facoltà di
prescrivere l'obbligo della progettazione antisismica, da
considerarsi quindi, in assenza di ulteriori specificazioni,
come a bassa sismicità.
4. Occorre pertanto ribadire che in conseguenza
dell'eliminazione di quello che, in precedenza, era definito
"territorio non classificato" e considerando che è
attualmente prevista la facoltatività della prescrizione
dell'obbligo della progettazione antisismica per le opere
rientranti nella zona 4, alla stessa devono ritenersi
corrispondenti le aree a bassa sismicità, di cui al
combinato disposto degli
artt. 83 e
94 d.PR. 380/2001.
5. Ciò posto, va anche ricordato come, in maniera
altrettanto condivisibile, la giurisprudenza di questa Corte
abbia ripetutamente affermato che il reato di omessa
denuncia lavori in zona sismica, previsto dall'art.
93 d.P.R. 380/2001, è configurabile anche in caso
di esecuzione di opere in zona inclusa tra quelle a basso
indice sismico, atteso che l'art.
83, comma secondo, del citato decreto, non pone
alcuna distinzione in merito alle categorie delle zone
medesime (Sez. 3, n. 30651 del 20/12/2016 (dep. 2017),
Rubini ed altro, Rv. 270233; Sez. 3, n. 22312 del
15/02/2011, Morini, Rv. 250369).
Alla odierna ricorrente è stato contestato anche il reato di
cui al menzionato
art. 93 d.P.R. 380/2001, sicché è evidente come le
osservazioni formulate nel motivo di ricorso in esame siano
del tutto inconferenti.
6. Per ciò che concerne, poi, l'ulteriore contestazione
della violazione sanzionata dall'art.
94, osserva il
Collegio come il motivo di ricorso si risolva, sul punto, in
una mera asserzione, non essendo stato in alcun modo
specificato per quali ragioni il giudice avrebbe errato
nell'affermare la responsabilità dell'imputata, dal momento
che la mera collocazione del territorio del comune dove
insistono le opere abusivamente realizzate in zona 4
non esclude automaticamente la necessità del titolo
abilitativo, ben potendo la Regione prevedere comunque, come
si è appena visto, tale obbligo.
La ricorrente non fornisce alcun elemento che consenta di
ritenere che la Regione non abbia utilizzato tale facoltà
ed, anzi, una esplicita smentita si rinviene nella
Deliberazione n. 408 del 19.12.2003, recante "Individuazione,
formazione ed aggiornamento dell'elenco delle zone sismiche
ed adempimenti connessi al recepimento ed attuazione dell'Ordinanza
del Presidente del Consiglio dei Ministri 20.03.2003, n.
3274" e nell'allegato decreto dirigenziale
del 15/01/2004, ove, nell'art. 5, si afferma la volontà di "introdurre
l'obbligo della progettazione antisismica anche per i Comuni
classificati sismicamente in zona 4, sia per la
progettazione delle nuove costruzioni che per gli interventi
sul patrimonio edilizio esistente, fermi restando i
contenuti semplificati delle norme tecniche e il regime
transitorio previsto dall'Ordinanza del Presidente del
Consiglio dei Ministri n. 3274 del 20.03.2003".
...
8. Quanto alla
consistenza delle opere, che la ricorrente ritiene modesta,
occorre ricordare che la giurisprudenza di questa Corte ha,
in più occasioni, delimitato l'ambito di applicazione della
normativa sulle costruzioni in zona sismica con riferimento
alla natura degli interventi realizzati.
Seppure, in un primo tempo, si sia affermato che la funzione
di salvaguardia della pubblica utilità perseguita porta ad
escluderne l'applicazione per gli interventi che non
interessano la pubblica incolumità, quali quelli di
manutenzione ordinaria o straordinaria del patrimonio
edilizio già esistente (Sez. 3, n. 10188 del 10/07/1981,
Filloramo, Rv. 150961), si è successivamente chiarito che la
natura delle opere è irrilevante e ciò in quanto la
violazione delle norme antisismiche richiede soltanto
l'esecuzione di lavori edilizi in zona sismica (Sez. 3, n.
46081 del 08/10/2008, Sansone, Rv. 241783). Il principio è
stato successivamente ribadito (Sez. 3, n. 34604 del
17/06/2010, Todaro, Rv. 248330).
Altrettanto inconferente è stata ritenuta la natura dei
materiali usati e delle strutture realizzate, in quanto le
disposizioni relative alla disciplina antisismica hanno una
portata particolarmente ampia e si applicano a tutte le
costruzioni la cui sicurezza possa comunque interessare la
pubblica incolumità (cfr. Sez. 3, n. 24086 del 11/04/2012,
Di Nicola, Rv. 253056; Sez. 3, n. 6591 del 24/11/2011 (dep.
2012), D'Onofrio, Rv. 252441; Sez. 3, n. 30224 del
21/06/2011, Floridia, Rv. 251284; Sez. 3, n. 23076 del
27/04/2011, Coppa, non massimata; Sez. 3, n. 33767 del
10/05/2007, Puleo, Rv. 237375; Sez. 3, n. 38142 del
26/09/2001, Tucci, Rv. 220269).
Nel caso di specie, peraltro, si tratta comunque di opere di
una certa consistenza, come emerge dalla semplice lettura
dell'imputazione, riferita a realizzazione di manufatti
adibiti a box, deposito, ricovero autoclave, chiosco bar,
laboratorio di pasticceria etc. (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.11.2018 n. 51600). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reato di omessa denuncia lavori in zona sismica - Aree a
bassa sismicità - Obbligo della progettazione antisismica -
Introduzione della zona 4 - Facoltà per le Regioni -
Disciplina applicabile - Artt. 83, 93, 94 e 95 d.PR.
380/2001.
In conseguenza
dell'eliminazione di quello che, in precedenza, era definito
"territorio non classificato" e considerando che è
attualmente prevista la facoltatività della prescrizione
dell'obbligo della progettazione antisismica per le opere
rientranti nella zona 4, alla stessa devono ritenersi
corrispondenti le aree a bassa sismicità.
Pertanto, in mancanza di altre definizioni normative, per le
opere rientranti nella zona 4, devono ritenersi
corrispondenti le aree a bassa sismicità, di cui al
combinato disposto degli artt. 83 e 94 d.P.R. 380/2001.
Sicché, il reato di omessa denuncia lavori in zona sismica,
previsto dall'art. 93 d.PR. 380/2001, è configurabile anche
in caso di esecuzione di opere in zona inclusa tra quelle a
basso indice sismico, atteso che l'art. 83, comma secondo,
del d.PR. 380/2001, non pone alcuna distinzione in merito
alle categorie delle zone medesime.
...
Zona sismica - Esecuzione di lavori edilizi - Consistenza
delle opere "modesta entità" - Natura dei materiali usati e
delle strutture realizzate - Progettazione - Necessità -
Tutela normativa - Pubblica incolumità e sicurezza delle
costruzioni - Giurisprudenza.
In materia di progettazione in zona
sismica, la natura delle opere è irrilevante e ciò in quanto
la violazione delle norme antisismiche richiede soltanto
l'esecuzione di lavori edilizi in zona sismica.
Altrettanto inconferente è ritenuta la natura dei materiali
usati e delle strutture realizzate, in quanto le
disposizioni relative alla disciplina antisismica hanno una
portata particolarmente ampia e si applicano a tutte le
costruzioni la cui sicurezza possa comunque interessare la
pubblica incolumità.
Nel caso di specie, peraltro, si tratta comunque di opere di
una certa consistenza, come emerge dalla semplice lettura
dell'imputazione, riferita a realizzazione di manufatti
adibiti a box, deposito, ricovero autoclave, chiosco bar,
laboratorio di pasticceria etc. (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.11.2018 n. 51600 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Grisanti,
La Cassazione torna sull'obbligo dell'autorizzazione sismica nelle zone 3 e
4 (commento a Cassazione, Sez. III penale, n. 51600 depositata il
15.11.2017)
(17.12.2018 - link a www.lexambiente.it). |
C'è da dire, al riguardo, che poco dopo la 1^
sentenza del 2017 la Regione Toscana ha chiesto lumi
a Roma ma ad oggi, come già anticipato più sopra,
tutto tace. Nello specifico: |
1-0-
nota 16.01.2018 n.
T/22340/A.060.010 di prot. (Regione Toscana);
1-1- Oggetto: Legge
64/1974, Classificazione sismica del Comune di
Tignale. Brescia (Consiglio Superiore dei LL.PP.,
Sez. I,
parere 16.11.2005 n.
234 di prot.);
1-2- Oggetto: Applicazione del D.M. 14.09.2005, recante "Norme
tecniche per le costruzioni" (Consiglio
Superiore dei LL.PP., Sez. I,
parere 13.12.2005 n. 264 di prot.);
1-3- Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 18.04.2012 n. 2275;
1-4- TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 03.12.2015
n. 996;
2- Oggetto: Richiesta di parere sul regime dei controlli delle
costruzioni in zone sismiche. Artt. 83, 93 e 94 del
DPR 380/2001 (Presidenza del Consiglio dei
Ministri, Dipartimento per gli Affari Regionali e le
Autonomie,
nota 29.01.2018 n.
1637 di prot.);
3- Sentenze Corte di Cassazione, Sez. penale, 05.07.2017 n.
56040 e 14.11.2017, n. 2118 (190/2018) - Artt. 93 e
94 D.P.R. 06.06.2001, n. 380 recante ‟TESTO UNICO
DELLE DISPOSIZIONI LEGISLATIVE E REGOLAMENTARI IN
MATERIA EDILIZIA” - Ordine del giorno di impegno per
il Governo (Conferenza delle Regioni ed elle
Province autonome,
ordine del
giorno 19.04.2018 n. 18/45/SRFS/C4);
4- Oggetto: Interpretazione sulla classificazione delle zone
sismiche in relazione all’attivazione dei controlli
sulle costruzioni edilizie di cui agli artt. 93 e 94
del D.P.R. 380/2001, nell’ambito delle competenze
esclusive dello Stato di cui all’art. 83 del
medesimo D.P.R. (Consiglio Superiore dei LL.PP.,
Servizio Tecnico Centrale,
nota 17.07.2018 n. 6602 di prot.), |
Ebbene, La
Conferenza delle Regioni del 19.04.2018 "chiede al Governo una disciplina chiara sulla
individuazione delle zone a bassa sismicità,
eliminando possibili dubbi interpretativi sulla
classificazione sismica del territorio.
I dubbi derivano dalla recente giurisprudenza della
Cassazione penale che ha classificato aree a
bassa sismicità quelle inserite in zona 4
determinando così rilevanti conseguenze sugli
edifici pubblici realizzati nelle aree in zona 3
antecedentemente considerate, su indirizzo del
Consiglio Superiore dei lavori pubblici, aree a
bassa sismicità. Siffatta interpretazione resa
dalla Cassazione penale, potrebbe, infatti, metterne
in discussione la sicurezza e quindi l'uso con
rilevanti conseguenze.
Le Regioni hanno dato la propria disponibilità al
Governo al fine di pervenire all’adozione di un
provvedimento che elimini l’ambiguità delle attuali
regole in materia sismica in relazione ai ruoli e
alle funzioni di Stato, Regioni ed Enti Locali. In
particolare per quanto attiene alla definizione dei
criteri necessari per la puntuale individuazione
delle zone a bassa sismicità e la definizione
dei livelli di sicurezza accettabili per le
costruzioni esistenti.
Si chiede, quindi, di
adottare un provvedimento provvisorio con forza
di legge per chiarire l'individuazione delle “zone
a bassa sismicità” oggetto di interventi
edilizi.
Le regioni chiedono pertanto al Governo di impegnare il
Tavolo Tecnico presso il Consiglio Superiore dei
Lavori Pubblici per l’introduzione di specifiche
norme".
Ma a distanza di oltre otto mesi a questa parte tale "provvedimento
provvisorio con forza di legge" chi l'ha
visto??
31.12.2018 - LA
SEGRETERIA PTPL |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
La presentazione
dell’istanza di accertamento di conformità produce l’effetto
di rendere inefficace l’ordinanza di demolizione delle opere
abusive comportando la necessità di un nuovo provvedimento
sanzionatorio con l’assegnazione di un nuovo termine per
adempiere, allo stato non emanato.
---------------
Il PGT non può prevedere una norma tecnica che vieti la
modifica di destinazione d’uso degli edifici condonati.
Se la zona in cui insiste un edificio condonato ammette una
determinata destinazione è illegittima l’ulteriore norma
tecnica che –creando una artificiale distinzione tra edifici
condonati ed edifici autorizzati o assentiti mediante
sanatoria ordinaria– vieti comunque il cambio d’uso sui
primi.
---------------
... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia:
a) del provvedimento comunale del 11.10.2018, notificato il
19.10.2018, recante diniego di permesso di costruire in
sanatoria relativo all’istanza presentata in data 13.09.2018
per ristrutturazione edilizia con parziale cambio d’uso ed
ampliamento relativamente all’edificio di proprietà sito in
via ... n. 13, nonché recante conferma dell’ordinanza
comunale n. 165/2018 del 23.07.2018 ed indicazione di
prosecuzione del procedimento repressivo;
b) della comunicazione dei motivi ostativi del 01.10.2018
richiamata dal provvedimento indicato sub a);
c) dell’ordinanza comunale del 23.07.2018 n. 165/2018 recante
ingiunzione di ripristino dello stato dei luoghi, confermata
dal provvedimento indicato sub a);
d) dell’art. 45 delle Norme Tecniche Attuative del piano delle
regole del Piano di Governo del Territorio di Lissone,
nonché per la condanna, del Comune di Lissone al
risarcimento dei danni patiti e patiendi nella misura da
quantificarsi in corso di causa.
...
1. Considerato che parte ricorrente fonda la domanda
cautelare, in primo luogo, sul pregiudizio derivante dalla
prosecuzione del procedimento di cui all’ordinanza
demolitiva del 23.07.2018.
1.1. Ritenuto sussistente il pregiudizio indicato e non
privo di fumus boni iuris il relativo motivo di
ricorso atteso che la presentazione dell’istanza di
accertamento di conformità produce l’effetto di rendere
inefficace l’ordinanza di demolizione delle opere abusive
comportando la necessità di un nuovo provvedimento
sanzionatorio con l’assegnazione di un nuovo termine per
adempiere, allo stato non emanato (cfr., per il principio,
la recente sentenza della sezione: TAR per la Lombardia –
sede di Milano, sez. II, 23.11.2018, n. 2635).
2. Considerato, inoltre, che l’istanza cautelare è proposta
anche al fine di “suggerire anche un più meditato riesame
della vicenda e condurre ad un ripensamento in termini più
ragionevoli ed equilibrati, anche a seguito dei motivati
rilievi qui esposti”.
2.1. Considerato che:
a) a fronte di un provvedimento negativo la tutela cautelare può
assumere carattere propulsivo e concretizzarsi nella forma
del remand, con cui il giudice ordina all’Amministrazione di
riesaminare l’istanza del privato in base ai criteri da esso
individuati in base agli elementi di fondatezza del gravame;
b) simile misura risulta, tuttavia, suscettibile di adozione
soltanto laddove ricorrano i presupposti del fumus boni
iuris e del periculum in mora indicati all’articolo 55
del codice del processo amministrativo;
2.2. Ritenuto sussistente il periculum in mora e
rilevato che, nel pur sommario esame tipico della presente
fase cautelare, non paiono prive di adeguato fumus boni
iuris le censure articolare in ordine all’articolo 45
delle N.T.A. del piano delle regole del P.G.T. tenuto conto
che:
a) nel caso in esame difetta una previsione normativa sovraordinata
che imponga la limitazione in esame al pari di quanto
avviene nel caso deciso dalla sentenza n. 1991 del 2017 di
questo Tribunale;
b) la previsione in esame detta un divieto di carattere assoluto e
generale (e senza alcuna valutazione di compatibilità
concreta) privando il titolare del diritto di proprietà
della possibilità di procedere ad interventi di manutenzione
straordinaria aventi quale finalità la tutela della
integrità della costruzione, la conservazione della sua
funzionalità, e, nel caso di specie, la realizzazione di
esigenze abitative (cfr., per il principio, Corte
Costituzionale, 29.12.1995, n. 529; Corte Costituzionale,
23.06.2000, n. 238);
c) non sussistono ulteriori specifiche ragioni che legittimino
previsioni restrittive per il caso di immobili oggetto di
condono (cfr. Consiglio di Stato, 16.12.2016, n. 5358);
2.3. Considerato, inoltre, che, nel caso di specie, la
possibilità di riesame della vicenda da parte
dell’Amministrazione può avvenire, comunque, senza investire
necessariamente la previsione di cui all’articolo 45 delle
N.T.A del piano delle regole del P.G.T., la cui eventuale
modificazione richiede un complesso ed articolato
procedimento.
2.4. Infatti, non paiono comunque privi di fondamento i
motivi articolati sul punto da parte ricorrente considerato
che la previsione di cui all’articolo 45 delle N.T.A. del
piano delle regole del P.G.T. si riferisce agli immobili
condonati e non contempla invece la fattispecie di immobili
oggetto di condono parziale, per i quali la disposizione
sembra operare in forza di una estensione analogica
difficilmente giustificabile, tuttavia, in ragione della
natura eccezionale della regola in esame.
2.5. Inoltre, deve considerarsi che, come risulta dalla
documentazione depositata da parte ricorrente in data
03.12.2018 (senza opposizione del Comune resistente quanto
al suo vaglio in sede cautelare), le istanze di condono sono
relative ad opere in difformità dal titolo ma conformi alle
norme e alle prescrizioni dettate dagli strumenti
urbanistici vigenti e, come tali, risultano assimilabili
alle ipotesi previste in via ordinaria dall’articolo 36 del
D.P.R. 380 del 2001.
2.6. In ultimo, l’asserita necessità di parere della
Commissione del paesaggio muove correttamente dalla classe
di sensibilità paesaggistica del sito ma non sembra
considerare in modo adeguato le caratteristiche proprie del
sito oggetto di intervento e del miglioramento estetico che
le modifiche effettuate apportano all’immobile.
3. In definitiva, deve sospendersi l’efficacia dei
provvedimenti impugnati con contestuale ordine
all’Amministrazione di riesaminare la vicenda alla luce dei
rilievi indicati ai punti 2.2–2.6 della presente ordinanza
depositando gli eventuali provvedimenti emessi entro il
termine indicato in dispositivo.
4. Le spese di lite della presente fase cautelare possono
essere compensate in ragione della complessità delle
questioni trattate.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia
(Sezione Seconda),
a) accoglie la domanda cautelare nei sensi di cui in motivazione e,
per l’effetto, sospende l’efficacia dei provvedimenti
impugnati e ordina all’Amministrazione di riesaminare
l’istanza del privato, entro il 31.03.2019, alla luce dei
criteri indicati in motivazione;
b) fissa per la trattazione di merito del ricorso l'udienza
pubblica del 13.11.2019, ore di regolamento (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
ordinanza 05.12.2018 n. 1698 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
L'esecuzione in assenza o in difformità degli
interventi subordinati a SCIA comporta l'applicazione della
sanzione penale prevista dall'art. 44, lett. a), d.P.R.
380/2001 se gli stessi non sono conformi alle
previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti
edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia in vigore,
mentre soltanto in caso di interventi eseguiti in assenza o
difformità dalla SCIA, ma conformi alla citata
disciplina, è applicabile la sanzione amministrativa
prevista dall'art. 37 d.P.R. 380/2001.
Si è pervenuti a tali conclusioni osservando che l'art. 22
d.P.R. 380/2001 stabilisce espressamente che sono
realizzabili mediante SCIA (e, in precedenza, a DIA) gli
interventi descritti ai commi 1 e 2 che siano anche conformi
alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti
edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente e
che solo ricorrendo tale condizione è possibile applicare la
disposizione dell'art. 37 che prevede la sola sanzione
amministrativa per gli interventi realizzati in assenza o in
difformità.
In caso di interventi che, invece, non sono conformi alle
previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti
edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente, la
loro realizzazione, sempre che non si tratti di interventi
per i quali è richiesto il permesso di costruire, comporta
l'applicazione della sanzione penale di cui all'art. 44,
lett. a), in quanto tale disposizione sanziona
"l'inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità
esecutive previste dal presente titolo, in quanto
applicabili, nonché dai regolamenti edilizi, dagli strumenti
urbanistici e dal permesso di costruire".
---------------
Anche l'infondatezza del secondo motivo di entrambi i
ricorsi è di macroscopica evidenza.
Come affermano i ricorrenti, la giurisprudenza di questa
Corte, ha chiarito che l'esecuzione in assenza o in
difformità degli interventi subordinati a SCIA comporta
l'applicazione della sanzione penale prevista dall'art. 44,
lett. a), d.P.R. 380/2001 se gli stessi non sono conformi
alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti
edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia in vigore,
mentre soltanto in caso di interventi eseguiti in assenza o
difformità dalla SCIA, ma conformi alla citata disciplina, è
applicabile la sanzione amministrativa prevista dall'art. 37
d.P.R. 380/2001 (Sez. 3, n. 952 del 07/10/2014 (dep. 2015),
Parisi, Rv. 261783; Sez. 3, n. 9894 del 20/01/2009, Tarallo,
Rv. 243099; Sez. 3, n. 41619 del 22/11/2006, Cariello, Rv.
235413).
Si è pervenuti a tali conclusioni osservando che l'art. 22
d.P.R. 380/2001 stabilisce espressamente che sono
realizzabili mediante SCIA (e, in precedenza, a DIA) gli
interventi descritti ai commi 1 e 2 che siano anche conformi
alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti
edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente e
che solo ricorrendo tale condizione è possibile applicare la
disposizione dell'art. 37 che prevede la sola sanzione
amministrativa per gli interventi realizzati in assenza o in
difformità.
In caso di interventi che, invece, non sono conformi alle
previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti
edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente, la
loro realizzazione, sempre che non si tratti di interventi
per i quali è richiesto il permesso di costruire, comporta
l'applicazione della sanzione penale di cui all'art. 44,
lett. a), in quanto tale disposizione sanziona "l'inosservanza
delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dal
presente titolo, in quanto applicabili, nonché dai
regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dal
permesso di costruire".
Il principio richiamato è pienamente condiviso dal Collegio,
che intende ribadirlo, ma, nel fare ciò, deve però rilevarsi
che nella sentenza impugnata risulta accertato in fatto che
le opere erano state realizzate "...in parte in assenza
di titolo ed in parte in difformità dalla DIA n. 322/2010,
nonché in violazione degli strumenti urbanistici ed edilizi
vigenti al momento del fatto presso il Comune di Colle Val
D'Elsa".
A fronte di tale affermazioni, entrambi i ricorsi si
limitano alla apodittica affermazione della conformità delle
opere espressamente smentita dal giudice del merito, con le
conclusioni del quale neppure si confrontano (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.11.2018 n. 50144). |
UTILITA' |
CONDOMINIO: Quesiti
& risposte sul condomino - Oltre 400 quesiti e risposte divisi in 11 macro
tematiche (dicembre
2018 - tratto da www.condominioweb.com). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Agevolazioni c.d. sisma bonus per interventi di demolizione e
ricostruzione di edifici (art. 16, del DL n. 63 del 2013 - Interpello
articolo 11, comma 1, lettera a), legge 27.07.2000, n. 212 (Agenzia
delle Entrate - Divisione Contribuenti - Direzione Centrale Persone Fisiche,
Lavoratori Autonomi ed Enti non Commerciali,
risposta
27.12.2018 n. 131/2018).
---------------
L’istante chiede chiarimenti in merito alla possibilità di fruire delle
agevolazioni c.d. sisma bonus per interventi di demolizione e ricostruzione
di edifici che, in presenza di vincoli, prevedono una traslazione del
fabbricato, di uguale volumetria, ma con variazione di area di sedime.
(...continua). |
EDILIZIA PRIVATA: Interrogazione
a risposta immediata in commissione 5-01866 del 14.01.2014
(link a www.camera.it).
---------------
GEBHARD, ALFREIDER, PLANGGER, SCHULLIAN e OTTOBRE. — Al Ministro
dell'economia e delle finanze. — Per sapere
– premesso che:
- l'articolo 1, comma 139, lettera b), della legge 27.12.2013, n.
147 (legge di stabilità 2014), attraverso una novella all'articolo 16, comma
2, del decreto-legge 04.06.2013, n. 63, convertito, con modificazioni dalla
legge 03.08.2013, n. 90, ha da ultimo prorogato al 31.12.2014 le detrazioni
fiscali per interventi di recupero del patrimonio edilizio, nella misura del
50 per cento per un ammontare massimo di spesa di 96 mila euro e nella
misura del 40 per cento per il 2015;
- l'articolo 30, comma 1, lettera a), del decreto-legge 21.06.2013,
n. 69, convertito con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98, ha
rivisto la definizione di ristrutturazione edilizia di cui all'articolo 3
del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, recante il
Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia, eliminando il riferimento alla sagoma all'articolo 3, comma 1,
lettera d);
- la suddetta modifica ha pertanto ricompreso negli interventi di
ristrutturazione edilizia rientranti nel regime delle agevolazioni fiscali
ai sensi dell'articolo 16-bis del decreto del Presidente della Repubblica
22.12.1986, n. 917, anche il ripristino e/o la ricostruzione di edifici
crollati o demoliti, con la stessa volumetria di quelli precedenti, anche se
con variazioni della sagoma;
- se possa rientrare nel regime delle detrazioni
fiscali per interventi di ristrutturazione edilizia, ai sensi del nuovo
articolo 3, comma 1, lettera d), del decreto del Presidente della Repubblica
n. 380 del 2001, anche la ricostruzione di un edificio, con la stessa
volumetria di quello precedente, ma con uno spostamento di lieve entità
dell'immobile rispetto al sedime originario.
(5-01866). (...continua). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - LAVORI PUBBLICI: G.U.
31.12.2018 n. 302, suppl. ord. n. 62/L, "Bilancio di previsione dello
Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio
2019-2021" (Legge
30.12.2018 n. 145).
---------------
In merito, si leggano anche:
● LEGGE DI BILANCIO 2019 -
Le modifiche approvate dal Senato della Repubblica - A.C. 1334-B - Articolo
1, commi 1-601 (27.12.2018 -
VOLUME I);
● LEGGE DI BILANCIO 2019 - Le modifiche approvate dal Senato
della Repubblica - A.C. 1334-B - Articolo 1, commi 604-1143 e Articoli 2-19
(27.12.2018 -
VOLUME II);
●
Via libera definitivo alla Legge di bilancio 2019. Proroga dei
bonus edilizi e del bonus verde, 8,1 miliardi per la messa in sicurezza
degli edifici e del territorio, modifica al Codice dei contratti,
istituzione della Struttura per la progettazione di beni ed edifici
pubblici, estensione del regime forfetario, riqualificazione energetica
edifici Pa (31.12.2018 - link a www.casaeclima.com);
●
In Gazzetta Ufficiale la Manovra 2019. Le misure di interesse del Mit.
Dal 01.01.2019 in vigore la Legge n. 145 del 30.12.2018 che proroga di un
anno l'ecobonus, i bonus ristrutturazioni e mobili e il bonus verde (31.12.2018 - link a
www.casaeclima.com);
●
Legge di Bilancio 2019: Approvata in via definitiva dalla Camera dei
Deputati (31.12.2018 - link a www.lavoripubblici.it);
●
Ddl di Bilancio 2019 e Appalti pubblici: esteso l'affidamento diretto per i
lavori fino a 150 mila euro (28.12.2018 - link a
www.lavoripubblici.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 52 del 29.12.2018, "Disposizioni per
l’attuazione della programmazione economico-finanziaria regionale, ai sensi
dell’articolo 9-ter della l.r. 31.03.1978, n. 34 (Norme sulle procedure
della programmazione, sul bilancio e sulla contabilità della Regione) -
Collegato 2019" (L.R.
28.12.2018 n. 23).
---------------
Di interesse si leggano:
● Art. 4 (Modifiche alla
l.r. 18/2015)
1. Alla legge regionale 01.07.2015, n. 18 (Gli orti di Lombardia.
Disposizioni in materia di orti didattici, sociali periurbani, urbani e
collettivi) sono apportate le seguenti modifiche: ...
● Art. 7 (Modifiche alla l.r. 33/2015)
1. Alla legge regionale 12.10.2015, n. 33 (Disposizioni in materia di opere
o di costruzioni e relativa vigilanza in zone sismiche) sono apportate le
seguenti modifiche: ...
● Art. 9 (Modifiche alla l.r. 26/2003)
1. Alla legge regionale 12.12.2003, n. 26 (Disciplina dei servizi locali di
interesse economico generale. Norme in materia di gestione dei rifiuti, di
energia, di utilizzo del sottosuolo e di risorse idriche) sono apportate le
seguenti modifiche: ...
● Art. 13 (Modifiche alla l.r. 5/2017 e al r.r. 3/2017)
1. Alla legge regionale 27.02.2017, n. 5 (Rete escursionistica della
Lombardia) sono apportate le seguenti modifiche: ... |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: G.U.U.E.
21.12.2018 n. L 328 "DIRETTIVA
(UE) 2018/2002 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO dell'11.12.2018
che modifica la direttiva 2012/27/UE sull'efficienza energetica". |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: G.U.U.E.
21.12.2018 n. L 328 "DIRETTIVA
(UE) 2018/2001 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO dell'11.12.2018
sulla promozione dell'uso dell'energia da fonti rinnovabili (rifusione)". |
AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U.U.E.
21.12.2018 n. L 328 "REGOLAMENTO
(UE) 2018/1999 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO dell'11.12.2018
sulla governance dell'Unione dell'energia e dell'azione per il clima che
modifica le direttive (CE) n. 663/2009 e (CE) n. 715/2009 del Parlamento
europeo e del Consiglio, le direttive 94/22/CE, 98/70/CE, 2009/31/CE,
2009/73/CE, 2010/31/UE, 2012/27/UE e 2013/30/UE del Parlamento europeo e del
Consiglio, le direttive del Consiglio 2009/119/CE e (UE) 2015/652 e che
abroga il regolamento (UE) n. 525/2013 del Parlamento europeo e del
Consiglio". |
LAVORI PUBBLICI:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 51 del 19.12.2018, "Programma degli
interventi prioritari sulla rete viaria di interesse regionale -
Aggiornamento 2018" (deliberazione
G.R. 17.12.2018 n. 1052). |
APPALTI - EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI : G.U.
18.12.2018 n. 293 "Testo
del decreto-legge 23.10.2018, n. 119, coordinato con la legge di conversione
17.12.2018, n. 136, recante: «Disposizioni urgenti in materia
fiscale e finanziaria»".
---------------
Si legga, al riguardo:
●
In Gazzetta il decreto fiscale convertito in legge. La legge di conversione
n. 136/2018 è in vigore dal 19 dicembre. Il punto sulle misure
(19.12.2018 - link a www.casaeclima.com). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 51 del 18.12.2018, "Disciplina
delle attività cosiddette «In Deroga» ai sensi dell’art. 272, commi 2 e 3,
del d.lgs. n. 152/2006 «Norme in materia ambientale» sul territorio
regionale e ulteriori disposizioni in materia di emissioni in atmosfera" (deliberazione
G.R. 11.12.2018 n. 983). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 51 del 18.12.2018, "Disciplina
delle attività ad inquinamento scarsamente rilevante ai sensi dell’art. 272,
comma 1, del d.lgs. n. 152/2006 «Norme in materia ambientale» collocate sul
territorio regionale" (deliberazione
G.R. 11.12.2018 n. 982). |
ENTI LOCALI:
G.U. 17.12.2018 n. 292 "Differimento del termine per la deliberazione del
bilancio di previsione 2019/2021 degli enti locali dal 31.12.2018 al
28.02.2019" (Ministero dell'Interno,
decreto 07.12.2018). |
VARI:
G.U. 15.12.2018 n. 291 "Modifica del saggio di interesse legale"
(Ministero dell'Economia ed elle Finanze,
decreto 12.12.2018), |
AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI: G.U.
14.12.2018 n. 290 "Disposizioni urgenti in materia di sostegno e
semplificazione per le imprese e per la pubblica amministrazione"
(D.L. 14.12.2018 n. 135).
---------------
Si legga, al riguardo:
●
In vigore il decreto-legge Semplificazioni pubblicato in Gazzetta. Il
provvedimento, oltre a sopprimere il Sistri dal 01.01.2019, introduce una
modifica al comma 5 dell'articolo 80 del nuovo Codice dei contratti
(17.12.2018 - link a www.casaeclima.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 50 del 12.12.2018, "Ottavo
aggiornamento 2018 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle
funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto
D.G. 06.12.2018 n. 18272). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA: M.
Carrer,
Il caso delle imprese agricole in aree protette come paradigma del
bilanciamento costituzionale tra tutela dell’ambiente e proprietà terriera.
Spunti problematici (31.12.2018
- tratto da www.ambientediritto.it).
---------------
SOMMARIO: 1. Premessa di inquadramento. – 2. Il ruolo della legge
e la complessità del sistema nella lente della distribuzione delle
competenze. – 3. Le materie agricoltura e tutela dell’ambiente e loro
collocazione competenziale. – 4. La disciplina tra principi e dettagli. –
4.1. La rete Natura 2000. – 4.2. Le imprese agricole e la multifunzionalità:
la ricerca di cause ed effetti per un settore agricolo che cambia. – 5. Gli
strumenti: dal principio al dettaglio, dalle norme ai bandi. – 6.
Conclusioni: il bilanciamento costituzionale e il contributo dell’art. 44,
co. 1°, Cost.. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
A. Di Capizzi - N. L. Guglielmo - J. K. Chabora - F. Vona,
Il diritto di accesso tra ordinamento interno e
ordinamenti sovranazionali
(22.12.2018 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E.
Bonelli,
Effettività del sistema sanzionatorio
edilizio e tutela dei diritti fondamentali protetti dalla Cedu
(19.12.2018 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. I passaggi salienti della motivazione della sentenza
della Corte costituzionale n. 140/2018 con cui si dichiara
l'incostituzionalità dell'art. 2 della L.R. Campania n. 19/17. 2. L'arrêt
dell'A.P. n. 9/2017 del Consiglio di Stato e l'affermazione del principio
della demolizione degli immobili abusivi "in ogni caso". 3. Gli approdi più
recenti della giurisprudenza della Corte Edu in tema di applicazione delle
sanzioni edilizie e di tutela dei diritti protetti dalla Cedu: in
particolare il revirement di cui alla sentenza della Grande Camera del
28.06.2018 (Case of G.I.E.M. s.r.l. and Others v. Italy). 4. La problematica
utilizzazione per finalità pubbliche degli immobili abusivi acquisiti dai
Comuni: la destinazione ad housing sociale. 5. La questione della copertura
finanziaria da parte dei Comuni della spesa occorrente per le demolizioni.
6. A mo' di conclusione. |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Grisanti,
La Cassazione torna sull'obbligo dell'autorizzazione sismica nelle zone 3 e
4 (commento a Cassazione, Sez. III penale, n. 51600 depositata il
15.11.2017)
(17.12.2018 - link a www.lexambiente.it). |
APPALTI: M.
Lipari,
La decorrenza del termine di ricorso nel rito
superspeciale di cui all’art. 120, co. 2-bis e 6-bis, del CPA: pubblicazione
e comunicazione formale del provvedimento motivato, disponibilità effettiva
degli atti di gara, irrilevanza della “piena conoscenza”; l’ammissione
conseguente alla verifica dei requisiti
(17.12.2018 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO
IMPIEGO: A.
Palumbo Grandinetti,
Licenziamento - Cassazione Civile: è illegittimo il licenziamento del
dipendente che utilizza le registrazioni fonografiche occulte per scopi
difensivi (14.12.2018 - link a www.filodiritto.com).
---------------
La Corte di Cassazione - Sez. lavoro, con la
sentenza 10.05.2018 n. 11322, ha accolto il ricorso
sull’illegittimità del licenziamento proposto dal lavoratore che aveva
consegnato al datore di lavoro, nell’ambito di un procedimento disciplinare,
una chiavetta USB contenente registrazioni di conversazioni con altri
dipendenti effettuate in orario e sul posto di lavoro, senza che questi
ultimi ne fossero a conoscenza. (...continua). |
EDILIZIA PRIVATA: L.
Spallino,
Proroga dei documenti di piano: le novità della legge regionale di
semplificazione (13.12.2018 - link a
www.dirittopa.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: V.
Papanice,
Canne fumarie in condominio rapporti con il comune: consenso dei condomini
sì, o consenso dei condomini no? Questione di giurisprudenza!
Canne fumarie e giustizia amministrativa: è preferibile conseguire il
consenso del condominio
(11.12.2018 - link a www.condominioweb.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
I Pavimenti Industriali in calcestruzzo sono una struttura che deve essere
progettata e controllata.
Il parere della Regione Toscana chiarisce che la pavimentazione industriale
nella maggior parte dei casi è una struttura e che quindi debba essere
progettata da un professionista qualificato e sottoposta al controllo della
Direzione Lavori
(06.12.2018 - link a www.casaeclima.com).
---------------
Per il parere del Genio Civile Regione Toscana si legga:
PAVIMENTAZIONI INDUSTRIALI: devono essere considerate strutture? Il parere
del Genio Regione Toscana
(26.10.2018 - link a www.conpaviper.org). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: A.
Gallucci,
Condominio e sostituzione infissi in legno con infissi in alluminio.
Infissi in alluminio e decoro dell'edificio, contestazioni e rimedi (06.12.2018
- link a www.condominioweb.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
G. di Plinio e G. Nicolucci, I poteri
sanzionatori dell’Ente Parco (05.12.2018 - tratto da
www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Il profilo generale delle sanzioni amministrative. —
2. La disciplina sanzionatoria della legge quadro sulle aree naturali
protette. — 3. Le sanzioni amministrative nella legge quadro: configurazione
e garanzie. — 4. Il vaglio della Suprema corte. — 5. Percorsi motivazionali.
— 6. I confini della sanzione amministrativa. — 7. Questioni eccentriche. —
8. Considerazioni di sintesi. |
EDILIZIA PRIVATA: R.
Dolce,
Abusi edilizi. Il coniuge comproprietario è responsabile?
Reati edilizi: profili di responsabilità del proprietario o comproprietario
non committente (05.12.2018
- link a www.condominioweb.com). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: A.
Moscatelli,
La
realizzazione di una canna fumaria a servizio del proprio appartamento sul
parapetto del lastrico solare.
Può il singolo condòmino realizzare una canna fumaria a servizio del proprio
appartamento sul parapetto del lastrico solare? (04.12.2018
- link a www.condominioweb.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
A. Pesce, Anche
il vano scala deve rispettare le distanze legali.
Il corpo scala, se volumetricamente consistente, è equiparabile ad una
costruzione, pertanto deve rispettare le distanze legali fra edifici (30.11.2018
- link a www.condominioweb.com). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
A. Gallucci,
Condominio e installazione canna fumaria a servizio di un locale, serve
l'unanimità?
Canna fumaria a servizio di un locale e decoro architettonico (27.11.2018
- link a www.condominioweb.com). |
CONDOMINIO: Carlo
Pikler,
Telecamere in luogo di pubblico transito, si può fare! Basta stipulare
l'accordo con i Comuni. La richiesta può partire dal singolo amministratore
di condominio o anche dalle Associazioni di categoria.
Le telecamere private possono andare ad inquadrare le aree di pubblico
transito, previo semplice accordo vincolante con l'amministrazione comunale (26.11.2018
- link a www.condominioweb.com). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: G.
Nuzzo,
La nozione di sopraelevazione e l'interpretazione delle clausole
regolamentari in condominio.
Il diritto dei condomini dell'ultimo piano dell'edificio a sopraelevare:
quali limiti? (26.11.2018 - link a
www.condominioweb.com). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO
IMPIEGO: ELSA,
D. Neri Africano,
Straining - Cassazione Lavoro: un qualsiasi comportamento idoneo a rendere
l’ambiente di lavoro ostile per il dipendente è risarcibile come violazione
dell’obbligo datoriale di sicurezza (23.11.2018 - link a www.filodiritto.com).
---------------
La Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con
ordinanza
29.03.2018 n. 7844 ha stabilito l’esistenza del danno da straining e
la sua idoneità ad essere risarcibile come violazione del dovere di
sicurezza imputabile al datore di lavoro.
Dal momento che la suprema Corte ha confermato questa possibilità, sarà
possibile ottenere il risarcimento danni in seguito al verificarsi di una
qualsiasi situazione “stressogena” sul luogo di lavoro, a condizione che ve
ne siano le prove. (...continua). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
G. Zangari, Gli
impianti di condizionamento soggiacciono alla normativa sulle distanze
legali?
Un primo richiamo applicativo al principio sancito dalla Corte d'Appello di
Palermo con la sentenza n. 269/2015 (20.11.2018
- link a www.condominioweb.com). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
G. Nuzzo,
La Soprintendenza non può bocciare l'ascensore in cortile solo perché nuoce
all'immobile vincolato.
Non si può impedire la realizzazione di un ascensore esterno che serve alla
persona anziana solo perché la realizzazione dell'impianto può arrecare un
pregiudizio all'immobile vincolato (16.11.2018
- link a www.condominioweb.com). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: G.
De Santis,
Canne fumarie ad uso esclusivo: installazione, distanze, immissioni. Una
breve ricognizione giurisprudenziale.
La disciplina condominiale delle canne fumarie
(19.03.2018 - link a
www.condominioweb.com). |
CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE - SEGRETARI COMUNALI: Incentivi
tecnici ai segretari comunali solo se non sono equiparati ai dirigenti
Se le disposizioni legislative hanno eliminato la possibilità di erogare gli
incentivi tecnici ai dirigenti, nulla hanno indicato per quanto riguarda i
segretari comunali. Una possibile linea di demarcazione è, al momento,
quella di riconoscerli esclusivamente agli appartenenti alla fascia C che,
per disposizioni contrattuali, non sono equiparati ai dirigenti. Si ricorda
come questa indicazione sia stata già utilizzata in occasione del
contenzioso aperto per i diritti di rogito che ha visto, tuttavia,
soccombente la Corte dei conti davanti alla magistratura ordinaria.
Le indicazioni sugli incentivi tecnici ai soli segretari appartenenti alla
fascia C è contenuta nel
parere
06.12.2018 n. 131
della Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per Liguria.
La vicenda
Il sindaco di un Comune di piccole dimensioni (inferiore ai 5.000 abitanti),
privo di qualifiche dirigenziali, ha chiesto ai magistrati contabili
chiarimenti sulla possibilità di erogare gli incentivi tecnici anche al
segretario comunale per le sue attività di responsabile unico del
procedimento e di responsabile dei servizi scolastici, e se lo stesso, in
considerazione del divieto posto dall'articolo 113, comma 3, del Dlgs
50/2016 sull'erogazione degli incentivi tecnici ai dirigenti, debba o meno
rientrare nella categoria esclusa da questi incentivi.
Gli incentivi tecnici
Nell'attuale quadro legislativo, sono stati molti i pareri resi dai giudici
contabili sull'erogazione degli incentivi tecnici. Al momento rientrano in
questa incentivazione oltre le attività collegate ai lavori pubblici, con
esclusione delle manutenzioni ordinarie e straordinario non espressamente
indicate dalla normativa, anche gli appalti di servizi e forniture e le
concessioni di servizi (tra le tante Sezione controllo Veneto
parere 27.11.2018 n. 455) in quanto assimilabili agli appalti. Tra la platea dei
destinatari, per espressa previsione legislativa, sono stati esclusi i
dirigenti per il superiore principio di onnicomprensività della
retribuzione.
La qualifica dei segretari comunali
Per rispondere alla domanda posta dal Comune, il collegio contabile
evidenzia come vada preliminarmente risolto il problema dell'equiparabilità
o meno dei segretari comunali ai dirigenti. Le disposizioni contrattuali
(contratto 16.05.2001) prevedono che i segretari comunali siano
ripartiti in tre fasce professionali, disciplinando analiticamente le
equiparazioni di ciascuna fascia con le varie categorie o aree
professionali, in caso di mobilità presso le altre pubbliche
amministrazioni, con equiparazione ai dirigenti per quelli appartenenti alla
fascia A, mentre per quelli di fascia B solo qualora abbiano uno stipendio tabellare equiparato a quello della dirigenza.
Tuttavia, in merito alla
equiparazione dei segretari ai dirigenti si sono espresse anche le Sezioni
unite della Cassazione (sentenza n. 786 del 19.01.2016), ma delle cui conclusioni la
Corte dei conti non ha alcun potere di cognizione, trattandosi di
presupposti rientranti in problematiche di natura esclusivamente giuslavoristiche.
Per il collegio contabile, pertanto, l'erogazione degli incentivi tecnici al
segretario generale che svolge le funzioni di Rup è possibile solo nella
misura in cui venga esclusa l'equiparazione dello stesso, in considerazione
della fascia professionale di appartenenza, al personale con qualifica
dirigenziale
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 12.12.2018). |
INCENTIVO
FUNZIONI TECNICHE - SEGRETARI COMUNALI: In merito all’erogabilità
degli incentivi per funzioni tecniche al Segretario comunale.
L'equiparazione del Segretario
comunale al dirigente ai fini dell’erogazione dell’incentivo di cui all’art.
113 d.lgs. 50/2016 presuppone, al pari dell’equiparazione ai fini della
mobilità, la soluzione di complesse problematiche di stampo schiettamente
giuslavoristico che -al pari dell’interpretazione del contratto collettivo
di riferimento- sono sottratte alla cognizione di questa Corte.
Sicché, l’erogazione
degli incentivi tecnici al Segretario generale che svolge le funzioni di Rup
è possibile solo nella misura in cui venga esclusa l’equiparazione dello
stesso, in considerazione della fascia professionale di appartenenza, al
personale con qualifica dirigenziale.
...
Con la nota in epigrafe, il Comune di Toirano (SV) chiede alla Sezione
un
parere in merito all’erogabilità degli incentivi per funzioni tecniche al
Segretario generale, individuato quale responsabile dei servizi scolastici
in un Ente locale privo di dirigenti.
In particolare, l’Ente chiede se “il Segretario generale di questo Ente,
sprovvisto di dirigenti in quanto con popolazione inferiore ai 5.000
abitanti, abbia diritto alla percezione degli incentivi di cui all’art. 113
del D.Lgs. 18.04.2016 n. 50 in qualità di RUP-Responsabile dei servizi
scolastici del comune di Toirano o debba essere equiparato alla dirigenza, e
quindi escluso dalla percezione degli incentivi così come previsto dal comma
3, ultimo capoverso, del suddetto art. 113”.
...
L’esame del quesito, tuttavia, non può che essere limitato al piano generale
ed astratto dell’interpretazione del precetto, essendo riservata alla sfera
di discrezionalità dell’Ente l’applicazione alla fattispecie concreta del
principio enunciato. Per tale ragione, questa Corte non può che indicare,
sul piano astratto, le coordinate interpretative disciplinanti l’istituto
degli incentivi per funzioni tecniche contemplato dall’art. 113 dlgs
50/2016, mentre rimane estranea all’attività consultiva la declinazione
concreta dei principi enunciati con riferimento alla specifica vicenda
rappresentata, dovendo la Corte rimanere estranea all’ambito dell’attività
di amministrazione attiva.
3. Passando la merito della richiesta, il Comune chiede un parere in merito
alla possibilità di erogare gli incentivi per funzioni tecniche al
Segretario generale che ha svolto attività di Rup in un ente privo di
dirigenza, in base a quanto disposto dall’art. 113 d.lgs. 50/2016.
L’articolo da ultimo citato disciplina, al comma 3, la destinazione (per la
quota dell’80%) delle risorse finanziarie del fondo per le funzioni tecniche
svolte dai dipendenti, sancendo che gli importi siano ripartiti tra il
responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni
tecniche nonché i loro collaboratori. La corresponsione dell’incentivo è
disposta dal dirigente o dal responsabile del servizio preposto alla
struttura competente, previo accertamento delle specifiche attività svolte
dai dipendenti destinatari dell’incentivo.
La ratio della previsione è stata individuata nella “funzione premiale
dell’istituto, volto a incentivare, con un surplus di retribuzione, lo
svolgimento di prestazioni intellettive qualificate che, ove fossero svolte
–invece che da dipendenti interni ratione officii– da esterni sarebbero da
considerare prestazioni di lavoro autonomo professionali” (Sezione controllo
Lazio
parere 06.07.2018 n. 57).
4.Quanto ai presupposti oggettivi per l’erogabilità, la giurisprudenza
contabile, nel sottolineare la natura derogatoria dell’istituto rispetto al
principio dell’onnicomprensività della retribuzione, ne ha circoscritto
l’applicazione alle attività tassativamente previste dalla legge, con
esclusione delle attività di manutenzione ordinaria e straordinaria, in
quanto non espressamente indicate (cfr. Sezione regionale di controllo per
la Puglia,
parere 28.09.2018 n. 140).
Per contro, sulla base di una
interpretazione estensiva, sono state ricondotte nell’alveo applicativo
dell’articolo non solo gli appalti di servizi e forniture, ivi contemplati
(Sezione regionale controllo Lombardia
parere 16.11.2016 n. 333), ma anche
le concessioni di servizi, attesa l’assimilabilità delle medesime
all’appalto (Sezione controllo Veneto
parere 27.11.2018 n. 455).
Più in generale, “si tratta nel complesso di compensi volti a remunerare
prestazioni tipiche di soggetti individuati e individuabili, direttamente
correlati all’adempimento dello specifico compito affidato ai potenziali
beneficiari dell’incentivo” (Sezione delle Autonomie,
deliberazione 26.04.2018 n. 6).
5.Per tali ragioni, la tassatività che connota la dimensione oggettiva della
fattispecie non può che riverberarsi sul piano soggettivo, in quanto i
soggetti destinatari dell’incentivo sono, come precisato dalla Sezione
Autonomie nella citata delibera, individuati o facilmente individuabili con
riferimento alle attività incentivate (responsabile unico del procedimento,
soggetti che svolgono le funzioni tecniche, i loro collaboratori), sicché,
ad esempio, è stata ritenuta preclusa l’erogazione dell’incentivo ai
commissari di gara (Sezione controllo Lazio,
parere 06.07.2018 n. 57, cit.)
L’ambito soggettivo dei destinatari viene, quindi, delimitato per relationem
con riferimento ai soggetti che svolgono le attività tecniche contenute
nell’elenco tassativo del comma 2. La platea dei beneficiari, inoltre, viene
ulteriormente circoscritta con l’espressa esclusione dei dirigenti, per i
quali la relatio soggetto beneficiario – attività incentivata cessa di
operare con conseguente riespansione dell’ambito di operatività del
principio di onnicomprensività della retribuzione. La disposizione, infatti,
testualmente dispone: “il presente comma non si applica al personale con
qualifica dirigenziale”.
6. La questione della riconoscibilità o meno al Segretario Generale che
svolge funzioni di RUP dell’incentivo in esame presuppone, quindi, che venga
preliminarmente affrontato e risolto il problema dell’equiparabilità o meno
dei Segretari comunali ai dirigenti.
Sotto tale profilo, il CCNL 16.05.2001 sancisce che i segretari comunali
siamo ripartiti in tre fasce professionali (art 31), disciplinando
analiticamente le equiparazioni di ciascuna fascia con le varie categorie o
aree professionali, in caso di mobilità presso le altre pubbliche
amministrazioni.
L’art. 32 del richiamato CCNL, in particolare, nel disciplinare la mobilità,
dispone che “il segretario collocato nella fascia professionale B, con
stipendio tabellare economico di cui all’art. 39, comma 1, è equiparato al
personale con qualifica dirigenziale” e che “il segretario collocato nella
fascia A è equiparato al personale con qualifica dirigenziale”.
In merito all’inquadramento dei Segretari comunali nei ruoli dirigenziali in
caso di mobilità si sono pronunciate anche le Sezioni Unite della
Cassazione, che con
sentenza n. 786 del 19.01.2016 hanno ricostruito
(anche de iure condendo) il quadro normativo disciplinante la materia.
Da quanto sopra, è evidente che l’equiparazione del Segretario comunale al
dirigente ai fini dell’erogazione dell’incentivo di cui all’art. 113 dlgs
50/2016 presuppone, al pari dell’equiparazione ai fini della mobilità, la
soluzione di complesse problematiche di stampo schiettamente giuslavoristico
che -al pari dell’interpretazione del contratto collettivo di riferimento-
sono sottratte alla cognizione di questa Corte.
Per le ragioni sopra esposte, la Sezione osserva che l’erogazione degli
incentivi tecnici al Segretario generale che svolge le funzioni di Rup è
possibile solo nella misura in cui venga esclusa l’equiparazione dello
stesso, in considerazione della fascia professionale di appartenenza, al
personale con qualifica dirigenziale
(Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria,
parere
06.12.2018 n. 131). |
A.N.AC. |
INCARICHI PROFESSIONALI: Affidamento
dei servizi legali senza deroghe ai parametri sui compensi degli avvocati.
La valutazione della componente economica non è il criterio fondamentale
nelle procedure di affidamento di attività legali per la gestione del
contenzioso, ma vanno rispettati dei parametri sui compensi degli avvocati.
L' Autorità nazionale anticorruzione analizza nelle
linee guida n. 12
(delibera 24.10.2018 n. 907) (si
veda anche il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 7 novembre) la
particolare problematica relativa alla gestione dell'analisi del prezzo
delle prestazioni professionali dei legali, assumendo a presupposto la
necessaria applicazione del principio di economicità ai percorsi selettivi
dei professionisti ai quali affidare la rappresentanza legale nel singolo
contenzioso giudiziale e stragiudiziale.
Congruità ed equità
L'Anac
evidenzia come il principio, esplicitato tra quelli che devono ispirare il
processo selettivo nell' articolo 4 del codice dei contratti pubblici,
imponga alle amministrazioni un uso ottimale delle risorse da impiegare
nello svolgimento della selezione ovvero nell'esecuzione del contratto, in
virtù del quale le stesse, prima dell' affidamento dell' incarico, sono
tenute ad accertare la congruità e l'equità del compenso.
Le linee guida
chiariscono che in considerazione della particolare natura dei servizi
legali e dell'importanza della qualità delle prestazioni, il risparmio di
spesa non è il criterio di guida nella scelta che deve compiere l'amministrazione, ma anche che il richiamo all'economicità implica la
necessità di tener conto dell' entità della spesa e di accertarne la
congruità.
La preferenza per la valutazione fondata su una pluralità di
elementi oltre alla componente economica si evince nelle indicazioni dell'Anac che sollecitano le amministrazioni a porre particolare attenzione ai
profili di competenza e di esperienza specifiche. In ordine alla definizione
del compenso, viene peraltro a essere evidenziato il necessario rispetto del
sistema di parametri stabilito per la professione forense dal Dm 55/2014,
recentemente attualizzato e integrato dal Dm 37/2018.
Preventivi a confronto
Le linee guida n. 12 forniscono anche altre alcune soluzioni operative per
la valutazione della congruità del compenso (e quindi delle proposte dei
singoli professionisti ricondotti alla procedura comparativa), che può
essere effettuata anche mediante un confronto con la spesa per precedenti
affidamenti, o con gli oneri riconosciuti da altre amministrazioni per
incarichi analoghi o con una valutazione comparativa di due o più
preventivi.
In quest'ultimo caso, trattandosi di servizi esclusi dall'
ambito di applicazione del codice dei contratti pubblici, l'amministrazione
può stabilire discrezionalmente il numero di preventivi da confrontare, più
confacente alle proprie esigenze, tenendo conto anche del valore economico
dell' affidamento
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'08.11.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L'avvocato dell'Ente pubblico non può ricoprire il ruolo di responsabile
anticorruzione.
Partendo dalla richiesta di parere dell'ente portuale del mar Adriatico
meridionale, l'Anac con la
delibera
02.10.2018 n. 841 ha dichiarato «altamente non
opportuno» attribuire il ruolo di responsabile anticorruzione al
all’avvocato dell'ente.
Inconciliabilità dei ruoli
Il ruolo di responsabile anticorruzione comporta attribuzioni di natura
gestionale e sanzionatoria inconciliabili con quello di avvocato dell'ente.
Parimenti, le avvocature degli enti pubblici devono essere dotate di
autonomia organizzativa distinta dagli altri uffici. A questo ufficio devono
essere preposti avvocati addetti in via esclusiva agli affari legali, con
esclusione dello svolgimento di «attività di gestione».
Inoltre l'iscrizione
nell'albo speciale dei legali dipendenti di enti pubblici richiede, quale
presupposto imprescindibile, la “esclusività” delle funzioni di
rappresentanza e difesa dell'ente pubblico, contrastante con mansioni di
diversa natura. Per derogare all'incompatibilità con la professione di
avvocato, il pubblico dipendente deve provare l'esistenza di un ufficio
nell'ente che abbia esclusiva attribuzione di affari legali.
Le competenze del responsabile anticorruzione, pur non essendo propriamente
compiti di amministrazione attiva, possono presentare profili di
inadattabilità con quelle di legale dell'ente pubblico. Ad esempio nei casi
di segnalazione da parte del responsabile anticorruzione all'ufficio di
disciplina, di inadempimenti di compiti di pubblicazione, qualora ne
scaturisse un contenzioso con l'ente di cui è anche avvocato, si troverebbe
in paradossale conflitto di interessi, finendo per essere avvocato di se
stesso.
Gli enti locali
Questi principi sembrerebbero comuni a tutte le amministrazioni pubbliche
tranne che per gli avvocati presso le Regioni e gli enti locali, dal momento
che la legge 208/2015 ha previsto la possibilità di attribuire ai dirigenti
dell'avvocatura civica e della polizia municipale anche altre funzioni di
natura gestionale.
Il Consiglio nazionale forense (rigettando l’opposta
interpretazione dell’Anci) ha, invece, confermato la imprescindibile
necessità di garantire agli avvocati, anche di Regioni ed enti locali, non
solo l'autonomia e l'indipendenza propria e dell'ufficio a cui appartengono
–sia essa di consulenza o di assistenza e rappresentanza dell'ente- ma
anche l'estraneità dal resto della macchina amministrativa.
L'Anac ha comunque precisato, con riguardo a (piccole) realtà comunali,
prive di professionalità idonee a ricoprire il ruolo di responsabile
anticorruzione, che l'avvocato comunale può partecipare all'ufficio dei
controlli interni e all'ufficio del responsabile della prevenzione della
corruzione
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.10.2018). |
PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: L’accertamento
di responsabilità non spetta al responsabile anticorruzione.
L'Anac, con la
delibera
02.10.2018 n. 840, ha fatto il punto sul ruolo e i poteri
del responsabile anticorruzione e trasparenza, l'occasione è nata da una
serie di istanze di parere pervenute all'Autorità.
La figura del
responsabile anticorruzione e trasparenza è disciplinata nella legge
190/2012 dove si stabilisce che ogni amministrazione approva un piano
triennale della prevenzione della corruzione e trasparenza che valuta il
livello di esposizione degli uffici al rischio corruzione e indica gli
interventi organizzativi e le misure necessari per mitigarlo.
La predisposizione e la verifica del piano sono attribuite al responsabile
anticorruzione e trasparenza. Altre disposizioni sul ruolo di questa figura
sono contenute nel decreto trasparenza 33/2013, nel Dpr 62/2013 (codice di
comportamento dei dipendenti pubblici) e e nel Dlgs 39/2013 in materia di
inconferibilità e incompatibilità degli incarichi.
Il ruolo del responsabile
anticorruzione e trasparenza rispetto all'istituto del whistleblowing
disciplinato dalla legge 179/2017 sarà affrontato in apposite linee guida
che Anac sta predisponendo.
I compiti del responsabile
Anac, partendo da una ricognizione delle disposizioni che delineano i
compiti assegnati al responsabile anticorruzione e trasparenza ha fornito le
proprie indicazioni rispetto ai casi sottoposti, affermando preliminarmente
il «principio di carattere generale secondo cui non spetta al responsabile
anticorruzione e trasparenza l'accertamento di responsabilità (e quindi la
fondatezza dei fatti oggetto di segnalazione)».
Infatti, il responsabile
anticorruzione e trasparenza è tenuto a fare riferimento agli organi interni
ed esterni all'amministrazione che hanno specifici poteri e responsabilità
sul buon andamento dell'attività amministrativa nonché sull'accertamento di
responsabilità.
Questo in una logica di non sovrapposizione dei poteri secondo «un modello a
rete in cui il responsabile anticorruzione e trasparenza possa
effettivamente esercitare poteri di programmazione, impulso e coordinamento
e la cui funzionalità dipende dal coinvolgimento e dalla
responsabilizzazione di tutti coloro che, a vario titolo, partecipano
dell'adozione e dell'attuazione delle misure di prevenzione».
Qualora il responsabile anticorruzione e trasparenza riscontri o riceva
segnalazioni di irregolarità effettua una delibazione sul fumus di quanto
rappresentato, verificando se nel piano anticorruzione vi siano o meno
misure volte a prevenire il tipo di fenomeno segnalato, anche al fine di
valutare a quali organi interni o enti/istituzioni esterne rivolgersi per
l'accertamento di responsabilità o per l'assunzione di decisioni.
Nell'ambito di questa attività, Anac ritiene che il responsabile
anticorruzione trasparenza possa acquisire atti/documenti ed effettuare
l'audizione di dipendenti se questo gli permette di avere una più chiara
ricostruzione dei fatti oggetto della segnalazione al fine di attivare gli
organi interni ed esterni all'amministrazione o per calibrare il piano
triennale anticorruzione, qualora il processo cui si riferisce il fatto
riscontrato o segnalato non sia mappato oppure sia mappato ma le misure non
siano adeguate. Tutto questo non deve invece essere volto all'accertamento
di responsabilità o della fondatezza dei fatti oggetto della segnalazione.
Un'eccezione, peraltro l'unica, al principio generale secondo cui non spetta
al responsabile anticorruzione l'accertamento di responsabilità, è
rappresentata dai poteri attribuiti in materia di accertamento della
violazione delle incompatibilità e inconferibilità degli incarichi
disciplinati dal Dlgs 39/2013. Infatti, nella
determinazione 03.08.2016 n. 833, Anac ha
precisato che spetta al responsabile anticorruzione «avviare il procedimento sanzionatorio, ai fini dell'accertamento delle responsabilità soggettive e
dell'applicazione della misura interdittiva prevista dall'art. 18 (per le
sole inconferibilità)».
Controlli di legittimità o di merito
Sempre nella
delibera
02.10.2018 n. 840, Anac afferma che il responsabile
anticorruzione non deve svolgere controlli di legittimità o di merito su
atti e provvedimenti dell'amministrazione, né esprimersi sulla loro
regolarità tecnica o contabile, altrimenti sconfinerebbe nelle competenze di
soggetti a ciò preposti, a meno che da tali atti non siano state tratte
misure di prevenzione inserite nel piano anticorruzione.
Come pure sono da
escludere dalle funzioni del responsabile anticorruzione le attività sui
controlli interni previste dagli articolo 147 e seguenti del Tuel, fermo
restando quanto previsto nel piano triennale anticorruzione rispetto
all'area «Affari legali e contenzioso», quale area generale a rischio
corruttivo.
Infine, nella delibera in commento, Anac precisa che il rapporto fra i
responsabili anticorruzione di un'amministrazione vigilante e di un ente
vigilato, seppur improntato su di una leale collaborazione, non può essere
di subordinazione, fermi restando i poteri che un ente può esercitare su un
altro in attuazione del rapporto di vigilanza
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 12.11.2018). |
SEGRETARI COMUNALI: Segretari
senza tutela contro la revoca immotivata da parte della giunta.
La procedura disegnata dal regolamento Anac che tutela i responsabili
anticorruzione da revoche arbitrarie delle amministrazioni non può contare
su un quadro normativo esaustivo.
Le lacune rimangono anche dopo la
delibera 18.07.2018 n. 657 dell’Autorità (si vedano
gli articoli sul Quotidiano degli enti locali e della Pa di ieri e del 18
settembre), che certo non avrebbe potuto colmarle senza correre il rischio
di esercitare illegittimamente una funzione suppletiva rispetto a questioni
che debbono trovare necessaria soluzione in sede normativa. Quale è quella -più volte reiterata- di introdurre un’adeguata ed efficace tutela del
segretario comunale e provinciale, investito di importanti funzioni di
controllo interno di legalità, tra cui il ruolo di Rpct.
Evidente è apparsa la definizione di un sistema di tutela che appare
limitato rispetto a quello riservato al whistleblower dalla legge n.
179/2017.
L'organo competente alla comunicazione della revoca
La legge prevede che la comunicazione del provvedimento di revoca all’Anac
debba essere effettuata dai prefetti nei casi previsti dall'articolo 1,
comma 82, della legge 190/2012. L'articolo 15, comma 3, del Dllgs 39/2013,
invece, prevede in modo più generico che «il provvedimento di revoca (…)
comunque motivato, è comunicato all'Autorità», senza ulteriori
specificazioni.
L'interpretazione data dal regolamento, dunque, tenuto conto del tenore
delle norme e anche per responsabilizzare le amministrazioni, è che la
revoca va comunicata immediatamente da chi ha adottato l'atto o dal
prefetto. A questo fine, l’Anac si è riservata di fornire linee di indirizzo
agli enti locali, tenuto conto che da questi dipende l'adempimento da parte
dell'autorità prefettizia. Né è stato previsto che siano le organizzazioni
sindacali cui il Rptc avesse aderito o conferito mandato possano comunicare
la revoca.
Diversamente, tale possibilità non è stata esclusa a priori per segnalare
misure discriminatorie, come avviene per esempio per la comunicazione di
atti ritorsivi nei confronti del whistleblower.
L'inapplicabilità della tutela riservata al whistlelower
Il regolamento Anac in vigore dal 24 agosto scorso non ha potuto introdurre
strumenti di protezione analoghi a quelli riconosciuti dall'articolo 1,
commi 7 e 8, della legge 179/2017 per il whistleblower. E nemmeno analoghe
sanzioni.
Come evidenziato dall'Autorità nella relazione AIR allegata al regolamento,
sono due normative con finalità differenti che non possono essere
assimilate. A ciò si aggiunga che per le sanzioni vale il principio di
stretta legalità, per cui non è possibile applicarle in via analogica.
Esclusa, in quanto la normativa non lo prevede, anche la possibilità di
estendere la tutela del regolamento per un periodo di tempo predeterminato
(non inferiore a un anno) anche oltre la cessazione dall'incarico del Rpct,
per evitare che le eventuali misure discriminatorie, irrogate in tale
periodo, sfuggano completamente alla funzione di controllo dell'Anac con il
semplice metodo della loro adozione in via differita.
La questione (irrisolta) della tutela del segretario
Rimane irrisolta –e non poteva essere diversamente in assenza di norma
specifiche– la questione della tutela del segretario comunale e provinciale
rispetto a provvedimenti di revoca immotivati da parte dell'organo di
indirizzo politico competente alla nomina.
L'attribuzione di funzioni in materia di prevenzione della corruzione,
infatti, è stata «bilanciata» dalla legge con la previsione di una tutela
aggiuntiva al segretario da attivarsi nelle ipotesi di revoca dall'incarico
di Rpct, per evitare che la stessa divenisse meccanismo di ritorsione.
Questa tutela aggiuntiva si limita alla sospensione di efficacia della
revoca del segretario comunale per 30 giorni, termine entro il quale l'Anac
deve verificare se il provvedimento sia in qualche modo connesso alle
funzioni svolte in materia di anticorruzione.
L'Anac può formulare una richiesta di riesame qualora rilevi che la revoca
sia correlata alle attività svolte dal responsabile in materia di
prevenzione della corruzione. Decorso il termine la revoca diventa in ogni
caso efficace. In tal senso, l'Autorità non interviene a valutare la
legittimità o meno del provvedimento di revoca in relazione ai comportamenti
e agli inadempimenti contestati, ma solo per verificare se sia correlata
alle attività svolte dal segretario comunale in materia di prevenzione della
corruzione.
Occorre peraltro evidenziare che con la deliberazione del 23.01.2017 n.
20, l'Anac ha espresso parere non favorevole alla revoca di un Segretario,
modificando in termini estensivi il perimetro dell'ambito della propria
verifica
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 20.09.2018). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Inconferibilità di incarichi ai sensi dell'art. 8 del D.Lgs. 39/2013.
Incompatibilità sopravvenuta ai sensi delle disposizioni del D.Lgs. 267/2000.
1) Non sussiste la causa di inconferibilità
di cui all’art. 8, co. 5, del D.Lgs. 39/2013 per l’assessore di un Comune
con popolazione inferiore a 15.000 abitanti che sia nominato direttore
generale di un’azienda sanitaria nel cui ambito territoriale è compreso il
Comune presso cui l’amministratore locale svolge il proprio mandato
elettivo.
2) L’indicata causa di inconferibilità non sussiste nemmeno nel
caso in cui il Comune partecipi ad un’Unione territoriale intercomunale con
popolazione superiore a 15.000 abitanti, compresa nell'ambito territoriale
dell'azienda sanitaria, a condizione che l’amministratore locale non faccia
parte (o non abbia fatto parte nei due anni precedenti) dell’organo
consiliare o dell’organo con funzioni esecutive dell’Unione.
3) Nel caso in cui l’assessore comunale venisse nominato direttore
generale di un’azienda sanitaria si realizzerebbe, invece, la causa di
incompatibilità sopravvenuta di cui all’art. 66 TUEL, il quale prevede che
“La carica di direttore generale, di direttore amministrativo e di direttore
sanitario delle aziende sanitarie locali e ospedaliere è incompatibile con
quella di consigliere provinciale, di sindaco, di assessore comunale, di
presidente o di assessore della comunità montana.”
Il Comune, il quale ha una popolazione inferiore a 15.000 abitanti e
partecipa ad un’Unione territoriale intercomunale con popolazione superiore
alla soglia indicata, chiede un parere in merito alla possibilità che un
proprio assessore sia nominato direttore generale di azienda sanitaria, alla
luce della disposizione dettata in materia di inconferibilità di incarichi
dall’art. 8, comma 5, del decreto legislativo 08.04.2013, n. 39.
Tale norma stabilisce infatti che “Gli incarichi di direttore generale,
direttore sanitario e direttore amministrativo nelle aziende sanitarie
locali non possono essere conferiti a coloro che, nei due anni precedenti,
abbiano fatto parte della giunta o del consiglio di una provincia, di un
comune con popolazione superiore ai 15.000 o di una forma associativa tra
comuni avente la medesima popolazione, il cui territorio è compreso nel
territorio della ASL”.
Premesso che la consistenza demografica del Comune esclude di per sé il
sorgere della causa di inconferibilità in esame, per quanto riguarda la “forma
associativa tra comuni”, risulta necessario verificare che l’assessore
comunale non faccia parte (o non abbia fatto parte nei due anni precedenti)
dell’organo consiliare o dell’organo con funzioni esecutive dell’Unione.
Atteso che, secondo quanto precisato dal Comune, l’assessore non
partecipa/ha partecipato né all’Assemblea né all’Ufficio di Presidenza
dell’Unione, in coerenza con le previsioni statutarie relative alla
composizione degli organi della forma associativa, si ritiene che non si
configuri nei suoi confronti l’inconferibilità dell’incarico di direttore
generale dell’azienda sanitaria, di cui alla disposizione in argomento.
Qualora all’assessore sia conferito detto incarico, il Comune chiede inoltre
se nei suoi confronti venga in essere una causa di incompatibilità
sopravvenuta, ai sensi delle disposizioni contenute nel decreto legislativo
18.08.2000, n. 267.
Al riguardo rileva il disposto di cui all’articolo 66 TUEL il quale recita:
“La carica di direttore generale, di direttore amministrativo e di
direttore sanitario delle aziende sanitarie locali e ospedaliere è
incompatibile con quella di consigliere provinciale, di sindaco, di
assessore comunale, di presidente o di assessore della comunità montana.”.
Segue che, nel caso in cui l’assessore comunale venisse nominato direttore
generale di un’azienda sanitaria si realizzerebbe la causa di
incompatibilità sopravvenuta sopra descritta con necessità che il consiglio
comunale attivi nei suoi confronti il procedimento di cui all’articolo 69
TUEL (21.12.2018 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Certificato giorno prima.
Domanda
Quali sono i casi in cui il certificato di malattia può avere validità dal
giorno precedente quello della redazione?
Risposta
L’Inps ha fornito indicazioni nel merito della domanda formulata con le
circolari n. 63 del 07.03.1991 e n. 147 del 15.07.1996.
Pur essendo circolati molto retrodatate, sono istruzioni che l’Istituto
ritiene tutt’ora valide e che si esprimono in merito alla validità della
data di decorrenza della prognosi indicata nel certificato di malattia ai
fini del riconoscimento della tutela previdenziale da parte dell’istituto.
Le istruzioni precisano che il certificato di malattia ha validità dal
giorno di redazione e l’eventuale compilazione della voce “dichiara di
essere ammalato dal…” assume rilevanza solo come dato anamnestico.
Le circolari precisano che, solo in caso di certificazione rilasciata
durante una visita domiciliare, l’istituto ammette la possibilità di
riconoscere la sussistenza dello stato morboso e la relativa copertura
previdenziale di malattia, anche dal giorno precedente alla data di
redazione del certificato medesimo.
Le indicazioni sono state fornite in un momento in cui la redazione del
certificato era esclusivamente cartacea e non era possibile identificare con
certezza se la visita era stata domiciliare o ambulatoriale.
Da questo derivava una tolleranza da parte dell’istituto sul giorno
precedente alla redazione della certificazione.
Dall’introduzione del certificato telematico è possibile inserire nella “maschera”
del certificato se la visita è stata eseguita in ambulatorio o al domicilio
del paziente.
Solo nel caso della visita domiciliare l’istituto ammette la “copertura”
del giorno precedente.
Le indicazioni sopra riportate valgono certamente per i dipendenti privati e
possono ragionevolmente intendersi valevoli anche per i lavoratori del
pubblico impiego nella misura in cui l’ente intenda darne applicazione.
Ricordiamo che nelle aziende private la tutela e la copertura della malattia
è a carico dell’Istituto mentre nel pubblico impiego è a carico dell’ente.
Dette istruzioni possono certamente guidare nell’interpretazione delle
norme, e, per analogia di fattispecie trattata, essere applicate.
Interessante precisazione viene offerta nelle ipotesi di lavoratori
turnisti. Qualora l’evento di malattia si manifesti in orario successivo
alla chiusura dell’ambulatorio medico, il lavoratore, ai fini
dell’erogazione dell’indennità di malattia dell’Inps, dovrà necessariamente
rivolgersi ad una struttura pubblica di continuità assistenziale per il
rilascio della certificazione attestante l’incapacità temporanea al lavoro.
Qualora ciò non fosse possibile, per motivi giustificati e da documentare
adeguatamente, il lavoratore medesimo potrà farsi rilasciare la
certificazione di malattia dal medico durante il giorno successivo
all’inizio dell’evento (20.12.2018 - tratto da e link a
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APPALTI:
Svincolo
offerente.
Domanda
Vorrei sottoporre una questione che riguarda l’area organizzativa di cui
sono responsabile, relativamente all’aggiudicazione di un appalto di
assistenza software ed hardware.
Per varie lungaggini e, soprattutto, per sopravvenute carenze finanziarie,
pur avendo bandito una procedura ad invito (ai sensi dell’articolo 36, comma
2, lett. b), del codice dei contratti, non siamo riusciti ad aggiudicare nel
termine di 60 giorni dalla scadenza della gara e l’aggiudicataria ha
comunicato che non intende procedere con la stipula del contratto per
scadenza dei termini.
Vorremmo capire, pertanto, se siamo, come stazione appaltante, vincolati a
questo comportamento (visto che il ritardo è senza dubbio imputabile
all’amministrazione) o se abbiamo invece, altre possibilità come procedere
all’assegnazione dell’appalto al secondo in graduatoria.
Risposta
La questione posta ha una certa rilevanza anche perché incide sulla
correttezza dei rapporti che la stazione appaltante (e reciprocamente),
l’appaltatore debbono mantenere.
Dal quesito non è chiaro il riferimento al termine di 60 giorni come vincolo
per l’aggiudicazione. In realtà, il termine indicato viene in rilievo in
relazione alla stipula del contratto (e non di aggiudicazione).
Ai sensi del comma 1 dell’articolo 32 del codice dei contratti, il termine
di 60 giorni è riferito al “tempo” entro cui occorre giungere alla
formalizzazione del contratto (da cui, tra l’altro, sorge, l’obbligazione
giuridica che consente l’assunzione dell’impegno di spesa).
Il comma citato –prima parte– sottolinea che “Divenuta efficace
l’aggiudicazione, e fatto salvo l’esercizio dei poteri di autotutela nei
casi consentiti dalle norme vigenti, la stipulazione del contratto di
appalto o di concessione ha luogo entro i successivi sessanta giorni, salvo
diverso termine previsto nel bando o nell’invito ad offrire, ovvero
l’ipotesi di differimento espressamente concordata con l’aggiudicatario. Se
la stipulazione del contratto non avviene nel termine fissato,
l’aggiudicatario può, mediante atto notificato alla stazione appaltante,
sciogliersi da ogni vincolo o recedere dal contratto”.
Aspetto completamente diverso è quello del “tempo”
dell’aggiudicazione. Il tempo (o il termine) dell’aggiudicazione deve essere
indicato nel bando di gara (o atto omologo) e, tradizionalmente viene
fissato dalla norma –in caso di mancata espressa o diversa indicazione– in
180 giorni. Termine che decorre dalla data di scadenza di presentazione
dell’offerta.
In particolare, il comma 4 sempre dell’articolo 32, –secondo disposizioni
già note anche sotto l’egida del pregresso codice degli appalti– puntualizza
che “Ciascun concorrente non può presentare più di un’offerta. L’offerta
è vincolante per il periodo indicato nel bando o nell’invito e, in caso di
mancata indicazione, per centottanta giorni dalla scadenza del termine per
la sua presentazione. La stazione appaltante può chiedere agli offerenti il
differimento di detto termine”.
Ora, non v’è dubbio che se nella lettera di invito (o nel testo della
richiesta a presentare offerta o in atti tecnici differenti) non è stata
riportata alcuna indicazione (e deve ritenersi sufficiente un semplice
richiamo al codice dei contratti) il termine che l’appaltatore deve “subire”
è quello di 180 giorni. Sempre fatto salvo che invece non sia stato indicato
altro termine.
Se viene a mancare una indicazione specifica e diversa, la norma in
questione è eterointegrativa e l’appaltatore non può legittimamente
rifiutarsi di stipulare il contratto. Si esporrebbe a provvedimenti della
stazione appaltante (quelli classici dell’escussione della cauzione e della
trasmissione degli atti all’ANAC ed in più detto comportamento è valutabile
anche in successivi appalti quale “misuratore” dell’affidabilità ai
sensi dell’articolo 80 del codice).
Il suggerimento, evidentemente, è quello di convocare l’appaltatore ponendo
in chiaro il riferimento normativo e gli obblighi a cui deve sottostare per
aver partecipato alla competizione.
In difetto si opera con un provvedimento di revoca dell’aggiudicazione
imputabile all’appaltatore e assegnazione al secondo classificato.
In giurisprudenza, può essere utile il ragionamento espresso dal TAR Puglia,
Bari, sez. III, sentenza del 06.12.2018 n. 1556.
In questa si legge che “l’art. 32, comma 4, del Dlgs 50/2016, prevede che
nelle gare d’appalto l’offerta del concorrente è vincolante per il periodo
indicato nel bando e, in caso di mancata indicazione, per 180 giorni
decorrenti dalla scadenza del termine per la sua presentazione, salvo che la
Stazione appaltante chieda ai concorrenti il differimento di tale termine.
La disposizione in questione, tuttavia, contrariamente a quanto sostenuto da
parte ricorrente, non prevede una ipotesi di decadenza ex lege dell’offerta
decorso il relativo termine, consentendo all’offerente, con atto espresso,
di potersi svincolare dalla stessa prima dell’approvazione
dell’aggiudicazione definitiva. Pertanto, se l’offerente non dichiara
tempestivamente (alla scadenza del predetto termine di 180 giorni, ma prima
dell’approvazione dell’aggiudicazione definitiva) di ritenersi sciolto
dall’offerta, la stessa non decade” (19.12.2018 - tratto da e
link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI:
Verifiche contributi associazioni, onlus, fondazioni.
Domanda
La cosiddetta Legge Concorrenza ha introdotto l’obbligo per “associazioni,
onlus e fondazioni” di comunicare entro il 28 febbraio, tramite il
proprio sito, i contributi ricevuti dalle pubbliche amministrazioni, pena la
restituzione delle somme.
Dal momento che il nostro comune eroga contributi, durante l’anno, a tali
associazioni, dobbiamo compiere delle verifiche?
Risposta
La legge 04.08.2017, n. 124, recante: Legge annuale per il mercato e la
concorrenza, all’articolo 1, commi 125, 126 e 127 ha disposto, fra le altre
cose, un adempimento per le associazioni che ricevono benefici economici da
parte delle pubbliche amministrazioni. Se tali contributi o vantaggi
economici superano, durante l’anno solare, l’importo di 10.000 euro, le
associazioni dovranno pubblicare i dati e le informazioni in un’apposita
sezione del proprio sito internet.
L’obbligo menzionato riguarda “le associazioni, le Onlus e le fondazioni
che intrattengono rapporti economici con le pubbliche amministrazioni”
(oltre che con società controllate di diritto o di fatto direttamente o
indirettamente da pubbliche amministrazioni) e cioè che ricevono da queste “sovvenzioni,
contributi, incarichi retribuiti e comunque vantaggi economici di qualunque
genere”.
La normativa, entrata in vigore il 29.08.2017, si riferisce non solo ai
contributi pubblici, ma anche agli incarichi affidati dalla pubblica
amministrazione alle organizzazioni menzionate, aventi natura commerciale,
oltre che i vantaggi economici di qualunque genere.
Se l’importo di tali diverse voci, sommate fra loro, supera, nell’anno
solare, i 10.000 euro, l’organizzazione deve pubblicare sul sito web, entro
il 28 febbraio dell’anno successivo, l’entità di quanto ha ricevuto. Se,
invece, il contributo ricevuto fosse di importo inferiore, non è previsto
alcun obbligo di pubblicazione.
La norma prevede anche una sanziona piuttosto pesante, conseguente al
mancato adempimento: l’obbligo di restituzione dell’intera somma ricevuta,
ai soggetti eroganti.
Il passaggio rilevante, per coloro che erogano i benefici economici, sta
proprio nel fatto che, in caso di omessa pubblicazione, i soggetti
inadempienti sono tenuti alla restituzione delle somme, entro tre mesi dal
termine del 28 febbraio.
Per rispondere al quesito posto, quindi, si evidenzia che in via indiretta,
la normativa richiama degli obblighi di verifica e controllo, in capo al
comune, circa l’avvenuto adempimento della pubblicazione dei dati da parte
dei soggetti del Terzi Settore.
Alla data del 28.02.2019, risulta perciò opportuno che si compia una
verifica sul portale o sul sito internet del soggetto beneficiario, al fine
di verificare la tempistica dell’adempimento.
Qualora il soggetto non abbia provveduto alla pubblicazione entro i termini,
il comune dovrà avvisare il beneficiario del contributo che, a partire dal
31 maggio, sarà tenuto a richiedere in restituzione le somme erogate, come
disposto dalla normativa.
Inoltre, si suggerisce di inserire negli accordi e nelle convenzioni che
verranno stipulate con le associazioni, che erogano particolari servizi a
favore dell’ente, una disposizione che imponga all’associazione di
comunicare, all’ente locale, l’avvenuto adempimento della pubblicazione,
segnalando, ad esempio, il link dove sono rintracciabili le informazioni
necessarie.
Si evidenzia, infine, che, a carico del comune erogatore dei benefici
economici, permangono comunque gli obblighi di pubblicazione già previsti
dagli articoli 26 e 27 del d.lgs. 33/2013, ossia:
• pubblicazione degli atti di concessione delle sovvenzioni,
contributi, sussidi ed ausili finanziari alle imprese, e comunque di
vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati
di importo superiore a mille euro (articolo 26, comma 2);
• pubblicazioni degli atti con i quali sono determinati i criteri e
le modalità di concessione dei benefici economici di cui al punto precedente
(articolo 26, comma 1);
• pubblicazione annuale dell’elenco dei soggetti beneficiari (art.
27, comma 2) (18.12.2018 - tratto da e link a www.publika.it). |
TRIBUTI:
Esonero
TOSAP passi carrai.
Domanda
Questo ente applica la tassa per l’occupazione degli spazi ed aree pubbliche
(TOSAP) e vorrebbe abolire il tributo sui passi carrabili. E’ possibile?
Risposta
Prima di rispondere al quesito è opportuno premettere che tra le occupazioni
permanenti una posizione del tutto specifica è assunta dai passi carrabili,
la cui disciplina originaria (art. 44 del d.lgs. 507/1993) è stata in buona
parte riscritta con la l. 549/1995 (collegata alla finanziaria 1996).
In particolare, la determinazione della superficie da assoggettare ad
imposizione avviene con criteri in parte forfettari, assumendo l’apertura
del passo carrabile per la profondità convenzionale di un metro lineare.
L’ammontare della tassa per metro quadrato, applicabile ai passi carrabili,
è pari a quella ordinaria, stabilita per le altre occupazioni permanenti,
ridotta alla metà. Tale riduzione peraltro non dipende dalla discrezionalità
degli enti impositori, ma è dovuta in base alla legge.
I comuni hanno, invece, la facoltà di applicare il COSAP (canone per
l’occupazione di spazi ed aree pubbliche: art. 63 del d.lgs. 446/1997) in
alternativa alla TOSAP, oppure rimanere in TOSAP ma non applicare la tassa
sui passi carrabili (esonero, peraltro, estensibile ad altre fattispecie,
tra cui le autovetture adibite a trasporto pubblico o privato nelle aree
pubbliche e le condutture idriche necessarie per l’attività agricola nei
comuni classificati montani).
Invero, per quanto riguarda il quesito sull’esonero dei passi carrabili, non
si rinviene nel d.lgs. 507/1993 alcuna previsione specifica ma occorre fare
riferimento a norme contenute in altri provvedimenti legislativi e, in
particolare, nell’art. 6, comma 63, lett. a), della l. 549/1995, e nell’art.
6-quater, comma 4, della l. 410/1997 (che ha introdotto il comma 63-bis
all’art. 6 della l. 549/1995).
In particolare, l’art. 3, comma 63, lett. a), della l. 549/1995 stabilisce
che i comuni, anche in deroga agli artt. 44 e seguenti del d.lgs. 507/1993,
possono con apposite deliberazioni “stabilire la non applicazione della
tassa sui passi carrabili”.
Inoltre, l’art. 6-quater, comma, 3 della l. 410/97 (di conversione del d.l.
29/9/1997 n. 328) consente ai comuni di attribuire alla relativa delibera
effetto retroattivo.
I comuni hanno pertanto la facoltà, con propria deliberazione, alla quale
può essere attribuita efficacia retroattiva, di esonerare dalla TOSAP le
occupazioni realizzate con passi carrabili per gli anni nei quali non sia
stata applicata la tassa (art. 3, comma 63, lett. a), della l. 549/1995;
art. 6-quater, comma 3, della l. 410/1997; Ministero Finanze risoluzione
10/02/1999 n. 19/E).
Si evidenzia, infine, che il Ministero delle Finanze ha ritenuto legittimo
il comportamento dell’ente che abbia disciplinato in sede regolamentare
l’applicazione del beneficio dell’esenzione ai soli passi carrabili di uso
agricolo (Risoluzione n. 101/E del 04/07/2000), vale a dire i passi
carrabili utilizzati da veicoli agricoli o da mezzi comunque impiegati
nell’esercizio normale delle attività di cui all’art. 2135 c.c. (17.12.2018
- tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Calcolo e utilizzo resti assunzionali.
Domanda
Il nostro ente ha avviato nel 2018 una procedura di assunzione che si
concluderà, presumibilemente, nel 2019. Potete spiegare come funziona
l’utilizzo dei resti della capacità assunzionale?
Risposta
Non avendo conoscenza delle modalità di calcolo della capacità assunzionale
effettuato dall’ente, si premette che, se non utilizzata entro il
31.12.2019, solo la quota dei resti inutilizzati dell’anno 2016 sulle
cessazioni di personale avvenute nell’anno 2015, andrà “persa” e non
potrà più essere utilizzata.
Non bisogna riferirsi ad un aggregato unico, poiché il triennio precedente è
a scorrimento, dinamico.
Nel calcolo della capacità assunzionale dell’anno 2019, l’ente avrebbe già
dovuto tener conto di ciò, procedendo, dapprima al calcolo della capacità
assunzionale di competenza, basata sulle cessazioni di personale dell’anno
2018, e poi sommare a questo dato, l’importo dei resti 2016/2018, sulle
cessazioni 2015/2017.
Comunque, fermo restando l’impossibilità di entrare nel dettaglio non avendo
tutti gli elementi conoscitivi necessari, se l’ente è in grado di dimostrare
di aver attivato tutte le procedure propedeutiche all’assunzione già a
partire dall’anno 2018, e non ha modificato l’atto di programmazione del
fabbisogno di personale, confermando l’esigenza di coprire il posto del
profilo ricercato, si ritiene che l’ente possa concludere le procedure
assunzionali entro l’anno 2019 (13.12.2018 - tratto da e link a
www.publika.it). |
APPALTI:
Operatore economico non invitato.
Domanda
Come RUP mi sono occupato di predisporre gli atti per una procedura
negoziata per la fornitura di cancelleria. Al procedimento, per un importo
sotto soglia, ho, previa indagine di mercato sul MEPA, individuato 7
operatori a cui ho rivolto specifico invito.
Tra le offerte, peraltro non ancora aperte, è pervenuta la proposta
tecnico/economica di un diverso operatore che, evidentemente venuto a
conoscenza della procedura, ha deciso di partecipare alla procedura
negoziata nonostante non sia stato esplicitamente invitato.
Nell’analizzare questo aspetto, con il responsabile del servizio, ci si è
posti il problema se questo soggetto partecipante alla gara debba essere
ammesso. Secondo alcuni operatori il RUP dovrebbe procedere con l’esclusione
ma io rimango con forti dubbi. E’ possibile avere un chiarimento in merito?
Risposta
L’aspetto sollevato è, effettivamente, uno dei più delicati in quanto,
normalmente, alla procedura negoziata (soprattutto in relazione ad un
procedimento semplificato e libero come quello previsto nell’articolo 36 del
codice dei contratti), ordinariamente può partecipare solo l’appaltatore che
viene invitato.
Del resto, aspetti differenti non emergono neppure dalle linee guida n. 4
dell’ANAC che rimettono a discrezione della stazione appaltante su come
modellare l’avviso pubblico e/o come procedere con l’indagine di mercato
purché secondo criteri trasparenti ed oggettivi.
È bene però annotare che, anche in ossequio ad un comportamento imparziale,
anche la recente giurisprudenza ha invece evidenziato che, in caso di
proposta da parte di un operatore non invitato (sempre che risulti in
possesso dei prescritti requisiti), la stazione appaltante non possa
discrezionalmente decidere l’estromissione.
In questo senso, esemplificativo è il riscontro fornito dal Tar
Abruzzo–L’Aquila, con la recente sentenza n. 397/2018 con cui il giudice ha
ritenuto persuasivo il ragionamento del ricorrente che ha impugnato la
propria esclusione (o meglio il fatto che la propria offerta non sia stata
oggetto di considerazione per il fatto che risultava appaltatore non
invitato).
Di seguito si porta la parte sostanziale della sentenza con suggerimento al
RUP di attenersi a quanto in essa indicato;
“Ministero
delle Infrastrutture e dei Trasporti pubblicava nell’Agosto 2018 la lettera
d’invito per l’affidamento, con il sistema della procedura negoziata di cui
all’art. 36, comma 2, lett. c), del D.Lgs. 50/2016, dei lavori di
consolidamento per il ripristino della transitabilità di un tratto della
S.P. 49 di Valle Castellana;
Considerato che la ricorrente, che aveva espressamente richiesto di poter
partecipare alla procedura, presentava domanda di partecipazione pur non
avendo ricevuto la lettera d’invito;
Ritenuto che la disposizione di cui all’art. 36, lett. c), D.Lgs. 50/2016
delinei una disciplina speciale che, pur nel rispetto dei principi di non
discriminazione, parità di trattamento, proporzionalità e trasparenza,
affida esclusivamente all’amministrazione, non essendo prevista la previa
pubblicazione del bando di gara, l’individuazione degli operatori economici
astrattamente idonei a svolgere la prestazione e pertanto invitati a
presentare l’offerta, ispirandosi a principi di snellimento e celerità della
procedura e che, trattandosi pertanto di una procedura speciale e
derogatoria dei principi di pubblicità, come tale limitativa dell’altro
principio della massima partecipazione possibile posto a tutela della
concorrenza, le relative disposizioni devono essere oggetto di stretta
interpretazione;
Considerato che la giurisprudenza amministrativa ha affermato che “la
Sezione è dell’avviso che se, in ragione del potere riconosciuto
all’amministrazione di individuare gli operatori economici idonei a
partecipare e pertanto invitati a partecipare alla gara, un operatore
economico non possa vantare alcun diritto ad essere invitato a partecipare a
tale tipo di gara (potendo eventualmente, qualora sussista una posizione
legittimante e l’interesse, ricorrere nei confronti della scelta
discrezionale della amministrazione appaltante dell’individuazione dei
soggetti da invitare), non può negarsi ad un operatore economico, che sia
comunque venuto a conoscenza di una simile procedura e che si ritenga in
possesso dei requisiti di partecipazione previsti dalla legge di gara, di
presentare la propria offerta, salvo il potere dell’amministrazione di
escluderlo dalla gara per carenze dell’offerta o degli stessi requisiti di
partecipazione ovvero perché l’offerta non è pervenuta tempestivamente
(rispetto alla scadenza del termine indicata nella lettera di invito agli
operatori invitati) e sempre che la sua partecipazione non comporti un
aggravio insostenibile del procedimento di gara e cioè determini un concreto
pregiudizio alle esigenze di snellezza e celerità che sono a fondamento del
procedimento semplificato delineato dall’art. 122, comma 7, e 57, comma 6,
del D.Lgs. n. 163/2006: conseguentemente anche gli altri partecipanti, in
quanto invitati, non possono dolersi della partecipazione alla gara di un
operatore economico e tanto meno dell’aggiudicazione in favore di quest’ultimo
della gara, salva evidentemente la ricorrenza di vizi di legittimità diversi
dal fatto della partecipazione in quanto non invitato.
Una simile interpretazione è conforme non solo e non tanto al solo principio
del favor partecipationis, costituendo piuttosto puntuale applicazione
dell’altro fondamentale principio di concorrenza cui devono essere ispirate
le procedure ad evidenza pubblica e rappresentando contemporaneamente anche
un ragionevole argine, sia pur indiretto e meramente eventuale, al potere
discrezionale dell’amministrazione appaltante di scelta dei contraenti” (Cons.
St. 3989/2018)” (12.12.2018
- tratto da e link a www.publika.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Anonimizzazione percettori contributi.
Domanda
Nel nostro comune, per rendere anonime le persone a cui viene erogato un
contributo, utilizziamo le iniziali. A un corso di formazione ci è stato
detto che non vanno bene. Come potremmo agire per essere trasparenti e
rispettare le norme di legge in materia di privacy?
Risposta
L’articolo 26, comma 4, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33
(cosiddetto decreto Trasparenza), prevede l’esclusione dalla pubblicazione
dei dati identificativi dei destinatarie di provvedimenti di concessione di
sovvenzioni, contributi, sussidi e attribuzione di vantaggi economici a
persone fisiche, qualora da tali dati sia possibile ricavare informazioni
sullo stato di salute o sulla situazione di disagio economico-sociale.
Trattandosi di categorie di persone ben delineate, l’esclusione deve
intendersi assoluta, per cui l’ente dovrà adottare tutte le cautele
necessarie a rendere non identificabili i soggetti beneficiari. In tal
senso, l’uso delle iniziali del cognome e nome, a nostro giudizio, non
risponde affatto alle caratteristiche che una sana operazione di
anonimizzazione dovrebbe garantire.
Molto più valido ci appare, alla luce delle Linee guida del garante privacy,
l’utilizzo di un codice identificativo sostitutivo, con il quale individuare
il soggetto beneficiario di un contributo economico.
A completamento informativo, si fa presente che:
a) per contributi e sovvenzioni occorre rifarsi alle disposizioni
dell’art. 12, della legge 07.08.1990, n. 241 e del regolamento
(obbligatorio) presente in ogni ente;
b) nella sezione Amministrazione trasparente l’obbligo riguarda
solamente i contributi di importo superiore a 1.000 euro, erogati con
appositi atti di concessione;
c) la pubblicazione è condizione di efficacia dei provvedimenti e,
quindi, deve avvenire tempestivamente e, comunque, prima della liquidazione
delle somme oggetto del provvedimento;
d) l’elenco dei contributi erogati, deve essere reso anche
disponibile nella sezione «Amministrazione trasparente», secondo
modalità di facile consultazione, in formato tabellare aperto che ne
consenta l’esportazione, il trattamento e il riutilizzo e devono essere
organizzate annualmente in unico elenco per singola amministrazione;
e) molte amministrazioni –prevedendolo nella sezione Trasparenza
del Piano Anticorruzione– hanno esteso l’obbligo di pubblicare tutti gli
atti di concessione di contributi o vantaggi economici, di qualsiasi
importo.
Resta, comunque, confermato l’obbligo di non rendere identificabili i
nominativi dei beneficiari (persone fisiche), quando il contributo è dovuto
per situazione di salute o legata a condizione socio-economica, quali –ad
esempio– graduatorie compilate mediante reddito ISEE o altri parametri
economici, di norma, stabiliti nei vari regolamenti in materia.
Per comprendere meglio tutta la questione del rapporto tra obblighi di
pubblicità e trasparenza e obblighi di tutela dei dati delle persone
fisiche, si consiglia un’attenta lettura (e applicazione) delle Linee Guida
del Granate privacy italiano, datate 15.05.2014, rubricate “Linee
guida in materia di trattamento di dati personali, contenuti anche in atti e
documenti amministrativi, effettuato per finalità di pubblicità e
trasparenza sul web da soggetti pubblici e da altri enti obbligati”.
Per coloro che redigono e approvano atti che vengono pubblicati sui siti web
delle amministrazioni (albo pretorio e amministrazione trasparente), le
citate Linee guida sono la “Bibbia” a cui attenersi con scrupolo e
meticolosità (11.12.2018 - tratto da e link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: Quesito
sulla disciplina della parità di genere nelle giunte comunali dei Comuni con
popolazione inferiore ai 3.000 abitanti.
È legittima la composizione della giunta di un comune
con popolazione inferiore a 3.000 abitanti composta dal sindaco di genere
femminile e due assessori di genere maschile.
Per quanto riguarda il numero la composizione rispetta la legge regionale
29.12.2010, n. 22 (Legge finanziaria 2011) e il dettato dello Statuto
comunale, che prevede che “la Giunta è composta dal sindaco che la presiede
e fino a 4 assessori uno dei quali è investito della carica di vice
sindaco”, conferendo al Sindaco spazi di discrezionalità nella
determinazione del numero degli stessi, potendo lo stesso, entro il limite
massimo stabilito dallo statuto, nominarne il numero che reputa ottimale.
Sotto il profilo del rispetto delle quote di genere è conforme sia allo
statuto comunale, che prevede che la rappresentanza di ciascun genere sia
garantita in misura non inferiore ai 2/5, arrotondati per difetto, dei
componenti della Giunta sia al l’articolo 46, comma 2, del decreto
legislativo 267/2000, così come modificato dall’articolo 2, comma 1, lettera
b), della legge 23.11.2012, n. 215, il quale recita: “Il sindaco (…) nomina
(…), nel rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini,
garantendo la presenza di entrambi i sessi, i componenti della Giunta (…)”.
Il Sindaco del Comune, la cui popolazione all’ultimo censimento ufficiale è
pari a 1.715 abitanti, chiede un parere in merito al computo o meno del
sindaco fra i componenti della giunta comunale; un tanto al fine di
verificare la conformità dell’attuale organo esecutivo (composto dal sindaco
di genere femminile e da due assessori dell’altro genere) alla previsione
statutaria dell’Ente, che fissa la rappresentanza di genere in misura non
inferiore ai due quinti, arrotondati per difetto, dei componenti della
giunta.
Nei Comuni della Regione Friuli Venezia Giulia la composizione delle Giunte
comunali è disciplinata dalla legge regionale 29.12.2010, n. 22 (Legge
finanziaria 2011), che all’articolo 12, comma 39, dispone che il numero
massimo degli assessori comunali non possa essere superiore ad un quarto del
numero dei consiglieri comunali, con arrotondamento all’unità superiore e
computando nel calcolo anche il Sindaco. Per il Comune di cui trattasi, il
numero massimo degli assessori risulta essere quattro, ai quali va aggiunto
il sindaco, portando la composizione della Giunta comunale a complessivi
cinque componenti.
La previsione legislativa va letta però nell’ottica dell’autonomia
statutaria dell’Ente, che consente allo statuto comunale, nel rispetto della
soglia massima stabilita dalla legge, di fissare il numero degli assessori
ovvero il numero massimo degli stessi. Pertanto, nell’ipotesi in cui lo
statuto dell’Ente preveda la nomina di un numero di assessori inferiore al
massimo consentito dalla legge regionale, il sindaco dovrà attenersi al
numero massimo indicato dallo statuto in vigore, mentre nel diverso caso in
cui lo statuto preveda la nomina di un numero di assessori superiore al
massimo consentito dalla legge regionale, il Sindaco dovrà attenersi al
numero massimo indicato da quest’ultima.
Nel caso di specie, il numero massimo di assessori è fissato in quattro
anche nello Statuto che, all’articolo 26, comma 1, dispone che “la Giunta
è composta dal sindaco che la presiede e fino a 4 assessori uno dei quali è
investito della carica di vice sindaco”, conferendo al Sindaco spazi di
discrezionalità nella determinazione del numero degli stessi, potendo lo
stesso, entro il limite massimo stabilito dallo statuto, nominarne il numero
che reputa ottimale. [1]
Peraltro, come sottolineato anche dal Sindaco, dalla lettura sistematica
dell’articolo 28, comma 3, del medesimo Statuto, si evince che il numero
minimo di assessori nominabili coincide con il quorum costitutivo ivi
fissato, ovvero due. [2]
Per quanto concerne poi, il tema della rappresentanza di genere nelle giunte
comunali, la norma generale in vigore per i Comuni con popolazione inferiore
a 3.000 abitanti è l’articolo 46, comma 2, del decreto legislativo 267/2000,
così come modificato dall’articolo 2, comma 1, lettera b), della legge
23.11.2012, n. 215, il quale recita: “Il sindaco (…) nomina (…), nel
rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la
presenza di entrambi i sessi, i componenti della Giunta (…)”.
La disposizione non fissa delle vere e proprie quote da rispettare (che sono
invece pari al 40% per i comuni con popolazione superiore ai 3.000 abitanti
ai sensi della Legge 07.04.2014, n. 56, c.d. Legge Delrio), con la
conseguenza che il principio potrebbe ritenersi rispettato anche con la
presenza di un solo componente di genere diverso rispetto a quello
maggiormente rappresentato. [3]
In questo ambito, il Comune ha adeguato il proprio Statuto, prevedendo che
la rappresentanza di ciascun genere sia garantita in misura non inferiore ai
2/5, arrotondati per difetto, dei componenti della Giunta (articolo 26,
comma 2, dello Statuto), nell’esercizio dell’autonomia statutaria prevista
dall’articolo 12, comma 2, della legge regionale 1/2006 e in attuazione dei
principi contenuti nell’articolo 6, comma 3 e 46, comma 2, del TUEL.
Si precisa inoltre che il Ministero dell’interno, con la circolare del
09.06.2014, emanata all’indomani dell’entrata in vigore della Legge Delrio,
ha chiarito che nel calcolo degli assessori vada incluso anche il Sindaco, a
garanzia della rappresentanza di genere, osservando come il legislatore,
laddove ha voluto il contrario, lo ha previsto espressamente.
[4]
Da tutto quanto sopra esposto consegue che l’attuale composizione della
Giunta comunale risulta conforme al dettato normativo, sia sotto il profilo
numerico che in tema di rispetto delle quote di genere fissate dalla
disciplina statale e statutaria.
----------------
[1] Cfr., fra gli altri, il parere del Ministero dell’interno 16.07.2009,
consultabile al
seguente indirizzo. Si veda anche la pubblicazione “L’ordinamento
locale nel Friuli Venezia Giulia 2018” alle pagg. 26 e 27, reperibile sul
Portale delle autonomie locali nella sezione Pubblicazioni.
[2] L’articolo 28 (Funzionamento della giunta) al comma 3, dello Statuto
recita: “Le sedute sono valide se sono presenti 3 componenti e le
deliberazioni adottate a maggioranza dei presenti”.
[3] Un tanto è sempre specificato nelle circolari in materia di composizione
delle giunte comunali che annualmente lo scrivente Servizio redige per i
comuni interessati al rinnovo dei propri organi (si veda, per il 2018, la
circolare n. 04 EL/C dell’08.03.2018, reperibile al
seguente indirizzo.
[4] Peraltro la presenza di un solo componente di genere femminile rispetta
in ogni caso la quota di rappresentanza fissata dalla norma statutaria, che
prevede l’arrotondamento per difetto, in quanto sia che i 2/5 siano
calcolati su 3 (composizione attuale della Giunta) sia che lo siano su 4
(composizione della Giunta antecedente alle dimissioni del secondo assessore
di genere femminile), il risultato (1,6 nel primo caso e 1,2 nel secondo)
arrotondato è sempre 1
(05.12.2018 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Mancata elezione Presidente Consiglio comunale.
Sintesi/Massima
Mancata elezione Presidente Consiglio comunale.
Atteso
il perdurare della mancata elezione della figura del presidente e dei suoi
vice, in relazione a quanto disposto nelle norme statutarie dell’ente, le
sedute del consiglio comunale successive alla prima debbono essere convocate
dal Consigliere Anziano che dovrà inserire l’elezione del presidente al
primo punto all’ordine del giorno.
Testo
Sono state chieste delucidazioni circa le funzioni esercitabili dal
consigliere anziano, atteso il protrarsi della situazione di stallo
determinata dalla mancata elezione del presidente del consiglio.
La prima seduta del consiglio comunale, eletto a seguito delle elezioni del
giugno scorso, si è tenuta in data 03.08.2018.
Come previsto dagli artt. 39 e 40 del decreto legislativo n. 267/2000, tale
adunanza è stata convocata dal sindaco e presieduta dal consigliere anziano.
Tuttavia la votazione per l’elezione del Presidente del consiglio non ha
dato esito positivo né nell’ambito della prima adunanza consiliare e neppure
nelle votazioni che si sono tenute successivamente ai sensi dell’art. 8 dello
statuto comunale.
Al riguardo, si rappresenta che la figura del presidente del consiglio è
stata introdotta nell’ordinamento dall’art. 1 della l. n. 81/1993 al fine di
assicurare, nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti, la
separazione delle funzioni tra l’Ufficio di sindaco e quello di presidente
del consiglio.
Ai sensi dell’art. 8 dello statuto comunale è previsto che "Il Presidente del
Consiglio comunale è eletto, nella seduta di insediamento subito dopo la
convalida degli eletti, con voto segreto a maggioranza dei due terzi dei
componenti il Consiglio nel primo scrutinio e con la maggioranza assoluta a
partire dal secondo scrutinio.
2. Qualora la maggioranza assoluta non venga conseguita entro il terzo
scrutinio, la seduta è sospesa, e riprenderà secondo le modalità di cui al
co. 3.
3. La votazione è ripetuta, fino ad un massimo di tre scrutini, in
successive sedute, senza necessità di previa convocazione, da tenersi ogni
48 (quarantotto) ore.
4. Alle predette votazioni si procede, sempre a scrutinio segreto, fino al
raggiungimento del voto favorevole della maggioranza assoluta dei
componenti.".
L’art. 9 della medesima fonte statutaria stabilisce che i Vice Presidenti,
con priorità al Vice Presidente Vicario, sostituiscono il Presidente in caso
di sua assenza, impedimento e vacanza. In caso di assenza, impedimento o
vacanza anche dei Vice Presidenti, le funzioni di Presidente vengono svolte
dal Consigliere anziano.
Dall’esame della normativa in commento emerge che lo stesso ente locale,
nell’ambito della propria autonomia, si è dotato di strumenti idonei a
consentire l’elezione di tale figura indefettibile nell’ambito
dell’ordinamento locale, prevedendo votazioni ripetute ad oltranza, ogni 48
ore. Emerge, altresì, che in caso di vacanza delle figure di Presidente e
dei Vice Presidenti sia il Consigliere Anziano a svolgere le funzioni
presidenziali. Tale figura assume la totalità delle funzioni spettanti al
Presidente. Circa l’eventualità che il consigliere anziano rinunci a
presiedere l’assemblea, ai sensi dell’art. 12, comma 2, dello statuto
comunale, tale rinuncia avrebbe effetto unicamente con riferimento ai poteri
di presidenza nell’ambito della medesima seduta non potendo il consigliere
anziano spogliarsi tout court di tutto il complesso dei poteri e delle
funzioni attribuiti al presidente del consiglio.
Ciò premesso, atteso il perdurare della mancata elezione della figura del
presidente e dei suoi vice, si rileva che, in relazione a quanto disposto
nelle norme statutarie dell’ente, le sedute del consiglio comunale
successive alla prima debbono essere convocate dal Consigliere Anziano che
dovrà inserire l’elezione del presidente al primo punto all’ordine del
giorno.
Le previsioni recate dall’art. 8, commi 2 e 3, dello statuto comunale si
intendono riferite anche alle sedute successive alla prima.
Si fa presente, peraltro, che gli atti adottati da un consiglio che non sia
riuscito ad eleggere il proprio presidente sono validi, tanto è vero che è
lo stesso ordinamento locale a prevedere, in ipotesi, il perdurare di
successive votazioni infruttuose da tenersi ogni 48 ore. Quanto al mancato
giuramento del sindaco, appare utile far riferimento alle osservazioni
diramate in materia da questa amministrazione con circolare n. 3 del 30.06.1999.
In tale atto fu precisato che, alla luce delle modifiche
legislative intervenute ai sensi della legge n. 127/1997, i sindaci neoletti
avrebbero assunto tutte le funzioni dopo la proclamazione, ivi comprese
quelle di ufficiale di governo. Il giuramento del sindaco dinanzi al
consiglio comunale, pur configurandosi quale adempimento solenne che
individua nel rispetto alla Costituzione il parametro fondamentale
dell’azione dell’organo di vertice dell’amministrazione "non può
condizionare l’esercizio delle funzioni inerenti alla carica, che possono
essere tutte legittimamente svolte sin dalla data della proclamazione".
Si osserva, altresì, che, nell’ambito dell’ordinamento degli enti locali,
non si rinviene alcuna disposizione che attribuisca al Prefetto uno
specifico potere di intervento in ordine alla problematica rappresentata (06.11.2018
- link a http://dait.interno.gov.it). |
EDILIZIA PRIVATA: PAVIMENTAZIONI
INDUSTRIALI: devono essere considerate strutture? Il parere del Genio
Regione Toscana.
PAVIMENTAZIONI INDUSTRIALI: un parere richiesto al Genio
della Regione Toscana conferma la novità, in alcuni casi devono essere
considerate strutture.
Come già evidenziato in alcune Circolari la nuova edizione delle Norme
Tecniche delle Costruzioni contiene delle novità che portano ad includere
alcune tipologie di pavimentazioni industriali tra le strutture.
Cosa significa questo? Per saperne di più abbiamo inviato un quesito alla
Sezione Sismica della Regione Toscana, che ha portato il caso alla propria
Commissione tecnica.
---------------
IL NOSTRO QUESITO ALLA REGIONE TOSCANA
Premesso:
●
che la nuova revisione delle Norme Tecniche (ed. 2018) prevede al capitolo
4.1 che “Formano oggetto delle presenti norme le strutture di:
Calcestruzzo armato normale (cemento armato), Calcestruzzo armato
precompresso (cemento armato precompresso), Calcestruzzo a bassa percentuale
di armatura o non armato” e che quindi anche le pavimentazioni
industriali in calcestruzzo possano essere richiamate in quest’ultima voce;
●
che la proposta della circolare esplicativa delle NTC2018, introduce per la
prima volta un riferimento esplicito alle pavimentazioni, attraverso il
riferimento alle istruzioni sopra citate, riportato nel capitolo 4 (C4.1
Costruzioni in calcestruzzo);
●
che le Istruzioni per la Progettazione, l’Esecuzione ed il Controllo delle
Pavimentazioni di Calcestruzzo emesse dal CNR (doc. CNR-DT 211/2014),
stabiliscono per opere rilevanti la necessità di dimensionare e verificare
la pavimentazione agli Stati Limite di Esercizio e Ultimi a cura di un
progettista, di cui specificano compiti e responsabilità;
Qualora fosse confermato, nel decreto di pubblicazione, il testo della
circolare sopra citato, si chiede:
• se la progettazione delle pavimentazioni in calcestruzzo debba
essere realizzata da un progettista abilitato;
• se il progetto debba essere depositato presso il Genio Civile;
• se la realizzazione della pavimentazione debba essere controllata
da una direzioni lavori;
• se non richieda la denuncia allo sportello unico, pur trattandosi
di opere in conglomerato cementizio armato normale, composte da un complesso
di strutture in conglomerato cementizio e armature con funzione statica,
oppure in conglomerato cementizio armato post-tesi, quelle composte da
strutture in conglomerato cementizio e armature nelle quali si imprime
artificialmente uno stato di sollecitazione addizionale di natura ed entità
che assicurano permanentemente l'effetto statico voluto.
Cordiali saluti.
Andrea Dari - Direttore CONPAVIPER
...
LA RISPOSTA
DELLA REGIONE TOSCANA
Regione Toscana - Sismica: Responsabile di Settore
OGGETTO: DPR 380/2001 e LR 65/2014. Costruzioni in zona sismica - Parere in
merito a “Le pavimentazioni in calcestruzzo” - Richiedente: Ente
Nazionale CONPAVIPER.
In riferimento alla Vs. richiesta di parere via e-mail in data 21/09/2018
relativa ad eventuali obblighi connessi alla realizzazione di pavimentazioni
in calcestruzzo si osserva occorre distinguere i seguenti casi:
• la pavimentazione (ipotizzata come una soletta almeno debolmente
armata) abbia una specifica funzione strutturale, autonoma oppure in
combinazione con altri elementi (ad esempio travi) e che la stessa sia
essenziale per assicurare, localmente o globalmente, la sicurezza statica
della costruzione;
• la pavimentazione costituisca solo un elemento di “finitura”
della costruzione e pertanto lo si possa considerare come elemento “portato”
alla stregua dei carichi permanenti non strutturali usualmente gravanti
sulle costruzioni.
A parere di questo Settore solo il sopra illustrato caso 2 risulta
esentato dall’obbligo del deposito del progetto ai sensi degli art. 65 e 93
del DPR 380/2001, restando inteso che le strutture chiamate a sostenere tale
pavimentazione dovranno essere verificate da tecnico abilitato e, se già
esistenti, essere sottoposte a eventuali interventi di rinforzo locale o
globale per il quale sarà necessario predisporre uno specifico progetto da
depositare ai sensi dei sopra citati articoli del DPR 380/2001.
Ricorrendo il caso 1, invece, occorrerà che la pavimentazione in
calcestruzzo (elemento con funzione strutturale) sia progettata da
professionista abilitata, sia oggetto di deposito presso gli organi di
controllo (ex Genio Civile), sia sottoposta al controllo di un Direttore dei
lavori abilitato.
Infine si fa presente che l’art. 53 del DPR 380/2001 (da leggersi in
parallelo al successivo art. 64 e comunque anche nel testo originario
dell’art. 1 dell’ancora vigente L. 1086/1971) classifica le opere in c.a.
quelle “composte da un complesso di strutture in conglomerato cementizio
ed armature che assolvono una funzione statica”; inoltre l’art. 64,
sempre per le medesime opere richiede di “evitare qualsiasi pericolo per la
pubblica incolumità”. Ne consegue che tali evenienze ricorrono solo nel
sopra descritto caso 2.
Cordiali saluti.
Il responsabile PO: Ing. Luca Gori - Il Dirigente responsabile Ing. Franco
Gallori
---------------
Ricevuta la lettera di cui sopra, abbiamo posto agli stessi
uffici un ulteriore quesito:
"Salve ingegnere,
se il parere non è ancora formalmente chiuso ci sarebbe utile capire se le
pavimentazioni industriali su cui poggiano scaffalature rientrino nella
categoria 1 o 2."
...
LA RISPOSTA DELLA REGIONE TOSCANA
Se il pavimento ha funzioni strutturali proprie o collabora con la struttura
principale allora va considerato come elemento strutturale. E' il caso 1.
Altrimenti, se è solo un pavimento cioè una finitura -anche se di tipo
industriale dell'edificio- dovrà rispondere a esigenze di altra natura, non
strutturali.
Il fatto che poi sopra ci vadano carichi pesanti (botti o parmigiano, per
esempio) deve far porre questa domanda: il pavimento industriale è solo un
ripartitore di carico prima di incontrare le strutture oppure collabora
insieme alle strutture a garantire la capacità portante?
Da questo discende se si debba considerare struttura o meno
(26.10.2018 - tratto da e link a www.conpaviper.org). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Delega
a Presidente del consigliere comunale.
Sintesi/Massima
Il consigliere può essere incaricato di studi su
determinate materie, di compiti di collaborazione circoscritti all'esame e
alla cura di situazioni particolari, che non implichino la possibilità di
assumere atti a rilevanza esterna, né, infine, di adottare atti di gestione
spettanti agli organi burocratici.
Il Presidente del Consiglio può essere
delegato dal Sindaco al pari degli altri consiglieri per la cura di affari
particolari, purché non gli si attribuiscano anche poteri di gestione
assimilabili a quelli degli Assessori e dei Dirigenti.
Testo
E' stato posto un quesito concernente la possibilità di conferire la delega
alla protezione civile al Presidente del consiglio comunale, che riveste la
qualifica di operatore di protezione civile nell'ambito del centro operativo
comunale.
Secondo quanto rappresentato dal Sindaco, il servizio di protezione civile è
gestito in forma associata in base ad apposite convenzioni. Lo statuto
comunale prevede che il Sindaco può delegare l'esercizio di funzioni ad esso
attribuite a singoli assessori ed a consiglieri nei casi previsti dalla
legge.
Al riguardo, si rappresenta che nell'ambito dell'autonomia statutaria
dell'ente locale, sancita dall'art. 6 del decreto legislativo n. 267/2000, è
ammissibile la disciplina di deleghe interorganiche, purché il contenuto
delle stesse sia coerente con la funzione istituzionale dell'organo cui si
riferisce.
Occorre considerare, quale criterio generale, che il consigliere può essere
incaricato di studi su determinate materie, di compiti di collaborazione
circoscritti all'esame e alla cura di situazioni particolari, che non
implichino la possibilità di assumere atti a rilevanza esterna, né, infine,
di adottare atti di gestione spettanti agli organi burocratici.
Il consigliere, infatti, svolge la sua attività istituzionale, in qualità di
componente di un organo collegiale quale il consiglio, che è destinatario
dei compiti individuati e prescritti dalle leggi e dallo statuto.
Una ristrettissima serie delle funzioni sindacali può essere delegabile in
virtù di specifiche previsioni normative (in particolare, le funzioni svolte
dal sindaco ex art. 54 nella sua attività di Ufficiale di Governo).
Va osservato che il TAR Toscana, con decisione n. 1248/2004, ha respinto
il ricorso avverso una norma statutaria concernente la delega ai consiglieri
di funzioni sindacali in quanto la stessa escludeva implicitamente che
potessero essere delegati compiti di amministrazione attiva, tali da
comportare "l'inammissibile confusione in capo al medesimo soggetto del
ruolo di controllore e di controllato".
Ciò posto per quanto concerne lo specifico quesito prospettato, si ritiene
che il Presidente del Consiglio può essere delegato dal Sindaco al pari
degli altri consiglieri per la cura di affari particolari, purché non gli si
attribuiscano anche poteri di gestione assimilabili a quelli degli Assessori
e dei Dirigenti (27.09.2018
- link a http://dait.interno.gov.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Diritto
di informazione ed accesso agli atti e documenti da parte dei consiglieri
comunali.
Sintesi/Massima
Art. 43 del d.lgs. n. 267/2000.
In materia di “diritto di
accesso” dei consiglieri comunali in ordine agli atti in possesso
dell'Amministrazione comunale, al fine di evitare che eventuali continue
richieste si trasformino in un aggravio dell'ordinaria attività
amministrativa dell'ente locale, la Commissione per l’accesso ai documenti
amministrativi ha riconosciuto la possibilità per il consigliere comunale di
avere accesso diretto al sistema informatico interno (anche contabile) del
Comune attraverso l'uso della password di servizio (cfr. parere del
29.11.2009).
Conformemente alla vigente normativa in materia di digitalizzazione della
pubblica amministrazione (in particolare, art. 2 del d.lgs. n. 82/2005),
qualora si tratti di esibire documentazione complessa e voluminosa, è
altresì legittimo il rilascio di supporti informatici al consigliere o la
trasmissione mediante posta elettronica, in luogo delle copie cartacee.
Testo
E' stato posto un quesito in materia di diritto di accesso esercitabile dai
consiglieri comunali. Al riguardo, si rappresenta che il "diritto di
accesso" ed il "diritto di informazione" dei consiglieri comunali in ordine
agli atti in possesso dell'Amministrazione comunale trovano la loro
disciplina specifica nell’art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000 il quale
riconosce il diritto di ottenere dagli uffici del comune, nonché dalle
proprie aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in
loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato.
Il diritto dei consiglieri ha una ratio diversa da quella che
contraddistingue il diritto di accesso ai documenti amministrativi
riconosciuto alla generalità dei cittadini (ex articolo 10 del richiamato
decreto legislativo n. 267/2000) ovvero a chiunque sia portatore di un
"interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione
giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto
l'accesso" (ex art. 22 e ss. della legge 07.08.1990, n. 241).
Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 4525 del 05.09.2014, ha
affermato che, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale (Cons.
Stato, Sez. V, 17.09.2010, n. 6963; 09.10.2007, n. 5264), i
consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti
gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento delle loro funzioni,
ciò anche al fine di permettere di valutare -con piena cognizione- la
correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per
esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio e
per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che
spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
Gli unici limiti all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri
comunali possono rinvenirsi nel fatto che esso deve avvenire in modo da
comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali, attraverso
modalità che ragionevolmente sono fissate nel regolamento dell'ente;
inoltre, non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche, ovvero
meramente emulative, fermo restando, tuttavia, che la sussistenza di tali
caratteri deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto
al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al
diritto stesso (C.d.S. Sez. V n. 6993/2010).
In merito alle segnalate fattispecie di rilascio di ingenti copie di atti,
si osserva che il diritto si esercita con l'unico limite di potere esaudire
la richiesta (qualora essa sia di una certa gravosità) secondo i tempi
necessari per non determinare interruzione delle altre attività di tipo
corrente (cfr. C.d.S. 4855/2006)… e ciò in ragione del fatto che il
consigliere comunale non può abusare del diritto all'informazione
riconosciutogli dall'ordinamento, pregiudicando la corretta funzionalità
amministrativa dell'ente civico con richieste non contenute entro i limiti
della proporzionalità e della ragionevolezza (v. C.d.S. n. 4471/05 del
02.09.2005).
Sempre secondo il Consiglio di Stato è necessario contemperare l'esigenza
dei consiglieri ad espletare il proprio mandato con quella
dell'amministrazione al regolare svolgimento della propria attività, con una
specifica disciplina in merito all'esercizio del diritto.
Anche la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi (Plenum
06.07.2010) ha più volte precisato che, per non impedire od ostacolare lo
svolgimento dell'azione amministrativa, fermo restando che il diritto di
accesso non può essere garantito nell'immediatezza in tutti i casi, o con
mezzi estranei all'organizzazione attuale dell'ente, "…rientrerà nelle
facoltà del responsabile del procedimento dilazionare opportunamente nel
tempo il rilascio delle copie richieste, al fine di contemperare tale
adempimento straordinario con l'esigenza di assicurare l'adempimento
dell'attività ordinaria, mentre il consigliere avrà facoltà di prendere
visione, nel frattempo, di quanto richiesto negli orari stabiliti presso gli
uffici comunali competenti".
Infatti, è stata segnalata la necessità che la formulazione di richieste da
parte dei consiglieri sia il più possibile precisa, riportando l'indicazione
degli oggetti di interesse ed evitando adempimenti gravosi o intralci
all'attività ed al regolare funzionamento degli uffici (C.d.S. sent. n. 4471/2005;
n. 5109/2000; n. 6293/2002).
Pertanto, proprio al fine di evitare che le continue richieste di accesso si
trasformino in un aggravio dell'ordinaria attività amministrativa dell'ente
locale, la citata Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi ha
riconosciuto la possibilità per il consigliere comunale di avere accesso
diretto al sistema informatico interno (anche contabile) del Comune
attraverso l'Uso della password di servizio (cfr. parere del 29.11.2009).
Qualora si tratti di esibire documentazione complessa e voluminosa, appare,
altresì, legittimo il rilascio di supporti informatici al consigliere, o la
trasmissione mediante posta elettronica, in luogo delle copie cartacee. Tale
modalità, peraltro, è conforme alla vigente normativa in materia di
digitalizzazione della pubblica amministrazione (decreto legislativo n. 82
del 07.03.2005), che all’articolo 2 prevede che anche "le autonomie
locali assicurano la disponibilità, la gestione, l'accesso, la trasmissione,
la conservazione e la fruibilità dell'informazione in modalità digitale e si
organizzano ed agiscono a tale fine utilizzando con le modalità più
appropriate le tecnologie dell'informazione e della comunicazione" (27.09.2018
- link a http://dait.interno.gov.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Commissioni
consiliari permanenti.
Sintesi/Massima
L’articolo 38, comma 6, del decreto legislativo n.
267/2000 prevedendo con disposizione statutaria la facoltatività
dell’istituzione delle commissioni, richiede il rispetto del criterio
proporzionale nella loro composizione.
Sono comunque escluse artificiose creazioni di gruppi minoritari che
impediscano la piena partecipazione a tutte le commissioni da parte
dell’autentica minoranza.
Tuttavia, la collocazione dinamica dei consiglieri alla maggioranza o alla
minoranza, ammessa in virtù del mancato vincolo relativo al mandato
imperativo -anche alla luce della decisione del C.d.S. n. 4600/2003- passa
attraverso i movimenti tra i gruppi.
Infatti, sono possibili i mutamenti che possono sopravvenire all’interno
delle forze politiche presenti in consiglio comunale per effetto di
dissociazioni dall’originario gruppo di appartenenza, comportanti la
costituzione di nuovi gruppi consiliari ovvero l’adesione a diversi gruppi
esistenti, con diretta influenza sulla composizione delle commissioni
consiliari che deve, pertanto, adeguarsi ai nuovi assetti.
Testo
E’ stato posto un quesito in ordine alla corretta composizione delle
commissioni consiliari permanenti. In particolare, è stato chiesto se, a
fronte del mutamento politico intervenuto recentemente in un gruppo
consiliare costituito da due consiglieri che sostenevano la maggioranza, sia
necessario un riequilibrio generale delle commissioni consiliari permanenti,
originariamente costituite, che consenta anche al consigliere capogruppo
dissenziente di essere rappresentato nella minoranza.
Al riguardo, si
richiama l’articolo 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000, che
ribadisce la necessità del rispetto del criterio proporzionale nella
composizione delle commissioni. Si osserva che la predetta norma, prevedendo
con disposizione statutaria la facoltatività dell’istituzione delle
commissioni, rinvia al regolamento consiliare la determinazione dei relativi
poteri e la disciplina della loro organizzazione.
Pertanto, è anche alle disposizioni interne all'Ente che bisogna fare
riferimento per la risoluzione della problematica, tenendo presente che la
composizione delle commissioni non può prescindere dai gruppi consiliari al
fine della distinzione tra maggioranza e minoranza.
Lo statuto del Comune in oggetto, all’art. 14 prevede l’istituzione di
commissioni permanenti, ribadendo il principio della proporzionalità con la
presenza di due rappresentanti della minoranza nell’ambito di ogni
commissione e la garanzia della partecipazione di ogni consigliere ad almeno
una commissione e demanda al regolamento, tra l’altro, la disciplina del
funzionamento delle commissioni.
Il regolamento consiliare, all’art. 10, costituisce le quattro commissioni
permanenti che sono nominate dal consiglio con votazione palese, prevedendo,
al comma 2, che i consiglieri comunali rappresentino, con criterio
proporzionale, complessivamente, tutti i gruppi.
In materia di gruppi, l’articolo 8 del regolamento comunale prevede
preliminarmente che "i consiglieri eletti nella medesima lista formano di
regola, un gruppo consiliare".
Il comma 2 consente i gruppi unipersonali così come eventualmente scaturiti
a seguito del risultato elettorale, e prevede, comunque, la formazione di
gruppi costituiti da almeno due consiglieri.
Il successivo comma 4 lascia facoltà al singolo consigliere di transitare da
un gruppo ad altro (nel rispetto del requisito minimo di due consiglieri),
mentre il comma 5, ferma restando la possibilità di costituire un gruppo
misto ove confluiscono i consiglieri che si distacchino da gruppi
precedenti, non consente al singolo consigliere, che dopo il distacco non
aderisca ad altri gruppi, di acquisire le prerogative dei gruppi consiliari.
Ciò posto, alla luce proprio delle norme interne all’Ente, non è possibile
la costituzione di gruppi unipersonali; pertanto i consiglieri facenti parte
del gruppo in questione, qualora mantengano le divergenze politiche e
sostengano tale esigenza, dovrebbero trovare collocazione in altri gruppi
già esistenti.
Si osserva, inoltre, che la legge non fornisce una definizione di
maggioranza o di minoranza.
In proposito, il Consiglio di Stato (sentenza n. 4600/2003) ha rilevato che
"la nozione di minoranza … va definita con esclusivo riferimento alle liste
collegate ad un candidato sindaco non eletto e che, quindi, nel confronto
elettorale sono risultate sconfitte, risultando tale parametro preferibile a
quello che ammette una qualificazione della "minoranza" con riguardo ad
eventi politici successivi alle elezioni", ma è anche vero che lo stesso
Giudice ammette implicitamente la possibilità di "decifrare in senso
dinamico e propriamente politico la nozione di minoranza".
Il Giudice
giunge, poi, alla conclusione che "si deve negare che la collaborazione con
la giunta di un solo consigliere eletto in una lista inizialmente
contrapposta a quella collegata al candidato sindaco risultato eletto
implichi automaticamente, ed in difetto della comprovata adesione politica
al governo del comune di tutti i membri della lista originariamente di
opposizione, il transito di questi ultimi nella maggioranza e, quindi, la
necessità della loro partecipazione in quella quota alle elezioni dei
rappresentati del consiglio comunale (nel caso di specie) alla comunità
montana, con voto separato".
Sono comunque escluse artificiose creazioni di gruppi minoritari che
impediscano la piena partecipazione a tutte le commissioni da parte
dell'autentica minoranza. Tuttavia, la collocazione dinamica dei consiglieri
alla maggioranza o alla minoranza, ammessa in virtù del mancato vincolo
relativo al mandato imperativo -anche alla luce della lettura della citata
decisione del C.d.S. n. 4600/2003- passa attraverso i movimenti tra i
gruppi.
Infatti, il caso prospettato si inquadra nell’ambito dei possibili mutamenti
che possono sopravvenire all’interno delle forze politiche presenti in
consiglio comunale per effetto di dissociazioni dall’originario gruppo di
appartenenza, comportanti la costituzione di nuovi gruppi consiliari ovvero
l'adesione a diversi gruppi esistenti con diretta influenza sulle
composizione delle commissioni consiliari che deve, pertanto, adeguarsi ai
nuovi assetti (26.09.2018
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CONSIGLIERI COMUNALI: Deleghe
ai consiglieri.
Sintesi/Massima
E’ ammissibile la disciplina di deleghe interorganiche
ai consiglieri comunali da parte del Sindaco, purché il contenuto delle
stesse sia coerente con la funzione istituzionale dell'organo cui si
riferisce.
Occorre considerare, quale criterio generale, che il consigliere può essere
incaricato di studi su determinate materie, di compiti di collaborazione
circoscritti all'esame e alla cura di situazioni particolari, che non
implichino la possibilità di assumere atti a rilevanza esterna, né, infine,
di adottare atti di gestione spettanti agli organi burocratici.
Resta ferma l'inderogabilità sostanziale del limite numerico di componenti
della Giunta imposto dall’art. 1, comma 135, della legge n. 56/2014 e
dell’art. 1, comma 185, della legge 23.12.2009, n. 191, modificato dall’art.
1 comma 1-bis del d.l. n. 2/2010, convertito in legge n. 42/2010.
Testo
Un consigliere comunale ha segnalato l’attribuzione di deleghe, con potere
di firma su atti a rilevanza esterna, ad alcuni consiglieri comunali da
parte del Sindaco.
Al riguardo, fatte salve le iniziative che verranno assunte da codesta
Prefettura al fine di verificare la natura delle deleghe in parola (alla
luce anche dell’art. 57 dello Statuto comunale che consente invece
l’affidamento di incarichi ai consiglieri da parte del sindaco) si osserva
che nell'ambito dell'autonomia statutaria dell'ente locale, sancita
dall'art. 6 del decreto legislativo n. 267/2000, è ammissibile la disciplina di
deleghe interorganiche, purché il contenuto delle stesse sia coerente con la
funzione istituzionale dell'organo cui si riferisce.
Occorre considerare, quale criterio generale, che il consigliere può essere
incaricato di studi su determinate materie, di compiti di collaborazione
circoscritti all'esame e alla cura di situazioni particolari, che non
implichino la possibilità di assumere atti a rilevanza esterna, né, infine,
di adottare atti di gestione spettanti agli organi burocratici.
Il consigliere, infatti, svolge la sua attività istituzionale in qualità di
componente di un organo collegiale quale il consiglio che è destinatario dei
compiti individuati e prescritti dalle leggi e dallo statuto.
Nella specie, peraltro, le funzioni del sindaco sono quelle dettate dall’art. 50
e dall’art. 54 del citato decreto legislativo n. 267/2000.
Alcune di tali funzioni possono essere delegabili in virtù delle stesse
previsioni normative (in particolare, le funzioni svolte dal sindaco ex art. 54
nella sua attività di Ufficiale di Governo e quelle di cui all'art. 31 del
citato Testo Unico, che consente al sindaco di trasferire proprie
attribuzioni in caso di partecipazione alle assemblee consortili).
In ogni caso, occorre prestare particolare attenzione alla inderogabilità
sostanziale del limite numerico di componenti della Giunta imposto dall’art. 1,
comma 135, della legge n. 56/2014 e dell’art. 1, comma 185, della legge
23.12.2009, n. 191, modificato dall’art. 1, comma 1-bis, del d.l. n. 2/2010,
convertito in legge n. 42/2010 (24.09.2018
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CONSIGLIERI COMUNALI: Commissioni
consiliari permanenti.
Sintesi/Massima
Le commissioni consiliari permanenti devono rispecchiare
in modo proporzionale i gruppi presenti in consiglio, pertanto, in caso di
intervenuti mutamenti nella composizione dei gruppi, il consiglio dovrà
procedere, con propria deliberazione, ad un riequilibrio complessivo delle
commissioni consiliari permanenti al fine di garantire il rispetto del
criterio proporzionale previsto dall’art. 38, comma 6, del decreto
legislativo n. 267/2000.
Testo
E' stato posto un quesito in materia di commissioni consiliari permanenti.
In particolare è stato rappresentato che cinque consiglieri di maggioranza
sono passati all’opposizione e quattro consiglieri di minoranza sono
transitati nel gruppo di maggioranza. Ciò posto, si chiede se sia necessario
provvedere ad un riequilibrio generale delle commissioni consiliari
permanenti originariamente costituite al fine di rispettare il criterio
proporzionale previsto ai sensi dell’art. 38, comma 6, del decreto
legislativo n. 267/2000.
Il caso prospettato si inquadra nell’ambito dei possibili mutamenti che
possono sopravvenire all’interno delle forze politiche presenti in consiglio
comunale per effetto di dissociazioni dall’originario gruppo di
appartenenza, comportanti la costituzione di nuovi gruppi consiliari ovvero
l’adesione a diversi gruppi esistenti.
Va da sé che i mutamenti in parola modificano i rapporti tra le forze
politiche presenti in consiglio, incidendo sul numero dei gruppi ovvero
sulla consistenza numerica degli stessi, e ciò non può non influire sulla
composizione delle commissioni consiliari che deve, pertanto, adeguarsi ai
nuovi assetti.
Lo statuto del comune in oggetto prevede all’art. 16 la costituzione delle
commissioni consiliari permanenti demandandone la composizione al
regolamento del consiglio comunale, nel rispetto del criterio proporzionale
fra maggioranza e minoranze. Ai sensi dell’art. 11, comma 2, del regolamento
è previsto che ciascuna commissione sia composta da cinque consiglieri
comunali, eletti con voto limitato dal consiglio comunale, di cui due
appartenenti al gruppo di minoranza.
Pertanto si condividono le osservazioni con le quali codesta Prefettura ha
rappresentato la necessità che il comune proceda, con deliberazione di
consiglio, ad un riequilibrio complessivo delle commissioni consiliari
permanenti al fine di garantire il rispetto del criterio proporzionale
previsto dall’art.38, comma 6, citato (24.09.2018
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CONSIGLIERI COMUNALI: Diritto
dei consiglieri comunali ex art. 43, comma 2, TUOEL ad accedere agli atti
relativi ai servizi erogati dal Piano Sociale di Zona.
Sintesi/Massima
Nell’ipotesi in cui gli Uffici comunali non dispongano
degli atti richiesti dal consigliere comunale nell'esercizio del diritto di
accesso che riguardano, nella specie, una associazione in ambiti
territoriali tra comuni come prevista, tra l’altro, dalla legge regionale -a
cui il Comune contribuisce mediante finanziamenti a valere sui propri
bilanci- che si avvale dell'Ufficio di Piano individuato quale struttura
tecnica di supporto per la realizzazione del piano di zona, in carenza di
specifiche disposizioni in merito che deleghino la struttura affidataria del
servizio, sarà tale ultimo soggetto a corrispondere al consigliere comunale
gli atti richiesti, nei tempi previsti.
Testo
E’ stato formulato un quesito in materia di accesso agli atti da parte dei
consiglieri comunali. In particolare, è stato chiesto quale sia la corretta
modalità di esercizio del diritto di accesso nell’ipotesi i cui gli Uffici
comunali non dispongano degli atti richiesti e che, dunque, abbiano
necessità di reperire i dati e le informazioni presso altro soggetto
competente per la gestione del servizio.
Al riguardo, come anche osservato da codesta Prefettura, al consigliere
comunale è riconosciuto dalle vigenti disposizioni (art. 43, comma 2, del
decreto legislativo n. 267/2000) il diritto di ottenere dagli uffici del
comune, nonché dalle proprie aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e
le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio
mandato.
Il comune con l’articolo 38 dello Statuto ha ribadito sostanzialmente il
diritto in parola, "nel rispetto delle modalità prefissate dall’art. 43 del
TUEL".
Il regolamento per il diritto di accesso adottato dal Comune contiene
disposizioni di dettaglio nella materia, prevedendo all’articolo 8, comma 2,
che il diritto in parola si esercita presso gli uffici dell’amministrazione
comunale, nonché presso enti, istituzioni e altri enti gestori di servizi
pubblici locali. "Per notizie e informazioni si intendono dati già formati
ancorché non tradotti in atti o documenti amministrativi per i quali non sia
richiesta alcuna elaborazione fatta salva quella di mera raccolta".
L’articolo 9 del regolamento precisa, inoltre, che l'accesso agli atti e
documenti è effettuato presso il responsabile di servizio titolare o
individuato su richiesta formale.
Nel caso in esame il Piano Sociale di zona a cui la documentazione richiesta
farebbe riferimento, sembrerebbe corrispondere, sulla base delle indicazioni
rintracciabili nel portale internet, all'Ufficio di Piano individuato quale
struttura tecnica di supporto per la realizzazione del piano di zona
previsto dall’art. 23, comma 1, della legge regionale n. 11/2007.
La struttura in parola è in sostanza una associazione in ambiti territoriali
tra comuni come prevista, tra l’altro, dall’articolo 10 della citata legge
regionale n. 11/2007.
Premesso che il Comune in parola contribuisce al funzionamento
dell’Associazione mediante finanziamenti a valere sui propri bilanci, è
acclarato il diritto del consigliere comunale ad accedere agli atti del
Piano sociale di Zona.
Nella fattispecie, valendo l'esercizio sostanziale del diritto, qualora il
Comune non sia in possesso immediato degli atti richiesti, in carenza di
specifiche disposizioni in merito che deleghino la struttura affidataria del
servizio, sarà il Piano Sociale di Zona a corrispondere al consigliere
comunale gli atti richiesti, nei tempi previsti (24.09.2018
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CONSIGLIERI COMUNALI: Irregolarità
della convocazione del consiglio comunale.
Sintesi/Massima
Convocazione del consiglio. Eventuali vizi di
legittimità attinenti alla convocazione del consiglio. Il vigente
ordinamento, come noto, non prevede poteri di controllo di legittimità sugli
atti degli enti locali in capo a questa Amministrazione.
Gli eventuali vizi di legittimità degli atti adottati possono essere fatti
valere solo nelle competenti sedi amministrative ovvero giurisdizionali,
secondo le consuete regole vigenti in materia.
Testo
E' stata segnalata una problematica in ordine all’applicazione della
normativa sulla convocazione del consiglio comunale.
In particolare, un consigliere di opposizione ha lamentato vizi di
legittimità nella procedura seguita dall’ente per l’inoltro della notifica
dell’avviso di convocazione di una seduta consiliare, eccependone la
tardività.
Secondo l'esponente non sarebbe stata rispettata la disposizione recata
dall'art. 40, comma 2, del regolamento sul funzionamento del consiglio
comunale ai sensi del quale "per le adunanze straordinarie la consegna
dell’avviso deve avvenire almeno tre giorni liberi prima di quello stabilito
per la riunione".
Dall’esame della nota emerge che nel contesto della seduta tenutasi in data
31.12.2017, il gruppo di minoranza, dopo aver contestato il mancato rispetto
del citato art. 40, comma 2, ed aver posto la questione pregiudiziale, ha
abbandonato la seduta.
Ciò posto il consigliere ha chiesto a codesta prefettura di procedere
all'attivazione dei poteri sostitutivi e di provvedere, altresì,
all’annullamento della seduta consiliare tenutasi in data 31.12.2017.
Al riguardo si rappresenta che è lo stesso regolamento sul funzionamento del
consiglio comunale a chiarire che "l’eventuale omessa o ritardata consegna
dell’avviso di convocazione è sanata quando il consigliere interessato
partecipa all’adunanza del Consiglio alla quale era stato invitato" (cfr.
art. 40, comma 8).
In ogni caso, si rappresenta che il vigente ordinamento, come noto, non
prevede poteri di controllo di legittimità sugli atti degli enti locali in
capo a questa Amministrazione.
Gli eventuali vizi di legittimità degli atti adottati, pertanto, possono
essere fatti valere solo nelle competenti sedi amministrative ovvero
giurisdizionali, secondo le consuete regole vigenti in materia (24.09.2018
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CONSIGLIERI COMUNALI: Accesso
al protocollo informatico da parte dei consiglieri comunali.
Sintesi/Massima
Il “diritto di accesso” ed il “diritto di informazione”
dei consiglieri comunali nei confronti della P.A. trovano la loro disciplina
nell’art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000 che riconosce a questi il
diritto di ottenere dagli uffici comunali, nonché dalle loro aziende ed enti
dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili
all’espletamento del proprio mandato.
Testo
E’ stato posto un quesito circa la legittimità di una regolamentazione da
parte dell’Ente dell’attività consultiva del protocollo informatico da parte
dei consiglieri comunali che hanno avanzato istanza di accesso.
In merito, come osservato dal Plenum della Commissione per l’accesso ai
documenti amministrativi, del 16.03.2010, il “diritto di accesso” ed
il “diritto di informazione” dei consiglieri comunali nei confronti
della P.A. trovano la loro disciplina nell’art. 43 del decreto legislativo
n. 267/2000 che riconosce a questi il diritto di ottenere dagli uffici
comunali, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e
le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato
(Confermato dal successivo parere del 23.10.2012)
Sempre secondo quanto sostenuto dalla Commissione per l’accesso con il
citato parere “l’accesso diretto tramite utilizzo di apposita password al
sistema informatico dell’Ente, ove operante, è uno strumento di accesso
certamente consentito al consigliere comunale che favorirebbe la tempestiva
acquisizione delle informazioni richieste senza aggravare l’ordinaria
attività amministrativa. Ovviamente il consigliere comunale rimane
responsabile della segretezza della password di cui è stato messo a
conoscenza a tali fini (art. 43, comma 2, T.U.O.E.L.)”.
Anche il Garante per la protezione dei dati personali (v. relazione del
2004, pag. 19 e 20) ha specificato che “nell’ipotesi in cui l’accesso da
parte dei consiglieri comunali riguardi dati sensibili, l’esercizio di tale
diritto, ai sensi dell’art. 65, comma 4, lett. b), del Codice, è consentito
se indispensabile per lo svolgimento della funzione di controllo, di
indirizzo politico, di sindacato ispettivo e di altre forme di accesso a
documenti riconosciute dalla legge e dai regolamenti degli organi
interessati per consentire l’espletamento di un mandato elettivo. Resta
ferma la necessità, … che i dati così acquisiti siano utilizzati per le sole
finalità connesse all’esercizio del mandato, rispettando in particolare il
divieto di divulgazione dei dati idonei a rivelare lo stato di salute.
Spetta quindi all’amministrazione destinataria della richiesta accertare
l’ampia e qualificata posizione di pretesa all’informazione ratione officii
del consigliere comunale”.
Peraltro, anche la giurisprudenza ha affermato il diritto del consigliere
alla visione del protocollo generale, senza alcuna esclusione di oggetti e
notizie riservate e di materie coperte da segreto, posto che i consiglieri
comunali sono tenuti al segreto - ai sensi del citato articolo 43 del
decreto legislativo n. 267/2000.
La materia, comunque, così come richiesto, deve trovare apposita disciplina
regolamentare di dettaglio per il suo esercizio nel rispetto delle
prescrizioni e dei limiti sopra indicati a salvaguardia del diritto dei
consiglieri (21.08.2018 - link a http://dait.interno.gov.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Modifica
regolamento consiglio comunale in materia di mozioni.
Sintesi/Massima
Mozioni.
Il diritto di presentare mozioni è previsto
dall’art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000, che al comma 3, demanda allo
statuto ed al regolamento la disciplina concernente le modalità di
presentazione degli atti di sindacato ispettivo e le relative risposte.
Ad
avviso della scrivente, il consiglio comunale potrebbe adottare disposizioni
regolamentari limitative del diritto di proporre emendamenti alle mozioni,
tali da stravolgerne surrettiziamente il significato originario.
Testo
E’ stato chiesto un parere circa la possibilità di modificare la normativa
recata dal regolamento del consiglio comunale in materia di mozioni.
In particolare si chiede se sia coerente con l’ordinamento degli enti locali
una normativa regolamentare che limiti la possibilità di emendare le
proposte di mozioni. La finalità di un siffatto intervento normativo sarebbe
individuabile nella necessità di tutelare il diritto del consigliere
firmatario della mozione a non consentire eventuali emendamenti che ne
stravolgano il senso.
Al riguardo si osserva che il predetto diritto è previsto dall’art. 43 del
decreto legislativo n. 267/2000, che al comma 3, demanda allo statuto ed al
regolamento la disciplina concernente le modalità di presentazione degli
atti di sindacato ispettivo e le relative risposte.
La dottrina definisce “mozioni” gli atti approvati dal consiglio per
esercitare un’azione di indirizzo, esprimere posizioni e giudizi su
determinate questioni, organizzare la propria attività, disciplinare
procedure e stabilire adempimenti dell’amministrazione nei confronti del
Consiglio.
Il TAR Puglia –Sezione di Lecce– I Sez., sentenza n. 1022/2004, individua la
mozione quale “istituto a contenuto non specificato … , trattandosi di un
potere a tutela della minoranza per situazioni non predefinibili, a
differenza di altri strumenti più a valenza di mera conoscenza (quali
l’interrogazione o la interpellanza), essendo strumento di “introduzione ad
un dibattito” che si conclude con un voto che è ragione ed effetto proprio
della mozione”.
Tanto premesso, il consiglio comunale potrebbe adottare disposizioni
regolamentari limitative del diritto di proporre emendamenti alle mozioni,
tali da stravolgerne surrettiziamente il significato originario.
Tuttavia, rientrando la materia in esame nella competenze delle fonti di
autonomia locale, spetterà alla valutazione del singolo ente determinarsi in
tal senso (21.08.2018 - link a http://dait.interno.gov.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Composizione
delle Commissioni consiliari permanenti. Impossibilità di insediamento.
Sintesi/Massima
Composizione delle Commissioni consiliari permanenti.
Impossibilità di insediamento.
In base a quanto disposto dall’articolo 38, comma 6, del decreto legislativo
n. 267/2000, le commissioni consiliari, una volta istituite sulla base di
una facoltativa previsione statutaria, sono disciplinate dall’apposito
regolamento comunale con l’inderogabile limite, posto dal legislatore,
riguardante il rispetto del criterio proporzionale nella composizione.
Le forze politiche presenti in consiglio devono, pertanto, essere il più
possibile rappresentate anche nelle commissioni.
A fronte delIa oggettiva impossibilità di insediare validamente le
commissioni a causa della indisponibilità manifestata da alcuni consiglieri
di minoranza, la situazione di fatto verificatasi è tale da giustificare, in
ragione del principio della continuità amministrativa, il riespandersi della
competenza piena del consiglio comunale.
Testo
E’ stato formulato un quesito in materia di commissioni consiliari
consultive permanenti.
L’art. 37 dello statuto comunale prevede l’istituzione delle commissioni
consultive, distinte in permanenti e temporanee, “…formate da consiglieri o
cittadini iscritti nelle liste elettorali del comune con esperienza e
competenza utili all’espletamento dei compiti”.
Ai sensi del regolamento del funzionamento del consiglio sono previste sei
commissioni consiliari permanenti composte da un massimo di cinque membri,
di cui tre consiglieri in rappresentanza della maggioranza e due della
minoranza.
Tuttavia nessun consigliere di minoranza ha accettato l’incarico di
componente delle commissioni e, pertanto, le stesse risultano composte
solamente dai tre membri di maggioranza.
Attesa la mancata designazione dei rappresentanti della minoranza, si chiede
un parere in merito all’operatività delle Commissioni consiliari permanenti.
Al riguardo si osserva, in via preliminare, che in base a quanto disposto
dall’articolo 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000, le commissioni
consiliari, una volta istituite sulla base di una facoltativa previsione
statutaria, sono disciplinate dall’apposito regolamento comunale con
l’inderogabile limite, posto dal legislatore, riguardante il rispetto del
criterio proporzionale nella composizione. Le forze politiche presenti in
consiglio devono, pertanto, essere il più possibile rappresentate anche
nelle commissioni.
In base al principio consolidato in materia di organi collegiali, secondo il
quale all’atto del primo insediamento l’organo deve essere completo in tutte
le sue componenti per potersi dire legittimamente costituito e poter
validamente operare, si ritiene che la mancata designazione dei
rappresentanti di minoranza abbia impedito, di fatto, la costituzione delle
commissione in argomento.
Al riguardo, va rilevato anzitutto la natura delle commissioni consiliari.
Esse non sono organi necessari dell’ente locale, cioè non sono componenti
indispensabili della sua struttura organizzative, bensì organi strumentali
dei consigli ed, in quanto tali, costituiscono componenti interne
dell’organo assembleare, prive di una competenza autonoma e distinta da
quella ad esso attribuita. In altri termini, le commissioni consiliari
operano sempre e comunque nell’ambito della competenza dei consigli.
A fronte della oggettiva impossibilità di insediare validamente le
commissioni a causa della indisponibilità manifestata da alcuni consiglieri
di minoranza, la situazione di fatto verificatasi è tale da giustificare, in
ragione del principio della continuità amministrativa, il riespandersi della
competenza piena del consiglio comunale.
Ovviamente ciò non esclude che l’argomento della ricostituzione delle
commissioni comunali possa essere iscritto all’ordine del giorno delle
sedute consiliari fino alla sua positiva trattazione.
Per quanto concerne la previsione dello statuto comunale circa la
possibilità di eleggere, quali componenti delle commissioni, anche cittadini
esterni al consiglio comunale, si rappresenta che, ai sensi del citato art.
38, comma 6, lo statuto può prevedere la costituzione di commissioni
consiliari, istituite dal consiglio «nel proprio seno». Pertanto, la
formulazione della norma statutaria non appare coerente con la disciplina
dettata dal legislatore circa la indefettibilità dello status di consigliere
comunale in capo ai componenti delle commissioni consiliari ex art. 38,
comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000 (19.07.2018
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CONSIGLIERI COMUNALI: Utilizzo
fascia tricolore.
Sintesi/Massima
Utilizzo fascia tricolore.
Con circolare di questo
Ministero n. 5/1998, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 270 del
18.11.1998, è stato evidenziato il carattere sostanziale dell’intervento
normativo (art. 36, comma 7 della legge n. 142/1990 come sostituito
dall’art. 4, comma 2, della legge 15.05.1997, n. 127 - ora art. 50, comma 12
del decreto legislativo n. 267/2000), con il quale è stato espressamente
disposto che «distintivo del sindaco è la fascia tricolore con lo stemma
della Repubblica e lo stemma del comune» e che “nell’uso corrente si è
affermata la consuetudine che il sindaco indossi la fascia in tutte le
occasioni ufficiali, in qualunque veste intervenga”.
Testo
E’ stato posto un quesito in ordine al corretto uso della fascia tricolore.
In particolare, è stato chiesto se l’utilizzo della predetta fascia
tricolore, previa autorizzazione del Sindaco, per la partecipazione alla
commemorazione dei caduti di Salò da parte di un consigliere comunale sia
corretto.
Al riguardo si osserva che, con circolare di questo Ministero n. 5/98,
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 270 del 18.11.1998, si sono fornite
indicazioni in ordine all’utilizzo della fascia tricolore da parte del
sindaci.
Nella predetta circolare viene evidenziato il carattere sostanziale
dell’intervento normativo (art. 36, comma 7, della legge n. 142/1990 come
sostituito dall’art. 4, comma 2, della legge 15.05.1997, n. 127 - ora art.
50, comma 12 del decreto legislativo n. 267/2000), con il quale è stato
espressamente disposto che «distintivo del sindaco è la fascia tricolore con
lo stemma della Repubblica e lo stemma del comune» e che “nell’uso corrente
si è affermata la consuetudine che il sindaco indossi la fascia in tutte le
occasioni ufficiali, in qualunque veste intervenga”.
Va da sé che, allorquando il sindaco sia assente o impedito temporaneamente
ai sensi dell’art. 53, comma 2, del T.U.O.E.L., spetta solo al vice sindaco
fregiarsene.
Restano validi gli utilizzi stabiliti da esplicite previsioni normative,
come quella di cui all’articolo 70 del d.P.R. n. 396, del 3 novembre 2000,
ove, in ragione della particolarità delle funzioni espletate, si prevede che
“l’ufficiale dello stato civile, nel celebrare il matrimonio e nel
costituire l’unione civile, deve indossare la fascia tricolore…”.
Pertanto, l’uso della fascia tricolore, anche per delega dello stesso
sindaco, da parte di altri soggetti, seppur eventualmente incardinati
nell’Amministrazione comunale o facenti parte di Organismi o Enti a cui
partecipino gli Enti locali con propri rappresentanti, è ammesso solo nelle
ipotesi sopra indicate.
In ogni caso, ribadendo sempre il contenuto della richiamata circolare
ministeriale, ove viene precisato che “viene attribuito ad un elemento
simbolico una specifica funzione che è distintiva, siccome finalizzata a
rendere palese la differenza tra il sindaco e gli altri titolari di
pubbliche cariche”, si ritiene che l’uso della fascia tricolore sia
legato proprio alla natura delle funzioni sindacali che sono di capo
dell’Amministrazione comunale e di ufficiale di Governo e che, dunque, anche
il sindaco sia vincolato al suo utilizzo nei limiti previsti dalla normativa
(19.07.2018
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CONSIGLIERI COMUNALI: Procedimento
di formazione dei gruppi consiliari.
Sintesi/Massima
Ipotesi inclusione del sindaco in un gruppo consiliare.
Il sindaco, pur se membro del consiglio comunale ai sensi dell'art. 46 del
T.U.O.E.L., ha, in effetti, una posizione differenziata rispetto ai singoli
consiglieri comunali.
Tale disposizione lascia emergere la configurazione della posizione di
terzietà del sindaco nel rapporto con i gruppi medesimi.
Ne deriva che l’iscrizione del sindaco ad un gruppo o addirittura la
costituzione di un gruppo unipersonale nel corso della consiliatura da parte
dello stesso sindaco può incidere sul corretto e bilanciato esercizio delle
funzioni di governo dell’ente.
Testo
E’ stato trasmesso il quesito del Segretario generale del Comune di Trecate,
in materia di formazione dei gruppi consiliari.
In particolare, è stato chiesto se, alla luce della vigente normativa anche
regolamentare e statutaria dell’Ente, sia legittimo mantenere l’inclusione
del sindaco in un gruppo consiliare e se lo stesso debba considerarsi
“terzo” in tutti gli organismi consiliari e, in coerenza con tale posizione
di terzietà, se il criterio di determinazione del quorum strutturale debba
prescindere dal sindaco consigliere.
Al riguardo, come noto, la disciplina della materia relativa alla
costituzione dei gruppi consiliari è demandata allo statuto e al regolamento
del consiglio nell'esercizio della propria autonomia funzionale ed
organizzativa riconosciuta in particolare dall'art. 38, comma 3, del decreto
legislativo n. 267/2000.
Ne deriva che le problematiche relative alla costituzione e al funzionamento
dei gruppi consiliari dovrebbero essere valutate alla stregua delle
specifiche norme statutarie e regolamentari di cui l'ente locale si è
dotato, competendo al consiglio comunale l'eventuale interpretazione
autentica delle predette norme.
Tuttavia, si ricorda che con una serie di pareri di questa Direzione
Centrale emessi nel corso degli anni alla luce della sentenza della Corte
Costituzionale n. 44/1997 (la quale afferma che il Sindaco viene computato
ad ogni fine tra i componenti del Consiglio stesso) ed alla luce della
decisione del C.d.S. n. 476/1998 (da cui emerge che il sindaco, essendo
componente del consiglio a tutti gli effetti può astrattamente essere
componente delle commissioni consiliari), si è affermata la tesi di una
possibile partecipazione del sindaco sia alle commissioni consiliari e sia
ai gruppi dai quali proporzionalmente scaturiscono tali commissioni.
L’attività interpretativa, nondimeno, non può essere disgiunta
dall'osservanza dei principi di buona amministrazione, né possono essere
utilizzate a sostegno di tale attività, massime giurisprudenziali o
dottrinarie che non si adattino perfettamente alla fattispecie esaminata.
Il sindaco, pur se membro del consiglio comunale ai sensi dell'art. 46 del
T.U.O.E.L., ha, in effetti, una posizione differenziata rispetto ai singoli
consiglieri comunali.
Tale disposizione lascia emergere la configurazione della posizione di
terzietà del sindaco nel rapporto con i gruppi medesimi.
Ne deriva che l’iscrizione del sindaco ad un gruppo o addirittura la
costituzione di un gruppo unipersonale nel corso della consiliatura da parte
dello stesso sindaco può incidere sul corretto e bilanciato esercizio delle
funzioni di governo dell’ente.
Riguardo al quorum strutturale per la validità delle sedute, l’art. 38,
comma 2, del T.U.O.E.L. demanda al regolamento l’individuazione del numero
dei consiglieri necessario per la validità delle sedute, prevedendo che in
ogni caso debba esservi la presenza di almeno un terzo dei consiglieri
assegnati per legge all'ente, senza computare a tale fine il sindaco e il
presidente della provincia.
Fermo restando il principio generale che, nelle ipotesi in cui l'ordinamento
non ha inteso annoverare il sindaco o il presidente della provincia, nel
quorum richiesto per la validità delle sedute, lo ha indicato espressamente
usando la formula “senza computare a tal fine il sindaco ed il presidente
della provincia”, si ritiene legittimo, al di fuori del caso
prospettato, includere nel calcolo dei consiglieri anche il sindaco, fatte
salve le eventuali previsioni statutarie o regolamentari difformi adottate
dall’ente locale nell’ambito della propria discrezionalità (19.07.2018
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CONSIGLIERI COMUNALI: Atti
urgenti e improrogabili. Applicazione artt. 38, comma 5, e 39 comma 2, del
decreto legislativo n. 267/2000.
Sintesi/Massima
Ai sensi dell’art. 38, comma 5, i consigli comunali
durano in carica per un periodo di cinque anni sino all’elezione dei nuovi,
limitandosi, dopo la pubblicazione del decreto di indizione dei comizi
elettorali, ad adottare gli atti urgenti e improrogabili.
La previsione legislativa in esame trae la propria ratio ispiratrice dalla
necessità di evitare che il consiglio comunale possa condizionare la
formazione della volontà degli elettori adottando atti aventi natura
cosiddetta “propagandistica”, tali da alterare la par condicio tra le forze
politiche che partecipano alle elezioni amministrative.
Testo
E’ stato formulato un quesito in ordine alla portata applicativa dell’art.
38, comma 5, del decreto legislativo n. 267/2000.
In particolare, alcuni consiglieri del comune in oggetto hanno prospettato
doglianze circa la prosecuzione dell’esame delle osservazioni e delle
controdeduzioni al regolamento urbanistico, da parte del consiglio comunale,
successivamente alla pubblicazione del decreto di convocazione dei comizi
elettorali.
Secondo quanto osservato dagli esponenti, l’esame di tali atti da parte del
consiglio comunale sarebbe impedito proprio dal disposto dell’art 38, comma
5, citato, stante l’assenza di un termine perentorio per l’adozione del
regolamento urbanistico ed in considerazione della natura tipicamente
discrezionale delle deliberazioni in parola destinate ad incidere sul futuro
del territorio.
Come noto, ai sensi del richiamato art. 38, comma 5, i consigli comunali
durano in carica per un periodo di cinque anni sino all’elezione dei nuovi,
limitandosi, dopo la pubblicazione del decreto di indizione dei comizi
elettorali, ad adottare gli atti urgenti e improrogabili. La previsione
legislativa in esame trae la propria ratio ispiratrice dalla necessità di
evitare che il consiglio comunale possa condizionare la formazione della
volontà degli elettori adottando atti aventi natura cosiddetta
“propagandistica”, tali da alterare la par condicio tra le forze politiche
che partecipano alle elezioni amministrative.
La prevalente giurisprudenza precisa che la preclusione disposta dalla
citata norma opera solamente con riguardo a quelle fattispecie in cui il
consiglio comunale è chiamato ad operare in pieno esercizio di
discrezionalità e senza interferenze con i diritti fondamentali
dell’individuo riconosciuti e protetti dalla fonte normativa superiore.
Quando invece l’organo consiliare è chiamato a pronunciarsi su questioni
vincolate nell’an, nel quando e nel quomodo e che, inoltre, coinvolgano
diritti primari dell’individuo, l’esercizio del potere non può essere
rinviato (TAR Puglia n. 382/2004).
E’ stato precisato, inoltre, che il carattere di atti urgenti e
improrogabili possa essere riconosciuto agli atti “… per i quali è previsto
un termine perentorio e decadenziale, superato il quale viene meno il potere
di emetterli, ovvero essi divengono inutili, cioè inidonei a realizzare la
funzione per la quale devono essere formati … o hanno un’utilità di gran
lunga inferiore” (TAR Veneto 1118 del 2012).
In ordine alla sussistenza del presupposto della urgenza ed improrogabilità,
è stato osservato che lo stesso …“costituisce apprezzamento di merito
insindacabile in sede di giurisdizione di legittimità, se non sotto il
limitato profilo della inesistenza del necessario apparato motivazionale,
ovvero della palese irrazionalità od illogicità della motivazione addotta”
(sentenza Tar Friuli Venezia Giulia n. 585 del 2006, confermata in appello
dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 6543/2008).
Come indicato nella circolare di questo Ministero n. 2 del 07.12.2006,
va rilevato che l’esistenza dei presupposti di urgenza ed improrogabilità
deve essere valutata caso per caso dallo stesso consiglio comunale che ne
assume la relativa responsabilità politica, tenendo presente il criterio
interpretativo di fondo che pone, quali elementi costitutivi della
fattispecie, scadenze fissate improrogabilmente dalla legge e/o il rilevante
danno per l’amministrazione comunale che deriverebbe da un ritardo nel
provvedere.
Per quanto concerne la specifica problematica evidenziata, si prende atto
che l’organo assembleare ha motivato la necessità di proseguire i lavori
propedeutici all’approvazione del regolamento urbanistico, aderendo alle
osservazioni tecniche espresse dal dirigente competente circa la necessità
di pervenire all’approvazione di tale regolamento entro il 24.07.2018.
Pertanto si ritengono sussistenti le ragioni giustificative della
prosecuzione dei lavori assembleari successivamente alla pubblicazione del
decreto di convocazione dei comizi elettorali (19.07.2018
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CONSIGLIERI COMUNALI: Richiesta
di convocazione da parte di un quinto dei consiglieri.
Sintesi/Massima
Richiesta di convocazione da parte di un quinto dei
consiglieri. Art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000.
Al Presidente del Consiglio spetta solo la verifica formale della richiesta
(prescritto numero di consiglieri), mentre non potrebbe essere sindacata nel
merito, salvo che non si tratti di oggetto che, in quanto illecito,
impossibile o per legge manifestamente estraneo alle competenze
dell’assemblea.
Il Tar Puglia nella sentenza n. 1022/2004 ha precisato che appartiene ai
poteri "sovrani" dell'assemblea decidere in via pregiudiziale che un dato
argomento inserito nell'ordine del giorno non debba essere discusso
("questione pregiudiziale"), ovvero se ne debba rinviare la discussione
("questione sospensiva").
Il citato Tar Puglia ha sottolineato, inoltre, che "…l’ordinamento ritiene
un valore essenziale del sistema democratico che alla minoranza sia
assicurata effettività del diritto di iniziativa, e cioè del diritto di
discussione in assemblea sull’argomento richiesto.
Ove, così non fosse, grave ed evidente sarebbe la contraddizione fra tutela
rafforzata del diritto di iniziativa e mancanza di limiti per la maggioranza
di metterlo nel nulla con la proposizione di una qualunque questione
pregiudiziale.”.
Testo
Sono stati chiesti chiarimenti in ordine alla normativa recata dall’art. 39,
comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000.
Al riguardo, com'é noto, il citato art. 39 prescrive che il presidente del
consiglio comunale è tenuto a riunire il consiglio, in un termine non
superiore ai venti giorni, quando lo richiedano un quinto dei consiglieri o
il sindaco, inserendo all’ordine del giorno le questioni richieste. La
disposizione configura un obbligo del Presidente del consiglio comunale di
procedere alla convocazione dell'organo assembleare senza alcun riferimento
alla necessaria adozione di determinazioni, da parte del consiglio stesso.
In caso di inosservanza degli obblighi di convocazione, in base al comma 5,
previa diffida, provvede il prefetto.
La dibattuta questione sulla sindacabilità, da parte del Presidente del
Consiglio (o del Sindaco), dei motivi che determinano i consiglieri a
chiedere la convocazione straordinaria dell’assemblea, si è orientata,
sempre in base alla giurisprudenza, nel senso che allo stesso spetti solo la
verifica formale della richiesta (prescritto numero di consiglieri), mentre
non potrebbe essere sindacata nel merito, salvo che non si tratti di oggetto
che, in quanto illecito, impossibile o per legge manifestamente estraneo
alle competenze dell’assemblea in nessun caso potrebbe essere posto
all’ordine del giorno (v. TAR Piemonte, Sez. II, 24.04.1996, n. 268).
Alla luce del richiamato orientamento giurisprudenziale e dottrinario, le
uniche ipotesi per le quali l'organo che presiede il consiglio comunale può
omettere la convocazione dell'assemblea sembrano la carenza del prescritto
numero di consiglieri oppure la verificata illiceità, impossibilità o
manifesta estraneità dell'oggetto alle competenze del Consiglio.
Nello stabilire se una determinata questione sia o meno di competenza del
Consiglio comunale occorre aver riguardo non solo agli atti fondamentali
espressamente elencati dal comma 2 dell'art. 42 del citato testo unico, ma
anche alle funzioni di indirizzo e di controllo politico-amministrativo di
cui al comma 1 del medesimo art. 42, con la possibilità, quindi, che la
trattazione da parte del collegio non debba necessariamente sfociare
nell'adozione di un provvedimento finale.
Il Consiglio comunale ha, infatti, un potere generale di indirizzo e di
controllo politico-amministrativo sull'attività del Comune, nel cui ambito
rientra pure quello di indirizzo, coordinamento e controllo sull'operato
della Giunta (conforme, Tribunale di Giustizia Amministrativa di Trento n. 20/2010
del 14.01.2010).
L’amministrazione locale in oggetto, nel ritenere non obbligatoria la
convocazione dell'assemblea per esaminare questioni considerate "estranee"
alla competenza consiliare, ha richiamato le osservazioni formulate dal Tar
Puglia nella sentenza n. 1022/2004. Nella citata pronuncia il giudice
amministrativo ha precisato che appartiene ai poteri "sovrani"
dell’assemblea decidere in via pregiudiziale che un dato argomento inserito
nell'ordine del giorno non debba essere discusso ("questione
pregiudiziale"), ovvero se ne debba rinviare la discussione ("questione
sospensiva").
La sentenza offre, altresì, un'interessante riflessione circa il necessario
bilanciamento del potere assembleare di esaminare le questioni pregiudiziali
con il diritto riconosciuto alle minoranze di attivare l’istituto della
convocazione dell’assemblea su richiesta di un quinto dei consiglieri.
A
tale proposito, il citato Tar Puglia ha ritenuto di dover sottolineare che
"…tale diritto di iniziativa è tutelato in modo specifico dalla legge con la
previsione severa ed eccezionale della modificazione dell'ordine delle
competenze mediante intervento sostitutorio del Prefetto in caso di mancata
convocazione del consiglio comunale in un termine emblematicamente breve
(venti giorni). Il significato giuridicamente utile di tale procedura
rafforzata di tutela va individuato nel fatto che l'ordinamento ritiene un
valore essenziale del sistema democratico che alla minoranza sia assicurata
effettività del diritto di iniziativa, e cioè del diritto di discussione in
assemblea sull'argomento richiesto. Ove, così non fosse, grave ed evidente
sarebbe la contraddizione fra tutela rafforzata del diritto di iniziativa e
mancanza di limiti per la maggioranza di metterlo nel nulla con la
proposizione di una qualunque questione pregiudiziale.”.
Pertanto è nell'ambito delle descritte coordinate giurisprudenziali che il
Presidente del consiglio dovrà conformare il proprio operato (28.06.2018
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Gruppi consiliari.
Sintesi/Massima
Ai sensi dell’art. 3 dello statuto speciale della
Regione Sardegna, l’ordinamento degli enti locali rientra nella competenza
della legislazione regionale nel rispetto della Costituzione, dei principi
dell’ordinamento giuridico della Repubblica, degli obblighi internazionali e
degli interessi nazionali, nonché delle norme fondamentali delle riforme
economico-sociali della Repubblica.
Testo
E’ stato formulato un quesito in materia di gruppi consiliari.
In particolare, è stato chiesto se, alla luce della normativa recata dalle
fonti di autonomia locale del Comune in oggetto, due consiglieri,
originariamente inseriti nel gruppo corrispondente alla lista di
maggioranza, possano costituire un nuovo gruppo diverso dal gruppo misto e
se, nell’ambito di un eventuale gruppo misto, possa essere designato un
capogruppo.
Si osserva preliminarmente che, ai sensi dell’art. 3 dello statuto speciale
della Regione Sardegna, l’ordinamento degli enti locali rientra nella
competenza della legislazione regionale nel rispetto della Costituzione, dei
principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica, degli obblighi
internazionali e degli interessi nazionali, nonché delle norme fondamentali
delle riforme economico-sociali della Repubblica.
La normativa in materia di gruppi consiliari è prevista dall’art. 14 dello
statuto comunale e dall’art. 7 del regolamento sul funzionamento del
consiglio comunale.
A termini della disciplina statutaria, i consiglieri possono costituire
gruppi anche non corrispondenti alle liste elettorali nelle quali sono stati
eletti “purché tali gruppi risultino composti da almeno 2 membri”.
Ai sensi dell’art. 7, comma 5, del regolamento del consiglio comunale è
riconosciuta la possibilità ai consiglieri che si siano distaccati dal
proprio gruppo originario e che non abbiano aderito ad altro gruppo di
costituire il “gruppo misto”. Il gruppo misto elegge al suo interno un
capogruppo.
Dall’esame del quadro normativo delineato i due consiglieri comunali
fuoriusciti dal gruppo corrispondente alla lista nella quale sono risultati
eletti ben potrebbero formare un nuovo gruppo diverso dal gruppo misto. Ciò
in quanto l’unico limite posto dalle fonti di autonomia locale per la
formazione di un nuovo gruppo è che lo stesso sia costituito da “almeno 2
membri”.
Nell’eventualità che alcuni consiglieri decidano di formare il gruppo misto
saranno tenuti ad eleggere al proprio interno il Capogruppo (28.06.2018
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CONSIGLIERI COMUNALI: Uso
della fascia tricolore.
Sintesi/Massima
Uso della fascia tricolore.
La disciplina del suo uso è legata, dunque, alla natura delle funzioni
sindacali che sono di capo dell’Amministrazione comunale e di ufficiale di
Governo.
Allorquando il sindaco sia assente o impedito temporaneamente ai sensi
dell’art. 53, c. 2, del T.U.O.E.L., spetta solo al vice sindaco fregiarsene.
Testo
E’ stato posto un quesito in ordine al corretto uso della fascia tricolore.
In particolare, è stato rappresentato che un consigliere comunale, delegato
alla cultura, ma non membro della giunta, dovrebbe utilizzare la fascia per
partecipare ad iniziative popolari in altro Paese della Regione e a un
ricevimento organizzato da concittadini emigrati all’estero, mentre un
assessore dovrebbe utilizzarla per rappresentare il comune in una
commemorazione dei caduti in un Paese limitrofo.
Al riguardo, si osserva che con circolare di questo Ministero n. 5/98
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 270 del 18.11.1998 si sono fornite
indicazioni in ordine al corretto utilizzo della fascia tricolore da parte
del sindaco.
Nella circolare viene evidenziato il carattere sostanziale dell’intervento
normativo (ora, art. 50, comma 12, del decreto legislativo n. 267/2000), con
il quale è stato espressamente disposto che «distintivo del sindaco è la
fascia tricolore con lo stemma della Repubblica e lo stemma del comune» e
che “nell’uso corrente si è affermata la consuetudine che il sindaco indossi
la fascia in tutte le occasioni ufficiali, in qualunque veste intervenga”.
La disciplina del suo uso è legata, dunque, alla natura delle funzioni
sindacali che sono di capo dell’Amministrazione comunale e di ufficiale di
Governo.
Allorquando il sindaco sia assente o impedito temporaneamente ai sensi
dell’art. 53, c. 2, del T.U.O.E.L., spetta solo al vice sindaco fregiarsene.
Restano validi gli utilizzi stabiliti da esplicite previsioni normative,
come quella di cui all’articolo 70 del d.P.R. n. 396, del 03.11.2000
ove, in ragione della particolarità delle funzioni espletate, si prevede che
“l’ufficiale dello stato civile, nel celebrare il matrimonio, deve indossare
la fascia tricolore…”.
Pertanto l’uso della fascia tricolore, anche per delega dello stesso
sindaco, da parte di altri soggetti, seppur incardinati nell’Amministrazione
comunale o facenti parte di Organismi o Enti a cui partecipino gli Enti
locali con propri rappresentanti, non appare in linea con il dettato
normativo.
Va comunque evidenziato che, alla luce della legge costituzionale n. 3 del
18.10.2001, sussiste oggi ampia possibilità per le autonomie locali di
disciplinare, con normazione regolamentare, l’utilizzo dei propri segni
distintivi, anche a scopo di rappresentanza, senza così ricorrere
all’impiego di un simbolo, quale la fascia tricolore, attinente nello
specifico al capo dell’amministrazione ed allo svolgimento delle proprie
funzioni in conformità alle indicazioni di legge (28.06.2018
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CONSIGLIERI COMUNALI: Accesso
al sistema informativo comunale da parte di consiglieri.
Sintesi/Massima
Accesso al sistema informativo comunale da parte di
consiglieri tramite password.
Come osservato dal Plenum della Commissione per l’accesso ai documenti
amministrativi, del 16.03.2010, il “diritto di accesso” ed il “diritto di
informazione” dei consiglieri comunali nei confronti della P.A. trovano la
loro disciplina nell’art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000 che
riconosce a questi il diritto di ottenere dagli uffici comunali, nonché
dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in
loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato. (Confermato dal
successivo parere del 23.10.2012).
“L’accesso diretto tramite utilizzo di apposita password al sistema
informatico dell’Ente, ove operante, è uno strumento di accesso certamente
consentito al consigliere comunale che favorirebbe la tempestiva
acquisizione delle informazioni richieste senza aggravare l’ordinaria
attività amministrativa. Ovviamente il consigliere comunale rimane
responsabile della segretezza della password di cui è stato messo a
conoscenza a tali fini (art. 43, comma 2, T.U.O.E.L.)”.
Testo
E’ stato chiesto un parere in materia di diritto di accesso al sistema
informativo comunale.
In particolare, i consiglieri hanno avanzato al Sindaco richiesta di rendere
disponibile la password al fine “di accedere anche al Protocollo
informatico”.
Il Sindaco ha chiesto a codesta Prefettura se, in mancanza di un programma
informatico in grado di oscurare, anche solo temporaneamente, oggetti e
contenuti per i quali sia necessario il differimento, sia possibile
consentire l’accesso al solo elenco del protocollo.
I medesimi consiglieri hanno chiesto anche a questo Ministero le motivazioni
in ordine alla mancata autorizzazione ad accedere al “solo elenco del
protocollo” per le finalità indicate dal Comune.
In merito, come osservato dal Plenum della Commissione per l’accesso ai
documenti amministrativi, del 16.03.2010, il “diritto di accesso” ed il
“diritto di informazione” dei consiglieri comunali nei confronti della P.A.
trovano la loro disciplina nell’art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000
che riconosce a questi il diritto di ottenere dagli uffici comunali, nonché
dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in
loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato (confermato dal
successivo parere del 23.10.2012)
Sempre secondo quanto sostenuto dalla Commissione per l’accesso con il
citato parere “l’accesso diretto tramite utilizzo di apposita password al
sistema informatico dell’Ente, ove operante, è uno strumento di accesso
certamente consentito al consigliere comunale che favorirebbe la tempestiva
acquisizione delle informazioni richieste senza aggravare l’ordinaria
attività amministrativa. Ovviamente il consigliere comunale rimane
responsabile della segretezza della password di cui è stato messo a
conoscenza a tali fini (art. 43, comma 2, T.U.O.E.L.)”.
Anche il Garante per la protezione dei dati personali (v. relazione del
2004, pag. 19 e 20) ha specificato che “nell’ipotesi in cui l’accesso da
parte dei consiglieri comunali riguardi dati sensibili, l’esercizio di tale
diritto, ai sensi dell’art. 65, comma 4, lett. b), del Codice, è consentito
se indispensabile per lo svolgimento della funzione di controllo, di
indirizzo politico, di sindacato ispettivo e di altre forme di accesso a
documenti riconosciute dalla legge e dai regolamenti degli organi
interessati per consentire l’espletamento di un mandato elettivo. Resta
ferma la necessità, … che i dati così acquisiti siano utilizzati per le sole
finalità connesse all’esercizio del mandato, rispettando in particolare il
divieto di divulgazione dei dati idonei a rivelare lo stato di salute.
Spetta quindi all’amministrazione destinataria della richiesta accertare
l’ampia e qualificata posizione di pretesa all’informazione ratione officii
del consigliere comunale”.
Peraltro, anche la giurisprudenza ha affermato il diritto del consigliere
alla visione del protocollo generale, senza alcuna esclusione di oggetti e
notizie riservate e di materie coperte da segreto, posto che i consiglieri
comunali sono tenuti al segreto - ai sensi del citato articolo 43 del
decreto legislativo n. 267/2000.
Fatto salvo il diritto dei consiglieri, la materia, comunque, dovrebbe
trovare apposita disciplina regolamentare di dettaglio per il suo esercizio
(28.06.2018
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CONSIGLIERI COMUNALI: Riprese
audiovisive delle sedute del consiglio comunale. Richiesta di annullamento.
Sintesi/Massima
Riprese audiovisive delle sedute del consiglio comunale.
Nell'ambito dell'attribuzione al consiglio comunale dell'autonomia
funzionale ed organizzativa si riconduce quella potestà di regolare
opportunamente, con apposite norme, ogni aspetto attinente al funzionamento
dell'assemblea, tra cui anche quello della registrazione del dibattito e
delle votazioni con mezzi audiovisivi, sia da parte degli uffici di supporto
all'attività di verbalizzazione del segretario comunale, che da parte dei
consiglieri, degli organi di informazione e dei cittadini che assistono alla
sedute pubbliche.
Testo
E’ stato chiesto l’annullamento di una deliberazione con cui era stato
approvato il regolamento sulle riprese audiovisive delle sedute del
consiglio comunale.
Al riguardo, premesso che questo Ministero, com’è noto, non dispone di
poteri di controllo sugli atti degli enti locali, si osserva che le
eventuali illegittimità possono farsi rilevare in sede di giudizio da parte
di chi ne abbia interesse.
Riguardo alla specifica fattispecie, si evidenzia come nell'ambito
dell'attribuzione al consiglio comunale dell'autonomia funzionale ed
organizzativa (art. 38, comma 3, T.U.O.E.L.) si riconduce quella potestà di
regolare opportunamente, con apposite norme, ogni aspetto attinente al
funzionamento dell'assemblea, tra cui anche quello della registrazione del
dibattito e delle votazioni con mezzi audiovisivi, sia da parte degli uffici
di supporto all'attività di verbalizzazione del segretario comunale, che da
parte dei consiglieri, degli organi di informazione e dei cittadini che
assistono alla sedute pubbliche.
Sulla materia è intervenuta la sentenza n. 826 del 16.03.2010 con la quale il
TAR per il Veneto ha respinto un ricorso avverso il diniego opposto da un
sindaco ad una richiesta di registrazione audio-video delle sedute del
consiglio comunale, nella considerazione che, in assenza di un'apposita
disciplina regolamentare adottata dall'ente, non possano essere garantiti i
diritti previsti dal codice sul trattamento dei dati personali di cui al d.lgs. 196 del 2003 e successive modifiche.
Secondo quanto osservato nella citata pronuncia, infatti, gli adempimenti
previsti dal suddetto codice “non possono per certo conseguire da
estemporanei assensi alla videoregistrazione emanati dal sindaco-Presidente
del consiglio comunale nel corso delle sedute del Consiglio medesimo, ma
necessitano di essere disciplinati da un'apposita fonte regolamentare di
competenza consiliare”.
Il citato giudice amministrativo ha ritenuto, peraltro, immediatamente
concedibile da parte del Presidente del Consiglio Comunale, nei confronti di
emittenti televisive nazionali e locali l'autorizzazione a riprendere, in
via non sistematica, gratuitamente e senza diritti di esclusiva, talune
brevi fasi delle sedute del Consiglio Comunale in quanto da tale
autorizzazione non conseguono obblighi di sorta per l'Amministrazione
Comunale quale 'titolare' o 'responsabile' del trattamento dei
personali (28.06.2018
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Richiesta di convocazione da parte di un quinto dei consiglieri.
Sintesi/Massima
Richiesta di convocazione da parte di un quinto dei
consiglieri. Art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000.
Al Presidente del Consiglio spetta solo la verifica formale della richiesta
(prescritto numero di consiglieri), mentre non potrebbe essere sindacata nel
merito, salvo che non si tratti di oggetto che, in quanto illecito,
impossibile o per legge manifestamente estraneo alle competenze
dell’assemblea.
Il Tar Puglia nella sentenza n. 1022/2004 ha precisato che appartiene ai
poteri “sovrani” dell’assemblea decidere in via pregiudiziale che un dato
argomento inserito nell’ordine del giorno non debba essere discusso
(“questione pregiudiziale”), ovvero se ne debba rinviare la discussione
(“questione sospensiva”).
Il citato Tar Puglia ha sottolineato, inoltre, che “…l’ordinamento ritiene
un valore essenziale del sistema democratico che alla minoranza sia
assicurata effettività del diritto di iniziativa, e cioè del diritto di
discussione in assemblea sull’argomento richiesto. Ove, così non fosse,
grave ed evidente sarebbe la contraddizione fra tutela rafforzata del
diritto di iniziativa e mancanza di limiti per la maggioranza di metterlo
nel nulla con la proposizione di una qualunque questione pregiudiziale.”.
Testo
Sono stati chiesti chiarimenti in ordine alla normativa recata dall’art. 39,
comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000.
Al riguardo, com’è noto, il citato art. 39 prescrive che il presidente del
consiglio comunale è tenuto a riunire il consiglio, in un termine non
superiore ai venti giorni, quando lo richiedano un quinto dei consiglieri o
il sindaco, inserendo all’ordine del giorno le questioni richieste. La
disposizione configura un obbligo del Presidente del consiglio comunale di
procedere alla convocazione dell’organo assembleare senza alcun riferimento
alla necessaria adozione di determinazioni, da parte del consiglio stesso.
In caso di inosservanza degli obblighi di convocazione, in base al comma 5,
previa diffida, provvede il prefetto.
La dibattuta questione sulla sindacabilità, da parte del Presidente del
Consiglio (o del Sindaco), dei motivi che determinano i consiglieri a
chiedere la convocazione straordinaria dell’assemblea, si è orientata,
sempre in base alla giurisprudenza, nel senso che allo stesso spetti solo la
verifica formale della richiesta (prescritto numero di consiglieri), mentre
non potrebbe essere sindacata nel merito, salvo che non si tratti di oggetto
che, in quanto illecito, impossibile o per legge manifestamente estraneo
alle competenze dell’assemblea in nessun caso potrebbe essere posto
all’ordine del giorno (v. TAR Piemonte, Sez. II, 24.04.1996, n. 268).
Alla luce del richiamato orientamento giurisprudenziale e dottrinario, le
uniche ipotesi per le quali l’organo che presiede il consiglio comunale può
omettere la convocazione dell’assemblea sembrano la carenza del prescritto
numero di consiglieri oppure la verificata illiceità, impossibilità o
manifesta estraneità dell’oggetto alle competenze del Consiglio.
Nello stabilire se una determinata questione sia o meno di competenza del
Consiglio comunale occorre aver riguardo non solo agli atti fondamentali
espressamente elencati dal comma 2 dell’art. 42 del citato testo unico, ma
anche alle funzioni di indirizzo e di controllo politico-amministrativo di
cui al comma 1 del medesimo art. 42, con la possibilità, quindi, che la
trattazione da parte del collegio non debba necessariamente sfociare
nell’adozione di un provvedimento finale.
Il Consiglio comunale ha, infatti, un potere generale di indirizzo e di
controllo politico - amministrativo sull’attività del Comune, nel cui ambito
rientra pure quello di indirizzo, coordinamento e controllo sull'operato
della Giunta (conforme, Tribunale di Giustizia Amministrativa di Trento n.
20/2010 del 14.01.2010).
L’amministrazione locale in oggetto, nel ritenere non obbligatoria la
convocazione dell’assemblea per esaminare questioni considerate “estranee”
alla competenza consiliare, ha richiamato le osservazioni formulate dal Tar
Puglia nella sentenza n. 1022/2004. Nella citata pronuncia il giudice
amministrativo ha precisato che appartiene ai poteri “sovrani”
dell’assemblea decidere in via pregiudiziale che un dato argomento inserito
nell’ordine del giorno non debba essere discusso (“questione
pregiudiziale”), ovvero se ne debba rinviare la discussione (“questione
sospensiva”).
La sentenza offre, altresì, un’interessante riflessione circa il necessario
bilanciamento del potere assembleare di esaminare le questioni pregiudiziali
con il diritto riconosciuto alle minoranze di attivare l’istituto della
convocazione dell’assemblea su richiesta di un quinto dei consiglieri.
A tale proposito, il citato Tar Puglia ha ritenuto di dover sottolineare che
“…tale diritto di iniziativa è tutelato in modo specifico dalla legge con la
previsione severa ed eccezionale della modificazione dell’ordine delle
competenze mediante intervento sostitutorio del Prefetto in caso di mancata
convocazione del consiglio comunale in un termine emblematicamente breve
(venti giorni). Il significato giuridicamente utile di tale procedura
rafforzata di tutela va individuato nel fatto che l’ordinamento ritiene un
valore essenziale del sistema democratico che alla minoranza sia assicurata
effettività del diritto di iniziativa, e cioè del diritto di discussione in
assemblea sull’argomento richiesto. Ove, così non fosse, grave ed evidente
sarebbe la contraddizione fra tutela rafforzata del diritto di iniziativa e
mancanza di limiti per la maggioranza di metterlo nel nulla con la
proposizione di una qualunque questione pregiudiziale.”.
Pertanto è nell’ambito delle descritte coordinate giurisprudenziali che il
Presidente del consiglio dovrà conformare il proprio operato (28.06.2018
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GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Il soggetto che ha denunciato abusi edilizi non
riveste automaticamente la qualità di controinteressato in senso
proprio, a meno che non sia contemplato nel provvedimento
impugnato quale co-destinatario dell’atto in relazione agli
effetti prodotti della determinazione adottata nella propria
sfera giuridica.
Infatti, per giurisprudenza consolidata, la individuazione
dei controinteressati nel processo amministrativo deriva
dalla simultanea compresenza di un presupposto formale,
consistente nella indicazione nominativa del soggetto nel
provvedimento impugnato, e di un elemento sostanziale,
derivante dall'esistenza in capo a tale soggetto di un
interesse qualificato, giuridicamente rilevante, di
carattere uguale e contrario rispetto a quello fatto valere
con l'azione impugnatoria, al fine di mantenere la
regolazione degli interessi prodotta dall’atto contestato
dal ricorrente.
Sennonché, nella specie, la vicinitas dei fondi e la mera
menzione nell’atto in chiave descrittiva delle distinte
proprietà non sono sufficienti a qualificare formalmente e
sostanzialmente un interesse legittimo a difendere in
giudizio la legittimità delle sanzioni edilizie applicate
con il provvedimento impugnato.
---------------
... per l'annullamento:
-
dell'ordinanza n. 63 del 24.10.2018 per la parte in cui
revoca solo parzialmente la precedente ordinanza di
demolizione n. 48 del 24.08.2018 confermando l'ordine demolitorio relativamente all'installazione di n. 6 paletti
metallici ed alla posa in opera della pavimentazione di
un’area
di circa 35 mq.;
- dell'ordinanza n. 48 del 24.08.2018 per la
parte non oggetto della revoca operata con l'ordinanza di
cui al precedente punto; nonché di ogni altro atto connesso,
se ed in quanto lesivo, ivi compreso il verbale di
sopralluogo del 15.03.2017 redatto congiuntamente da Polizia
Locale e U.T.C.;
...
Considerato preliminarmente che:
- è da escludere la sussistenza nella specie di
contraddittori necessari non intimati in giudizio, posto che
il soggetto che ha denunciato abusi edilizi non riveste
automaticamente la qualità di controinteressato in senso
proprio, a meno che non sia contemplato nel provvedimento
impugnato quale co-destinatario dell’atto in relazione agli
effetti prodotti della determinazione adottata nella propria
sfera giuridica;
- infatti, per giurisprudenza consolidata, la individuazione
dei controinteressati nel processo amministrativo deriva
dalla simultanea compresenza di un presupposto formale,
consistente nella indicazione nominativa del soggetto nel
provvedimento impugnato, e di un elemento sostanziale,
derivante dall'esistenza in capo a tale soggetto di un
interesse qualificato, giuridicamente rilevante, di
carattere uguale e contrario rispetto a quello fatto valere
con l'azione impugnatoria, al fine di mantenere la
regolazione degli interessi prodotta dall’atto contestato
dal ricorrente (cfr. Cons. St., sez. IV, 01/08/2018, n. 4736);
- sennonché, nella specie, la vicinitas dei fondi e
la mera menzione nell’atto in chiave descrittiva delle
distinte proprietà non sono sufficienti a qualificare
formalmente e sostanzialmente un interesse legittimo a
difendere in giudizio la legittimità delle sanzioni edilizie
applicate con il provvedimento impugnato (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 24.12.2018 n. 7333 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sull'illegittimità dell'ordinanza di demolizione relativamente all'installazione di n. 6 paletti
metallici con rete metallica ed alla posa in opera della pavimentazione di
un’area di circa 35 mq..
La sanzione prevista dall’art. 31 del d.P.R. n. 380 del
2001 si
riferisce agli interventi di nuova costruzione per i quali è
prescritta la previa acquisizione di un permesso di
costruire ai sensi dell’art. 10, co. 1, lett. a), ed
eseguiti in assenza, o in difformità totale del prescritto
titolo abilitativo.
Gli interventi di nuova costruzione che richiedono il
permesso di costruire, in difetto del quale è applicabile
l’ingiunzione di demolizione ex art. 31, consistono negli
interventi di trasformazione edilizia e urbanistica del
territorio, non rientranti nelle categorie della manutenzione ordinaria e
straordinaria, del restauro e
risanamento conservativo e della ristrutturazione edilizia,
contemplati nell’art. 3, co. 1, lett. e), del citato d.P.R.
n. 380.
La posa di sei paletti infissi nel suolo, destinati a
sorreggere una recinzione di rete metallica senza opere
murarie, costituisce un manufatto di limitato impatto
urbanistico e visivo, essenzialmente destinato al solo scopo
di delimitare la proprietà per separarla dalle altre, per
cui l’intervento non richiede il rilascio di un permesso di
costruire, fatta salva ovviamente l’osservanza dei vincoli
paesaggistici.
L'opera di pavimentazione di un’area esterna di modesta
estensione neppure è di per sé soggetta al permesso di
costruire salvo che non comporti una trasformazione
urbanistica del suolo ed un cambio della sua destinazione,
sempre ferma restando l’osservanza dei vincoli
paesaggistici.
---------------
... per l'annullamento:
-
dell'ordinanza n. 63 del 24.10.2018 per la parte in cui
revoca solo parzialmente la precedente ordinanza di
demolizione n. 48 del 24.08.2018 confermando l'ordine demolitorio relativamente all'installazione di n. 6 paletti
metallici ed alla posa in opera della pavimentazione di
un’area
di circa 35 mq.;
- dell'ordinanza n. 48 del 24.08.2018 per la
parte non oggetto della revoca operata con l'ordinanza di
cui al precedente punto; nonché di ogni altro atto connesso,
se ed in quanto lesivo, ivi compreso il verbale di
sopralluogo del 15.03.2017 redatto congiuntamente da Polizia
Locale e U.T.C.;
...
Ritenuto nel merito che:
- la sanzione prevista dall’art. 31 del d.P.R. n. 380 del
2001, nella specie irrogata con le ordinanze impugnate, si
riferisce agli interventi di nuova costruzione per i quali è
prescritta la previa acquisizione di un permesso di
costruire ai sensi dell’art. 10, co. 1, lett. a), ed
eseguiti in assenza, o in difformità totale del prescritto
titolo abilitativo;
- gli interventi di nuova costruzione che richiedono il
permesso di costruire, in difetto del quale è applicabile
l’ingiunzione di demolizione ex art. 31, consistono negli
interventi di trasformazione edilizia e urbanistica del
territorio, non rientranti nelle categorie della manutenzione ordinaria e
straordinaria, del restauro e
risanamento conservativo e della ristrutturazione edilizia,
contemplati nell’art. 3, co. 1, lett. e), del citato d.P.R.
n. 380;
- la posa di sei paletti infissi nel suolo, destinati a
sorreggere una recinzione di rete metallica senza opere
murarie, costituisce un manufatto di limitato impatto
urbanistico e visivo, essenzialmente destinato al solo scopo
di delimitare la proprietà per separarla dalle altre, per
cui l’intervento non richiede il rilascio di un permesso di
costruire, fatta salva ovviamente l’osservanza dei vincoli
paesaggistici (cfr. TAR Brescia, sez. II, 25/09/2018, n. 907;
TAR Roma, sez. II, 04/09/2017, n. 9529; Cons. St., sez. IV,
15/12/2017, n. 5908);
- l'opera di pavimentazione di un’area esterna di modesta
estensione neppure è di per sé soggetta al permesso di
costruire salvo che non comporti una trasformazione
urbanistica del suolo ed un cambio della sua destinazione,
sempre ferma restando l’osservanza dei vincoli paesaggistici
(cfr. TAR Napoli, sez. VI, 01/08/2018, n. 5144; cfr. art. 6,
co. 1, lett. e-ter), del d.P.R. n. 380);
- nella specie non risultano adottati atti di autotutela
riferiti ai titoli abilitativi di cui la ricorrente
riferisce il possesso e posti a sostegno degli interventi in
questione;
- né la sussistenza di vincoli paesaggistici giustifica
l’applicazione di una sanzione edilizia diversa da quella
prevista in relazione al difetto del prescritto titolo
abilitativo edilizio, fatta salva ovviamente l’applicazione,
se del caso, delle pertinenti misure repressive (TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 24.12.2018 n. 7333 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’acquisizione gratuita al patrimonio dell’ente
costituisce un’autonoma sanzione derivante
dall’inottemperanza dell’ingiunzione di demolizione. In
altre parole, essa rappresenta la reazione dell’ordinamento
al duplice illecito posto in essere dal privato che,
dapprima, esegue un’opera abusiva e, successivamente, non
adempie all’obbligo di demolire entro il termine fissato
dall’amministrazione.
Alla luce dei principi esposti, deve
ritenersi che le questioni relative all’acquisizione
dell’area, ed i relativi presupposti, attenendo ad un
successivo momento procedimentale, non possono essere
introdotte nel giudizio con il quale si impugna l’ordine di
demolizione, bensì avverso l’eventuale provvedimento di
acquisizione laddove venga effettivamente emesso.
Per tale ragione, l’omessa o imprecisa indicazione di
un’area che verrà acquisita di diritto al patrimonio
pubblico non costituisce motivo di illegittimità
dell’ordinanza di demolizione; invero, l’indicazione
dell’area è requisito necessario ai fini dell’acquisizione,
che costituisce distinta misura sanzionatoria.
---------------
In generale, quanto al rispetto del dovere di motivazione,
deve ricordarsi che il provvedimento con cui viene ingiunta
la demolizione di un immobile abusivo, per la sua natura
vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi
presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione
in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da
quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che
impongono la rimozione dell’abuso.
Nel caso in esame, il provvedimento impugnato contiene
sufficienti elementi in fatto e diritto per evidenziare il
tipo di abuso edilizio e le norme in violazione delle quali
lo stesso è stato commesso, come meglio specificato nel
rapporto della polizia municipale, al quale l’ordinanza
rinvia per relationem.
A questo riguardo, va ricordato che l'obbligo per l'Autorità
di motivare il provvedimento amministrativo non può
ritenersi violato attraverso il richiamo per relationem
degli atti procedimentali, se questi offrano comunque
elementi sufficienti e univoci dai quali possano
ricostruirsi le concrete ragioni e l'iter motivazionale
posti a sostegno della determinazione assunta.
---------------
4 – Con il primo motivo si deduce la violazione
dell’art. 7 della l. 47/1985, oggi art. 31 del d.p.r. 380/2001
e art. 132 della l.reg. 01/2005.
Più precisamente, si censura la sentenza impugnata nel punto
in cui afferma che “l’indicazione dell’area di sedime non
deve essere contenuta nel provvedimento di demolizione,
bensì nell’atto in cui l’Amministrazione accerta
l’inottemperanza all’ordine di demolizione”.
Secondo l’appellante, la sanzione che determina
l'acquisizione della proprietà del bene altrui -anche in
relazione alla sua particolare gravità- richiederebbe una
esatta individuazione del bene che il Comune intende
acquisire e tale indicazione dovrebbe essere contenuta già
nell'ingiunzione.
4.1 – La censura non può essere accolta, contrastando con
l’orientamento di gran lunga maggioritario a cui il Collegio
intende aderire.
Al riguardo, deve infatti ricordarsi che l’acquisizione
gratuita al patrimonio dell’ente costituisce un’autonoma
sanzione (cfr. Corte Cost. n. 82/1991, Corte Cost. n.
345/1991), derivante dall’inottemperanza dell’ingiunzione di
demolizione. In altre parole, essa rappresenta la reazione
dell’ordinamento al duplice illecito posto in essere dal
privato che, dapprima, esegue un’opera abusiva e,
successivamente, non adempie all’obbligo di demolire entro
il termine fissato dall’amministrazione (cfr. Cons. St.,
sez. IV, 03.05.2011, n. 2639; Cons. St., sez. V, 15.07.2016, n. 3834).
Alla luce dei principi esposti, deve
ritenersi che le questioni relative all’acquisizione
dell’area, ed i relativi presupposti, attenendo ad un
successivo momento procedimentale, non possono essere
introdotte nel giudizio con il quale si impugna l’ordine di
demolizione, bensì avverso l’eventuale provvedimento di
acquisizione laddove venga effettivamente emesso.
Per tale ragione, l’omessa o imprecisa indicazione di
un’area che verrà acquisita di diritto al patrimonio
pubblico non costituisce motivo di illegittimità
dell’ordinanza di demolizione; invero, l’indicazione
dell’area è requisito necessario ai fini dell’acquisizione,
che costituisce distinta misura sanzionatoria (cfr. Cons. St.,
sez. IV, 25 n. 5593 del 2013; Cons. St., sez. V. n. 3438 del
2014; Cons. St., sez. IV, n. 4659 del 2008; Cons. St. sez.
VI, n. 1998 del 2004).
5
- Con il secondo motivo di appello si deduce la violazione e
falsa applicazione dell’art. 3 l. n. 241/1990.
A tal fine, l’appellante rileva che il provvedimento
impugnato si riferisce genericamente ad “opere abusive” così
come descritte nel verbale della P.M., ma non distinguerebbe
le singole fattispecie, che sarebbero soggette a discipline
diverse.
5.1 - Può essere esaminata in questa sede anche la censura
con la quale si contesta il difetto di motivazione
dell’ordinanza impugnata nel punto in cui ha disposto la
demolizione della tettoia e del box-container.
In particolare, l’appellante contesta la decisione del
TAR che, rispetto a tale censura, avrebbe preso in
considerazione la situazione del solo box–container, senza
fare alcun riferimento alla tettoia.
6 – Le censure sono infondate.
In generale, quanto al rispetto del dovere di motivazione,
deve ricordarsi che il provvedimento con cui viene ingiunta
la demolizione di un immobile abusivo, per la sua natura
vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi
presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione
in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da
quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che
impongono la rimozione dell’abuso(cfr. Cons. St., Ad. Plen.,
17.10.2017, n. 9).
6.1 - Nel caso in esame, come già osservato dal Giudice di
prime cure, il provvedimento impugnato contiene sufficienti
elementi in fatto e diritto per evidenziare il tipo di abuso
edilizio e le norme in violazione delle quali lo stesso è
stato commesso, come meglio specificato nel rapporto della
polizia municipale, al quale l’ordinanza rinvia per relationem.
A questo riguardo, va ricordato che l'obbligo per l'Autorità
di motivare il provvedimento amministrativo non può
ritenersi violato attraverso il richiamo per relationem
degli atti procedimentali, se questi offrano comunque
elementi sufficienti e univoci dai quali possano
ricostruirsi le concrete ragioni e l'iter motivazionale
posti a sostegno della determinazione assunta (cfr. Cons.
Stato, Sez. V, 21.04.2015, n. 2011).
Le considerazioni che precedono valgano evidentemente sia
per il box che per la tettoia, dal momento che anche quest’ultima
è contemplata nel verbale di accertamento del 21.10.1996 (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 24.12.2018 n. 7210 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La realizzazione
di un box-container, stabilmente
appoggiato al terreno,
pur nella precarietà dei materiali e nella funzione pertinenziale
alla quale il soggetto che lo installa intende impiegarlo in
modo stabile nel tempo, costituisce permanente alterazione
del terreno ai fini urbanistico-edilizi e richiede,
pertanto, il rilascio del previo titolo edilizio.
---------------
Vale un analogo discorso per la tettoia (“realizzata
con vecchi pali di cemento e copertura in eternit”), che
per dimensioni e caratteristiche non può certo considerarsi
indifferente rispetto all’assetto del territorio nel quale
si colloca.
La giurisprudenza ha già avuto modo di affermare che la
realizzazione di una tettoia necessita di permesso di
costruire quale “nuova costruzione”, comportando una
trasformazione del territorio e dell’assetto edilizio
anteriore; essa arreca, infatti, un proprio impatto
volumetrico e, se e in quanto priva di connotati di
precarietà, è destinata a soddisfare esigenze non già
temporanee e contingenti, ma durevoli nel tempo, con
conseguente incremento del godimento dell’immobile cui inerisce
e del relativo carico urbanistico.
---------------
7 – Con
un’ulteriore censura si deduce la violazione dell’art. 7
della l. 47/1985 in relazione all’art. 1 l. 28.01.1977 n.
10 e all’art. 7 d.l. 663 del 1981.
Secondo la prospettazione dell’appellante, la realizzazione
della tettoia e del box-container non necessitavano della
concessione edilizia, bensì della autorizzazione ex art. 10
della legge 47/1985.
7.1 - La censura è infondata.
In primo luogo, deve evidenziarsi l’inconferenza della
giurisprudenza citata nell’atto di appello riferibile alla
differente sanzione dell’acquisizione gratuita, trattandosi,
come già innanzi spiegato, di una sanzione differente ed
autonoma rispetto alla demolizione.
Da un altro punto di vista, l’appellante non introduce alcun
elemento concreto dal quale desumere che le opere in
questione –tettoia e box– non debbano essere soggette a
licenzia edilizia.
7.2 - In particolare, per quanto riguarda il box, valgono le
considerazioni già espresse dal TAR, che ha sottolineato
come la realizzazione di un box-container, stabilmente
appoggiato al terreno (nel verbale di accertamento si
specifica che il box poggia su pavimentazione di cemento),
pur nella precarietà dei materiali e nella funzione pertinenziale alla quale il soggetto che lo installa intende
impiegarlo in modo stabile nel tempo, costituisce permanente
alterazione del terreno ai fini urbanistico-edilizi e
richiede, pertanto, il rilascio del previo titolo edilizio (cfr.
Cons. Stato, sez V, 24.02.2003, n. 986).
7.3 - Vale un analogo discorso per la tettoia (“realizzata
con vecchi pali di cemento e copertura in eternit”), che
per dimensioni e caratteristiche non può certo considerarsi
indifferente rispetto all’assetto del territorio nel quale
si colloca.
La giurisprudenza ha già avuto modo di affermare che la
realizzazione di una tettoia necessita di permesso di
costruire quale “nuova costruzione”, comportando una
trasformazione del territorio e dell’assetto edilizio
anteriore; essa arreca, infatti, un proprio impatto
volumetrico e, se e in quanto priva di connotati di
precarietà, è destinata a soddisfare esigenze non già
temporanee e contingenti, ma durevoli nel tempo, con
conseguente incremento del godimento dell’immobile cui inerisce e del relativo carico urbanistico (cfr. Cons. St.,
sez. VI, n. 2715/2018 C.d.S. sez. IV 08.01.2018 n. 12 e
sez. VI 16.02.2017 n. 694).
7.4 - Infine, ad ulteriore conferma dell’infondatezza del
motivo di appello in esame, deve evidenziarsi la circostanza
che l’area sulla quale sono stati realizzate senza titolo le
opere in discorso è soggetta anche a vincolo ambientale, con
quanto ne consegue in termini di disciplina autorizzatoria e
di repressione degli abusi (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 24.12.2018 n. 7210 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La stazione appaltante conserva in ogni modo il
potere di disporre l’esclusione delle offerte tecniche che
di fatto non rispettano i requisiti minimi previsti dalla
legge di gara, in quanto tali offerte configurano la
presentazione di un prodotto che, ponendosi al di sotto
degli “standard” minimi
chiesti dall’amministrazione, realizza un vero e proprio
“aliud pro alio”.
La giurisprudenza appare infatti concorde nel ritenere che
la radicale mancanza di livelli essenziali dell’offerta
tecnica non permette la valutazione della stessa ed impone
l’esclusione del concorrente per la sostanziale inidoneità
dello stesso nei termini richiesti dalla stazione
appaltante.
Sul punto, fra le tante, si vedano:
● Consiglio di Stato, sez. III,
03.08.2018, n. 4809, per cui: «…le caratteristiche
tecniche previste nel capitolato di appalto valgono a
qualificare i beni oggetto di fornitura e concorrono,
dunque, a definire il contenuto della prestazione sulla
quale deve perfezionarsi l’accordo contrattuale, di talché
eventuali, apprezzabile difformità registrate nell’offerta
concretano una forma di 'aliud pro alio', comportante, di
per sé, l'esclusione dalla gara, anche in mancanza di
apposita comminatoria, e, nel contempo, non rimediabile
tramite regolarizzazione postuma, consentita soltanto quando
i vizi rilevati nell'offerta siano puramente formali o
chiaramente imputabili a errore materiale…»;
● oltre a TAR
Lazio, Roma. Sez. II, 21.02.2018, n. 2016; senza
contare che “le difformità dell’offerta tecnica che rivelano
l’inadeguatezza del progetto proposto dall’impresa offerente
rispetto ai requisiti minimi previsti dalla stazione
appaltante per il contratto da affidare legittimano
l’esclusione dalla gara e non già la mera penalizzazione
dell’offerta nell’attribuzione del punteggio, perché
determinano la mancanza di un elemento essenziale per la
formazione dell'accordo necessario per la stipula del
contratto”.
Le difformità dell’offerta tecnica, anche parziali, si
risolvono quindi in un aliud pro alio, che giustifica
l’esclusione dalla selezione.
Non è necessario neppure che la sanzione espulsiva sia
espressamente prevista dalla legge di gara giacché, “ai fini
dell’esclusione, non è necessaria un’espressa previsione in
tal senso, essendo sufficiente il riscontro della difformità
dell’offerta rispetto alle specifiche tecniche richieste
dalla lex specialis, che abbiano per l’Amministrazione un
valore essenziale”.
L’esclusione del concorrente risponde ai principi
fondamentali in materia di selezione del contraente e trova
altresì un fondamento nell’art. 94, comma 1, lett. a), del
codice dei contratti pubblici, articolo riguardante appunto
i principi generali in materia di selezione dei contraenti.
Le caratteristiche minime essenziali devono essere possedute
al momento di presentazione dell’offerta, non essendo
ammissibile che possa trovare accettazione da parte
dell’amministrazione un bene privo di tali caratteristiche,
con l’impegno dell’offerente ad apportare gli adeguamenti
necessari dopo l’eventuale aggiudicazione o prima
dell’esecuzione del contratto d’appalto.
Una simile soluzione si porrebbe in evidente contrasto con
la regola del rispetto della par condicio fra i
partecipanti, oltre a determinare anche un inevitabile
stravolgimento dell’offerta economica, posto che l’offerta
di un bene privo dei requisiti minimi potrebbe consentire un
prezzo apparentemente più vantaggioso, salvi i costi
successivi per l’adeguamento del bene agli standard minimi.
---------------
Orbene, il Collegio deve evidenziare che, ad onta delle
dichiarazioni rese dalle imprese partecipanti, la stazione
appaltante conserva in ogni modo il potere di disporre
l’esclusione delle offerte tecniche che di fatto non
rispettano i requisiti minimi previsti dalla legge di gara,
in quanto tali offerte configurano la presentazione di un
prodotto che, ponendosi al di sotto degli “standard” minimi
chiesti dall’amministrazione, realizza un vero e proprio
“aliud pro alio”.
La giurisprudenza appare infatti concorde nel ritenere che
la radicale mancanza di livelli essenziali dell’offerta
tecnica non permette la valutazione della stessa ed impone
l’esclusione del concorrente per la sostanziale inidoneità
dello stesso nei termini richiesti dalla stazione
appaltante.
Sul punto, fra le tante, si vedano Consiglio di Stato, sez.
III, 03.08.2018, n. 4809, per cui: «…le caratteristiche
tecniche previste nel capitolato di appalto valgono a
qualificare i beni oggetto di fornitura e concorrono,
dunque, a definire il contenuto della prestazione sulla
quale deve perfezionarsi l’accordo contrattuale, di talché
eventuali, apprezzabile difformità registrate nell’offerta
concretano una forma di 'aliud pro alio', comportante, di
per sé, l'esclusione dalla gara, anche in mancanza di
apposita comminatoria, e, nel contempo, non rimediabile
tramite regolarizzazione postuma, consentita soltanto quando
i vizi rilevati nell'offerta siano puramente formali o
chiaramente imputabili a errore materiale…»; oltre a TAR
Lazio, Roma. Sez. II, 21.02.2018, n. 2016; senza
contare che “le difformità dell’offerta tecnica che rivelano
l’inadeguatezza del progetto proposto dall’impresa offerente
rispetto ai requisiti minimi previsti dalla stazione
appaltante per il contratto da affidare legittimano
l’esclusione dalla gara e non già la mera penalizzazione
dell’offerta nell’attribuzione del punteggio, perché
determinano la mancanza di un elemento essenziale per la
formazione dell'accordo necessario per la stipula del
contratto” (così Consiglio di Stato, Sez. V, 05.05.2016,
n. 1809, oltre a Sez. III, 21.10.2015, n. 4804; 01.07.2015, n. 3275; Sez. V, 17.02.2016, n. 633 e 23.09.2015, n. 4460).
Le difformità dell’offerta tecnica, anche parziali, si
risolvono quindi in un aliud pro alio, che giustifica
l’esclusione dalla selezione (Consiglio di Stato, Sez. III,
26.01.2018, n. 565 e Sez. V, 05.05.2016, n. 1818).
Non è necessario neppure che la sanzione espulsiva sia
espressamente prevista dalla legge di gara giacché, “ai fini
dell’esclusione, non è necessaria un’espressa previsione in
tal senso, essendo sufficiente il riscontro della difformità
dell’offerta rispetto alle specifiche tecniche richieste
dalla lex specialis, che abbiano per l’Amministrazione un
valore essenziale” (così ancora Consiglio di Stato, Sez. III,
26.01.2018, n. 565 e TAR Umbria, 01.09.2017, n.
563).
L’esclusione del concorrente risponde ai principi
fondamentali in materia di selezione del contraente e trova
altresì un fondamento nell’art. 94, comma 1, lett. a), del
codice dei contratti pubblici, articolo riguardante appunto
i principi generali in materia di selezione dei contraenti
(sul punto si veda TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 02.02.2017, n. 145).
Le caratteristiche minime essenziali devono essere possedute
al momento di presentazione dell’offerta, non essendo
ammissibile che possa trovare accettazione da parte
dell’amministrazione un bene privo di tali caratteristiche,
con l’impegno dell’offerente ad apportare gli adeguamenti
necessari dopo l’eventuale aggiudicazione o prima
dell’esecuzione del contratto d’appalto.
Una simile soluzione si porrebbe in evidente contrasto con
la regola del rispetto della par condicio fra i
partecipanti, oltre a determinare anche un inevitabile
stravolgimento dell’offerta economica, posto che l’offerta
di un bene privo dei requisiti minimi potrebbe consentire un
prezzo apparentemente più vantaggioso, salvi i costi
successivi per l’adeguamento del bene agli standard minimi (TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza non definitiva 24.12.2018 n. 2845 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’impresa deve essere in regola con
l’assolvimento degli obblighi previdenziali ed assistenziali
fin dalla presentazione dell’offerta e conservare tale stato
per tutta la durata della procedura di aggiudicazione e del
rapporto con la stazione appaltante, restando dunque
irrilevante, un eventuale adempimento tardivo
dell’obbligazione contributiva.
L’istituto dell’invito alla regolarizzazione (il c.d.
preavviso di DURC negativo), già previsto dall’art. 7, comma
3, del decreto ministeriale 24.10.2007 e ora recepito a
livello legislativo dall’ art. 31, comma 8, del decreto
legge 21.06.2013 n. 69, può operare solo nei rapporti tra
impresa ed ente previdenziale, ossia con riferimento al DURC
chiesto dall’impresa e non anche al DURC richiesto dalla
stazione appaltante per la verifica della veridicità dell’autodichiarazione
resa ai sensi dell’art. 38, comma 1, lettera i), ai fini
della partecipazione alla gara d’appalto.
---------------
Ciò accertato, in punto di diritto si scontrano ricorrente e
controinteressata in particolare sul momento in cui la
positività del Durc rileva, sostenendo la prima che la
regolarità debba sussistere per tutta la durata della
procedura, opponendo la seconda la tesi secondo cui il
momento rilevante sia solo quello dell’aggiudicazione.
Osserva il Tribunale, come già fatto nel provvedimento
cautelare, che l’impresa debba essere in regola con
l’assolvimento degli obblighi previdenziali ed assistenziali
fin dalla presentazione dell’offerta e conservare tale stato
per tutta la durata della procedura di aggiudicazione e del
rapporto con la stazione appaltante, restando dunque
irrilevante, un eventuale adempimento tardivo
dell’obbligazione contributiva.
L’istituto dell’invito alla regolarizzazione (il c.d.
preavviso di DURC negativo), già previsto dall’art. 7, comma
3, del decreto ministeriale 24.10.2007 e ora recepito a
livello legislativo dall’ art. 31, comma 8, del decreto
legge 21.06.2013 n. 69, può operare solo nei rapporti tra
impresa ed ente previdenziale, ossia con riferimento al DURC
chiesto dall’impresa e non anche al DURC richiesto dalla
stazione appaltante per la verifica della veridicità dell’autodichiarazione
resa ai sensi dell’art. 38, comma 1, lettera i), ai fini
della partecipazione alla gara d’appalto (v. per tutte n.
5/2016 e n. 10/2016 dell’Adunanza plenaria (e confermati
dalla Corte di giustizia nella sentenza 10.11.2016,
C-199/15) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 21.12.2018 n. 2172 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Uso
privato dell’auto di servizio solo se autorizzato specificamente.
L'uso dell'auto di servizio a fini privati è in via generale vietato
presumendo la sua esclusiva destinazione a uso pubblico, a meno che non ci
siano provvedimenti che consentano deroghe «puntuali e documentate».
Provvedimenti la cui esistenza e i cui contenuti devono essere oggetto di
specifica prova se non si vuole incappare nel reato di peculato.
Con questo principio la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la
sentenza 19.12.2018 n. 57517 mette il punto sull'ennesimo caso
di utilizzo personale dell'auto di servizio.
La vicenda vede protagonista un dipendente della Asl di Napoli che, in
qualità di sindaco di un Comune, si faceva scarrozzare tra posto di lavoro e
municipio dall'autista con l'auto di rappresentanza.
La Cassazione ha respinto il suo ricorso contro la sentenza del tribunale di
Napoli prima e della Corte d'appello poi che lo avevano condannato per
peculato.
La non utilizzabilità dell'auto a fini privati è logica conseguenza della
sua destinazione a fini pubblici che deve ritenersi esclusiva in mancanza di
atti amministrativi che ne autorizzassero l'uso privato. Di fronte a questo
principio non hanno molto peso le testimonianze a favore rese dall'autista o
la mancanza di un danno patrimoniale apprezzabile.
A parte il fatto che –sottolineano i giudici- tragitti di pochi kilometri,
ma molto frequenti e reiterati, hanno avuto il loro peso sulle casse del
Comune non solo perché distoglievano l'autista dai propri compiti
istituzionali ma anche e soprattutto per l'usura causata al mezzo e la spesa
del carburante
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 20.12.2018).
---------------
MASSIMA
3. - Il ricorso è inammissibile.
3.1. - Il primo motivo di doglianza è formulato in modo non
specifico.
La difesa non contesta che i tragitti oggetto dell'imputazione di peculato
d'uso siano stati effettuati, ma si limita a criticare l'impianto probatorio
della sentenza, senza formulare alcun rilievo critico alla motivazione della
stessa; ed afferma che la prova dell'inutilizzabilità della macchina di
servizio per i tragitti effettuati dall'imputato sarebbe stata ricavata
dalla testimonianza dell'autista circa il contenuto di atti amministrativi
comunali di regolamentazione dell'uso dell'auto.
Si tratta di un'affermazione palesemente erronea, a fronte dell'oggettiva
mancanza, negli atti di causa, di provvedimenti amministrativi comunali che
autorizzassero l'uso dell'auto anche per ragioni private, la cui esistenza
non è stata prospettata neanche con il ricorso per cassazione.
Del tutto correttamente, dunque, i giudici di primo e secondo grado, con
conforme valutazione, hanno ritenuto che l'auto, i cui costi e le cui spese
erano interamente a carico della pubblica amministrazione, potesse essere
utilizzata solo per fini pubblici e non anche per fini privati. La
testimonianza dell'autista sul punto è, dunque, irrilevante nell'economia
motivazionale del provvedimento impugnato, perché la non utilizzabilità
dell'auto a fini privati è logica conseguenza della sua destinazione a fini
pubblici, che deve ritenersi esclusiva in mancanza di atti amministrativi
-per loro natura sottratti all'applicazione del principio iura novit
curia- che ne autorizzassero l'uso privato.
Deve dunque affermarsi che, ai fini della configurabilità
del reato di peculato, l'uso dell'auto di servizio a fini privati è in via
generale vietato, dovendosi presumere la sua esclusiva destinazione ad uso
pubblico, a meno che non vi siano provvedimenti che consentano puntuali e
documentate deroghe a tale uso pubblico; provvedimenti la cui esistenza e il
cui contenuto devono essere oggetto di specifica prova.
3.2. - Analoghe considerazioni valgono quanto alla apprezzabilità del danno,
oggetto del secondo motivo di doglianza.
Il ricorrente si limita e reiterare, sul punto, rilievi parziali, già
esaminati e motivatamente disattesi dei giudici di primo e secondo grado,
con conforme valutazione. Questi hanno correttamente evidenziato che le
condotte, anche se aventi ad oggetto tragitti di pochi kilometri, hanno
avuto una rilevantissima reiterazione, avendo cagionato al Comune un
apprezzabile danno, non solo in conseguenza del fatto che l'attività
dell'autista era distolta dai fini istituzionali, ma anche e soprattutto per
l'usura dell'auto e la spesa per il carburante.
Ne deriva l'inammissibilità anche di tale motivo di doglianza. |
APPALTI:
Diniego iscrizione Albo Gestori Ambientali di impresa
colpita da informativa antimafia.
---------------
Informativa antimafia - Provvedimenti di tipo
abilitativo-autorizzativo – Richiesta iscrizione Albo
Gestori Ambientali - Applicabilità.
E’ legittimo il diniego di
iscrizione all’Albo Gestori Ambientali dell’impresa
destinataria di interdittiva antimafia, e ciò in quanto tali
informative interdittive sono applicabili anche ai
provvedimenti di tipo abilitativo-autorizzativo, nei quali
rientra l’iscrizione all'Albo Nazionale Gestori Ambientali;
tale iscrizione abilita, infatti, l’operatore economico allo
svolgimento di attività individuate nel d.m. n. 120 del 2014
(1).
---------------
(1)
Ha ricordato la Sezione, richiamando un proprio recente
precedente (08.03.2018,
n. 1109) che la disciplina dettata dal d.lgs. n.
159 del 2011 (c.d. codice delle leggi antimafia) consente
l’applicazione delle informazioni antimafia anche ai
provvedimenti a contenuto autorizzatorio. La tendenza del
legislatore muove infatti, in questa materia, verso il
superamento della rigida bipartizione e della tradizionale
alternatività tra comunicazioni antimafia, applicabili alle
autorizzazioni, e informazioni antimafia, applicabili ad
appalti, concessioni, contributi ed elargizioni.
Il sistema così delineato, che risponde a valori
costituzionali ed europei di preminente interesse e di
irrinunciabile tutela, non attenua le garanzie che la
tradizionale ripartizione tra le comunicazioni e le
informazioni antimafia prima assicurava, consentendo alle
sole comunicazioni antimafia, emesse sulla base di un
provvedimento di prevenzione definitivo adottato dal
Tribunale con tutte le garanzie giurisdizionali, di
precludere l’ottenimento di licenze, autorizzazioni o di
qualsivoglia provvedimento, comunque denominato, per
l’esercizio di attività imprenditoriali (art. 67, comma 1,
lett. f), d.lgs. n. 159 del 2011).
L’ordinamento positivo in materia, dalla legge-delega al cd.
“Codice antimafia” sino alle più recenti integrazioni
di quest’ultimo, ha voluto apprestare, per l’individuazione
del pericolo di infiltrazione mafiosa nell’economia e nelle
imprese, strumenti sempre più idonei e capaci di consentire
valutazioni e accertamenti tanto variegati e adeguabili alle
circostanze, quanto variabili e diversamente atteggiati sono
i mezzi che le mafie usano per cercare di moltiplicare i
loro illeciti profitti.
Nella ponderazione degli interessi in gioco, tra cui certo
quello delle garanzie per l’interessato da una misura
interdittiva è ben presente, non può pensarsi che gli organi
dello Stato contrastino con “armi impari” la
pervasiva diffusione delle organizzazioni mafiose che hanno,
nei sistemi globalizzati, vaste reti di collegamento e
profitti criminali quale “ragione sociale” per
tendere al controllo di interi territori.
Le conclusioni alle quali è pervenuta la Sezione con la
sentenza n. 1109 del 2017 sono state confermate dal Giudice
delle leggi (sentenza 18.01.2018, n. 4) secondo cui “indipendentemente
da quale fosse l’ambito riservato dal legislatore
all’informazione e alla comunicazione antimafia
anteriormente al d.lgs. n. 159 del 2011, non sussisteva
alcun ostacolo logico o concettuale, che imponesse di
circoscrivere gli effetti dell’informazione antimafia alle
attività contrattuali della pubblica amministrazione. Nel
contesto normativo di cui al d.lgs. n. 159 cit. e sulla base
della legge delega n. 136 del 2010, nulla autorizza quindi a
pensare che il tentativo di infiltrazione mafiosa, acclarato
mediante l’informazione antimafia interdittiva, non debba
precludere anche le attività ulteriori rispetto ai rapporti
contrattuali con la Pubblica amministrazione” (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 19.12.2018 n. 7151 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Ai sensi dell’art. 30, co. 1, del d.P.R. n. 380/2001,
la lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio
consiste nella trasformazione urbanistica o edilizia degli
stessi attuata mediante l’avvio e l’esecuzione non
autorizzati di opere, in violazione degli strumenti
urbanistici vigenti o adottati, ovvero predisposta
attraverso il frazionamento e la vendita di un terreno in
lotti che, per le loro caratteristiche, denuncino in modo
non equivoco la destinazione a scopo edificatorio (la norma
elenca una serie di elementi rivelatori di tale
destinazione, sui quali si tornerà infra).
Può, dunque, trattarsi di un’attività materiale o anche
soltanto giuridica (lottizzazione “negoziale” o
“cartolare”), ma anche del concorso dell’una e dell’altra
(lottizzazione “mista”).
La giurisprudenza ha da tempo
individuato l’interesse tutelato dalla norma nella
salvaguardia dell’ordinato sviluppo del tessuto urbano e,
soprattutto, del potere di pianificazione attuativa e di
controllo dell’amministrazione, che risulterebbero
pregiudicati dalla realizzazione di insediamenti
potenzialmente privi dei servizi e delle opere di
urbanizzazione necessari; mentre il concetto di
“trasformazione” viene inteso in senso funzionale, dovendosi
perciò avere riguardo al complesso delle opere realizzate e
al correlativo aggravio del carico urbanistico, ancorché le
singole costruzioni -isolatamente considerate– risultino
eventualmente assistite da regolare titolo edilizio (per
questo può costituire lottizzazione abusiva materiale anche
il cambio di destinazione d’uso di un complesso immobiliare
formato da singoli elementi legittimamente edificati, se ne
deriva un carico urbanistico diverso da quello in origine
previsto.
-------------------
Se è vero che ciascun proprietario risponde relativamente
alle opere realizzate sul proprio fondo, la lottizzazione
abusiva costituisce, secondo la definizione che ne dà la
giurisprudenza penalistica, fattispecie a forma libera e
progressiva nell’evento, al cui perfezionamento ben possono
concorrere più soggetti e anche con condotte eterogenee,
purché tutte abbiano contribuito alla causazione
dell’illecito.
Ed è per tale ragione che, una volta riguardati nel contesto
del mutato assetto dell’area, gli interventi eseguiti dai
diversi proprietari sui singoli lotti non possono venire
trattati come abusi individuali a se stanti, ma esprimono la
volontà di partecipare alla complessiva trasformazione dei
luoghi.
---------------
3.1. I ricorsi sono infondati.
3.1.1. Ai sensi dell’art. 30, co. 1, del d.P.R. n. 380/2001,
la lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio
consiste nella trasformazione urbanistica o edilizia degli
stessi attuata mediante l’avvio e l’esecuzione non
autorizzati di opere, in violazione degli strumenti
urbanistici vigenti o adottati, ovvero predisposta
attraverso il frazionamento e la vendita di un terreno in
lotti che, per le loro caratteristiche, denuncino in modo
non equivoco la destinazione a scopo edificatorio (la norma
elenca una serie di elementi rivelatori di tale
destinazione, sui quali si tornerà infra).
Può, dunque, trattarsi di un’attività materiale o anche
soltanto giuridica (lottizzazione “negoziale” o
“cartolare”), ma anche del concorso dell’una e dell’altra
(lottizzazione “mista”).
La giurisprudenza ha da tempo
individuato l’interesse tutelato dalla norma nella
salvaguardia dell’ordinato sviluppo del tessuto urbano e,
soprattutto, del potere di pianificazione attuativa e di
controllo dell’amministrazione, che risulterebbero
pregiudicati dalla realizzazione di insediamenti
potenzialmente privi dei servizi e delle opere di
urbanizzazione necessari; mentre il concetto di
“trasformazione” viene inteso in senso funzionale, dovendosi
perciò avere riguardo al complesso delle opere realizzate e
al correlativo aggravio del carico urbanistico, ancorché le
singole costruzioni -isolatamente considerate– risultino
eventualmente assistite da regolare titolo edilizio (per
questo può costituire lottizzazione abusiva materiale anche
il cambio di destinazione d’uso di un complesso immobiliare
formato da singoli elementi legittimamente edificati, se ne
deriva un carico urbanistico diverso da quello in origine
previsto: fra le moltissime, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 28.07.2017, n. 3788, e i precedenti ivi citati; id., sez.
IV, 30.08.2016, n. 3721; id., sez. IV, 19.06.2014,
n. 3115).
...
D’altro canto,
se è vero che ciascun proprietario risponde relativamente
alle opere realizzate sul proprio fondo, la lottizzazione
abusiva costituisce, secondo la definizione che ne dà la
giurisprudenza penalistica, fattispecie a forma libera e
progressiva nell’evento, al cui perfezionamento ben possono
concorrere più soggetti e anche con condotte eterogenee,
purché tutte abbiano contribuito alla causazione
dell’illecito (per tutte, cfr. Cass. pen., sez. III, 20.02.2018, n. 14053; id., 16.07.2013, n. 37383).
Ed è
per tale ragione che, una volta riguardati nel contesto del
mutato assetto dell’area, gli interventi eseguiti dai
diversi proprietari sui singoli lotti non possono venire
trattati come abusi individuali a se stanti, ma esprimono la
volontà di partecipare alla complessiva trasformazione dei
luoghi (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 03.04.2018, n. 2082,
richiamata anche dalla difesa comunale) (TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza 19.12.2018 n. 1643 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il contratto di compravendita con cui viene trasferito
il diritto di proprietà di un immobile sul quale il
venditore abbia esercitato il possesso per un tempo
sufficiente al compimento dell'usucapione non è nullo
ancorché l'acquisto della proprietà da parte sua non sia
stato giudizialmente accertato in contraddittorio con il
precedente proprietario, ciò in quanto l'acquisto per
usucapione avviene ipso iure per il semplice fatto del
possesso protratto per venti anni e la sentenza con cui
viene pronunciato l'acquisto per usucapione del diritto di
servitù ha natura meramente dichiarativa e non costitutiva
del diritto stesso.
---------------
Il fatto che
il comune abbia successivamente ritenuto di contestare il
perfezionamento dei presupposti per l’acquisito a titolo
originario in capo al dante causa del ricorrente -e la conseguente carenza della posizione
legittimante richiesta dall’art. 11 DPR 380/2001-, assumendo
la proprietà esclusiva del bene immobile in capo alla stessa
amministrazione comunale, non giustifica, sul piano
pubblicistico e dei relativi poteri istruttori di controllo,
l’annullamento del titolo edilizio (peraltro a distanza di
oltre quattro anni dal suo rilascio ed a lavori già
ultimati), ma vale a radicare una pretesa petitoria, che può
essere fatta valere dinanzi al Giudice ordinario.
---------------
6. Il ricorso è fondato e merita di essere accolto.
6.1. La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha chiarito
che “il contratto di compravendita con cui viene trasferito
il diritto di proprietà di un immobile sul quale il
venditore abbia esercitato il possesso per un tempo
sufficiente al compimento dell'usucapione non è nullo
ancorché l'acquisto della proprietà da parte sua non sia
stato giudizialmente accertato in contraddittorio con il
precedente proprietario (Cass., Sez. 2, n. 2485 del
05/02/2007), ciò in quanto l'acquisto per usucapione avviene
ipso iure per il semplice fatto del possesso protratto per
venti anni e la sentenza con cui viene pronunciato
l'acquisto per usucapione del diritto di servitù ha natura
meramente dichiarativa e non costitutiva del diritto stesso
(Cass., Sez. 2, n. 2717 del 29/04/1982; Sez. 3, n. 8650 del
21/10/1994)” (Cass. Civ., Sez. II, 29.03.2018 n. 7853).
Ciò significa che il ricorrente poteva validamente far
riferimento all’atto pubblico di donazione del 27.07.2012,
recante il trasferimento in suo favore della proprietà del
fabbricato e dell’annessa corte, nel presupposto, ivi
espressamente dichiarato, che la proprietà della detta corte
fosse stata acquisita dal suo dante causa in forza di
usucapione, anche se non accertata giudizialmente.
6.2. Il fatto che il comune di Crotone abbia successivamente
ritenuto di contestare il perfezionamento dei presupposti
per l’acquisito a titolo originario in capo al dante causa
del ricorrente -e la conseguente carenza della posizione
legittimante richiesta dall’art. 11 DPR 380/2001-,
assumendo la proprietà esclusiva del bene immobile in capo
alla stessa amministrazione comunale, non giustifica, sul
piano pubblicistico e dei relativi poteri istruttori di
controllo, l’annullamento del titolo edilizio (peraltro a
distanza di oltre quattro anni dal suo rilascio ed a lavori
già ultimati), ma vale a radicare una pretesa petitoria, che
può essere fatta valere dinanzi al Giudice ordinario: “4.3.
- Veniamo ora al punto centrale della questione sottoposta
all’attenzione del Collegio: la possibilità per
l’amministrazione comunale di sindacare la “validità” del
titolo di proprietà esibito per verificare la legittimazione
soggettiva del richiedente il permesso di costruire, ai
sensi e per gli effetti dell’art. 11 del D.P.R. n. 380/2001. Si
rammenta infatti che il diniego censurato è incentrato sulla
presunta inidoneità del titolo stesso al trasferimento della
proprietà del fondo in parola, sul presupposto che il dante
causa dell’odierno ricorrente ne abbia acquisito la
titolarità in virtù di usucapione non accertata giudizialmente.
4.3.1. - La problematica non può che essere
affrontata prendendo le mosse dall’art. 11 appena richiamato.
La norma consente -testualmente- il rilascio del p.d.c. “al
proprietario dell’immobile o a chi abbia titolo per
richiederlo” (cfr. 1° comma), con la precisazione che “esso
non incide sulla titolarità della proprietà o di altri
diritti reali relativi agli immobili realizzati per effetto
del suo rilascio” (cfr. comma 2°) e che “non comporta
limitazioni dei diritti dei terzi” (cfr. comma 3°).
Evidente, pertanto, sia l’attenzione del legislatore alle
possibili interferenze tra titolo edilizio autorizzatorio e
diritti di stampo privatistico sui beni oggetto della
richiesta di titolo autorizzatorio stesso, sia l’opzione per
una soluzione che non aggravi oltremodo i compiti istruttori
rimessi all’amministrazione, giacché la previsione dei
possibili conflitti viene risolta con l’affermazione di una
generica prevalenza dei diritti dei terzi, da far valere
–evidentemente- nelle sedi giurisdizionali competenti …
4.3.2. - Nella fattispecie, l’odierno ricorrente ha esibito
regolare titolo di proprietà. Ogni ulteriore questione o
indagine in merito al titolo stesso appare pertanto ultronea
e ingiustificata, spettando al giudice ordinario
eventualmente adito dagli interessati delibare in merito
alla diversa questione della “validità” del titolo stesso;
salvo a determinare un’illegittima interferenza di
competenze tra potere giudiziario ed esecutivo secondo le
condivisibili contestazioni mosse dal ricorrente” (TAR Bari, Sez. III, 21.05.2008 n. 1205) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez.
II,
sentenza 18.12.2018 n. 2153 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il potere di
intervento dell'Amministrazione sussiste anche dopo la
scadenza del termine perentorio per la verifica della
legittimità della SCIA, ma trova una diversa base giuridica,
potendo essere esercitato solo in presenza dei presupposti
individuati dall'art. 21-nonies, l. n. 241/1990 per
l'annullamento d'ufficio degli atti amministrativi
illegittimi … con esternazione delle prevalenti ragioni di
interesse pubblico concrete e attuali, diverse da quelle al
mero ripristino della legalità violata, che depongono per la
loro adozione, tenendo in considerazione gli interessi dei
destinatari e degli eventuali controinteressati.
---------------
5.2. Per quanto riguarda poi la rilevanza delle
carenze in questione ai fini dell’esercizio del potere di
annullamento della SCIA edilizia e della conseguente
declaratoria di irricevibilità della segnalazione
certificata di agibilità, si osserva che, fermo l’obbligo
della ricorrente di conformare l’area a parcheggio agli
standard di legge, l’amministrazione comunale non ha operato
la necessaria comparazione tra il pubblico interesse al
ripristino della legalità ed il sacrificio imposto al
privato, specie a fronte dei gravi effetti indiretti
sull’esercizio dell’attività commerciale: “Il potere di
intervento dell'Amministrazione sussiste anche dopo la
scadenza del termine perentorio per la verifica della
legittimità della SCIA, ma trova una diversa base giuridica,
potendo essere esercitato solo in presenza dei presupposti
individuati dall'art. 21-nonies, l. n. 241/1990 per
l'annullamento d'ufficio degli atti amministrativi
illegittimi … con esternazione delle prevalenti ragioni di
interesse pubblico concrete e attuali, diverse da quelle al
mero ripristino della legalità violata, che depongono per la
loro adozione, tenendo in considerazione gli interessi dei
destinatari e degli eventuali controinteressati” (TAR
Napoli, Sez. VII, 23.04.2018 n. 2664) (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 18.12.2018 n. 2141 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sull'illegittimità dell'ordinanza sindacale contingibile ed
urgente per
l’abbattimento dei colombi stanziati sul proprio territorio.
Considerato che:
- il provvedimento in contestazione appare carente sotto
l’aspetto istruttorio, non essendo stata effettuata alcuna
effettiva ponderazione in ordine quantitativo di colombi che
si renda necessario abbattere al fine di realizzare un
corretto contenimento del numero di animali di tale specie;
- sotto altro profilo, detto provvedimento appare carente
sotto l’aspetto motivazionale, non avendo messo in evidenza
alcun elemento fattuale concreto, comprovante il fatto che
la presenza di colombi nel territorio comunale possa
determinare situazioni di potenziale pericolo al traffico
veicolare, ovvero all’incolumità di cose o persone;
- da ultimo, il provvedimento in questione appare adottato
in violazione dell’art. 50, comma 5, del d.lgs. n. 267/2000,
non risultando accertata la sopravvenienza di alcuna
situazione eccezionale e/o imprevedibile che possa
giustificare l’intervento contingente ed urgente del sindaco
a tutela della salute pubblica.
Non pare sussista dubbio alcuno in ordine al fatto che il
provvedimento impugnato sia non solo inficiato dal
denunciato difetto di motivazione e di istruttoria, ma
vieppiù carente dei presupposti richiesti dall’art. 54,
comma 4, del D.Lgs. n. 267/2000 per l’adozione da parte del
Sindaco di provvedimenti contingibili ed urgenti.
Invero, si
ricorda, sinteticamente, che le ordinanze contingibili ed
urgenti sono provvedimenti assunti, sulla base di una norma
di legge, per fare fronte a situazioni di urgente necessità,
concreta ed attuale, che non potrebbero essere affrontate e
risolte in maniera efficace con gli ordinari strumenti a
disposizione della stessa Amministrazione; tali
provvedimenti costituiscono strumenti atipici per quanto
attiene al contenuto, fissando la legge unicamente i
presupposti per l’esercizio del potere di ordinanza, ma non
il contenuto della stessa, atteso che l’atipicità è
conseguenza della funzione dell’istituto, considerato che le
situazioni di urgenza concretamente verificabili non sono
prevedibili a priori e, quindi, non è possibile prevedere il
contenuto che l’ordinanza dovrà avere per fronteggiare la
situazione di urgenza.
A fronte degli esposti elementi caratterizzanti l’istituto
in esame, in relazione alla segnalata presenza di colombi,
il provvedimento impugnato:
- non motiva in ordine ai
presupposti, che devono essere attuali e concreti e non
meramente potenziali o eventuali, di necessità ed urgenza,
indispensabili, come detto, per l’adozione dell’atto extra ordinem in questione;
- non specifica le ragioni in base alle
quali la paventata situazione di pericolo non potrebbe
essere affrontata e risolta in maniera efficace con gli
ordinari strumenti previsti dall’Ordinamento, peraltro
esistenti nel caso in discussione, come dimostra la legge n.
157/1992;
- non rappresenta gli elementi costituenti pericolo
per “l’incolumità pubblica” e per “la sicurezza urbana” ex
art. 54, comma 4, del D.Lgs. n. 267/2000.
---------------
Con il presente ricorso, l’associazione Earth Onlus, ente
avente come fine statutario la tutela del patrimonio
faunistico ambientale, ha adito l’intestato Tribunale per
chiedere l’annullamento dell’ordinanza, meglio in epigrafe
specificata, con la quale il Comune di Castelnuovo del Garda
ha disposto l’abbattimento dei colombi stanziati sul proprio
territorio, deducendo avverso detto provvedimento la
violazione degli artt. 50 e 54 del d.lgs. n. 267/2000,
nonché eccesso di potere per motivazione contraddittoria,
carente e difetto di istruttoria;
Considerato, a tale riguardo, che:
- il provvedimento in contestazione appare carente sotto
l’aspetto istruttorio, non essendo stata effettuata alcuna
effettiva ponderazione in ordine quantitativo di colombi che
si renda necessario abbattere al fine di realizzare un
corretto contenimento del numero di animali di tale specie;
- sotto altro profilo, detto provvedimento appare carente
sotto l’aspetto motivazionale, non avendo messo in evidenza
alcun elemento fattuale concreto, comprovante il fatto che
la presenza di colombi nel territorio comunale possa
determinare situazioni di potenziale pericolo al traffico
veicolare, ovvero all’incolumità di cose o persone;
- da ultimo, il provvedimento in questione appare adottato
in violazione dell’art. 50, comma 5, del d.lgs. n. 267/2000,
non risultando accertata la sopravvenienza di alcuna
situazione eccezionale e/o imprevedibile che possa
giustificare l’intervento contingente ed urgente del sindaco
a tutela della salute pubblica.
Non pare sussista dubbio alcuno in ordine al fatto che il
provvedimento impugnato sia non solo inficiato dal
denunciato difetto di motivazione e di istruttoria, ma
vieppiù carente dei presupposti richiesti dall’art. 54,
comma 4, del D.Lgs. n. 267/2000 per l’adozione da parte del
Sindaco di provvedimenti contingibili ed urgenti.
Invero, si
ricorda, sinteticamente, che le ordinanze contingibili ed
urgenti sono provvedimenti assunti, sulla base di una norma
di legge, per fare fronte a situazioni di urgente necessità,
concreta ed attuale, che non potrebbero essere affrontate e
risolte in maniera efficace con gli ordinari strumenti a
disposizione della stessa Amministrazione; tali
provvedimenti costituiscono strumenti atipici per quanto
attiene al contenuto, fissando la legge unicamente i
presupposti per l’esercizio del potere di ordinanza, ma non
il contenuto della stessa, atteso che l’atipicità è
conseguenza della funzione dell’istituto, considerato che le
situazioni di urgenza concretamente verificabili non sono
prevedibili a priori e, quindi, non è possibile prevedere il
contenuto che l’ordinanza dovrà avere per fronteggiare la
situazione di urgenza.
A fronte degli esposti elementi caratterizzanti l’istituto
in esame, in relazione alla segnalata presenza di colombi,
il provvedimento impugnato:
- non motiva in ordine ai
presupposti, che devono essere attuali e concreti e non
meramente potenziali o eventuali, di necessità ed urgenza,
indispensabili, come detto, per l’adozione dell’atto extra ordinem in questione;
- non specifica le ragioni in base alle
quali la paventata situazione di pericolo non potrebbe
essere affrontata e risolta in maniera efficace con gli
ordinari strumenti previsti dall’Ordinamento, peraltro
esistenti nel caso in discussione, come dimostra la legge n.
157/1992;
- non rappresenta gli elementi costituenti pericolo
per “l’incolumità pubblica” e per “la sicurezza urbana” ex
art. 54, comma 4, del D.Lgs. n. 267/2000.
Né esso potrebbe mai essere interpretato, in senso
adeguativo, come espressione del potere di programmare piani
di abbattimento ai sensi della legge 157/1992, in astratto esercitabile essendo oramai pacificamente qualificato il
piccione torraiolo quale specie appartenente alla fauna
selvatica ex lege 157/1992 (cfr. giurisprudenza costante), ma
che risulterebbe in concreto esercitato in mancanza delle
relative condizioni di legittimità (id est: previo parere
dell’Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica, previsione
di metodi ecologici alternativi da esperire preventivamente
all’abbattimento, specifica del numero di capi in eccesso e
dei soggetti abilitati ex art. 19 delle legge 157/1992), come
puntualmente dedotto dalla ricorrente.
Conclusivamente, il ricorso deve essere accolto (TAR Veneto,
Sez. II,
sentenza 18.12.2018 n. 1182 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Presupposti dell’ordinanza sindacale contingibile e urgente.
La chiusura di una scalinata che collega due vie, con
impedimento del pubblico transito, non configura una
situazione di pericolo, di grave incuria o di degrado del
territorio, tale da giustificare l’adozione di un
provvedimento contingibile e urgente ex art. 50, comma 5,
del decreto legislativo 267 del 2000.
Per
costante giurisprudenza l'adozione di
un'ordinanza sindacale contingibile e urgente presuppone
necessariamente situazioni, non tipizzate dalla legge, di
pericolo effettivo, la cui sussistenza deve essere
suffragata da un'istruttoria adeguata e da una congrua
motivazione, in ragione delle quali si giustifica la
deviazione dal principio di tipicità degli atti
amministrativi e la possibilità di derogare alla disciplina
vigente, stante la configurazione residuale, quasi di
chiusura, di tale tipologia provvedimentale, nella quale la
contingibilità deve essere intesa come impossibilità di
fronteggiare l'emergenza con i rimedi ordinari, in ragione
dell'accidentalità, imprescindibilità ed eccezionalità della
situazione verificatasi e l'urgenza come assoluta necessità
di porre in essere un intervento non rinviabile.
---------------
- Premesso che i ricorrenti chiedono l’annullamento dell’ordinanza del
sindaco numero 46 del 17.08.2018, notificata il 20.08.2018 e chiedono, contestualmente, il risarcimento del
danno;
-
Che, con il provvedimento impugnato, il sindaco,
considerando la necessità e l’urgenza di provvedere a
tutelare l’ordine e la sicurezza pubblica, ha ordinato ai
ricorrenti di rimuovere immediatamente gli ostacoli
all’accesso della scalinata di collegamento tra via Castello
e via Peroncello, riscontrandone la chiusura al pubblico
transito a mezzo di un portone in legno e di un cancello in
metallo;
-
Ritenuta, preliminarmente, inammissibile la domanda
risarcitoria, in quanto genericamente formulata;
-
Ritenuto, ancora in via preliminare, di dover respingere
l’eccezione di inammissibilità del ricorso per omessa
notifica della domanda risarcitoria al Ministero
dell’interno; l’inammissibilità della domanda risarcitoria,
autonoma ancorché connessa alla domanda di annullamento, non
determina automaticamente l’inammissibilità anche
dell’impugnazione;
-
Considerato che, con il 1° motivo di ricorso, la parte
ricorrente deduce violazione dell’articolo 50, commi 4 e 5,
del decreto legislativo 267 del 2000 ed eccesso di potere
per difetto dei presupposti, contraddittorietà e illogicità
manifesta;
-
Ritenuto fondato e assorbente il 1º motivo di impugnazione,
atteso che, per costante giurisprudenza (cfr. TAR Napoli,
sez. VII, 22.02.2017, n. 1065) l'adozione di
un'ordinanza sindacale contingibile e urgente presuppone
necessariamente situazioni, non tipizzate dalla legge, di
pericolo effettivo, la cui sussistenza deve essere
suffragata da un'istruttoria adeguata e da una congrua
motivazione, in ragione delle quali si giustifica la
deviazione dal principio di tipicità degli atti
amministrativi e la possibilità di derogare alla disciplina
vigente, stante la configurazione residuale, quasi di
chiusura, di tale tipologia provvedimentale, nella quale la
contingibilità deve essere intesa come impossibilità di
fronteggiare l'emergenza con i rimedi ordinari, in ragione
dell'accidentalità, imprescindibilità ed eccezionalità della
situazione verificatasi e l'urgenza come assoluta necessità
di porre in essere un intervento non rinviabile (cfr. anche
TAR Lazio, Roma, sez. II, 27.05.2016 n. 6201; Cons. St.,
sez. III, 29.05.2015, n. 2697);
-
Nella fattispecie il provvedimento impugnato richiama quale
base normativa principalmente l’articolo 50, comma 5, del
decreto legislativo 267 del 2000 che attribuisce al sindaco
il potere di adottare ordinanze contingibili e urgenti in
caso di emergenza sanitaria o di igiene pubblica o anche per
l’urgente necessità di interventi volti a superare
situazioni di grave incuria o degrado del territorio,
dell’ambiente, del patrimonio culturale o di pregiudizio del
decoro e della vivibilità urbana, con particolare
riferimento alle esigenze di tutela della tranquillità e del
riposo dei residenti;
-
Ritenuto che la chiusura di una scalinata con impedimento
del pubblico transito non configura una situazione di
pericolo, di grave incuria o di degrado del territorio, tale
da giustificare l’adozione di un provvedimento contingibile
e urgente;
-
Ne consegue il difetto dei presupposti per l’adozione del
provvedimento atipico, avendo apprestato l’ordinamento altri
strumenti per intervenire correttamente, nel rispetto delle
regole sul procedimento amministrativo e, più in generale,
del principio di legalità, a tutela degli interessi pubblici
coinvolti, mediante il confronto delle ragioni pubbliche con
gli interessi privati attinti dall’azione amministrativa;
-
Ritenuto, pertanto, di dover accogliere l’impugnazione
proposta con il ricorso, in quanto manifestamente fondata e,
per l’effetto, di dover annullare il provvedimento impugnato (TAR
Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 17.12.2018 n. 12276 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
A mente dell'art. 9 del d.p.r. n. 380/2001,
costituisce regola generale ed imperativa, in materia di
governo del territorio, il rispetto delle previsioni del p.r.g.
che impongono, per una determinata zona, la pianificazione
di dettaglio e che sono vincolanti e idonee ad inibire
l'intervento diretto costruttivo.
Corollari immediati di tale principio fondamentale sono:
a) che, quando lo strumento urbanistico generale prevede che la sua
attuazione debba aver luogo mediante un piano di livello
inferiore, il rilascio del titolo edilizio può essere
legittimamente disposto solo dopo che lo strumento esecutivo
sia divenuto perfetto ed efficace, vale a dire solo dopo che
il relativo procedimento sia concluso;
b) che, in presenza di una
normativa urbanistica generale che preveda per il rilascio
del titolo edilizio in una determinata zona l'esistenza di
un piano attuativo, non è consentito superare tale
prescrizione facendo leva sulla situazione di sufficiente
urbanizzazione della zona stessa;
c) l'insurrogabilità
dell'assenza del piano attuativo con l'imposizione di opere
di urbanizzazione all'atto del rilascio del titolo edilizio.
La mera esistenza di infrastrutture (strade, spazi di sosta,
fognature, reti di distribuzione del gas, dell'acqua e
dell'energia elettrica, scuole, ecc.) all’interno, e,
viepiù, all’esterno, del comparto interessato dall’attività
edificatoria che si vorrebbe porre in essere senza previa
approvazione dello strumento attuativo non implica, dunque,
di per sé, anche quell’adeguatezza e quella proporzionalità
delle opere in parola rispetto all’aggregato urbano
formatosi, la quale soltanto sarebbe idonea a soddisfare le
esigenze della collettività, pari agli standards urbanistici
minimi prescritti, ed esimerebbe, quindi, da ulteriori
interventi per far fronte all'ulteriore aggravio derivante
da nuove costruzioni.
Ed invero, i piani particolareggiati e i piani di
lottizzazione hanno lo scopo di garantire che
all'edificazione del territorio a fini residenziali
corrisponda l'approvvigionamento delle dotazioni minime di
infrastrutture pubbliche, le quali, a loro volta,
garantiscono la normale qualità del vivere in un aggregato
urbano. Diversamente opinando, col rilascio di singoli
permessi di costruire in area non urbanizzata, gli
interessati verrebbero legittimati ad utilizzare l’intera
proprietà a fini privati, scaricando interamente sulla
collettività i costi conseguenti alla realizzazione di
infrastrutture per i nuovi insediamenti.
---------------
Alla luce di tanto, è evidente che, ove si tratti di
asservire per la prima volta ad insediamenti edilizi aree
non ancora urbanizzate –che obiettivamente richiedano, per
il loro armonico raccordo col preesistente aggregato
abitativo, la realizzazione o il potenziamento delle opere
di urbanizzazione primaria e secondaria volte a soddisfare
le esigenze della collettività– si rende necessario un piano
esecutivo, quale presupposto per il rilascio del permesso di
costruire.
In tale fattispecie, nella quale l’originaria integrità del
territorio non è sostanzialmente vulnerata, deve essere
rigorosamente rispettata la cadenza, in ordine successivo,
dell'approvazione dello strumento urbanistico generale e
dello strumento urbanistico attuativo, in modo da garantire
una pianificazione razionale e ordinata del futuro sviluppo
del territorio dal punto di vista urbanistico.
Il piano esecutivo, previsto dallo strumento urbanistico
generale come presupposto dell'edificazione, non ammette,
cioè, equipollenti, nel senso che, in sede amministrativa o
giurisdizionale, non possono essere effettuate indagini
volte a verificare se sia tecnicamente possibile realizzare
costruzioni, che, ad avviso del legislatore, incidono
negativamente sul razionale assetto del territorio,
vanificando la funzione del piano attuativo, la cui
approvazione può essere stimolata dall'interessato con i
mezzi apprestati dal sistema.
L’indefettibilità dello strumento urbanistico attuativo
neppure viene meno nelle ipotesi di zone edificate, esposte
al rischio di compromissione di valori urbanistici, nelle
quali la pianificazione può ancora conseguire l'effetto di
correggere e compensare il disordine edificativo in atto; zone nelle quali
si prospetti, quindi, l'esigenza di raccordare armonicamente
le nuove costruzioni col preesistente aggregato urbano e di
potenziare le opere di urbanizzazione esistenti, tanto più
quando il nuovo intervento edilizio, per le sue dimensioni,
abbia un consistente impatto sull'assetto territoriale; e
nelle quali la preventiva redazione di un piano esecutivo
per il rilascio del titolo abilitativo edilizio si ponga, in
definitiva, come imprescindibile.
Ed invero, non è sufficiente un qualsiasi stadio di
urbanizzazione di fatto per eludere il principio
fondamentale della pianificazione e per eventualmente
aumentare i guasti urbanistici già verificatisi, essendo la
pianificazione dell'urbanizzazione doverosa fino a quando
essa conservi una qualche utile funzione anche in aree già
compromesse o edificate..
---------------
Peraltro, quando si sia in presenza di un lotto intercluso o
in altri casi analoghi in cui la zona risulti totalmente
urbanizzata attraverso la realizzazione delle opere e dei
servizi atti a soddisfare i necessari bisogni della
collettività, quali strade, spazi di sosta, fognature, reti
di distribuzione dell’acqua, dell’energia elettrica e del
gas, scuole, ecc., lo strumento urbanistico attuativo deve
ritenersi superfluo e non più esigibile da parte
dell’amministrazione comunale tenuta al rilascio del titolo
edilizio.
Tuttavia, tale ultimo principio non assume valenza assoluta
e deve essere contemperato con l’altro consolidato principio
testé ricordato, secondo il quale l’esigenza di un piano
particolareggiato o di un piano di lottizzazione, quale
presupposto per il rilascio del permesso di costruire, si
impone anche per garantire un armonico raccordo con il
preesistente aggregato abitativo allo scopo di potenziare le
opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, pure al più
limitato fine di armonizzare aree già compromesse ed
urbanizzate per le quali la relativa strumentazione
urbanistica postuli la necessità di una pianificazione di
dettaglio, anche laddove ricorra l’ipotesi di lotto
intercluso o di altre situazioni analoghe di pregressa
completa urbanizzazione: quindi, il principio secondo cui
può prescindersi nelle zone di espansione dalla previa
presentazione di un piano particolareggiato o di
lottizzazione qualora la zona sia completamente urbanizzata,
recede nel caso in cui sussista una specifica previsione
della strumentazione urbanistica che imponga l’assolvimento
di tale onere prima di avviare l’attività edilizia.
---------------
Parimenti infondato è, poi, il secondo motivo di
ricorso, con il quale si sostiene che, essendo la zona
interessata dall’intervento ormai sufficientemente
urbanizzata, il Comune di San Cipriano d’Aversa avrebbe
errato nel ritenere necessaria la previa adozione di un
Piano Attuativo per potersi rilasciare il chiesto titolo
edilizio in sanatoria.
In proposito, giova rammentare che è incontestato che il
manufatto oggetto di istanza di sanatoria (costituito da un
“fabbricato per attività commerciale ed area di stoccaggio
con capannone annesso”) ricade nella “Zona Omogenea C –
espansione residenziale privata” del PRG; che, ai sensi
dell’art. 22 delle N.T.A. in essa “........ II P.R.G. si
attua mediante intervento urbanistico preventivo di
iniziativa privata. In caso di inerzia di parte o di tutti i
privati interessati, l'Amministrazione Comunale ha facoltà
di ricorrere alle procedure per la formazione di
lottizzazioni d'ufficio. Il rilascio delle concessioni
edilizie (ora permessi di costruire) e l'edificazione dei
singoli lotti sono subordinati all'approvazione preventiva
dei piani di lottizzazione, estesi ad una superficie di
almeno 1,00 Ha, o ad un intero ambito delimitato dai confini
di zona e/o dalla viabilità pubblica esistente o di
progetto, nel caso questa risulti di dimensioni inferiori a
quella sopra indicata, nonché alla stipula della relativa
convenzione. ......”; e che la mancanza nell’area di
intervento di un tale strumento urbanistico attuativo è un
dato fattuale anch’esso incontestato.
Occorre premettere che, a mente dell'art. 9 del d.p.r. n.
380/2001, costituisce regola generale ed imperativa, in
materia di governo del territorio, il rispetto delle
previsioni del p.r.g. che impongono, per una determinata
zona, la pianificazione di dettaglio e che sono vincolanti e
idonee ad inibire l'intervento diretto costruttivo (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 30.12.2008, n. 6625).
Corollari immediati di tale principio fondamentale sono:
a)
che, quando lo strumento urbanistico generale prevede che la
sua attuazione debba aver luogo mediante un piano di livello
inferiore, il rilascio del titolo edilizio può essere
legittimamente disposto solo dopo che lo strumento esecutivo
sia divenuto perfetto ed efficace, vale a dire solo dopo che
il relativo procedimento sia concluso (cfr. Cons. Stato sez.
V, 01.04.1997, n. 300);
b) che, in presenza di una
normativa urbanistica generale che preveda per il rilascio
del titolo edilizio in una determinata zona l'esistenza di
un piano attuativo, non è consentito superare tale
prescrizione facendo leva sulla situazione di sufficiente
urbanizzazione della zona stessa (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
03.11.2008, n. 5471; TAR Campania-Napoli n. 1662 del
05.04.2016; TAR Campania-Napoli n. 3538 del 03.07.2017);
c) l'insurrogabilità
dell'assenza del piano attuativo con l'imposizione di opere
di urbanizzazione all'atto del rilascio del titolo edilizio
(Cons. Stato, sez. IV, 10.06.2010, n. 3699).
La mera esistenza di infrastrutture (strade, spazi di sosta,
fognature, reti di distribuzione del gas, dell'acqua e
dell'energia elettrica, scuole, ecc.) all’interno, e,
viepiù, all’esterno, del comparto interessato dall’attività
edificatoria che si vorrebbe porre in essere senza previa
approvazione dello strumento attuativo non implica, dunque,
di per sé, anche quell’adeguatezza e quella proporzionalità
delle opere in parola rispetto all’aggregato urbano
formatosi, la quale soltanto sarebbe idonea a soddisfare le
esigenze della collettività, pari agli standards urbanistici
minimi prescritti, ed esimerebbe, quindi, da ulteriori
interventi per far fronte all'ulteriore aggravio derivante
da nuove costruzioni. Ed invero, i piani particolareggiati e
i piani di lottizzazione hanno lo scopo di garantire che
all'edificazione del territorio a fini residenziali
corrisponda l'approvvigionamento delle dotazioni minime di
infrastrutture pubbliche, le quali, a loro volta,
garantiscono la normale qualità del vivere in un aggregato
urbano. Diversamente opinando, col rilascio di singoli
permessi di costruire in area non urbanizzata, gli
interessati verrebbero legittimati ad utilizzare l’intera
proprietà a fini privati, scaricando interamente sulla
collettività i costi conseguenti alla realizzazione di
infrastrutture per i nuovi insediamenti (Cons. Stato, sez.
V, 03.03.2004, n. 1013).
Alla luce di tanto, è evidente che, ove si tratti di
asservire per la prima volta ad insediamenti edilizi aree
non ancora urbanizzate –che obiettivamente richiedano, per
il loro armonico raccordo col preesistente aggregato
abitativo, la realizzazione o il potenziamento delle opere
di urbanizzazione primaria e secondaria volte a soddisfare
le esigenze della collettività– si rende necessario un
piano esecutivo, quale presupposto per il rilascio del
permesso di costruire (cfr., Cons. Stato, sez. IV, 22.05.2006, n. 3001;
04.12.2007, n. 6171; TAR Campania, sez. IV, 02.03.2000, n. 596;
08.05.2003, n. 5330; TAR Lazio,
Latina, 27.10.2006, n. 1375; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 02.02.2005, n. 4403 aprile 2007, n. 1501; 15.03.2007, n. 1037).
In tale fattispecie, nella quale l’originaria integrità del
territorio non è sostanzialmente vulnerata, deve essere
rigorosamente rispettata la cadenza, in ordine successivo,
dell'approvazione dello strumento urbanistico generale e
dello strumento urbanistico attuativo, in modo da garantire
una pianificazione razionale e ordinata del futuro sviluppo
del territorio dal punto di vista urbanistico.
Il piano esecutivo, previsto dallo strumento urbanistico
generale come presupposto dell'edificazione, non ammette,
cioè, equipollenti, nel senso che, in sede amministrativa o
giurisdizionale, non possono essere effettuate indagini
volte a verificare se sia tecnicamente possibile realizzare
costruzioni, che, ad avviso del legislatore, incidono
negativamente sul razionale assetto del territorio,
vanificando la funzione del piano attuativo, la cui
approvazione può essere stimolata dall'interessato con i
mezzi apprestati dal sistema (Cons. Stato, sez. V, 03.03.2004, n. 1013; 10 dicembre 2003, n. 7799; sez. IV, 19.02.2008, n. 531).
L’indefettibilità dello strumento urbanistico attuativo
neppure viene meno nelle ipotesi di zone edificate, esposte
al rischio di compromissione di valori urbanistici, nelle
quali la pianificazione può ancora conseguire l'effetto di
correggere e compensare il disordine edificativo in atto (Cons.
Stato, sez. V, 01.12.2003, n. 7799); zone nelle quali
si prospetti, quindi, l'esigenza di raccordare armonicamente
le nuove costruzioni col preesistente aggregato urbano e di
potenziare le opere di urbanizzazione esistenti, tanto più
quando il nuovo intervento edilizio, per le sue dimensioni,
abbia un consistente impatto sull'assetto territoriale; e
nelle quali la preventiva redazione di un piano esecutivo
per il rilascio del titolo abilitativo edilizio si ponga, in
definitiva, come imprescindibile (TAR Veneto, Venezia, sez.
II, 31.03.2003, n. 2171; 08.09.2006, n. 2893; TAR
Lazio, Roma, sez. II, 13.09.2006, n. 8463).
Ed invero, non è sufficiente un qualsiasi stadio di
urbanizzazione di fatto per eludere il principio
fondamentale della pianificazione e per eventualmente
aumentare i guasti urbanistici già verificatisi, essendo la
pianificazione dell'urbanizzazione doverosa fino a quando
essa conservi una qualche utile funzione anche in aree già
compromesse o edificate (TAR Puglia, Lecce, sez. III, 18.01.2005, n. 164).
Peraltro, quando si sia in presenza di un lotto intercluso o
in altri casi analoghi in cui la zona risulti totalmente
urbanizzata attraverso la realizzazione delle opere e dei
servizi atti a soddisfare i necessari bisogni della
collettività, quali strade, spazi di sosta, fognature, reti
di distribuzione dell’acqua, dell’energia elettrica e del
gas, scuole, ecc., lo strumento urbanistico attuativo deve
ritenersi superfluo e non più esigibile da parte
dell’amministrazione comunale tenuta al rilascio del titolo
edilizio (cfr. per tutte TAR Sicilia Catania, Sez. I, 29.10.2015 n. 2518).
Tuttavia, tale ultimo principio non assume valenza assoluta
e deve essere contemperato con l’altro consolidato principio
testé ricordato, secondo il quale l’esigenza di un piano
particolareggiato o di un piano di lottizzazione, quale
presupposto per il rilascio del permesso di costruire, si
impone anche per garantire un armonico raccordo con il
preesistente aggregato abitativo allo scopo di potenziare le
opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, pure al più
limitato fine di armonizzare aree già compromesse ed
urbanizzate per le quali la relativa strumentazione
urbanistica postuli la necessità di una pianificazione di
dettaglio, anche laddove ricorra l’ipotesi di lotto
intercluso o di altre situazioni analoghe di pregressa
completa urbanizzazione: quindi, il principio secondo cui
può prescindersi nelle zone di espansione dalla previa
presentazione di un piano particolareggiato o di
lottizzazione qualora la zona sia completamente urbanizzata,
recede nel caso in cui sussista una specifica previsione
della strumentazione urbanistica che imponga l’assolvimento
di tale onere prima di avviare l’attività edilizia (cfr.
Consiglio di Stato, Sez. V, 29.02.2012 n. 1177;
Consiglio di Stato, Sez. IV, 10.01.2012 n. 26; TAR
Campania Napoli, Sez. II, 05.04.2016 n. 1662; TAR
Campania Salerno, Sez. I, 23.03.2015 n. 633; TAR Campania
Napoli, Sez. VIII, 03.07.2012 n. 3140) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 17.12.2018 n. 7205 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Con riferimento alla
realizzazione di parcheggi, questo Consiglio più volte ha
rilevato che la sistemazione di un’area a parcheggio aumenta
il carico urbanistico e richiede il previo rilascio del
permesso di costruire.
La trasformazione in piazzale, in particolare in parcheggio
con un fondo stradale in qualche modo stabile, di un terreno
precedentemente aperto, con modifica tendenzialmente non
reversibile dello stato dei luoghi, aumenta il carico
urbanistico, comporta una modifica del territorio e
costituisce quindi nuova opera, da assentire con il titolo
edilizio maggiore: tale principio si applica anche
quando, rispetto all’originario piano di campagna, vi siano
state in tempi diversi le opere che abbiano progressivamente
modificato lo stato dei luoghi.
---------------
In particolare, con riferimento alla realizzazione di
parcheggi, questo Consiglio più volte ha rilevato che la
sistemazione di un’area a parcheggio aumenta il carico
urbanistico e richiede il previo rilascio del permesso di
costruire.
La trasformazione in piazzale, in particolare in parcheggio
con un fondo stradale in qualche modo stabile, di un terreno
precedentemente aperto, con modifica tendenzialmente non
reversibile dello stato dei luoghi, aumenta il carico
urbanistico, comporta una modifica del territorio e
costituisce quindi nuova opera, da assentire con il titolo
edilizio maggiore (cfr., in tal senso, Cons. Stato, Sez. VI,
06.02.2018, n. 753, e Sez. IV, 12.09.2007, n.
4831, in tema di generica realizzazione di un piazzale,
nonché Sez. IV, 10.10.2007, n. 5035, su una fattispecie
di trasformazione di un agrumeto in parcheggio mediante posa
di ghiaia sul terreno): tale principio si applica anche
quando, rispetto all’originario piano di campagna, vi siano
state in tempi diversi le opere che abbiano progressivamente
modificato lo stato dei luoghi.
Nel caso di specie, da quanto si desume dalla relazione
tecnica di parte depositata in entrambi i gradi di giudizio
e dalla rappresentazione fotografica dei luoghi allegata,
emerge con evidenza che l’area era inizialmente ‘vuota’,
quando è stata adibita a piazzale di parcheggio (con la
trasformazione oggetto della domanda di condono edilizio del
1994) e proprio in quell’area si assisteva alla ulteriore
trasformazione in un parcheggio con intervento di opere (99
pali di cemento armato interrati), rispetto alla quale
nessun titolo abilitativo è stato preventivamente richiesto,
per come sarebbe stato necessario, anche perché si sarebbe
dovuta valutare l’accoglibilità della relativa istanza.
Peraltro è incontestato che –per di più- l’area sia
gravata da vincolo e quindi la realizzazione senza titolo di
interventi edilizi di qualsiasi natura non siano consentiti
dalla normativa di settore (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 17.12.2018 n. 7103 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Gare telematiche su piattaforma M.E.P.A..
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione - Gare
telematiche – Piattaforma M.E.P.A. - Manuale operativo –
Integra il disciplinare di gara – Conseguenza.
La partecipazione alle procedure di
gara gestite in forma telematico-informatica comporta la
necessità di adempiere, con scrupolo e diligenza, alle
prescrizioni di bando e alle norme tecniche rilevanti, come
da manuale applicativo e da normativa sul punto vigente,
nell’utilizzazione delle forme digitali, le cui regole (di
necessaria osservanza, mettendosi altrimenti a repentaglio
lo stesso funzionamento della procedura) ex se integrano per
relationem la disciplina di gara e sono poste a garanzia di
tutti i partecipanti, con la conseguenza che l’inesatto o
erroneo utilizzo, a contrario, rimane a rischio del
partecipante (1).
---------------
(1)
Ha chiarito il Tar che un simile procedimento di evidenza
pubblica, svolto con forme informatico-telematiche
massimamente semplificate, su una piattaforma creata e
disciplinata dal Ministero dell’economia e delle finanze, il
M.E.P.A., viene posto ex lege a disposizione di tutte
le Pubbliche amministrazioni, al fine di rendere veloci e
sicure le procedure di gara, coinvolgendo una pluralità di
operatori economici, che interloquiscono con il sistema,
attenendosi però scrupolosamente alle regole ivi previste,
onde poter proporre i propri prodotti e servizi.
Un tale procedimento elettronico non può essere indi
aggravato da adempimenti e oneri, volti a decodificare un
documento, che venga prodotto da un partecipante, per
propria responsabilità (Cons.
St., sez. V, 07.11.2016, n. 4645), in modo non
conforme alla proficua fruizione da parte del sistema
informatico. Ciò pregiudicando la stessa ratio di un simile
sistema celere informatico-telematico di individuazione dei
migliori offerenti e impedendo quindi, a causa
dell’inosservanza di quanto richiesto dalle regole tecniche
e procedurali rilevanti nel caso di specie,
all’amministrazione di acquisire il bene o servizio
ricercato.
Diversamente opinando, le questioni che potrebbero in
astratto porsi, ogniqualvolta si diverga dall’attenersi con
diligenza a quanto prescritto dai manuali applicativi dei
sistemi informatico-telematici, potrebbero essere così varie
e molteplici, tali da frustrare le potenzialità, che invece
questi sistemi offrono alle pubbliche amministrazioni e che
consentono di evitare di ricorrere alle ormai obsolete e
farraginose procedure cartacee.
Ergo, va affermato il principio per il quale –prima di porsi
qualsiasi questione in ordine alla corretta trasmissione e
al corretto funzionamento di un sistema
informatico-telematico– intanto quel dato sistema deve
essere stato correttamente utilizzato, secondo le modalità
rese adeguatamente note e disponibili, da chi ne deduca un
erroneo funzionamento o invochi supplementari accertamenti.
Tali ulteriori indagini, infatti, da un lato, finiscono per
impedire la celerità di funzionamento dello strumento e,
dall’altro, costituiscono una verifica superflua, visto che
i disguidi trovano spiegazione nei comportamenti degli
stessi soggetti che se ne lamentano (TAR
Puglia-Bari, Sez. II,
sentenza 17.12.2018 n. 1609 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Contratti
pubblici, poteri extra large per le stazioni appaltanti.
La V Sez. del Consiglio di Stato conferma, con la
sentenza
14.12.2018 n. 7056, che non è necessaria la
comunicazione di avvio del procedimento di revoca della proposta di
aggiudicazione di un appalto e che la stazione appaltante ha un ampio potere
decisionale sull'individuazione degli illeciti professionali che consentono
di escludere l'operatore dalla procedura di gara.
Il fatto
Si controverte su due provvedimenti, il primo di ammissione di una società a
una gara per l'affidamento del servizio di trasporto scolastico, dichiarato
improcedibile; il secondo di esclusione dalla procedura, respinto. Entrambi
emanati a seguito dell'esito del riscontro del possesso dei requisiti di
ordine generale e speciale.
Due i motivi di appello: un operatore denuncia
di non essere mai stato informato dell'avvio del procedimento relativo
all'annullamento del provvedimento di ammissione, lamentando la violazione
delle garanzie partecipative previste dalla legge 241/1990; l'altro contesta
la latitudine applicativa dell'articolo 80, comma 5, del Codice dei
contratti, relativo alle situazioni che rendono possibili alle stazioni
appaltanti di escludere dalla partecipazione alla procedura d'appalto un
operatore economico.
L'avvio del procedimento
Infondato per i giudici di palazzo Spata il primo motivo, in quanto le
garanzie procedimentali non trovano applicazione negli atti meramente
procedimentali, tra i quali deve annoverarsi l'aggiudicazione provvisoria,
che fa nascere in capo all'interessato solo una mera aspettativa alla
definizione positiva del procedimento ma non costituisce il provvedimento
conclusivo della procedura di evidenza pubblica, avendo, per sua natura,
un'efficacia destinata a essere superata.
L'atto di ritiro dunque non ha bisogno dell'avviso di avvio del procedimento
ovvero di preavviso di rigetto (articolo 10-bis della legge 241/1990),
poiché l'atto di aggiudicazione provvisoria non è individuabile come
provvedimento conclusivo della procedura di evidenza pubblica, tanto che la
sua omessa impugnazione non preclude l'impugnazione dell'aggiudicazione
definitiva. La revoca dell'aggiudicazione provvisoria non equivale
all'esercizio del potere di autotutela, in quanto permane in capo all'ente
quello «spazio concreto per l'attività di controllo» –nei termini in cui si
esprime la sezione nella sentenza– che l'organo competente ad adottare
l'atto di aggiudicazione definitiva è obbligato a effettuare.
Gli illeciti
Quanto al secondo motivo, la quinta sezione ricorda che l'articolo 80, comma
5, del codice consente alle stazioni appaltanti di escludere l'operatore
economico qualora possa dimostrare con qualunque mezzo adeguato la presenza
di gravi infrazioni debitamente accertate alle norme in materia di salute e
sicurezza sul lavoro nonché agli obblighi in materia ambientale, sociale e
del lavoro (lettera a); o che l'operatore si è reso colpevole di gravi
illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o
affidabilità (lettera c).
Queste elencazioni, affermano i giudici, non sono tassative ma
esemplificative, «nel senso che la stazione appaltante può ben desumere da
altre circostanze, purché puntualmente identificate (…), il compimento di
gravi illeciti professionali». La ratio della norma risiede infatti
nell'esigenza di verificare l'affidabilità complessivamente considerata
dell'operatore economico che contratta con la pubblica amministrazione per
evitare, a tutela del buon andamento dell'azione amministrativa, che quest'ultima
entri in contatto con soggetti privi di affidabilità morale e professionale.
L'affidabilità
L'operatore era stato escluso da una precedente procedura di gara per omessa
dichiarazione dell'intervenuta risoluzione per inadempimento con un altro
comune per un appalto antecedente. Un terzo ente inoltre, all'esito di una
serie di contestazioni relative sia alla regolarità del servizio che al
pagamento delle retribuzioni ai dipendenti e alla violazione dei diritti dei
lavoratori, aveva revocato l'affidamento del servizio di trasporto
scolastico.
Prove che il Consiglio di Stato ritiene adeguate a dimostrare un grave
illecito professionale della società, per aver violato disposizioni relative
allo svolgimento del servizio affidato e omesso di corrispondere le
retribuzioni e versare contributi previdenziali ai dipendenti. Elementi da
cui la stazione appaltante ha legittimamente desunto la non affidabilità
dell'operatore, anche in relazione alla peculiarità del servizio messo a
gara (trasporto di minori)
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 20.12.2018).
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MASSIMA
1. L’appello è infondato.
1.1. Con il primo motivo di gravame l’appellante deduce di non essere
mai stato informato dell’avvio del procedimento relativo all’annullamento
del precedente provvedimento di ammissione, lamentando pertanto la
violazione delle garanzie partecipative previste dalla L. n. 241-1990.
Il motivo è destituito di fondamento.
Al riguardo occorre rammentare che le invocate garanzie
procedimentali non trovano applicazione degli atti meramente procedimentali,
tra cui deve annoverarsi l’aggiudicazione provvisoria, che fa nascere in
capo all’interessato solo una mera aspettativa alla definizione positiva del
procedimento stesso, ma non costituisce il provvedimento conclusivo della
procedura di evidenza pubblica, avendo, per sua natura, un’efficacia
destinata ad essere superata.
Pertanto, ai fini del suo ritiro, non vi è obbligo di avviso di avvio del
procedimento ovvero di preavviso di rigetto ex art. 10-bis l. n. 241/1990,
poiché nel caso di procedimento iniziato ad istanza di parte quale quello di
evidenza pubblica non può ammettersi una partecipazione procedimentale come
invocata dall’interessato.
Infatti, l’atto di aggiudicazione provvisoria non è individuabile come
provvedimento conclusivo della procedura di evidenza pubblica, tanto che la
sua omessa impugnazione non preclude l’impugnazione dell’aggiudicazione
definitiva, e ai fini della sua revoca o del suo annullamento (a differenza
di quanto accade per l’autotutela dell’aggiudicazione definitiva) non vi è
obbligo di avviso di avvio del procedimento; pertanto, sarebbe incoerente
escludere la possibilità di intervenire in autotutela nei confronti di una
pre-decisione come l’aggiudicazione provvisoria.
Se non si consentisse alla stazione appaltante di rivedere gli esiti delle
decisioni preliminari assunte durante la gara, sarebbe anche difficile
individuare uno spazio concreto per l’attività di controllo, che pure
l’organo competente ad adottare l’atto di aggiudicazione definitiva è tenuto
ad effettuare, sugli atti compiuti dal seggio di gara sino
all’aggiudicazione provvisoria
(così, da ultimo Consiglio di Stato, sez. III, 05.10.2016, n. 4107).
La revoca dell’aggiudicazione provvisoria, ovvero, la sua
mancata conferma, non è, difatti, qualificabile alla stregua di un esercizio
del potere di autotutela, sì da richiedere un raffronto tra l’interesse
pubblico e quello privato sacrificato.
A conferma di tale ricostruzione deve aggiungersi che con l’entrata in
vigore del nuovo Codice degli appalti (d.lgs. 18.04.2016, n. 50)
l’aggiudicazione provvisoria è stata sostituita dalla “proposta di
aggiudicazione” (art. 33) che a fortiori postula la non
definitività dell’atto. |
PUBBLICO IMPIEGO: Licenziamento
disciplinare per il dipendente pubblico iscritto all’albo degli avvocati.
Il funzionario comunale che svolge contemporaneamente l'attività di avvocato
versa in una situazione di incompatibilità, prevista dall'articolo 53 del
Testo unico sul pubblico impiego, che giustifica il licenziamento
disciplinare. La sanzione è legittima anche soltanto in presenza della mera
iscrizione all'albo degli avvocati, da cui è lecito presumere lo svolgimento
in concreto della professione forense.
Lo si afferma nella
sentenza 12.12.2018 n. 32156
della
Sez. lavoro della Corte di Cassazione.
Il caso
Protagonista della vicenda è un avvocato che nel settembre 2012 veniva
assunto alle dipendenze del Comune di Pompei senza dichiarare la propria
situazione di incompatibilità a svolgere l'incarico pubblico. Il legale,
infatti, era rimasto iscritto all'albo degli avvocati e aveva in qualche
occasione continuato a svolgere la professione forense difendendo in
giudizio alcuni suoi clienti. L'ente locale si accorgeva però dell'anomalia
e chiedeva chiarimenti al suo funzionario, il quale adduceva a sua difesa la
cancellazione della partita Iva e la sua dichiarazione dei redditi, da cui
si desumeva il mancato svolgimento dell'attività di avvocato.
Dopo qualche mese, tuttavia, il Comune chiedeva al dipendente ulteriori
chiarimenti e dalla risposta alla contestazione disciplinare fornita da
quest'ultimo emergeva che lo stesso era di fatto ancora iscritto all'albo.
Tanto bastava per l'ente datore di lavoro a presumere in concreto
l'esercizio dell'attività professionale, sicché, sulla base degli articoli
53 del Testo unico sul pubblico impiego (Dlgs 165/2001) e 21 della nuova
disciplina dell'ordinamento della professione forense (legge 267/2012), il
Comune nel settembre 2015 disponeva il licenziamento disciplinare del
dipendente.
A questo punto il funzionario impugnava il provvedimento dinanzi
all'autorità giudiziaria chiedendo l'annullamento della massima sanzione
disciplinare per la tardività dell'irrogazione del provvedimento rispetto
alla contestazione iniziale, nonché per la mancata dimostrazione della
effettiva attività forense da lui svolta. I giudici però, sia in primo che
in secondo grado, hanno confermato il licenziamento per l'incompatibilità
della funzione di pubblico dipendente con l'esercizio della professione
forense.
La tempestività del provvedimento
La questione così è arrivata in Cassazione dove l'ex dipendente pubblico ha
cercato di contestare il licenziamento sul piano formale e sostanziale. Il
verdetto però non è cambiato. La Corte ha replicato alla presunta tardività
del provvedimento spiegando che il Comune, nel caso di specie, ha potuto
procedere al licenziamento solo in un secondo momento, ovvero dopo la
precisa ricostruzione della situazione di fatto avvenuta a seguito dei
chiarimenti chiesti al lavoratore, non essendo possibile «un arretramento
cronologico del momento dell'acquisizione della notizia dell'infrazione».
D'altra parte ben può la pubblica amministrazione «svolgere indagini
pre-procedimentali per chiarire i termini della vicenda e valutare la
consistenza disciplinare dei fatti emersi a carico del dipendente.
La valenza dell'incompatibilità
I giudici di legittimità hanno chiarito anche che la mera iscrizione
all'albo è sufficiente a fornire la prova della incompatibilità, non essendo
necessarie ulteriori indagini in merito all'effettivo svolgimento della
libera professione.
Difatti, l'articolo 53 del Testo unico sul pubblico
impiego «ha sancito una vera e propria estensione a tutti i dipendenti
pubblici, contrattualizzati e non» della disciplina delle
incompatibilità, escludendo solo il personale docente, direttivo e ispettivo
della scuola, il personale del servizio sanitario nazionale e i dipendenti
con rapporto di lavoro a tempo parziale, per i quali sono previste speciali
disposizioni.
Pertanto, chiosa la Corte, a eccezione di quelle categorie, il generale
principio della incompatibilità sancito per i dipendenti statali e degli
enti pubblici economici si estende a tutti i pubblici dipendenti
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 13.12.2018).
---------------
SENTENZA
8. Il
quarto motivo presenta anch'esso profili di inammissibilità ex art. 366
n. 4 c.p.c. per difetto di pertinenza al decisum: la sentenza
impugnata ha evidenziato come il permanere dell'iscrizione all'albo degli
avvocati lasciasse presumere l'esercizio della professione forense con
connotazione di abitualità e che dirimenti fossero anche le risultanze
istruttorie, che avevano evidenziato come il Vitiello avesse
continuato a curare cause innanzi all'autorità giudiziaria negli anni
successivi al 2012.
8.1. Comunque, il motivo è anche destituito di fondamento
giuridico. Il d.lgs. 30.03.2001, n. 165, art. 53 (Incompatibilità, cumulo di
impieghi e incarichi) dispone, al comma 1, che resta ferma per tutti i
dipendenti pubblici la disciplina delle incompatibilità dettata dagli artt.
60 e seguenti del testo unico approvato con D.P.R. 10.01.1957, n. 3, salva
la deroga prevista dall'articolo 23-bis del presente decreto, nonché, per i
rapporti di lavoro a tempo parziale, dal D.P.C.M. 17.03.1989, n. 117, art.
6, comma 2, e dalla L. 23.12.1996, n. 662, art. 1, commi 57 e
seguenti.
Restano ferme altresì le disposizioni di cui al D.Lgs.
16.04.1994,n. 297, art. 267, comma 1, artt. 273, 274, 508 nonché art. 676,
alla L. 23.12.1992, n. 498, art. 9, commi 1 e 2, alla L. 30.12.1991, n. 412,
art. 4, comma 7, ed ogni altra successiva modificazione ed integrazione
della relativa disciplina. Gli altri commi dello stesso articolo si
occupano, con norme dichiarate espressamente applicabili sia ai dipendenti a
regime di diritto pubblico sia a quelli c.d. contrattualizzati, dello
svolgimento di attività extraistituzionali (incarichi), disciplinandone le
condizioni di legittimità e prevedendo poteri di autorizzazione
dell'amministrazione.
8.2. La norma dettata dal richiamato art. 53, comma 1, ha
sancito una vera e propria estensione a tutti i dipendenti pubblici,
contrattualizzati e non, compresi quelli per i quali vigeva in precedenza
una disciplina speciale (quali i dipendenti degli enti del parastato L. n.
70 del 1975, ex art. 8), della disciplina delle incompatibilità dettata dal
testo unico degli impiegati civili dello Stato agli artt. 60 e seguenti.
La stessa norma, poi, ha fatto salve le disposizioni
speciali in materia di incompatibilità già vigenti per il personale docente,
direttivo e ispettivo della scuola, per il personale docente dei
conservatori di musica, per il personale degli enti lirici e del
servizio sanitario nazionale, nonché per i dipendenti pubblici con rapporto
di lavoro a tempo parziale.
Dunque, l'art. 53 cit. ha ribadito il generale principio
dell'incompatibilità, sancito per i dipendenti statali (e degli enti
pubblici non economici), con riferimento a tutti i pubblici dipendenti
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 12.12.2018 n. 32156). |
APPALTI:
Necessaria congruenza tra certificazione camerale e oggetto
del contratto d’appalto.
In sede di procedimento di gara d’appalto, l’utilità
sostanziale della certificazione camerale è quella di
filtrare l’ingresso in gara dei soli concorrenti forniti di
una professionalità coerente con le prestazioni oggetto
dell’affidamento pubblico. Da tale ratio –nell’ottica di
una lettura del bando fedele ai principi vigenti in materia
di contrattualistica pubblica, che tenga cioè conto
dell’oggetto e della funzione dell’affidamento (1363 1367
1369 c.c.)– si desume la necessità di una congruenza
contenutistica, tendenzialmente completa, tra le risultanze
descrittive della professionalità dell’impresa, come
riportate nell’iscrizione alla Camera di Commercio, e
l’oggetto del contratto d’appalto, evincibile dal complesso
di prestazioni in esso previste; e ciò in quanto l’oggetto
sociale viene inteso come la “misura” della capacità di
agire della persona giuridica, la quale può validamente
acquisire diritti ed assumere obblighi solo per le attività
comprese nello stesso, come riportate nel certificato
camerale.
Nell’impostazione del nuovo codice appalti, l’iscrizione
camerale è assurta a requisito di idoneità professionale
(art. 83, commi 1, lett. a), e 3 d.lgs. n. 50/2016),
anteposto ai più specifici requisiti attestanti la capacità
tecnico-professionale ed economico-finanziaria dei
partecipanti alla gara, di cui alle successive lettere b) e
c) del medesimo comma.
Pacifica in giurisprudenza la considerazione per cui utilità
sostanziale della certificazione camerale è quella di
filtrare l’ingresso in gara dei soli concorrenti forniti di
una professionalità coerente con le prestazioni oggetto
dell’affidamento pubblico.
Da tale ratio –nell’ottica di una lettura del bando fedele
ai principi vigenti in materia di contrattualistica
pubblica, che tenga cioè conto dell’oggetto e della funzione
dell’affidamento (1363 1367 1369 c.c.)– si desume la
necessità di una congruenza contenutistica, tendenzialmente
completa, tra le risultanze descrittive della
professionalità dell’impresa, come riportate nell'iscrizione
alla Camera di Commercio, e l’oggetto del contratto
d'appalto, evincibile dal complesso di prestazioni in esso
previste; e ciò in quanto l’oggetto sociale viene inteso
come la "misura" della capacità di agire della persona
giuridica, la quale può validamente acquisire diritti ed
assumere obblighi solo per le attività comprese nello
stesso, come riportate nel certificato camerale.
A parziale mitigazione di tale impostazione si sostiene,
d’altra parte, che detta corrispondenza contenutistica -tra
risultanze descrittive del certificato camerale e oggetto
del contratto d'appalto- non debba tradursi in una perfetta
ed assoluta sovrapponibilità tra tutte le componenti dei due
termini di riferimento, ma che la stessa vada appurata
secondo un criterio di rispondenza alla finalità di verifica
della richiesta idoneità professionale, e quindi in virtù di
una considerazione non già atomistica e frazionata, bensì
globale e complessiva delle prestazioni dedotte in
contratto.
Diversamente, una rigida e formalistica applicazione del
requisito condurrebbe all'ammissione alla gara dei soli
operatori aventi un oggetto sociale pienamente speculare
rispetto a tutti i contenuti del servizio in gara
(indipendentemente dal peso delle diverse prestazioni ad
esso inerenti), con
ciò restringendosi in modo ingiustificato la platea dei
potenziali concorrenti e la stessa finalità del confronto
comparativo-concorrenziale".
---------------
Proprio il principio del favor participationis e di massima
concorrenza risponde alla esigenza che la corrispondenza tra
le risultanze descrittive della professionalità
dell’impresa, come riportate nell’iscrizione camerale, e
l’oggetto del contratto di appalto non debba essere intesa
in modo assoluto, ma in termini di congruenza
contenutistica, secondo un criterio di rispondenza alla
finalità di verifica della richiesta idoneità professionale,
attraverso una valutazione non atomistica e frazionata, ma
globale e complessiva delle prestazioni oggetto di
affidamento.
---------------
La problematica sollevata nel presente ricorso è quella dei
limiti di congruenza contenutistica tra l’iscrizione
camerale dell’impresa partecipante alla gara e l’oggetto del
contratto d’appalto, in ipotesi di raggruppamento di tipo
orizzontale e di oggetto dell’appalto individuato attraverso
una finalità- obiettivo, cui seguono singole voci di
prestazione in funzione di descrittori.
Nell’impostazione del nuovo codice appalti, l’iscrizione
camerale è assurta a requisito di idoneità professionale
(art. 83, commi 1, lett. a), e 3 d.lgs. n. 50/2016),
anteposto ai più specifici requisiti attestanti la capacità
tecnico-professionale ed economico-finanziaria dei
partecipanti alla gara, di cui alle successive lettere b) e
c) del medesimo comma.
Pacifica in giurisprudenza la considerazione per cui utilità
sostanziale della certificazione camerale è quella di
filtrare l’ingresso in gara dei soli concorrenti forniti di
una professionalità coerente con le prestazioni oggetto
dell’affidamento pubblico.
Da tale ratio –nell’ottica di una lettura del bando fedele
ai principi vigenti in materia di contrattualistica
pubblica, che tenga cioè conto dell’oggetto e della funzione
dell’affidamento (1363 1367 1369 c.c.)– si desume la
necessità di una congruenza contenutistica, tendenzialmente
completa, tra le risultanze descrittive della
professionalità dell’impresa, come riportate nell'iscrizione
alla Camera di Commercio, e l’oggetto del contratto
d'appalto, evincibile dal complesso di prestazioni in esso
previste; e ciò in quanto l’oggetto sociale viene inteso
come la "misura" della capacità di agire della persona
giuridica, la quale può validamente acquisire diritti ed
assumere obblighi solo per le attività comprese nello
stesso, come riportate nel certificato camerale (Cons.
Stato, sez. V, 07.02.2012, n. 648 e sez. IV, 23.09.2015, n.
4457; TAR Napoli, sez. I, 03.02.2015, n. 819; TAR
Veneto, sez. I, 01.09.2015, n. 953).
A parziale mitigazione di tale impostazione si sostiene,
d’altra parte, che detta corrispondenza contenutistica -tra
risultanze descrittive del certificato camerale e oggetto
del contratto d'appalto- non debba tradursi in una perfetta
ed assoluta sovrapponibilità tra tutte le componenti dei due
termini di riferimento, ma che la stessa vada appurata
secondo un criterio di rispondenza alla finalità di verifica
della richiesta idoneità professionale, e quindi in virtù di
una considerazione non già atomistica e frazionata, bensì
globale e complessiva delle prestazioni dedotte in
contratto.
Diversamente, una rigida e formalistica applicazione del
requisito condurrebbe all'ammissione alla gara dei soli
operatori aventi un oggetto sociale pienamente speculare
rispetto a tutti i contenuti del servizio in gara
(indipendentemente dal peso delle diverse prestazioni ad
esso inerenti), con
ciò restringendosi in modo ingiustificato la platea dei
potenziali concorrenti e la stessa finalità del confronto
comparativo-concorrenziale" (CdS n. 5170/2017).
Si presenta dunque decisivo indagare la natura e la qualità
delle prestazioni dedotte nel capitolato d’appalto e la
relazione nella quale queste si pongono rispetto ai
richiesti requisiti di capacità
dalle risultanze descrittive dei certificati camerali.
Nella specie, come si rileva dall’art. 3 del disciplinare di
gara, l’oggetto dell’appalto è affidamento di servizi
necessari per l’ideazione la progettazione e la
realizzazione del sistema integrato di comunicazione
plurimediale on-line e on–site “Open Campania. I musei della
Campania in Rete” e comprende le attività utili per creare
un’architettura di infrastrutture immateriali che agevoli
una visione complessiva di fruizione di quattro siti di
interesse museale individuati come attrattori di rilevanza
strategica.
Trattandosi di costituendo raggruppamento orizzontale, come
dichiarato e ribadito dalle concorrenti, e di oggetto
dell’appalto individuato attraverso una finalità- obiettivo
in cui non viene messa in rilievo una prestazione
principale, va indagato il certificato camerale delle
partecipanti, tenendo conto della circostanza che la
indicazione delle singole prestazioni assume il carattere di
descrittore.
Ciò è confermato dalla specificazione contenuta nell’oggetto
del servizio, “La scelta di non suddividere in lotti e
legata alla necessita che i diversi contributi possano
integrarsi e che la comunicazione si sviluppi in maniera
organica”.
La stessa Amministrazione nel redigere la documentazione di
gara ha espresso la necessità di acquisire differenti
servizi senza indicare quelli ritenuti principali, ma
richiedendo una integrazione organica nella loro ideazione,
progettazione e realizzazione.
Le prestazioni dedotte come specificazione di tale oggetto
sono poi molteplici, ma non comportano una scomposizione dei
servizi cui corrisponda una possibilità escludente per
mancanza della singola voce prestazionale nel certificato
camerale.
Risulta dunque ragionevole ritenere che il requisito
camerale andasse riferito al solo oggetto del contratto
(servizi necessari per l’ideazione la progettazione e la
realizzazione del sistema integrato di comunicazione
plurimediale on-line e on–site “Open Campania. I musei della
Campania in Rete”) e che lo stesso dovesse intendersi come
attestazione della generica qualificazione professionale-imprenditoriale del concorrente; viceversa,
l’ulteriore specificazione di tale idoneità professionale,
in rapporto alla totalità delle prestazioni incluse
nell’appalto posto in gara, era affidata alla enucleazione
di ulteriori e più specifici requisiti di capacità
economico/finanziaria e tecnico/professionale.
In particolare, per quanto oggetto di specifica
contestazione, va rilevato che dal certificato di GE.,
si evince che la società svolge attività “di progettazione,
realizzazione, adeguamento, gestione, manutenzione ed uso
degli impianti e delle infrastrutture per l’esercizio
dell’attività aeroportuale nonché delle attività connesse o
collegate……..la società potrà gestire tutti i
servizi quali ad esempio la commercializzazione degli
spazi…la creazione di spazi dedicati alla cultura...”. La Ge. in sede di interlocuzione procedimentale, ha
evidenziato alla stazione appaltante di aver svolto:
a) attività di progettazione strategica-advertising;
b) elaborazione app;
c) caricamento di contenuti offerta di servizi multimediali
e plurimediali;
d) formazione e affiancamento risorse interne
amministrative;
e) realizzazione materiali di divulgazione.
Inoltre anche la iscrizione camerale di Op.La.Fi. non presenta attività avulse dall’oggetto
dell’appalto, basti rilevare che dalla stessa si evince lo
svolgimento di attività di “gestione di spazi espositivi
manifestazioni ed eventi vari e servizi ad essi collegati
con vendita al dettaglio di libri ed altre pubblicazioni
realizzate con procedimenti tipografici o di altro genere,
audiovisivi compresi ed oggetti ricordo, esercitate
prevalentemente in musei e strutture
pubbliche; attività di promozione turistica; conduzione di
campagne pubblicitarie e altri servizi pubblicitari;
attività di musei; gestione di spazi espositivi
manifestazioni ed eventi vari e servizi ad essi collegati
con vendita al dettaglio di libri ed altre pubblicazioni
realizzate con procedimenti tipografici o di altro genere,
audiovisivi compresi ed oggetti ricordo, esercitate
prevalentemente in musei e strutture pubbliche”.
Peraltro proprio il principio del favor participationis e di
massima concorrenza risponde alla esigenza che la
corrispondenza tra le risultanze descrittive della
professionalità dell’impresa, come riportate nell’iscrizione
camerale, e l’oggetto del contratto di appalto non debba
essere intesa in modo assoluto, ma in termini di congruenza
contenutistica, secondo un criterio di rispondenza alla
finalità di verifica della richiesta idoneità professionale,
attraverso una valutazione non atomistica e frazionata, ma
globale e complessiva delle prestazioni oggetto di
affidamento (CdS 796/2018).
La domanda va conclusivamente accolta, con annullamento
della gravata esclusione (TAR Campania-Napli, Sez. IV,
sentenza 12.12.2018 n. 7130 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Esclusione dalla gara per irregolarità contributiva del
locatore il ramo di azienda.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione
dalla gara – Irregolarità contributiva del locatore il ramo
di azienda – Legittimità.
E’ legittima l’esclusione dalla gara
di un concorrente, che aveva affittato il ramo di azienda,
per irregolarità contributiva del cedente (1).
---------------
(1)
Ha ricordato la Sezione che la responsabilità per fatto di
soggetto giuridico terzo a cui soggiace il cessionario trova
risposta nel principio ubi commoda, ibi incommoda: il
cessionario, come si avvale dei requisiti del cedente sul
piano della partecipazione a gare pubbliche, così risente
delle conseguenze, sullo stesso piano, delle eventuali
responsabilità del cedente” (Adunanza
plenaria n. 10 del 04.05.2012).
In particolare, con riferimento al contratto di affitto di
azienda, è stato affermato che “non soltanto
l'affittuario è in condizione di utilizzare mezzi d'opera e
personale facenti capo all'azienda affittata ma,
soprattutto, si mette in condizione di avvantaggiarsi anche
dei requisiti di ordine tecnico organizzativo ed economico
finanziario facenti capo a tale azienda, per quanto ciò
avvenga per un periodo di tempo determinato e malgrado la
reversibilità degli effetti una volta giunto a scadenza il
contratto di affitto d'azienda, con l'obbligo di
restituzione del complesso aziendale" (Cons.
St., sez. V, 5 novembre 2014, n. 5470, per cui,
inoltre, “la continuità imprenditoriale tra l’affittuario
e l’affittante risulta insita in re ipsa nello stesso
trasferimento della disponibilità economica di una parte
dell’azienda ad altra impresa, giuridicamente qualificabile
come affitto, ad eccezione della sola ipotesi in cui il
soggetto interessato abbia fornito la prova di una completa
cesura tra le gestioni”.
La Sezione ha altresì escluso che potesse applicarsi la
procedura di preavviso di Durc negativo, ai sensi dell’art.
31, comma 8, d.l. 21.06.2013, n. 69 convertito nella l.
09.08.2013, n. 98, che si applica solo al DURC richiesto
dalla impresa e non al Durc richiesto dalla stazione
appaltante nella successiva fase di verifica dei requisiti.
Tale conclusione deriva dalla applicazione del principio per
cui tutti i requisiti di partecipazione devono essere
posseduti alla data di scadenza del termine per la
presentazione delle offerte e rimanere per tutta la durata
della procedura di gara, con la conseguenza di escludere una
regolarizzazione successiva al termine di presentazione
delle domande di partecipazione alla gara, momento in cui
devono essere posseduti i requisiti di partecipazione,
compresa la regolarità contributiva (Cons.
St., sez. V, 26.04.2018, n. 2537).
Tale orientamento è stato ribadito anche a seguito della
modifica dell’art. 80, comma 4, d.lgs. n. 50 del 2016, che
consente –nel testo vigente a seguito delle modifiche
introdotte con il d.lgs. 19.04.2017 n. 56- la partecipazione
alle gare qualora l’operatore “ha ottemperato ai suoi
obblighi pagando o impegnandosi in modo vincolante a pagare
le imposte o i contributi previdenziali dovuti, compresi
eventuali interessi o multe, purché il pagamento o l'impegno
siano stati formalizzati prima della scadenza del termine
per la presentazione delle domande”.
La norma aggiunta al comma 4 consente all'impresa che
intenda partecipare alla gara di aderire all'invito alla
regolarizzazione fino al momento di presentazione
dell'offerta, potendo perciò autocertificare il possesso del
requisito a tale momento anche se non abbia ancora pagato le
somme dovute agli enti di previdenza ed assistenza, ma
purché a tale data si sia formalmente impegnata al
pagamento.
Non supera, quindi, il disposto del comma 6 dell’art. 80 per
cui “le stazioni appaltanti escludono un operatore
economico in qualunque momento della procedura, qualora
risulti che l'operatore economico si trova, a causa di atti
compiuti o omessi prima o nel corso della procedura, in una
delle situazioni di cui ai commi 1, 2, 4 e 5", che non
consente di distinguere tra omissioni di pagamenti di
contributi precedenti o sopravvenute all'inizio della
procedura; né consente di distinguere, ai fini
dell'emissione del provvedimento di esclusione, i diversi
momenti della procedura di gara, imponendo perciò
l'esclusione anche successivamente, a meno che l'operatore
economico abbia pagato o si sia impegnato a pagare "prima
della scadenza del termine per la presentazione delle
domande" (Cons. St., sez. V, 02.07.2018, n. 4039).
L’irrilevanza della regolarizzazione successivamente al
termine di presentazione delle offerte è stata ritenuta
conforma all’ordinamento comunitario dalla Corte di
giustizia dell’Unione Europea, con sentenza 10.11.2016, n.
C-199/15, in cui ha affermato, con riferimento all’articolo
45 della direttiva 2004/18/CE del Parlamento Europeo e del
Consiglio, del 31.03.2004, che “non osta a una normativa
nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento
principale, che obbliga l'amministrazione aggiudicatrice a
considerare quale motivo di esclusione una violazione in
materia di versamento di contributi previdenziali ed
assistenziali risultante da un certificato richiesto
d'ufficio dall'amministrazione aggiudicatrice e rilasciato
dagli istituti previdenziali, qualora tale violazione
sussistesse alla data della partecipazione ad una gara
d'appalto, anche se non sussisteva più alla data
dell'aggiudicazione o della verifica d'ufficio da parte
dell'amministrazione aggiudicatrice”. E ciò anche nel
caso in cui “l'importo dei contributi sia poi stato
regolarizzato, prima dell'aggiudicazione o prima della
verifica d'ufficio da parte dell'amministrazione
aggiudicatrice”.
La Corte ha inoltre aggiunto che non sussiste violazione
della disposizione innanzi citata anche nel caso in cui la
disciplina nazionale preveda “quale motivo di esclusione
una violazione in materia di versamento di contributi
previdenziali ed assistenziali risultante da un certificato
richiesto d'ufficio dall'amministrazione aggiudicatrice e
rilasciato dagli istituti previdenziali, qualora tale
violazione sussistesse alla data della partecipazione ad una
gara d'appalto, escludendo così ogni margine di
discrezionalità delle amministrazioni aggiudicatrici a tale
riguardo”.
Anche l’art. 57, par. 3, della direttiva 2014/24 si
riferisce in via generale al limite massimo del termine di
presentazione delle offerte, attribuendo agli Stati membri
la facoltà di prevedere una deroga alle esclusioni
obbligatorie di cui al par. 2 (tra cui il mancato pagamento
di imposte o contributi previdenziali) “nei casi in cui
un'esclusione sarebbe chiaramente sproporzionata, in
particolare qualora non siano stati pagati solo piccoli
importi di imposte o contributi previdenziali o qualora
l'operatore economico sia stato informato dell'importo
preciso dovuto a seguito della sua violazione degli obblighi
relativi al pagamento di imposte o di contributi
previdenziali in un momento in cui non aveva la possibilità
di prendere provvedimenti in merito, come previsto al par.
2, terzo comma, (pagamento o impegno vincolante a pagare le
imposte o i contributi previdenziali dovuti, compresi
eventuali interessi o multe) prima della scadenza del
termine per richiedere la partecipazione ovvero, in
procedure aperte, del termine per la presentazione
dell'offerta” (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 12.12.2018 n. 7022 -
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APPALTI:
Rito ordinario e rito superaccelerato nel contenzioso
appalti.
---------------
●
Processo amministrativo - Competenza - Gara - Tar competente
- Individuazione.
●
Processo amministrativo - Rito appalti - Rito
superaccelerato - Applicabilità - Presupposti.
●
Processo amministrativo - Rito appalti - Cumulo riti diversi
- Sì applica il rito appalti ordinario.
●
Contratti della Pubblica amministrazione - Offerta -
Anomalia - Costo del lavoro - Scostamento minimo dalle
tabelle ministeriali - Possibilità
●
Competente a conoscere del ricorso avverso gli atti di una
procedura ad evidenza pubblica è, in base all’art. 13, comma
1, secondo periodo, c.p.a., il tribunale amministrativo del
luogo di produzione degli effetti diretti cui è preordinato
l’atto finale della procedura, ossia dell’ambito
territoriale di esplicazione dell’attività dell’impresa
conseguente all’emanazione dell’atto di aggiudicazione e
alla stipula contrattuale, indipendentemente dalla sede
della stazione appaltante, dal luogo di svolgimento delle
operazioni di gara e/o dalla sede dei partecipanti alla gara
e da circostanze successive ed puramente eventuali, legate
all’esito del giudizio (nella fattispecie si trattava di
gara indetta da RFI s.p.a. e suddivisa in 37 lotti su tutto
il territorio nazionale) (1).
●
Ai fini della decorrenza del termine previsto dall’art. 120,
comma 2-bis, c.p.a., non è sufficiente la pubblicazione
dell’elenco dei soggetti ammessi, atteso che ai sensi
dell’art. 29, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 il termine decorre
dal momento in cui gli atti sono resi “in concreto
disponibili, corredati di motivazione” (2).
●
È ammissibile, ed è soggetto al rito abbreviato ordinario
per gli appalti di cui all’art. 120 c.p.a. e non a quello
“super accelerato” di cui al comma 2-bis, il ricorso nel
quale sono cumulate le domande avverso due segmenti
concorsuali soggetti a riti processuali diversi, ossia
ammissione ed aggiudicazione, allorché non sia possibile
ravvisare alcuna distinzione tra la fase di verifica dei
requisiti di partecipazione e la successiva fase di
valutazione delle offerte e di individuazione del miglior
offerente (3).
●
I valori del costo del lavoro, risultanti dalle apposite
tabelle ministeriali, costituiscono un semplice parametro di
valutazione della congruità dell’offerta, con la conseguenza
che l’eventuale scostamento delle voci di costo da essi non
legittima, di per sé, un giudizio di anomalia.
●
Premesso che nei raggruppamenti misti ogni
sub-raggruppamento deve essere esaminato autonomamente, nel
caso di sub-raggruppamento di tipo orizzontale nella
categoria prevalente composto da due imprese, poiché deve
esservi coincidenza tra la mandataria dell’intero
raggruppamento e la mandataria del relativo
sub-raggruppamento, deve essere accertata la partecipazione
maggioritaria della mandataria, così come previsto nel
combinato disposto degli artt. 92, comma 2, d.P.R. n. 207
del 2010, 83, comma 8, e 48, comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016
(4).
---------------
(1)
Ha ricordato il Tar che ai sensi dell’art. 13, comma 1,
c.p.a. “sulle controversie riguardanti provvedimenti,
atti, accordi o comportamenti di pubbliche amministrazioni è
inderogabilmente competente il tribunale amministrativo
regionale nella cui circoscrizione territoriale esse hanno
sede. Il tribunale amministrativo regionale è comunque
inderogabilmente competente sulle controversie riguardanti
provvedimenti, atti, accordi o comportamenti di pubbliche
amministrazioni i cui effetti diretti sono limitati
all’ambito territoriale della regione in cui il tribunale ha
sede”.
Ai fini dell’individuazione del tribunale amministrativo
competente a conoscere del ricorso avverso gli atti di una
procedura di evidenza pubblica (ivi compresi eventuali
provvedimenti di esclusione), “deve aversi riguardo al
luogo di produzione degli effetti diretti cui è preordinato
l’atto finale della procedura, ossia all’ambito territoriale
di esplicazione dell’attività dell’impresa aggiudicataria
conseguente all’emanazione dell’atto di aggiudicazione e
alla stipula contrattuale […] indipendentemente dalla sede
della stazione appaltante, dal luogo di svolgimento delle
operazioni di gara e/o dalla sede dei partecipanti alla gara”
(Tar Lazio, sez. I, ord., n. 10172 del 2017).
Avuto riguardo al criterio degli “effetti diretti
dell’atto” (derogatorio di quello della sede dell’ente),
nella fattispecie in esame non può che rilevarsi la
competenza del Tar Reggio Calabria, attenendo la
controversia all’affidamento dello specifico lotto da
eseguirsi nell’ambito della circoscrizione di questa
Sezione.
Né ad una diversa conclusione può indurre la circostanza
secondo la quale l’eventuale annullamento dei provvedimenti
qui impugnati potrebbe produrre effetti anche sugli altri
lotti in virtù della espressa previsione secondo la quale
ogni concorrente non avrebbe potuto risultare aggiudicatario
di più di tre lotti, trattandosi di effetti certamente non
diretti (la stessa società controinteressata utilizza
l’espressione “effetto domino”) e, comunque, solo
eventuali e legati all’esito del giudizio.
(2) Ad avviso del Tar l’art. 29, d.lgs. n. 50 del 2016 introduce un
preciso onere di comunicazione a carico delle stazioni
appaltanti “al fine di consentire l'eventuale
proposizione del ricorso ai sensi dell'articolo 120, comma
2-bis, del codice del processo amministrativo”. Dal mero
elenco delle imprese ammesse alla procedura nonché di quelle
escluse non è possibile trarre alcun elemento da cui
desumere eventuali motivi di esclusione delle imprese
partecipanti.
(3) Ha chiarito il Tar che “il rito cd. “specialissimo” o “super
speciale”, di cui ai commi 2-bis e 6-bis del citato articolo
120 c.p.a. è applicabile unicamente nei casi in cui vi sia
una netta distinzione tra fase di ammissione/esclusione e
fase di aggiudicazione” (Tar
Bari, sez. III, n. 394 del 14.04.2017).
L’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza 26.04.2018,
n. 4 ha evidenziato che il rito c.d. “superaccelerato”
è volto “nella sua ratio legis, a consentire la pronta
definizione del giudizio prima che si giunga al
provvedimento di aggiudicazione e, quindi, a definire la
platea dei soggetti ammessi alla gara in un momento
antecedente all'esame delle offerte e alla conseguente
aggiudicazione (Consiglio
di
Stato, parere n. 855/2016
sul codice degli appalti pubblici). Il legislatore ha quindi
inteso evitare che con l'impugnazione dell'aggiudicazione
possano essere fatti valere vizi attinenti alla fase della
verifica dei requisiti di partecipazione alla gara, il cui
eventuale accoglimento farebbe regredire il procedimento
alla fase appunto di ammissione, con grave spreco di tempo e
di energie lavorative, oltre al pericolo di perdita di
eventuali finanziamenti, il tutto nell'ottica dei principi
di efficienza, speditezza ed economicità, oltre che di
proporzionalità del procedimento di gara (Consiglio di
Stato, parere n. 782/2017 sul decreto correttivo al nuovo
codice degli appalti pubblici)”.
(4) Ha ricordato la Sezione che la valutazione favorevole circa le
giustificazioni dell'offerta sospetta di anomalia non
richiede un particolare onere motivazionale, mentre è
richiesta una motivazione più approfondita laddove
l'amministrazione ritenga di non condividere le
giustificazioni offerte dall'impresa, in tal modo
disponendone l'esclusione (Cons.
St., sez. V, 02.12.2015, n. 5450). Lo scostamento
del costo del lavoro rispetto ai valori ricavabili dalle
tabelle ministeriali o dai contratti collettivi, non può
comportare, di regola e di per sé, un automatico giudizio di
inattendibilità (Cons.
St., sez. V, 25.10.2017, n. 4912; id.,
sez. III, 14.05.2018, n. 2867).
I valori del costo del lavoro risultanti dalle tabelle
ministeriali costituiscono un semplice parametro di
valutazione della congruità dell'offerta, con la conseguenza
che l'eventuale scostamento delle voci di costo da quelle
riassunte nelle tabelle ministeriali non legittima di per sé
un giudizio di anomalia o di incongruità occorrendo, perché
possa dubitarsi della sua congruità, che la discordanza sia
considerevole e palesemente ingiustificata (Cons.
St., sez. III 27.04.2018 n. 2580; id.
18.09.2018, n. 5444).
Costituisce tuttavia vero e proprio ius receptum
l’affermazione secondo la quale il giudizio di anomalia si
risolve in un giudizio complessivo e globale sull'offerta
presentata, essendo il relativo sub-procedimento finalizzato
alla verifica dell'attendibilità e della serietà
dell’offerta ed all'accertamento dell'effettiva possibilità
dell'impresa di eseguire correttamente l'appalto alle
condizioni proposte.
Quanto infine al costo della manodopera, i valori del costo
del lavoro, risultanti dalle apposite tabelle ministeriali,
costituiscano un semplice parametro di valutazione della
congruità dell’offerta, con la conseguenza che l’eventuale
scostamento delle voci di costo da essi non legittima, di
per sé, un giudizio di anomalia.
L’art. 97, comma 5, d.lgs. n. 50 del 2016 prevede, peraltro,
che la stazione appaltante disponga l’esclusione
dell’offerta qualora accerti che il costo del personale è “inferiore
ai minimi salariali retributivi indicati nelle apposite
tabelle di cui all'articolo 23, comma 16” (TAR
Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 12.12.2018 n. 739
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EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini della legittimazione passiva del soggetto
destinatario dell’ordine di demolizione, l’art. 31 del d.P.R.
n. 380/2001 individua quali soggetti passivi della
demolizione sia colui o coloro i quali aventi il potere di
rimuovere concretamente l’abuso –potere-dovere che grava
sul proprietario– sia i soggetti che abbiano realizzato gli
abusi, su immobile poi alienato a terzi.
Il presupposto per l’adozione di un’ordinanza di ripristino
non è l'accertamento di responsabilità nella commissione
dell'illecito, bensì l’esistenza di una situazione dei
luoghi contrastante con quella prevista nella strumentazione
urbanistico-edilizia: sicché sia il soggetto che abbia la
titolarità a eseguire l’ordine ripristinatorio –ossia in
virtù del diritto dominicale il proprietario– che il
responsabile dell’abuso sono destinatari della sanzione
reale del ripristino dei luoghi e quindi legittimati attivi
all’impugnazione della sanzione.
D’altra parte, l’acquirente dell’immobile abusivo o del sedime
su cui è stato realizzato succede in tutti i rapporti
giuridici attivi e passivi relativi al bene ceduto facenti
capo al precedente proprietario, ivi compresa l’abusiva
trasformazione, subendo gli effetti sia del diniego di
sanatoria, sia dell’ingiunzione di demolizione
successivamente impartita, pur essendo l’abuso commesso
prima del passaggio di proprietà.
Da cui sortisce il presupposto di fatto –ossia la destinatarietà del provvedimento sanzionatorio–
della legittimazione attiva all’impugnazione sia del(l’ex)
proprietario alienante, esecutore delle opere che
del(l’attuale) proprietario acquirente che subisce gli
effetti dell’ordine di ripristino.
---------------
1. È appellata la sentenza del Tar Calabria, sezione staccata
di Catanzaro, n. 894/2017 di reiezione del ricorso
collettivamente proposto dai sig.ri An.Mi.,
Sa.Mi., Gi.Mi., Gi.Mi.,
avverso l’ordinanza di demolizione n. 82 del 28.06.2016
con la quale il Comune di Rende ha ordinato la demolizione
delle seguenti opere: “a) tettoia con struttura in tubi
innocenti e scatoloni di ferro e copertura con tegole
marsigliesi di circa 3,20 mt di larghezza e altezza da m
2,50 a 2,95; b) apertura con opere di consolidamento e
puntellamento di circa 14 cm che collega magazzino ad
officina; c) tettoia di misure perimetrali di circa 22,80 x
8,10 metri con superficie utile di mq 162,45".
2. Il Tar ha respinto tutti i motivi d’impugnazione,
segnatamente: ha ritenuto infondata la violazione degli artt.
7 e 8 legge n. 241/1990; ha considerato irrilevante, ai
sensi degli artt. 31 ss. del d.P.R. 380/2001, il fatto che
realizzazione della parte più consistente delle opere
(tettoia con misure perimetrali di circa 22,80 x 8,10 metri)
avesse conseguito in data 30.12.1981 la concessione edilizia
condizionata; ed infine ha respinto la censura che, in
ragione della vetustà delle opere in loco, rivendicava un
obbligo motivazionale rafforzato dell’ordinanza di
demolizione impugnata.
...
5.1 L’eccezione è infondata
Ai fini della legittimazione passiva del soggetto
destinatario dell’ordine di demolizione, l’art. 31 del d.P.R.
n. 380/2001 individua quali soggetti passivi della
demolizione sia colui o coloro i quali aventi il potere di
rimuovere concretamente l’abuso –potere-dovere che grava
sul proprietario– sia i soggetti che abbiano realizzato gli
abusi, su immobile poi alienato a terzi.
Il presupposto per l’adozione di un’ordinanza di ripristino
non è l'accertamento di responsabilità nella commissione
dell'illecito, bensì l’esistenza di una situazione dei
luoghi contrastante con quella prevista nella strumentazione
urbanistico-edilizia: sicché sia il soggetto che abbia la
titolarità a eseguire l’ordine ripristinatorio –ossia in
virtù del diritto dominicale il proprietario– che il
responsabile dell’abuso sono destinatari della sanzione
reale del ripristino dei luoghi e quindi legittimati attivi
all’impugnazione della sanzione.
5.2 D’altra parte, l’acquirente dell’immobile abusivo o del
sedime su cui è stato realizzato succede in tutti i rapporti
giuridici attivi e passivi relativi al bene ceduto facenti
capo al precedente proprietario, ivi compresa l’abusiva
trasformazione, subendo gli effetti sia del diniego di
sanatoria, sia dell’ingiunzione di demolizione
successivamente impartita, pur essendo l’abuso commesso
prima del passaggio di proprietà (cfr. Consiglio di Stato,
sez. V, 10.01.2007, n. 40).
5.3 Da cui sortisce il presupposto di fatto –ossia la destinatarietà del provvedimento sanzionatorio– della
legittimazione attiva all’impugnazione sia del(l’ex)
proprietario alienante, esecutore delle opere che
del(l’attuale) proprietario acquirente che subisce gli
effetti dell’ordine di ripristino (cfr., da ultimo, Cons.
Stato, sez. VI, 3210/2017) (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 11.12.2018 n. 6983 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Costruzioni abusive, titoli edilizi “atipici” e demolizione.
Quando si abbia una costruzione abusiva risalente nel tempo,
e vi sia il legittimo affidamento sulla permanenza della res
ingenerato dal comportamento tenuto dall’amministrazione, o
dal rilascio di un titolo edilizio ancorché atipico, allora
l’ordine di demolizione necessita di una ponderata
motivazione valutando gli opposti interessi alla
conservazione del bene e alla sua rimozione.
Il
rilascio del titolo edilizio condizionato, la cui efficacia
sia subordinata al verificarsi di una condizione sospensiva,
futura ed incerta, è ipso facto inammissibile.
----------------
Va condiviso in termini generali
l’orientamento a mente del quale la risalenza nel tempo
dell’opera, di per sé, non incide sul potere di repressione
dell’abuso da parte della P.A..
Vale a dire che di norma l’adozione dell’ordinanza di
demolizione non richiede “alcuna specifica valutazione delle
ragioni d'interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo
con gli interessi privati coinvolti e sacrificati e neppure
una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto e attuale alla demolizione, non essendo
configurabile alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di illecito permanente, che
il tempo non può legittimare in via di fatto”.
Tuttavia, nel caso in cui, oltre alla situazione
consolidatasi nel tempo, s’aggiunga –come nel caso di
specie– il legittimo affidamento sulla permanenza ed
utilizzazione della res abusiva ingenerato dal comportamento
tenuto dall’amministrazione o dal rilascio di un titolo
edilizio ancorché atipico, deve trovare applicazione il
principio dettato da Cons. Stato, ad. plen., 17.10.2017
n. 8.
Indirizzo giurisprudenziale, qui condiviso, in forza del
quale l’ordine di demolizione necessita di una ponderata
motivazione che dia conto della valutazione degli opposti
interessi: quello del titolare del bene alla conservazione
ed utilizzazione della res, risalente nel tempo e fatta
oggetto di un provvedimento autorizzativo mai rimosso, con
quello dell’amministrazione al ripristino illico et
immediate dell’assetto del territorio compromesso dalla
permanenza in loco dell’abuso.
---------------
1. È appellata la sentenza del Tar Calabria, sezione staccata
di Catanzaro, n. 894/2017 di reiezione del ricorso
collettivamente proposto dai sig.ri An.Mi.,
Sa.Mi., Gi.Mi., Gi.Mi.,
avverso l’ordinanza di demolizione n. 82 del 28.06.2016
con la quale il Comune di Rende ha ordinato la demolizione
delle seguenti opere: “a) tettoia con struttura in tubi
innocenti e scatoloni di ferro e copertura con tegole
marsigliesi di circa 3,20 mt di larghezza e altezza da m
2,50 a 2,95; b) apertura con opere di consolidamento e
puntellamento di circa 14 cm che collega magazzino ad
officina; c) tettoia di misure perimetrali di circa 22,80 x
8,10 metri con superficie utile di mq 162,45".
2. Il Tar ha respinto tutti i motivi d’impugnazione,
segnatamente: ha ritenuto infondata la violazione degli artt.
7 e 8 legge n. 241/1990; ha considerato irrilevante, ai
sensi degli artt. 31 ss. del d.P.R. 380/2001, il fatto che
realizzazione della parte più consistente delle opere
(tettoia con misure perimetrali di circa 22,80 x 8,10 metri)
avesse conseguito in data 30.12.1981 la concessione edilizia
condizionata; ed infine ha respinto la censura che, in
ragione della vetustà delle opere in loco, rivendicava un
obbligo motivazionale rafforzato dell’ordinanza di
demolizione impugnata.
...
6. Lo scrutinio di merito dei motivo d’appello richiede la
sintetica ricostruzione del quadro fattuale in cui
s’inscrive la vicenda dedotta in giudizio.
La tettoia realizzata con strutture modulari in ferro di
misure perimetrali di circa 22,80 x 8,10 metri con
superficie utile di mq 162,45 è risalente nel tempo. È
indiscusso che l’allora proprietario dell’area di sedime,
esecutore dell’opera, ottenne in data 30.12.1981 il
nulla-osta edilizio seppure condizionato all’eventuale
ordine di rimozione.
6.1 Ad di là del fatto che il rilascio del titolo edilizio
condizionato, la cui efficacia sia subordinata al
verificarsi di una condizione sospensiva, futura ed incerta,
è ipso facto inammissibile (da ultimo Cons. stato, sez. IV,
18.04.2018 n. 2366), non va passato sotto silenzio che
la tettoia, strumentale all’attività d’impresa, preesisteva
già a fare data dal 1981: tant’è che il Comune rilasciando
il titolo edilizio, seppure condizionato, ne ha
espressamente riconosciuto l’esistenza legittimandone
l’utilizzazione.
6.2 Quantunque vada condiviso in termini generali
l’orientamento, fatto proprio dal Tar con la sentenza
appellata, a mente del quale la risalenza nel tempo
dell’opera, di per sé, non incide sul potere di repressione
dell’abuso da parte della P.A..
Vale a dire che di norma l’adozione dell’ordinanza di
demolizione non richiede “alcuna specifica valutazione delle
ragioni d'interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo
con gli interessi privati coinvolti e sacrificati e neppure
una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto e attuale alla demolizione, non essendo
configurabile alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di illecito permanente, che
il tempo non può legittimare in via di fatto” (così, “ex multis”, Cons. di Stato, sez. VI, nn. 13 del 2015, 5792 del
2014 e 6702 del 2012).
6.3 Nondimeno, nel caso in cui, oltre alla situazione
consolidatasi nel tempo, s’aggiunga –come nel caso di
specie– il legittimo affidamento sulla permanenza ed
utilizzazione della res abusiva ingenerato dal comportamento
tenuto dall’amministrazione o dal rilascio di un titolo
edilizio ancorché atipico, deve trovare applicazione il
principio dettato da Cons. Stato, ad. plen., 17.10.2017
n. 8.
Indirizzo giurisprudenziale, qui condiviso, in forza del
quale l’ordine di demolizione necessita di una ponderata
motivazione che dia conto della valutazione degli opposti
interessi: quello del titolare del bene alla conservazione
ed utilizzazione della res, risalente nel tempo e fatta
oggetto di un provvedimento autorizzativo mai rimosso, con
quello dell’amministrazione al ripristino illico et
immediate dell’assetto del territorio compromesso dalla
permanenza in loco dell’abuso (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 11.12.2018 n. 6983 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Ordine
di demolizione impartito con la sentenza di condanna -
Sospensione o revoca - Domanda di sanatoria - Potere-dovere
di verifica del giudice dell'esecuzione - Controllo sulla
legittimità dell'atto concessorio.
In presenza di una domanda di sanatoria,
il giudice dell'esecuzione dispone di un ampio potere-dovere
di controllo sulla legittimità dell'atto concessorio sotto
il duplice profilo della sussistenza dei presupposti per la
sua emanazione e dei requisiti di forma e di sostanza
richiesti dalla legge per il corretto esercizio del potere
di rilascio.
Inoltre, è anche attribuita al giudice dell'esecuzione, con
riferimento alla mera pendenza di una richiesta di
sanatoria, la verifica dei possibili esiti e dei tempi di
definizione della procedura, compresa la rispondenza di
quanto autorizzato con le opere destinate alla demolizione,
con l'ulteriore precisazione che il rispetto dei principi
generali fissati dalla legislazione nazionale richiesto per
le disposizioni introdotte dalle leggi regionali riguarda
anche eventuali procedure di sanatoria. Nel caso di specie,
il giudice dell'esecuzione ha posto in evidenza la
insussistenza di elementi di fatto che consentissero di
ritenere sanato l'intervento edilizio abusivo.
...
Reati edilizi - Disposizioni introdotte da leggi regionali -
Rapporti tra la disciplina regionale e la normativa statale
- Artt. 36 e 45 del d.PR. n. 380/2001.
In tema di reati edilizi, in ogni caso,
le disposizioni introdotte da leggi regionali devono
rispettare i principi generali fissati dalla legislazione
nazionale e, conseguentemente, devono essere interpretate in
modo da non collidere con i detti principi.
Nella specie, in particolare, con riferimento alla
"speciale" sanatoria prevista, per taluni interventi,
dall'art. 18, comma quarto, della L.Reg. Sicilia 16.04.2003,
n. 4 , ritenendola inidonea a produrre l'effetto estintivo
del reato edilizio, in quanto questo, ai sensi del combinato
disposto degli artt. 36 e 45 del d.PR. 06.06.2001, n. 380,
consegue unicamente al rilascio della concessione o permesso
di costruire in sanatoria (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.12.2018 n. 55028 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI:
Cumulo di riti nel processo in materia di gara pubblica –
Affidabilità del concorrente con risoluzioni contrattuali.
---------------
●
Processo amministrativo – Rito appalti - Cumulo di rito
ordinario appalti e di rito super accelerato – Applicabilità
del rito ordinario.
●
Contratti della Pubblica amministrazione – Bando –
Vincolatività anche per la stazione appaltante – Chiarimenti
“neutri” – Possibilità.
●
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla
gara – Risoluzione contrattuale – Omessa esclusione –
Motivazione specifica – Necessità.
●
In casi di cumulo di rito ordinario appalti e di rito super
accelerato trova applicazione il rito ordinario (1).
●
Se la Stazione appaltante non può discostarsi dalle regole
da essa stessa fissate e alle quali si è autovincolata e
nemmeno può interpretare le suddette regole in modo
palesemente contrario al suo chiaro tenore testuale,
tuttavia, può intervenire nei casi in cui il chiarimento
rivesta caratteri di “neutralità” rispetto ai contenuti del
bando ed alla partecipazione alla gara e costituisca una
sorta di interpretazione autentica con cui la stessa
Stazione appaltante chiarisce la propria volontà
provvedimentale, in un primo momento poco intellegibile,
precisando o meglio delucidando le previsioni della lex
specialis (2).
●
La stazione appaltante che ammette il concorrente
in relazione al quale ci sono state risoluzioni contrattuali
e penali deve motivare in ordine alla valutazione compiuta
sulla moralità professionale della società (3).
---------------
(1)
Il Tar ha dato atto che allorché vengono introdotte nel
giudizio domande soggette asseritamente al rito
super-speciale e domande sottoposte all’ordinario rito
appalti, è possibile, per ragioni di economia processuale ed
anche al fine di evitare decisioni contrastanti, che i
relativi motivi di doglianza siano esaminati nell’ambito di
un unico e simultaneo giudizio da svolgersi secondo le forme
e i termini del rito ordinario, che, in base ai principi
processuali di carattere generale desumibili anche dall’art.
32, comma 1, c.p.a., deve trovare sempre prevalente
applicazione, essendo quello che assicura maggiori garanzie
di difesa (Cons. St., sez. V, 23.03.2018, n. 1854); a
suffragio di tale opzione (in senso conforme
Tar Bari sez. I, 07.12.2016, n. 1367; id.,
sez. III, 14.04.2017, n. 394;
Cons. St., sez. V, 28.02.2018, n. 1216), occorre
considerare che se la ratio legis del nuovo rito “superaccelerato”
è quella di consentire la pronta definizione del giudizio
prima che si giunga al provvedimento di aggiudicazione e,
quindi, definire la platea dei soggetti ammessi alla gara in
un momento antecedente anche all’esame delle offerte ed alla
conseguente aggiudicazione (Cons.
St., parere n. 855/2016 sul codice degli appalti)
-da qui l’imposizione di censurare l’altrui partecipazione
anche senza averne “interesse”- tale ratio viene meno
allorquando, come nel caso di specie, sia sopraggiunta
l’aggiudicazione (nel caso a pochi giorni dall’ammissione
delle offerte), venendo pertanto meno i presupposti logici
dell’operatività del rito superaccelerato e l’eccezionale
irrilevanza dell’interesse ai fini dell’azione.
(2) Ha chiarito il Tar che in tali casi i chiarimenti operano a
beneficio di tutti e —laddove trasparenti, tempestivi,
ispirati al principio del favor partecipationis e
resi pubblici— non comportano, se giustificati da
un'oggettiva incertezza della legge di gara, alcun
pregiudizio per gli aspiranti offerenti, tale da rendere
preferibile, a dispetto del principio di economicità, l'autoannullamento
del bando e la sua ripubblicazione (Tar
Napoli, sez. IV, 28.08.2018, n. 5292).
(3) Ha affermato il Tar che fermo restando che i fatti dichiarati
di cui si discute (relativi a precedenti risoluzioni
contrattuali e penali, alcune delle quali non contestate)
non possono comportare un’esclusione con carattere
automatico (importando, invece, ai fini di un’eventuale
esclusione, specie in caso di contestazioni, un obbligo di
motivazione rafforzata per l’amministrazione) e tenuto conto
che l’amministrazione non può certo essere tenuta a motivare
analiticamente le ragioni per cui non ritenga i singoli
fatti dichiarati rilevanti e gravi (o meno) ai sensi
dell’art. 80, comma 5, lett. c), del Codice dei contratti
l’assoluta mancanza di qualsiasi riferimento nel verbale di
ammissione alla compiuta valutazione degli stessi e ad una
sia pure sintetica motivazione della loro non rilevanza o
comunque del percorso logico che ha consentito alla
commissione di concludere per l’ammissione, sia pure a
fronte di “10 tra esclusioni e/o risoluzioni contrattuali
e/o penali per inadempimento”, nel caso in esame non
consentono all’operatore economico che abbia interesse ad
impugnare la ammissione e a questo Tribunale di accertare se
la doverosa valutazione vi sia stata e se la stessa sia
affetta da macroscopica illogicità, impedendone uno
scrutinio in sede di giudizio (TAR
Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 10.12.2018 n. 2335 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La
violazione del patto di stabilità non travolge il contratto stipulato se il
bando è dell'anno precedente.
La violazione del pareggio di bilancio inibisce le assunzioni nell'anno
successivo in mancanza del suo raggiungimento. Tuttavia, in presenza di un
bando di concorso che successivamente abbia individuato il vincitore, a
quest'ultimo non si applica la sanzione prevista dalla normativa anche se il
contratto individuale di lavoro viene stipulato nell'anno successivo.
Queste sono le chiare indicazioni della Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
ordinanza 07.12.2018 n. 31757.
Il caos sull'assunzione
Un Comune ha indetto una procedura concorsuale nell'anno 2004, individuando
successivamente la vincitrice del concorso (nel caso di specie un'assistente
sociale) con la quale ha stipulato all'inizio dell'anno 2005 il relativo
contratto individuale di lavoro. A seguito del mancato rispetto del patto di
stabilità, l'ente ha annullato l'assunzione in quanto, a suo dire, in
violazione della norma imperativa che stabilisce il divieto di assunzione
previsto dalla regola violata.
Sia il Tribunale sia la Corte d’appello adita
dal Comune, hanno confermato l'obbligo dell’ente di procedere all'assunzione
della vincitrice del concorso quantificando le differenze retributive dovute
dalla data con la quale la donna aveva reclamato l'assunzione e non da
quella precedente dell'approvazione della graduatoria.
Il Comune ha proposto ricorso in Cassazione evidenziando la nullità del
contratto stipulato in quanto effettuato in violazione di norma imperativa
che imponeva all'ente locale, non rispettoso del patto di stabilità, il
divieto di assunzioni di personale. In altri termini, secondo l'ente, la
Corte d’appello avrebbe dovuto valutare se l'Amministrazione, nell'esercizio
dell'autotutela (articolo 21-nonies della legge 241/1990), con l'adozione
dell'atto di risoluzione, avesse optato per la soluzione che meglio
contemperava la necessità del ripristino della legittimità e la salvezza dei
diritti della vincitrice, potendosi al più pervenire non alla ricostituzione
del rapporto di lavoro ma a una misura risarcitoria.
La conferma dei giudici di legittimità
I giudici della Cassazione, nel confermare la sentenza, hanno individuato
l'errore in cui è incorso l'ente nell'aver pensato che l'apparato
sanzionatorio si verificasse nell'anno della stipula del contratto
individuale e non nella data di offerta al pubblico dell'indizione del
concorso, il cui risultato resta obbligatoriamente ancorato a quella data,
mentre la violazione del patto di stabilità blocca tutte le assunzioni
decise nel successivo anno di riferimento, inibendo l'ente di emettere
ulteriori concorsi in quell’anno.
Pertanto, essendo il concorso indetto
precedentemente alla riscontrata violazione del patto di stabilità l'ente
non aveva alcun potere di retroagire nell'anno precedente e annullare le
assunzioni effettuate.
La Cassazione conferma, inoltre, che le differenze retributive reclamate
dalla ricorrente incidentale decorrono dalla sola data di manifestazione di
interesse all'assunzione intimata dalla vincitrice, che essendo avvenuta
nell'anno 2007 non permettono al giudice di far retroagire la retribuzione
alla data di formulazione della graduatoria del concorso
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 13.12.2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nella vigenza dell'art. 21-nonies, l. 07.08.1990, n.
241 –introdotto dalla l. 11.02.2005, n. 15– l’annullamento
d’ufficio di un titolo edilizio intervenuto (anche) ad una
distanza temporale considerevole dal provvedimento annullato
«deve essere motivato in relazione alla sussistenza di un
interesse pubblico concreto e attuale all'adozione dell'atto
di ritiro anche tenuto conto degli interessi dei privati
destinatari del provvedimento sfavorevole.
In tali ipotesi, tuttavia, deve ritenersi:
a) che il mero decorso del tempo, di per sé solo, non consumi il
potere di adozione dell'annullamento d'ufficio e che, in
ogni caso, il termine ‘ragionevole' per la sua adozione
decorra soltanto dal momento della scoperta, da parte
dell'amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a
fondamento dell'atto di ritiro;
b) che l'onere motivazionale gravante sull'amministrazione
risulterà attenuato in ragione della rilevanza e
autoevidenza degli interessi pubblici tutelati (al punto
che, nelle ipotesi di maggior rilievo, esso potrà essere
soddisfatto attraverso il richiamo alle pertinenti
circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela
che risultano in concreto violate, che normalmente possano
integrare, ove necessario, le ragioni di interesse pubblico
che depongano nel senso dell'esercizio del ius poenitendi);
c) che la non veritiera prospettazione da parte del privato delle
circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento
dell'atto illegittimo a lui favorevole non consente di
configurare in capo a lui una posizione di affidamento
legittimo, con la conseguenza per cui l'onere motivazionale
gravante sull'amministrazione potrà dirsi soddisfatto
attraverso il documentato richiamo alla non veritiera
prospettazione di parte».
---------------
1. Gli odierni appellanti impugnavano innanzi al TAR per la
Puglia il provvedimento prot. n. 12257 del 30.12.2008, con
cui il Comune di Sammichele di Bari aveva annullato in
autotutela il permesso di costruire n. 39/06, rilasciato il
18.01.2008 per la realizzazione di un edificio per civile
abitazione, in territorio comunale alla via ... (ex S.S.
100), identificata nel Catasto Terreni al Foglio n. 6, p.lle
384, 473, 255 e 366.
Il ritiro in autotutela si fondava su due ordini di ragioni:
a) la superficie del lotto interessato dichiarata e indicata in
atto notarile sarebbe risultata superiore a quella
catastale, determinando «[…] una evidente discrasia
derivante dalla “non corrispondenza” con la realtà e con la
“restituzione” del rilievo catastale […] Ed inoltre vi è una
consistente quota di suolo che la ditta sostiene faccia
parte del suolo su cui dovrà sorgere l’immobile che, oltre a
non possedere alcun identificativo catastale, mal si allinea
con i riferimenti circostanti; […]»; nel provvedimento
si soggiungeva altresì che il rilascio del permesso di
costruire fosse stato determinato dalla «produzione della
TAV 1 (varie scale grafiche) che ha indotto in errore
l’ufficio nell’istruttoria della pratica edilizia […]»;
b) il progetto avrebbe realizzato una traslazione della fascia di
rispetto stradale rilevante ai fini dell’esatto
posizionamento dell’erigendo fabbricato rispetto al ciglio
della strada.
...
10.1. Per quanto concerne il corretto governo dell’esercizio
del poter di autotutela –in disparte la comprovata
illegittimità dell’originario permesso di costruire per
effetto del carattere esorbitante delle volumetria
originariamente autorizzata- appare sufficiente rinviare ai
principi sanciti dalla decisione n. 8 del 2017 di cui
all’Adunanza plenaria di questo Consiglio, secondo cui,
nella vigenza dell'art. 21-nonies, l. 07.08.1990, n. 241
–introdotto dalla l. 11.02.2005, n. 15– l’annullamento
d’ufficio di un titolo edilizio intervenuto (anche) ad una
distanza temporale considerevole dal provvedimento annullato
«deve essere motivato in relazione alla sussistenza di un
interesse pubblico concreto e attuale all'adozione dell'atto
di ritiro anche tenuto conto degli interessi dei privati
destinatari del provvedimento sfavorevole. In tali ipotesi,
tuttavia, deve ritenersi:
a) che il mero decorso del tempo, di per sé solo, non consumi il
potere di adozione dell'annullamento d'ufficio e che, in
ogni caso, il termine ‘ragionevole' per la sua adozione
decorra soltanto dal momento della scoperta, da parte
dell'amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a
fondamento dell'atto di ritiro;
b) che l'onere motivazionale gravante sull'amministrazione
risulterà attenuato in ragione della rilevanza e
autoevidenza degli interessi pubblici tutelati (al punto
che, nelle ipotesi di maggior rilievo, esso potrà essere
soddisfatto attraverso il richiamo alle pertinenti
circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela
che risultano in concreto violate, che normalmente possano
integrare, ove necessario, le ragioni di interesse pubblico
che depongano nel senso dell'esercizio del ius poenitendi);
c) che la non veritiera prospettazione da parte del privato delle
circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento
dell'atto illegittimo a lui favorevole non consente di
configurare in capo a lui una posizione di affidamento
legittimo, con la conseguenza per cui l'onere motivazionale
gravante sull'amministrazione potrà dirsi soddisfatto
attraverso il documentato richiamo alla non veritiera
prospettazione di parte».
Nel caso di specie, il “ripensamento”
dell’amministrazione è intervenuto pochi mesi dopo
l’adozione del rilascio del permesso di costruire, a fronte
di una prospettazione di parte che non rappresentava
correttamente l’area di intervento, sicché nessun
affidamento poteva dirsi consolidato in capo agli istanti.
10.2 Non miglior sorte meritano i rilievi circa le modalità
e i tempi con cui il Comune resistente ha proceduto ad
esercitare le proprie funzioni in materia di catasto.
Essi, invero, risultano inconferenti ai fini di cui trattasi
in quanto, come sopra ricordato -e come messo in luce dagli
stessi appellanti- i dati catastali determinano
esclusivamente una presunzione che deve essere vinta dai
rivendicanti (Cass. civ., Sez. II, 24.04.2018, n. 10062), o
comunque da chi agisce per fare accertare un diritto (e/o
interesse) «che trovi il proprio fondamento nel diritto
di proprietà tutelato erga omnes, del quale occorre quindi
che venga data la piena dimostrazione» (Cass. Civ. Sez.
II, 18.01.2017, n. 1210) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 07.12.2018 n. 6922 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il vincolo cimiteriale, di cui all'art. 338 r.d.
27.07.1934, n. 1265, come modificato
dall'art. 4 l. 30.03.2001, n. 130 e, poi, dall'art. 28,
comma 1, lett. a), l. 01.08.2002, n. 166, è un vincolo
di natura assoluta.
Esso si impone, in quanto limite
legale, al momento di ogni valutazione di rilascio di titoli
edilizi, in relazione alle sue finalità di tutela di
preminenti esigenze igienico-sanitarie, a salvaguardia della
sacralità dei luoghi di sepoltura, conservazione di adeguata
area di espansione della cinta cimiteriale.
Sicché, la
sussistenza del vincolo va valutata in ogni caso al momento
del rilascio del titolo edilizio, cosa che nel caso di
specie è stato correttamente effettuato, e questo a
prescindere dall’epoca di realizzazione del manufatto.
Tale vincolo non consente in alcun modo l'allocazione sia di
edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo,
in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la
fascia di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di
natura igienico sanitaria, la salvaguardia della peculiare
sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione e
alla sepoltura, il mantenimento di un'area di possibile
espansione della cinta cimiteriale.
---------------
5. Il ricorso va respinto.
Al di là dell’aver impugnato anche gli atti interni alla
procedura di assenso dell’istanza, la doglianza della
società ha riguardo al mancato assenso rispetto all’istanza
di permesso di costruire per il rifacimento del padiglione
sito nell’area in questione e risalente, secondo la parte,
agli anni ’30 del secolo scorso.
La parte sostiene che esso sia “verosimilmente precedente al
R.D. n. 1265 del 27.07.1934 impositivo del vincolo
previsto dall'art. 338 ovvero del divieto di costruire nuovi
edifici o di ampliare quelli preesistenti entro il raggio di
200 metri interno aree cimiteriali”.
Pertanto, stante la preesistenza, in applicazione dell’art.
28 della l. 166/2002, un intervento di recupero e/o
funzionale, avrebbe dovuto essere consentito.
5.1. Il Collegio ritiene che il vincolo cimiteriale, di cui
all'art. 338 r.d. 27.07.1934, n. 1265, come modificato
dall'art. 4 l. 30.03.2001, n. 130 e, poi, dall'art. 28,
comma 1, lett. a), l. 01.08.2002, n. 166, sia un vincolo
di natura assoluta e che esso si imponga, in quanto limite
legale, al momento di ogni valutazione di rilascio di titoli
edilizi, in relazione alle sue finalità di tutela di
preminenti esigenze igienico-sanitarie, a salvaguardia della
sacralità dei luoghi di sepoltura, conservazione di adeguata
area di espansione della cinta cimiteriale.
È quindi corretta la tesi della difesa comunale per cui la
sussistenza del vincolo va valutata in ogni caso al momento
del rilascio del titolo edilizio, cosa che nel caso di
specie è stato correttamente effettuato, e questo a
prescindere dall’epoca di realizzazione del manufatto.
In termini, si veda TAR Napoli, (Campania) sez. III,
02/07/2018, n. 4351, che ribadisce che tale vincolo non
consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, sia di
opere incompatibili con il vincolo medesimo, in
considerazione dei molteplici interessi pubblici che la
fascia di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di
natura igienico sanitaria, la salvaguardia della peculiare
sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione e
alla sepoltura, il mantenimento di un'area di possibile
espansione della cinta cimiteriale (vedi anche Cass., sez.
I, 20.12.2016 n. 26326; Cons. St., sez. IV, 13.12.2017 n. 5873; Cons. St., sez. VI,
09.03.2016 n.
949; TAR Campania, Napoli, sez. III, n. 5036 del 2013) (TAR
Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 06.12.2018 n. 6996 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non necessita il titolo edilizio abilitativo in ordine ad un
pergolato se amovibile e quale mero elemento di arredo di
uno spazio esterno.
La realizzazione di un pergolato in
struttura leggera, con copertura filtrante (costituita da
essenze arboree secondo il progetto originario e da una ‘incannucciata’)
e facilmente amovibile non è, all’evidenza, riconducibile alle
categorie edilizie della nuova costruzione o della
ristrutturazione ‘pesante’, esulanti dal regime abilitativo
della c.d. d.i.a. (ora s.c.i.a.) semplice (distinta dalla
c.d. super d.i.a., ora s.c.i.a.).
In questo senso, è da considerarsi, appunto, a guisa di
semplice pergolato, ossia di mero arredo di uno spazio
esterno, non comportante aumento di volumetria o superficie
utile, e, quindi, non assoggettato al regime abilitativo del
permesso di costruire (o della c.d. super d.i.a., ora
s.c.i.a.), un simile manufatto realizzato in struttura
leggera facilmente amovibile (siccome privo di fondamenta),
che funge da sostegno per piante rampicanti, teli o
equivalenti coperture filtranti, il cui aspetto
caratteristico risiede nella mancanza di pareti e di
copertura impermeabile e che realizza una ombreggiatura di
superfici di modeste dimensioni, destinate ad uno del tutto
momentaneo.
---------------
1. Con ricorso notificato il 03.10.2013 e depositato il
28.10.2013, Ma.An., Ra.Ca. e Al.An. impugnavano, chiedendone l’annullamento:
- la d.i.a.
del 14.12.2010, prot. n. 11448, presentata da
Sa.An. al Comune di Amalfi ed avente per oggetto
la realizzazione di una struttura metallica amovibile a
sostegno di essenze arboree su un terrazzo a livello presso
l’immobile ubicato in Amalfi, località S. Antonio, via ..., e censito in catasto al foglio 9, particelle 71/4
e 166/5;
- il parere favorevole della Commissione
paesaggistica del Comune di Amalfi di cui al verbale di
seduta n. 6/3 del 24.02.2011;
- la nota del
Responsabile dell’Ufficio Tecnico comunale di Amalfi prot.
n. 2438 del 14.03.2011;
- la variante del 22.01.2013, prot. n. 645, alla d.i.a. del 14.12.2010, prot.
n. 11448;
- il parere favorevole espresso il 07.03.2013
dalla commissione paesaggistica del Comune di Amalfi; - la
nota del Responsabile del Servizio Tutela del Paesaggio del
Comune di Amalfi prot. n. 2377 del 20.03.2013;
- il
parere favorevole della Soprintendenza per i Beni
Architettonici e Paesaggistici di Salerno e Avellino prot.
n. 10617 del 15.04.2013;
- l’autorizzazione
paesaggistica prot. n. 6278 dell’08.08.2013, rilasciata
dal Responsabile del Servizio Tutela del Paesaggio del
Comune di Amalfi.
...
12. Parimenti a ripudio delle tesi propugnate da parte
ricorrente, la realizzazione di un pergolato in struttura
leggera, con copertura filtrante (costituita da essenze
arboree secondo il progetto originario e da una
‘incannucciata’ secondo la eseguita variante) e facilmente
amovibile –quale, appunto, quello controverso, così come
riprodotto nella documentazione grafica e fotografica
esibita in giudizio, ritraente e comprovante anche la sua
rapida rimozione– non è, all’evidenza, riconducibile alle
categorie edilizie della nuova costruzione o della
ristrutturazione ‘pesante’, esulanti dal regime abilitativo
della c.d. d.i.a. (ora s.c.i.a.) semplice (distinta dalla
c.d. super d.i.a., ora s.c.i.a.).
In questo senso, è da considerarsi, appunto, a guisa di
semplice pergolato, ossia di mero arredo di uno spazio
esterno, non comportante aumento di volumetria o superficie
utile, e, quindi, non assoggettato al regime abilitativo del
permesso di costruire (o della c.d. super d.i.a., ora
s.c.i.a.), un simile manufatto realizzato in struttura
leggera facilmente amovibile (siccome privo di fondamenta),
che funge da sostegno per piante rampicanti, teli o
equivalenti coperture filtranti, il cui aspetto
caratteristico risiede nella mancanza di pareti e di
copertura impermeabile (cfr. TAR Lombardia, Brescia, sez. I,
17.11.2010, n. 4638) e che realizza una ombreggiatura
di superfici di modeste dimensioni, destinate ad uno del
tutto momentaneo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 29.09.2011, n. 5409; sez. VI, 27.04.2015, n. 2134;
08.05.2018, n. 2743; TAR Puglia, Bari, sez. III, 06.02.2009,
n. 222; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 17.11.2010, n.
4638; 29.08.2012, n. 1481; TAR Campania, Napoli, sez. VIII,
05.02.2015, n. 908) (TAR Campania-Salerno, Sez.
II,
sentenza 06.12.2018 n. 1761 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Esclusione
per l'appaltatore che non «svincola» l’offerta prima dell'aggiudicazione
definitiva
Il vincolo sul mantenimento dell'offerta, per 180 giorni dalla scadenza dei
termini per la presentazione, salvo diversa disposizione, non è soggetto a
decadenza e l'appaltatore che non intendesse stipulare il contratto deve
obbligatoriamente comunicarlo alla stazione appaltante prima del
perfezionamento dell'aggiudicazione definitiva.
In questo senso si è espresso il TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza
06.12.2018 n. 1556.
Il vincolo temporale sull'offerta
Con il caso sottoposto al giudice pugliese, il ricorrente ha impugna il
provvedimento di esclusione –di una gara già aggiudicata- per non aver
provveduto al deposito della documentazione richiesta dal responsabile unico
al fine di procedere alla stipula del contratto.
Secondo la parte
ricorrente, la propria offerta non era da ritenersi più vincolante, in
quanto «all'atto dell'aggiudicazione definitiva, risultava scaduto il
termine» dei 180 giorni previsto dalla norma contenuta nel comma 4
dell'articolo 32 del codice dei contratti (sempre che non sia stato
diversamente stabilito dalla stazione appaltate o diversamente concordato
tra le parti) «con conseguente possibilità per l'impresa di esercitare la
facoltà di svincolo prevista dal comma 8 del predetto art. 32».
Secondo
l'appaltatore la decisione di non stipulare il contratto non doveva essere
attribuita a una propria negligenza e/o a propri inadempimenti ma imputabile
«esclusivamente ai ritardi della stazione appaltante maturati nella fase di
approvazione dell'aggiudicazione definitiva».
L'esigenza dell'annullamento del provvedimento di esclusione, sempre secondo
parte ricorrente, è stata fondata sull'interesse «alla tutela della
“reputazione” dell'impresa».
La decisione
Il giudice non ha condiviso l'impostazione demolitoria della parte
ricorrente. In particolare, il dato significativo in tema è proprio quello
contenuto nel comma 4 dell'articolo 32 del codice dei contratti. Il comma
infatti dispone che «nelle gare d'appalto l'offerta del concorrente è
vincolante per il periodo indicato nel bando e, in caso di mancata
indicazione, per 180 giorni decorrenti dalla scadenza del termine per la sua
presentazione, salvo che la Stazione appaltante chieda ai concorrenti il
differimento di tale termine».
La previsione non configura una ipotesi di decadenza ex lege –come ritenuto
dal ricorrente- collegata al semplice decorso del termine dei 180 giorni ma
esige che l'appaltatore dichiari (e comunichi tempestivamente alla stazione
appaltante) la decisione di “svincolarsi” dagli obblighi connessi alla
presentazione dell'offerta prima dell'approvazione dell'aggiudicazione
definitiva. Con la logica conseguenza che «se l'offerente non dichiara
tempestivamente (alla scadenza del predetto termine di 180 giorni, ma prima
dell'approvazione dell'aggiudicazione definitiva) di ritenersi sciolto
dall'offerta, la stessa non decade».
Nel caso di specie, la comunicazione in argomento risultava effettuata dopo
il perfezionamento dell'aggiudicazione di conseguenza, il rifiuto di
produrre la documentazione richiesta e di addivenire alla stipula del
contratto ha fondato legittimamente il provvedimento di esclusione. Lo
stesso bando di gara indicava chiaramente le conseguenze in caso di rifiuto
“imputabile” di procedere con la stipula del contratto.
Del resto, ha
concluso il giudice, nel caso di specie non è neppure rinvenibile una
lesione degli interessi dell'appaltatore considerato che la stazione
appaltante ha provveduto alla esclusione senza gli ulteriori corollari quali
la comunicazione all'Anac e l'escussione della cauzione provvisoria
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 21.12.2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
In generale, quanto alla natura del vincolo di inedificabilità
previsto dal comma 1, dell’art. 338 cit., la giurisprudenza
consolidata di questo Consiglio ha affermato che:
a) il vincolo cimiteriale determina una situazione di
inedificabilità ex lege e integra una limitazione legale
della proprietà a carattere assoluto, direttamente incidente
sul valore del bene e non suscettibile di deroghe di fatto,
tale da configurare in maniera obbiettiva e rispetto alla
totalità dei soggetti il regime di appartenenza di una
pluralità indifferenziata di immobili che si trovino in un
particolare rapporto di vicinanza o contiguità con i
suddetti beni pubblici;
b) il vincolo ha carattere assoluto e non consente in alcun
modo l'allocazione sia di edifici, sia di opere
incompatibili con il vincolo medesimo, in considerazione dei
molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto
intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico
sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che
connota i luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura,
il mantenimento di un'area di possibile espansione della
cinta cimiteriale;
c) il vincolo, d’indole conformativa, è sganciato dalle
esigenze immediate della pianificazione urbanistica, e
rileva di per sé, con efficacia diretta, indipendentemente
da qualsiasi recepimento in strumenti urbanistici, i quali
non sono idonei, proprio per la loro natura, ad incidere
sulla sua esistenza o sui suoi limiti; esso si impone alla
pianificazione comunale anche modificandola ex lege, qualora
non sia stato espressamente recepito nello strumento
urbanistico, e, in ragione della sua natura assoluta esso
opera come limite legale, anche nei confronti delle
eventuali diverse e contrastanti previsioni degli strumenti
urbanistici.
--------------
Numerose sono anche le pronunce che hanno individuato la
portata e i limiti delle modifiche apportate all’art. 338
cit. dalla novella del 2002, rispetto alle richieste di
privati.
Si è condivisibilmente affermato che:
a) la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è
suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e
comunque solo per considerazioni di interesse pubblico, in
presenza delle condizioni specificate nell'art. 338, quinto
comma, essendo norma eccezionale e di stretta
interpretazione non posta a presidio di interessi privati;
con la conseguenza che la procedura di riduzione della
fascia inedificabile resta attivabile nel solo interesse
pubblico, come valutato dal legislatore nell’elencazione
delle opere ammissibili;
b) il procedimento attivabile dai singoli proprietari
all'interno della zona di rispetto è soltanto quello
finalizzato agli interventi di cui al settimo comma
dell’art. 338, (recupero o cambio di destinazione d'uso di
edificazioni preesistenti);
c) che l’art. 338, come modificato nel 2002, prevede deroghe
ad iniziativa del Consiglio Comunale, e consente la
riduzione, a determinate condizioni, della zona di rispetto
per scelta dell’amministrazione:
- per la costruzione di
nuovi cimiteri o per l’ampliamento di cimiteri esistenti
(comma 4);
- per la costruzione di opere pubbliche o per un
intervento urbanistico, ai fini di ampliamento di edifici
preesistenti (ragionevolmente fuori dalla fascia o dentro la
fascia ma non abusivi, per esempio per essere stati
costruiti prima del vincolo) o per la costruzione di nuovi
edifici (comma 5).
Sono consentiti, all’interno della zona di rispetto,
interventi per edifici esistenti, dentro la fascia (ma non
abusivi, per esempio per essere stati costruiti prima del
vincolo), cambio di destinazione d’uso ecc. (comma 7).
---------------
Dall’assolutezza del principio generale (comma 1) e dal
carattere stringente ed eccezionale delle deroghe (commi 4,
5 e 7), discende la necessità di un’interpretazione
altrettanto restrittiva dell’espressione “interventi
urbanistici……per la costruzione di nuovi edifici” presente
nel comma 5. La tutela dei molteplici interessi pubblici che
il vincolo generale presidia impone che i possibili
interventi urbanistici ai quali il legislatore ha inteso
fare riferimento siano solo quelli pubblici o comunque
aventi rilevanza almeno pari a quelli posti a base della
fascia di rispetto di duecento metri (cfr. da ultimo Cons.
Stato, sez. VI, n. 4018 del 2018, che ha riconosciuto la
deroga per un parcheggio pubblico al servizio del cimitero).
---------------
7.1. In generale, quanto alla natura del vincolo di inedificabilità
previsto dal comma 1, dell’art. 338 cit., la giurisprudenza
consolidata di questo Consiglio (da ultimo riassunta in
Cons. Stato sez. VI, n. 4018 e n. 1164 del 2018; sez. IV, n.
5873 del 2017) ha affermato che:
a) il vincolo cimiteriale determina una situazione di
inedificabilità ex lege e integra una limitazione legale
della proprietà a carattere assoluto, direttamente incidente
sul valore del bene e non suscettibile di deroghe di fatto,
tale da configurare in maniera obbiettiva e rispetto alla
totalità dei soggetti il regime di appartenenza di una
pluralità indifferenziata di immobili che si trovino in un
particolare rapporto di vicinanza o contiguità con i
suddetti beni pubblici;
b) il vincolo ha carattere assoluto e non consente in alcun
modo l'allocazione sia di edifici, sia di opere
incompatibili con il vincolo medesimo, in considerazione dei
molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto
intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico
sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che
connota i luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura,
il mantenimento di un'area di possibile espansione della
cinta cimiteriale;
c) il vincolo, d’indole conformativa, è sganciato dalle
esigenze immediate della pianificazione urbanistica, e
rileva di per sé, con efficacia diretta, indipendentemente
da qualsiasi recepimento in strumenti urbanistici, i quali
non sono idonei, proprio per la loro natura, ad incidere
sulla sua esistenza o sui suoi limiti; esso si impone alla
pianificazione comunale anche modificandola ex lege, qualora
non sia stato espressamente recepito nello strumento
urbanistico, e, in ragione della sua natura assoluta esso
opera come limite legale, anche nei confronti delle
eventuali diverse e contrastanti previsioni degli strumenti
urbanistici.
7.2. Numerose sono anche le pronunce che hanno individuato
la portata e i limiti delle modifiche apportate all’art. 338
cit. dalla novella del 2002, rispetto alle richieste di
privati (Cons. Stato sez. IV, n. 2407 del 2018; sez. VI, n.
4018 del 2018; sez. IV, n. 4656 del 2017; sez. VI, n. 3667
del 2015; nn. 3410 e 1317 del 2014).
Si è condivisibilmente affermato che:
a) la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è
suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e
comunque solo per considerazioni di interesse pubblico, in
presenza delle condizioni specificate nell'art. 338, quinto
comma, essendo norma eccezionale e di stretta
interpretazione non posta a presidio di interessi privati;
con la conseguenza che la procedura di riduzione della
fascia inedificabile resta attivabile nel solo interesse
pubblico, come valutato dal legislatore nell’elencazione
delle opere ammissibili;
b) il procedimento attivabile dai singoli proprietari
all'interno della zona di rispetto è soltanto quello
finalizzato agli interventi di cui al settimo comma
dell’art. 338, (recupero o cambio di destinazione d'uso di
edificazioni preesistenti);
c) che l’art. 338, come modificato nel 2002, prevede deroghe
ad iniziativa del Consiglio Comunale, e consente la
riduzione, a determinate condizioni, della zona di rispetto
per scelta dell’amministrazione:
- per la costruzione di
nuovi cimiteri o per l’ampliamento di cimiteri esistenti
(comma 4);
- per la costruzione di opere pubbliche o per un
intervento urbanistico, ai fini di ampliamento di edifici
preesistenti (ragionevolmente fuori dalla fascia o dentro la
fascia ma non abusivi, per esempio per essere stati
costruiti prima del vincolo) o per la costruzione di nuovi
edifici (comma 5).
Sono consentiti, all’interno della zona di rispetto,
interventi per edifici esistenti, dentro la fascia (ma non
abusivi, per esempio per essere stati costruiti prima del
vincolo), cambio di destinazione d’uso ecc. (comma 7).
7.3. Dall’assolutezza del principio generale (comma 1) e dal
carattere stringente ed eccezionale delle deroghe (commi 4,
5 e 7), discende la necessità di un’interpretazione
altrettanto restrittiva dell’espressione “interventi
urbanistici……per la costruzione di nuovi edifici” presente
nel comma 5. La tutela dei molteplici interessi pubblici che
il vincolo generale presidia impone che i possibili
interventi urbanistici ai quali il legislatore ha inteso
fare riferimento siano solo quelli pubblici o comunque
aventi rilevanza almeno pari a quelli posti a base della
fascia di rispetto di duecento metri (cfr. da ultimo Cons.
Stato, sez. VI, n. 4018 del 2018, che ha riconosciuto la
deroga per un parcheggio pubblico al servizio del cimitero).
7.4. In applicazione dei suddetti principi, l’intervento
progettato nella fascia di rispetto di 200 metri e
consistente nella realizzazione di una struttura
turistico-ricettiva, non rientra tra quelli per i quali
l’eccezione è consentita.
Né, per addivenire ad una diversa conclusione, rileva la
richiamata giurisprudenza –di per sé non pertinente- in
tema di rilascio di concessioni edilizie in deroga,
richiamata dal giudice di primo grado per sostenere la
sussistenza di un interesse pubblico per gli insediamenti
produttivi e le strutture turistico-ricettive.
D’altra parte, con una motivazione adeguata e ragionevole
dapprima il parere regionale ha rilevato che quanto
progettato risulta ‘incompatibile con il culto dei defunti’
e poi si è constatata l’assenza di un preminente interesse
pubblico a realizzarlo, per l’interessamento della ‘quasi
totalità della fascia di rispetto cimiteriale, riservata ad ampliamenti’.
8. In conclusione, l’appello incidentale va rigettato e
l’appello principale va accolto; per l’effetto, in totale
riforma della sentenza gravata, va rigettato il ricorso
proposto dinanzi al Tar (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 05.12.2018 n. 6891 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La specialità del
procedimento di condono edilizio rispetto all'ordinario
procedimento di rilascio della concessione a edificare e
l'assenza di una specifica previsione in ordine alla sua
necessità rendono, per il rilascio della concessione in
sanatoria, il parere della Commissione edilizia non
obbligatorio ma, tutt'al più, facoltativo, al fine di
acquisire eventuali informazioni e valutazioni con riguardo
a particolari e sporadici casi incerti e complessi, in
assenza dei quali il rilascio della concessione in sanatoria
è subordinato alla semplice verifica dei presupposti e
condizioni espressamente e chiaramente fissati dal
legislatore.
---------------
Il titolo abilitativo tacito può formarsi, per effetto del
silenzio-assenso, soltanto se la domanda di sanatoria
presentata possiede i requisiti soggettivi e oggettivi per
essere accolta, in quanto la mancanza di taluno di questi
impedisce in radice che possa avviarsi il procedimento di
sanatoria, in cui il decorso del tempo è mero co-elemento
costitutivo della fattispecie autorizzativa.
Affinché si abbia il silenzio-assenso, occorre, cioè, che il
procedimento sia stato avviato da un'istanza conforme al
modello legale previsto dalla norma che regola il
procedimento di condono.
--------------
2. Venendo all’esame dell’ultimo profilo di ricorso, relativo alla
mancanza del parere della commissione edilizia comunale
sulla domanda di condono, esso è infondato.
Quanto alla censura relativa alla mancanza del parere della
Commissione edilizia, va ribadito il consolidato
orientamento, secondo il quale, <<La specialità del
procedimento di condono edilizio rispetto all'ordinario
procedimento di rilascio della concessione a edificare e
l'assenza di una specifica previsione in ordine alla sua
necessità rendono, per il rilascio della concessione in
sanatoria, il parere della Commissione edilizia non
obbligatorio ma, tutt'al più, facoltativo, al fine di
acquisire eventuali informazioni e valutazioni con riguardo
a particolari e sporadici casi incerti e complessi, in
assenza dei quali il rilascio della concessione in sanatoria
è subordinato alla semplice verifica dei presupposti e
condizioni espressamente e chiaramente fissati dal
legislatore>> (CdS, IV, n. 5619 del 2012; Cons. Stato, IV,
05/05/2017 n. 2071).
...
6. Il quarto motivo di ricorso è infondato in quanto la
giurisprudenza ha chiarito che il titolo abilitativo tacito
può formarsi, per effetto del silenzio-assenso, soltanto se
la domanda di sanatoria presentata possiede i requisiti
soggettivi e oggettivi per essere accolta, in quanto la
mancanza di taluno di questi impedisce in radice che possa
avviarsi il procedimento di sanatoria, in cui il decorso del
tempo è mero co-elemento costitutivo della fattispecie
autorizzativa: affinché si abbia il silenzio-assenso,
occorre, cioè, che il procedimento sia stato avviato da
un'istanza conforme al modello legale previsto dalla norma
che regola il procedimento di condono (TAR Lazio-Roma, Sez.
II-quater, sentenza 01.09.2018 n. 9115).
Nel caso in questione, poiché non è stata data piena prova
da parte dei ricorrenti dell’esistenza della tettoia alla
data utile per ottenere il condono, non si è formato il
silenzio-assenso (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 05.12.2018 n. 2735 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo l’orientamento consolidato, in presenza
di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi
ulteriori ripetono le caratteristiche di illegittimità
dell'opera principale alla quale ineriscono strutturalmente,
con conseguente obbligo del Comune di ordinarne la
demolizione.
Non è possibile quindi desumere dalla presunta attività di
manutenzione, evidentemente illecita, la preesistenza delle
opere nella stessa consistenza e funzionalità. Né a tale
risultato può giungersi valutando parti accessorie di tali
opere in quanto il bene oggetto di condono deve sussistere
nella sua completezza.
---------------
La mancanza dell’opera al momento del rilascio del condono
non può essere sostituita con dichiarazioni
sostitutive dell’atto di notorietà le quali, se possono
costituire elementi di prova necessariamente concorrenti con
altri al fine di stabilire la data di realizzazione delle
opere, non possono evidentemente supplire all’esistenza
stessa delle opere, senza le quali il condono non può essere
rilasciato.
Per costante giurisprudenza, in ogni caso,
l’onere della prova circa l’ultimazione dei lavori entro la
data utile per ottenere il condono grava sul richiedente la
sanatoria, dal momento che solo l’interessato può fornire
inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che
siano in grado di radicare la ragionevole certezza
dell’epoca di realizzazione di un manufatto e, in difetto di
tali prove, resta integro il potere dell’Amministrazione di
negare la sanatoria dell’abuso; sicché la circostanza che
non sia stata data compiuta dimostrazione delle
caratteristiche della tettoia prima del suo (asserito)
temporaneo smontaggio
rivela un ulteriore
profilo ostativo al condono.
--------------
4. Il quinto profilo di ricorso è infondato in quanto non è
necessario un nuovo preavviso di rigetto del ricorso quando
l’amministrazione, valutando le memorie presentate dai
partecipanti al procedimento, abbia emanato un provvedimento
finale che si distacchi in tutto o in parte dai motivi del
preavviso di rigetto, salvo il caso di fatti del tutto
nuovi.
Nel caso di specie infatti il Comune ha sempre sostenuto che
non esiste prova certa dell’esistenza delle opere al momento
del condono. Rispetto a tale fatto la specificazione del
preavviso di rigetto secondo la quale "la tettoia... non
esisteva" al momento del sopralluogo e quella del
provvedimento finale, secondo il quale la tettoia sarebbe
stata realizzata dopo il 31.03.2003, non cambia la natura
dell’accertamento e cioè che non c’era prova certa che
l’opera esistesse alla data a tal fine prescritta dalla
legge sul condono.
5. Prima di analizzare il quarto profilo di ricorso,
relativo alla formazione del silenzio assenso, occorre
analizzare i profili precedenti, relativi alla prova
dell’esistenza della tettoia.
In merito all’inesistenza della tettoia al momento degli
accertamenti non sussiste dubbio alcuno in quanto i
ricorrenti sostengono che essa era stata smontata per lavori
di manutenzione.
In merito occorre rammentare l’orientamento consolidato
secondo il quale, in presenza di manufatti abusivi non
sanati né condonati, gli interventi ulteriori ripetono le
caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla
quale ineriscono strutturalmente, con conseguente obbligo
del Comune di ordinarne la demolizione (ex multis Tar Bari,
(Puglia), sez. III, 03/04/2018, n. 496; Tar Napoli,
(Campania), sez. VI, 05/03/2018, n. 1407).
Non è possibile quindi desumere dalla presunta attività di
manutenzione, evidentemente illecita, la preesistenza delle
opere nella stessa consistenza e funzionalità. Né a tale
risultato può giungersi valutando parti accessorie di tali
opere in quanto il bene oggetto di condono deve sussistere
nella sua completezza.
La mancanza dell’opera al momento del rilascio del condono
non può a sua volta essere sostituita con dichiarazioni
sostitutive dell’atto di notorietà le quali, se possono
costituire elementi di prova necessariamente concorrenti con
altri al fine di stabilire la data di realizzazione delle
opere, non possono evidentemente supplire all’esistenza
stessa delle opere, senza le quali il condono non può essere
rilasciato.
Per costante giurisprudenza, in ogni caso,
l’onere della prova circa l’ultimazione dei lavori entro la
data utile per ottenere il condono grava sul richiedente la
sanatoria, dal momento che solo l’interessato può fornire
inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che
siano in grado di radicare la ragionevole certezza
dell’epoca di realizzazione di un manufatto e, in difetto di
tali prove, resta integro il potere dell’Amministrazione di
negare la sanatoria dell’abuso (v., ex multis, Cons. Stato,
Sez. IV, 22.03.2018 n. 1837); sicché la circostanza che
non sia stata data compiuta dimostrazione delle
caratteristiche della tettoia prima del suo (asserito)
temporaneo smontaggio rivela un ulteriore profilo ostativo
al condono.
A ciò si aggiunge che non era stata depositata
la documentazione fotografica richiesta dall'art. 32, comma
35, lettera a), del D.L. 30.09.2003, n. 269, convertito con
modificazioni dalla legge 30.09.2003, n. 326 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 05.12.2018 n. 2735 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Niente
rimborso delle spese legali al dipendente se non ha condiviso con l’Ente la
nomina dell'avvocato.
Nel rapporto di lavoro alle dipendenze di un'amministrazione pubblica,
l'ente datore di lavoro non è tenuto a rimborsare le spese legali sostenute
dal dipendente per la difesa nel processo penale per addebiti relativi alla
attività svolta, se non vi è stata alcuna condivisione nella scelta del
legale. La norma sul patrocinio legale opera, infatti, previa valutazione da
parte dell'ente dell'assenza di possibili conflitti di interessi con il
dipendente.
Ad affermarlo è la Sez. lavoro della Corte di Cassazione con la
sentenza 04.12.2018 n. 31324, che rimarca
così la necessità di concordare la nomina di un avvocato che sia di comune
gradimento.
Il caso
Protagonista della vicenda è un uomo, all'epoca dei fatti dirigente di un
Comune siciliano, il quale veniva tratto a giudizio per rispondere di alcune
violazioni della normativa in tema di adozione di misure di sicurezza
relative all'impianto elettrico di una scuola, procedimento penale poi
concluso con l'estinzione per prescrizione dei reati omissivi
contravvenzionali contestati. In seguito, poiché si trattava di fatti
connessi all'espletamento del proprio incarico, il dipendente pubblico
chiedeva all'ente locale il rimborso delle spese legali sostenute per il
giudizio penale.
Tuttavia, il Comune rispondeva negativamente in quanto il
dirigente aveva omesso di comunicare all'amministrazione il procedimento a
suo carico e non aveva coinvolto l'ente nella scelta del difensore, come
invece previsto dall'articolo 28 del contratto 14.09.2000 applicabile
al comparto Regioni e Autonomie locali.
La decisione
Dopo un doppio verdetto di merito sfavorevole al dipendente pubblico, la
questione è arrivata in Cassazione dove l'attenzione dei giudici di
legittimità si concentra sulla corretta interpretazione dell'articolo 28 del
contratto del 2000, relativo al patrocinio legale, in base al quale l'ente
assume la difesa del dipendente nei procedimenti per fatti o atti
direttamente connessi all'espletamento del servizio e all'adempimento dei
compiti d'ufficio. Ciò avviene però «a condizione che non sussista conflitto
di interessi» e «facendo assistere il dipendente da un legale di comune
gradimento».
La Corte ha ricordato come da questa disposizione non derivi un «diritto
incondizionato ed assoluto al rimborso, da parte dell'amministrazione
pubblica, delle spese necessarie per assicurare la difesa legale». L'obbligo
dell'ente datore di lavoro non può cioè ritenersi sussistente nel caso in
cui il dipendente «abbia unilateralmente provveduto alla scelta e alla
nomina del legale di fiducia, senza la previa comunicazione
all'amministrazione stessa», o quando si sia soltanto limitato a comunicare
la scelta.
Difatti, la ratio della disposizione, chiosa il Collegio, è da
rinvenirsi nell'esigenza «di consentire all'ente pubblico di valutare
preventivamente l'assenza di un possibile conflitto d'interesse con il
dipendente sottoposto a giudizio, la cui presenza determina, in re ipsa, un
impedimento all'assunzione di un difensore di comune gradimento»
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.12.2018).
---------------
MASSIMA
Il terzo motivo è altresì infondato.
In materia di oneri di assistenza legale in conseguenza di fatti commessi in
ragione dell'espletamento del servizio e dell'adempimento di obblighi di
ufficio da
parte del pubblico dipendente, questa Corte (Cass. n. 25976 del 2017), ha
formulato il
principio di diritto secondo cui deve essere escluso che in capo al
dipendente sussista
un diritto incondizionato ed assoluto al rimborso, da parte
dell'amministrazione
pubblica, delle spese necessarie per assicurare la difesa legale, ciò in
ragione della
specificità e della diversità delle normative del settore del lavoro
pubblico.
Venendo, dunque, alla disciplina prevista dall'art. 28 del c.c.n.l. 14.09.2000 per i dipendenti del comparto delle Regioni e delle Autonomie locali,
la stessa va
interpretata nel senso che l'obbligo del datore di lavoro avente a oggetto
l'assunzione
diretta degli oneri di difesa fin dall'inizio del procedimento, con la
nomina di un
difensore di comune gradimento, non può ritenersi sussistente qualora il
dipendente
abbia unilateralmente provveduto alla scelta e alla nomina del legale di
fiducia, senza
la previa comunicazione all'amministrazione stessa, o qualora, si sia
limitato a
comunicare all'ente la nomina già effettuata.
La Corte territoriale ha accertato in fatto che nel giudizio di merito era
rimasto
incontestato che il Ma. non avesse rivolto alcuna richiesta di
autorizzazione al
Comune, e aveva pertanto correttamente ritenuto irrilevante la circostanza
che l'Ente
fosse a conoscenza della contravvenzione, per aver disposto il pagamento
della
relativa ammenda.
La Corte territoriale ha attuato fedelmente l'orientamento di questa Corte,
rispetto
al quale l'odierno ricorrente non aggiunge alcun elemento che debba indurre
a
discostarsene. Di esso va, in definitiva confermata in questa sede la ratio
ispiratrice, mossa dall'esigenza di consentire all'Ente pubblico di valutare
preventivamente
l'assenza di un possibile conflitto d'interesse con il dipendente sottoposto
a giudizio, la
cui presenza determina, in re ipsa, un impedimento all'assunzione di un
difensore di
comune gradimento. |
PUBBLICO IMPIEGO:
In materia di oneri di assistenza legale in
conseguenza di fatti commessi in ragione dell'espletamento
del servizio e dell'adempimento di obblighi di ufficio da
parte del pubblico dipendente, questa Corte, ha formulato il
principio di diritto secondo cui deve essere escluso che in
capo al dipendente sussista un diritto incondizionato ed
assoluto al rimborso, da parte dell'amministrazione
pubblica, delle spese necessarie per assicurare la difesa
legale, ciò in ragione della specificità e della diversità
delle normative del settore del lavoro pubblico.
Venendo alla disciplina prevista dall'art. 28 del c.c.n.l.
14.09.2000 per i dipendenti del comparto delle Regioni e
delle Autonomie locali, la stessa va interpretata nel senso
che l'obbligo del datore di lavoro avente a oggetto
l'assunzione diretta degli oneri di difesa fin dall'inizio
del procedimento, con la nomina di un difensore di comune
gradimento, non può ritenersi sussistente qualora il
dipendente abbia unilateralmente provveduto alla scelta e
alla nomina del legale di fiducia, senza la previa
comunicazione all'amministrazione stessa, o qualora, si sia
limitato a comunicare all'ente la nomina già effettuata.
---------------
Il terzo motivo è altresì infondato.
In materia di oneri di assistenza legale in conseguenza di
fatti commessi in ragione dell'espletamento del servizio e
dell'adempimento di obblighi di ufficio da parte del
pubblico dipendente, questa Corte (Cass. n. 25976 del 2017),
ha formulato il principio di diritto secondo cui deve essere
escluso che in capo al dipendente sussista un diritto
incondizionato ed assoluto al rimborso, da parte
dell'amministrazione pubblica, delle spese necessarie per
assicurare la difesa legale, ciò in ragione della
specificità e della diversità delle normative del settore
del lavoro pubblico.
Venendo, dunque, alla disciplina prevista dall'art. 28 del
c.c.n.l. 14.09.2000 per i dipendenti del comparto delle
Regioni e delle Autonomie locali, la stessa va interpretata
nel senso che l'obbligo del datore di lavoro avente a
oggetto l'assunzione diretta degli oneri di difesa fin
dall'inizio del procedimento, con la nomina di un difensore
di comune gradimento, non può ritenersi sussistente qualora
il dipendente abbia unilateralmente provveduto alla scelta e
alla nomina del legale di fiducia, senza la previa
comunicazione all'amministrazione stessa, o qualora, si sia
limitato a comunicare all'ente la nomina già effettuata.
La Corte territoriale ha accertato in fatto che nel giudizio
di merito era rimasto incontestato che il Ma. non avesse
rivolto alcuna richiesta di autorizzazione al Comune, e
aveva pertanto correttamente ritenuto irrilevante la
circostanza che l'Ente fosse a conoscenza della
contravvenzione, per aver disposto il pagamento della
relativa ammenda.
La Corte territoriale ha attuato fedelmente l'orientamento
di questa Corte, rispetto al quale l'odierno ricorrente non
aggiunge alcun elemento che debba indurre a discostarsene.
Di esso va, in definitiva confermata in questa sede la
ratio ispiratrice, mossa dall'esigenza di consentire
all'Ente pubblico di valutare preventivamente l'assenza di
un possibile conflitto d'interesse con il dipendente
sottoposto a giudizio, la cui presenza determina, in re
ipsa, un impedimento all'assunzione di un difensore di
comune gradimento (Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 04.12.2018 n. 31324). |
APPALTI:
Differenza tra sub-appalto e sub-fornitura.
Mentre il sub-appaltatore assume di eseguire in tutto o in
parte una prestazione dell'appaltatore a diretto beneficio
del committente, il sub-fornitore si impegna a porre nella
disponibilità dell'appaltatore un certo bene da inserire
nella produzione dell’appaltatore.
Si deve ricordare che:
- con il sub-appalto di cui all'art. 105, comma 2, del D.Lgs.
18.04.2016 n. 50 (sulla scia della fattispecie di cui
all'art. 1676 e segg. c.c.), l’appaltatore trasferisce a
terzi l'esecuzione direttamente a favore della stazione
appaltante di una parte delle prestazioni negoziali,
configurando così un vero e proprio contratto–derivato di
carattere trilaterale;
- al contrario, il contratto di sub-fornitura è una forma non
paritetica di cooperazione imprenditoriale nella quale il
ruolo del sub-fornitore (es. componentistica di beni
complessi) si palesa solo sul piano interno del rapporto
commerciale e di mercato tre le due imprese. In tale
fattispecie il requisito della “conformità a progetti
esecutivi, conoscenze tecniche e tecnologiche, dell'impresa
committente", di cui all'art. 1 della legge 18.06.1998, n.
192, comporta l'inserimento del subfornitore nel processo
produttivo proprio del committente.
In sostanza, mentre il sub-appaltatore assume di eseguire in
tutto o in parte una prestazione dell'appaltatore (art. 1655
e ss. c.c.) a diretto beneficio del committente, il
sub-fornitore si impegna a porre nella disponibilità
dell'appaltatore un certo bene da inserire nella produzione
dell’appaltatore, per cui il relativo rapporto rileva
esclusivamente sotto il profilo privatistico dei rapporti
bilaterali di carattere commerciale fra le aziende.
---------------
1.§.3. L’assunto complessivo va respinto.
In primo luogo, certamente l’oggetto dell’appalto può essere
ricostruito in termini di contratto misto, in quanto è
costituito da una componente di fornitura di beni (i cd. kit
e i cosiddetti test)), e da una certa componente di servizi
(es. i trasporti dei campioni).
Tuttavia, da tale premessa non scaturisce la conclusione per
cui nel caso dovrebbe essere prevalente la normativa sui
servizi, come vorrebbe l’appellante.
Sotto un primo profilo, relativo al principio di “prevalenza
economica” di cui all’art. 28, primo comma, secondo
periodo del d.lgs. n. 50/2016, si osserva che l’IT.
appellante indica le voci complessive che, a suo dire,
farebbero parte della componente servizi, ma non dimostra
che le prestazioni dei predetti servizi del contratto in
esame superassero realmente il valore relativo dei beni
ricompresi nella fornitura.
L’appellante infatti valuta unitariamente il costo dei test
previsti dalle righe 3, 4, 9 e 10 degli allegati 3 (Modello
offerta economica senza prezzi) e 4 (Modello offerta
economica) alla lettera di invito (doc. 4) (Lal test,
Steritest e test di sterilità), senza tener conto della
presenza indubbia della rilevanza della componente dei “materiali
di consumo” (contenitori, provette, flaconi, siringhe,
soluzioni fisiologiche e altro (cfr. doc. n. 8 offerta
B.S.N.).
In tale direzione manca la prova che il valore dei test
-depurato della componente fornitura (che andava cioè a
remunerare i materiali) e la parte di servizi eseguita
direttamente dall’aggiudicataria- superasse sicuramente il
ricordato limite del 30%.
In secondo luogo è risolvente la considerazione per cui, in
base al principio di “prevalenza funzionale” di cui
all’art. 28, primo comma, primo periodo del d.lgs. n.
50/2016, ai fini della “fornitura
di quanto necessario al controllo lavorazioni in asepsi”,
l’eventuale componente servizi connessa ai cd. test di
verifica assumeva una caratterizzazione del tutto
strumentale ed accessoria del contratto, che costituiva il
reale fine della fornitura (come esattamente ricordato
dall’Azienda ULSS 3 Serenissima). Per questo non vi sono
dubbi che il regime giuridico del contratto fosse in ogni
caso attratto dalla disciplina delle forniture.
Sotto altro profilo non si trattava affatto di un subappalto
necessario, perché l’It.Te. s.r.l. possedeva tale
accreditamento AIFA che era richiesto dal bando il quale,
come confermato dall’ULSS 3 nei chiarimenti, era
equipollente allo svolgimento delle prove microbiologiche
(ma sul punto vedi anche infra).
Dunque ha ragione il Tar quando afferma che “...la
procedura negoziata aveva per oggetto prevalentemente la
fornitura di beni (cd. Kit): anche i cd. test erano
considerati dalla lex specialis alla stregua di un bene,
attesa la prevalenza della componente materiale (provette,
flaconi, siringhe, soluzioni fisiologiche e altri materiali
di consumo) rispetto alla componente diagnostica".
E che in sostanza “… la prestazione prevalente era la
fornitura di beni, sicché l’appalto va qualificato come
avente ad oggetto la fornitura di beni. …”.
In tale direzione, in base al contenuto del contratto di
fornitura deve escludersi che possa comunque configurarsi un
subappalto di servizi o di forniture, essendo evidente la
presenza di un rapporto di sub-fornitura. In tale
prospettiva si deve infatti ricordare che:
- con il subappalto di cui all'art. 105, comma 2, del D.Lgs.
18.04.2016 n. 50 (sulla scia della fattispecie di cui
all'art. 1676 e segg. c.c.), l’appaltatore trasferisce a
terzi l'esecuzione direttamente a favore della stazione
appaltante di una parte delle prestazioni negoziali,
configurando così un vero e proprio contratto–derivato di
carattere trilaterale;
- al contrario, il contratto di sub-fornitura è una forma non
paritetica di cooperazione imprenditoriale nella quale il
ruolo del sub-fornitore (es. componentistica di beni
complessi) si palesa solo sul piano interno del rapporto
commerciale e di mercato tre le due imprese. In tale
fattispecie il requisito della “conformità a progetti
esecutivi, conoscenze tecniche e tecnologiche, dell'impresa
committente", di cui all'art. 1 della legge 18.06.1998,
n. 192, comporta l'inserimento del sub-fornitore nel
processo produttivo proprio del committente (cfr. Cassazione
civile, sez. III, 25/08/2014, n. 18186).
In sostanza, mentre il sub-appaltatore assume di eseguire in
tutto o in parte una prestazione dell'appaltatore (art. 1655
e ss. c.c.) a diretto beneficio del committente, il
sub-fornitore si impegna a porre nella disponibilità
dell'appaltatore un certo bene da inserire nella produzione
dell’appaltatore, per cui il relativo rapporto rileva
esclusivamente sotto il profilo privatistico dei rapporti
bilaterali di carattere commerciale fra le aziende (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 30.11.2018 n. 6822 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Il piano
particolareggiato, al quale deve assimilarsi il Piano
Insediamenti Produttivi, una volta decaduto per scadenza dei
termini, diventa inefficace per la parte in cui non abbia
avuto attuazione e residua, a tempo indeterminato, il solo
obbligo di osservare nelle nuove costruzioni gli
allineamenti e le prescrizioni di zona dello stesso, sicché
alla cessata efficacia delle norme del piano attuativo
consegue la decadenza dei vincoli espropriativi di zona, con
riespansione dello “ius aedificandi” secondo le previsioni
dettate dal vigente strumento urbanistico, rimanendo fermi a
tempo indeterminato soltanto gli allineamenti e le
prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso.
--------------
Stante l’incontestata decadenza, nella specie, delle
previsioni del P.I.P. precedentemente adottato, riprende
quindi pienamente vigore la disciplina urbanistica di zona,
dettata dallo strumento urbanistico generale, che nella
specie per l’appunto prevede come necessario il piano
esecutivo (non venendo evidentemente in discussione una mera
questione di osservanza degli allineamenti o delle
prescrizioni di zona, vale a dire gli unici parametri, fatti
salvi dalla normativa in materia).
In sostanza, non può essere condivisa la pretesa, di parte
ricorrente, di bypassare la norma delle N.T.A. del P.R.G.
vigente, che prevede la necessità dello strumento attuativo,
con la connessa impossibilità di rilascio diretto del
permesso di costruire; né è condivisibile che “le previsioni
di uno strumento attuativo (anche se non più eseguibile, per
il decorso del tempo)”, avrebbero “comunque stabilmente
determinato l’assetto definitivo e di dettaglio della parte
del territorio interessato”, con la conseguenza che su tale
assetto non potrebbero “incidere le previsioni di carattere
programmatorio” (sc. delle N.T.A. del P.R.G.).
Il Tribunale ritiene cioè che non possa, nella specie,
prescindersi dal piano indirizzo giurisprudenziale, secondo
il quale: “Ai sensi dell’art. 27, commi 3–5, l. 22.10.1971
n. 865, nel caso di scadenza dell’efficacia del piano per
gli insediamenti produttivi vengono meno le relative
previsioni urbanistiche e sorge per l’Amministrazione
l’obbligo di ripianificazione dell’area, sicché le opere,
previste dal medesimo piano e non più attuabili, non possono
essere realizzate ad iniziativa del proprietario dell’area
ovvero con l’accoglimento di una proposta di lottizzazione”.
---------------
Il quarto profilo della prima doglianza, sopra
riportato sub D), è smentito dall’orientamento
giurisprudenziale prevalente, compendiato, da ultimo, nella
seguente decisione della Sezione: “Il piano
particolareggiato, al quale deve assimilarsi il Piano
Insediamenti Produttivi, una volta decaduto per scadenza dei
termini, diventa inefficace per la parte in cui non abbia
avuto attuazione e residua, a tempo indeterminato, il solo
obbligo di osservare nelle nuove costruzioni gli
allineamenti e le prescrizioni di zona dello stesso, sicché
alla cessata efficacia delle norme del piano attuativo
consegue la decadenza dei vincoli espropriativi di zona, con
riespansione dello “ius aedificandi” secondo le previsioni
dettate dal vigente strumento urbanistico, rimanendo fermi a
tempo indeterminato soltanto gli allineamenti e le
prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso” (TAR
Campania–Salerno, Sez. II, 19/02/2014, n. 410).
Stante l’incontestata decadenza, nella specie, delle
previsioni del P.I.P. precedentemente adottato, riprende
quindi pienamente vigore la disciplina urbanistica di zona,
dettata dallo strumento urbanistico generale, che nella
specie per l’appunto prevede come necessario il piano
esecutivo (non venendo evidentemente in discussione una mera
questione di osservanza degli allineamenti o delle
prescrizioni di zona, vale a dire gli unici parametri, fatti
salvi dalla normativa in materia).
In sostanza, non può essere condivisa la pretesa, di parte
ricorrente, di bypassare la norma delle N.T.A. del P.R.G.
vigente, che prevede la necessità dello strumento attuativo,
con la connessa impossibilità di rilascio diretto del
permesso di costruire; né è condivisibile che “le previsioni
di uno strumento attuativo (anche se non più eseguibile, per
il decorso del tempo)”, avrebbero “comunque stabilmente
determinato l’assetto definitivo e di dettaglio della parte
del territorio interessato”, con la conseguenza che su tale
assetto non potrebbero “incidere le previsioni di carattere programmatorio” (sc. delle N.T.A. del P.R.G.).
Il Tribunale, melius re perpensa (rispetto alla decisione,
assunta in sede cautelare nell’assenza della non ancora
costituita Amministrazione resistente), ritiene cioè che non
possa, nella specie, prescindersi dal piano indirizzo
giurisprudenziale, secondo il quale: “Ai sensi dell’art. 27,
commi 3–5, l. 22.10.1971 n. 865, nel caso di scadenza
dell’efficacia del piano per gli insediamenti produttivi
vengono meno le relative previsioni urbanistiche e sorge per
l’Amministrazione l’obbligo di ripianificazione dell’area,
sicché le opere, previste dal medesimo piano e non più
attuabili, non possono essere realizzate ad iniziativa del
proprietario dell’area ovvero con l’accoglimento di una
proposta di lottizzazione” (Consiglio di Stato, Sez. IV,
18/12/2008, n. 6377).
Ne consegue che, come osservato anche dalla difesa
dell’Amministrazione, nella specie la motivazione a
fondamento dell’impugnato diniego è sufficientemente, sia
pur sinteticamente, espressa, mediante il riferimento alla
vigente norma attuativa del P.R.G. che richiede la previa
approvazione di uno strumento di dettaglio, nella forma di
un (nuovo) piano per gli insediamenti produttivi (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 30.11.2018 n. 1747 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI
- Commercio ambulante - Svolgimento non autorizzato di
attività di trasporto di rifiuti - Applicabilità del regime
derogatorio ex art. 266 T.U.A. - Limiti - Fattispecie - Artt.
189, 190, 193, 212, 256, 266 d.lgs. n. 152/2006 -
Giurisprudenza.
In tema di rifiuti, per l'applicabilità
della deroga di cui all'art. 266, comma 5, del D.Lgs. n.
152/2006, occorre non solo che l'agente sia in possesso del
titolo abilitativo previsto per il commercio ambulante dal
D.Lgs. 31.03.1998, n. 114, ma anche che si tratti di rifiuti
che formano oggetto del suo commercio ma non riconducibili,
per le loro peculiarità, a categorie autonomamente
disciplinate (Sez.
3, n. 34917 del 09/07/2015 - dep. 17/08/2015, Pmt in proc.
Caccamo; Sez. 3, n. 269 del 10/12/2014 - dep. 08/01/2015,
P.M. in proc. Seferovic).
Nella specie, è stata esclusa la
configurabilità dell'invocato regime derogatorio di cui
all'art. 266, comma 1, n. 5, d.lgs. n. 152 del 2006, a tenore
del quale "le disposizioni di cui agli articoli 189, 190,
193 e 212 non si applicano alle attività di raccolta e
trasporto di rifiuti effettuate dai soggetti abilitati allo
svolgimento delle attività medesime in forma ambulante,
limitatamente ai rifiuti che formano oggetto del loro
commercio (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.11.2018 n. 53683 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI
- Insediamento produttivo di recupero di rifiuti - Sequestro
preventivo dell'area adibita a deposito - Terreno attiguo
censito quale "seminativo arboreo" - Art. 256 d.lgs. n.
152/2006.
Sussiste il presupposto del fumus in
relazione all'incolpazione provvisoria di cui all'art. 256,
comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 152 del 2006 (capo 2), con
riferimento al deposito su terreno sterrato, privo di
pavimentazione e separazione delle acque, attiguo
all'insediamento produttivo di recupero di rifiuti, terreno
censito quale "seminativo arboreo", non pericolosi codice
CER 170405 (ferro e acciaio) e altri rifiuti codice CER
160214 (motori elettrici, apparecchiature fuori uso) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.11.2018 n. 53670 - link a www.ambientediritto.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Nessuna
mansione superiore al comandante della Polizia locale non dirigente.
In un ente che abbia istituito la dirigenza, coincidente con il ruolo di
massima dimensione dell'ente, è legittimo il regolamento degli uffici e
servizi che “individui” il comandante della polizia locale quale funzionario
con attribuzione della posizione organizzativa. In questa struttura
organizzativa, le attività amministrative svolte dal comandante, pur potendo
coincidere con quanto previsto dall'articolo 107 del testo unico e pur
rispondendo in via diretta al sindaco, non lo abilitano a richiedere
eventuali differenze retributive per le mansioni superiori svolte.
Sono le conclusioni alle quali è pervenuta la Corte di Cassazione, Sez.
lavoro,
ordinanza
28.11.2018 n. 30809.
L'organizzazione del corpo di polizia locale
Il regolamento di organizzazione di un ente locale aveva costituito il corpo
della polizia municipale non come area funzionale, al vertice della quale
sono stati preposti i dirigenti, ma come settore comprendente servizi non
affidati ai dirigenti, con l'istituzione di un'apposita posizione
organizzativa. Al comandante, pertanto, l'amministrazione ha riconosciuto,
per valorizzare il ruolo rivestito, la posizione organizzativa con
retribuzione di posizione e di risultato.
Le rivendicazioni economiche del comandante
In considerazione della differenza riconosciuta nel regolamento comunale,
rispetto alle identiche e sovrapponibili funzioni amministrative svolte dal
comandante della polizia locale con quelle degli altri dirigenti dell'ente,
il comandante ha chiesto al giudice del lavoro il riconoscimento delle
mansioni superiori secondo l'articolo 52 del Dlgs 165/2001.
La richiesta si
basa su due considerazioni e cioè, le attività amministrative svolte
rientrano a pieno titolo nelle indicazioni previste dall'articolo 107 del Dlgs 165/2001 al pari degli altri dirigenti, le mansioni superiori vengono
riconosciute in astratto a chiunque abbia svolto mansioni anche di poco
superiori, nell'ambito dello stesso livello contrattuale, non potendole
negare a chi ha avuto compiti di maggiore rilievo pur avendo un altro
profilo professionale oltre a rispondere in via diretta al sindaco.
La decisione della Cassazione
In via preliminare, precisano i giudici di Piazza Cavour, il fatto che il
corpo della polizia municipale, al quale era preposto il ricorrente con
funzioni di comandante, sia stato posto alle dirette dipendenze del sindaco
non muta la natura delle funzioni e non vale a qualificarle come
dirigenziali.
Quanto stabilito dal regolamento del Comune, che ha costituito il corpo
della polizia locale non come area funzionale, al vertice della quale erano
preposti dirigenti, ma come settore comprendente servizi non affidati ai
dirigenti, risulta coerente con l'attribuzione di una specifica posizione
organizzativa alla quale erano correlate le indennità economiche previste
dalla contrattazione collettiva. Il fatto che siano state corrisposte dette
indennità esclude la violazione del principio di giusta retribuzione
(articolo 36 della costituzione).
In altri termini, la corte di appello non ha negato, le mansioni di natura
dirigenziale svolte dal ricorrente, ma ha stabilito che queste mansioni
erano proprie del livello di inquadramento del comandante, come normalmente
accade negli enti privi di dirigenza
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.12.2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
●
La diversa distribuzione degli ambienti interni mediante
eliminazione e spostamenti di tramezzature, purché non
interessi le parti strutturali dell'edificio, costituisce
attività di manutenzione straordinaria soggetta al
semplice regime della comunicazione di inizio lavori,
originariamente in forza dell'art. 6, comma 2, ed ora
dell'art. 6-bis del d.p.r. n. 380/2001, che disciplina gli
interventi subordinati a c.i.l.a.
In tali ipotesi, pertanto, l'omessa comunicazione non può
giustificare l'irrogazione della sanzione demolitoria che
presuppone il dato formale della realizzazione dell'opera
senza il prescritto titolo abilitativo.
Quando invece questo stesso intervento interessi parti
strutturali del fabbricato, ai sensi dell'art. 22, comma 1,
lett. a), del d.p.r. n. 380/2001, la disciplina applicabile
è quella della segnalazione certificata di inizio attività,
la cui mancanza comporta, parimenti, l'irrogazione della
sola sanzione pecuniaria;
●
Sono pienamente riconducibili alla tipologia di opere
proprie della manutenzione straordinaria, quelle
opere che senza modificare la destinazione d'uso già in
corso e senza intaccare la struttura portante dell'edificio,
abbiano comportato semplicemente una parziale differente
distribuzione degli spazi interni relativi ai singoli locali
in vista di una loro parziale rinnovazione anche di tipo
tecnologico.
---------------
Nella fattispecie, considerata la natura degli interventi
dei quali con il provvedimento impugnato se ne contesta la
realizzazione, appare quanto mai evidente che non era
applicabile l’applicabile la normativa di cui all’art. 31
del d.P.R. 380/2001 con il connesso apparato sanzionatorio.
L’impostazione privilegiata dal Collegio trova il conforto
della giurisprudenza, in proposito rilevandosi che:
●
<<La diversa distribuzione degli ambienti interni
mediante eliminazione e spostamenti di tramezzature, purché
non interessi le parti strutturali dell'edificio,
costituisce attività di manutenzione straordinaria
soggetta al semplice regime della comunicazione di inizio
lavori, originariamente in forza dell'art. 6, comma 2, ed
ora dell'art. 6-bis del d.p.r. n. 380/2001, che disciplina
gli interventi subordinati a c.i.l.a. In tali ipotesi,
pertanto, l'omessa comunicazione non può giustificare
l'irrogazione della sanzione demolitoria che presuppone il
dato formale della realizzazione dell'opera senza il
prescritto titolo abilitativo. Quando invece questo stesso
intervento interessi parti strutturali del fabbricato, ai
sensi dell'art. 22, comma 1, lett. a), del d.p.r. n.
380/2001, la disciplina applicabile è quella della
segnalazione certificata di inizio attività, la cui mancanza
comporta, parimenti, l'irrogazione della sola sanzione
pecuniaria>> TAR Napoli, (Campania), sez. II,
22/08/2017, n. 4098), ovvero, ancora:
●
<<Sono pienamente riconducibili alla tipologia di opere
proprie della manutenzione straordinaria, quelle
opere che senza modificare la destinazione d'uso già in
corso e senza intaccare la struttura portante dell'edificio,
abbiano comportato semplicemente una parziale differente
distribuzione degli spazi interni relativi ai singoli locali
in vista di una loro parziale rinnovazione anche di tipo
tecnologico>> (Consiglio di Stato sez. V, 19/07/2005, n.
3827 ed, in generale, sulla nozione di manutenzione
straordinaria, (cfr., ex multis, TAR Campania,
Napoli, Sez. VII, 10.10.2016 n. 4650; TAR Lombardia, Milano, Sez.
II, 04.08.2016 n. 1561, ivi; Cons. Stato, Sez. V, 14.04.2016
n. 1510, ivi; Id., Sez. V, 05.09.2014 n. 4523) (TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 28.11.2018 n. 6898 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Niente
soccorso istruttorio se manca la documentazione amministrativa
dell'offerente.
Il TAR Veneto, Sez. III, con la
sentenza
28.11.2018 n. 1092, ha
chiarito che l'appaltatore che non ha allegato la propria domanda di
partecipazione (né i documenti amministrativi correlati) deve essere escluso
dalla procedura di gara non potendo la stazione appaltante legittimamente
azionare il soccorso istruttorio integrativo (comma 9 dell'articolo 83 del
codice) a pena dell'alterazione della par condicio tra i competitori.
Il fatto
Il giudice è stato chiamato ad affrontare una situazione particolare di una
gara da aggiudicarsi in 5 lotti relativa alla procedura aperta telematica,
«per l'affidamento del servizio di lavanolo biancheria, materasserie, capi
di vestiario per le aziende sanitarie della regione Veneto». La
particolarità è stata determinata dalla circostanza che il ricorrente ha
partecipato a 4 dei 5 lotti singolarmente mentre a uno dei lotti, il n. 3,
ha voluto partecipare in associazione temporanea d'impresa.
Nel caricare sulla piattaforma telematica la domanda di partecipazione al
lotto n. 3, il ricorrente ha inserito la stessa documentazione (in questo
caso parziale e carente) già caricata per le partecipazioni singole. In
sostanza non era stata caricata la domanda relativa alla partecipazione in
Ati e la documentazione amministrativa della mandante.
Di conseguenza la
stazione appaltante ha escluso il raggruppamento dalla gara per il lotto n.
3. Esclusione alla quale il ricorrente si è opposto formulando una specifica
censura di illegittimità dovendo, a suo dire, la stazione appaltante avviare
il soccorso istruttorio integrativo e non procedere con una diretta
estromissione.
La decisione
In primo luogo, in sentenza, il tribunale ha chiarito che secondo la
giurisprudenza prevalente, nel caso in cui la lex specialis di una gara
preveda la possibilità di aggiudicare autonomamente i singoli lotti, «non si
è in presenza di una gara unitaria, ma di una gara plurima, poiché in questo
caso le singole procedure di aggiudicazione sono dirette a tanti contratti
di appalto quanti sono i lotti». Si è in presenza, quindi, di un bando di
gara a oggetto plurimo che si sostanzia nell'indizione e realizzazione di
tante gare contestuali quanti sono i lotti cui sono connessi i contratti da
aggiudicare.
Pertanto, «gli atti di gara relativi al contenuto dei contratti da
aggiudicare devono essere necessariamente differenziati per ciascun lotto e
devono essere tanti quanti sono i contratti da aggiudicare (Cons. St., Sez.
V, sentenza 12.01.2017 n. 52; Cons. Stato, Sez. V, 26.06.2015 n.
3241)».
Chiarito ciò, il giudice ha affrontato i rapporti rispetto alla
eventuale applicazione del soccorso istruttorio integrativo nel caso manchi
totalmente la documentazione amministrativa da allegare per poter
partecipare al procedimento di affidamento. La carenza totale della
documentazione integra, a ben vedere, una «irregolarità essenziale non
sanabile mediante il ricorso al soccorso istruttorio» posto che le carenze
della documentazione prodotta non consentono l'individuazione del contenuto
e del soggetto responsabile.
In questa situazione (ovvero di radicale
assenza di una busta amministrativa riferibile alla partecipazione del
raggruppamento temporaneo di imprese) il soccorso istruttorio non poteva
essere attivato dalla stazione appaltante, infatti, «non si trattava di
sanare irregolarità o mancanze riguardanti singoli elementi della domanda,
bensì di ovviare alla totale carenza della documentazione amministrativa
richiesta per la partecipazione alla gara da parte di un soggetto plurimo».
Diversamente, conclude il giudice, si consentirebbe al concorrente che non
ha presentato la domanda di partecipazione nei termini decadenziali
prescritti dal bando, di presentare una nuova domanda di partecipazione, in
violazione della par condicio, con conseguente alterazione delle «condizioni
in cui versano i concorrenti al momento della scadenza del termine per la
partecipazione alla gara»
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.12.2018). |
APPALTI:
Nel caso in cui la lex
specialis di una gara di appalto preveda la possibilità di aggiudicare
autonomamente i singoli lotti, non si è in presenza di una gara unitaria, ma
di una gara plurima, poiché in tal caso le singole procedure di
aggiudicazione sono dirette a tanti contratti di appalto quanti sono i
lotti.
Il carattere non unitario della gara suddivisa in più lotti comporta che il
bando di gara si configura quale “atto ad oggetto plurimo“, nel senso che
contiene le disposizioni per lo svolgimento non di un’unica gara finalizzata
all’affidamento di un unico contratto, bensì quelle per l’indizione e la
realizzazione di tante gare contestuali quanti sono i lotti cui sono
connessi i contratti da aggiudicare e che gli atti di gara relativi al
contenuto dei contratti da aggiudicare devono essere necessariamente
differenziati per ciascun lotto e devono essere tanti quanti sono i
contratti da aggiudicare.
Invero, “un bando di gara, suddiviso in lotti, costituisce un atto ad
oggetto plurimo e determina l'indizione non di un'unica gara, ma di tante
gare, per ognuna delle quali vi è un’autonoma procedura di gara che si
conclude con un'aggiudicazione”.
---------------
Il
ricorso è infondato.
Giova premettere che, secondo la prevalente giurisprudenza, nel caso in cui
la lex specialis di una gara di appalto preveda la possibilità di
aggiudicare autonomamente i singoli lotti, non si è in presenza di una gara
unitaria, ma di una gara plurima, poiché in tal caso le singole procedure di
aggiudicazione sono dirette a tanti contratti di appalto quanti sono i
lotti.
Il carattere non unitario della gara suddivisa in più lotti comporta che il
bando di gara si configura quale “atto ad oggetto plurimo“, nel senso
che contiene le disposizioni per lo svolgimento non di un’unica gara
finalizzata all’affidamento di un unico contratto, bensì quelle per
l’indizione e la realizzazione di tante gare contestuali quanti sono i lotti
cui sono connessi i contratti da aggiudicare e che gli atti di gara relativi
al contenuto dei contratti da aggiudicare devono essere necessariamente
differenziati per ciascun lotto e devono essere tanti quanti sono i
contratti da aggiudicare (Cons. St., Sez. V – sentenza 12.01.2017 n. 52;
Cons. Stato, Sez. V, 26.06.2015 n. 3241 secondo cui “un bando di gara,
suddiviso in lotti, costituisce un atto ad oggetto plurimo e determina
l'indizione non di un'unica gara, ma di tante gare, per ognuna delle quali
vi è un’autonoma procedura di gara che si conclude con un'aggiudicazione”)
(TAR Veneto,
Sez. III, con la
sentenza
28.11.2018 n. 1092 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il concetto di
pertinenza ai fini urbanistico edilizi è molto più ristretto
di quello civilistico di cui all’art. 817 c.c..
Gli elementi
che caratterizzano le pertinenze sono, da un lato,
l'esiguità quantitativa del manufatto, nel senso che il
medesimo deve essere di entità tale da non alterare in modo
rilevante l'assetto del territorio; dall'altro, l'esistenza
di un collegamento funzionale tra tali opere e la cosa
principale, con la conseguente incapacità per le medesime di
essere utilizzate separatamente ed autonomamente.
Pertanto un'opera può definirsi accessoria rispetto a
un'altra, da considerarsi principale, solo quando la prima
sia parte integrante della seconda, in modo da non potersi
le due cose separare senza che ne derivi l'alterazione
dell'essenza e della funzione dell'insieme.
---------------
... per l'annullamento:
1) dell'ordinanza rif. prot. n. 24273 del 19.02.2018
del Comune di Terni -notificata il 28.03.2018- nella
quale veniva ordinata la demolizione e ripristino dello
stato dei luoghi per la realizzazione di una struttura in
metallo presso la propria abitazione ubicata in Terni, via
... n. 17, su un'area pertinenziale comune alle
due unità immobiliari censite al catasto al fg. 128, p.lla
476, sub 1 e sub 2;
...
1. I sig.ri ricorrenti Pa.Ar.Lo Fa. e Lu.Od.
hanno proposto ricorso chiedendo l’annullamento, previa
sospensione:
- dell’ordinanza rif. prot. n. 24273 del 19.02.2018
del Comune di Terni -notificata il 28.03.2018- nella
quale veniva ordinata la demolizione e ripristino dello
stato dei luoghi per la realizzazione di una struttura in
metallo realizzata presso la propria abitazione ubicata in
Terni, via ... n. 17, su un’area pertinenziale
comune alle due unità immobiliari censite in catasto al fg.
128, p.lla 476, sub 1 e sub 2;
- dei provvedimenti connessi e conseguenti a quelli che
precedono nonché dei provvedimenti antecedenti.
Con un unico e articolato motivo di ricorso si lamenta
l’eccesso di potere per travisamento dei fatti e la
violazione di legge per erronea interpretazione.
Riferiscono
i ricorrenti che l’intervento in oggetto consiste in una
struttura in metallo con copertura retrattile in plastica,
istallata in sostituzione del pergolato preesistente, che
gli stessi qualificano come “pergotenda”, affermando che
tale struttura non necessita di titolo abilitativo in quanto
opera pertinenziale ai sensi dell’art. 21, comma 3, lett.
l), r.r. n. 2 del 2015, richiamando anche il recente d.m. 02.03.2018 “Approvazione del glossario contenente l’elenco
non esaustivo delle principali opere edilizie realizzabili
in regime di attività edilizia libera”, ai sensi
dell’articolo 1, comma 2 del d.lgs. n. 222 del 2016, che
nomina al n. 50 le pergotende.
Ad avviso dei ricorrenti,
pertanto, l’opera principale non dovrebbe essere considerata
la struttura in sé, ma la tenda, quale elemento di
protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata
ad una migliore fruizione dello spazio esterno dall’unità
abitativa, con la conseguenza che la struttura di sostegno
si qualificherebbe in termini di mero elemento accessorio.
...
Il ricorso è infondato per i motivi di seguito esposti.
Giova preliminarmente richiamare il quadro normativo
regionale.
L’art. 118, comma 1, l.r. n. 1 del 2015, Testo
unico governo del territorio e materie correlate, nel
disciplinare le opere realizzabili sine titulo –nel
rispetto delle disposizioni del regolamento comunale per
l’attività edilizia e dello strumento urbanistico sulle
tipologie e sui materiali utilizzabili nonché nel rispetto
delle normative di settore aventi incidenza sulla disciplina
dell’attività edilizia– alla lett. d) include le opere pertinenziali degli edifici rinviando alla normativa
regolamentare la loro corretta individuazione.
L’art. 21,
comma 3, r.r. n. 2 del 2015, lett. l), riconduce alle opere
pertinenziali realizzabili senza titolo “i pergolati e i
gazebo con struttura leggera, in ferro o legno, purché
collocati a terra senza opere fondali o a protezione di
logge o balconi e privi di qualsiasi copertura, destinati
esclusivamente a sorreggere specie vegetali o teli”.
La giurisprudenza amministrativa, condivisa anche dall’adito
Tribunale, ha avuto modo di chiarire che “il concetto di
pertinenza ai fini urbanistico edilizi è molto più ristretto
di quello civilistico di cui all’art. 817 c.c.; gli elementi
che caratterizzano le pertinenze sono, da un lato,
l'esiguità quantitativa del manufatto, nel senso che il
medesimo deve essere di entità tale da non alterare in modo
rilevante l'assetto del territorio; dall'altro, l'esistenza
di un collegamento funzionale tra tali opere e la cosa
principale, con la conseguente incapacità per le medesime di
essere utilizzate separatamente ed autonomamente.
Pertanto
un'opera può definirsi accessoria rispetto a un'altra, da
considerarsi principale, solo quando la prima sia parte
integrante della seconda, in modo da non potersi le due cose
separare senza che ne derivi l'alterazione dell'essenza e
della funzione dell'insieme (ex multis Consiglio di Stato,
sez. VI, 04.01.2016, n. 19, TAR Campania Napoli, sez. IV,
16.05.2014, n. 2719)” (TAR Umbria, 28.11.2016, n. 730) (TAR
Umbria,
sentenza 28.11.2018 n. 629 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le strutture definite “pergotende” pongono particolari problemi di individuazione
e classificazione.
E’ stato affermato che la pergotenda:
1) è una struttura
destinata a rendere meglio vivibili gli spazi esterni delle
unità abitative (terrazzi o giardini) e installabile al
fine, quindi, di soddisfare esigenze non precarie non
connotandosi, pertanto, per la temporaneità della loro
utilizzazione, ma costituiscono un elemento di migliore
fruizione dello spazio esterno, stabile e duraturo;
2) sotto
il profilo normativo la realizzazione di tale costruzione,
tenuto conto della sua consistenza, delle caratteristiche
costruttive e della suindicata funzione che la caratterizza,
non costituisce un'opera edilizia soggetta al previo
rilascio del titolo abilitativo atteso che, ai sensi del
combinato disposto degli articoli 3 e 10 del DPR n.
380/2001, sono soggetti al rilascio del permesso di
costruire gli "interventi di nuova costruzione", che
determinano una "trasformazione edilizia e urbanistica del
territorio", mentre una struttura leggera, secondo la
configurazione standard che caratterizza tali manufatti
nella loro generalità, destinata ad ospitare tende
retrattili in materiale plastico non integra tali
caratteristiche;
3) per aversi una costruzione definibile
come tale (c.d. pergotenda) occorre che l'opera principale
sia costituita non dalla struttura in sé, ma dalla tenda,
quale elemento di protezione dal sole e dagli agenti
atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dello
spazio esterno dell'unità abitativa, con la conseguenza che
la struttura (per aversi realmente una pergotenda e non una
costruzione edilizia necessitante di titolo abilitativo)
deve qualificarsi in termini di mero elemento accessorio,
necessario al sostegno e all'estensione della tenda;
4) la
tenda poi, che costituisce la caratteristica fondamentale
per effetto della quale un manufatto può definirsi
“pergotenda” e non considerarsi una "nuova costruzione",
deve essere in materiale plastico e retrattile, onde non
presentare caratteristiche tali da costituire un organismo
edilizio rilevante, comportante trasformazione del
territorio.
Un’opera siffatta per la sua consistenza e le
caratteristiche costruttive, non è un’opera edilizia
soggetta al previo rilascio del titolo abilitativo, in
quanto, in base agli artt. 3 e 10 del d.P.R. n. 380 del 2001
sono soggetti al rilascio del permesso di costruire gli
interventi di nuova costruzione che determinano una
trasformazione edilizia e urbanistica del territorio, mentre
una struttura leggera, destinata ad ospitare tende
retrattili in materiale plastico, non assume queste
caratteristiche.
Deve, pertanto, trattarsi di una struttura
leggera, tanto da far assumere carattere preminente alla
tenda che costituisce elemento di protezione dagli agenti
atmosferici. Al contrario, quando la struttura per le sue
caratteristiche tecniche alteri la sagoma dell’edificio,
abbia una dimensione considerevole e presenti un ancoraggio
massiccio al suolo, va classificata come nuova costruzione e
per la sua realizzazione è richiesto il permesso di
costruire.
---------------
Recentemente il Consiglio di Stato ha assimilato le pergotende alle tettoie, evidenziando che la relativa
disciplina non è definita in modo univoco né nella normativa
né in giurisprudenza, anche seguito dell’introduzione del
d.m. 02.03.2018, “Approvazione del glossario contenente
l’elenco non esaustivo delle principali opere edilizie
realizzabili in regime di attività edilizia libera”, ai
sensi dell’articolo 1, comma 2, del citato d.lgs. n. 222 del
2016, che richiama al n. 50 le pergotende.
Tali sarebbero
«per comune esperienza, strutture di copertura di terrazzi e
lastrici solari, di superficie anche non modesta, formate da
montanti ed elementi orizzontali di raccordo e sormontate da
una copertura fissa o ripiegabile formata da tessuto o altro
materiale impermeabile, che ripara dal sole, ma anche dalla
pioggia, aumentando la fruibilità della struttura.
Si tratta
quindi di un manufatto molto simile alla tettoia, che se ne
distingue secondo logica solo per presentare una struttura
più leggera. (…) Al polo opposto, v’è l’art. 10, comma 1,
lettera a), del T.U. 380/2001, che assoggetta invece al
titolo edilizio maggiore, ovvero al permesso di costruire,
“gli interventi di nuova costruzione”.
Come subito si vedrà, la giurisprudenza si fonda su tale
norma per richiedere appunto il permesso di costruire nel
caso di tettoie di particolari dimensioni e caratteristiche.
Si afferma infatti in via generale che tale struttura
costituisce intervento di nuova costruzione e richiede il
permesso di costruire nel momento in cui difetta dei
requisiti richiesti per le pertinenze e gli interventi
precari, ovvero quando modifica la sagoma dell’edificio.
Da
tutto ciò, emerge chiara una conseguenza: non è possibile
affermare in assoluto che la tettoia richiede, o non
richiede, il titolo edilizio maggiore e assoggettarla, o non
assoggettarla, alla relativa sanzione senza considerare
nello specifico come essa è realizzata. In proposito,
quindi, l’amministrazione ha l’onere di motivare in modo
esaustivo, attraverso una corretta e completa istruttoria
che rilevi esattamente le opere compiute e spieghi per quale
ragione esse superano i limiti entro i quali si può trattare
di una copertura realizzabile in regime di edilizia libera».
---------------
... per l'annullamento:
1) dell'ordinanza rif. prot. n. 24273 del 19.02.2018
del Comune di Terni -notificata il 28.03.2018- nella
quale veniva ordinata la demolizione e ripristino dello
stato dei luoghi per la realizzazione di una struttura in
metallo presso la propria abitazione ubicata in Terni, via
... n. 17, su un'area pertinenziale comune alle
due unità immobiliari censite al catasto al fg. 128, p.lla
476, sub 1 e sub 2;
...
1. I sig.ri ricorrenti Pa.Ar.Lo Fa. e Lu.Od.
hanno proposto ricorso chiedendo l’annullamento, previa
sospensione:
- dell’ordinanza rif. prot. n. 24273 del 19.02.2018
del Comune di Terni -notificata il 28.03.2018- nella
quale veniva ordinata la demolizione e ripristino dello
stato dei luoghi per la realizzazione di una struttura in
metallo realizzata presso la propria abitazione ubicata in
Terni, via ... n. 17, su un’area pertinenziale
comune alle due unità immobiliari censite in catasto al fg.
128, p.lla 476, sub 1 e sub 2;
- dei provvedimenti connessi e conseguenti a quelli che
precedono nonché dei provvedimenti antecedenti.
Con un unico e articolato motivo di ricorso si lamenta
l’eccesso di potere per travisamento dei fatti e la
violazione di legge per erronea interpretazione.
Riferiscono
i ricorrenti che l’intervento in oggetto consiste in una
struttura in metallo con copertura retrattile in plastica,
istallata in sostituzione del pergolato preesistente, che
gli stessi qualificano come “pergotenda”, affermando che
tale struttura non necessita di titolo abilitativo in quanto
opera pertinenziale ai sensi dell’art. 21, comma 3, lett.
l), r.r. n. 2 del 2015, richiamando anche il recente d.m. 02.03.2018 “Approvazione del glossario contenente l’elenco
non esaustivo delle principali opere edilizie realizzabili
in regime di attività edilizia libera”, ai sensi
dell’articolo 1, comma 2 del d.lgs. n. 222 del 2016, che
nomina al n. 50 le pergotende.
Ad avviso dei ricorrenti,
pertanto, l’opera principale non dovrebbe essere considerata
la struttura in sé, ma la tenda, quale elemento di
protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata
ad una migliore fruizione dello spazio esterno dall’unità
abitativa, con la conseguenza che la struttura di sostegno
si qualificherebbe in termini di mero elemento accessorio.
...
Il ricorso è infondato per i motivi di seguito esposti.
Giova preliminarmente richiamare il quadro normativo
regionale.
L’art. 118, comma 1, l.r. n. 1 del 2015, Testo
unico governo del territorio e materie correlate, nel
disciplinare le opere realizzabili sine titulo –nel
rispetto delle disposizioni del regolamento comunale per
l’attività edilizia e dello strumento urbanistico sulle
tipologie e sui materiali utilizzabili nonché nel rispetto
delle normative di settore aventi incidenza sulla disciplina
dell’attività edilizia– alla lett. d) include le opere pertinenziali degli edifici rinviando alla normativa
regolamentare la loro corretta individuazione.
L’art. 21,
comma 3, r.r. n. 2 del 2015, lett. l), riconduce alle opere
pertinenziali realizzabili senza titolo “i pergolati e i
gazebo con struttura leggera, in ferro o legno, purché
collocati a terra senza opere fondali o a protezione di
logge o balconi e privi di qualsiasi copertura, destinati
esclusivamente a sorreggere specie vegetali o teli”.
La giurisprudenza amministrativa, condivisa anche dall’adito
Tribunale, ha avuto modo di chiarire che “il concetto di
pertinenza ai fini urbanistico edilizi è molto più ristretto
di quello civilistico di cui all’art. 817 c.c.; gli elementi
che caratterizzano le pertinenze sono, da un lato,
l'esiguità quantitativa del manufatto, nel senso che il
medesimo deve essere di entità tale da non alterare in modo
rilevante l'assetto del territorio; dall'altro, l'esistenza
di un collegamento funzionale tra tali opere e la cosa
principale, con la conseguente incapacità per le medesime di
essere utilizzate separatamente ed autonomamente.
Pertanto
un'opera può definirsi accessoria rispetto a un'altra, da
considerarsi principale, solo quando la prima sia parte
integrante della seconda, in modo da non potersi le due cose
separare senza che ne derivi l'alterazione dell'essenza e
della funzione dell'insieme (ex multis Consiglio di Stato,
sez. VI, 04.01.2016, n. 19, TAR Campania Napoli, sez. IV,
16.05.2014, n. 2719)” (TAR Umbria, 28.11.2016, n.
730).
Ciò posto, va evidenziato, come rilevato dalla
giurisprudenza amministrativa, che le strutture definite
“pergotende” pongono particolari problemi di individuazione
e classificazione.
E’ stato affermato che la pergotenda «1) è una struttura
destinata a rendere meglio vivibili gli spazi esterni delle
unità abitative (terrazzi o giardini) e installabile al
fine, quindi, di soddisfare esigenze non precarie non
connotandosi, pertanto, per la temporaneità della loro
utilizzazione, ma costituiscono un elemento di migliore
fruizione dello spazio esterno, stabile e duraturo;
2) sotto
il profilo normativo la realizzazione di tale costruzione,
tenuto conto della sua consistenza, delle caratteristiche
costruttive e della suindicata funzione che la caratterizza,
non costituisce un'opera edilizia soggetta al previo
rilascio del titolo abilitativo atteso che, ai sensi del
combinato disposto degli articoli 3 e 10 del DPR n.
380/2001, sono soggetti al rilascio del permesso di
costruire gli "interventi di nuova costruzione", che
determinano una "trasformazione edilizia e urbanistica del
territorio", mentre una struttura leggera, secondo la
configurazione standard che caratterizza tali manufatti
nella loro generalità, destinata ad ospitare tende
retrattili in materiale plastico non integra tali
caratteristiche;
3) per aversi una costruzione definibile
come tale (c.d. pergotenda) occorre che l'opera principale
sia costituita non dalla struttura in sé, ma dalla tenda,
quale elemento di protezione dal sole e dagli agenti
atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dello
spazio esterno dell'unità abitativa, con la conseguenza che
la struttura (per aversi realmente una pergotenda e non una
costruzione edilizia necessitante di titolo abilitativo)
deve qualificarsi in termini di mero elemento accessorio,
necessario al sostegno e all'estensione della tenda;
4) la
tenda poi, che costituisce la caratteristica fondamentale
per effetto della quale un manufatto può definirsi
“pergotenda” e non considerarsi una "nuova costruzione",
deve essere in materiale plastico e retrattile, onde non
presentare caratteristiche tali da costituire un organismo
edilizio rilevante, comportante trasformazione del
territorio» (TAR Lazio, sez. II-quater, 22.12.2017
n. 12632).
Un’opera siffatta per la sua consistenza e le
caratteristiche costruttive, non è un’opera edilizia
soggetta al previo rilascio del titolo abilitativo, in
quanto, in base agli artt. 3 e 10 del d.P.R. n. 380 del 2001
sono soggetti al rilascio del permesso di costruire gli
interventi di nuova costruzione che determinano una
trasformazione edilizia e urbanistica del territorio, mentre
una struttura leggera, destinata ad ospitare tende
retrattili in materiale plastico, non assume queste
caratteristiche.
Deve, pertanto, trattarsi di una struttura
leggera, tanto da far assumere carattere preminente alla
tenda che costituisce elemento di protezione dagli agenti
atmosferici. Al contrario, quando la struttura per le sue
caratteristiche tecniche alteri la sagoma dell’edificio,
abbia una dimensione considerevole e presenti un ancoraggio
massiccio al suolo, va classificata come nuova costruzione e
per la sua realizzazione è richiesto il permesso di
costruire.
Recentemente il Consiglio di Stato ha assimilato le pergotende alle tettoie, evidenziando che la relativa
disciplina non è definita in modo univoco né nella normativa
né in giurisprudenza, anche seguito dell’introduzione del
d.m. 02.03.2018, “Approvazione del glossario contenente
l’elenco non esaustivo delle principali opere edilizie
realizzabili in regime di attività edilizia libera”, ai
sensi dell’articolo 1, comma 2 del citato d.lgs. n. 222 del
2016, che richiama al n. 50 le pergotende.
Tali sarebbero
«per comune esperienza, strutture di copertura di terrazzi e
lastrici solari, di superficie anche non modesta, formate da
montanti ed elementi orizzontali di raccordo e sormontate da
una copertura fissa o ripiegabile formata da tessuto o altro
materiale impermeabile, che ripara dal sole, ma anche dalla
pioggia, aumentando la fruibilità della struttura.
Si tratta
quindi di un manufatto molto simile alla tettoia, che se ne
distingue secondo logica solo per presentare una struttura
più leggera. (…) Al polo opposto, v’è l’art. 10, comma 1,
lettera a), del T.U. 380/2001, che assoggetta invece al
titolo edilizio maggiore, ovvero al permesso di costruire,
“gli interventi di nuova costruzione”.
Come subito si vedrà,
la giurisprudenza si fonda su tale norma per richiedere
appunto il permesso di costruire nel caso di tettoie di
particolari dimensioni e caratteristiche. Si afferma infatti
in via generale che tale struttura costituisce intervento di
nuova costruzione e richiede il permesso di costruire nel
momento in cui difetta dei requisiti richiesti per le
pertinenze e gli interventi precari, ovvero quando modifica
la sagoma dell’edificio: fra le molte, C.d.S. sez. IV 08.01.2018 n. 12 e sez. VI 16.02.2017 n. 694.
3. Da
tutto ciò, emerge chiara una conseguenza: non è possibile
affermare in assoluto che la tettoia richiede, o non
richiede, il titolo edilizio maggiore e assoggettarla, o non
assoggettarla, alla relativa sanzione senza considerare
nello specifico come essa è realizzata. In proposito,
quindi, l’amministrazione ha l’onere di motivare in modo
esaustivo, attraverso una corretta e completa istruttoria
che rilevi esattamente le opere compiute e spieghi per quale
ragione esse superano i limiti entro i quali si può trattare
di una copertura realizzabile in regime di edilizia libera»
(C.d.S., sez. VI, 07.05.2018, n. 2715).
Nel caso in esame, l’Amministrazione ha adempiuto al
suddetto onere istruttorio e motivazionale; la motivazione
del provvedimento appare, infatti, esaustiva, illustrando
compiutamente le caratteristiche dell’intervento realizzato.
Viene in particolare in rilievo il fatto che la struttura ha
una dimensione rilevante, pari a 64 mq, e non è
classificabile come struttura leggera, sia per le dimensioni
degli elementi costruttivi e dei materiali utilizzati
(profilati in ferro con sezione di ingombro 0,20x0,20) sia
per le modalità di fissaggio al suolo (a pag. 3
dell’ordinanza si legge: “il tirafondo che emerge dalla
staffa in questione è quello classico di un tassello chimico
immerso all’interno di un blocco di calcestruzzo.
L’intervento in tal senso è parificato ad un’opera
fondale”).
Pertanto, l’opera in oggetto non poteva essere
realizzata in assenza di titolo abilitativo edilizio.
8. Per quanto esposto, il ricorso deve essere respinto (TAR
Umbria,
sentenza 28.11.2018 n. 629 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Corte
di giustizia, solo chi partecipa può impugnare gli atti di una gara.
La legittimazione a impugnare gli atti di gara spetta soltanto alle imprese
che partecipano al bando. Le eccezioni a questo principio sono poche e,
comunque, non allargano in maniera indefinita le possibilità di tutela.
È quanto ha deciso ieri la Corte di giustizia dell’Unione europea (sentenza
28.11.2018 - causa C-328/17), confermando così la linea interpretativa dei
giudici amministrativi italiani. E, soprattutto, chiudendo una controversia
sul punto che andava avanti da anni e che nel 2016 (sentenza n. 245) aveva
visto coinvolta anche la Corte costituzionale.
La vicenda
Il caso riguarda una gara avviata dall’Agenzia regionale per il trasporto
pubblico locale della Liguria del 2015. La stazione appaltante aveva indetto
una gara per l’affidamento del servizio di trasporto pubblico, contro il
quale era stato proposto ricorso al Tar. Il motivo era l’affidamento del
servizio in un lotto unico: nessuna delle società ricorrenti, infatti, aveva
potuto partecipare alla gara, non avendo a disposizione la struttura
necessaria a garantire il servizio.
Il Tar Liguria, sebbene il bando di gara sia poi stato revocato, chiede alla
Corte di giustizia «se il diritto dell’Unione in materia di aggiudicazione
degli appalti pubblici di forniture e di lavori sia contrario o meno ad una
normativa nazionale che riconosca la possibilità di impugnare gli atti di
una procedura di gara ai soli operatori economici che abbiano presentato
domanda di partecipazione alla gara stessa, anche qualora la domanda
giudiziale sia volta a sindacare in radice la procedura».
La decisione
La Corte, con la sentenza di ieri, ha ricordato che la partecipazione a un
procedimento di aggiudicazione di un appalto può, in linea di principio,
«validamente costituire una condizione» che deve essere soddisfatta per
dimostrare che il soggetto coinvolto ha interesse a ricorrere contro la
procedura. Difficile dimostrare l’interesse a opporsi in assenza di
un’offerta.
Ci sono, per la verità, delle eccezioni. L’operatore economico potrà, cioè,
fare ricorso «nelle ipotesi in cui tale offerta era oggettivamente
impossibile», per esempio, per la presenza nel bando «di clausole
immediatamente escludenti o di clausole che impongono oneri manifestamente
incomprensibili o del tutto sproporzionati o che rendono impossibile la
stessa formulazione dell’offerta».
Il sistema italiano, consolidatosi con questo assetto attraverso diverse
pronunce, viene allora giudicato compatibile con le norme europee. Tenendo
fermi questi principi, affermati sia dal Consiglio di Stato che dalla Corte
costituzionale, bisognerà solo verificare che «il diritto a una tutela
giurisdizionale effettiva» dell’impresa ricorrente sia concretamente
garantito
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 29.11.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Incarichi
a contratto, la Cassazione conferma l’obbligo di pubblicazione in Gazzetta.
Obbligo di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale delle assunzioni del
personale in base all’articolo 110 del Tuel, sia se la competenza è devoluta
al giudice amministrativo, qualora la selezione dovesse rispettare le regole
del concorso pubblico, ad esempio in presenza della nomina di una
commissione, nell'attribuzione di punteggi o nella formazione di una
graduatoria (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 21
settembre), sia qualora la stessa dovesse essere devoluta al giudice
ordinario, in quanto non rispettosa delle regole del concorso pubblico.
Queste ultime conclusioni sono contenute nella
sentenza 27.11.2018 n. 53180 della Corte di Cassazione, Sez. feriale penale.
La posizione dei giudici e quella della difesa
Sia il tribunale di primo grado sia successivamente la Corte d’appello hanno
condannato, per abuso di ufficio (articolo 323 del codice penale), il
dirigente finanziario e alcuni membri della giunta comunale per l'assunzione
di un funzionario apicale in base all’articolo 110 del Tuel.
Secondo i
giudici penali si sarebbe in presenza di una violazione dell'articolo 4,
comma 1-bis, del Dpr 487/1994, per mancata pubblicazione sulla Gazzetta
Ufficiale dell'avviso contenente gli estremi del bando, oltre che violazione
dell'articolo 124, comma 1, del Dlgs 267/2000 per mancata affissione
dell'avviso nell'albo pretorio per un periodo non inferiore ai prescritti 15
giorni.
Di diverso avviso i ricorrenti che hanno impugnato in Cassazione la sentenza
dei giudici di appello. A loro dire, vi sarebbe un errore di fondo nella
motivazioni della sentenza, in quanto la giurisprudenza amministrativa ha
escluso la riferibilità agli enti locali territoriali della disciplina del
Dpr 487/1994, applicabile soltanto ai concorsi pubblici, sicché nessun
obbligo di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale sussisteva nel caso di
specie, la cui omissione, pertanto, non integra la fattispecie di reato
ascritta, mentre la sanzionata pubblicazione nell'albo pretorio, perché
inferiore nella durata a quanto prescritto dall'articolo 124 del Dlgs
267/2000, è essenzialmente dovuta alla scadenza della presentazione delle
domande da parte dei candidati. D'altra parte lo stesso Dl 90/2014 prescrive
esclusivamente una selezione che nulla ha a che vedere con il concorso
pubblico.
Le indicazioni della Cassazione
In merito alle assunzioni effettuate secondo l’articolo 110 del Tuel, il Dl
90/2014 ha inserito la selezione pubblica quale medesimo adempimento
previsto dall'articolo 35, comma 1, del Dlgs 165/2001. Ora precisa la
Suprema corte, l'attività selettiva non è assimilabile a un concorso
pubblico, funzionale all'assunzione di pubblici dipendenti, in quanto
diretta soltanto a reperire il candidato più rispondente alle
caratteristiche e alle esigenze dell'ente e alle mansioni da assegnare,
senza la formazione di una graduatoria all'esito dell'attribuzione di un
punteggio, in base ai titoli o ad altri criteri valutativi.
Comunque non è stato seguito il procedimento mediante adozione di
adempimenti sequenziali, diretti a garantire la pubblicità dell'avviso, la
partecipazione di tutti i possibili aspiranti e lo scrutinio dei candidati
fino a un giudizio finale di individuazione di quello ritenuto più idoneo.
Pertanto, è da ritenersi corretta la sentenza che ha evidenziato il mancato
rispetto sia delle prescrizioni sulla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale
dell'avviso di selezione pubblica sia sul tempo minimo obbligatorio di
pubblicazione all'albo pretorio per quindici giorni.
Per i giudici di Piazza Cavour, tuttavia, la semplice violazione di legge
non conduce all'abuso di ufficio, non avendo la Corte di appello
adeguatamente motivato l'intenzionalità della condotta del funzionario
pubblico di voler procurare il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto
richiesto dalla norma penale. La mancanza della motivazioni induce, in
conclusione, la Cassazione ad annullare la sentenza e rinviare ad altra
sezione della Corte di appello per il nuovo esame
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 07.12.2018).
---------------
MASSIMA
2.3 L'assunto difensivo non ha pregio e considera in modo incompleto il
quadro
normativo di riferimento.
Come già osservato dalla Corte di merito, l'art. 110 del Testo unico delle
leggi
sull'ordinamento degli enti locali, D.Lgs. n. 267/2000, sotto la rubrica
"incarichi a
contratto", nella parte rilevante ai fini del presente processo, stabilisce
al comma 1: "Lo
statuto può prevedere che la copertura dei posti di responsabili dei servizi
o degli uffici,
di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione, possa avvenire
mediante contratto a
tempo determinato di diritto pubblico o, eccezionalmente e con deliberazione
motivata, di
diritto privato, fermi restando i requisiti richiesti dalla qualifica da
ricoprire" (comma 1).
Al comma 2 prevede "Il regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei
servizi, negli enti
in cui è prevista la dirigenza, stabilisce i limiti, i criteri e le modalità
con cui possono
essere stipulati, al di fuori della dotazione organica, contratti a tempo
determinato per i
dirigenti e le alte specializzazioni, fermi restando i requisiti richiesti
per la qualifica da
ricoprire. Tali contratti sono stipulati in misura complessivamente non
superiore al 5 per
cento del totale della dotazione organica della dirigenza e dell'area
direttiva e comunque
per almeno una unità. Negli altri enti, il regolamento sull'ordinamento
degli uffici e dei
servizi stabilisce i limiti, i criteri e le modalità con cui possono essere
stipulati, al di fuori
della dotazione organica, solo in assenza di professionalità analoghe
presenti all'interno
dell'ente, contratti a tempo determinato di dirigenti, alte specializzazioni
o funzionari
dell'area direttiva, fermi restando i requisiti richiesti per la qualifica
da ricoprire. Tali
contratti sono stipulati in misura complessivamente non superiore al 5 per
cento della
dotazione organica dell'ente, o ad una unità negli enti con una dotazione
organica
inferiore alle 20 unità".
Le due disposizioni citate differiscono tra loro,
perché, seppur
riferite entrambe al conferimento di incarichi a contratto a tempo
determinato, soltanto la
prima riguarda mansioni corrispondenti a quelle di un posto presente in
pianta organica di responsabile dei servizi o degli uffici, di dirigente o
di alta specializzazione, mentre la
seconda prevede incarichi per tali figure professionali "al di fuori della
dotazione
organica" a fronte di esigenze straordinarie, non affrontabili con le
risorse umane già
disponibili. In entrambe le situazioni disciplinate, secondo esplicita
previsione normativa,
spetta allo statuto dell'ente prevedere la copertura dei posti in pianta
organica con
contratti a tempo determinato.
Ebbene, tali rilievi convincono della necessità, anche sulla base della
stessa linea
difensiva degli imputati, di valutare la fattispecie concreta in base alle
previsioni
statutarie del Comune interessato; rispetto all'addebito come descritto al
capo A),
ritenuto fondato dal Tribunale, non si rinviene in sentenza nessuna
argomentazione per
sostenere o per escludere questo aspetto di contestata violazione di legge,
ossia la
contrarietà del procedimento che aveva riguardato l'arch. St. all'art.
66 dello
statuto comunale per l'assenza di un previo atto di indirizzo della Giunta
comunale, al
quale non vi è nessun riferimento nella motivazione senza che al contempo
sia
intervenuta una pronuncia di assoluzione, né che i ricorsi abbiano mosso una
specifica
contestazione al riguardo.
Per contro, nella sentenza di primo grado è ben
evidenziato
che, non soltanto la determina non era stata preceduta da un atto
d'indirizzo della Giunta
comunale, ma era illegittimo e pretestuoso a tale fine il richiamo alla
delibera di Giunta n.
40 del 2010, che era stata revocata in autotutela e quindi non poteva
esplicare nessun
effetto giuridico.
Più in generale va condivisa l'opinione, espressa in sentenza, per la quale
le
disposizioni del D.Lgs. n. 165 del 2001, introduttivo delle "Norme generali
sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni
pubbliche", devono
essere osservate anche nell'ambito delle amministrazioni locali, per tali
intendendosi "le
Regioni, le Province e i Comuni" (art. 1, comma 2), a ragione della loro
natura,
riconosciuta espressamente dal comma 3 dello stesso art. 1, di principi
fondamentali ai
sensi dell'art. 117 Cost.. In coerenza con tale premessa sono rinvenibili
nel D.Lgs. n. 267
del 2000, contenente il Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti
locali, plurimi
richiami alla disciplina sul pubblico impiego.
In tal senso rilevano:
- l'art. 7 del D.Lgs. n. 165/2001, il quale, nell'ambito dei principi
generali, dopo avere
disposto al comma 6 che le amministrazioni pubbliche, per esigenze cui non
possono
provvedere con personale già in servizio, conferiscono ad esperti incarichi
individuali con
contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e
continuativa, stabilisce
che "I regolamenti di cui all'art. 110, comma 6, del T.U. di cui al D.Lgs.
18.08.2000,
n. 267 si adeguano ai principi di cui al comma 6";
- l'art. 88 del D.Lgs. n. 267/2000 per il quale "all'ordinamento degli uffici
e del personale
degli enti locali, ivi compresi i dirigenti ed i segretari comunali e
provinciali, si applicano
le disposizioni del D.Lgs. 03.02.1993, n. 29, e successive
modificazioni ed integrazioni, e le altre disposizioni di legge in materia
di organizzazione e lavoro nelle
pubbliche amministrazioni";
- l'art. 111 dello stesso D.Lgs. n. 267/2000, il quale stabilisce che gli
"Enti locali, tenendo
conto delle proprie peculiarietà nell'esercizio della propria potestà
statutaria e
regolamentare, adeguano lo statuto ed il regolamento ai principi del
presente capo e del
capo 2 del D.Lgs. 03.02.1929, n. 29, e successive modificazioni ed
integrazioni".
- l'art. 19 del D.Lgs. n. 165 del 2001 sulla durata degli incarichi
dirigenziali a termine,
reso applicabile anche agli enti locali, compresi Regioni, Province e
Comuni, dal D.Lgs. 27.10.2009, n. 150, art. 40, comma 1, lett. f), introduttivo dei commi
6-bis e 6-ter.
Come già affermato dalla giurisprudenza di legittimità civile, occupatasi
del tema in
riferimento alla durata del rapporti scaturiti da contratti di affidamento
di incarichi
dirigenziali a tempo determinato presso enti locali territoriali, con
conclusioni che
mantengono validità anche per la presente vicenda e qui condivise e
ribadite, la
normativa contenuta nel testo unico del pubblico impiego appronta la
disciplina
fondamentale anche per i dipendenti degli enti locali e per i destinatari
degli incarichi
temporanei corrispondenti a mansioni di pubblici dipendenti (Cass. civ.,
sez. L., n. 478
del 23/10/2013, rv. 620670; sez. L, n. 849 del 28/10/2014, rv. 634201).
La
disciplina
di cui all'art. 110 del D.lgs. n. 267/2000 non detta indicazioni particolari
per gli incarichi a
termine, se non per la costituzione e per la cessazione del rapporto, che
sono
diversamente regolate rispetto a quanto previsto per il rapporto di pubblico
impiego a
tempo indeterminato con assegnazione di incarichi dirigenziali.
Si conviene con le difese che l'ente conferente non si trovava a dover
perfezionare
un'assunzione di un pubblico dipendente per instaurare un rapporto di lavoro
subordinato
a tempo indeterminato e che in concreto tanto non si è verificato nella
vicenda in esame;
ciò nonostante, non può nemmeno sostenersi che la materia, pur implicando
l'instaurazione di un rapporto fiduciario con il soggetto prescelto, non
fosse
regolamentata e lasciasse piena libertà di azione ai suoi funzionari ed
amministratori, in
quanto per diretta previsione contenuta, dapprima nella delibera di Giunta
Comunale n.
40 del 2010, poi revocata, quindi nella determina adottata dal Pe., era
stata indetta una
selezione pubblica.
All'epoca dei fatti l'adozione di tale procedura non era ancora imposta per
disposizione di legge, poiché sarebbe stata introdotta nel testo dell'art.
110 del D.Lgs.,
nel solo comma 1, n. 267/2000 soltanto nel 2014 dall'art. 11, comma 1, lett.
a), del D.L.
24/06/2014, n. 90, conv. dalla L. 11/08/2014, n. 114, con la previsione dello
stesso
adempimento di cui all'art. 35, comma 1, D.Lgs. n. 165/2001 e nel suo testo
antecedente
tale modifica non era contenuta una esplicita norma a regolamentare il
procedimento
prodromico alla conclusione del contratto.
E sebbene in linea generale
l'attività selettiva
non sia assimilabile ad un concorso pubblico, funzionale all'assunzione di
pubblici
dipendenti, in quanto diretta soltanto a reperire il candidato più
rispondente alle caratteristiche ed alle esigenze dell'ente ed alle mansioni
da assegnare senza la
formazione di una graduatoria all'esito dell'attribuzione di un punteggio in
base ai titoli o
ad altri criteri valutativi, ciò nonostante nel caso specifico ne era stata
prevista la
procedimentalizzazione mediante l'adozione di adempimenti sequenziali,
diretti a
garantire la pubblicità dell'avviso, la partecipazione di tutti i possibili
aspiranti e lo
scrutinio dei candidati fino ad un giudizio finale di individuazione di
quello ritenuto più
idoneo, il che deve ritenersi avesse volontariamente vincolato il Comune al
rispetto delle
prescrizioni normative in materia di procedure concorsuali.
Pertanto, non
giova
richiamare i poteri attribuiti al Sindaco dall'art. 50, comma 10, del D.Lgs.
n. 267/2000,
per il quale "Il sindaco e il presidente della provincia nominano i
responsabili degli uffici e
dei servizi, attribuiscono e definiscono gli incarichi dirigenziali e quelli
di collaborazione
esterna secondo le modalità ed i criteri stabiliti dagli articoli 109 e 110,
nonché dai
rispettivi statuti e regolamenti comunali e provinciali", perché con gli
atti adottati si era
autolimitata la libertà dell'ente di agire privatisticamente nella scelta
del personale cui
conferire l'incarico e comunque non si erano rispettate le prescrizioni
statutarie di cui al
già citato art. 66. Inoltre, al momento dell'indizione della selezione
pubblica il Pe. non
aveva ancora rivestito la carica di Sindaco, essendo il responsabile del
servizio finanziario
del Comune, circostanza che, come contestato, ha dato luogo alla violazione
delle
disposizioni di cui agli artt. 48 e 107 del D.Lgs. n. 267/2000.
Considerata la vicenda in base a tale presupposto, è dunque corretto
ritenere che
nel caso specifico non fossero state rispettate le attribuzioni spettanti al
Sindaco quanto
all'avvio della procedura, le prescrizioni sulla pubblicazione in Gazzetta
Ufficiale
dell'avviso della selezione pubblica, sul tempo minimo obbligatorio di
pubblicazione per
quindici giorni e sul divieto per gli organi politici, in questo caso per il Pe. in quanto
Sindaco del Comune, di prendere parte alle commissioni esaminatrici a
garanzia della
trasparenza, della legalità ed imparzialità del relativo operato secondo i
principi generali
previsti dall'art. 35, comma 3, del D.Lgs. n. 165/2001 cui si devono
conformare le
procedure per il reclutamento nelle pubbliche amministrazioni. |
EDILIZIA PRIVATA:
Il vano scala, se volumetricamente consistente, è
equiparabile ad una costruzione sicché da dover rispettare
le distanze legali fra edifici.
Risulta consolidato il principio per il quale, in tema di
distanze legali fra edifici, non sono computabili le
sporgenze esterne del fabbricato che abbiano funzione
meramente ornamentale, mentre costituiscono corpo di
fabbrica le sporgenze degli edifici aventi particolari
proporzioni, ove siano di apprezzabile profondità e
ampiezza, giacché, pur non corrispondendo a volumi abitativi
coperti, rientrano nel concetto civilistico di costruzione,
in quanto destinati ad estendere ed ampliare la consistenza
dei fabbricati.
Pertanto, mentre rientrano nella categoria degli sporti, non
computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi
con funzione di rifinitura od accessoria (come le mensole,
le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e
simili), costituiscono, invece, corpi di fabbrica,
computabili ai predetti fini, le sporgenze degli edifici
aventi particolari proporzioni.
---------------
Integra, dunque, la nozione di "volume tecnico", non
computabile nella volumetria della costruzione, solo l'opera
edilizia priva di alcuna autonomia funzionale, anche
potenziale, in quanto destinata a contenere impianti
serventi -quali quelli connessi alla condotta idrica,
termica- di una costruzione principale per esigenze tecnico
funzionali dell'abitazione e che non possono essere ubicati
nella stessa, e non anche quella che costituisce -come
appunto il vano scale- parte integrante del fabbricato,
ossia corpo di fabbrica.
---------------
2.1. - IL motivo non è fondato.
2.2. - La Corte di merito ha, correttamente, escluso che
(ferma restando la riserva alla legge dello Stato della
definizione delle "costruzioni" al fine della
applicazione dell'art. 873 c.c.), il vano scale
dell'immobile in questione non possa non essere considerato
a tutti gli effetti una "costruzione", come tale non
rientrante nel concetto di sporto.
Trattasi di un accertamento di fatto sorretto da adeguata e
logica motivazione -fondata sui richiamati esiti peritali,
secondo i quali "trattasi di due rampe in muratura, di
larghezza di mt. 2,51 e lunghezza di mt. 3,17 con
all'interno la stanza di alloggiamento dell'impianto di
riscaldamento; il tutto infisso, in modo stabile e
permanente, al suolo e realizzante una superficie
complessiva di mq. 9,98 ed un volume di metri cubi 15,02"
(sentenza impugnata, pag. 12)- come tale immune dalle
censure sollevate dai ricorrenti (Cass. n. 1916 del 2011),
che sostanzialmente si limitano a contestare la
qualificazione data dai giudici del merito al manufatto in
esame.
2.3. - Va rilevato che risulta consolidato il principio per
il quale, in tema di distanze legali fra edifici, non sono
computabili le sporgenze esterne del fabbricato che abbiano
funzione meramente ornamentale, mentre costituiscono corpo
di fabbrica le sporgenze degli edifici aventi particolari
proporzioni, ove siano di apprezzabile profondità e
ampiezza, giacché, pur non corrispondendo a volumi abitativi
coperti, rientrano nel concetto civilistico di costruzione,
in quanto destinati ad estendere ed ampliare la consistenza
dei fabbricati (Cass. n. 12964 del 2006).
Pertanto, mentre rientrano nella categoria degli sporti, non
computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi
con funzione di rifinitura od accessoria (come le mensole,
le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e
simili), costituiscono, invece, corpi di fabbrica,
computabili ai predetti fini, le sporgenze degli edifici
aventi particolari proporzioni (Cass. n. 17242 del 2010;
Cass. n. 18282 del 2016).
Integra, dunque, la nozione di "volume tecnico", non
computabile nella volumetria della costruzione, solo l'opera
edilizia priva di alcuna autonomia funzionale, anche
potenziale, in quanto destinata a contenere impianti
serventi -quali quelli connessi alla condotta idrica,
termica- di una costruzione principale per esigenze tecnico
funzionali dell'abitazione e che non possono essere ubicati
nella stessa, e non anche quella che costituisce -come
appunto il vano scale- parte integrante del fabbricato,
ossia corpo di fabbrica (Cass. n. 2566 del 2011; v. altresì
Cass. n. 20886 del 2012) (Corte di Cassazione, Sez. II
civile,
ordinanza 27.11.2018 n. 30708). |
APPALTI: Affidamento
con gara per la gestione degli spazi pubblicitari.
Legittimo il regolamento comunale sulla pubblicità nella parte in cui
prevede l'affidamento con gara pubblica della gestione degli spazi
pubblicitari.
Lo ha stabilito il TAR Puglia-Bari, Sez. III, con la
sentenza
26.11.2018 n. 1526 decidendo sul caso che vedeva coinvolto il
Comune di Bari.
Il Tar ha tirato in ballo quanto già stabilito dall'Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato che, con la decisione n. 5/2013, dopo aver precisato che
«...è una concessione di area pubblica il provvedimento iniziale che
conforma il rapporto» aveva chiarito che è «...corretto allocare l'uso degli
spazi pubblici contingentati con gara, dovendosi altrimenti ricorrere
all'unico criterio alternativo dell'ordine cronologico di presentazione
delle domande accoglibili, che è di certo meno idoneo ad assicurare
l'interesse pubblico all'uso più efficiente del suolo pubblico e quello dei
privati al confronto concorrenziale».
Ne deriva che il procedimento di gara non contrasta con la libera
espressione dell'attività imprenditoriale di cui si tratta, considerato, in
linea generale, che la procedura ad evidenza pubblica è istituto tipico di
garanzia della concorrenza nell'esercizio dell'attività economica privata
sull'uso di risorse pubbliche e che, in particolare, la concessione tramite
gara dell'uso di beni pubblici per l'esercizio di attività economiche
private è istituto previsto dall'ordinamento. Perciò, è fondata la
qualificazione della gara come strumento per assicurare il principio
costituzionale della libera iniziativa economica anche nell'accesso al
mercato degli spazi per la pubblicità.
Dunque, ciò che conta è che, attraverso questo sistema si regolamenta la
concessione dell'uso di un'area pubblica, ossia una risorsa limitata, non
già la concessione di servizio; il che significa che l'attività di
installazione di impianti pubblicitari non perde affatto le sue connotazioni
di libera attività imprenditoriale ma assume, semmai, fisionomia di attività
economica suscettibile di essere conformata per fini di utilità sociale,
secondo quanto esplicitato dall'articolo 41 della Costituzione
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 29.11.2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
Mutamento d'uso urbanisticamente rilevante - Configurabilità
del reato - Opere in assenza del permesso di costruire in
zona sismica e sottoposta a vincolo paesaggistico - Artt.
23-ter, 29, 44, 93, 94, 95, d.PR. n. 380/2001 - Art. 181,
d.lgs. n. 42/2004.
In materia edilizia, ai fini della
configurabilità del reato di cui all'art. 44 d.P.R. n. 380
del 2001, nel caso di interventi eseguiti in difetto o in
difformità del permesso di costruire, costituisce "mutamento
d'uso urbanisticamente rilevante" ogni forma di utilizzo di
un immobile o di una singola unità immobiliare diversa da
quella originaria, ancorché non accompagnata da opere
edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione
dell'immobile o dell'unità ad una diversa categoria
funzionale fra quelle elencate dall'art. 23-ter, comma
primo, del d.PR. n. 380/2001
(Cass. Sez. 3, n. 12904 del 03/12/2015, dep. 2016,
Postiglione).
...
Mutamento rilevante della destinazione d'uso - Esecuzione di
opere edilizie - Diversa categoria funzionale - Potestà
legislativa regionale.
Salva la potestà legislativa regionale,
costituisce mutamento rilevante della destinazione d'uso
ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità
immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non
accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale
da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità
immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale,
va interpretato nel senso che è fatto sempre salvo il caso
in cui l'autorizzazione, relativa al mutamento della
destinazione d'uso tra categorie omogenee (e, a maggior
ragione, tra diverse categorie funzionali), si riferisca ad
interventi per i quali siano necessari altri titoli di
legittimazione, i quali, in tal caso, vanno comunque
preventivamente acquisiti
(Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 21.11.2018 n. 52398 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Direttore dei lavori -
Responsabilità - Posizione di garanzia - Recesso tempestivo
dalla direzione dei lavori - Illecito edilizio evidenziato
in modo obiettivo o conoscenza che le direttive impartite
erano disattese o violate.
In tema di reati edilizi, il direttore
dei lavori riveste una posizione di garanzia circa la
regolare esecuzione delle opere, con la conseguente
responsabilità per le ipotesi di reato configurate, dalla
quale può andare esente solo ottemperando agli obblighi di
comunicazione e rinuncia all'incarico previsti dall'art. 29,
comma secondo, D.P.R. n. 380/2001, sempre che il recesso
dalla direzione dei lavori sia stato tempestivo, ossia sia
intervenuto non appena l'illecito edilizio si sia
evidenziato in modo obiettivo, ovvero non appena abbia avuto
conoscenza che le direttive impartite erano disattese o
violate (Sez. 3,
n. 34376 del 10/05/2005, Scimone, Rv. 232475)
(Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 21.11.2018 n. 52398 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Attività edilizia libera - Vasche di raccolta delle acque -
Segnalazione certificata dì inizio di attività (SCIA) -
Limiti - Opere urbanisticamente rilevanti.
Le vasche di raccolta delle acque
rientrano normalmente nell'attività edilizia libera (escluso
il caso della realizzazione, come nel caso di specie, di
cisterne interrate ossia di un volume tecnico di rilevante
ingombro destinato ad incidere oggettivamente in modo
significativo sui luoghi esterni,
Cass. Sez. 3, n. 7217 del 17/11/2010, dep. 2011, La Terra)
e tale approdo è confermato dal decreto legislativo
25.11.2016, n. 222 di individuazione di procedimenti oggetto
di autorizzazione, segnalazione certificata dì inizio di
attività (SCIA), silenzio assenso e comunicazione e di
definizione dei regimi amministrativi applicabili a
determinate attività e procedimenti, ai sensi dell'articolo
5 della legge 07.08.2015, n. 124
(v. Sezione II, 1.27.), il quale, tuttavia,
ovviamente prevede che, se per la realizzazione
dell'intervento siano necessari altri titoli di
legittimazione, questi vanno acquisiti preventivamente.
Tale regime vale anche per il deposito merci, comunque
sottratto, in ogni caso, dall'attività edilizia libera.
Indipendentemente dal mutamento della destinazione d'uso di
un immobile, quando si realizzano, come nel caso di specie,
opere urbanisticamente rilevanti, queste ultime, se soggette
al titolo abilitativo edilizio, devono essere realizzate
solo previo possesso del titolo previsto in relazione alla
loro importanza e natura
(Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 21.11.2018 n. 52398 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla modifica dell'immobile da cisterna (vasca deputata
alla raccolta delle acque) a magazzino per il deposito
merci.
E' pacifico che, in materia edilizia, ai
fini della configurabilità del reato di cui all'art. 44
d.P.R. n. 380 del 2001, nel caso di interventi eseguiti in
difetto o in difformità del permesso di costruire,
costituisce "mutamento d'uso urbanisticamente rilevante"
ogni forma di utilizzo di un immobile o di una singola unità
immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non
accompagnata da opere edilizie, purché tale da comportare
l'assegnazione dell'immobile o dell'unità ad una diversa
categoria funzionale fra quelle elencate dall'art. 23-ter,
comma primo, del decreto citato.
La regola generale è che, in presenza di opere che
implichino una stabile (benché non irreversibile)
trasformazione del territorio, preordinata a soddisfare
esigenze non precarie, è necessario il rilascio di un idoneo
titolo edilizio.
---------------
La trasformazione di un vano cisterna interrato, deputato
alla raccolta delle acque, in magazzino per il deposito
merci con conseguente creazione di superfici commerciali
configura modifiche della destinazione d'uso rilevanti,
intervenendo tra categorie edilizie funzionalmente autonome
e non omogenee, con effetti incidenti sul carico
urbanistico.
La realizzazione di un magazzino destinato a deposito merci
svolge, infatti, una funzione diretta a raccogliere e a
conservare merci destinate al commercio, all'artigianato,
all'attività industriale e, secondo i casi, non può essere
escluso anche l'espletamento di una funzione volta anche al
perseguimento di connessi bisogni di natura residenziale.
In un'accezione più ristretta, ma ugualmente rilevante dal
punto di vista urbanistico, la realizzazione di un
magazzino-deposito svolge una funzione finalizzata a
conservare "cose", registrandosi la permanenza umana, sia
pure in via accessoria, nelle fasi di carico e scarico delle
merci.
L'articolo 23-ter TUA, introdotto nel Testo Unico per
l'Edilizia ex d.P.R. n. 380 del 2001 dal cd. decreto
"Sblocca Italia" ex decreto-legge 12.09.2014, n. 133,
convertito in legge 11.11.2014, n. 164, ha disciplinato il
mutamento di destinazione d'uso rilevante, cioè quello che
comporta il passaggio tra categorie funzionali
urbanisticamente rilevanti, stabilendo che, salva la potestà
previsionale in materia alle regioni, costituisce mutamento
rilevante della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo
dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa da
quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione
di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione
dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati ad una
diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a)
residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e
direzionale; c) commerciale; d) rurale.
Escluso, all'evidenza, che la destinazione d'uso di un
magazzino-deposito merci possa rientrare nelle "macro"
categorie residenziali, turistico ricettive, rurale,
residuano le categorie con destinazioni d'uso commerciale,
produttiva e direzionale, dove nella prima (commerciale) il
magazzino per deposito merci normalmente deve essere
inserito.
La vasche di raccolta delle acque sono, all'evidenza,
escluse da tali ultime categorie funzionali.
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Va anche aggiunto che le vasche di raccolta delle acque
rientrano normalmente nell'attività edilizia libera (escluso
il caso della realizzazione, come nel caso di specie, di
cisterne interrate ossia di un volume tecnico di rilevante
ingombro destinato ad incidere oggettivamente in modo
significativo sui luoghi esterni) e tale approdo è
confermato dal decreto legislativo 25.11.2016, n. 222 di
individuazione di procedimenti oggetto di autorizzazione,
segnalazione certificata di inizio di attività (SCIA),
silenzio assenso e comunicazione e di definizione dei regimi
amministrativi applicabili a determinate attività e
procedimenti, ai sensi dell'articolo 5 della legge
07.08.2015, n. 124, il quale, tuttavia, ovviamente prevede
che, se per la realizzazione dell'intervento siano necessari
altri titoli di legittimazione, questi vanno acquisiti
preventivamente.
Tale regime vale anche per il deposito merci, comunque
sottratto, in ogni caso, dall'attività edilizia libera.
Va allora considerato che, indipendentemente dal mutamento
della destinazione d'uso di un immobile, quando si
realizzano, come nel caso di specie, opere urbanisticamente
rilevanti, queste ultime, se soggette al titolo abilitativo
edilizio, devono essere realizzate solo previo possesso del
titolo previsto in relazione alla loro importanza e natura.
Infatti, quanto al regime amministrativo degli interventi
edilizi, la tabella A), allegata al d.lgs. n. 222 del 2017,
precisa, nelle sottosezioni che riguardano le varie attività
edilizie ed i regimi cui esse sono sottoposte, che, nel caso
in cui per la realizzazione dell'intervento siano necessari
altri titoli di legittimazione, questi vanno acquisiti
preventivamente.
La stessa regula iuris è replicata con riferimento alla
modifica dell'originaria destinazione d'uso, nel senso che,
nel caso in cui l'autorizzazione (cui comunque è soggetto
anche il mutamento d'uso tra categorie omogenee) si
riferisca ad interventi per i quali sono necessari altri
titoli di legittimazione, questi vanno acquisiti
preventivamente.
Ne consegue che il principio secondo il quale, salva la
potestà legislativa regionale, costituisce mutamento
rilevante della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo
dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa da
quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione
di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione
dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati ad una
diversa categoria funzionale, va interpretato nel senso che
è fatto sempre salvo il caso in cui l'autorizzazione,
relativa al mutamento della destinazione d'uso tra categorie
omogenee (e, a maggior ragione, tra diverse categorie
funzionali), si riferisca ad interventi per i quali siano
necessari altri titoli di legittimazione, i quali, in tal
caso, vanno comunque preventivamente acquisiti.
---------------
3. Da tutto ciò consegue la manifesta infondatezza del
primo motivo dei ricorsi.
Il fatto che la modifica dell'immobile da cisterna (vasca
deputata alla raccolta delle acque) a magazzino per il
deposito merci rientri nella medesima categoria funzionale,
non richiedendo il permesso di costruire, è affermato su
basi meramente assertive, secondo una qualificazione
giuridica del fatto storico accertato, e neppure in
proposito contestato, profondamente errata.
E' pacifico, ed anche i ricorrenti mostrano di concordare in
proposito, che, in materia edilizia, ai fini della
configurabilità del reato di cui all'art. 44 d.P.R. n. 380
del 2001, nel caso di interventi eseguiti in difetto o in
difformità del permesso di costruire, costituisce "mutamento
d'uso urbanisticamente rilevante" ogni forma di utilizzo
di un immobile o di una singola unità immobiliare diversa da
quella originaria, ancorché non accompagnata da opere
edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione
dell'immobile o dell'unità ad una diversa categoria
funzionale fra quelle elencate dall'art. 23-ter, comma
primo, del decreto citato (Sez. 3, n. 12904 del 03/12/2015,
dep. 2016, Postiglione, Rv. 266483). La regola generale è
che, in presenza di opere che implichino una stabile (benché
non irreversibile) trasformazione del territorio,
preordinata a soddisfare esigenze non precarie, è necessario
il rilascio di un idoneo titolo edilizio.
Siccome nel caso di specie, sulla base dell'accertamento di
fatto compiuto, con logica ed adeguata motivazione, dai
giudici del merito, l'entità del deposito dei materiali e la
stabilità dell'utilizzazione dell'area emergono con
evidenza, è da ritenersi realizzata una trasformazione
permanente dell'assetto edilizio del territorio,
necessitante di permesso a costruire.
La trasformazione di un vano cisterna interrato, deputato
alla raccolta delle acque, in magazzino per il deposito
merci con conseguente creazione di superfici commerciali
configura modifiche della destinazione d'uso rilevanti,
intervenendo tra categorie edilizie funzionalmente autonome
e non omogenee, con effetti incidenti sul carico
urbanistico.
La realizzazione di un magazzino destinato a deposito merci
svolge, infatti, una funzione diretta a raccogliere e a
conservare merci destinate al commercio, all'artigianato,
all'attività industriale e, secondo i casi, non può essere
escluso anche l'espletamento di una funzione volta anche al
perseguimento di connessi bisogni di natura residenziale.
In un'accezione più ristretta, ma ugualmente rilevante dal
punto di vista urbanistico, la realizzazione di un
magazzino-deposito svolge una funzione finalizzata a
conservare "cose", registrandosi la permanenza umana,
sia pure in via accessoria, nelle fasi di carico e scarico
delle merci.
L'articolo 23-ter TUA, introdotto nel Testo Unico per
l'Edilizia ex d.P.R. n. 380 del 2001 dal cd. decreto "Sblocca
Italia" ex decreto-legge 12.09.2014, n. 133, convertito
in legge 11.11.2014, n. 164, ha disciplinato il mutamento di
destinazione d'uso rilevante, cioè quello che comporta il
passaggio tra categorie funzionali urbanisticamente
rilevanti, stabilendo che, salva la potestà previsionale in
materia alle regioni, costituisce mutamento rilevante della
destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o
della singola unità immobiliare diversa da quella
originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di
opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione
dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati ad una
diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a)
residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e
direzionale; c) commerciale; d) rurale.
Escluso, all'evidenza, che la destinazione d'uso di un
magazzino-deposito merci possa rientrare nelle "macro"
categorie residenziali, turistico ricettive, rurale,
residuano le categorie con destinazioni d'uso commerciale,
produttiva e direzionale, dove nella prima (commerciale) il
magazzino per deposito merci normalmente deve essere
inserito.
La vasche di raccolta delle acque sono, all'evidenza,
escluse da tali ultime categorie funzionali.
Da ciò già consegue la manifesta infondatezza del motivo di
ricorso.
Va anche aggiunto che le vasche di raccolta delle acque
rientrano normalmente nell'attività edilizia libera (escluso
il caso della realizzazione, come nel caso di specie, di
cisterne interrate ossia di un volume tecnico di rilevante
ingombro destinato ad incidere oggettivamente in modo
significativo sui luoghi esterni: Sez. 3, n. 7217 del
17/11/2010, dep. 2011, La Terra, Rv. 249529) e tale approdo
è confermato dal decreto legislativo 25.11.2016, n. 222 di
individuazione di procedimenti oggetto di autorizzazione,
segnalazione certificata di inizio di attività (SCIA),
silenzio assenso e comunicazione e di definizione dei regimi
amministrativi applicabili a determinate attività e
procedimenti, ai sensi dell'articolo 5 della legge
07.08.2015, n. 124 (v. Sezione II, 1.27.), il quale,
tuttavia, ovviamente prevede che, se per la realizzazione
dell'intervento siano necessari altri titoli di
legittimazione, questi vanno acquisiti preventivamente.
Tale regime vale anche per il deposito merci, comunque
sottratto, in ogni caso, dall'attività edilizia libera.
Va allora considerato che, indipendentemente dal mutamento
della destinazione d'uso di un immobile, quando si
realizzano, come nel caso di specie, opere urbanisticamente
rilevanti, queste ultime, se soggette al titolo abilitativo
edilizio, devono essere realizzate solo previo possesso del
titolo previsto in relazione alla loro importanza e natura.
Infatti, quanto al regime amministrativo degli interventi
edilizi, la tabella A), allegata al d.lgs. n. 222 del 2017,
precisa, nelle sottosezioni che riguardano le varie attività
edilizie ed i regimi cui esse sono sottoposte, che, nel caso
in cui per la realizzazione dell'intervento siano necessari
altri titoli di legittimazione, questi vanno acquisiti
preventivamente.
La stessa regula iuris è replicata con riferimento
alla modifica dell'originaria destinazione d'uso, nel senso
che (v. Sezione II, punto 39, colonna "concentrazione dei
regimi amministrativi"), nel caso in cui
l'autorizzazione (cui comunque è soggetto anche il mutamento
d'uso tra categorie omogenee) si riferisca ad interventi per
i quali sono necessari altri titoli di legittimazione,
questi vanno acquisiti preventivamente (v. sottosezione
1.1.).
Ne consegue che il principio secondo il quale, salva la
potestà legislativa regionale, costituisce mutamento
rilevante della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo
dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa da
quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione
di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione
dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati ad una
diversa categoria funzionale, va interpretato nel senso che
è fatto sempre salvo il caso in cui l'autorizzazione,
relativa al mutamento della destinazione d'uso tra categorie
omogenee (e, a maggior ragione, tra diverse categorie
funzionali), si riferisca ad interventi per i quali siano
necessari altri titoli di legittimazione, i quali, in tal
caso, vanno comunque preventivamente acquisiti.
Anche per tale ragione, quindi, il motivo di ricorso è
manifestamente infondato (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 21.11.2018 n. 52398). |
EDILIZIA PRIVATA:
In tema di reati edilizi, il direttore dei lavori
riveste una posizione di garanzia circa la regolare
esecuzione delle opere, con la conseguente responsabilità
per le ipotesi di reato configurate, dalla quale può andare
esente solo ottemperando agli obblighi di comunicazione e
rinuncia all'incarico previsti dall'art. 29, comma secondo,
D.P.R. n. 380/2001, sempre che il recesso dalla direzione
dei lavori sia stato tempestivo, ossia sia intervenuto non
appena l'illecito edilizio si sia evidenziato in modo
obiettivo, ovvero non appena abbia avuto conoscenza che le
direttive impartite erano disattese o violate.
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4. E' inammissibile
anche il secondo motivo del ricorso Fe..
La Corte territoriale ha affermato come, alla luce del
quadro probatorio acquisito ed avuto particolare riguardo
alla deposizione del Marino, sia emerso che il Fe., quanto
dalla missiva a sua firma depositata in udienza e datata
20.12.2012, abbia comunicato le proprie dimissioni soltanto
dopo l'esecuzione del sopralluogo e l'accertamento della
violazione.
Da ciò la Corte d'appello ha tratto il logico convincimento
come la comunicazione intempestiva delle proprie dimissioni,
escluda che il ricorrente, in qualità di direttore dei
lavori, possa andare esente da responsabilità ai sensi
dell'articolo 29 d.P.R. n. 380 del 2001.
Nel pervenire a tale conclusione la Corte distrettuale si è
attenuta al principio di diritto affermato dalla
giurisprudenza di legittimità secondo il quale, in tema di
reati edilizi, il direttore dei lavori riveste una posizione
di garanzia circa la regolare esecuzione delle opere, con la
conseguente responsabilità per le ipotesi di reato
configurate, dalla quale può andare esente solo ottemperando
agli obblighi di comunicazione e rinuncia all'incarico
previsti dall'art. 29, comma secondo, D.P.R. n. 380/2001,
sempre che il recesso dalla direzione dei lavori sia stato
tempestivo, ossia sia intervenuto non appena l'illecito
edilizio si sia evidenziato in modo obiettivo, ovvero non
appena abbia avuto conoscenza che le direttive impartite
erano disattese o violate (Sez. 3, n. 34376 del 10/05/2005,
Scimone, Rv. 232475) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 21.11.2018 n. 52398). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Revocabili
le dimissioni del dipendente comunale «stressato» dal lavoro.
Con la
sentenza
21.11.2018 n. 30126 la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, ha affermato, contro un Comune-datore di lavoro, che sono annullabili le dimissioni date dal
dipendente pubblico -afflitto da stress lavorativo e da conseguenti
malattie accertate- in un momento in cui, tra l'altro, era privo di
alternative prospettive di lavoro e aveva una famiglia da mantenere.
La mancanza di volontà
Una vera e propria incapacità di intendere e volere, anche se temporanea,
che dà al lavoratore la possibilità di revocare le dimissioni date per
l'insostenibilità dell'ambiente lavorativo e anche in assenza di azioni per
mobbing contro il datore di lavoro, che aveva tra l'altro sempre respinto la
richiesta di un cambiamento del posto di lavoro. Inoltre, le dimissioni non
risultavano accettate dal Comune che, come nel settore privato, avrebbe
dovuto convalidare la genuinità dell'atto unilaterale del lavoratore.
Sul punto specifico i giudici di merito non avevano dato rilievo al fatto
che la mancata previsione legislativa espressa della doverosa accettazione
delle dimissioni unilaterali, da parte del datore di lavoro pubblico, non la
esclude anzi al contrario. Infatti, in più passaggi la sentenza fa notare
che nell’ambito del pubblico impiego contrattualizzato, dove questo non è
espressamente parificato al rapporto privato di lavoro, non si può
propendere per l’applicazione di minori garanzie, tenuto conto che la
«ritrosia ad accomunare le diverse discipline muove dall’opposto
presupposto». Ovviamente si allude alla ritrosia del Legislatore.
Nel caso specifico, le dimissioni risultavano gestite dall’Unione di Comuni
cui era affidato, appunto, il servizio di gestione del personale. E, il
Comune risultava averne solo preso atto, senza alcuna verifica diretta della
loro genuinità e volontarietà. Ma il momento del recesso dal contratto di
lavoro è momento delicato che non può essere privato delle dovute cautele. A
maggior ragione nel pubblico impiego.
La sentenza
Per la Cassazione il caso posto alla sua attenzione rientra a pieno titolo
nella previsione dell’articolo 428 del Codice civile sull’annullabilità del
negozio giuridico concluso in stato di incapacità di intendere e volere.
Dando così validità all’atto di revoca delle dimissioni da parte di chi -in
tale stato- le ha rassegnate.
Al contrario i giudici di merito hanno
escluso l’esistenza dell’incapacità psichica in cui versava il lavoratore
dimissionario, basandosi sulla relazione dle Ctu che, pur riconoscendo una
serie di patologie dipendenti dallo stress lavorativo, aveva negato la
totale perdita della capacità di intendere e volere. Ma la Cassazione ha
respinto questa adesione supina delle sentenza di merito ai rilievi del Ctu
che possono solo fornire una valutazione specialistica dei fatti, ma non
trarne conclusioni in relazione alla vicenda sub iudice.
La Cassazione così chiarisce -anche al giudice a cui ha rinviato la causa-
che l’incapacità che determina l’annullabilità di un atto giuridico può ben
essere momentanea e non esclusa dalla riviviscenza dello stato di lucidità
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 22.11.2018).
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MASSIMA
3. Il primo motivo di ricorso è da accogliere, per le ragioni e
nei limiti di seguito indicati.
4. La fattispecie prevista dall'art. 428 cod. civ. è stata più volte presa
in considerazione da questa Corte che ha elaborato, fra l'altro, i seguenti
principi utilmente richiamabili come quadro di riferimento dello stato della
giurisprudenza in materia:
a) ai fini della sussistenza di una situazione di incapacità di
intendere e di volere (quale prevista dall'art. 428 cod. civ.) costituente
causa di annullamento del negozio (nella specie, dimissioni), non occorre la
totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente
un turbamento psichico tale da impedire la formazione di una volontà
cosciente, facendo così venire meno la capacità di autodeterminazione del
soggetto e la consapevolezza in ordine all'importanza dell'atto che sta per
compiere (Cass. 22.05.1969 n. 1797; Cass. 15.01.2004, n. 515; Cass.
28.03.2002 n. 4539; Cass. 01.09.2011, n. 17977);
b) l'incapacità naturale consiste in ogni stato psichico abnorme,
pur se improvviso e transitorio e non dovuto a una tipica infermità mentale
o a un vero e proprio processo patologico, che -con riguardo al momento in
cui il negozio è posto in essere- abolisca o scemi notevolmente le facoltà
intellettive o volitive, in modo da impedire od ostacolare una seria
valutazione degli atti che si compiono o la formazione di una volontà
cosciente (Cass. 12.07.1991 n. 7784; Cass. 14.05.2003 n. 7485);
c) la prova dell'incapacità naturale può essere data con ogni mezzo
o in base a indizi e presunzioni, che anche da soli, se del caso, possono
essere decisivi ai fini della sua configurabilità (Cass. 07.04.2000 n.
4344; si è, infatti, affermato (Cass. 28.03.2002 n. 4539);
d) nel caso di incapacità dovuta a malattia non si può prescindere
da una valutazione delle possibilità di regresso della malattia
manifestatasi anteriormente o posteriormente, per stabilirne la sua
sussistenza nel momento dell'atto (Cass. 15.06.1995 n. 6756);
e) ma in presenza di una malattia psichica, se sia stato accertata
la totale incapacità di un soggetto in due determinati periodi, prossimi nel
tempo, per il periodo intermedio la sussistenza dell'incapacità è assistita
da presunzione "iuris tantum", sicché, in concreto, si verifica l'inversione
dell'onere della prova nel senso che, in siffatta ipotesi, deve essere
dimostrato, da chi vi abbia interesse, che il soggetto abbia agito in una
fase di lucido intervallo (Cass. 28.03.2002 n. 4539; Cass. 09.08.2011,
n. 17130; Cass. 04.03.2016, n. 4316);
f) analoga presunzione è stata ritenuta sussistente nell'ipotesi di
una situazione di malattia mentale di carattere permanente, affermandosi che
ricade su chi sostiene la validità dell'atto l'onere di dimostrare
l'esistenza di un eventuale lucido intervallo, tale da ridare al soggetto
l'attitudine a rendersi conto della natura e dell'importanza dell'atto
(Cass. 26.11.1997 n. 11833;
g) nella stessa ottica, si è precisato che quando esista una
situazione di malattia mentale di carattere tendenzialmente permanente, o
protraentesi per un rilevante periodo, è onere del soggetto che sostiene la
validità dell'atto dare prova che esso fu posto in essere, in quel periodo,
durante una fase di remissione della patologia, aggiungendosi che ove la
malattia abbia caratteristiche "bipolari", sia cioè caratterizzata dalla
alternanza di fasi depressive e di fasi di eccitamento, nel quadro di un
disturbo psico-affettivo, può non essere di per sé decisiva la circostanza
che l'atto sia stato posto in essere nell'una o nell'altra fase, giacché in
entrambe le ipotesi potrebbe essere esistita incapacità di intendere oppure
di volere (Cass. 12.03.2004, n. 5159).
5. I su riportati principi trovano applicazione anche in caso di domanda di annullamento dell'atto di dimissione del lavoratore dal rapporto di lavoro
(vedi: Cass. 14.05.2003 n. 7485, cit.), con alcune puntualizzazioni
quanto alle peculiari caratteristiche dell'atto e alle conseguenze del suo
possibile annullamento.
5.1. In particolare, in base a consolidati e condivisi orientamenti di
questa Corte, è stato affermato quanto segue:
a) nel giudizio promosso dal lavoratore in cui si controverta sulle
modalità di risoluzione del rapporto di lavoro l'indagine circa la
sussistenza di dimissioni del lavoratore deve essere rigorosa, essendo in
discussione beni giuridici primari, oggetto di particolare tutela da parte
dell'ordinamento -attesa la natura di negozio giuridico unilaterale delle
dimissioni, che è diretto alla rinunzia del posto di lavoro, bene protetto
dagli artt. 4 e 36 Cost.- sicché occorre accertare che da parte del
lavoratore sia stata manifestata in modo univoco l'incondizionata volontà di
porre fine al rapporto stesso (vedi, per tutte: Cass. 09.04.2014, n.
8361; Cass. 03.03.2015, 4241; Cass. 11.11.2010, n. 22901; Cass. 27.08.2003, n. 12549);
b) in caso di dimissioni date dal lavoratore in stato di incapacità
naturale, il diritto a riprendere il lavoro nasce con la sentenza di
annullamento ex art. 428 cod. civ., i cui effetti retroagiscono al momento
della domanda, stante il principio secondo cui la durata del processo non
deve andare a detrimento della parte vincitrice; solo da quel momento nasce
il diritto alla retribuzione, in quanto l'efficacia totalmente
ripristinatoria dell'annullamento del negozio unilaterale risolutivo del
rapporto di lavoro non si estende al diritto alla retribuzione, la quale di
regola, salvo espressa eccezione di legge, non è dovuta in caso di mancanza
di attività lavorativa (Cass. 14.04.2010, n. 8886);
c) poiché il lavoro pubblico contrattualizzato è regolato dalle
norme del codice civile e dalle leggi civili sul lavoro, nonché dalle norme
sul pubblico impiego, solo in quanto non espressamente abrogate e non
incompatibili, le dimissioni del lavoratore pubblico costituiscono un
negozio unilaterale recettizio, idoneo a determinare la risoluzione del
rapporto di lavoro dal momento in cui vengano a conoscenza del datore di
lavoro e indipendentemente dalla volontà di quest'ultimo di accettarle,
sicché non necessitano più, per divenire efficaci, di un provvedimento di
accettazione da parte della Pubblica Amministrazione, anche se tale
principio va contemperato con le esigenze di natura organizzativa collegate
al buon andamento dell'attività della Pubblica Amministrazione di cui si
tratta (Cass. 07.01.2009, n. 57; Cass. 05.03.2013, n. 5413;
Cass. 12.02.2015, n. 2795);
d) peraltro nel rapporto di lavoro alle dipendenze della PA, al
dipendente dimissionario si applica l'istituto della riammissione in
servizio, che non dà luogo alla reviviscenza del precedente rapporto di
lavoro, ma alla costituzione di un nuovo rapporto, anche se disposizioni di
legge (quale l'art. 132 del d.P.R. n. 3 del 1957) o di contratto collettivo
prevedono la riammissione nel ruolo precedentemente ricoperto o
l'attribuzione dell'anzianità pregressa; pertanto, ai fini della
progressione economica maturata dopo le dimissioni, va considerato come
termine iniziale la data del provvedimento di riammissione in servizio, da
cui decorre l'anzianità nella qualifica del dipendente riammesso agli
effetti sia giuridici che economici (Cass. 18.12.2017, n. 30342; Cass.
SU 21.12.2009, n. 26827).
6. Ne consegue che la disciplina che regola le dimissioni nel lavoro
pubblico non coincide del tutto con quella prevista per il lavoro privato,
però anche ad essa va comunque applicato il principio generale della piena
genuinità e dell'autenticità delle dimissioni, perché non estendere tale
principio ai dipendenti pubblici equivarrebbe ad indebolirne la posizione
rispetto ai dipendenti privati, mentre la ritrosia ad accomunare le
discipline muove dall'opposto presupposto.
Del resto, proprio nel lavoro pubblico perché l'eventuale annullamento delle
dimissioni non comporta l'automatico rientro del dipendente nel posto
precedentemente occupato, è evidente che il rispetto del suddetto principio
assume valore centrale.
7. Ciò posto in generale, come quadro di riferimento della giurisprudenza
rilevante in materia, per quel che riguarda il caso di specie deve
rimarcarsi che la Corte d'appello ha dato atto di un incontestato
accertamento dei fatti caratterizzato da:
a) la relazione del CTU nominato in appello attestante che il
Padovani pure nel momento delle dimissioni aveva mostrato un "notevole
turbamento psichico" anche se non era in condizioni di "totale" esclusione
della capacità psichica e volitiva;
b) la riconosciuta necessità di valutare la decisione di rassegnare
le dimissioni nell'ambito del contesto lavorativo dell'epoca, fonte di
stress e insoddisfazione per l'interessato e tenendo conto delle conseguenti
patologie contratte e diagnosticate dai medici curanti nonché dei molteplici
tentativi di cambiare l'ambiente lavorativo effettuati invano dal Padovani;
c) la sussistenza di un serio pregiudizio sicuramente arrecato
dalle dimissioni al Pa., visto che egli all'epoca era privo di
un'alternativa di lavoro e con una famiglia da mantenere.
8. Su questa base la Corte territoriale è pervenuta alla conclusione di
escludere, per non meglio precisati "criteri di maggiore probabilità
logica", la configurabilità delle dimissioni del Padovani come il frutto di
un momento di inconsapevolezza dell'agire, pur considerandole l'epilogo di
una condizione di malessere lavorativo, che si era tradotto di conclamate
patologie.
È del tutto evidente che una simile conclusione si pone in contrasto con i
principi dianzi riportati in primo luogo perché, come risulta dalla
complessiva lettura della sentenza, in essa si muove dall'erronea premessa
secondo cui il "notevole turbamento psichico", oltretutto inserito in un
quadro patologico diagnosticato, non è sufficiente ai fini della sussistenza
di una situazione di incapacità di intendere e di volere (quale prevista
dall'art. 428 cod. civ.), essendo necessaria una totale esclusione della
capacità psichica e volitiva.
Questa tesi è, di per sé, il frutto di una interpretazione dell'art. 428
cod. civ. non conforme a quella offerta dalla consolidata giurisprudenza di
questa Corte.
8.1. Né può essere giustificata dal tenore delle conclusioni del CTU secondo
cui anche se il Pa. mostrava un notevole turbamento psichico pure nel
momento delle dimissioni tuttavia egli non si trovava in quel momento in
condizioni di totale esclusione della capacità psichica e volitiva "e quindi
in condizioni di incapacità naturale".
Infatti, in base ad un consolidato e condiviso indirizzo di questa Corte, la
consulenza tecnica ha un limite intrinseco consistente nella sua
funzionalità alla risoluzione di questioni di fatto presupponenti cognizioni
di ordine tecnico e non giuridico, sicché così come i consulenti tecnici non
possono essere incaricati di accertamenti e valutazioni circa la
qualificazione giuridica di fatti e la conformità al diritto di
comportamenti, analogamente se per ipotesi il consulente effettua simili
valutazioni, in linea di massima, non se ne deve tenere conto (Cass. 29.08.2011, n. 17720; Cass. SU
06.05.2008, n. 11037; Cass. 04.02.1999, n. 996).
8.2. A ciò va aggiunto che la Corte d'appello, pur riconoscendo la
sussistenza di patologie contratte dal Padovani e diagnosticate dai medici,
come originate dallo stress e dall'insoddisfazione nel lavoro, non ha
ritenuto tale complessivo quadro clinico rilevante per la qualificazione
della situazione del lavoratore al momento delle dimissioni come di
incapacità naturale, anche se, secondo la menzionata relazione del CTU, il
lavoratore in quel momento mostrava un notevole turbamento psichico.
Né la Corte territoriale ha, a tal fine, considerato la natura di negozio
giuridico unilaterale delle dimissioni, posto in essere dal lavoratore e
avente come conseguenza la rinunzia del posto di lavoro, bene protetto dagli
artt. 4 e 36 Cost., che oltretutto nel caso concreto era foriero di un
accertato sicuro pregiudizio per l'interessato e la sua famiglia.
III — Conclusioni
9. Per le indicate ragioni -ed in questi limiti- deve essere accolto il
primo motivo di ricorso e ciò porta all'assorbimento degli altri motivi.
La sentenza impugnata deve essere, quindi, cassata, in relazione alle
censure accolte, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di
cassazione, alla Corte d'appello di Bologna, in diversa composizione, che si
atterrà, nell'ulteriore esame del merito della controversia, a tutti i
principi su affermati e, quindi, anche ai seguenti:
1) "ai fini della sussistenza di una situazione
di incapacità di intendere e di volere (quale prevista dall'art. 428 cod.
civ.) costituente causa di annullamento del negozio, non occorre la totale
privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente un
turbamento psichico tale da impedire la formazione di una volontà cosciente,
facendo così venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la
consapevolezza in ordine all'importanza dell'atto che sta per compiere.
Peraltro, laddove si controverta della sussistenza di una simile situazione
in riferimento alle dimissioni del lavoratore subordinato il relativo
accertamento deve essere particolarmente rigoroso, in quanto le dimissioni,
comportano la rinunzia del posto di lavoro -bene protetto dagli artt. 4 e 36
Cost.- sicché occorre accertare che da parte del lavoratore sia stata
manifestata in modo univoco l'incondizionata e genuina volontà di porre fine
al rapporto stesso".
2) "la consulenza tecnica ha un limite
intrinseco consistente nella sua funzionalità alla risoluzione di questioni
di fatto presupponenti cognizioni di ordine tecnico e non giuridico, sicché
così come i consulenti tecnici non possono essere incaricati di accertamenti
e valutazioni circa la qualificazione giuridica di fatti e la conformità al
diritto di comportamenti, analogamente se per ipotesi il consulente
effettua, di propria iniziativa, simili valutazioni non se ne deve tenere
conto, a meno che esse vengano vagliate criticamente e sottoposte al
dibattito processuale delle parti". |
PUBBLICO IMPIEGO: Anche
il dirigente risponde per la falsa timbratura ma non per truffa.
Secondo il contratto collettivo, il dirigente pubblico può essere sottoposto
all'obbligo di timbratura finalizzato al calcolo di ferie, missioni e buoni
pasto, ma non certo alla determinazione delle ore di presenza negli uffici,
essendo la sua retribuzione parametrata al solo raggiungimento degli
obiettivi.
Tuttavia, nel caso in cui il dirigente pubblico dovesse violare il sistema
di rilevazione delle presenze, per qualsiasi motivo, allo stesso non sarebbe
applicabile il reato di truffa aggravata, previsto esclusivamente in
presenza di un danno erariale economicamente apprezzabile, ma potrebbe
incorrere nel reato inserito all'articolo 55-quinques del Dlgs 165/2001
secondo cui «… il lavoratore dipendente di una pubblica amministrazione che
attesta falsamente la propria presenza in servizio, mediante l'alterazione
dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente …
é punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da euro 400
ad euro 1.600».
Inoltre, quest'ultima ipotesi di reato risulta compatibile
con una eventuale richiesta di applicazione della misura cautelare degli
arresti domiciliari o, in subordine, della sospensione dall'esercizio della
funzione.
Queste sono le conclusioni della Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la
sentenza 20.11.2018 n. 52207.
Il caso
Ha fatto ricorso alla Cassazione il Procuratore della Repubblica, a seguito
del rigetto, sia da parte del Gip che del tribunale, della richiesta di
misure cautelari nei confronti del dirigente comandante della polizia locale
che é stato imputato per truffa aggravata per aver falsamente certificato le
propria presenza in ufficio.
Inoltre, non sono state ascoltate le
indicazioni fornite dalla difesa secondo la quale la timbratura dei
dirigenti è finalizzata al calcolo di ferie, missioni e buoni pasto, ma non
certo alla determinazione delle ore di presenza in uffici, essendo la
retribuzione parametrata al raggiungimento degli obiettivi, tra l'altro
raggiunti, come da attestazione scritta dell'amministrazione.
Le indicazioni della Suprema corte
I giudici di Piazza Cavour hanno escluso che nel caso di specie possa
rilevarsi, come sostenuto dal Procuratore, il reato di truffa aggravata, in
assenza di un danno economicamente apprezzabile, in quanto le assenze del
dirigente, a differenza degli altri dipendenti, non comportano decurtazioni
stipendiali conseguenti alla mancata realizzazione della prestazione quale
danno subito dalla Pa.
Tuttavia, sia il Gip che il Tribunale non hanno
correttamente valutato, come sarebbe stato doveroso, il profilo della falsa
attestazione dell'indagato in ordine alla propria presenza in ufficio, pur
puntualmente riferita nell'imputazione provvisoria alla fattispecie
disciplinata dall'articolo 55-quinquies, comma 1, del Dlgs 165/2001.
Infatti, sia il Tribunale che il Gip hanno dato conto della falsa
attestazione, da parte dell'indagato, della propria presenza in ufficio,
rilevando che il mendacio è avvenuto «nella fattispecie mediante
l'alterazione dei sistemi di rilevamento, ovvero mediante altre attività
fraudolente funzionali a giustificare l'assenza».
In questo caso, secondo la
Cassazione, le condotte rientrano a pieno titolo in quelle previste
dall'articolo 55-quinquies, comma 1, del Dlgs n. 165, dove per il
perfezionamento del reato è irrilevante l'accertamento del danno erariale,
posto che la disposizione normativa non fa alcun riferimento a quel profilo.
Sulla questione, infatti, la giurisprudenza di legittimità ha già ritenuto
ammissibile il concorso tra il reato disciplinato dall'articolo 640, secondo
comma, n. 1, del codice penale e quello dell'articolo 55-quinquies, proprio
osservando come «la predetta fattispecie, a differenza della truffa, si
consuma con la mera falsa attestazione della presenza in servizio attraverso
un'alterazione dei sistemi di rilevamento delle presenze (tra le tante,
Cass. Sez. 3, n. 47043 del 27/10/2015; Cass. Sez. 3, n. 45696 del
27/10/2015)»
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 29.11.2018).
---------------
MASSIMA
5.
Il terzo ordine di censure formulate nel ricorso deduce la
configurabilità
del delitto di truffa aggravata ai danni del Comune di Rovigo mediante falsa
attestazione della propria presenza con i sistemi di rilevamento previsti.
5.1. L'ordinanza impugnata ha escluso la configurabilità del delitto di
truffa
aggravata, richiamando puntualmente le valutazioni del G.i.p. ed osservando
che, ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 640, secondo
comma, n. 1,
cod. pen., è necessario l'accertamento del danno erariale, e che, però,
nella
specie, la presenza in ufficio era ininfluente in relazione a tale profilo,
in quanto
la retribuzione dell'indagato non era collegata ad orari di lavoro.
Sia l'ordinanza impugnata, sia, più ampiamente, quella del G.i.p., tuttavia,
danno conto della falsa attestazione della propria presenza in ufficio da
parte
dell'indagato siccome avvenuta «nella fattispecie mediante l'alterazione dei
sistemi di rilevamento, ovvero mediante altre attività fraudolente
funzionali a
giustificare l'assenza».
La memoria della difesa, nel contestare la configurabilità del reato di
truffa,
osserva, tra l'altro, che «molte contestazioni appaiono del tutto erronee»;
partendo da questa notazione, però, è ragionevole desumere, a contrario, e
per
quello che rileva in questa sede, che non vengono, allo stato, poste in
discussione le conclusioni dell'ordinanza impugnata in ordine alla
sussistenza di
"tutte" le condotte di falsa attestazione.
5.2. Questa essendo la ricostruzione dei fatti oggetto di accusa,
indubbiamente corretta risulta l'esclusione dei gravi indizi di colpevolezza
in
ordine al reato di truffa aggravata.
In effetti,
secondo un principio assolutamente consolidato in
giurisprudenza,
in tema di truffa aggravata in danno dello Stato, nel caso in cui la
condotta consista in ripetute assenze ingiustificate dell'impiegato pubblico
dal luogo di
lavoro, occorre che queste determinino un danno economicamente apprezzabile,
sicché è onere del giudice di merito considerare a tal fine anche
l'eventuale
ricorrenza di decurtazioni stipendiali conseguenti proprio alla mancata
realizzazione della prestazione (così, per tutte, Sez. 2, n. 14975 del
16/03/2018,
Tropea, Rv. 272543, e Sez. 2, n. 52007 del 24/11/2016, Sembira Nahum, Rv.
268435).
5.3. La condotta contestata, tuttavia, non è stata valutata, come sarebbe
stato doveroso, con specifico riferimento al profilo della falsa
attestazione
dell'indagato in ordine alla propria presenza in ufficio, pur puntualmente
riferita
nell'imputazione provvisoria alla fattispecie di cui all'art. 55-quinquies,
comma 1,
d.lgs. n. 165 del 2001.
Si è osservato che sia l'ordinanza impugnata, sia, più ampiamente, quella
del G.i.p. danno conto della falsa attestazione, da parte dell'indagato,
della
propria presenza in ufficio, precisandosi che il mendacio è avvenuto «nella
fattispecie mediante l'alterazione dei sistemi di rilevamento, ovvero
mediante
altre attività fraudolente funzionali a giustificare l'assenza».
Tali condotte, siccome ricostruite in questi termini, risultano
corrispondere
esattamente ad alcune di quelle descritte dall'art. 55- uinquies, comma 1, d.lgs.
n. 165 del 2001. Del resto,
per il perfezionamento della figura di reato
appena
indicata è irrilevante l'accertamento del danno erariale, posto che la
disposizione
normativa non fa alcun riferimento a tale profilo, ed in questo senso è
stata letta
dalla giurisprudenza di legittimità, la quale, in particolare, ha ritenuto
ammissibile il concorso tra il reato di cui all'art. 640, secondo comma, n.
1, cod.
pen., e quello di cui all'art. 55-quinquies cit., proprio osservando come
«la
predetta fattispecie, a differenza della truffa, si consuma con la mera
falsa
attestazione della presenza in servizio attraverso un'alterazione dei
sistemi di
rilevamento delle presenze» (così Sez. 3, n. 47043 del 27/10/2015, Mozzillo,
Rv.
265223, e Sez. 3, n. 45696 del 27/10/2015, Chianese, Rv. 265400).
Ne consegue che il giudice del merito cautelare avrebbe dovuto esaminare
se le condotte in questione siano sussumibili nel tipo delittuoso di cui
all'art. 55-quinquies, comma 1, d.lgs. n. 165 del 2001. In relazione a tale figura di
reato,
infatti, è prevista una pena da uno a cinque anni, che consente
l'applicazione di
una misura cautelare personale, coercitiva o interdittiva, ovviamente
all'esito di
una positiva verifica, in concreto, della sussistenza delle esigenze
cautelari.
6. In conclusione, l'ordinanza impugnata deve essere annullata per nuovo
esame.
Secondo quanto precedentemente precisato,
il nuovo esame dovrà avere ad
oggetto l'accertamento della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e
delle
esigenze cautelari nei confronti dell'indagato esclusivamente con
riferimento al
reato di cui all'art. 55-quinquies, comma 1, d.lgs. n. 165 del 2001, e, in
caso
positivo, l'individuazione della misura che risulti idonea, adeguata e
proporzionata. |
PUBBLICO IMPIEGO:
Sulla questione se l'uso, da parte di un pubblico ufficiale, di
una autovettura di servizio per recarsi dall'ufficio alla propria
abitazione, restando sempre all'interno del territorio di un comune, ed
effettuando percorsi limitati, dalle due alle sei volte al mese nell'arco di
sette mesi, integri il delitto di peculato o il delitto di
peculato d'uso.
Deve farsi applicazione della disciplina del peculato d'uso,
eventualmente ritenendo sussistenti più condotte legate dal vincolo della
continuazione, in linea con l'insegnamento giurisprudenziale secondo cui
ricorre la figura giuridica di cui all'art. 314, secondo comma, cod. pen.
quando vi è la preordinazione dell'appropriazione ad un uso, secondo il
dettato normativo, «momentaneo», e quindi "temporaneo", ma perciò non
meramente "istantaneo", della cosa, e alla immediata restituzione della
stessa dopo il breve utilizzo.
---------------
Le Sezioni Unite hanno precisato che non integra il delitto di falso
ideologico in atto pubblico la falsa attestazione del pubblico
dipendente circa la sua presenza in ufficio riportata nei cartellini
marcatempo e nei fogli di presenza, ma anche nell'ambito di dichiarazioni
relative a «"missioni" fuori sede», in quanto si tratta di documenti che
hanno natura di mera attestazione del dipendente inerente al rapporto di
lavoro, soggetto a disciplina privatistica, e che «in ciò esauriscono in via
immediata i loro effetti, non involgendo affatto manifestazioni
dichiarative, attestative o di volontà riferibili alla pubblica
amministrazione».
In effetti, anche quando si è affermata la configurabilità
del reato di falso ideologico in atto pubblico con riferimento al contenuto
mendace di attestazioni concernenti la propria attività di servizio, si è
sempre sottolineata la necessità, per poter ritenere integrata la
fattispecie, che la falsa attestazione dispieghi un oggettivo rilievo e un
interesse eccedente l'area del mero rapporto di impiego tra ente pubblico e
dipendente, per il contenuto relativo anche a manifestazione esterna della
volontà e dell'azione della P.A..
---------------
In considerazione della complessiva evoluzione giurisprudenziale e
legislativa, appare corretto escludere la riconducibilità
alla categoria dell'atto pubblico di tutte le attestazioni del dipendente
pubblico inerenti al rapporto di lavoro e non involgenti manifestazioni
dichiarative, attestative o di volontà riferibili alla pubblica
amministrazione.
Ed infatti, se non sono riconducibili alla categoria dell'atto pubblico le
attestazioni relative alla presenza in servizio, ossia le più significative
attestazioni del pubblico dipendente nell'ambito ed ai fini del rapporto di
lavoro, e proprio perché inerenti al rapporto di lavoro, in quanto rapporto
regolato da disciplina privatistica, non sembra ragionevole qualificare come
atti pubblici altre attestazioni comunque inerenti al medesimo rapporto di
lavoro.
---------------
Costituisce principio più volte affermato in giurisprudenza quello secondo
cui, in materia di falso, per poter qualificare come certificato
amministrativo un atto proveniente da un pubblico ufficiale, devono
concorrere due condizioni:
a) che l'atto non attesti i risultati di un accertamento compiuto
dal pubblico ufficiale redigente, ma riproduca attestazioni già documentate;
b) che l'atto, pur quando riproduca informazioni desunte da altri
atti già documentati, non abbia una propria distinta e autonoma efficacia
giuridica, ma si limiti a riprodurre anche gli effetti dell'atto
preesistente.
Si può rilevare, inoltre, che, significativamente,
le Sezioni Unite, quando hanno escluso la configurabilità del reato di falso
ideologico in atto pubblico con riferimento alla falsa attestazione del
pubblico dipendente circa la sua presenza in ufficio riportata nei
cartellini marcatempo e nei fogli di presenza, ovvero nell'ambito di
dichiarazioni relative a «"missioni" fuori sede», hanno pronunciato sentenza
di assoluzione perché il fatto non sussiste, senza procedere ad alcuna
riqualificazione giuridica del fatto in contestazione.
In sintesi, allora, può ritenersi che eventuali
mendaci annotazioni sui "registri macchina", se ed in quanto questi
siano destinati esclusivamente a controlli interni della
Pubblica amministrazione nonché strettamente inerenti al rapporto di lavoro
tra il dipendente e l'ente pubblico, non sono sussumibili né nella
fattispecie della falsità ideologica del pubblico ufficiale in atto
pubblico, né nella fattispecie della falsità ideologica del pubblico
ufficiale in certificati o autorizzazioni amministrative.
---------------
3.2. In considerazione dei fatti come ricostruiti nell'ordinanza
impugnata, la questione da esaminare, quindi, è se l'uso, da parte di un
pubblico ufficiale, di una autovettura di servizio per recarsi dall'ufficio
alla propria abitazione, restando sempre all'interno del territorio di un
comune, ed effettuando percorsi limitati, dalle due alle sei volte al mese
nell'arco di sette mesi, integri il delitto di peculato o il delitto
di peculato d'uso.
Il Pubblico ministero ricorrente richiama due precedenti della
giurisprudenza di legittimità che ritengono la configurabilità del reato di
peculato con riferimento a condotte di utilizzazione prolungata di beni
mobili per finalità extra-istituzionali (Sez. 6, n. 53974 del 15/11/2016,
Freda, Rv. 268588, e Sez. 6, n. 13038 del 10/03/2016, Bertin, Rv. 266191).
Tuttavia, la decisione più risalente, se rappresenta che «non è
necessaria la perdita definitiva del bene da parte dell'ente pubblico»,
ritiene comunque che debba essere accertato «l'esercizio da parte
dell'agente sul medesimo bene dei poteri uti dominus, tale da sottrarre il
bene stesso alla disponibilità dell'ente».
La decisione più recente, poi, premette che l'orientamento seguito, al quale
va ascritta anche Sez. 6, Bertin, cit., «più che contrastare, opera un
distinguo rispetto all'orientamento secondo cui la reiterazione delle
condotte di utilizzo indebito dell'autovettura di servizio configura il
delitto di peculato d'uso continuato (in tal senso v. Sez. 6 n. 14040 del
29/01/2015, Soardi, Rv.262974, e Sez. 6, n. 39770 del 27/05/2014, Giordano,
Rv. 260458)»; precisa, quindi, che ricorre il peculato, e non il
peculato d'uso, «quando il bene di proprietà pubblica è gestito con
criteri personalistici, per un periodo prolungato ed al di fuori di ogni
controllo, fino al punto che non è più possibile stabilire se, e in che
misura, la cosa rimanga ancora destinata a finalità pubblicistiche».
Entrambe queste decisioni, inoltre, avevano ad oggetto condotte relative a
beni trasferiti e poi custoditi lungamente in luoghi privati e del tutto
estranei all'esercizio di funzioni pubblicistiche.
Nella vicenda in esame, il fatto, per come ricostruito dai giudici di
merito, non è costituito dalla completa sottrazione dell'autovettura di
proprietà del Comune di Rovigo alla finalità pubblicistica per un periodo di
tempo prolungato, bensì, diversamente, da un ripetuto, ma episodico, uso
indebito della stessa, e per tragitti limitati.
Deve, quindi, farsi applicazione della disciplina del peculato d'uso,
eventualmente ritenendo sussistenti più condotte legate dal vincolo della
continuazione, in linea con l'insegnamento giurisprudenziale secondo cui
ricorre la figura giuridica di cui all'art. 314, secondo comma, cod. pen.
quando vi è la preordinazione dell'appropriazione ad un uso, secondo il
dettato normativo, «momentaneo», e quindi "temporaneo", ma
perciò non meramente "istantaneo", della cosa, e alla immediata
restituzione della stessa dopo il breve utilizzo (Sez. 6 n. 14040 del
29/01/2015, Soardi, Rv. 262974, e Sez. 6, n. 39770 del 27/05/2014, Giordano,
Rv. 260458).
4. Il secondo ordine di censure formulate nel ricorso deduce, infondatamente,
la configurabilità del delitto di falso ideologico in atto pubblico, con
riferimento alle annotazioni sui "registri macchina" concernenti i
tragitti dell'autovettura Fiat Punto sopra precisata.
4.1. I "registri macchina", secondo quanto ricostruito sia dal G.i.p.,
sia dal Tribunale del riesame, sono atti che riportano la data e l'orario
dell'utilizzo dei veicoli cui si riferiscono, i km. in entrata ed in uscita,
nonché la firma dell'utente utilizzatore, e sono destinati a controlli
interni dell'amministrazione. Si può rilevare, inoltre, che la natura di
atti interni dei "registri macchina" non è stata contestata nemmeno
nel ricorso del Pubblico ministero.
4.2. La ricostruzione in punto di fatto appena indicata costituisce premessa
fondamentale per la qualificazione della condotta relativa alla
falsificazione di tali atti.
4.2.1. Deve escludersi, innanzitutto, la configurabilità del reato di
falso ideologico in atto pubblico.
Le Sezioni Unite hanno precisato che non integra il delitto di falso
ideologico in atto pubblico la falsa attestazione del pubblico
dipendente circa la sua presenza in ufficio riportata nei cartellini
marcatempo e nei fogli di presenza, ma anche nell'ambito di dichiarazioni
relative a «"missioni" fuori sede», in quanto si tratta di documenti
che hanno natura di mera attestazione del dipendente inerente al rapporto di
lavoro, soggetto a disciplina privatistica, e che «in ciò esauriscono in
via immediata i loro effetti, non involgendo affatto manifestazioni
dichiarative, attestative o di volontà riferibili alla pubblica
amministrazione» (così, in motivazione, Sez. U, n. 15983 del 11/04/2006,
Sepe, Rv. 233423).
La successiva giurisprudenza ha mantenuto fermo il rispetto di questo
principio.
In effetti, anche quando si è affermata la configurabilità del reato di
falso ideologico in atto pubblico con riferimento al contenuto mendace di
attestazioni concernenti la propria attività di servizio, si è sempre
sottolineata la necessità, per poter ritenere integrata la fattispecie, che
la falsa attestazione dispieghi un oggettivo rilievo e un interesse
eccedente l'area del mero rapporto di impiego tra ente pubblico e
dipendente, per il contenuto relativo anche a manifestazione esterna della
volontà e dell'azione della P.A. (cfr. in particolare, Sez. 6, n. 8934 del
10/12/2014, dep. 2015, Franzosi, Rv. 262649, e Sez. 5, n. 19 del 13/11/2009,
dep. 2010, Rovelli, Rv. 245732).
Del resto, poco dopo la sentenza delle Sezioni Unite, l'art. 69, comma 1,
d.lgs. 27.10.2009, n. 150, ha inserito nel d.lgs. 30.03.2001, n. 165, l'art.
55-quinquies, rubricato «False attestazioni o certificazioni», nel
quale è dettata una specifica disciplina, anche penalistica, per la falsa
attestazione della propria presenza in servizio da parte del lavoratore
dipendente di una pubblica amministrazione.
In particolare, l'art. 55-quinquies, comma 1, d.lgs. n. 165 del 2001, come
introdotto dall'art. 69, comma 1, d.lgs. n. 150 del 2009, recita: «Fermo
quanto previsto dal codice penale, il lavoratore dipendente di una pubblica
amministrazione che attesta falsamente la propria presenza in servizio,
mediante l'alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre
modalità fraudolente, ovvero giustifica l'assenza dal servizio mediante una
certificazione medica falsa o falsamente attestante uno stato di malattia è
punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da euro 400 ad
euro 1.600. La medesima pena si applica al medico e a chiunque altro
concorre nella commissione del delitto.».
La previsione appena riportata sembra chiaramente confermare la soluzione
giurisprudenziale della inapplicabilità della disciplina penalistica della
falsità in atto pubblico con riferimento alle attestazioni di presenza in
servizio: invero, se si postulasse l'operatività delle fattispecie di cui
agli artt. 476 e 479 cod. pen., la figura delittuosa di cui all'art.
55-quinquies, comma 1, d.lgs. n. 165 del 2001 costituirebbe rispetto a
quelle un mero doppione.
Ciò posto, in considerazione della complessiva evoluzione giurisprudenziale
e legislativa precedentemente descritta, appare corretto escludere la
riconducibilità alla categoria dell'atto pubblico di tutte le attestazioni
del dipendente pubblico inerenti al rapporto di lavoro e non involgenti
manifestazioni dichiarative, attestative o di volontà riferibili alla
pubblica amministrazione.
Ed infatti, se non sono riconducibili alla categoria dell'atto pubblico le
attestazioni relative alla presenza in servizio, ossia le più significative
attestazioni del pubblico dipendente nell'ambito ed ai fini del rapporto di
lavoro, e proprio perché inerenti al rapporto di lavoro, in quanto rapporto
regolato da disciplina privatistica, non sembra ragionevole qualificare come
atti pubblici altre attestazioni comunque inerenti al medesimo rapporto di
lavoro.
4.2.2. Per completezza, deve escludersi anche la configurabilità della
fattispecie di falsità in certificazioni amministrative, pure ipotizzata dai
giudici del merito cautelare.
Costituisce infatti principio più volte affermato in giurisprudenza quello
secondo cui, in materia di falso, per poter qualificare come certificato
amministrativo un atto proveniente da un pubblico ufficiale, devono
concorrere due condizioni:
a) che l'atto non attesti i risultati di un accertamento compiuto
dal pubblico ufficiale redigente, ma riproduca attestazioni già documentate;
b) che l'atto, pur quando riproduca informazioni desunte da altri
atti già documentati, non abbia una propria distinta e autonoma efficacia
giuridica, ma si limiti a riprodurre anche gli effetti dell'atto
preesistente (così, in particolare, Sez. 2, n. 46273 del 15/11/2011,
Battaglia, Rv. 251549, e Sez. 5, n. 5105 del 14/03/2000, De Marco, Rv.
216057).
Si può rilevare, inoltre, che, significativamente, le Sezioni Unite, quando
hanno escluso la configurabilità del reato di falso ideologico in atto
pubblico con riferimento alla falsa attestazione del pubblico dipendente
circa la sua presenza in ufficio riportata nei cartellini marcatempo e nei
fogli di presenza, ovvero nell'ambito di dichiarazioni relative a «"missioni"
fuori sede», hanno pronunciato sentenza di assoluzione perché il fatto
non sussiste, senza procedere ad alcuna riqualificazione giuridica del fatto
in contestazione.
4.3. In sintesi, allora, può ritenersi che eventuali mendaci annotazioni sui
"registri macchina", se ed in quanto questi, come risulta allo stato
accertato nel caso di specie, siano destinati esclusivamente a controlli
interni della Pubblica amministrazione nonché strettamente inerenti al
rapporto di lavoro tra il dipendente e l'ente pubblico, non sono sussumibili
né nella fattispecie della falsità ideologica del pubblico ufficiale in atto
pubblico, né nella fattispecie della falsità ideologica del pubblico
ufficiale in certificati o autorizzazioni amministrative.
Di conseguenza, (anche) con riferimento a questa contestazione, deve
escludersi la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza di un reato che
legittimi l'applicazione di misure cautelari personali, coercitive o
interdittive (Corte di Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 20.11.2018 n. 52207). |
EDILIZIA PRIVATA:
Costruzione in zona agricola - Destinazione del manufatto
alle opere dell'agricoltura - Possesso dei requisiti
soggettivi di imprenditore agricolo - Valutazione di
conformità ai fini del rilascio della sanatoria -
Fattispecie: edificazione ex novo di una villetta con
piscina - Artt. 30, 44, d.P.R. n. 380/2001 e 181, d.lgs. n.
42 del 2004.
In tema di reati urbanistici, nel caso
di costruzione in zona agricola, la destinazione del
manufatto alle opere dell'agricoltura ed il possesso dei
requisiti soggettivi di imprenditore agricolo in capo a chi
lo realizza tanto al momento della richiesta e del rilascio
del permesso di costruire, quanto al tempo della eventuale
voltura del titolo abilitativo in favore di terzi sono
elementi rilevanti nella valutazione della rispondenza
dell'opera alle prescrizioni dello strumento urbanistico e,
di conseguenza, anche per l'eventuale valutazione di
conformità ai fini del rilascio della sanatoria
(Sez. 3, n. 7681 del 13/01/2017 dep. 17/02/2017,
Innamorati e altri).
...
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Costruzione in zona
agricola - BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Sequestro
preventivo per reati paesaggistici - Realizzazione di una
dimora turistica - Totale snaturamento della pianificazione
urbanistica di zona - Valutazione dell'incidenza degli abusi
sulle diverse matrici ambientali - Presupposto del "periculum
in mora" -
Necessità.
In tema di sequestro preventivo per
reati paesaggistici, il presupposto del "periculum in mora"
non può essere desunto solo dalla esistenza delle opere
ultimate, ma è necessario dimostrare che l'effettiva
disponibilità materiale o giuridica del bene, da parte del
soggetto indagato o di terzi, possa ulteriormente
deteriorare l'ecosistema protetto dal vincolo paesaggistico,
dovendo valutarsi l'incidenza degli abusi sulle diverse
matrici ambientali ovvero il loro impatto sulle zone oggetto
di particolare tutela
(tra le tante: Sez. 3, n. 2001 del 24/11/2017 dep.
18/01/2018, P.M. in proc. Dessi e altri).
Nella specie è emerso, il rilevante impatto
paesaggistico che l'intervento edilizio ha sull'area in
questione in quanto si assiste al totale snaturamento della
pianificazione urbanistica di zona ed al definitivo
stravolgimento della sua vocazione agricolaambientale in
turisticaresidenziale, ciò a sostegno della sussistenza del
periculum anche per il reato lottizzatorio.
...
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Ignoranza da parte dell'agente
sulla normativa di settore e sull'illiceità della propria
condotta - Elemento psicologico del reato - Presupposti per
l'esclusione della colpa - Limiti.
In tema di elemento psicologico del
reato, l'ignoranza da parte dell'agente sulla normativa di
settore e sull'illiceità della propria condotta è idonea ad
escludere la sussistenza della colpa, se indotta da un
fattore positivo esterno ricollegabile ad un comportamento
della pubblica amministrazione
(Cass. Sez. 3, n. 35314 del 20/05/2016 dep. 23/08/2016,
P.M. in proc. Oggero), dunque non certo
confidando sul proprio tecnico privato. Nella specie, la
mancanza della qualifica soggettiva richiesta dalla norma,
era circostanza ben nota alla ricorrente che, peraltro, non
poteva nemmeno difendersi sostenendo di essersi fidata dei
propri tecnici che avevano seguito la pratica edilizia (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.11.2018 n. 52149 - link a www.ambientediritto.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Potere
di autotutela, PA tenuta a osservare principi costituzionali e garanzie
partecipative.
La revoca di un provvedimento amministrativo, in ossequio ai principi di
legalità, efficacia, imparzialità e buon andamento, deve essere assistita
dalle garanzie partecipative, da quelle formali e procedurali scaturenti dal
canone del contrarius actus e dalla necessità di esplicitare le ragioni
giustificanti la nuova determinazione. Ne deriva che essa, da un lato, non
può assumere la forma implicita e dall’altro, deve estrinsecarsi in un
procedimento corrispondente a quello a suo tempo seguito per l’adozione
dell’atto revocando.
È quanto afferma il TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, con
sentenza
20.11.2018 n. 1978.
Il fatto
Si trattava di un concorso pubblico ai fini della nomina a revisore unico
del Consorzio regionale per lo sviluppo delle attività produttive della
Regione Calabria in relazione al quale, il secondo classificato, dopo aver
avuto accesso agli atti di gara, invitava l’Amministrazione regionale a
rivedere la propria determinazione ed eventualmente ad agire in autotutela,
avendo ravvisato l’insufficienza della documentazione prodotta dal vincitore
ad attestare il possesso dei requisiti professionali richiesti.
Accogliendo le censure mosse, la Regione revocava l’incarico e avverso tale
provvedimento veniva proposta impugnazione.
Tra le varie censure, rilevano, in particolare, la violazione del principio
del contrarius actus, in quanto l’Amministrazione resistente avrebbe
esercitato il potere di autotutela senza avvalersi della medesima procedura
utilizzata per lo svolgimento della selezione pubblica; la violazione
dell’articolo 97 Cost., dell’articolo 7 legge 241 del 1990 e dell’articolo
51 c.p.c., in quanto la Pa avrebbe eluso gli obblighi, derivanti
dall’applicazione del principio di buona fede, relativi alle garanzie
partecipative.
La decisione
Il Giudice accoglie il ricorso, precisando che «il potere di ritiro in autotutela è essenzialmente caratterizzato dalla discrezionalità di cui gode
la pubblica amministrazione, la quale, pertanto, richiede un onere
motivazionale circa le concrete ragioni di pubblico interesse che inducono
all’esercizio del relativo potere», e che nel caso di specie risultano del
tutto assenti sia la partecipazione del ricorrente al procedimento di autotutela, sia una motivazione sull’interesse pubblico all’annullamento,
sia lo svolgimento dello stesso procedimento prescritto per la nomina.
Sul punto, infatti, sussiste consolidato orientamento giurisprudenziale per
il quale la revoca di un provvedimento amministrativo, in ossequio ai
principi costituzionali di legalità, efficacia, imparzialità e buon
andamento, deve essere assistito dalle garanzie partecipative, da quelle
formali e procedurali scaturenti dal canone del contrarius actus e dalla
necessità di esplicitare le ragioni giustificanti la nuova determinazione.
La conseguenza è che il provvedimento, da un lato, non può assumere la forma
implicita e, dall’altro, deve estrinsecarsi in un procedimento
corrispondente a quello a suo tempo seguito per l’adozione dell’atto
revocando (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. V, 09.07.2015, n.
3458)
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.12.2018).
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MASSIMA
8. – Il ricorso deve trovare accoglimento in ragione della fondatezza,
già ritenuta in sede cautelare, dei primi tre motivi del ricorso principale.
9. – Va premesso che il decreto del Presidente della Giunta regionale della
Calabria impugnato, che invero rappresenta l’atto in concreto lesivo
dell’interesse del ricorrente, è qualificabile come atto di annullamento in
autotutela ex art. 21-nonies l. n. 241 del 1990.
In effetti, l’amministrazione, in sede di “riesame” e su
sollecitazione di un terzo partecipante alla selezione, ha ravvisato un
vizio di illegittimità del precedente atto di conferimento dell’incarico
costituito dalla mancanza di uno requisiti richiesti per la partecipazione
alla “selezione” e al “sorteggio” per la nomina a revisore
unico dei conti e revisore supplente del CO.R.A.P.
Il potere di ritiro in autotutela è essenzialmente
caratterizzato dalla discrezionalità di cui gode la pubblica
amministrazione, la quale, pertanto, richiede un onere motivazionale circa
le concrete ragioni di pubblico interesse che inducono all’esercizio del
relativo potere.
Sul punto, la giurisprudenza amministrativa è ormai uniforme, statuendo a
più riprese che “in linea generale, la revoca di un
provvedimento amministrativo costituisce esercizio del potere di autotutela
della pubblica amministrazione, che, in ossequio ai principi di legalità,
efficacia, imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa, deve
essere assistito dalle garanzie partecipative (salvo i motivati casi di
urgenza), da quelle formali e procedurali scaturenti dal canone del
contrarius actus e dalla necessità di esplicitare le ragioni giustificanti
la nuova determinazione, con la conseguenza che essa, da un lato, non può
assumere la forma implicita (pena la violazione dell’art. 3, l. n. 241 del
1990, che ha sancito l’obbligo di motivazione per tutti i provvedimenti
amministrativi, a meno che le ragioni della stessa non siano chiaramente
intuibili sulla base del contenuto del provvedimento impugnato); dall’altro,
deve estrinsecarsi in un procedimento corrispondente a quello a suo tempo
seguito per l’adozione dell’atto revocando”
(cfr. Cons. Stato, Sez. V, 09.07.2015, n. 3458; Cons. Stato, Sez. VI,
04.07.2011, n. 3963; Cons. Stato, Sez. V, 28.06.2011, n. 3875; Cons. Stato,
Sez. V, 13.02.2009).
10. – Ebbene, nel caso di specie risultano del tutto assenti sia la
partecipazione del ricorrente al procedimento di autotutela, sia una
motivazione sull’interesse pubblico all’annullamento della nomina del
ricorrente a revisore dei conti del CO.R.A.P., che era resa ancor più
necessaria per la delicatezza delle funzioni svolte e in ragione dei plurimi
atti adottati dal ricorrente nell’esercizio delle sue funzioni.
11. – Inoltre, deve ribadirsi quanto già affermato in sede cautelare, e cioè
che non risulta seguito, in sede di autotutela, lo stesso procedimento
prescritto per la nomina del revisore dei conti.
12. – Per tali, assorbenti vizi e in tali termini, il ricorso deve trovare
accoglimento, con annullamento del decreto del Presidente della Giunta
regionale della Calabria del 22.12.2017, n. 141, e conseguenziale
reintegrazione del ricorrente nelle funzioni di revisore dei conti.
Il sollecito intervento cautelare del Tribunale Amministrativo Regionale
rende superfluo l’esame delle ulteriori domande proposte dal ricorrente, il
cui interesse risulta comunque pienamente soddisfatto. |
URBANISTICA:
Confisca di terreni abusivamente lottizzati - Natura reale e
non personale della confisca - Carattere sanzionatorio della
misura ablativa - Evoluzione giurisprudenziale - Poteri del
giudice dell'esecuzione.
Nel caso della lottizzazione abusiva la
confisca non ha natura di misura di sicurezza patrimoniale,
bensì di sanzione amministrativa applicata dal giudice
penale in via di supplenza rispetto al meccanismo
amministrativo di acquisizione dei terreni lottizzati al
patrimonio disponibile del comune, di cui all'art. 30 d.P.R.
380/2001, del tutto differente dall'analogo istituto
disciplinato dall'articolo 240 cod. pen..
Rilevando, inoltre, il carattere sanzionatorio ai sensi
dell'art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo,
secondo il principio enunciato in relazione alla decisione
"Sud Fondi" della Corte EDU), avente natura reale e non
personale ed applicabile anche in caso di sentenza di
proscioglimento per prescrizione del reato
(Sez. 3, n. 16803 del 08/04/2015, Boezi e altri 5; Sez. 3,
n. 15888 del 08/04/2015 (dep. 2016), Sannella e altro; Sez.
4, n. 31239 del 23/06/2015, Giallombardo),
come avvenuto nel caso di specie.
La decisione sul punto, tuttavia, ha
comunque violato il divieto di reformatio in pejus,
dovendosi ritenere applicabile pure nella fattispecie il
principio dianzi richiamato, anche in ragione del
riconosciuto carattere sanzionatorio della misura ablativa
di cui si è appena detto e, comunque, secondo una lettura
costituzionalmente e convenzionalmente orientata della
disciplina, che tenga conto della complessa evoluzione
giurisprudenziale della materia
(della quale viene dato conto in Sez. 3, n. 32363 del
24/05/2017, Mantione).
Ciò ovviamente, non preclude la possibilità
di una successiva applicazione del provvedimento ablativo,
poiché può senz'altro provvedervi il giudice dell'esecuzione
ai sensi dell'art. 676 cod. proc. pen. come peraltro già
riconosciuto con specifico riferimento proprio alla confisca
di terreni abusivamente lottizzati (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.11.2018 n. 51820 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nuove costruzioni - Assenza di titolo abilitativo - Aggravio
del carico urbanistico - Sequestro preventivo - Sussistenza
del fumus del reato urbanistico - Destinazione d’uso e
destinazione urbanistica - Incidenza sulle esigenze
urbanistiche di zona - Committente dei lavori e incolpazione
cautelare - Art. 44, lett. b), d.PR. n. 380/2001.
In materia urbanistica, la realizzazione
di nuove costruzioni in totale assenza di qualsivoglia
titolo abilitativo evidenzia, inequivocabilmente, la
sussistenza del fumus del reato urbanistico, sicché la mera
indicazione di tale evenienza, anche attraverso il richiamo
alla incolpazione cautelare, deve ritenersi del tutto
sufficiente.
Nel caso di abusiva costruzione di un manufatto su area non
edificata, l'aggravio del carico urbanistico può essere
desunto sulla base della mera consistenza delle opere, della
loro destinazione d'uso e della destinazione urbanistica
dell'area ove esse insistono, trattandosi di elementi idonei
a fornire una oggettiva indicazione dell'incidenza
dell'intervento sulle esigenze urbanistiche di zona.
Fattispecie: manufatto in tendostruttura e altri manufatti.
...
Nozione di carico urbanistico - Elemento secondario di
servizio proporzionato all'insediamento primario - Manufatto
in tendostruttura - Aspetto strutturale e funzionale
dell'opera - Riferimento agli standard fissati.
La nozione di carico urbanistico "deriva
dall'osservazione che ogni insediamento umano è costituito
da un elemento c.d. primario (abitazioni, uffici, opifici,
negozi) e da uno secondario di servizio (opere pubbliche in
genere, uffici pubblici, parchi, strade, fognature,
elettrificazione, servizio idrico, condutture di erogazione
del gas) che deve essere proporzionato all'insediamento
primario ossia al numero degli abitanti insediati ed alle
caratteristiche dell'attività da costoro svolte.
Quindi, il carico urbanistico è l'effetto che viene prodotto
dall'insediamento primario come domanda di strutture ed
opere collettive, in dipendenza del numero delle persone
insediate su di un determinato territorio".
Inoltre, l'incidenza di un intervento edilizio sul carico
urbanistico dev'essere considerata con riferimento
all'aspetto strutturale e funzionale dell'opera, ed è
rilevabile anche nel caso di una concreta alterazione
dell'originaria consistenza sostanziale di un manufatto in
relazione alla volumetria, alla destinazione o all'effettiva
utilizzazione, tale da determinare un mutamento dell'insieme
delle esigenze urbanistiche valutate in sede di
pianificazione, con particolare riferimento agli standard
fissati dal D.M. 02.04.1968, n. 1444
(Sez. 3, n. 36104 del 22/09/2011, PM. in proc. Armelani;
Conforme, Sez. 3, n. 6599 del 24/11/2011 (dep. 2012),
Susinno).
...
Immobile abusivo ultimato - Sequestro preventivo - Incidenza
negativa concretamente individuabile sul carico urbanistico
- Effetti pregiudizievoli del reato - Adeguata motivazione -
Distinzione tra effetto lesivo del reato sul bene giuridico
protetto e libera disponibilità del bene.
Il sequestro preventivo di un immobile
abusivo ultimato è stato, inoltre, ritenuto possibile anche
nel caso di utilizzo dell'opera in conformità alle
destinazioni di zona, allorquando il manufatto presenti una
consistenza volumetrica tale da determinare comunque
un'incidenza negativa concretamente individuabile sul carico
urbanistico, sotto il profilo dell'aumentata esigenza di
infrastrutture e di opere collettive correlate.
A corredo di tali principi, il pericolo degli effetti
pregiudizievoli del reato, anche relativamente al carico
urbanistico, deve presentare il requisito della concretezza,
in ordine alla sussistenza del quale deve essere fornita dal
giudice adeguata motivazione.
In sintesi, prevale, la distinzione tra l'effetto lesivo del
reato sul bene giuridico protetto, che permane nel tempo ma
è comune a tutti i reati, anche istantanei e le conseguenze
necessariamente antigiuridiche ed ipotizzabili anche a
consumazione del reato avvenuta, che potrebbero derivare
dalla libera disponibilità del bene (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.11.2018 n. 51604 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO
ACUSTICO - Abuso di strumenti sonori - Reato di disturbo
delle occupazioni o del riposo delle persone - Inquinamento
acustico e particolare tenuità del fatto - Applicazione
della causa di non punibilità - Giudizio fattuale riservato
al giudice di merito - Art. 659, c. 1, cod. pen. - Art.
131-bis cod. pen..
Con riguardo al reato di disturbo delle
occupazioni o del riposo delle persone, punito dall'art.
659, comma 1, cod. pen., che rientra nella categoria dei
reati eventualmente permanenti, ai fini dell'applicazione
della causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis cod.
pen. il giudice deve valutare la durata e il grado di
intensità del disturbo, ciò che rileva con riferimento non
già al requisito della non abitualità della condotta, che è
unica, quanto alla qualificazione del fatto come di "lieve
entità", rispetto alla quale assumono rilevanza la
protrazione nel tempo della condotta illecita e l'intensità
degli effetti dalla stessa provocati.
...
INQUINAMENTO ACUSTICO - Rumore - Verifica del superamento
della soglia della normale tollerabilità - Fenomeno idoneo
ad arrecare oggettivamente disturbo della pubblica quiete -
Perizia o consulenza tecnica non necessarie - Elementi
probatori di diversa natura - Valutazione del fatto -
Giudice di merito.
La verifica del superamento della soglia
della normale tollerabilità non deve essere necessariamente
effettuato mediante perizia o consulenza tecnica, ben
potendo il giudice fondare il suo convincimento in ordine
alla sussistenza di un fenomeno in grado di arrecare
oggettivamente disturbo della pubblica quiete su elementi
probatori di diversa natura, quali le dichiarazioni di
coloro che sono in grado di riferire le caratteristiche e
gli effetti dei rumori percepiti, occorrendo, ciò nondimeno
accertare la diffusa capacità offensiva del rumore in
relazione al caso concreto.
Nella specie, la prova del superamento della soglia della
normale tollerabilità delle fonti sonore è stata desunta dal
Tribunale da serie di deposizioni testimoniali, secondo cui
la musica diffusa ad alto volume, nel cuore della notte in
un orario notturno non (più) autorizzato, dal locale
dell'imputato era percepibile a notevole distanza e aveva
disturbato il riposo di un numero indeterminato di persone
che abitavano nei paraggi.
...
DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Causa di non punibilità -
Inquinamento acustico e reiterazione della condotta -
Annullamento con rinvio da parte della Corte di Cassazione -
Estinzione del reato per intervenuta prescrizione, maturata
successivamente alla sentenza di annullamento parziale -
Esclusione.
In linea generale, una causa di non
punibilità non può essere dichiarata rispetto al reato di
disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone in
caso di reiterazione della condotta, in quanto si configura
un'ipotesi di "comportamento abituale", ostativa al
riconoscimento del beneficio
(Sez. 3, n. 48315 del 11/10/2016 - dep. 16/11/2016,
Quaranta).
Tuttavia, il giudizio sulla tenuità del
fatto richiede una valutazione complessa che prenda in esame
tutte le peculiarità della fattispecie concreta riferite
alla condotta in termini di possibile disvalore e non solo
di quelle che attengono all'entità dell'aggressione del bene
giuridico protetto che comunque ricorre senza distinzione
tra reati di danni e reati di pericolo.
Per quanto concerne il requisito della non abitualità della
condotta, la causa di esclusione della punibilità non trova
applicazione, ai sensi del terzo comma dell'art. 131-bis
cod. pen., qualora l'imputato abbia commesso più reati della
stessa indole ovvero plurime violazioni della stessa o di
diverse disposizioni penali sorrette dalla medesima ratio
punendi.
Va peraltro ricordato il principio, secondo cui nel caso di
annullamento con rinvio da parte della Corte di Cassazione,
limitatamente alla verifica della sussistenza dei
presupposti per l'applicazione della causa di non punibilità
della particolare tenuità del fatto, il giudice di rinvio
non può dichiarare l'estinzione del reato per intervenuta
prescrizione, maturata successivamente alla sentenza di
annullamento parziale
(Sez. 3, n. 50215 del 08/10/2015 - dep. 22/12/2015, Sarli;
Sez. 3, n. 30383 del 30/03/2016 - dep. 18/07/2016,
Mazzoccoli e altro), stante la formazione
del giudicato progressivo in punto di accertamento del reato
e affermazione di responsabilità dell'imputato
(Sez. 3, n. 38380 del 15/07/2015 - dep. 22/09/2015,
Ferraiuolo e altro) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.11.2018 n. 51584 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: BENI
CULTURALI ED AMBIENTALI - Tutela dei beni culturali -
Danneggiamento al patrimonio archeologico, storico o
artistico nazionale - Obbligo in capo a chi ha la
disponibilità dei beni della buona conservazione -
Violazione dell'art. 733 cod. pen. - Natura di reato di
danno a forma libera e permanente.
In tema di tutela dei beni culturali,
l'art. 733 cod. pen. prevede nella parte precettiva
l'obbligo in capo a chi ha la disponibilità dei beni sia di
prevenire ed evitare ogni forma di danneggiamento degli
stessi, sia di fare tutto ciò che è opportuno per la buona
conservazione del bene.
La violazione di tale obbligo integra -sotto il profilo
oggettivo- un reato di danno a forma libera e permanente.
L'evento lesivo dell'oggetto materiale, infatti, può
verificarsi sia attraverso un solo atto, istantaneamente,
sia attraverso un comportamento continuo e prolungato,
attivo o inerte, come per esempio il persistente stato di
abbandono, tale da lasciare il bene materiale privo di ogni
cautela da aggressioni umane (cosiddetto vandalismo), dai
fattori naturali (insetti o agenti atmosferici) o da
elementi chimico-fisici (i fattori inquinanti) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.11.2018 n. 51581 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI: RIFIUTI
- Attività di gestione illecita di rifiuti - Art. 256,
d.lgs. n. 152/2006 - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE -
Responsabilità e posizione del sindaco - Limiti alla
separazione delle funzioni tra sindaco e dirigenza - Organo
politico e organo tecnico amministrativo - Attività di
controllo - Dovere di attivazione - Pericolo la salute delle
persone o l'integrità dell'ambiente non derivanti da
contingenti ed occasionali emergenze tecnico-operative -
Art. 107, d.lgs. n. 267/2000.
In tema di rifiuti, nonostante la
disposizione, ex art. 107 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267
«Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti
locali», distingua tra i poteri di indirizzo e di controllo
politico-amministrativo, demandati agli organi di governo
degli enti locali e compiti di gestione amministrativa,
finanziaria e tecnica, attribuiti ai dirigenti, cui sono
conferiti autonomi poteri di organizzazione delle risorse,
strumentali e di controllo, è evidente che il sindaco, una
volta esercitati i poteri attribuitigli dalla legge, non può
semplicemente disinteressarsi degli esiti di tale sua
attività, essendo necessario, da parte sua, anche il
successivo controllo sulla concreta attuazione delle scelte
programmatiche effettuate.
Egli ha, inoltre, il dovere di attivarsi quando gli siano
note situazioni, non derivanti da contingenti ed occasionali
emergenze tecnico-operative, che pongano in pericolo la
salute delle persone o l'integrità dell'ambiente
(Sez. 3. n. 37544 del 27/06/2013, Fasulo; V. anche, in tema
di prevenzione infortuni, Sez. 4, n. 30557 del 07/06/2016,
P.C. e altri in proc. Carfi' e altri).
...
RIFIUTI - Gestione illecita di rifiuti - Piattaforma
ecologica - Concetto di «ecopiazzola» o «isola ecologica» -
Responsabilità del sindaco - Art. 256, d.lgs. n. 152/2006.
Va escluso, al di fuori dell'ipotesi
contemplata dal legislatore, che la predisposizione di aree
attrezzate per il conferimento di rifiuti astrattamente
riconducibili ad un generico concetto di «ecopiazzola» o
«isola ecologica» possa ritenersi sottratta alla disciplina
generale sui rifiuti, poiché l'intervento del legislatore ha
ormai definitivamente delimitato tale nozione prevedendo,
peraltro, un regime autorizzatorio e gestionale che consente
il conferimento ai centri di raccolta di un'ampia gamma di
rifiuti in maniera controllata.
Si è quindi stabilito che, in tutti i casi in cui non vi sia
corrispondenza con quanto indicato dal legislatore, deve
procedersi ad una valutazione dell'attività posta in essere
secondo i principi generali in materia di rifiuti.
Nella specie, è stato configurato il reato di cui
all'articolo 256, comma 1, lett. a) e b), d.lgs. 152/2006,
perché, quale sindaco del comune di Roncola, gestendo un
centro di raccolta rifiuti differenziati in modo difforme da
quanto prescritto dal d.m. 08.04.2008 (modificato dal
Decreto Ministeriale 13.05.2009) ometteva di predisporre una
pavimentazione di calcestruzzo per l'impermeabilizzazione
del fondo, una copertura per i rifiuti pericolosi,
contenitori in tenuta stagna, cartelli ed etichette per
distinguere le diverse tipologie di rifiuti, sistemi per
garantire la separazione dei rifiuti fino al conferimento
all'impianto di smaltimento, nonché sistemi antincendio,
effettuando, di fatto, in mancanza della prescritta
autorizzazione, lo stoccaggio di rifiuti speciali pericolosi
(quali batterie, frigoriferi, bombole di gas, motoveicoli
fuori uso) e non pericolosi (quali plastica, metallo,
cartone, materassi, cucine, pneumatici fuori uso) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.11.2018 n. 51576 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI: Rup
compatibile con le funzioni di presidente e ok all'apertura dell'offerta
tecnica in seduta riservata.
Anche nella situazione transitoria trova applicazione il principio secondo
cui non esiste incompatibilità della funzione di Rup con quella di
presidente della commissione giudicatrice. Nelle procedure telematiche, le
buste tecniche possono essere aperte in seduta riservata.
Sono le conclusioni cui approda il TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, con la
sentenza
15.11.2018 n. 863.
Le questioni
Con il ricorso sono stati impugnati gli atti relativi alla aggiudicazione
definitiva della gara per l'affidamento di un servizio, per una serie di
motivi tra i quali la presunta incompatibilità del presidente della
commissione giudicatrice e la circostanza che la seduta di apertura delle
offerte tecniche sia avvenuta in seduta riservata e non pubblica.
Il Tar di
Bologna ha trattato insieme i due motivi per connessione oggettiva e li ha
dichiarati entrambi infondati.
Ancora sull'incompatibilità
Circa l’incompatibilità, i giudici hanno affermato che l'articolo 77 del
codice dei contratti è destinato a valere solo a regime, ovvero dopo che
sarà stato creato l'albo dei commissari, che ancora non esiste. Fino alla
sua istituzione, valorizzando quanto contenuto nell'articolo 216, comma 12,
la commissione continua a essere nominata dall'organo della stazione
appaltante competente secondo regole di competenza e trasparenza
preventivamente individuate.
Il cumulo delle funzioni di Rup e di presidente
della commissione di gara dunque non lede le regole di imparzialità,
principio che secondo il Tar Emilia Romagna sarebbe applicabile anche dopo
l'entrata in vigore del correttivo (Dlgs 56/2017) che ha abrogato il comma
12 dell'articolo 77.
A detta dei giudici emiliani, rimane applicabile l'articolo 84 del vecchio
codice che non enuncia l'incompatibilità dell'incarico di Rup con le
funzioni di presidente ma riguarda solo gli altri commissari, i quali «non
devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico
tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si
tratta» (comma 4).
Viene infine evocata nella sentenza quella parte di
giurisprudenza che ha sostenuto questa tesi appellandosi alla responsabilità
dei funzionari degli enti locali come delineata dall'articolo 107 del Tuel
il quale riconosce in via generale ai dirigenti la gestione amministrativa,
finanziaria e tecnica (comma 1) e in via particolare la presidenza delle
commissioni di gara (comma 3, lettera a), la responsabilità delle procedure
d'appalto (lettera b) e la stipulazione dei contratti (lettera c).
Attribuzioni che, per espressa previsione del coma 4, «possono essere
derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni
legislative».
La seduta riservata
Per quanto concerne la seduta riservata, nella sentenza si afferma che nelle
procedure telematiche, le buste tecniche possono essere aperte in seduta
riservata, per due ragioni sostanziali:
1) l'utilizzo di tali procedure comporta la “tracciabilità” di tutte le
operazioni messe in opera dalla commissione;
2) la correttezza e l'intangibilità risulta garantita dal
sistema, con esclusione di ogni rischio di alterazione nello svolgimento
delle operazioni, anche in assenza dei concorrenti
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 29.11.2018).
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MASSIMA
3). Con il terzo motivo l’interessata sostiene il procedimento di
valutazione della anomalia dell’offerta è stato compiuto dal solo RUP senza
l’ausilio della commissione giudicatrice; dunque è illegittimo.
In. replica sul punto precisando che :
a). l’offerta dell’aggiudicatario non è a rischio di anomalia e
nessuna analisi doveva essere effettuata per legge;
b). il procedimento di verifica di congruità dell’offerta è stato
aperto dalla stazione appaltante esclusivamente perché il ribasso praticato
dall’impresa appariva più basso rispetto a quello praticato dagli altri
concorrenti del lotto 1;
c). quando è attivata una verifica di anomalia atipica non è
obbligatorio analizzare ogni singola voce.
Il Collegio condivide integralmente le repliche.
4). Con il quarto motivo la ricorrente lamenta che tra i componenti
della commissione vi sia la dottoressa Ca.Go., che ha rivestito anche il
ruolo di presidente del seggio di gara e dunque non poteva essere presidente
della commissione.
5). Infine con l’ultimo motivo sostiene che la seduta di apertura
delle offerte tecniche è avvenuta in seduta riservata e non pubblica.
I due motivi possono essere trattati insieme per connessione oggettiva e
sono entrambi destituiti di fondamento.
Il Collegio condivide le precisazioni svolte da In. circa il fatto che nella
specie è applicabile solo l’art. 84 Cod. Appalti.
Come noto, la giurisprudenza più recente (cfr., Tar Sardegna, Cagliari, n.
32/2018) ha affermato i seguenti principi:
a). la norma dell’art. 77 prima parte del d.lgs. 50/2016, invocata,
sarebbe destinata a valere solo “a regime”, ovvero dopo che sarà
stato creato l’Albo dei commissari, che ancora non esiste fino alla sua
istituzione, ai sensi del comma 12, “la commissione continua ad essere
nominata dall'organo della stazione appaltante competente ad effettuare la
scelta del soggetto affidatario del contratto, secondo regole di competenza
e trasparenza preventivamente individuate da ciascuna stazione appaltante”.
In tal senso, il <cumulo delle funzioni di RUP e di Presidente della
commissione di gara> non lederebbe le regole di imparzialità, come
ritenuto da costante giurisprudenza, che argomenta in termini di principio,
e non con riguardo ad una specifica disciplina delle gare, e quindi si deve
ritener condivisibile anche nel vigore della nuova normativa (si vedano
C.d.S. sez. V 20.11.2015 n. 5299 e 26.09.2002 n. 4938).
L’art. 84 del Codice non enuncia l’incompatibilità dell’incarico di R.U.P.
con l’investitura della presidenza delle Commissioni di gara, ma è solo per
i commissari diversi dal Presidente che prevede, con il proprio comma 4,
un’ampia incompatibilità: “I commissari diversi dal Presidente non devono
aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o
amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta”.
D’altra parte, la giurisprudenza ha avuto già modo di osservare che non
costituisce violazione dei principi di imparzialità e buona amministrazione
il cumulo, nella stessa persona, delle funzioni di Presidente della
Commissione valutatrice e di responsabile del procedimento, nonché di
soggetto aggiudicatore, risultando ciò conforme ai principi sulla
responsabilità dei funzionari degli enti locali, come delineati dall’art.
107 del d.lgs. n. 267/2000 (V,
12.11.2012, n. 5703; 22.06.2010, n. 3890).
Tutti questi precedenti sarebbero applicabili anche dopo l’entrata in vigore
del “correttivo” (D.L.vo 19.04.2017 n. 56 in vigore dal 20.05.2017)
che ha abrogato l’art. 77, comma 12 (solo in quanto inutile duplicato
dell’art. 216, comma 12, D.L.vo 50/2016 avente il medesimo contenuto).
In conclusione, anche nella situazione transitoria di cui all’art. 77, comma
12 (e art. 216 comma 12) del D.L.vo 50/2016, deve trovare applicazione il
principio affermato dalla prevalente giurisprudenza, avente portata
generale, della cumulabilità/compatibilità della funzione di RUP e di
Presidente della Commissione giudicatrice.
Infine, in relazione alla seduta riservata, è corretto affermare che –nelle
procedure telematiche– le buste tecniche possono essere aperte in seduta
riservata.
Come noto, il Consiglio di Stato (cfr., Consiglio di Stato, sez. V,
21.11.2017, n. 5388) ha affermato i seguenti principi:
a). l’utilizzo di gare interamente telematiche comporta la “tracciabilità”
di tutte le operazioni modifica anche l’approccio e la soluzione di
eventuali commissioni formali-procedimentali;
b). la correttezza e l’intangibilità risulta, in questo caso,
garantita dal sistema, con esclusione di ogni rischio di alterazione nello
svolgimento delle operazioni, anche in assenza dei concorrenti;
c). dunque, l’operato della PA appare complessivamente legittimo.
Il ricorso è dunque da respingere nel merito. |
EDILIZIA PRIVATA: Reati
edilizi - Responsabilità di un coniuge per il fatto
materialmente commesso dall'altro - Individuazione della
compartecipazione di un coniuge nel reato materialmente
commesso dall'altro - Elementi indizianti - Art. 44, lett.
e) d.PR. 380/2001 e 181 d.lgs. 42/2004.
In tema di reati edilizi la
responsabilità di un coniuge per il fatto materialmente
commesso dall'altro può essere rilevata sulla base di
oggettivi elementi di valutazione quali il comune interesse
all'edificazione, il regime di comunione dei beni,
l'acquiescenza all'esecuzione dell'intervento, la presenza
sul luogo di esecuzione dei lavori, l'espletamento di
attività di controllo sull'esecuzione dei lavori, la
presentazione di istanze o richieste concernenti l'immobile
o l'esecuzione di attività indicative di una partecipazione
all'attività illecita.
Tuttavia, con specifico riferimento al rapporto di coniugio,
si è osservato che la compartecipazione di un coniuge nel
reato materialmente commesso dall'altro non può essere
desunta dalla mera qualità di comproprietario.
Sono stati pertanto successivamente individuati, quali
elementi indizianti: il fatto che entrambi i coniugi siano
proprietari del suolo su cui è stato realizzato l'edificio
abusivo e che entrambi abbiano interesse alla violazione dei
sigilli per completare l'opera al fine di trasferire la loro
residenza; l'abitare nel luogo ove si è svolta l'attività
illecita di costruzione, l'assenza di manifestazioni di
dissenso, il comune interesse alla realizzazione dell'opera
(fattispecie relativa ad imputata la quale, benché
formalmente residente in altro comune, conviveva con il
marito, era con il predetto in regime di comunione di beni e
ne condivideva anche le iniziative patrimoniali, tanto da
rimanere coinvolta, in un precedente giudizio, unitamente al
coniuge, in altri illeciti edilizi)
(Sez. 3 n. 23074 del 16/04/2008, Di Meglio);
il regime patrimoniale dei coniugi (comunione dei
beni), lo svolgimento di attività di vigilanza
dell'esecuzione dei lavori, la richiesta di provvedimenti
abilitativi in sanatoria, la presenza in loco all'atto
dell'accertamento
(Sez. 3 n. 40014 del 18/09/2008, Mangione).
...
Abuso edilizio - Responsabilità del proprietario (o
comproprietario) dell'area non formalmente committente -
Principio del "cui prodest" - Compartecipazione,
anche morale, all'esecuzione delle opere - Onere della prova
- Giurisprudenza.
In tema di individuazione della
responsabilità per abuso edilizio del proprietario (o
comproprietario) dell'area non formalmente committente si
richiede la presenza di alcuni elementi, quali la
disponibilità di indizi e presunzioni gravi, precise e
concordanti che sono stati individuati, ad esempio,
- nella piena disponibilità, giuridica e di fatto, della superficie
edificata e dell'interesse specifico ad effettuare la nuova
costruzione (principio del "cui prodest");
- nei rapporti di parentela o di affinità tra l'esecutore
dell'opera abusiva ed il proprietario, nell'eventuale
presenza "in loco" del proprietario dell'area durante
l'effettuazione dei lavori; nello svolgimento di attività di
materiale vigilanza sull'esecuzione dei lavori;
- nella richiesta di provvedimenti abilitativi anche in sanatoria;
- nel particolare regime patrimoniale fra coniugi o comproprietari;
- nella fruizione dell'opera secondo le norme civilistiche
dell'accessione ed in tutte quelle situazioni e quei
comportamenti, positivi o negativi, da cui possano trarsi
elementi integrativi della colpa e prove circa la
compartecipazione, anche morale, all'esecuzione delle opere,
tenendo presente pure la destinazione finale della stessa.
Grava inoltre sull'interessato l'onere di allegare
circostanze utili a convalidare la tesi che, nella specie,
si tratti di opere realizzate da terzi a sua insaputa e
senza la sua volontà
(così Sez. 3 n. 35907 del 29/05/2008, Calicchia, non
massimata, che riporta anche gran parte degli esempi sopra
indicati e ampi richiami a precedenti pronunce. Conf. Sez.
3, n. 38492 del 19/05/2016, Avanzato, Rv. 268014; Sez. 3, n.
52040 del 11/11/2014, Langella e altro, Rv. 261522; Sez. 3,
n. 44202 del 10/10/2013, Menditto, Rv. 257625; Sez. 3, n.
25669 del 30/05/2012, Zeno, Rv. 253065) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.11.2018 n. 51489 - link a www.ambientediritto.it). |
URBANISTICA: Lottizzazione
abusiva - Configurabilità del reato - Art. 30 d.PR.
380/2001.
L'attività lottizzatoria illegittima si
configura non soltanto nel caso in cui l'intervento edilizio
non potrebbe essere in nessuna circostanza realizzato per
essere le sue connotazioni oggettive in contrasto con
previsioni di zonizzazione e/o localizzazione dello
strumento generale di pianificazione, non suscettibili di
essere modificati da piani urbanistici attuativi, ma anche
attraverso qualsiasi utilizzazione del suolo che,
indipendentemente dalla entità del frazionamento fondiario e
dal numero dei proprietari, preveda la realizzazione
contemporanea o successiva di una pluralità di edifici a
scopo residenziale, turistico o industriale, che postulino
l'attuazione di opere di urbanizzazione primaria o
secondaria, occorrenti per le necessità dell'insediamento,
oppure in presenza di un intervento sul territorio tale da
comportare una nuova definizione dell'assetto preesistente
in zona non urbanizzata o non sufficientemente urbanizzata,
per cui esiste la necessità di attuare le previsioni dello
strumento urbanistico generale attraverso la redazione e la
stipula di una convenzione lottizzatoria adeguata alle
caratteristiche dell'intervento di nuova realizzazione.
...
DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Esclusione della punibilità per
particolare tenuità del fatto - Contestuale violazione di
più disposizioni quale conseguenza dell'intervento abusivo -
Ipotesi di violazioni urbanistiche e paesaggistiche - Art.
131-bis cod. pen..
Ai fini della applicabilità dell'art.
131-bis cod. pen. nelle ipotesi di violazioni urbanistiche e
paesaggistiche, la consistenza dell'intervento abusivo -data
da tipologia, dimensioni e caratteristiche costruttive-
costituisce solo uno dei parametri di valutazione, assumendo
rilievo anche altri elementi quali, ad esempio, la
destinazione dell'immobile, l'incidenza sul carico
urbanistico, l'eventuale contrasto con gli strumenti
urbanistici e l'impossibilità di sanatoria, il mancato
rispetto di vincoli (idrogeologici, paesaggistici,
ambientali, etc.), l'eventuale collegamento dell'opera
abusiva con interventi preesistenti, il rispetto o meno di
provvedimenti autoritativi emessi dall'amministrazione
competente (ad es. l'ordinanza di demolizione), la totale
assenza di titolo abilitativo o il grado di difformità dallo
stesso, le modalità di esecuzione dell'intervento.
Inoltre, è indice sintomatico della non particolare tenuità
del fatto la contestuale violazione di più disposizioni
quale conseguenza dell'intervento abusivo, come nel caso in
cui siano contestualmente violate, mediante la realizzazione
dell'opera, anche altre disposizioni finalizzate alla tutela
di interessi diversi (si pensi alle norme in materia di
costruzioni in zone sismiche, di opere in cemento armato, di
tutela del paesaggio e dell'ambiente, a quelle relative alla
fruizione delle aree demaniali) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.11.2018 n. 51489 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: DANNO
AMBIENTALE - Nozione di danno ambientale e risorse naturali
- INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Inquinamento dell'aria e danno
ambientale - Termovalorizzatore o impianto di
coincenerimento - Miscelazione di lolla di riso con altri
rifiuti - Attività organizzata per il traffico abusivo di
rifiuti - Falsificazione dei certificati di analisi
provenienti dal laboratorio - Artt. 184-bis, 185, 258, 260,
300, 311 d.lgs. n. 152/2006 - Art. 483 cod. pen.
Il comma 1 dell'art. 300 del d.lgs.
152/2006 qualifica testualmente come danno ambientale
"qualsiasi deterioramento significativo e misurabile,
diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell'utilità
assicurata da quest'ultima".
Pertanto, l'inquinamento dell'aria costituisce nel nostro
ordinamento un danno ambientale, non essendovi dubbio sul
fatto che l'aria costituisce una "risorsa naturale",
essendone anzi una delle più importanti, se non la più
importante, per ogni essere animale e vegetale
(Corte di
Cassazione, Sez. III penae,
sentenza 14.11.2018 n. 51475 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI
- Gestione di rifiuti - Accertamento della pericolosità di
un rifiuto - Rispetto delle metodiche di campionamento e di
analisi fissate dalla norma tecnica UNI 10802 - Esclusione.
In tema di gestione di rifiuti,
l'accertamento della pericolosità di un rifiuto non richiede
necessariamente il rispetto delle metodiche di campionamento
e di analisi fissate dalla norma tecnica UNI 10802
(richiamata dall'art. 8 del D.M. 05.02.1998), trattandosi di
un insieme di disposizioni prive di portata generale
vincolante, dirette unicamente allo scopo di disciplinare le
analisi effettuate a cura del titolare dell'impianto di
produzione dei rifiuti.
...
RIFIUTI - Miscelazione della lolla di riso con rifiuti di
ogni genere - Esclusione della lolla di riso dalla categoria
dei sottoprodotti - Sussistenza delle condizioni di legge -
Onere della prova.
L'indiscriminata miscelazione della
lolla di riso con rifiuti di ogni genere ne altera la
matrice originaria, trasformandola in rifiuto, pericoloso o
non pericoloso a seconda della natura del rifiuto con cui
viene ogni volta mischiata.
Nella specie, alla luce degli accertamenti fattuali compiuti
dai giudici di merito, non suscettibili di essere messi in
discussione in sede di legittimità, in assenza, peraltro, di
specifiche contestazioni difensive, deve ritenersi
senz'altro legittima l'esclusione della lolla di riso dalla
categoria dei sottoprodotti, tanto più ove si consideri che
tale regime normativo presenta natura eccezionale e
derogatoria rispetto alla disciplina ordinaria in tema di
rifiuti, con la conseguenza che l'onere della prova circa la
sussistenza delle condizioni di legge deve essere assolto da
colui che ne richiede l'applicazione, il che nel caso di
specie non può certo ritenersi avvenuto.
...
RIFIUTI - Nozione di sottoprodotti - Evoluzione normativa.
In materia di rifiuti, la categoria dei
sottoprodotti, originariamente non contemplata dalla
disciplina di settore, lo è poi diventata con l'art. 184-bis
del d.lgs. n. 152 del 2006 (introdotto dal d.lgs. n. 205 del
03.12.2010) ed è definita dall'art. 183, lettera qq), del
medesimo d.lgs., il quale si riferisce a "qualsiasi sostanza
od oggetto che soddisfa le condizioni di cui all'art.
184-bis, comma 1, o che rispetta i criteri stabiliti in base
all'art. 184-bis, comma 2".
L'art. 184-bis, a sua volta, stabilisce che è sottoprodotto
e non rifiuto ai sensi dell'art. 183, comma 1, lett. a),
qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfi tutte le seguenti
condizioni:
1) la sostanza o l'oggetto devono trarre origine da un processo di
produzione, di cui costituiscono parte integrante, e il cui
scopo primario non è la loro produzione;
2) deve essere certo che la sostanza o l'oggetto saranno
utilizzati, nel corso dello stesso e/o di un successivo
processo di produzione e/o di utilizzazione, da parte del
produttore o di terzi;
3) la sostanza o l'oggetto possono essere utilizzati direttamente
senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale
pratica industriale;
4) l'ulteriore utilizzo deve essere legale, ossia la sostanza o
l'oggetto deve soddisfare, per l'utilizzo specifico, tutti i
requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione
della salute e dell'ambiente e non deve portare a impatti
complessivi negativi sull'ambiente o sulla salute umana. In
seguito è poi intervenuto il D.M. 13.10.2016, n. 264
("regolamento recante criteri indicativi per agevolare la
dimostrazione della sussistenza dei requisiti per la
qualifica dei residui di produzione come sottoprodotti e non
come rifiuti"), il quale ha precisato (art. 2), in coerenza
con il dettato normativo prima richiamato, che per
sottoprodotto deve intendersi un residuo di produzione che
non costituisce un rifiuto ai sensi dell'art. 184-bis del
d.lgs. 152/2006, laddove per residuo di produzione a sua
volta deve intendersi ogni materiale o sostanza che non è
deliberatamente prodotto in un processo di produzione e che
può essere o non essere un rifiuto; l'art. 4 del citato
decreto ministeriale ha poi ribadito che i residui di
produzione sono sottoprodotti e non rifiuti, quando il
produttore dimostra che, non essendo stati prodotti
volontariamente e come obiettivo primario del ciclo
produttivo, sono destinati a essere utilizzati nello stesso
o in un successivo processo, dal produttore medesimo o da
parte di terzi.
A tal fine, in ogni fase della gestione del residuo, è
necessario fornire la dimostrazione che sono soddisfatte
tutte le condizioni prima menzionate
(Corte di
Cassazione, Sez. III penae,
sentenza 14.11.2018 n. 51475 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Mutamento destinazione d'uso e rideterminazione contributo
di costruzione. Sul mutamento -o meno- della destinazione
d'uso di un magazzino
a servizio di un'attività di commercio all'ingrosso
anziché a servizio di un'attività artigianale.
La semplificazione delle attività edilizie voluta dal
legislatore non si è spinta al punto di rendere tra loro
omogenee tutte le categorie funzionali, le quali rimangono
non assimilabili.
Circa il
mutamento di destinazione d'uso urbanisticamente rilevante,
il Collegio, richiamando i principi giurisprudenziali
consolidatisi nella materia, premette che:
a) ai sensi dell' art. 23-ter, d.P.R. n. 380 del 2001, inserito
dall' art. 17, comma 1, lett. n), d.l. n. 133 del 2014, il
mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante è
quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di
vista urbanistico e che influisce, di conseguenza, sul c.d.
carico urbanistico poiché la semplificazione delle attività
edilizie voluta dal legislatore non si è spinta al punto di
rendere tra loro omogenee tutte le categorie funzionali, le
quali rimangono non assimilabili, a conferma della scelta
già operata con il d.m. n. 1444 del 1968;
b) l'aumento del carico urbanistico non si verifica solo in caso di
modifica della destinazione funzionale dell'immobile, ma
anche nel caso in cui, come nella fattispecie, sebbene la
destinazione non venga mutata, le opere si prestino a
rendere la struttura un polo di attrazione per un maggior
numero di persone con conseguente necessità di più intenso
utilizzo delle urbanizzazioni esistenti.
---------------
In ordine alla specifica questione
oggetto della controversia, il Collegio, in primo luogo,
ritiene che, ai fini della determinazione dell'importo del
contributo di urbanizzazione dovuto per la realizzazione di
un magazzino, non può non esser attribuita rilevanza
alla destinazione funzionale ad esso impressa e, in
particolare, alla destinazione degli ulteriori immobili con
i quali il primo si pone in collegamento strutturale e
quindi in posizione servente. Il medesimo magazzino,
pertanto, non può determinare identico carico urbanistico
laddove sia utilizzato per servire un immobile ad uso
industriale ovvero sia funzionale all’esercizio di
attività commerciale.
Il Collegio, peraltro, ritiene di doversi distaccare da
quelle isolate pronunce che, ai fini della determinazione
del carico urbanistico connesso ad un immobile e, pertanto,
della destinazione d’uso di esso, hanno tentato di
distinguere l’ipotesi in cui l’accesso sia generalizzato da
quello in cui venga limitato esclusivamente ad una specifica
categoria di utenti.
Con riferimento al deposito di merci, infatti, si è ritenuto
rilevante, ai fini dell’aumento del carico urbanistico, il
solo caso dell’accesso di pubblico per l'acquisto di beni
all'ingrosso e al dettaglio, non anche la diversa ipotesi in
cui l’afflusso sia limitato ai trasportatori, circostanza
che porterebbe, secondo questa tesi, a considerare
l’immobile come magazzino di stoccaggio, ossia quale luogo
finale del processo produttivo.
Ad avviso del Collegio, tale linea ermeneutica, invero,
farebbe ricadere sull’amministrazione un gravoso onere
probatorio e presupporrebbe, a monte, un continuativo
controllo pubblico degli accessi all’immobile, in concreto
non esigibile.
Per converso, in adesione alla giurisprudenza prevalente, il
Collegio ritiene che, ai fini della individuazione del
mutamento di destinazione d’uso che causerebbe, in ragione
del passaggio ad una diversa categoria funzionale, l’aumento
del contributo di costruzione (oneri di urbanizzazione e
costo di costruzione), non possa prescindersi dalla
valutazione dell’utilizzo in concreto dell’immobile e, nel
caso in cui questo svolga una funzione servente per un
diverso immobile, della natura e della destinazione d’uso di
quest’ultimo.
Il medesimo magazzino può determinare, pertanto, un
differente carico urbanistico se è funzionale all’esercizio
di attività produttiva, venendo utilizzato per la
gestione di materiali derivanti da un fabbricato
industriale, ovvero se è strumentale all’esercizio di
attività commerciale, fungendo da deposito di prodotti
finiti pronti per essere immessi nel mercato.
In quest’ultima ipotesi, invero, la gestione del magazzino
si inserisce, come fase autonoma, nel ciclo della
commercializzazione, svolgendo esso un ruolo di
intermediazione commerciale, in quanto, mediante il
deposito, viene di fatto regolato il flusso ed il deflusso
delle scorte.
In tale ottica, la realizzazione del decentramento di una
fase, quale quella della gestione dei magazzini dei prodotti
finiti prima della loro immissione nella rete di vendita,
presso un diverso immobile, piuttosto che esercitare la
stessa all’interno del medesimo fabbricato in cui viene
svolta l’attività di commercio all’ingrosso, non assume
alcuna rilevanza ai fini della ponderazione dei relativi
carichi urbanistici. Ciò, a fortiori, se, come nel caso di
specie, i due immobili sono di proprietà della medesima
società, ponendosi pertanto le due fasi all'interno del
ciclo industriale di un unico soggetto.
Invero, la circolazione delle merci prodotte crea carichi
urbanistici diversi da quelli collegabili alla produzione
delle stesse nell'ambito ed all'interno della stessa
struttura, con immediate ricadute sulla destinazione d'uso
dell’immobile.
---------------
5. Sulla scorta di un unico motivo le società
appellanti hanno contestato la sussistenza, nel caso di
specie, di un mutamento di destinazione d'uso
urbanisticamente rilevante, tenuto conto che l'immobile in
questione, assentito dall'amministrazione comunale con una
destinazione a "magazzino", viene
effettivamente utilizzato come magazzino, restando
irrilevante la circostanza che il magazzino sia a servizio
di un'attività di commercio all'ingrosso, peraltro
svolta in altra sede, anziché a servizio di un'attività
artigianale.
Secondo le società ricorrenti, la destinazione "a
magazzino" sarebbe funzionalmente "autonoma" e "indifferente
e/o insensibile rispetto alla destinazione d'uso dei locali
a servizio dei quali viene di fatto utilizzato",
richiamando a sostegno di tale assunto la sentenza del
Consiglio di Stato n. 4355/2012.
Le appellanti, in particolare, hanno sostenuto che il
discrimen tra la destinazione industriale e
quella commerciale è data dall’accesso al pubblico,
unico elemento determinante ai fini dell’incremento
dell’impatto urbanistico, che assume rilievo quando genera
un afflusso indistinto, non anche quando l’accesso è
limitato ai soli trasportatori.
5.1. Le censure non sono meritevoli di accoglimento.
5.2. Il Collegio, al riguardo, richiamando i principi
giurisprudenziali consolidatisi nella materia, intende
premettere che:
a) ai sensi dell' art. 23-ter, d.P.R. n. 380 del 2001, inserito
dall' art. 17, comma 1, lett. n), d.l. n. 133 del 2014, il
mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante è
quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di
vista urbanistico e che influisce, di conseguenza, sul c.d.
carico urbanistico poiché la semplificazione delle attività
edilizie voluta dal legislatore non si è spinta al punto di
rendere tra loro omogenee tutte le categorie funzionali, le
quali rimangono non assimilabili, a conferma della scelta
già operata con il d.m. n. 1444 del 1968;
b) l'aumento del carico urbanistico non si verifica solo in caso di
modifica della destinazione funzionale dell'immobile, ma
anche nel caso in cui, come nella fattispecie, sebbene la
destinazione non venga mutata, le opere si prestino a
rendere la struttura un polo di attrazione per un maggior
numero di persone con conseguente necessità di più intenso
utilizzo delle urbanizzazioni esistenti.
5.3. In ordine alla specifica questione oggetto della
controversia, il Collegio, in primo luogo, ritiene che, ai
fini della determinazione dell'importo del contributo di
urbanizzazione dovuto per la realizzazione di un
magazzino, non può non esser attribuita rilevanza alla
destinazione funzionale ad esso impressa e, in particolare,
alla destinazione degli ulteriori immobili con i quali il
primo si pone in collegamento strutturale e quindi in
posizione servente. Il medesimo magazzino, pertanto, non può
determinare identico carico urbanistico laddove sia
utilizzato per servire un immobile ad uso industriale
ovvero sia funzionale all’esercizio di attività
commerciale.
5.3.1. Il Collegio, peraltro, ritiene di doversi distaccare
da quelle isolate pronunce che, ai fini della determinazione
del carico urbanistico connesso ad un immobile e, pertanto,
della destinazione d’uso di esso, hanno tentato di
distinguere l’ipotesi in cui l’accesso sia generalizzato da
quello in cui venga limitato esclusivamente ad una specifica
categoria di utenti.
Con riferimento al deposito di merci, infatti, si è ritenuto
rilevante, ai fini dell’aumento del carico urbanistico, il
solo caso dell’accesso di pubblico per l'acquisto di beni
all'ingrosso e al dettaglio, non anche la diversa ipotesi in
cui l’afflusso sia limitato ai trasportatori, circostanza
che porterebbe, secondo questa tesi, a considerare
l’immobile come magazzino di stoccaggio, ossia quale luogo
finale del processo produttivo (Cons. Stato, sez. V,
27.01.2016, n. 263; id., sez. V, 09.02.2001, n. 583).
Ad avviso del Collegio, tale linea ermeneutica, invero,
farebbe ricadere sull’amministrazione un gravoso onere
probatorio e presupporrebbe, a monte, un continuativo
controllo pubblico degli accessi all’immobile, in concreto
non esigibile.
5.3.2. Per converso, in adesione alla giurisprudenza
prevalente già citata nella pronuncia impugnata (ex
multis, Cons. Stato, sez. V, 27.12.2001, n. 6411), il
Collegio ritiene che, ai fini della individuazione del
mutamento di destinazione d’uso che causerebbe, in ragione
del passaggio ad una diversa categoria funzionale, l’aumento
del contributo di costruzione (oneri di urbanizzazione e
costo di costruzione), non possa prescindersi dalla
valutazione dell’utilizzo in concreto dell’immobile e, nel
caso in cui questo svolga una funzione servente per un
diverso immobile, della natura e della destinazione d’uso di
quest’ultimo.
Il medesimo magazzino può determinare, pertanto, un
differente carico urbanistico se è funzionale all’esercizio
di attività produttiva, venendo utilizzato per la
gestione di materiali derivanti da un fabbricato
industriale, ovvero se è strumentale all’esercizio di
attività commerciale, fungendo da deposito di prodotti
finiti pronti per essere immessi nel mercato.
In quest’ultima ipotesi, invero, la gestione del magazzino
si inserisce, come fase autonoma, nel ciclo della
commercializzazione, svolgendo esso un ruolo di
intermediazione commerciale, in quanto, mediante il
deposito, viene di fatto regolato il flusso ed il deflusso
delle scorte.
In tale ottica, la realizzazione del decentramento di una
fase, quale quella della gestione dei magazzini dei prodotti
finiti prima della loro immissione nella rete di vendita,
presso un diverso immobile, piuttosto che esercitare la
stessa all’interno del medesimo fabbricato in cui viene
svolta l’attività di commercio all’ingrosso, non assume
alcuna rilevanza ai fini della ponderazione dei relativi
carichi urbanistici. Ciò, a fortiori, se, come nel
caso di specie, i due immobili sono di proprietà della
medesima società, ponendosi pertanto le due fasi all'interno
del ciclo industriale di un unico soggetto.
Invero, la circolazione delle merci prodotte crea carichi
urbanistici diversi da quelli collegabili alla produzione
delle stesse nell'ambito ed all'interno della stessa
struttura, con immediate ricadute sulla destinazione d'uso
dell’immobile.
5.4. In conclusione, questo Collegio, conformemente a quanto
espresso dal giudice di primo grado, ritiene che, alla luce
della funzionalizzazione del magazzino all’attività
commerciale, nella fattispecie in esame si sia
verificato un mutamento di destinazione d’uso da “artigianale”
a “commerciale”, assumendo a tal fine valore
determinante i seguenti elementi di fatto emersi nel corso
del giudizio:
a) il rapido cambio di intestazione dell’immobile, testimoniato
dalla circostanza che, neanche sei mesi dopo il rilascio del
permesso n. 69 del 20.09.2010, l’immobile, con atto notarile
del 04.03.2011, veniva ceduto dalla Tr.Co. s.p.a. alla UBI
Leasing s.p.a., che, a sua volta, lo concedeva in locazione
finanziaria alla Sa.Sv.Im. s.r.l., la quale, a sua volta, in
data 19.05.2011 concedeva l’immobile in locazione (“ad
uso magazzino per materiale vario finalizzato a complemento
di arredi per la casa e suppellettili”) alla Me. s.r.l.
(cfr. documentazione in atti, in particolare, la lettera
della Tr.Co. s.p.a. del 26.11.2012);
b) il mutamento di destinazione d’uso, dato dal fatto che la Me.
s.r.l. destinava il nuovo capannone a servizio della propria
attività di commercio all’ingrosso, in tal modo
distogliendolo dalla originaria destinazione artigianale
(deposito di materiale ceramico), alla quale fa riferimento
il permesso di costruire n. 69/2010 (“edificio a
destinazione artigianale da adibire a magazzino per
materiale ceramico nel comparto “C” del P.E.C., in area
industriale “12” lotto “C.I.A.”), nonché il rogito
notarile del 04.03.2011 (che descrive lo stesso come
“fabbricato a destinazione artigianale da adibire a
magazzino per materiale ceramico”);
c) lo svolgimento di attività commerciale all’ingrosso da parte
della Me. s.r.l., come risultante nell’oggetto sociale dalla
visura camerale in atti del 21.06.2012.
6. In conclusione, in ragione di quanto esposto, l’appello
deve essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 13.11.2018 n. 6388 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: È
diritto del dipendente conoscere i titoli del capo.
Non è sanzionabile il dipendente pubblico che richiede informazioni sui
requisiti e sul percorso professionale del proprio dirigente. Sapere se il
proprio diretto superiore gerarchico si trovi a ricoprire quel ruolo in
conseguenza di eventuali atti illeciti, corrisponde a un interesse concreto,
diretto e attuale del lavoratore ed è espressione dei generali doveri di
cura del pubblico interesse, cui dovrebbero conformarsi tutti i pubblici
funzionari a vantaggio della collettività.
Con la
sentenza
12.11.2018 n. 28923, la
Sez. lavoro della Corte di Cassazione ha confermato le motivazioni della Corte
d'appello di Catanzaro che aveva dichiarato inefficace la sanzione
disciplinare inflitta dall'Inps a una propria funzionaria, che aveva avuto
l’ardire di formulare la richiesta d'informazioni.
La vicenda
L'impiegata aveva prodotto un’istanza d'accesso agli atti, indirizzata alla
direzione centrale risorse umane dell'Inps, per conoscere i titoli e le
esperienze professionali della propria dirigente. La sua curiosità nasceva
dal fatto che dal curriculum pubblicato sul sito dell'Istituto, si desumeva
che la dirigente aveva ricoperto incarichi sia presso il ministero delle
Finanze, sia presso l'Inps, in seguito a una procedura di mobilità come
dirigente di un consorzio ente pubblico economico, cui si accede senza
concorso pubblico.
Non avendo ricevuto alcuna risposta, la dipendente aveva provveduto a
inviare una copia dell'istanza alla segreteria tecnica del collegio dei
sindaci dell'Inps e alla segreteria del magistrato della Corte dei conti,
delegato al controllo sulla gestione dell'Istituto.
Il risultato era stato
tuttavia, un provvedimento di rigetto dell'istanza, motivato dalla ritenuta
inesistenza di un interesse diretto, concreto e attuale, idoneo a
giustificare l'accesso ai dati richiesto. Un mese dopo, come se non
bastasse, le era pervenuta una formale contestazione disciplinare, per una
presunta violazione del principio di correttezza verso l'amministrazione,
proprio a causa della richiesta di informazioni.
Le conclusioni della Cassazione
Investita del ricorso dell'Inps, la Corte di cassazione ha letteralmente
“smontato” tutte le undici censure depositate dall'Istituto. A giudizio
della Cassazione, l'obbligo di fedeltà e quelli, collegati, di correttezza e
buona fede, cui è tenuto il pubblico dipendente nell'esecuzione del
contratto di lavoro, devono essere riferiti esclusivamente ad attività
lecite (da tutti i punti di vista: penale, civile, amministrativo, tanto più
nel lavoro pubblico) del datore di lavoro, non potendosi richiedere al
lavoratore l'osservanza di questi obblighi, anche quando il datore di lavoro
intenda perseguire interessi che non siano limpidamente legittimi.
Nella
vicenda la dipendente aveva chiaramente manifestato ai propri superiori, il
dubbio che la dirigente non avesse mai superato un pubblico concorso per
accedere ai ruoli dirigenziali pubblici.
A seguito delle istanze della
lavoratrice, piuttosto che punirla, l'Istituto avrebbe dovuto attivarsi per
stabilire se l'ipotizzata irregolarità della procedura di mobilità, con la
quale la dirigente è passata dal consorzio al ministero e da quest'ultimo
all'Inps, fosse o meno rispondente al vero.
Il testo unico sul pubblico impiego è chiarissimo in merito: il passaggio
diretto è ammesso tra pubbliche amministrazioni, ma il consorzio non è una
pubblica amministrazione. I pubblici dipendenti devono adempiere alle
funzioni loro affidate «con disciplina e onore», recita la
Costituzione (e ciò è richiamato anche dal codice di comportamento dei
pubblici dipendenti), per cui il rispetto degli obblighi di correttezza, non
può essere apprezzato con riferimento a meri interessi del datore di lavoro,
dovendo in ogni caso essere commisurato al superiore interesse pubblico
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 21.11.2018). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO
ACUSTICO - Immissioni acustiche - Vaglio di tollerabilità ex
art. 844 c.c. - Tutela della salute - Superamento del
livello massimo di immissioni rumorose ex art. 844 c.c. -
Accertamento - art. 844 c.c. e 2043 c.c.; artt. 3, comma 1,
lett. l), art. 10, comma 5, e art. 11 della L. n. 447/1995;
artt. 1, 2, 5, 6 D.P.R. n. 142/2004; artt. 3, 4 e 8 D.Lgs.
n. 194/2005; art. 5 D.M. Ambiente 29.11.2000; art. 8
D.P.C.M. 14.11.1997; D.P.C.M. 01.03.1991; art. 44 del D.P.R.
n. 327/2001.
In materia di immissioni, mentre è
senz'altro illecito il superamento dei livelli di
accettabilità stabiliti dalle leggi e dai regolamenti che,
disciplinando le attività produttive, fissano nell'interesse
della collettività le modalità di rilevamento dei rumori e i
limiti massimi di tollerabilità, l'eventuale rispetto degli
stessi non può fare considerare senz'altro lecite le
immissioni, dovendo il giudizio sulla loro tollerabilità
formularsi alla stregua dei principi di cui all'art. 844 c.c.,
tenendo presente, fra l'altro, la vicinanza dei luoghi e i
possibili effetti dannosi per la salute delle immissioni.
...
INQUINAMENTO ACUSTICO - Immissioni rumorose -
Differenziazione tra tutela civilistica e tutela
amministrativa - Superamento del limite della normale
tollerabilità - Normale qualità della vita rispetto alle
esigenze della produzione - RISARCIMENTO DEL DANNO - Azione
risarcitoria extracontrattuale, ex artt. 2043 e 844 c.c. -
Inquadramento normativo e giurisprudenziale.
In tema di immissioni acustiche, la
differenziazione tra tutela civilistica e tutela
amministrativa mantiene la sua attualità anche a seguito
dell'entrata in vigore dell'art. 6-ter del d.l. n. 208 del
2008, convertito con modificazioni in L. n. 13 del 2009, al
quale [anche] non può aprioristicamente attribuirsi una
portata derogatoria e limitativa dell'art. 844 c.c., con
l'effetto di escludere l'accertamento in concreto del
superamento del limite della normale tollerabilità, dovendo
comunque ritenersi prevalente, alla luce di una
interpretazione costituzionalmente orientata, il
soddisfacimento dell'interesse ad una normale qualità della
vita rispetto alle esigenze della produzione
(Cass. n. 20927/2015; Cass. n. 20198/2016).
Pertanto, il D.P.R. n. 142/2004 non è
suscettibile di elidere la valenza precettiva dell'art. 2043
c.c. e della tutela del diritto di proprietà prevista
dall'art. 844 c.c.
(Cass. n. 16074/2016)
(Corte di
Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 12.11.2018 n. 28893 - link a www.ambientediritto.it). |
PATRIMONIO:
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Gestione dei propri beni - Regole
tecniche o dei canoni di diligenza e prudenza - Inosservanza
da parte della P.A. - Condanna al risarcimento dei danni -
Principio del neminem laedere - Giurisprudenza -
Fattispecie: inquinamento acustico.
L'inosservanza da parte della P.A. delle
regole tecniche o dei canoni di diligenza e prudenza nella
gestione dei propri beni può essere denunciata dal privato
davanti al giudice ordinario non solo per conseguire la
condanna della P.A. stessa al risarcimento dei danni, ma
anche per ottenerne la condanna ad un tacere, tale domanda
non investendo scelte ed atti autoritativi, ma un'attività
soggetta al principio del neminem laedere
(Cass. sez. un. n. 22116 del 2014; nella
specie, applicando l'enunciato principio, la S.C. ha
dichiarato appartenere al giudice ordinario la cognizione
sulla domanda per la condanna di Rete Ferroviaria Italiana
alla riduzione nei limiti di tollerabilità delle immissioni
rumorose prodotte dai convogli ferroviari, oltre che al
risarcimento dei danni da inquinamento acustico).
Il principio è stato di recente confermato (con specifico
riferimento a fattispecie in cui la S.C., confermando la
sentenza di merito, ha dichiarato la giurisdizione del
giudice ordinario sulla domanda di condanna della Autostrada
del Brennero s.p.a. alla realizzazione di una barriera
antirumore) da Cass. n. 14180 del 2016; nonché da Cass. n.
2338 del 2018, che ha riaffermato che, in tema di immissioni
acustiche provenienti da autostrada, appartiene alla
giurisdizione ordinaria la controversia avente ad oggetto la
domanda di risarcimento proposta dai proprietari dominicali
limitrofi nei confronti del concessionario della gestione
della rete autostradale. Fattispecie: pessime condizioni
della barriera antirumore per colpa o negligenza nella
costruzione e manutenzione del manufatto
(Corte di
Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 12.11.2018 n. 28893 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO
ATMOSFERICO - Attività di lavorazione pelli - Impianto con
emissioni in atmosfera - Macchinario per lo spruzzo -
Autorizzazione distinte per singolo macchinario - Esclusione
- Artt. 183, 256, 269, 272, 279, d.lgs. n. 152/2006.
In tema di inquinamento atmosferico,
l'autorizzazione è rilasciata con riferimento allo
stabilimento. I singoli impianti e le singole attività
presenti nello stabilimento non sono oggetto di distinte
autorizzazioni." Dal dettato normativo, ex art. 269 d.lgs.
n. 152 del 2006, si evince che l'autorizzazione sia
rilasciata "con riferimento allo stabilimento" e non già al
singolo macchinario.
Come poi emerge dall'incipt, la norma fa salvo quanto
stabilito, tra l'altro, dall'art. 272, comma 1, che così
recita: "Non sono sottoposti ad autorizzazione di cui al
presente titolo gli stabilimenti in cui sono presenti
esclusivamente impianti e attività elencati nella parte I
dell'Allegato IV alla parte quinta del presente decreto.
L'elenco si riferisce a impianti e ad attività le cui
emissioni sono scarsamente rilevanti agli effetti
dell'inquinamento atmosferico."
Nella parte I dell'Allegato IV - impianti e attività in
deroga della Parte Quinta, che individua gli "impianti ed
attività di cui all'articolo 272, comma 1", alla lett. q)
sono indicati i "macchinari a ciclo chiuso di concerie e
pelliccerie" (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.11.2018 n. 51033 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI
- Gestione illecita dei rifiuti - Nozione di deposito
temporaneo - Presupposti - Giurisprudenza.
In tema di gestione illecita dei
rifiuti, per luogo di produzione rilevante ai fini della
nozione di deposito temporaneo ai sensi dell'art. 183 d.lgs.
03.04.2006, n. 152 deve intendersi quello in cui i rifiuti
sono prodotti ovvero che si trovi nella disponibilità
dell'impresa produttrice e nel quale gli stessi sono
depositati, purché funzionalmente collegato al luogo di
produzione e dotato dei necessari presidi di sicurezza
(Sez. 7, n. 17333 del 18/03/2016, dep. 27/04/2016,
Passarelli) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.11.2018 n. 51033 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Raccolta e trasporto in difetto di autorizzazione
- Natura di reato istantaneo - Sufficiente un unico episodio
ad integrare l’illecito - Giurisprudenza - Art. 256 del
D.L.vo 152/2006.
La raccolta ed il trasporto di rifiuti
in difetto di autorizzazione ha, di regola, natura di reato
istantaneo e solo eventualmente abituale, in quanto si
perfeziona nel momento in cui sì realizza la singola
condotta tipica, essendo sufficiente un unico trasporto ad
integrare la fattispecie incriminatrice, salvo il caso in
cui, stante la ripetitività della condotta, si configuri
quale reato eventualmente abituale
(Sez. 3, n. 13456 del 30/11/2006, dep. 02/04/2007, Gritti e
altro; Sez. 3, n 21655 del 13/04/2010, conf., anche con
riferimento alla disciplina emergenziale, Sez. 3, n. 45306
del 17/10/2013, Carlino).
Nella specie, trattandosi di sei condotte
nell'arco temporale limitato di tre mesi, il reato si
configurava quale abituale ed assumeva struttura unitaria,
con la conseguenza che risultava illegale il disposto
aumento per la continuazione (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.11.2018 n. 51003 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Serre
mobili stagionali sprovviste di strutture in muratura -
Attività edilizia libera - Avanserra ancorata su piattaforma
in cemento - Requisiti di stabilità, consistenza e non
precarietà - Necessita del permesso di costruire - Artt. 3,
6, 44, lett. b), 93, 94 e 95 d.PR. 380/2001.
Le serre mobili stagionali, sprovviste
di strutture in muratura, funzionali allo svolgimento
dell'attività agricola rientrano, ai sensi dell'articolo 6,
comma 1, lettera e), d.P.R. 380/2001, tra le ipotesi di
attività edilizia libera, mentre per quelle di diversa
consistenza e destinazione necessita del permesso di
costruire, assumendo rilevanza decisiva la presenza di
requisiti di stabilità o di rilevante consistenza, tale da
alterare in modo duraturo l'assetto urbanistico-ambientale
(Cass. Sez. 3, n. 37139 del 10/04/2013, Di Benedetto; Sez.
3, n. 36594 del 17/05/2012, Giuffrida; Sez. 3, n. 46767 del
16/11/2005, Mulé; Sez. 3, n. 33158 del 29/05/2002, P.M. in
proc. Bianchini ed altre prec. conf.).
Fattispecie: realizzazione di una
struttura portante metallica bullonata su piastre ancorate
su piattaforma in cemento assimilabile ad "avanserra", in
zona sismica, in assenza di permesso di costruire, senza
darne preavviso scritto allo sportello unico, senza
preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio
tecnico regionale e senza direzione lavori da parte di
professionista abilitato.
...
Strutture di servizio e supporto ad impianti serricoli -
Realizzazione della "avanserra" - Platea in cemento -
Esecuzione in zona sismica- Rilievo ai fini urbanistici -
Permesso di costruire - Necessità.
La sola realizzazione della platea in
cemento assume rilievo ai fini urbanistici ed è soggetta a
permesso di costruire, sulla base di quanto disposto dal
T.U. dell'edilizia, tutti gli interventi che,
indipendentemente dalla realizzazione di volumi, incidono
sul tessuto urbanistico del territorio, determinando una
trasformazione in via permanente del suolo inedificato
(cfr. Sez. 3, n. 1308 del 15/11/2016 (dep. 2017), Palma;
Sez. 3, n. 4916 del 13/11/2014 (dep. 2015), Agostini; Sez.
3, n. 8064 del 02/12/2008 (dep. 2009), P.G. in proc.
Dominelli), comprendendo, tra questi, la realizzazione di
una piattaforma con struttura intelaiata in cemento armato (Sez.
3, n. 31399 del 11/05/2018, Spica).
E' appena il caso di rilevare, infine, che
nessun rilievo ha il fatto che l'opera fosse una "avanserra"
e non una serra, atteso che tali manufatti, per definizione,
sono sostanzialmente strutture di servizio e supporto ad
impianti serricoli ed, in ogni caso, ciò che qui rileva è la
trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, che
la stessa determina rendendo necessario il permesso di
costruire (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.11.2018 n. 50649 - link a www.ambientediritto.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Peculato
al responsabile finanziario comunale che dispensa incentivi
non dovuti.
Commette il reato di peculato il responsabile finanziario di
un Comune che approfitta per sé e per altri dipendenti
comunali degli incentivi previsti per la riscossione Ici, in
totale spregio delle modalità di calcolo previste dalla
normativa amministrativo-contabile di riferimento.
È quanto emerge dalla
sentenza 02.11.2018 n. 49922
della Corte di Cassazione, Sez. VI penale.
Il caso
Più che per le motivazioni, la pronuncia della Suprema corte
si distingue per la particolarità della vicenda.
Protagonista ne è il responsabile finanziario di un Comune
sardo, il quale era accusato dell'appropriazione del danaro
di cassa dell'ente locale attraverso la liquidazione a sé e
ad altri dipendenti comunali di compensi incentivanti non
dovuti, per attività finalizzate al recupero dell'Ici.
In particolare, si contestava al dirigente di aver
determinato gli incentivi con modalità di calcolo difformi
rispetto a quelle previste nel regolamento comunale e in
difetto delle autorizzazioni e dei pareri di conformità.
Nello specifico, l'elargizione del denaro pubblico era
intervenuta «non sulle somme incassate dell'imposta
evasa, e quindi in applicazione del criterio di cassa, ma
con riferimento alle somme accertate negli avvisi di
pagamento e non contestate dai contribuenti, con conseguente
liquidazione per importi virtuali ovverosia per acconti
posti a carico delle annualità precedenti di bilancio, con
utilizzo dei residui del conto di esercizi precedenti».
Peraltro, la stessa attività di accertamento e riscossione
della vecchia imposta comunale era stata affidata a società
esterne e, pertanto, mancava lo stesso presupposto per dar
luogo all'incentivo, ovvero l'incremento della prestazione
lavorativa o dei risultati conseguiti dai dipendenti
comunali.
Per queste condotte il responsabile finanziario dell'ente
locale era stato condannato, sia dalla Corte dei conti per
danno erariale, sia dai giudici di merito per il reato di
peculato, per la violazione delle norme di settore che
vietano ogni automatismo nella corresponsione degli elementi
accessori della retribuzione ai dipendenti
dell'amministrazione territoriale. In particolare, secondo
la Corte d'appello di Cagliari gli incentivi censurati
avrebbero dovuto conseguire al «consolidamento
dell'imposta evasa per relativo accertamento», oltre che
essere preceduti da un controllo dell'organo politico.
La decisione
La questione è finita in Cassazione, dove l'imputato ha
cercato di far leva sulla complessità della normativa
contabile, la cui violazione ha determinato la commissione
del reato previsto dall’articolo 314 del codice penale.
Tuttavia, la Suprema corte con una articolata sentenza ha
confermato nella sostanza il verdetto sfavorevole. Secondo i
giudici di legittimità «le norme di natura
amministrativo-contabile devono intendersi richiamate da
quella penale di definizione del delitto di peculato
provvedendo esse ad assolvere alla finalità di determinare
la destinazione del pubblico denaro», qualificando in
termini appropriativi la condotta del dipendente pubblico
che provveda a «dare del denaro pubblico un utilizzo in
macroscopica violazione del procedimento amministrativo»,
in assenza di qualsiasi finalità pubblica.
In sostanza, chiosa il Collegio, nella fattispecie si è
verificata una rilevante illiceità nella gestione del denaro
pubblico, in totale spregio della normativa di riferimento
che vieta ogni automatismo nella corresponsione dei compensi
incentivanti per i dipendenti
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.11.2018).
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SENTENZA
4. La Corte territoriale di Cagliari ha condannato per il
reato di peculato
Egidio Usai, responsabile dell'ufficio finanza e tributi del
Comune di Pula, per
essersi egli appropriato, avendone per ragioni del suo
ufficio la disponibilità,
del denaro di cassa dell'amministrazione comunale,
provvedendo a liquidare
a se stesso e ad altri dipendenti, compensi incentivanti per
la riscossione
dell'I.C.I. non dovuti per le modalità di calcolo osservate,
difformi da quelle
previste dalla disciplina di settore, e trattandosi di
attività esternalizzata a
terzi.
Per le raggiunte conclusioni, i giudici di appello,
preliminarmente
chiamati a darne ricostruzione, hanno fornito dell'insieme
di norme che
disciplinano il fondo per l'incentivazione dei compensi ai
dipendenti comunali
impegnati nel servizio di riscossione dell'Ici evasa, una
corretta
interpretazione provvedendo poi, nel confronto con gli
adempimenti di legge
richiesti dall'indicato sistema, a segnalare delle condotte
osservate
dall'imputato, nella registrata loro rilevante deviazione
dal modello legale,
l'integrazione del reato di peculato per i necessari estremi
obiettivi e
soggettivi.
Nell'indicata cornice, le norme di natura
amministrativo-contabile
devono intendersi richiamate da quella penale di definizione
del delitto di
peculato provvedendo esse ad assolvere alla finalità di
determinare la
destinazione del pubblico danaro ed in tal modo concorrendo
a qualificare in
termini appropriativi ex art. 314 cod. pen. la condotta del
pubblico
funzionario o dell'incaricato di un pubblico servizio là
dove questi provveda a
dare del denaro pubblico un utilizzo in macroscopica
violazione del
procedimento amministrativo e segnatamente per una finalità
che,
insussistente, registri l'abbandono di ogni rapporto
dell'utilizzo stesso con la
p.A. (tra le altre: Sez. 6, n. 23066 del 14/05/2009,
Provenzano, Rv.
244061, sul richiamo all'abbandono delle finalità
istituzionali per ritenere
integrato il reato di peculato).
Il complesso di norme plurifonte destinato a venire in
considerazione
nella disciplina dell'indicata materia —in cui trovano
composizione
disposizioni normative primarie e secondarie e previsioni di
stretta
derivazione privatistica— affida ai Comuni, nell'esercizio
della potestà
regolamentare loro riconosciuta, la scelta di destinare una
percentuale del
gettito al fine di potenziare gli uffici tributari,
stabilendo l'attribuzione
di compensi incentivanti al personale addetto (art. 3, comma
57, legge
contenente «Misure di razionalizzazione della finanza
pubblica» n. 662 del
1996; art. 59, lett. p), d.lgs. n. 446 del 1997 contente l'«Istituzione
dell'imposta regionale sulle attività produttive, revisione
degli scaglioni, delle
aliquote e delle detrazioni dell'Irpef e istituzione di una
addizionale regionale
a tale imposta, nonché riordino della disciplina dei tributi
locali»).
I Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro (CCNL 01.04.1999 e succ. nnodif., applicabile al personale, escluso quello con
qualifica dirigenziale,
dipendente dagli enti del comparto delle Regioni e delle
Autonomie Locali),
entrano a comporre il quadro normativo di riferimento.
Essi individuano il salario accessorio per il personale non
dirigente
composto da risorse in cui rientrano quelle destinate
all'incentivazione di
prestazioni che confluiscono in un apposito fondo il cui
utilizzo, finalizzato al
miglioramento dei livelli di efficienza delle
amministrazioni e della qualità dei
servizi, avviene per erogazione di compensi correlata al
merito ed ai risultati
conseguiti.
I compensi incentivanti il miglioramento del servizio
entrano a far parte
di un «Progetto» all'interno del quale vengono determinati,
insieme
all'ammontare dell'incentivo stabilito in misura percentuale
dell'I.C.I.
accertata, gli obiettivi e gli indicatori di produttività.
Il «Progetto» deve essere approvato dall'amministrazione con
atto di
indirizzo (artt. 15, comma 1, lett. k) e 17, comma 2, lett.
g) del CCNL 01.04.1999 sulla previsione di un fondo dedicato e delle
modalità di
distribuzione delle relative risorse) all'interno della cd.
contrattazione
integrativa, decentrata o di secondo livello.
All'operatività dell'indicato meccanismo resta affidata,
come evidenziato
nell'impugnata sentenza, la verificabilità del maggiore
impegno del
personale nella sottolineata finalità di modulare
l'incentivo all'effettivo
incremento di produttività «in coerenza con gli obiettivi
annualmente
predeterminati» dell'amministrazione e con sottrazione dello
stesso ad ogni
automatismo (art. 18 CCNL), per un processo di progressiva
razionalizzazione e riduzione del costo del lavoro pubblico.
Segnatamente l'amministrazione locale è chiamata a
concludere il
contratto collettivo decentrato integrativo (CDI)
nell'osservanza della forma
scritta richiesta ad substantiam per il necessario principio
di certezza,
trasparenza e correttezza che deve guidare la p.A. anche
quando agisca iure privatorum (ex multis: Sez. 2, n. 20033 del 06/10/2016 (Rv.
641700 - 01) e
l'accordo deve prevedere la fissazione di criteri e piani di
attività, anche
pluriennali, e di progetti strumentali e di risultato (art.
17 CCNL 01.04.1999 cit.).
Agli accordi decentrati deve seguire la definizione degli
obiettivi da
parte degli organi di governo dell'ente a tanto chiamati
anche avvalendosi
delle proposte dei dirigenti, all'inizio di ciascun anno ex
d.lgs. n. 29 del 1993
e succ. modif. (art. 18 CCNL cit.).
5. L'amministrazione comunale di Pula ha esercitato la
potestà
regolamentare in materia di compensi incentivanti I.C.I.
adottando il
Regolamento per Delibera del Commissario straordinario n. 19
del 2004 in
cui è inserita la previsione del fondo per gli incentivi
I.C.I. (art. 14).
A fronte dell'articolata disciplina di settore, è mancata,
nelle convergenti
conclusioni dei giudici di merito di primo e secondo grado —destinate ad
integrarsi a vicenda confluendo in un risultato organico ed
inscindibile che
non si lascia censurare per erroneità o divisata
interpretazione delle norme
in applicazione— l'istituzione del fondo e l'approvazione
del correlato
programma con definizione degli obiettivi di risultato
rispetto ai quali
valutare l'attività dei dipendenti addetti al settore.
In risposta alle deduzioni difensive, la capacità delle
condotte in
concreto adottate dall'imputato di integrare comunque il
modello
normativamente fissato è stata oggetto di ineccepibile
valutazione da parte
della Corte territoriale per un giudizio ai cui esiti non è
rimasta estranea, in
modo concludente, la condanna per danno erariale pronunciata
dalla Corte
dei conti nei confronti di Usai nel parallelo giudizio
amministrativo-contabile
(sentenza n. 193 del 2012).
Individuata disciplina e ratio dei compensi incentivanti del
personale
addetto alla riscossione dell'I.C.I., la sentenza della
Corte di appello di
Cagliari esclude, correttamente ed in modo congruo, che le
manifestazioni di
volontà dell'amministrazione comunque individuate nella
scrutinata vicenda
e la condotta osservata dell'imputato possano dirsi
integrative del complesso
modulo dispositivo per legge richiesto.
5.1. Restano sul punto ferme le conclusioni raggiunte circa
la mancata
fissazione da parte dell'organo di governo del Comune di
Pula di obiettivi programmatici annuali sul cui
raggiungimento valorizzare, previa loro
verificabilità, per il binomio produttività ed incentivi
(art. 18 CCNL cit.),
l'attività dei dipendenti dell'amministrazione comunale e la
mancata
adozione in sede di contrattazione collettiva decentrata di
criteri di
determinazione e di attribuzione delle forme di
incentivazione.
In siffatta prospettiva si è escluso, con valutazione che
sfugge a
sindacato in questa sede, che le relazioni previsionali e di
programma
adottate dalla Giunta del Comune per le annualità 2002-2006
avessero la
capacità di assolvere al compito di approvazione del
richiesto «Progetto»,
nella scrutinata assenza di ogni riferimento agli obiettivi
in concreto
perseguibili rispetto a prefissati standard di produttività
ed ai criteri di
valutazione da applicarsi.
5.2. Il dato della esternalizzazione del servizio per
affidamento a terzi
concessionari ed agenti della riscossione (Equitalia
Sardegna S.p.A. già
B.P.S. Riscossioni S.p.A., e Pu.Se. ed Am. S.r.l.)
viene
correttamente valorizzato nell'impugnata sentenza quale
presupposto della
necessità di una progettazione più rigorosa degli obiettivi
dell'ufficio
comunale, con individuazione dei criteri di valutazione dei
singoli addetti.
Perspicuamente l'impugnata sentenza rileva che gli incentivi
in un
sistema misto in cui alla esternalizzazione o gestione a
mezzo terzi si
accompagnava anche una gestione in economia degli uffici
comunali
vennero comunque calcolati sui risultati raggiunti dal
concessionario e non
sulle attività, meramente ancillari, del personale, in ogni
caso non
quantificabili in mancanza di progetti ed obiettivi.
5.3. In assenza di un apposito «Progetto» diretto a fissare
gli obiettivi
da perseguirsi, la Corte di merito ha qualificato, in modo
concludente ed
espressivo di corretta valutazione della normativa,
l'attività di Usai quale
erogazione atipica di emolumenti economici in favore dei
dipendenti del
Comune, declinata in modo incontrollato secondo il cd.
metodo «a pioggia».
Si lascia quindi apprezzare come di piena e salda
interpretazione del
sistema la stima operata nell'impugnata sentenza sulla
illegittimità della
condotta del prevenuto per adozione di modelli praeter legem
in quanto non
preordinati all'attivazione di controlli nel riparto tra la
responsabilità di
indirizzo, propria dell'organo politico o di governo
dell'ente territoriale, e
responsabilità di gestione rimessa al dirigente chiamato a
dare attuazione al
piano.
Valga in tal senso l'esclusione di ogni rilievo alle
modalità di liquidazione
osservate dall'imputato che, in adesione, si deduce in
ricorso, ai principi di
contabilità generale dettati in materia di bilancio di
previsione e consuntivo, avrebbe appostato in un capitolo
titolato «compensi incentivanti», sia in
previsione di entrata che a consuntivo, gli emolumenti in
questione
consentendo di siffatta posta ogni controllo agli organi
politici e tecnici
dell'amministrazione, attraverso la delibera di approvazione
del bilancio
previa relazione di accompagno dei revisori contabili.
La critica sul punto portata, che vorrebbe soddisfatto per
l'osservato
ordinario procedimento di approvazione del bilancio ogni
onere derivante
dalla speciale disciplina di settore, rimane fuori fuoco non
confrontandosi
con la motivazione impugnata e con il ben più articolato
sistema ivi definito,
in cui modalità di verifica dell'azione dell'amministrazione
in relazione a
prefissati obiettivi, termini tra loro intimamente connessi
nel settore dei
compensi sussidiari, restano inosservate per la condotta
contestata.
Il sistema adottato dal prevenuto di liquidazione degli
incentivi in
acconto, sugli avvisi di imposta inviati ai contribuenti e
non contestati e con
incidenza sui residui degli anni precedenti di bilancio è
indice, come
debitamente rilevato dai giudici di merito della mancanza di
un realizzo in
termini di cassa, o di effettivo introito delle somme da
destinarsi
all'incentivo, e pertanto di un etero- inanziamento del
«Progetto» sui
compensi incentivanti che contrasta con le finalità
dell'istituto di
incentivazione di dotazioni umane e materiali neppure
incentivate dalla
valorizzata, in sentenza, distribuzione a personale estraneo
finanche
all'ufficio tributi (art. 3, comma 57, legge n. 662 del 1996
e art. 59, comma
1, lett. p), d.lgs. n. 446 del 1997).
5.4. L'ulteriore profilo di censura con cui si contesta la
sussistenza della
pure ritenuta, in sentenza, violazione dell'art. 24, commi 3
e 8, d.lgs. n. 165
del 2001 in ragione di posizioni dirigenziali apicali in
realtà non appartenenti
all'imputato, funzionario non laureato con incarico di
posizione
organizzativa, resta superato dal rilievo contenuto
nell'impugnata sentenza
e rispondente alla disciplina di settore che il fondo
incentivante è
presupposto della erogazione degli emolumenti aggiuntivi in
favore di tutti i
dipendenti degli enti locali.
6. La deviazione essenziale dai modelli tipici definiti dal
sistema di
riferimento sostiene debitamente il formulato giudizio sulla
sussistenza,
insieme alla condotta contestata, del dolo appropriativo
proprio della
fattispecie di peculato.
In modo non fondato il ricorso richiamando come non superato
nel
formulato giudizio di penale responsabilità il ragionevole
dubbio (art. 533
cod. proc. pen.) fa valere la mancanza dell'elemento
soggettivo del reato, contestando l'assunto che l'illiceità
della condotta del prevenuto e quindi il
suo discostarsi dalla disciplina di legge sia integrativa
del reato di peculato e
del correlato dolo.
L'invocata configurabilità di altre ipotesi di illecito —disciplinare,
amministrativo e contabile— anche per un operato richiamo a
sentenze dei
giudici contabili sosterrebbe al più, si deduce dalla
difesa, nella condotta
dell'imputato l'esistenza di una colpa grave e non del dolo,
con esclusione,
quindi, del ritenuto reato.
La deduzione è stata in modo congruo apprezzata dai giudici
di merito
come non fondata.
6.1. Valga innanzitutto sul punto il rilievo che la
giurisdizione contabile
e quella ordinaria sono reciprocamente indipendenti nei loro
profili
istituzionali anche quando investono il medesimo fatto
materiale e che
l'eventuale interferenza tra i giudizi è destinata a porre
un problema di
proponibilità dell'azione dinanzi alla Corte dei conti.
Al principio, pacifico nelle conclusioni delle Sezioni Unite
della
cassazione civile chiamate a pronunciarsi in sede di
regolamento di
giurisdizione (tra le altre: Sez. U, Ordinanza n. 25495 del
04/12/2009 (Rv.
610465 - 01), si accompagna il rilievo che il rapporto tra i
due giudizi non è
quello di reciproco vincolo.
La circostanza pertanto che le condotte ascritte in rubrica
e scrutinate
dal giudice contabile in sede di giudizio sul danno erariale
siano state
ritenute connotate da colpa grave non vale a vincolare ad
identico giudizio il
giudice ordinario in sede di cognizione penale.
Ciò posto, il canone che risulta aver invece guidato i
giudici di merito —una volta ricostruito il complesso di norme
amministrativo- contabili di
disciplina dei compensi accessori la cui violazione è
entrata a comporre
l'ascritta fattispecie di reato— è stato quello della
macroscopica illiceità
degli atti capace, come tale, di disvelare insieme alla
condotta di
appropriazione del denaro pubblico attribuita al prevenuto,
il carattere
doloso della stessa.
6.2. Nel delitto di peculato all'appropriazione del denaro
pubblico si
correla un necessario coefficiente di volontà in difetto del
quale non sussiste
neppure l'appropriazione.
Il dolo del peculato ex art. 314, primo comma, cod. pen. ha
natura
generica ed è dato dalla volontà del pubblico ufficiale o
dell'incaricato di
pubblico servizio di fare propria la cosa con la
consapevolezza di averne il
possesso o la disponibilità per ragione dell'ufficio o del
servizio e che
pertanto sulla stessa insiste un diritto altrui.
La condotta tenuta dall'imputato con deviazione dal modello
legale per
mancata costituzione di un «Progetto» di gestione obbediente
a criteri di
predeterminazione e verificabilità degli obiettivi coinvolti
e con
commisurazione sugli stessi dell'incentivi erogati al fine
di incrementare gli
standard quantitativo-qualitativi del servizio, all'interno
di un procedimento
in cui è chiamato a partecipare l'organo politico dell'ente
locale per correlarsi
all'azione del pubblico funzionario nella gestione del
servizio integra, nelle
articolate e corrette conclusioni dei giudici di merito che
sfuggono a censura
nel giudizio di legittimità, il dolo del reato.
6.3. Il tema dell'affidamento e quindi della buona fede
dell'imputato,
dedotto dalla difesa ad esclusione del contestata
consapevolezza
appropriativa, è stato escluso nella sua rilevanza, nella
convergente
valutazione dei giudici di merito, proprio in ragione delle
contestate
inosservanze di legge e, tra queste, della mancanza di una
puntuale e
documentata certificazione dei compiti svolti da ciascun
dipendente in
relazione all'accresciuto impegno lavorativo in ragione di
un buon governo
degli esiti di prova.
6.3.1. Arricchita nei suoi contenuti dai rilievi sul punto
operati dai
giudici di primo grado, la valutazione in ordine alla prova
raccolta contenuta
nell'impugnata sentenza ha evidenziato, in modo concludente,
la capacità
sintomatica anche delle modalità di pagamento dei compensi
incentivanti,
avvenuti tramite bonifici e sui conti correnti dei
dipendenti, alcuni dei quali
erano «addirittura all'oscuro di tutto» (p. 26 sentenza
primo grado con
riferimento alla testimonianza dell'addetto all'elaborazione
delle buste paga;
p. 27 sentenza di appello che riporta la «meraviglia» di
altro dipendente) di
denunciare la sussistenza dell'elemento soggettivo del
delitto di peculato.
6.3.2. L'ulteriore profilo relativo all'incidenza che i
pareri espressi da
organi tecnici sull'operato dell'imputato avrebbero avuto
sulla sua dolosa
volontà resta debitamente confinato, nell'univoco quadro
definito dalla
doppia conforme decisione dei giudici di merito, nella area
della irrilevanza.
Tanto è destinato a valere in ragione della stimata epoca in
cui i pareri
intervennero, successiva all'adozione delle determinazioni
di pagamento
contestate che pertanto non possono dirsi in nessun modo
sostenute dai
primi, e dai loro contenuti, di limitata previsione: così
per la ivi espressa
compatibilità tra l'incentivo in questione e l'esternalizzazione
del servizio.
Nell'indicata cornice la dedotta mancanza in capo al
prevenuto della
qualifica di dirigente (art. 24, commi 3 e 8, d.lgs. n. 161
del 2001) è solo
evidenza genericamente, ed in modo non concludente, fatta
valere a
sostegno della insussistenza dell'elemento soggettivo del
reato.
Per gli indicati profili il tema destinato a venire in
considerazione è
quello della scusabilità dell'ignoranza della legge penale
ex art. 5 cod. pen.,
come in via additiva definito dalla sentenza n. 364 del 1988
del giudice delle
leggi.
In un settore che è contraddistinto da norme
amministrativo-contabili
integrative del precetto penale (Sez. 6, n. 10020 del
03/10/1996, Pravisani,
Rv. 206365) l'errore di diritto destinato a scusare l'autore
del reato resta
invero circoscritto a quello inevitabile di cui all'art. 5
cit. che come tale è
stato non solo debitamente valutato dai giudici di merito
per le scrutinate
condotte dell'imputato, ma neppure direttamente e
puntualmente
contrastato in ricorso (Corte
di Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 02.11.2018 n. 49922). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini della applicabilità dell'art. 131-bis
cod. pen. nelle ipotesi di violazioni urbanistiche e
paesaggistiche, la
consistenza dell'intervento abusivo -data da tipologia,
dimensioni e
caratteristiche costruttive- costituisce solo uno dei
parametri di valutazione,
assumendo rilievo anche altri elementi quali, ad esempio, la
destinazione
dell'immobile, l'incidenza sul carico urbanistico,
l'eventuale contrasto con gli
strumenti urbanistici e l'impossibilità di sanatoria, il
mancato rispetto di vincoli e
la conseguente violazione di più disposizioni, l'eventuale
collegamento dell'opera
abusiva con interventi preesistenti, la totale assenza di
titolo abilitativo o il grado
di difformità dallo stesso, il rispetto o meno di
provvedimenti autoritativi emessi dall'amministrazione
competente, le modalità di esecuzione dell'intervento.
---------------
L'effettiva pericolosità della costruzione realizzata senza
l'autorizzazione del genio civile e senza le prescritte
comunicazioni è del tutto irrilevante ai fini della
sussistenza del reato e la verifica postuma dell'assenza del
pericolo ed il rilascio del provvedimento abilitativo non
incidono sulla illiceità della condotta, poiché gli illeciti
sussistono in relazione al momento di inizio dell'attività.
Invero, in tema di reati concernenti l'attività edificatoria
in zone sismiche, l'eventuale rilascio postumo del parere
favorevole da parte dell'Ufficio del Genio Civile
competente, che attesta la rispondenza alla normativa
antisismica delle opere realizzate, non elide
l'antigiuridicità penale della condotta consistita nell'aver
iniziato i relativi lavori senza preventiva autorizzazione
scritta dal competente ufficio tecnico regionale.
Altresì, in tema di costruzioni in zone sismiche, ai fini
della configurabilità delle contravvenzioni previste dalla
normativa antisismica (art. 95 del d.P.R. 06.06.2001, n.
380) è irrilevante che le costruzioni realizzate siano
effettivamente pericolose, in quanto la normativa è
finalizzata a garantire l'esercizio del controllo preventivo
della P.A. sulle attività edificatorie in dette zone.
Dunque, l'argomento della verifica postuma della assenza di
pericolosità sismica dell'intervento edilizio (e dunque
della sua sostanziale non abusività, come sostengono i
ricorrenti), non è tale da sminuire la rilevanza decisiva
della dimensione dell'intervento che esclude in radice, nel
caso di specie, la natura esigua del pericolo e la
possibilità di applicare la causa di non punibilità per
particolare tenuità del fatto.
---------------
1. I sigg.ri DO.RI., PR.LI., PA.GI. e
PA.GI. ricorrono per l'annullamento della
sentenza del
29/09/2017 del Tribunale di Macerata che li ha dichiarati
penalmente
responsabili del reato di cui agli artt. 81, cpv., 110 cod.
pen., 93, 94, 95 d.P.R. n.
380 del 2001, commesso in Poggio San Vicino il 05/02/2013, e
li ha condannati
alla pena di 1.000 euro di ammenda ciascuno.
...
3. I ricorsi sono inammissibili perché manifestamente
infondati.
4. Si imputa ai ricorrenti di aver realizzato in zona sismica
i seguenti lavori di
miglioramento sismico e di riparazione dei danni dal
terremoto in difformità
rispetto a quelli già autorizzati: a) le demolizione totale
dell'edificio; b) la sua
ricostruzione parziale per un'altezza media di circa mt.
1,70 con blocchi di
laterizio; c) la posa in opera di un solaio in
latero-cemento collocato tra il piano
terra e quello seminterrato; d) la realizzazione di un piano
seminterrato con
pareti in cemento armato.
4.1. Il Tribunale ha escluso l'applicazione della speciale
causa di non
punibilità per particolare tenuità del fatto in
considerazione: a) della consistenza
delle opere realizzate; b) della presenza di più reati
legati dal vincolo della
continuazione.
...
4.5. Come già affermato da questa Corte, ai fini della
applicabilità dell'art.
131-bis cod. pen. nelle ipotesi di violazioni urbanistiche e
paesaggistiche, la
consistenza dell'intervento abusivo -data da tipologia,
dimensioni e
caratteristiche costruttive- costituisce solo uno dei
parametri di valutazione,
assumendo rilievo anche altri elementi quali, ad esempio, la
destinazione
dell'immobile, l'incidenza sul carico urbanistico,
l'eventuale contrasto con gli
strumenti urbanistici e l'impossibilità di sanatoria, il
mancato rispetto di vincoli e
la conseguente violazione di più disposizioni, l'eventuale
collegamento dell'opera
abusiva con interventi preesistenti, la totale assenza di
titolo abilitativo o il grado
di difformità dallo stesso, il rispetto o meno di
provvedimenti autoritativi emessi
dall'amministrazione competente, le modalità di esecuzione
dell'intervento (Sez.
3, n. 19111 del 10/03/2016, Mancuso, Rv. 266586; Sez. 3, n.
47039 del
08/10/2015, Derossi, Rv. 265450).
4.6. Si badi: tale principio è stato affermato nei casi in
cui la ridotta
consistenza dell'opera era stata dedotta a giustificazione
della invocata
applicabilità dell'istituto, con quanto ne consegue in
termini di sua inapplicabilità
nel caso contrario. Solo quando la consistenza
dell'intervento è modesta, infatti,
è necessario prendere in considerazione tutti gli altri
indici indicati da questa
Corte.
4.7. I ricorrenti però deducono, a sostegno dell'applicazione
della causa di
non punibilità, il deposito a sanatoria del progetto e la
mancanza di violazioni
sostanziali delle norme tecniche che disciplinano
l'edificazione nelle zone
sismiche.
4.8. La deduzione è suggestiva ma platealmente infondata
perché, a voler
seguire fino in fondo la tesi difensiva, non si comprende
perché il legislatore, pur
avendo introdotto la speciale causa di non punibilità di cui
all'art. 131-bis cod.
pen., abbia continuato a tenere indenni i reati in materia
antisismica dagli effetti
estintivi di sanatorie postume, pur previsti in caso di reati
urbanistici.
4.9. La ragione deve essere rinvenuta nella radicale diversità
dei beni tutelati
dalle due normative, non colta dai ricorrenti.
4.10. Lo ha ben spiegato la Corte costituzionale allorquando,
nel dichiarare la
manifesta infondatezza della questione di legittimità
costituzionale
del Rallora) art. 22, terzo comma, della legge 28.02.1985, n. 47 (Norme in
materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia,
sanzioni, recupero e
sanatoria delle opere edilizie), sollevata, in riferimento
all'art. 3, primo comma,
della Costituzione, affermò che «appare sicuramente non
arbitraria e non
assolutamente irragionevole la scelta del legislatore di
limitare la particolare ipotesi di estinzione dei reati, a
seguito della sanatoria mediante accertamento di
conformità, ai soli reati contravvenzionali previsti dalle
norme urbanistiche
vigenti (...) tale scelta è stata condizionata dalle
particolari esigenze di sicurezza
generale, volte ad evitare che, in via permanente anche per:
il futuro, si possa
fare a meno delle specifiche procedure (e relativa tutela
penale) attinenti alla
idoneità statica per le opere in cemento armato o a
struttura metallica e alle
opere in zona sismica, semplicemente ricorrendo
all'accertamento di conformità
avente valenza esclusivamente urbanistica (...) del resto,
nel sistema penale non
resta in radice esclusa la possibilità per i soggetti
interessati di avvalersi dei
generali strumenti di composizione dell'azione penale,
ricorrendo per le
contravvenzioni concorrenti -ove ne sussistano gli estremi
e a seconda delle
diverse ipotesi- alla separata oblazione (articoli 162 e
162-bis del codice
penale), previa eliminazione degli eventuali elementi
impeditivi (conseguenze
dannose o pericolose del reato eliminabili da parte del
contravventore)»
(Ordinanza n. 149 del 1999).
4.11. Il ragionamento del Giudice delle leggi, prende le
mosse dalla pacifica
natura omissiva formale dei reati contestati agli imputati,
essendo noto che le
contravvenzioni previste dalla normativa antisismica
puniscono inosservanze
formali, volte a presidiare il controllo preventivo della
pubblica amministrazione.
Ne deriva che l'effettiva pericolosità della costruzione
realizzata senza
l'autorizzazione del genio civile e senza le prescritte
comunicazioni è del tutto
irrilevante ai fini della sussistenza del reato e la
verifica postuma dell'assenza del
pericolo ed il rilascio del provvedimento abilitativo non
incidono sulla illiceità
della condotta, poiché gli illeciti sussistono in relazione
al momento di inizio
dell'attività (Sez. 3, n. 5738 del 13/05/1997, Petrone, Rv.
208299; cfr., più
recentemente, Sez. 3, n. 27876 del 16/06/2015, Pro, Rv.
264201, secondo cui in
tema di reati concernenti l'attività edificatoria in zone
sismiche, l'eventuale
rilascio postumo del parere favorevole da parte dell'Ufficio
del Genio Civile
competente, che attesta la rispondenza alla normativa
antisismica delle opere
realizzate, non elide l'antigiuridicità penale della
condotta consistita nell'aver
iniziato i relativi lavori senza preventiva autorizzazione
scritta dal competente
ufficio tecnico regionale; nello stesso senso, Sez. 3, n.
41617 del 02/10/2007,
Iovine, Rv. 238007, secondo cui in tema di costruzioni in
zone sismiche, ai fini
della configurabilità delle contravvenzioni previste dalla
normativa antisismica
(art. 95 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380) è irrilevante che
le costruzioni
realizzate siano effettivamente pericolose, in quanto la
normativa è finalizzata a
garantire l'esercizio del controllo preventivo della P.A.
sulle attività edificatorie in
dette zone).
4.12. Dunque, l'argomento della verifica postuma della
assenza di
pericolosità sismica dell'intervento edilizio (e dunque
della sua sostanziale non abusività, come sostengono i
ricorrenti), non è tale da sminuire la rilevanza
decisiva della dimensione dell'intervento che esclude in
radice, nel caso di
specie, la natura esigua del pericolo e la possibilità di
applicare la causa di non
punibilità per particolare tenuità del fatto (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
30.10.2018 n. 49679). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Ritorno
al tempo pieno su richiesta dopo due anni dall’inizio del part-time.
Il Comune non può dire di no alla dipendente che, trascorso il biennio in
part time, chieda di tornare al tempo pieno. Sono le stesse disposizioni del
contratto collettivo a stabilire, infatti, che «i dipendenti...hanno diritto
di ottenere il ritorno al tempo pieno alla scadenza di un biennio dalla
trasformazione, nonché alle successive scadenze previste dai contratti
collettivi. La trasformazione del rapporto a tempo pieno avviene anche in
sovrannumero, riassorbibile con le successive vacanze».
La Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la
ordinanza 29.10.2018 n. 27389 ha
confermato così la decisione di secondo grado.
La vicenda
Il caso riguarda una dipendente giunta di un Comune per comando da un altro
ente dove era stata assunta a tempo pieno nel 1995; il comando si era
trasformato in definitivo trasferimento nel 2000; la dipendente aveva
chiesto di essere impiegata a tempo parziale, prima al 50% e in seguito al
66% e, in base al contratto collettivo applicabile aveva maturato il
diritto, trascorsi due anni dal passaggio al part-time, a ritornare al
regime orario a tempo pieno.
La decisione
La Cassazione ha stabilito che il passaggio al tempo pieno avrebbe potuto
essere inibito soltanto nei primi due anni dalla trasformazione a tempo
parziale, stante l'esigenza di assicurare un minimo di stabilità all'assetto
concordato dalle parti. Ma, oltre questo termine, il ritorno al full time è
ammesso in qualunque momento, purché rapportato alle esigenze organizzative
del Comune e un rifiuto da parte dell'ente è irragionevole e illegittimo.
La Corte ha aggiunto, poi, che condizioni limitative avrebbero potuto essere
trovare fondamento in caso di contratti nati in regime a tempo parziale, per
i quali un passaggio al regime di tempo pieno sarebbe equivalso a una nuova
assunzione, soggetta a tutti i vincoli posti dalle leggi di bilancio
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 30.10.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La
mancata azione disciplinare dell’Ente non legittima la condotta inadempiente
del dipendente.
Nel pubblico impiego il datore di lavoro è tenuto a esercitare l'azione
disciplinare nei confronti del dipendente che rifiuti di adempiere la
propria prestazione lavorativa. A ogni modo, il mancato esercizio di questo
potere non rende legittimo il comportamento dello stesso dipendente.
Ad
affermarlo è la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, nella
sentenza
29.10.2018 n. 27387 in
relazione a una intricata vicenda che ha dato luogo a un potenziale demansionamento.
La vicenda
Al centro della controversia ci sono i rapporti conflittuali tra il Comune
di Verona e una dipendente che rivestiva la qualifica di coordinatrice del
settore musicale di tutte le scuole materne del Comune. L'insegnante, che
aveva alle spalle quasi trenta anni di esperienza nel settore, si lamentava
del fatto che, a seguito di alcune incomprensioni con diversi colleghi, era
stata messa ai margini dalla dirigenza dell'ente locale, fino al completo
inutilizzo della sua professionalità e addirittura relegata in una «stanza
senza telefono né collegamento col mondo esterno».
Il Comune, dal canto suo, sosteneva che vi era sì stata una limitazione
temporanea dell'attività lavorativa dell'insegnante, ma ciò era la
conseguenza del tentativo da parte dell'ente datore di lavoro di porre fine
a situazioni di conflittualità tra i dipendenti, e soprattutto conseguenza
del rifiuto da parte della stessa lavoratrice di svolgere le funzioni che le
venivano via via assegnate.
La questione era finita così nelle aule di giustizia dove i giudici
ritenevano che il comportamento non rispettoso della volontà dell'ente da
parte della dipendente, ovvero l'inadempimento della prestazione lavorativa,
non fosse imputabile alla donna, in quanto il Comune avrebbe dovuto, per
renderlo tale, intervenire sul piano disciplinare; circostanza invece non
verificatasi.
Su questo presupposto, la Corte d'appello ha riconosciuto per
i diversi periodi contestati un demansionamento, prima parziale e poi
totale, dell'insegnante, con obbligo per il Comune di corrispondere in suo
favore una somma pari rispettivamente al 30 e 50 per cento della
retribuzione percepita, a ristoro della «perdita di alcuni tratti
qualificanti della professionalità» della dipendente medesima.
La decisione
Il Comune a questo punto ricorre in Cassazione sottolineando l'erroneità
della tesi dei giudici di merito che sottolineavano il mancato esercizio dei
poteri disciplinari dell'ente nei confronti della lavoratrice. Per la difesa
del Comune, infatti, il mancato esercizio del potere disciplinare «non
trasforma in legittime le condotte tenute dal dipendente in violazione dei
suoi obblighi di lavoro». L’argomento coglie nel segno e porta i giudici di
legittimità ad annullare con rinvio la decisione.
Per la Suprema corte il ragionamento dei giudici di merito è fallace: il
mancato esercizio del potere disciplinare da parte dell'ente datore di
lavoro non può rendere legittimo l'eventuale comportamento inadempiente del
lavoratore. L'esistenza di condotte datoriali ritenute illegittime non
autorizza cioè il lavoratore a «rifiutarsi aprioristicamente, e senza un
eventuale avallo giudiziario» di eseguire la prestazione lavorativa
richiesta. L'insegnante avrebbe dovuto, invece, invocare l'eccezione di
inadempimento secondo l’articolo 1460 del codice civile.
Nel caso di specie, questo aspetto della vicenda non è stato adeguatamente
considerato, dovendo la Corte d'appello quindi nuovamente esprimersi sul
punto, oltre a riconsiderare, ai fini di una corretta applicazione delle
regole sulla dequalificazione professionale, gli elementi di fatto relativi
alla «qualità e quantità delle esperienza lavorativa pregressa, al tipo di
professionalità colpita, alla durata del demansionamento» e a tutti gli
altri aspetti concreti della vicenda
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 30.10.2018). |
PUBBLICO IMPIEGO: Niente
extra al dirigente per attività collegate ai compiti istituzionali.
Per il dirigente pubblico che espleta un’attività rientrante nel contesto
dei compiti istituzionali, in quanto connessa in maniera più o meno diretta
al rapporto organico tra il dirigente medesimo e l’amministrazione della
quale lo stesso cura l'interesse, è vietata la percezione di un eventuale
compenso aggiuntivo rispetto alla retribuzione ordinaria.
Così ha affermato
il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza
29.10.2018 n. 6142.
I fatti di causa
Un Avvocato, dirigente presso il Comune, chiedeva l’accertamento del suo
diritto a percepire indennità dirigenziali arretrate relative all’espletato
ulteriore incarico dirigenziale di Dirigente del servizio Polizia
Amministrativa e Divisione Affari generali e Vice-Segretario generale,
conferito con provvedimento del Commissario Straordinario del Comune.
In virtù di tale ulteriore incarico dirigenziale, l’indennità doveva, a suo
dire, essere incrementata nella misura prevista del 62% del massimo, come
previsto dalle disposizioni comunali.
L’onnicomprensività della retribuzione
Per i pubblici dipendenti vale il principio di onnicomprensività della
retribuzione, di cui all’articolo 24, Dlgs 165/2001, in ragione del quale
non è dato remunerare il dipendente con compensi extra ordinem per compiti
rientranti nelle mansioni ricoperte.
Il principio opera sul duplice presupposto che il soggetto incaricato di
tali compiti esplichi funzioni istituzionali e che il conseguente esercizio
trovi riscontro nella carica ricoperta, sia quanto alla qualifica (o al
grado), sia quanto all'ufficio, cui il soggetto è preposto.
Del resto, il principio di onnicomprensività, concernente tutti gli
incarichi conferiti ai dirigenti pubblici per ragione dell'ufficio o su
designazione dell'amministrazione di appartenenza, trattandosi di attività
comunque connesse al rapporto organico tra dipendente ed amministrazione, il
cui svolgimento può riflettersi direttamente sul raggiungimento degli
obiettivi assegnati al medesimo dirigente, non esclude che i dipendenti
possano espletare incarichi retribuiti a titolo professionale
dall'amministrazione, ove ne ricorrano i presupposti legali e sempre che non
costituiscano espletamento di compiti di istituto.
Tali principi prevalgono su ogni altra disposizione che preveda, al
contrario, la corresponsione di compensi di qualsivoglia natura in ragione
della partecipazione a commissioni o incarichi di qualunque tipo.
Invero, la norma è cogente a tal punto che, anche in relazione alle
prestazioni rese dal personale non dirigenziale, la prestazione stessa può
essere considerata aggiuntiva solo qualora la mansione assegnata esuli dal
profilo professionale, non già nella diversa ipotesi in cui il datore di
lavoro, nell'ambito del normale orario, eserciti il suo potere di
determinare il compito da espletare.
La responsabilità per violazione dell’articolo 24 del Dlgs
165/2001
Per i dirigenti pubblici che incassano compensi in violazione del principio
di onnicomprensività sussiste un’evidente responsabilità amministrativa: la
presenza di disposizioni legislative che ammettono l’erogazione di tali
compensi non azzera la responsabilità degli stessi dirigenti, dato che le
uniche eccezioni sono quelle previste dai contratti collettivi nazionali di
lavoro.
La ratio restrittiva della norma è di immediata percezione, ed altrettanto
chiara si presenta la valenza interpretativo/applicativa della stessa,
rispetto ad altre disposizioni previgenti o successive che rechino
indicazioni con essa contrastanti: queste ultime devono essere lette o
rilette in modo conforme al nuovo canone posto.
In effetti, l’impegno del dirigente pubblico è un impegno di carattere
esclusivo, nell’espletamento del quale lo stesso deve prestare tutta la sua
opera.
Da queste considerazioni scaturisce pertanto il principio di
onnicomprensività della retribuzione, con ciò intendendo che il trattamento
economico, nelle sue componenti "fondamentali" ed "accessorie",
remunera tutte le funzioni ed i compiti dei dirigenti
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 21.11.2018).
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MASSIMA
Vale ricordare che, per consolidata giurisprudenza dalla quale non v’è
motivo di discostarsi, per i pubblici dipendenti vale il
principio di onnicomprensività della retribuzione: in ragione del quale non
è dato remunerare il dipendente con compensi extra ordinem per
compiti rientranti nelle mansioni ricoperte.
Il principio opera sul duplice presupposto (che qui ricorre) che il soggetto
incaricato di tali compiti esplichi funzioni istituzionali e che il
conseguente esercizio trovi riscontro nella carica ricoperta, sia quanto
alla qualifica (o al grado), sia quanto all'ufficio, cui il soggetto è
preposto (Cons. Stato, IV,
06.09.1993, n. 769V, 09.09.2009, n. 1027).
Del resto, è stato anche sottolineato che il principio di
onnicomprensività, concernente tutti gli incarichi conferiti ai dirigenti
pubblici per ragione dell'ufficio o su designazione dell'amministrazione di
appartenenza, trattandosi di attività comunque connesse al rapporto organico
tra dipendente ed amministrazione, il cui svolgimento può riflettersi
direttamente sul raggiungimento degli obiettivi assegnati al medesimo
dirigente (Cons. Stato, Comm. spec.,
04.05.2005, n. 173), non esclude che i dipendenti possano
espletare incarichi retribuiti a titolo professionale dall'amministrazione,
ove ne ricorrano i presupposti legali e sempre che non costituiscano
espletamento di compiti di istituto
(Cons. Stato, V, 21.03.2011 n. 1733; id., 02.10.2002, n. 5163). |
URBANISTICA:
Quando in un campeggio si configura il reato di
lottizzazione abusiva.
La Corte si pronuncia, in sede cautelare, su un caso
verificatosi nella Regione Marche.
Il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale
di Fermo aveva ordinato il sequestro preventivo di un'area,
con manufatti ed opere, in cui, secondo l'ipotesi di accusa,
sarebbe stata realizzata una lottizzazione illecita
riconducibile al reato di cui all'art. 44, comma 1, lett.
c), del D.P.R. 06.06.2001 n. 380.
Il sequestrato proponeva ricorso al Tribunale del riesame
che, escludendo il fumus del reato ipotizzato, ha accolto la
richiesta. Avverso detta ordinanza ha proposto ricorso per
cassazione il Procuratore della Repubblica deducendo, ai
sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b), Codice procedura
penale la violazione dell'art. 3, comma 1, lett. e.5), del
medesimo TE sto Unico n. 380 del 2001, sul rilievo che le
opere oggetto di provvisoria contestazione –vale a dire
dieci piazzole con basamento in legno e sovrastrutture non
amovibili denominate "tende di lusso", vialetti percorribili
con autovetture e piazzole di parcheggio– non potevano
ritenersi dirette a soddisfare esigenze meramente temporanee
e non erano mai state autorizzate sotto il profilo
urbanistico ed edilizio e tanto meno paesaggistico, essendo
peraltro state realizzate in violazione della disciplina
regionale di settore (in particolare dell'art. 11 L.reg.
Marche n. 9 del 2006).
Dette opere –la cui realizzazione
aveva comportato la necessità di effettuare significativi
lavori di sbancamento sul pendio del versante– avevano
determinato una stabile e permanente alterazione
dell'assetto del territorio trasformando un’area a
destinazione agricola in un insediamento residenziale.
La Suprema Corte, Sez. III penale, con
sentenza 25.10.2018 n. 48845, ha dichiarato il
ricorso inammissibile, in parte perché proposto per motivi
non consentiti ed in parte perché generico.
In particolare la doglianza relativa alla ritenuta
precarietà delle strutture, è stata qualificata come critica
alla logicità della motivazione, inammissibile nei
procedimenti cautelari reali in forza dell'art. 325 Cod.
proc. pen., che in tali casi limita il ricorso per
cassazione soltanto alla violazione di legge, sicché è
deducibile soltanto l'inesistenza o la mera apparenza della
motivazione, ma non anche la sua illogicità manifesta, ai
sensi dell'art. 606, comma primo, lett. e), Codice proceduta
penale. Il giudice di legittimità, infatti, non può
procedere, in fattispecie come quella qui dedotta, ad un
penetrante vaglio sulla motivazione del provvedimento
impugnato.
In ogni caso, l'art. 3, comma 1, lett. e.5), del D.P.R.
380/2001 esclude che possano ritenersi nuove costruzioni le
strutture leggere ivi indicate che siano “dirette a
soddisfare esigenze meramente temporanee” o -e la
congiunzione rivela come si tratti di ipotesi tra loro
alternative– “siano ricompresi in strutture ricettive
all'aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti,
previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico,
edilizio e, ove previsto, paesaggistico, in conformità alle
normative regionali di settore”.
Secondo i giudici di Piazza Cavour, l'ordinanza impugnata –oltre ad argomentare sulla natura precaria dei manufatti
(con motivazione la cui logicità non può essere sindacata in
sede di legittimità)– richiama il fatto che la società
dell'imputato, esercente attività di agriturismo, era stata
autorizzata con s.c.i.a. del 2014 all'installazione delle
piazzole e con s.c.i.a. del 2016 all'installazione delle
tende e ciò, come argomentato dal tribunale, in base alla
leg. Reg. n. 21 del 2011, secondo cui rientrano tra le
attività agrituristiche, oltre alla fornitura di alloggi in
appositi locali dell'azienda, anche l'ospitalità in spazi
aperti opportunamente attrezzati per la sosta. Tale
argomentazione -di per sé sufficiente a sorreggere la
decisione- non viene fatta oggetto di alcuna censura nel
ricorso ed è indubbiamente esatta.
Con la predetta legge -rubricata “Disposizioni regionali in
materia di multifunzionalità dell'azienda agricola e
diversificazione in agricoltura”- il legislatore regionale,
disciplinando all'art. 3 le attività agrituristiche, ha
espressamente previsto che vi rientrino, tra l'altro,
“l'ospitalità in spazi aperti opportunamente attrezzati per
la sosta” (art. 3, comma 2, lett. b, L.reg. n. 21 del
2011), prevedendo poi che la capacità ricettiva non possa
essere superiore a “venticinque piazzole per la sosta in
spazi aperti di cui all'art. 3, comma 2, lettera b), purché
l'azienda agricola abbia una superficie agricola
utilizzabile di almeno 3 ettari. Per questa tipologia di
ospitalità non è consentito l'utilizzo di unità abitative
fisse; possono essere installate, comunque, strutture
amovibili, anche di proprietà dell'imprenditore agricolo,
come case mobili, autocaravan, camper e simili a condizione
che siano di facile rimozione” (art. 5, comma 1, lett. b,
legge citata).
Del resto, quanto all'ipotizzato reato di lottizzazione
abusiva, la Corte ha osservato che certo esso non si risolve
nella mera realizzazione di strutture prive del (ritenuto
necessario) permesso di costruire. La chiara e costante
giurisprudenza di legittimità sul punto, invero, è nel senso
che, anche a seguito della L. 28.12.2015 n. 221, la
stabile collocazione, in un'area destinata a campeggio, di
più manufatti di pernottamento, astrattamente mobili, può
risolversi nella realizzazione, ad opera del gestore
dell'area, di uno stabile insediamento abitativo, che
comporta il sostanziale stravolgimento dell'originario
assetto definito mediante pianificazione, e, dunque, una
forma di lottizzazione abusiva ma soltanto se la struttura
ricettiva presenti le caratteristiche di uno stabile
insediamento residenziale.
Il reato di lottizzazione abusiva può, cioè, essere
integrato anche dalla realizzazione di un campeggio, pur se
autorizzato, qualora l'area destinata ad esso venga
radicalmente mutata per la presenza di opere stabili,
strutture abitative e servizi in grado di snaturarne le
caratteristiche originarie con rilevante impatto negativo
sull'assetto territoriale.
Nel caso di specie il ricorrente non ha affatto allegato
come le dieci piazzole sormontate da tende oggetto di
contestazione -che il provvedimento impugnato riferisce
essere state prese a noleggio e, al momento del sopralluogo
della Polizia giudiziaria, essere state trovate chiuse,
inutilizzate e con forniture elettriche e idriche
disattivate, sì da escludere uno stabile insediament -
possano integrare gli estremi dell'elemento costitutivo del
reato di lottizzazione abusiva, per la cui sussistenza,
diversamente dal mero abuso edilizio, è necessaria una
illegittima trasformazione urbanistica od edilizia del
territorio, di consistenza tale da incidere in modo
rilevante sull'assetto urbanistico della zona
(commento tratto da www.ilquotidianodellapa.it).
---------------
MASSIMA
4.2. In ogni caso, l'art. 3, comma 1, lett. e.5), d.P.R.
380/2001 esclude che possano ritenersi nuove costruzioni le
strutture leggere ivi indicate che siano «dirette a
soddisfare esigenze meramente temporanee» o -e la
congiunzione rivela come si tratti di ipotesi tra loro
alternative- «siano ricompresi in strutture ricettive
all'aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti,
previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico,
edilizio e, ove previsto, paesaggistico, in conformità alle
normative regionali di settore».
A quest'ultimo proposito è del tutto generica l'allegazione
secondo cui nella specie sussisterebbe contrasto con la
normativa regionale e in particolare con l'art. 11 del Testo
unico delle norme regionali in materia di turismo (l.reg.
11.07.2006, n. 9) che, rubricato "Strutture ricettive
all'aria aperta", disciplina i villaggi turistici e i
campeggi. Se, poi, il rilievo sottintendesse che gli
agriturismi, in quanto non menzionati da tale disposizione,
non possano essere qualificate come strutture ricettiva
all'aria aperta con conseguente inapplicabilità dell'art. 3,
comma 1, lett. e.5), d.P.R. 380 del 2001, esso sarebbe
manifestamente infondato.
Ed invero, l'ordinanza impugnata -oltre ad argomentare sulla
natura precaria dei manufatti (con motivazione la cui
logicità non può essere qui sindacata)- richiama il fatto
che la società dell'imputato, esercente attività di
agriturismo, era stata autorizzata con s.c.i.a. del 2014
all'installazione delle piazzole e con s.c.i.a. del 2016
all'installazione delle tende e ciò, argomenta il tribunale,
in base alla leg. Reg. n. 21 del 2011, secondo cui rientrano
tra le attività agrituristiche, oltre alla fornitura di
alloggio in appositi locali dell'azienda, anche l'ospitalità
in spazi aperti opportunamente attrezzati per la sosta.
Tale argomentazione -di per sé sufficiente a sorreggere la
decisione- non viene fatta oggetto di alcuna censura nel
ricorso ed è indubbiamente esatta.
Con la predetta legge -rubricata Disposizioni regionali in
materia di multifunzionalità dell'azienda agricola e
diversificazione in agricoltura- il legislatore regionale,
disciplinando all'art. 3 le attività agrituristiche, ha
espressamente previsto che vi rientrino, tra l'altro, «l'ospitalità
in spazi aperti opportunamente attrezzati per la sosta»
(art. 3, comma 2, lett. b, l.reg. 21/2011), prevedendo poi
che la capacità ricettiva non possa essere superiore a «venticinque
piazzole per la sosta in spazi aperti di cui all'articolo 3,
comma 2, lettera b), purché l'azienda agricola abbia una
superficie agricola utilizzabile di almeno 3 ettari. Per
questa tipologia di ospitalità non è consentito l'utilizzo
di unità abitative fisse; possono essere installate,
comunque, strutture amovibili, anche di proprietà
dell'imprenditore agricolo, come case mobili, autocaravan,
camper e simili a condizione che siano di facile rimozione»
(art. 5, comma 1, lett. b, l.reg. 21/2011).
4.3. Sotto altro profilo, è da rilevarsi che il ricorrente
non si sofferma adeguatamente sul fumus
dell'ipotizzato reato di lottizzazione abusiva, che certo
non si risolve nella mera realizzazione di strutture prive
del (ritenuto necessario) permesso di costruire.
La chiara e costante giurisprudenza di questa Corte sul
punto, invero, è bensì nel senso che, anche
a seguito della legge 28.12.2015, n. 221, la stabile
collocazione, in un'area destinata a campeggio, di più
manufatti di pernottamento, astrattamente mobili, può
risolversi nella realizzazione, ad opera del gestore
dell'area, di uno stabile insediamento abitativo, che
comporta il sostanziale stravolgimento dell'originario
assetto definito mediante pianificazione, e, dunque, una
forma di lottizzazione abusiva
(Sez. 4, n. 13496 del 15/02/2017, Chiesa, Rv. 269399),
ma soltanto se la struttura ricettiva presenti le
caratteristiche di uno stabile insediamento residenziale
(Sez. 3, n. 41479 del 24/09/2013, Valle, Rv. 257734, che ha
ritenuto penalmente rilevante la realizzazione di 270
piazzole delimitate da recinzioni, pavimentazioni ed altre
opere permanenti in grado di formare con le roulottes
singole unità abitative).
Il reato di lottizzazione abusiva può cioè
essere integrato anche dalla realizzazione di un campeggio,
pur se autorizzato, qualora l'area destinata ad esso venga
radicalmente mutata per la presenza di opere stabili,
strutture abitative e servizi in grado di snaturarne le
caratteristiche originarie
(Sez. 3, n. 29731 del 04/06/2013, Soldera e a., Rv. 256824)
con rilevante impatto negativo sull'assetto
territoriale (Sez.
F, n. 31921 del 24/07/2012, Spaccialbelli, Rv. 253420,
relativa a fattispecie concernente la realizzazione di
novanta piazzole di sosta e quarantatre strutture abitative
in ferro e plastica ancorate stabilmente al terreno e
servite da rete idrica). |
CONSIGLIERI
COMUNALI - ENTI LOCALI: Da
annullare la delibera di approvazione del bilancio di previsione se manca il
piano degli indicatori
Il «Piano degli indicatori e dei risultati attesi di bilancio», non allegato
al bilancio di previsione, travolge la deliberazione consiliare di
approvazione in quanto adottata in violazione delle norme imperative e in
particolare dell'articolo 18-bis del Dlgs 118/2011.
Sono queste le
conclusioni del TAR Campania-Napoli, Sez. I, che, con la
sentenza
21.10.2018 n. 6128, ha
annullato la delibera del consiglio comunale che aveva approvato il bilancio
e i suoi allegati nonostante l'assenza del documento obbligatorio del piano
degli indicatori.
I motivi di impugnazione
Alcuni consiglieri di minoranza hanno impugnato la delibera del consiglio
comunale di approvazione del bilancio di previsione e di tutti gli allegati
in quanto priva di un allegato fondamentale quale il «Piano degli indicatori
e dei risultati attesi di bilancio» prescritto come documento obbligatorio
dalla normativa.
In particolare i consiglieri hanno lamentato di non aver
potuto prendere visione del piano in questione almeno 10 giorni prima della
data stabilita per l'approvazione del bilancio, a nulla rilevando il parere
di regolarità tecnica e contabile rilasciato dal responsabile finanziario e
del parere positivo espresso dal revisore dei conti.
I consiglieri, infine,
hanno sottolineato che, nonostante le loro rimostranze sulla mancanza del
documento fondamentale previsto dalla normativa, il consiglio comunale ha in
ogni caso approvato il bilancio di previsione.
L'accoglimento del ricorso
Il Tar ha giudicato fondate le motivazioni dei ricorrenti in considerazione
della violazione dei principi della contabilità armonizzata. In particolare
è stato evidenziato che l'articolo 18-bis del Dlgs 118/2011 impone agli enti
locali di allegare il piano degli indicatori e dei risultati attesi di
bilancio al bilancio di previsione e al bilancio consuntivo.
In misura non
dissimile le disposizioni sono contenute nel decreto del ministero
dell'Interno 22.12.2015, il quale ha fornito gli schemi unitari per la
redazione del piano, precisando come a partire dall'esercizio 2016, gli enti
locali e i loro enti e organismi strumentali allegano il piano al bilancio
di previsione e al bilancio consuntivo.
Rilevano, quindi, i giudici amministrativi che se il piano deve essere
allegato al bilancio di previsione e al bilancio consuntivo, ne deve seguire
tutto l'iter, dal deposito del progetto sino all'approvazione. D'altra parte
lo stesso principio contabile della programmazione finanziaria stabilisce,
al punto 4.2., lettera d) dell'allegato 4/1 al Dlgs n. 118, come il piano
degli indicatori di bilancio, presentato al consiglio unitamente al bilancio
di previsione e al rendiconto, rappresenta uno strumento della
programmazione degli enti locali. Di conseguenza, la delibera (e solo essa)
di approvazione del bilancio deve essere annullata
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 29.10.2018).
---------------
MASSIMA
Con il primo motivo i consiglieri esponenti eccepiscono
l’illegittimità della delibera perché assunta senza aver prima consentito ai
votanti di prendere cognizione del DUP completo di tutti gli allegati tra
cui il ridetto Piano degli indicatori e dei risultati attesi di bilancio.
Il motivo, avente carattere assorbente, è fondato alla stregua delle
seguenti considerazioni.
L’art. 18-bis d.lgs. 23.06.2011, n. 118, stabilisce che gli enti locali
allegano il Piano degli indicatori e dei risultati attesi di bilancio al
bilancio di previsione e al bilancio consuntivo.
Il d.m. Interno 22.12.2015, emanato allo scopo di fornire gli schemi unitari
per la redazione del piano, specifica che, a partire dall’esercizio 2016 gli
enti locali ed i loro enti e organismi strumentali allegano il Piano al
bilancio di previsione e al bilancio consuntivo.
Tale disposizione dispone in particolare che: <<“…1. Gli enti locali
adottano il «Piano degli indicatori e dei risultati attesi di bilancio» di
cui all’art. 18-bis del decreto legislativo 23.06.2011, n. 118, secondo gli
schemi di cui all’allegato 1, con riferimento ai bilanci di previsione, e
secondo gli schemi di cui all’allegato 2, con riferimento al rendiconto
della gestione. (…) 3. Gli enti locali e i loro enti e organismi strumentali
allegano il Piano al bilancio di previsione e al bilancio consuntivo. 4. Il
Piano è pubblicato sul sito internet istituzionale dell’amministrazione
nella sezione «Trasparenza, valutazione e merito», accessibile dalla pagina
principale. 5. Gli enti locali ed i loro organismi ed enti strumentali
adottano il Piano a decorrere dall’esercizio 2016…>>.
Dunque, se il piano deve essere allegato al bilancio di
previsione e al bilancio consuntivo, ne deve seguire tutto l’iter, dal
deposito del progetto sino all’approvazione.
Peraltro il punto 4.2., lett. d) dell’allegato 4/1 al d.lgs. 23.06.2011, n.
118, reca il principio contabile secondo cui il Piano degli indicatori di
bilancio, presentato al Consiglio unitamente al bilancio di previsione e al
rendiconto, rappresenta uno strumento della programmazione degli Enti
locali.
Ne consegue che se il piano degli indicatori è uno
strumento per rendere comparabili, agli occhi della generalità dei
consociati, i bilanci degli Enti locali, mercé la sua pubblicazione sul sito
Internet istituzionale dell’Ente, a maggior ragione tale strumento deve
essere messo a disposizione dei consiglieri comunali, chiamati a dare o
negare approvazione al bilancio reso comparabile proprio dal piano degli
indicatori.
Pertanto, il Piano di cui si discute avrebbe dovuto essere depositato
insieme al progetto di bilancio preventivo.
Né, al contrario, può sostenersi che tale Piano debba essere allegato solo
dopo l’approvazione del bilancio cui è accessorio, allo scopo di tener conto
di eventuali emendamenti. Al contrario, gli emendamenti al bilancio
eventualmente approvati s riverbereranno anche in una modifica del Piano (cfr.
TAR Calabria, sez. I, 20.07.2017, n. 1156).
In mancanza, la delibera (e solo essa) di approvazione del
bilancio deve essere annullata. |
EDILIZIA PRIVATA:
S.c.i.a. e D.i.a. vanno controllate.
La Suprema Corte si pronuncia su un grave episodio di
mancato esercizio dei controlli, fonte di plurimi reati.
In occasione della "Sagra del pesce e del cinghiale",
organizzata dalla Pro Loco di un Comune piemontese, si
verificò l'esplosione di una bombola, posizionata nei pressi
della zona di cottura degli alimenti da somministrare nel
corso dell’evento, in seguito alla quale morirono cinque
persone ed altre sei rimasero ferite.
L'esplosione, secondo la tesi accusatoria, si verificò
perché la bombola esplosa (che doveva essere ritirata dalla
circolazione fin dal 2008) era in cattive condizioni d'uso,
al pari di altre presenti in loco, essendo stata più volte
riempita in modo abusivo, eccessivo e comunque non
controllato e presentando un difetto di laminazione (o
"cricca"); l'innesco dell'esplosione, che produsse uno
squarcio sulla bombola, fu dovuto a un aumento di pressione
del GPL contenuto nel contenitore, dovuto all'esposizione a
una fonte di calore di cui però non é stata accertata la
natura.
Il responsabile dell'abusivo riempimento delle bombole (fra
cui quella esplosa) é stato individuato dall'accusa nel
titolare di un distributore di benzina: il quale, secondo le
prove dichiarative raccolte e sulla base di attività di
osservazione a cura della Polizia giudiziaria, é stato
indicato come il soggetto presso il quale la Pro Loco si era
approvvigionata delle bombole da utilizzare per la
preparazione dei pasti, e che a tal fine effettuava la
ricarica delle bombole senza la prevista autorizzazione e
con modalità che finivano per danneggiare le bombole stesse.
Costui pertanto era chiamato a rispondere dei reati di
omicidio colposo plurimo e di lesioni colpose plurime: reati
in relazione ai quali egli é stato condannato sia in primo,
sia in secondo grado.
Ad un agente di polizia municipale, sulla base del percorso
argomentativo seguito dai giudici di merito, é stato invece
addebitato non già di avere omesso il controllo circa
l'adempimento delle prescrizioni impartite dall'ASL
relativamente al posizionamento delle bombole (prescrizioni
in realtà non riferite alla bombola che poi esplose), quanto
piuttosto di avere cooperato colposamente con gli altri
imputati in quanto, nella sua qualità di soggetto titolare
di funzioni istruttorie nelle pratiche di polizia
amministrativa (fra cui quella in esame, ai sensi dell'art.
10, comma 4, legge regionale Piemonte n. 38/2006), avrebbe
dovuto segnalare le anomalie presenti in loco -con riguardo,
in particolare, all'impiego di bombole in evidente stato di
deterioramento e, come tali, pericolose- al soggetto
titolare del potere deliberativo (relativo al rilascio della
prevista licenza temporanea).
Il fatto che, per la somministrazione temporanea di
alimenti, fosse prevista una D.I.A. (oggi S.C.I.A.)
differita, consentiva tuttavia al personale dell'ASL di
effettuare un sopralluogo di verifica, di comunicare le
eventuali difformità al Comune ed eventualmente di adottare
un provvedimento motivato di diniego inizio attività.
Oltre all'omessa segnalazione di cui sopra, al vigile si
imputava di avere falsificato la licenza temporanea di
pubblico esercizio: licenza che secondo l'accusa, in un
primo momento, era stata da lui predisposta senza
l'indicazione di alcuna prescrizione (con la firma apocrifa
del Comandante della polizia municipale); e che, in seguito
al sopralluogo dell'ASL (che aveva impartito disposizioni
sul posizionamento delle bombole) e subito dopo il
verificarsi dell'esplosione era stata da lui nuovamente
formata (anche stavolta con l'apparente firma del
Comandante, poi risultata falsa) sul suo computer d'ufficio,
con l'inserimento delle prescrizioni dell'ASL; ciò, sempre
secondo l'accusa, allo scopo di stornare da sé il sospetto
di non avere curato il rispetto delle prescrizioni suddette,
nell'erroneo convincimento che la mancata osservanza di tali
prescrizioni (che egli avrebbe dovuto verificare) fosse la
causa dell'evento.
Perciò, oltre che dei reati di omicidio e di lesioni colpose
plurime l’agente era chiamato a rispondere del delitto di
falso (art. 476 Cod. pen.); per tali capi d'imputazione egli
ha riportato condanna sia in primo grado che in appello.
Avverso la sentenza di appello hanno proposto ricorso
entrambi i condannati.
La Corte di Cassazione (IV Sez. penale) si è pronunciata con
sentenza 19.10.2018 n. 47794
dichiarando inammissibile il ricorso dell’imprenditore
perché manifestamente infondato.
La Corte di merito, secondo i Giudici di Piazza Cavour, ha
argomentato in modo ampio ed approfondito in ordine ai
numerosi riscontri alle dichiarazioni di un coimputato (il
quale fece esplicito riferimento alla circostanza che le
bombole vennero da lui procurate presso la stazione di
servizio dell’imprenditore, come sempre dal 2007), dalle
testimonianze escusse, ma anche e soprattutto dagli
accertamenti operati dalla Polizia giudiziaria e, in specie,
dalle attività di osservazione dalle quali emergeva che vi
era, presso la stazione di servizio del ricorrente, un
via-vai di persone che portavano bombole vuote e uscivano
con bombole piene: attività seguite da un sopralluogo dal
quale risultava non solo che egli era sprovvisto
dell'autorizzazione per effettuare le ricariche, ma anche
che presso il suo distributore erano stoccate ben 54
bombole, che presentavano segni di deterioramento analoghi a
quelli accertati sulle bombole fornite per la sagra.
Per quanto riguarda, invece, il ricorso proposto dall’Agente
della Polizia Locale la Corte, dopo aver considerato
inammissibili tutte le doglianze che hanno attaccato la
persuasività, l'inadeguatezza, la mancanza di rigore o di
puntualità, della sentenza di appello, è pervenuta a diversa
conclusione sull'unico motivo non affetto da
inammissibilità, ossia quello riguardante i delitti di
omicidio e lesioni colpose.
Per quest'ultimo il reato è risultato estinto per maturata
prescrizione, di tal che limitatamente a detto reato la
sentenza di appello è stata annullata senza rinvio.
Non così per ciò che concerne il delitto relativo ai plurimi
omicidi colposi per i quali risultava contestata in fatto
l'aggravante, ad effetto speciale, di cui all'art. 589,
comma 4, Cod. pen. (nel testo vigente all'epoca), la cui
pena massima edittale, alla luce del disposto dell'art. 157,
comma 2, Cod. pen., é tale da escludere che per detto reato
fosse intervenuta la prescrizione.
La tesi difensiva dell’agente non stata accolta dai giudici
di legittimità. Egli ha infatti sostenuto che la pratica
accesa dalla Pro loco come denuncia d'inizio attività
sarebbe stata in realtà già disciplinata come S.C.I.A.
(segnalazione certificata d'inizio attività) in base
all'art. 19 L. 241/1990 come modificato dal D.L. n. 78/2010
(e quindi non sarebbe stata necessaria alcuna
autorizzazione, né conseguentemente alcun intervento
dell'Autorità comunale).
Invero, va innanzitutto chiarito
che -diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, e come
invece correttamente osservato dalla Corte di merito- la
trasformazione dal D.I.A. in S.C.I.A. della pratica in esame
entra in vigore solo con l'art. 49, comma 4-bis della legge
n. 122 del 30.07.2010 (legge di conversione del D.L. n.
78/2010), ossia dopo i fatti di causa.
Ma anche a prescindere da ciò, e come ancora una volta
correttamente chiarito nella sentenza impugnata, l'argomento
speso dal ricorrente non é decisivo, perché la procedura di
denuncia (o di segnalazione certificata) d'inizio attività
ha in tutti i casi una finalità semplificatoria, ma non
esime dall'esercizio di controlli da parte dell'Autorità
amministrativa competente in ordine al contenuto.
Sotto altro profilo, il ricorrente non ha mancato di
ribadire quanto già lamentato in sede d'appello, ossia che
il dato testuale dell'imputazione (che sia in primo grado,
sia in appello é stato effettivamente interpretato con una
certa latitudine) fa riferimento non già a un generico
potere di vigilanza e di segnalazione delle violazioni di
cui alla legge regionale n. 38/2006, ma all'aver omesso il
controllo circa l'adempimento delle prescrizioni di cui al
verbale dell'ASL. Al riguardo i giudici di legittimità hanno
osservato che in effetti non é dato ravvisare, nel perimetro
tracciato dall'editto imputativo, alcun riferimento alla più
ampia contestazione di "cooperazione colposa" che i giudici
di merito hanno ritenuto di scorgere nel suddetto enunciato.
E si é visto -ed é la stessa sentenza impugnata a
riconoscerlo- che non può riferirsi al caso di specie
l'accusa mossa all’imputato di non avere controllato
l'osservanza delle prescrizioni dell'ASL (di cui al verbale
di sopralluogo menzionato), atteso che esse disponevano
unicamente lo spostamento di altre due bombole, diverse da
quella poi esplosa, dalla zona dei fuochi della cucina.
Perciò il ricorrente sostiene che l'accusa da cui egli
doveva difendersi riguardava una violazione oggettivamente
diversa, anzi eterogenea rispetto a quella che, secondo la
Corte di merito, fonderebbe la sua responsabilità.
Ma é innegabile, e la Corte di merito lo ha chiarisce, che
il vigile si sia potuto difendere in giudizio anche
dall'accusa poi ritenuta provata, ossia quella di avere
omesso di esercitare il suo potere di vigilanza sul rispetto
della normativa in materia igienico-sanitaria e di
prevenzione degli incendi.
A tale riguardo, si è ritenuto pertinente il richiamo alla
giurisprudenza apicale di legittimità secondo la quale
l'attribuzione all'esito del giudizio di appello, pur in
assenza di una richiesta del pubblico ministero, al fatto
contestato di una qualificazione giuridica diversa da quella
enunciata nell'imputazione non determina la violazione
dell'art. 521 Cod. proc. pen., neanche per effetto di una
lettura della disposizione alla luce dell'art. 111, secondo
comma, Cost., e dell'art. 6 della Convenzione EDU come
interpretato dalla Corte europea, qualora la nuova
definizione del reato fosse nota o comunque prevedibile per
l'imputato e non determini in concreto una lesione dei
diritti della difesa derivante dai profili di novità che da
quel mutamento scaturiscono.
Pertanto, rispetto alla pena inflitta al vigile in primo
grado (e confermata in appello), pari a due anni e due mesi
di reclusione, si è proceduto allo scorporo dell'aumento di
pena per il reato in questione. Ed a tanto ha provveduto
direttamente la Corte, ai sensi dell'art. 620, lett. L, Cod.
proc. pen., atteso che detto aumento era stato espressamente
determinato dal Tribunale di nella misura di tre mesi di
reclusione
(commento tratto da www.ilquotidianodellapa.it). |
APPALTI: No
all’accesso generalizzato dell’appaltatore che cerca informazioni per la
nuova gara.
L'accesso civico generalizzato, inteso come prerogativa per esercitare un
controllo sociale sull'attività amministrativa della pubblica
amministrazione e sulle modalità di spendita delle risorse pubbliche non può
essere invece utilizzato per «acquisire informazioni utili con riguardo
all'esecuzione del precedente appalto» finalizzate alla partecipazione al
nuovo appalto.
In questo senso si è espresso il TAR Marche con la
sentenza
18.10.2018 n. 677.
La questione
Il giudice marchigiano, come già avvenuto con la sentenza del Tar Emilia
Romagna, Parma, n. 197/2018, esclude che l'accesso civico generalizzato,
ovvero l'accesso ai dati/documenti comunque detenuti dalla pubblica
amministrazione relativa alla propria attività, possa esercitarsi anche nei
confronti degli atti dell'appalto, ivi compresi mandati di pagamento e
provvedimenti relativi all'esecuzione del contratto.
La sentenza aderisce all'orientamento restrittivo del giudice emiliano
evidenziando che la disciplina specifica del procedimento di accesso agli
atti della gara costituisce uno dei casi di esclusione dall'accesso civico
generalizzato in base all'articolo 5-bis, comma 3, del decreto legislativo
33/2013.
Per il comma citato, infatti, tra gli altri la fattispecie
dell'accesso generalizzato è esclusa nei casi in cui l'accesso risulti
«subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni,
modalità o limiti». E l'articolo 53 del codice dei contratti deve essere
considerata, appunto, disciplina specifica.
Le motivazioni dell'accesso civico generalizzato
Oltre alla conferma di quanto già evidenziato dal giudice emiliano, il
giudice marchigiano però puntualizza importanti considerazioni sulla
motivazione che comunque deve sorreggere l'istanza di accesso civico
generalizzato. Pur non essendo tenuto, il ricorrente nell'istanza ha
precisato che la richiesta di accesso agli atti era da intendersi come
finalizzata al reperimento di informazioni utili per la partecipazione ad
una nuova gara bandita dalla stessa stazione appaltante.
La legittimazione, secondo il ricorrente, doveva ritenersi fondata dal
«fatto di essere un operatore del settore, invitato fra l'altro alla nuova
gara indetta dallo stesso» Comune.
È proprio questa motivazione che secondo quanto si legge in sentenza non può
essere accettata in quanto diretta a “distorcere” le finalità dell'accesso
civico generalizzato.
Il giudice, infatti, ha rilevato che l'istanza del ricorrente è stata
proposta «in stretta correlazione con la nuova gara indetta dal Comune (…)»
risultando «finalizzata, non ad un controllo sul perseguimento di funzioni
istituzionali o sull'utilizzo di risorse pubbliche» che costituisce
l'autentica finalità di controllo sociale dell'accesso civico generalizzato.
In concreto, si è cercato di azionare la fattispecie per «acquisire
informazioni utili con riguardo all'esecuzione del precedente appalto (per
esempio, al fine di verificare se la ditta controinteressata -che quasi
certamente parteciperà alla nuova selezione- abbia commesso errori
professionali gravi, tali da determinarne l'esclusione dalla nuova
procedura)».
La richiesta, evidentemente, viene respinta e ricondotta all'ambito naturale
della legge 241/1990 la cui legittimazione –in questo caso imprescindibile-
e fondamento devono essere attentamente valutate dal Rup dell'appalto
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 14.11.2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
La consolidata giurisprudenza di questo Consiglio
è nel senso che:
- il vincolo cimiteriale determina una situazione di
inedificabilità ex lege e integra una limitazione legale
della proprietà a carattere assoluto, direttamente incidente
sul valore del bene e non suscettibile di deroghe di fatto,
tale da configurare in maniera obbiettiva e rispetto alla
totalità dei soggetti il regime di appartenenza di una
pluralità indifferenziata di immobili che si trovino in un
particolare rapporto di vicinanza o contiguità con i
suddetti beni pubblici;
- il vincolo ha carattere assoluto e non
consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, sia di
opere incompatibili con il vincolo medesimo, in
considerazione dei molteplici interessi pubblici che la
fascia di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di
natura igienico sanitaria, la salvaguardia della peculiare
sacralità che connota i luoghi destinati alla inumazione e
alla sepoltura, il mantenimento di un’area di possibile
espansione della cinta cimiteriale;
- il vincolo, d’indole conformativa, è sganciato dalle
esigenze immediate della pianificazione urbanistica, nel
senso che esso si impone di per sé, con efficacia diretta,
indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti
urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro
natura, ad incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti;
- la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è
suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e
comunque solo per considerazioni di interesse pubblico, in
presenza delle condizioni specificate nell'art. 338, quinto
comma;
- l’art. 338, quinto comma, non presidia interessi privati e
non può legittimare interventi edilizi futuri su un'area
indisponibile per ragioni di ordine igienico-sanitario,
nonché per la sacralità dei luoghi di sepoltura;
- il procedimento attivabile dai singoli proprietari
all’interno della zona di rispetto è soltanto quello
finalizzato agli interventi di cui al settimo comma
dell’art. 338, settimo comma (recupero o cambio di
destinazione d’uso di edificazioni preesistenti); mentre
resta attivabile nel solo interesse pubblico, come valutato
dal legislatore nell’elencazione, al quinto comma, delle
opere ammissibili ai fini della riduzione, la procedura di
riduzione della fascia inedificabile.
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1.‒ L’appello è infondato.
2.‒ Va innanzitutto considerato che l’ordine demolitorio
trova autonomo fondamento giuridico nella norma speciale che
prescrive il vincolo c.d. “cimiteriale”.
Come è noto, nel caso in cui il provvedimento impugnato si
fondi su una pluralità di ragioni autonome, il giudice,
qualora registri l’infondatezza delle censure indirizzate
verso uno dei motivi assunti a base dell’atto controverso,
idoneo, di per sé, a comprovarne la legittimità e a
sostenerne il dispositivo, ha la potestà di respingere il
ricorso sulla sola base di tale rilievo, con assorbimento
delle censure dedotte avverso altri capi del provvedimento,
in quanto la conservazione dell’atto implica la perdita di
interesse del ricorrente all’esame delle altre doglianze.
3.– L’art. 338 del regio-decreto 27.07.1934, n. 1265
(Approvazione del testo unico delle leggi sanitarie),
prevede che:
«I cimiteri devono essere collocati alla distanza di almeno
200 metri dal centro abitato. È vietato costruire intorno ai
cimiteri nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal
perimetro dell'impianto cimiteriale, quale risultante dagli
strumenti urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di
essi, comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed
eccezioni previste dalla legge.
Le disposizioni di cui al comma precedente non si applicano
ai cimiteri militari di guerra quando siano trascorsi 10
anni dal seppellimento dell'ultima salma.
Il contravventore è punito con la sanzione amministrativa
fino a lire 200.000 e deve inoltre, a sue spese, demolire
l'edificio o la parte di nuova costruzione, salvi i
provvedimenti di ufficio in caso di inadempienza.
Il consiglio comunale può approvare, previo parere
favorevole della competente azienda sanitaria locale, la
costruzione di nuovi cimiteri o l’ampliamento di quelli già
esistenti ad una distanza inferiore a 200 metri dal centro
abitato, purché non oltre il limite di 50 metri, quando
ricorrano, anche alternativamente, le seguenti condizioni:
a) risulti accertato dal medesimo consiglio comunale che,
per particolari condizioni locali, non sia possibile
provvedere altrimenti;
b) l’impianto cimiteriale sia separato dal centro urbano da
strade pubbliche almeno di livello comunale, sulla base
della classificazione prevista ai sensi della legislazione
vigente, o da fiumi, laghi o dislivelli naturali rilevanti,
ovvero da ponti o da impianti ferroviari.
Per dare esecuzione ad un’opera pubblica o all'attuazione di
un intervento urbanistico, purché non vi ostino ragioni
igienico-sanitarie, il consiglio comunale può consentire,
previo parere favorevole della competente azienda sanitaria
locale, la riduzione della zona di rispetto tenendo conto
degli elementi ambientali di pregio dell'area, autorizzando
l'ampliamento di edifici preesistenti o la costruzione di
nuovi edifici. La riduzione di cui al periodo precedente si
applica con identica procedura anche per la realizzazione di
parchi, giardini e annessi, parcheggi pubblici e privati,
attrezzature sportive, locali tecnici e serre.
Al fine dell’acquisizione del parere della competente
azienda sanitaria locale, previsto dal presente articolo,
decorsi inutilmente due mesi dalla richiesta, il parere si
ritiene espresso favorevolmente.
All’interno della zona di rispetto per gli edifici esistenti
sono consentiti interventi di recupero ovvero interventi
funzionali all’utilizzo dell’edificio stesso, tra cui
l’ampliamento nella percentuale massima del 10 per cento e i
cambi di destinazione d’uso, oltre a quelli previsti dalle
lettere a), b), c) e d) del primo comma dell’articolo 31
della legge 05.08.1978, n. 457» (comma quest’ultimo così
sostituito dall’articolo 28, comma 1, lettera b), della
legge 01.08.2002, n. 166).
3.1.– La consolidata giurisprudenza di questo Consiglio è
nel senso che:
- il vincolo cimiteriale determina una situazione di
inedificabilità ex lege e integra una limitazione legale
della proprietà a carattere assoluto, direttamente incidente
sul valore del bene e non suscettibile di deroghe di fatto,
tale da configurare in maniera obbiettiva e rispetto alla
totalità dei soggetti il regime di appartenenza di una
pluralità indifferenziata di immobili che si trovino in un
particolare rapporto di vicinanza o contiguità con i
suddetti beni pubblici;
- il vincolo ha carattere assoluto e non consente in alcun
modo l'allocazione sia di edifici, sia di opere
incompatibili con il vincolo medesimo, in considerazione dei
molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto
intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico
sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che
connota i luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura,
il mantenimento di un’area di possibile espansione della
cinta cimiteriale (Cons. Stato, sez. VI, 09.03.2016, n.
949);
- il vincolo, d’indole conformativa, è sganciato dalle
esigenze immediate della pianificazione urbanistica, nel
senso che esso si impone di per sé, con efficacia diretta,
indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti
urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro
natura, ad incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti (Cons.
Stato, sez. IV, 22.11.2013, n. 5544);
- la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è
suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e
comunque solo per considerazioni di interesse pubblico, in
presenza delle condizioni specificate nell'art. 338, quinto
comma;
- l’art. 338, quinto comma, non presidia interessi privati e
non può legittimare interventi edilizi futuri su un'area
indisponibile per ragioni di ordine igienico-sanitario,
nonché per la sacralità dei luoghi di sepoltura;
- il procedimento attivabile dai singoli proprietari
all’interno della zona di rispetto è soltanto quello
finalizzato agli interventi di cui al settimo comma
dell’art. 338, settimo comma (recupero o cambio di
destinazione d’uso di edificazioni preesistenti); mentre
resta attivabile nel solo interesse pubblico, come valutato
dal legislatore nell’elencazione, al quinto comma, delle
opere ammissibili ai fini della riduzione, la procedura di
riduzione della fascia inedificabile (cfr. da ultimo Cons.
Stato, sez. VI, 04.07.2014, n. 3410; sez. VI, 27.07.2015, n. 3667; ivi riferimenti ulteriori).
4.– Su questa premessa ricostruttiva, la doglianza del
ricorrente, secondo cui il limite della percentuale di
ampliamento (prescritta dall’ultimo comma dell’art. 338 del
t.u.l.s.) dovrebbe essere riferita all’intero edifico e non
già alla singola unità abitativa, non può essere accolta,
sia pure con le seguenti precisazioni rispetto a quanto
affermato dal giudice di prime cure.
La disposizione invocata ricollega il limite percentuale
della facoltà di ampliamento all’edificio nel suo complesso.
Tuttavia, per evitare facili elusioni della suddetta
prescrizione –segnatamente: in caso di proprietà divisa,
ove fosse consentito a ciascun proprietario di realizzare
sulla singola unità abitativa l’incremento percentuale
assoluto, si otterrebbe il risultato o di ammettere, in
relazione all’edificio, complessivamente considerato, un
ampliamento eccedente la percentuale ammessa, ovvero di
privare gli altri proprietari di analoga facoltà– deve
ritenersi che il singolo condomino sia legittimato a
chiedere l’ampliamento volumetrico nei soli limiti
percentuali calcolati in relazione alle dimensioni della
propria unità immobiliare.
Restano, tuttavia, salve le ipotesi (nessuna delle quali
ricorrenti nel caso in esame) in cui: l’istanza sia proposta
congiuntamente da tutti i proprietari, con progetto relativo
all’intero immobile; ovvero, il singolo condomino corredi la
propria istanza con un atto d’obbligo degli altri
comproprietari (si osserva che l’atto d’obbligo,
tradizionalmente qualificato in termini di servitù
obbligatoria, dovrebbe oggi integrare la fattispecie, ora
prevista dall’art. 2643, n. 2-bis, c.c., di contratto che
trasferisce o modifica i «diritti edificatori comunque
denominati, previsti da normative statali o regionali,
ovvero da strumenti di pianificazione territoriale»).
5.– Con altro motivo, l’appellante lamenta che
l’Amministrazione non avrebbe assolto l’onere di provare il
superamento del limite volumetrico percentuale.
Anche questa censura va respinta (Consiglio di Stato, Sez.
VI,
sentenza 15.10.2018 n. 5911 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTI: Chi
perde paga le spese di lite.
La prassi di compensarle può vanificare lo scopo di aver agito in giudizio.
La compensazione delle spese di lite potrebbe tradursi in una violazione del
diritto di difesa del contribuente: l’incidenza delle stesse, infatti
potrebbe vanificare lo scopo di aver agito in giudizio per evitare un
ingiusto pagamento.
Ad affermare questi principi è la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con
l’ordinanza 12.10.2018 n. 25594.
Un contribuente impugnava un avviso di mora per il quale non era stata
notificata la prodromica cartella di pagamento. Il giudice di primo grado
disponeva la compensazione delle spese e sul punto il contribuente proponeva
appello, lamentando un vizio di motivazione della sentenza.
Anche il collegio di seconde cure confermava la compensazione, precisando
però che data la natura e il valore della controversia, non c’era la
necessità di una esplicitazione delle ragioni giustificatrici, in quanto
comunque desumibili dal contenuto stesso della decisione.
Il contribuente ricorreva così in Cassazione.
La Suprema Corte ha rilevato che al momento della decisione vigeva
l’articolo 15 del Dlgs 546/1992 che rinviava all’articolo 92, Codice di
procedura civile, secondo il quale il potere discrezionale di disporre la
compensazione parziale o totale delle spese di lite era subordinato o alla
sussistenza della soccombenza reciproca o alla concorrenza di altri giusti
motivi esplicitati nella motivazione. Nella specie, il contenuto della
sentenza di appello non consentiva il controllo sulla congruità delle
ragioni.
La Cassazione ha precisato che soprattutto nelle liti di modesto valore,
l’incidenza delle spese potrebbe vanificare ciò che il ricorrente con la
propria impugnazione voleva evitare, ossia il pagamento di somme non dovute.
Secondo i giudici di legittimità, quindi, un’immotivata compensazione delle
spese, si sostanzia con un pregiudizio concreto dell’esercizio del diritto
di difesa costituzionalmente garantito (articolo 24, Costituzione).
La decisione è particolarmente importante, atteso che contrasta una prassi
ormai costante di molte commissioni tributarie. La Suprema Corte ha
chiaramente evidenziato che in caso di soccombenza integrale dell’Ufficio,
la compensazione delle spese di lite si traduce in una violazione della
legge costituzionale (il diritto di difesa) poiché, di fatto, esclude un
giusto ristoro al contribuente che è stato costretto ad adire in giudizio
per evitare un indebito pagamento di somme all’erario
(articolo Il Sole 24 Ore del 13.10.2018). |
TRIBUTI: Impianti
sottoterra, «sì» alla maggiorazione della TOSAP per le spese di manutenzione
stradale.
In caso di posizionamento di impianti nel sottosuolo da parte dei gestori
dei servizi a rete, il Comune può prevedere, oltre al pagamento della tassa
o del canone per l'occupazione di aree stradali, un contributo aggiuntivo
per coprire gli oneri per il ripristino del manto stradale che gravano sul
bilancio municipale.
Secondo quanto emerge dalla
sentenza
11.10.2018 n. 5862 del
Consiglio di Stato, Sez. V, in presenza di oneri di manutenzione derivanti
dall'occupazione temporanea del suolo e del sottosuolo, la possibilità di
adottare una maggiorazione è prevista espressamente dal comma 3
dell'articolo 63 del Dlgs 446/1999.
I fatti
La controversia è sorta in seguito alla deliberazione consiliare con cui un
Comune, dopo aver preso atto che i lavori di scavo per l'interramento di
linee elettriche a opera di un gestore di servizi a rete comportavano la
manomissione del manto stradale e, di conseguenza, la necessità di compiere
interventi periodici per risagomare le strade oggetto dell'intervento, ha
stabilito un contributo aggiuntivo al pagamento della Tosap per
l'occupazione temporanea delle aree stradali.
Il gestore ha contestato la delibera sostenendo che la possibilità di
imporre ai soggetti che chiedono di occupare aree e spazi pubblici un
contributo per eventuali oneri di manutenzione sarebbe consentita solo nel
caso in cui l'ente avesse deciso di sostituire la “tassa” di occupazione
prevista dal Dlgs 507/1993 con il “canone” disciplinato d all'articolo 63
del Dlgs 446/1997.
Gli oneri contestati avrebbero costituito una sostanziale
duplicazione degli obblighi tesi al ripristino del manto stradale e, al fine
di evitare una doppia imposizione fiscale, non avrebbero potuto comunque
essere cumulati con la Tosap o con la Cosap, ma al più portati in deduzione
di queste, come previsto sia dall'articolo 17, comma 63, della legge 127/1997
sia, in analogia, dall'ultima parte del comma 3 dell'articolo 63 del Dlgs
446/1997.
La decisione
Per dirimere la controversia il Collegio si rifà al principio consolidato,
elaborato in relazione al canone concessorio non ricognitorio disciplinato
dall'articolo 27, commi 7 e 8, del Dlgs 285/1992 (Nuovo codice della
strada), secondo cui è possibile per l'amministrazione comunale pretendere
un canone di concessione per l'uso o l'occupazione delle strade, anche
nell'ipotesi in cui per la stessa occupazione sia già corrisposta la Tosap o
la Cosap, laddove l’entrata patrimoniale sia fondata su una specifica
disposizione di legge.
Nella fattispecie il canone concessorio non ricognitorio non ha natura di
prestazione patrimoniale imposta ma di corrispettivo dovuto
all'amministrazione come controprestazione per l'uso particolare del suolo
pubblico.
Inoltre la base normativa su cui si fonda il canone è il comma 3
dell'articolo 63 del Dlgs 446/1997, nel quale viene espressamente prevista
la possibilità di adottare una maggiorazione di quanto già ordinariamente
dovuto a titolo di Tosap o Cosap, in presenza «di eventuali oneri di
manutenzione derivanti dall'occupazione del suolo e del sottosuolo».
La
maggiorazione non va portata in detrazione da quanto già corrisposto a
titolo di Cosap o Tosap, dal momento che è la stessa norma a qualificarla
espressamente come aggiuntiva a questi ultimi (in quanto giustificato da
maggiori oneri a carico dell'amministrazione per effetto dell'uso o
dell'occupazione del suolo pubblico). Secondo l'organo giudicante la
detrazione richiamata nella disposizione normativa si riferisce –per
coerenza logica– ad altri ipotetici canoni previsti da disposizioni di
legge, ovviamente diversi dalla maggiorazione prevista dall’articolo 63,
comma 3.
Il principio si fonda sulla considerazione della diversa natura del canone
di concessione rispetto alla tassa di occupazione di spazi e aree pubbliche.
Mentre il primo trova la sua giustificazione nella necessità per l'ente
pubblico di trarre un corrispettivo per l'uso esclusivo e per l'occupazione
dello spazio concessi a soggetti terzi, la tassa di occupazione di spazi e
aree pubbliche è istituto di diritto tributario, dovuta al verificarsi di
determinati presupposti.
La decisione dei giudici pare prescindere dal regime di imposizione
adottato, anche se il comma 3 dell'articolo 63 del Dlgs n. 446, nel
prevedere la maggiorazione, fa riferimento esclusivamente al canone e non
anche alla tassa per l'occupazione di spazi e aree pubbliche
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.10.2018). |
APPALTI: Il Mepa non esonera la stazione appaltante dall’indagine di mercato.
Non è esonerata dall'obbligo di esperire una indagine di mercato per
l'individuazione degli operatori economici da invitare a una successiva
procedura negoziata, la stazione appaltante tenuta a fare ricorso allo
strumento del mercato elettronico, in quanto la selezione deve essere sempre
non discriminatoria.
Così si è espresso il Consiglio di Stato, Sez. III, con la
sentenza
10.10.2018 n. 5833 riformulando il disposto del Tar Puglia sulla
legittimità di una procedura di gara gestita da un Ente beneficiario di un
finanziamento ministeriale, poi negato, per non avere rispettato gli
adempimenti prodromici alla corretta individuazione degli operatori
economici con cui negoziare.
Il caso
Nello specifico, la stazione appaltante ha indetto una procedura elettronica
tramite richiesta di offerta sul Mepa attingendo, a propria discrezione,
senza predeterminazione di specifici criteri, dall'elenco di fornitori
presenti e abilitati sulla piattaforma telematica.
I giudici di primo grado, partendo dall'assunto che il mercato elettronico
della pubblica amministrazione è informato a obiettivi di semplificazione e
celerità, in un'ottica di superamento di tutti i profili formali che
caratterizzano, viceversa, le procedure concorsuali tradizionali, hanno
ritenuto non necessaria l'indagine di mercato.
In questo modo, difatti, la procedura risulta essere articolata in due fasi,
con aggravamento del procedimento e in contrasto con la previsione stessa
del mercato elettronico quale sistema di scelta del contraente interamente
gestito per via telematica, ai sensi dell'articolo 36, comma 6, del codice
degli appalti.
La decisione
Palazzo Spada non ha condiviso questa interpretazione. Il ricorso al Meda
non esonera la stazione appaltante, alla luce del quadro normativo di
riferimento, dall'obbligo di esperire una indagine esplorativa per la
formazione di un elenco di fornitori o, almeno, di predeterminare i criteri
di selezione degli operatori economici, ai fini del rispetto dei principi
stabiliti d all'articolo 30 del Dlgs 50/2016.
L' utilizzo del mercato elettronico della pubblica amministrazione,
facoltativo o meno, non deve prestarsi a una lettura fuorviante che porti a
eludere i principi di imparzialità, trasparenza e par condicio alla base
delle procedure di gara. L'avviso pubblico è preordinato, difatti, a
conoscere i potenziali fornitori interessati alla procedura di selezione per
lo specifico affidamento e risponde, così, all'esigenza di garantire la
massima partecipazione e concorrenzialità.
In mancanza di questa apertura al mercato, o, per lo meno, in assenza di
criteri predeterminati per l'individuazione degli operatori economici, non
vi è garanzia di imparzialità dell'azione amministrativa, dato che la
stazione appaltante può discrezionalmente invitare alcuni soggetti piuttosto
che altri.
Anche le linee guida Anac n. 4 hanno precisato l'opportunità, per le stazioni
appaltanti, di dotarsi, nell'ambito della propria autonomia, di un
regolamento per definire i criteri di scelta dei soggetti da invitare siano
essi individuati a seguito di indagine di mercato, o attingendo da elenchi
propri, o da quelli del mercato elettronico.
Nella determina a contrarre, o altro atto equivalente dell'ente, si deve
dare conto, con formulazioni non generiche, delle regole predisposte per la
selezione, in modo non discriminatorio, dei soggetti da invitare, tenuto
conto che il ricorso al Mepa non presta il «fianco all'aggiramento dei
principi atti ad assicurare imparzialità, trasparenza e par condicio»
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 22.10.2018). |
APPALTI: La
gara troppo lenta non è illegittima.
Non può ritenersi automaticamente illegittima una gara di appalto per il
solo fatto che le operazioni si siano svolte in un lungo lasso di tempo.
Lo
sostiene il TAR Toscana, Sez. III, con la
sentenza
09.10.2018 n. 1272.
Il fattore tempo
Una cooperativa sociale ha presentato ricorso contro una azienda pubblica di
servizi alla persona per l'annullamento della determinazione di
aggiudicazione definitiva della procedura aperta per l'affidamento dei
servizi socio-assistenziali, sanitari e generali a favore di persone
anziane.
La procedura e stata contestata per il fatto che la verbalizzazione
delle sedute riservate sia avvenuta dopo un lungo lasso di tempo e che siano
stati violati i principi di concentrazione e continuità delle operazioni di
gara, iniziate il 31.07.2017 e terminate il 25 maggio dell'anno
successivo.
I giudici toscani non hanno accolto le censure argomentando che il
prolungarsi delle operazioni di gara per lungo tempo non rende di per sé
illegittima la procedura di gara, in quanto il principio di continuità e di
concentrazione delle operazioni non è di questa assolutezza e rigidità da
determinare sempre e comunque, laddove vulnerato, l'illegittimità degli atti
di gara, soprattutto quando la procedura, per la complessità delle
operazioni valutative e il numero dei partecipanti alla gara, si protragga
per numerose sedute.
Il giudizio
La ricorrente ha anche dedotto la violazione del disciplinare nella parte
che impone a ciascun commissario di gara l'attribuzione di un giudizio da
tradurre nel rispettivo coefficiente individuale, sostenendo che l'omessa
esplicitazione dei giudizi individuali di ciascun commissario rende
impossibile la ricostruzione dell'iter logico in base al quale è stato
attribuito il punteggio relativo all'offerta tecnica.
Il Tar Toscana non è dello stesso avviso, ha ritenuto che i commissari hanno
deciso all'unanimità di indicare una motivazione unica nella griglia di
attribuzione dei punteggi, con coefficiente e punteggio promananti da una
decisione unanime. Il calcolo della media dei coefficienti attribuiti da
ciascun commissario è invece previsto nel solo caso non vi sia unanimità,
quindi è legittima l'elaborazione di un giudizio collegiale riferito a
ciascun criterio di valutazione di ciascuna offerta tecnica
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 22.10.2018).
---------------
MASSIMA
4. Con ulteriore censura l’esponente lamenta la violazione dei principi
di concentrazione e continuità delle operazioni di gara (iniziate il
31.07.2017 e terminate il 25.05.2018).
Il rilievo non è condivisibile.
Il protrarsi delle operazioni di gara per lungo tempo non
rende di per sé illegittima la procedura di gara, in quanto il principio di
continuità e di concentrazione delle operazioni non è di tale assolutezza e
rigidità da determinare sempre e comunque, laddove vulnerato,
l'illegittimità degli atti di gara, soprattutto allorquando, come nel caso
di specie, la procedura, per la complessità delle operazioni valutative ed
il numero dei partecipanti alla gara, si protragga per numerose sedute
(Cons. Stato, III, 11.10.2016, n. 4199). |
APPALTI: La
pubblicazione sul sito degli atti di gara vale come pubblicità legale.
La pubblicazione sul profilo del committente e nella sezione
«Amministrazione trasparente» degli atti concernenti una procedura di gara è
idonea a determinarne la conoscenza legale, con ogni conseguenza anche
rispetto all'osservanza dei termini di impugnazione.
Lo afferma la III Sez. del Consiglio di Stato con la
sentenza
08.10.2018 n.
5766.
Il fatto
La vicenda ha per protagonista un operatore economico non invitato alla gara
per l'affidamento di un servizio che lamentava l'omessa attuazione degli
specifici oneri pubblicitari prescritti dall'articolo 32, comma 7, della
legge 69/2009, che mantiene la pubblicità sulla Gazzetta dell'Ue e in quella
italiana nonché nel sito informatico del Mit e dell'Osservatorio dei
contratti pubblici, e dall'articolo 3 del decreto del Mit 02.12.2016
che tratta della pubblicazione sui quotidiani.
La sola pubblicazione sul
profilo del committente e nella sezione «Amministrazione trasparente» non
sarebbe stata idonea a determinare la conoscenza legale dell'atto
pubblicato, con ogni conseguenza anche rispetto all'osservanza dei termini
di impugnazione. Sull'articolo 32, inoltre rileva, prevale l'articolo 120
del codice del processo amministrativo nella parte in cui disciplina i
termini di impugnazione degli atti delle procedure negoziate senza
pubblicazione di bando.
Il requisito della pubblicità
Il Tar Lazio ha giudicato il ricorso manifestamente irricevibile, ritenendo
che la pubblicità sull'albo pretorio on-line, in assenza di un obbligo di
notificazione individuale, soddisfa il requisito di pubblicità legale posto
dall'articolo 32, comma 1, della legge 69/2009. Tesi condivisa dai giudici di
Palazzo Spada, che respingono l'appello facendo leva proprio sull'articolo
32, secondo cui gli obblighi di pubblicazione aventi effetto di pubblicità
legale si intendono assolti con la pubblicazione nei siti informatici, non
più con la forma cartacea, salvo la possibilità per le amministrazioni di
effettuare quest'ultima in via integrativa a scopo di maggiore diffusione.
Le modalità di pubblicazione sono state definite dal Dpcm 26.04.2011,
che obbliga alla pubblicazione sul profilo del committente in una apposita
sezione dedicata, denominata «Bandi di gara», direttamente raggiungibile
dalla home page. Quindi questo tipo di pubblicità è finalizzato ad
assicurare presunzione di conoscenza degli atti pubblicati e a produrre gli
effetti giuridici cui è preordinata; esso comporta, di conseguenza, il
decorrere dei termini per la partecipazione alla gara ovvero per
l'impugnazione degli atti della procedura.
I termini di impugnazione
Nemmeno si può ritenere che la più recente versione dell'articolo 29 del
Dlgs 33/2017, nella parte in cui prevede la pubblicazione degli atti nella
sezione «Amministrazione trasparente» quale momento di decorrenza dei
«termini cui sono collegati gli effetti giuridici della pubblicazione»,
contraddica l'effetto di conoscenza legale già derivante dall'applicazione
dell'articolo 32 e del Dpcm.
Né vale il richiamo all'ultimo periodo del comma 2 dell'articolo 120 del
codice del processo amministrativo il quale, nel fissare un termine più
ampio entro il quale può essere contestato un affidamento di cui sia mancata
la pubblicità del bando, è destinato a operare in presenza di situazioni
caratterizzate dalla totale omissione delle regole di pubblicità,
riconducibili ad un affidamento diretto senza alcuna selezione comparativa.
Si tratta, dunque, di una disposizione di chiusura per i casi in cui sia
mancata una qualsivoglia forma di pubblicità della selezione
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 07.11.2018). |
ENTI LOCALI: Vietato
al revisore il terzo incarico nello stesso Comune anche con il nuovo sistema
di estrazione.
L'articolo 235, comma 1, del Tuel vieta al revisore dei conti la possibilità
di svolgere nello stesso Comune più di due incarichi, anche se il terzo
incarico sia stato ottenuto mediante il nuovo sistema di estrazione a sorte
dei candidati mentre gli altri due incarichi siano lontani nel tempo,
essendo la norma volta a garantire il ricambio dei soggetti in aderenza ai
principi di trasparenza e buon andamento, sanciti dall'articolo 97 della
Costituzione.
A questa conclusione è giunto il TAR Puglia-Bari, Sez. II, nella
sentenza
05.10.2018 n.
1273, a nulla rilevando le rimostranze del revisore estromesso circa il
superamento del vincolo a fronte della causale estrazione effettuata dalla
Prefettura e del decorso di un considerevole lasso di tempo rispetto ai
precedenti incarichi ricevuti.
La vicenda
Un revisore dei conti è stato sorteggiato dalla Prefettura ma in un Comune
nel quale lo stesso, nella sua vita lavorativa, aveva già svolto due altri
precedenti incarichi conferiti in via fiduciaria su nomina del consiglio
comunale.
Il dirigente comunale, tuttavia, tenuto conto del vincolo previsto
dall'articolo 235 del Tuel secondo cui «… i suoi componenti non possono
svolgere l'incarico per più di due volte nello stesso ente locale», ha
dapprima decretato e poi ribadito l'inconferibilità dell'incarico, ritenendo
sussistente una preclusione assoluta all'attribuzione di un terzo incarico.
Il revisore estromesso ha impugnato il provvedimento dirigenziale, adducendo
una diversa interpretazione del quadro normativo di riferimento, fondata
sulla valorizzazione dei principi costituzionali di proporzionalità e di
ragionevolezza, evidenziando un diverso orientamento giurisprudenziale che
vieta il terzo incarico esclusivamente qualora consecutivo. In particolare,
nel caso di specie, il divieto sarebbe inapplicabile, essendo trascorso un
arco temporale di 12 anni, tra i primi due mandati e il terzo essendo
inoltre l'ultimo incarico avvenuto mediante sorteggio.
Le indicazioni del collegio amministrativo
I giudici amministrativi pugliesi valorizzano il più recente orientamento
giurisprudenziale (tra i tanti Consiglio di Stato, sentenza n. 5796/2014)
secondo il quale la motivazione va ricercata nell'esigenza di favorire e
garantire il ricambio dei soggetti chiamati a svolgere le delicate funzioni
attribuite all'organo di revisione contabile, in aderenza ai principi di
trasparenza e buon andamento predicato dall'articolo 97 della Costituzione.
La precedenza giurisprudenza, invece, aveva sostenuto, con
un'interpretazione letterale restrittiva del comma 1 dell'articolo 235 del
Dlgs 267/2000, un'inammissibile e irrazionale forma di ineleggibilità a
carattere perpetuo che inciderebbe sulla stessa sfera lavorativa dei
soggetti interessati allo svolgimento dell'incarico, tanto più che la
limitazione riguarda soltanto gli incarichi svolti presso lo stesso ente.
In conclusione il collegio amministrativo conferma il nuovo orientamento
giurisprudenziale per cui i componenti dell'organo di revisione contabile
non possono svolgere l'incarico per più di due volte nello stesso ente
locale; ciò a salvaguardia di un principio di rotazione, certamente in grado
di contemperare tutte le esigenze in gioco
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 12.10.2018). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Costituisce principio consolidato in
giurisprudenza quello secondo cui, ai fini della
configurabilità dell'elemento psicologico del delitto di
rifiuto di atti d'ufficio, è necessario che il pubblico
ufficiale abbia consapevolezza del proprio contegno
omissivo, dovendo egli rappresentarsi e volere la
realizzazione di un evento contra ius, senza che il diniego
di adempimento trovi alcuna plausibile giustificazione alla
stregua delle norme che disciplinano il dovere di azione.
Vi è anche qualche decisione, la quale, muovendosi
nell'ambito di questo orientamento, ha espressamente
precisato che non è necessario il fine specifico di violare
i doveri imposti dal proprio ufficio.
---------------
Secondo l'orientamento assolutamente consolidato della
giurisprudenza, il reato di rifiuto di atti di ufficio è
configurabile anche in caso di inerzia omissiva che,
protraendo il compimento dell'atto oltre i termini
prescritti dalla legge, si risolve in un rifiuto implicito,
non essendo necessaria una manifestazione di volontà solenne
o formale.
E' poi principio generale ripetutannente ribadito quello in
forza del quale il reato di cui all'art. 328, primo comma,
cod. pen. è un reato istantaneo, il cui momento consumativo
si realizza con il rifiuto o con l'omissione.
Una di queste decisioni, in particolare, rileva che il reato
di rifiuto di atti di ufficio -anche nella formulazione
introdotta dall'art. 16 della l. 26.04.1990, n. 86- consiste
nel mancato adempimento di un'attività doverosa, per il
compimento della quale è fissato un termine unico finale e
non soltanto iniziale, essendo il soggetto obbligato
all'adempimento appena possibile, sicché la consumazione del
reato si verifica nel momento stesso in cui si è verificata
l'omissione o è stato opposto il rifiuto e, quindi, l'agente
è punibile per reato istantaneo senza che abbia nessun
rilievo l'ininterrotta protrazione dell'inattività
individuale, giacché la legge non riconosce alcuna efficacia
giuridica a detta persistenza e nemmeno all'eventuale
desistenza.
---------------
2. Infondate sono le censure esposte nel primo motivo
di ricorso, che contestano l'affermazione della sussistenza
dell'elemento soggettivo del reato.
Costituisce principio consolidato in giurisprudenza, e che
il Collegio condivide, quello secondo cui, ai fini della
configurabilità dell'elemento psicologico del delitto di
rifiuto di atti d'ufficio, è necessario che il pubblico
ufficiale abbia consapevolezza del proprio contegno
omissivo, dovendo egli rappresentarsi e volere la
realizzazione di un evento contra ius, senza che il
diniego di adempimento trovi alcuna plausibile
giustificazione alla stregua delle norme che disciplinano il
dovere di azione (cfr., tra le tante, Sez. 6, n. 36674 del
22/07/2015, Martin, Rv. 264668, e Sez. 6, n. 51149 del
09/04/2014, Scopelliti, Rv. 261415).
Vi è anche qualche decisione, la quale, muovendosi
nell'ambito di questo orientamento, ha espressamente
precisato che non è necessario il fine specifico di violare
i doveri imposti dal proprio ufficio (Sez. 6, n. 8996 del
11/02/2010, Notarpietro, Rv. 246410).
...
4.1. E' utile
premettere che, secondo l'orientamento assolutamente
consolidato della giurisprudenza, il reato di rifiuto di
atti di ufficio è configurabile anche in caso di inerzia
omissiva che, protraendo il compimento dell'atto oltre i
termini prescritti dalla legge, si risolve in un rifiuto
implicito, non essendo necessaria una manifestazione di
volontà solenne o formale (così, tra le tante, Sez. 6, n.
10051 del 20/11/2012, dep. 2013, Nolé, Rv. 255717).
E' poi principio generale ripetutannente ribadito quello in
forza del quale il reato di cui all'art. 328, primo comma,
cod. pen. è un reato istantaneo, il cui momento consumativo
si realizza con il rifiuto o con l'omissione (così,
specificamente: Sez. 6, n. 12238 del 27/01/2004, Bruno, Rv.
228277; Sez. 4, n. 9086 del 28/03/2000, Caputo, Rv. 217125;
Sez. 6, n. 10137 del 24/06/1998, Fusco, Rv. 211569; Sez. 1,
n. 1107 del 10/03/1992, Frasca, Rv. 190189).
Una di queste decisioni, in particolare, rileva che il reato
di rifiuto di atti di ufficio -anche nella formulazione
introdotta dall'art. 16 della l. 26.04.1990, n. 86- consiste
nel mancato adempimento di un'attività doverosa, per il
compimento della quale è fissato un termine unico finale e
non soltanto iniziale, essendo il soggetto obbligato
all'adempimento appena possibile, sicché la consumazione del
reato si verifica nel momento stesso in cui si è verificata
l'omissione o è stato opposto il rifiuto e, quindi, l'agente
è punibile per reato istantaneo senza che abbia nessun
rilievo l'ininterrotta protrazione dell'inattività
individuale, giacché la legge non riconosce alcuna efficacia
giuridica a detta persistenza e nemmeno all'eventuale
desistenza (Sez. 6, n. 10137 del 24/06/1998, cit.)
(Corte
di cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 03.10.2018 n. 43903). |
APPALTI: L’appalto
sul Mepa non legittima la deroga alla rotazione.
L'invito a presentare offerta ai soli appaltatori iscritti al Mepa non
sostanzia una procedura aperta di tipo concorrenziale - come richiesto dalle
linee guida Anac n. 4 per poter derogare al principio della rotazione - ma
una «procedura ristretta» che non consente alcune deroga al criterio
dell'alternanza tra imprese.
Così si esprime la I Sez. del TAR Puglia-Lecce, Sez. I, con la recente
sentenza
02.10.2018 n.
1412.
La vicenda
La ricorrente ha impugnato gli atti di gara e l'aggiudicazione contestando
alla stazione appaltante la violazione del principio di rotazione,
considerato che al procedimento informale è stata invitata anche la
pregressa affidataria, che si è nuovamente aggiudicato l’appalto.
Il procedimento è stato strutturato dalla stazione appaltante in due fasi
essenziali. Un primo avviso, per favorire la presentazione delle
manifestazioni di interesse alla gara, che limitava la partecipazione ai
soli iscritti al Mepa. La seconda fase si è sostanziata negli inviti (anche
del pregresso affidatario) con quattro esclusioni motivate dalla mancata
iscrizione al mercato elettronico.
Questo modus operandi secondo il giudice (che ha già avuto modo di
pronunciarsi su questioni analoghe con la sentenza n. 1322/2018) non
costituisce un’autentica procedura aperta e concorrenziale, la sola in grado
di legittimare la deroga al principio di rotazione. In particolare, il
procedimento seguito non può che essere qualificato –si legge in sentenza-
come una procedura ristretta, tutt'altro che concorrenziale, limitata ai
soli iscritti al mercato elettronico.
Se il procedimento di gara non è realmente aperto e concorrenziale,
quindi,la stazione appaltante ha l'obbligo di applicare il principio di
rotazione e non può invitare il pregresso affidatario (salvo stringenti e
adeguate motivazioni).
La decisione
Il giudice pugliese, in sintesi, ribadisce che il procedimento semplificato
a inviti previsto dall'articolo 36 del codice –per poter essere considerato
come procedimento aperto/concorrenziale- va strutturato in tre differenti
fasi: una prima esige un avviso pubblico agli interessati all'appalto, di
«iscriversi» al mercato elettronico; un secondo avviso pubblico per le
manifestazioni di interesse a essere invitati al procedimento e infine una
terza fase che si sostanzia negli inviti veri e propri.
Diversamente operando, ovvero espletando solo due fasi del procedimento con
possibilità di partecipazione alla competizione limitata ai soli iscritti al
mercato elettronico, il responsabile unico non effettua una procedura
sostanzialmente aperta, la sola con la classica procedura a evidenza
pubblica (e quindi un procedimento aperto anche sotto il profilo formale)
che -in base alle linee guida n. 4- legittima la deroga alla rotazione e,
pertanto, anche il re-invito (o la libera partecipazione nel caso di
evidenza pubblica) al pregresso affidatario e agli stessi appaltatori già
invitati.
In sentenza si legge che «l’amministrazione ha formalmente -e
sostanzialmente- seguito una procedura ristretta in economia (articolo 36
del Dlgs 50/2016): invero, sin dalla prima fase della procedura ha limitato
la possibilità di far pervenire la manifestazione d’interesse a partecipare
ai soli operatori che fossero iscritti al portale denominato Acquisti in
rete Pa».
Di fatto, i non iscritti al portale «non hanno potuto partecipare alla
procedura in esame» e in questo modo non possono ritenersi realizzati «i
presupposti per la configurabilità della concorrenzialità pura, tutelata
anche a livello comunitario».
Tant' è che sono state esclusi 4 dei 10 operatori economici che avevano
manifestato il proprio interesse a partecipare, nonostante non iscritti
nell'elenco del mercato elettronico.
In tale contesto, la decisione del responsabile unico del procedimento di
invitare anche il precedente aggiudicatario si è palesata come una decisione
illogica e contraddittoria considerato che la stessa stazione appaltante ha
deliberatamente ridotto il numero delle offerte ammesse a partecipare alla
competizione «imponendo il requisito di partecipazione dell’iscrizione al
Portale» e argomentando l'invito al precedente affidatario in virtù del
limitato numero di manifestazioni di interesse pervenute
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.10.2018).
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MASSIMA
3. Nel merito, il ricorso deve essere accolto.
L’esponente deduce l’illegittimità dell’operato dell’Amministrazione che,
avendo esperito una procedura ristretta in economia ex art. 36, comma 2,
lett. b), del D.Lgs. 50/2016, non avrebbe dovuto invitare alla gara in esame
la Ec.So.Wo. perché gestore uscente del medesimo servizio medio tempore
eseguito in favore della stessa Stazione Appaltante, in applicazione del
principio della “rotazione” nella aggiudicazione delle forniture
sotto soglia di cui agli artt. 30 e 36 del D.Lgs. 50/2016.
Controdeducono le resistenti che “il principio di rotazione, sulla scorta
di quanto espressamente precisato dall’ANAC, non si applica laddove il nuovo
affidamento avvenga tramite procedure ordinarie o comunque aperte al
mercato, nelle quali la stazione appaltante, in virtù di regole prestabilite
dal Codice dei contratti pubblici ovvero dalla stessa in caso di indagini di
mercato o consultazione di elenchi, non operi alcuna limitazione in ordine
al numero di operatori economici tra i quali effettuare la selezione”.
In particolare, l’espletamento della procedura negoziata sarebbe stata
preceduta da “una fase di evidenza pubblica” attraverso la quale la
Stazione appaltante avrebbe chiesto l’invio di manifestazioni di interesse.
4. Le censure di parte ricorrente sono fondate per le ragioni che si vengono
ad illustrare.
Per i contratti sotto soglia, l’art. 36, comma 1 e comma 2, lett. b), del
d.lgs. n. 50 del 2016, prevede che l’affidamento debba avvenire nel rispetto
del principio di rotazione degli inviti e degli affidamenti e in modo da
assicurare l’effettiva possibilità di partecipazione delle piccole e medie
imprese.
Secondo orientamento consolidato,
cui non sussistono ragioni per discostarsi, sussiste
l’esigenza di evitare il consolidamento di rendite di posizione in capo al
gestore uscente (la cui posizione di vantaggio deriva soprattutto dalle
informazioni acquisite durante il pregresso affidamento), conseguentemente
l’invito all’affidatario uscente riveste carattere eccezionale e deve essere
adeguatamente motivato, avuto riguardo al numero ridotto di operatori
presenti sul mercato, al grado di soddisfazione maturato a conclusione del
precedente rapporto contrattuale ovvero all’oggetto e alle caratteristiche
del mercato di riferimento (ex
multis: TAR Roma n. 1115/2018; TAR Venezia n. 320/2018; TAR Catanzaro n.
1007/2018).
In proposito, ha precisato la giurisprudenza del Consiglio di Stato, che
il principio di rotazione deve essere inteso in termini di obbligo
per le stazioni appaltanti di non invitare il gestore uscente, nelle gare di
lavori, servizi e forniture negli appalti cd. “sotto soglia”, al fine
di tutelare le esigenze della concorrenza in un settore, quello degli
appalti "sotto soglia", nel quale è maggiore il rischio del
consolidarsi, ancor più a livello locale, di posizioni di rendita
anticoncorrenziale da parte di singoli operatori del settore risultati in
precedenza aggiudicatari della fornitura o del servizio
(C. di St. 2079/2018; C. di St. 5854/2017).
Recependo il convincimento dei giudici di Palazzo Spada, l’Anac,
con le Linee Guida n. 4 del 2016, aggiornate al correttivo del 2017, ha
confermato l'obbligo di applicazione del principio in esame e la possibilità
di reinvito del gestore uscente solo con una motivazione in grado di
dimostrare le particolari condizioni di mercato che giustificano la deroga,
sostenute dall' esecuzione senza criticità del lavoro, servizio o fornitura
gestiti in precedenza e dalla dimostrazione della competitività in termini
di prezzo dell'operatore economico.
L'Anac ha ammesso, comunque, che la rotazione possa non essere applicata
quando il nuovo affidamento avvenga tramite procedure ordinarie o comunque
aperte al mercato, nelle quali la stazione appaltante non operi alcuna
limitazione in ordine al numero di operatori economici tra i quali
effettuare la selezione.
Dal quadro normativo e giurisprudenziale esposto, deriva
che, per evitare la contaminazione e l’elusione del principio di rotazione,
la partecipazione del gestore uscente deve essere strettamente avvinta alla
concorrenzialità pura.
Orbene, nella fattispecie in esame, l’Amministrazione ha formalmente –e
sostanzialmente- esperito una procedura ristretta in economia ex art. 36 del
D.Lgs. 50/2016: invero, ha limitato, sin dalla prima fase della procedura,
la possibilità di far pervenire la manifestazione di interesse a partecipare
ai soli operatori che fossero iscritti al portale denominato “Acquisti in
rete P.A.”.
Di fatto, i non iscritti a detto portale non hanno potuto partecipare alla
procedura in esame. Non si sono realizzati, dunque, i presupposti per la
configurabilità della concorrenzialità pura, tutelata anche a livello
comunitario.
Tanto è vero che sono state esclusi 4 dei 10 operatori economici che avevano
manifestato il proprio interesse a partecipare, nonostante non iscritti
nell’elenco de quo.
Peraltro, la motivazione resa dalla Stazione appaltante in ordine alla
scelta di invitare il gestore uscente si palesa come illogica e
contraddittoria: invero l’Amministrazione da un lato ha voluto ridurre il
numero delle ditte ammesse a partecipare imponendo il requisito di
partecipazione dell’iscrizione al Portale, dall’altro ha ritenuto di
ammettere la Ec.So.Wo. “in virtù del numero limitato di manifestazioni di
interesse pervenute”. |
PUBBLICO
IMPIEGO: Il
cartellino delle presenze non è atto pubblico.
Il «cartellino» delle presenze negli uffici della pubblica amministrazione
non è un atto pubblico.
Così la Corte di
Cassazione, Sez. V penale, con la
sentenza 25.09.2018 n.
41426, ha annullato a due dipendenti comunali “infedeli” la
condanna per il reato di falso ideologico commesso da privato in atto
pubblico (articolo 483 del Codice penale).
I dipendenti timbravano il cartellino, con modalità tali da attestare
falsamente la loro presenza negli uffici comunali. Ma se è vero che così
commettevano il reato di truffa aggravata ai danni dell'ente locale non è
vero che realizzassero un falso in atto pubblico. Cartellini o badge
rilevano, infatti solo nel rapporto con il datore di lavoro, rapporto che
nella Pa è ormai di diritto privato. Cioè sono privi di rilevanza esterna
non essendo manifestazione dichiarativa o di volontà attribuibile alla
pubblica amministrazione.
La Corte di cassazione, confermando che l'alterazione delle presenze è un
raggiro o un artifizio in grado di trarre in inganno il datore di lavoro, ha
riconosciuto la legittimità della condanna per truffa aggravata, peraltro
non impugnata dai ricorrenti in Cassazione. Ma ha escluso -smentendo il
giudice di merito e un minoritario orientamento in Cassazione- che sia
ravvisabile qualsiasi ipotesi di falso in atto pubblico compresa quella
aggravata prevista dall'articolo 479 del Codice penale quando l'autore è un
pubblico ufficiale.
Infatti, è la stessa natura privatistica del cartellino «marcatempo» a
rendere ininfluente la verifica se il dipendente rivesta o meno il ruolo di
pubblico ufficiale. Mentre nella truffa commessa dai ricorrenti contro il
datore di lavoro rileva sicuramente la natura pubblica di quest'ultimo e
delle risorse con cui paga i dipendenti, facendo scattare l'aggravante
prevista dall'articolo 640, comma 2, del Codice penale
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 26.09.2018).
---------------
MASSIMA
1. I ricorsi sono fondati.
2. Secondo l'insegnamento delle Sezioni Unite i cartellini
marcatempo o i fogli di presenza non hanno natura di atto pubblico,
trattandosi di documenti di mera attestazione del dipendente inerente al
rapporto di lavoro, soggetto a disciplina privatistica, documenti che,
peraltro, non contengono manifestazioni dichiarative o di volontà riferibili
alla Pubblica Amministrazione (Sez.
U, n. 15983 del11/04/2006, Sepe).
Nel solco di tale decisione si è collocata, in modo unanime, la
giurisprudenza successiva, compresa la pronuncia "Cass. 19299/2012" (Sez.
5, n. 19299 del 16/04/2012, Santonico) che la Corte di appello cita,
erroneamente, a sostegno della tesi contraria (cfr. pagina 6 sentenza
impugnata).
Venendo meno l'oggetto materiale, non residua spazio per
alcuna figura criminosa ricadente nel novero dei delitti di falso.
Invero non solo non è configurabile il reato di cui
all'art. 479 cod. pen. (Sez. U, n.
15983 del 11/04/2006, Sepe, Rv. 233423), ma
—in difformità da quanto ritenuto dai giudici di merito e da una pronuncia
della Corte di legittimità anteriore alle Sezioni Unite Sepe (Sez. 5, n.
44689 del 03/06/2005, Flavio, Rv. 232433)— neppure quello,
qui in contestazione, di cui all'art. 483 cod. pen., posto che il problema
non è la qualità dell'agente —pubblico ufficiale o privato— ma la natura del
cartellino marcatempo, che, si ripete, non è atto pubblico.
3. La falsa attestazione del pubblico dipendente, circa la
presenza in ufficio riportata sui cartellini marcatempo, è condotta
fraudolenta, idonea oggettivamente ad indurre in errore l'amministrazione di
appartenenza in merito alla presenza sul luogo di lavoro, ed è dunque
suscettibile di integrare il reato di truffa aggravata
(tra le ultime Sez. 5, n. 8426 del 17/12/2013, dep. 2014, Rapicano, Rv.
258987), reato per il quale i ricorrenti hanno riportato
condanna, non impugnata in questa sede.
4. Consegue l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata,
limitatamente alla condanna per tutti i reati di cui all'art. 483 cod. pen.,
addebitati agli imputati —il capo di imputazione trascritto in sentenza non
li identifica con lettere o numeri— perché il fatto non sussiste.
La sentenza va annullata con rinvio per la rideternninazione della pena in
ordine ai restanti delitti di truffa, rideterminazione non effettuabile in
questa sede ex art. 620, lett. I), cod. proc. pen., in assenza di
statuizioni del giudice di merito utili a tal fine. |
PUBBLICO
IMPIEGO: Licenziabile
il dipendente pubblico che non si «astiene» in caso di conflitto di
interessi anche potenziale.
In presenza di una situazione di conflitto di interessi, il codice di
comportamento dei dipendenti pubblici impone ai responsabili del
procedimento l'obbligo di segnalazione e rilevazione ma soprattutto il
dovere di astensione dal procedimento.
La stessa legge 241/1990 prevede
espressamente che: «Il responsabile del procedimento e i titolari degli
uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale devono astenersi in caso di
conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto, anche
potenziale».
Il responsabile del procedimento che viola ripetutamente la normativa, anche
in presenza di un conflitto di interesse solo potenziale, può essere
soggetto a licenziamento rientrando la violazione nelle stesse disposizioni
contrattuali previste per gli enti locali e corrispondenti alla violazione
di doveri di comportamento di gravità tale da non consentire la prosecuzione
del rapporto di lavoro.
Queste conclusioni sono state confermate dalla Corte di Cassazione, Sez.
lavoro, con la
sentenza 25.09.2018 n. 22683.
La vicenda
Un'amministrazione aveva rilevato che il funzionario tecnico, in quanto
responsabile del procedimento amministrativo e come tale tenuto a esaminare
e a controllare la correttezza dell'attività procedimentale e sostanziale e
a formulare valutazioni discrezionali con assunzione della responsabilità
dell'istruttoria, aveva violato reiteratamente i doveri di trasparenza e di
imparzialità non avendo mai rilevato e segnalato una situazione di conflitto
di interessi essendo socio unico e titolare del 50% delle quote
rispettivamente di due società coinvolte nei procedimenti amministrativi di
cui era responsabile.
Trattandosi di onere obbligatorio che avrebbe dovuto imporre al responsabile
il dovere di astensione, l'ufficio dei procedimenti disciplinari aveva
irrogato la sanzione del licenziamento senza preavviso, riscontrando la
violazione della legge sul procedimento amministrativo (articolo 6-bis della
legge 241/1990) nonché del codice di comportamento dei dipendenti pubblici
che impongono l'astensione del dipendente dal procedimento amministrativo
condotto su società di cui è socio o possessore di quote rilevanti.
Secondo la Corte d’appello, cui si era rivolto il dipendente licenziato, la
condotta contestata e posta a base del licenziamento era disciplinarmente
rilevante e la sanzione proporzionata e legittima, in base all'articolo 3,
comma 7, lettera i), del contratto collettivo, avuto riguardo alla pluralità
delle condotte poste in essere in situazioni di conflitto di interessi, alla
mancata percezione della gravità del comportamento e della sua incidenza
sulla trasparenza dell'azione amministrativa, al ruolo di responsabile del
procedimento rivestita, alla qualità di comproprietario della società
destinataria degli atti amministrativi, alla avvenuta sovrapposizione tra
interessi privati e pubblici.
Le indicazioni della Cassazione
Prima delle disposizioni introdotte dal Dpr 62/2013 (Codice di
comportamento), la legge sul procedimento amministrativo (articolo 6-bis
della legge 241/1990) risultava chiara nell'indicare la doverosità
dell'astensione da parte del dipendente dall'esaminare pratiche che, solo
potenzialmente, potessero creare un conflitto di interesse.
Nel caso di
specie, proprio per l'interesse, anche potenziale, del dipendente sulle
pratiche che lo vedevano coinvolto, quale responsabile del procedimento, in
via indiretta con interessi privati, il licenziamento si giustifica per
l'immediata mancata segnalazione del coinvolgimento verso l'ente. Secondo i
giudici di Piazza Cavour, le ripetute violazioni nelle pratiche trattate,
rientrano nelle ipotesi di violazioni talmente gravi da giustificare il
licenziamento.
Risulta, pertanto, corretta l'affermazione contenuta nella sentenza
impugnata secondo cui ciò che rileva è il conflitto che in astratto
(potenziale) può verificarsi e che è, di contro, ininfluente che esso si sia
nel concreto realizzato, ove si consideri che gli obblighi imposti al
pubblico dipendente mirano a garantire la trasparenza e l'imparzialità
dell'azione amministrativa e, ad un tempo, a prevenire fenomeni di
corruzione.
Infine, da un punto di vista contrattuale essa trova puntuale affermazione
anche nel contratto collettivo (all'articolo 3, comma 7, lettera i) del
contratto collettivo del comparto Regioni ed Autonomie Locali) tenuto conto
che si è in presenza di violazioni dei doveri di comportamento di gravità
tale da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro. La sentenza
dei giudici di appello è stata, pertanto, confermata
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 04.10.2018). |
APPALTI: Il Rup non può sostituirsi alla commissione di gara nella valutazione
dell'offerta tecnica.
Nell'appalto da aggiudicare con il criterio dell'offerta economicamente più
vantaggiosa, la valutazione dell'offerta tecnica compete alla commissione di
gara e il responsabile unico del procedimento, qualora ravvisasse un errore
sui requisiti tecnici di ammissione dell'offerta, non può adottare
provvedimenti autonomi senza un nuovo coinvolgimento dell'organo competente.
In questo senso la
sentenza 25.09.2018 n. 906 del TAR Lombardia-Brescia,
Sez. II.
Il caso
Il ricorrente ha posto al giudice una rilevante questione sulla competenza
del responsabile unico nel procedimento di aggiudicazione dell'appalto
secondo il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa. Nel caso
trattato, effettuata la valutazione da parte della commissione di gara con
conseguente proposta di aggiudicazione dell'appalto, il Rup ha rilevato un
errore sull'organo collegiale.
In sintesi, l'offerta tecnica risultava
carente di un requisito minimo indispensabile per l'ammissione, non
evidenziato dalla commissione di gara. Il responsabile unico procedeva, per
il tramite di un terzo esperto, a verificare l'adeguatezza dell'offerta
tecnica richiedendo chiarimenti all'aggiudicatario sostituendosi alla
commissione.
Dall'esame ulteriore l'offerta non risultava rispettare gli standard minimi
richiesti negli atti di gara e il Rup si determinava per l'esclusione e la
revoca dell'aggiudicazione. Una serie di operazioni compiute in “perfetta”
solitudine dal responsabile che ha ritenuto di non dover coinvolgere la
commissione di gara. Il ricorrente ha contestato proprio questo fatto
ritenendo che il responsabile unico non è l'organo deputato a fare
valutazioni tecniche e che eventuali rilievi avrebbero dovuto essere rimessi
alla stessa commissione di gara quale unico organo a ciò deputato.
La sentenza
Per il giudice è essenziale stabilire se il Rup sia o meno titolare non
tanto del potere di adottare la revoca impugnata, quanto di ravvisare i
presupposti per l'implicita esclusione dalla gara della ricorrente e la sua
aggiudicazione alla controinteressata. La revoca dell'aggiudicazione, nel
caso di specie, non potendo essere qualificata come atto dovuto, in quanto
non era stata dimostrata la carenza di un requisito ritenuto essenziale per
l'ammissibilità dell'offerta, non poteva essere adottata dal Rup
autonomamente.
Nel caso trattato il difetto/vizio rilevato, e di conseguenza il suo
riesame, era relativo a un requisito minimo dell'offerta di competenza della
commissione di gara deputata alla valutazione tecnica dell'offerta.
Praticamente la commissione di gara ha proceduto ritenendo che il prodotto
offerto possedesse tutti i requisiti essenziali richiesti e, in particolare,
un sistema automatico di aspirazione dei vapori (si trattava di fornitura di
un processatore per tessuti biologici), mentre il Rup ha affermato il
contrario. A fronte del dubbio emerso dopo l'aggiudicazione, «il Rup,
anziché chiedere un parere terzo per confutare l'affermazione della
commissione tecnica, avrebbe dovuto riconvocare quest'ultima per il rinnovo
dell'attività».
Se il giudizio è «nella fisiologia del procedimento di gara, demandato alla
Commissione, che deve accertare il possesso del requisito e attribuire il
relativo punteggio», sottolinea il giudice, il «contrarius actus non può che
essere demandato alla Commissione stessa, che deve procedere al rinnovo
della valutazione».
Il responsabile unico, a fronte di possibili errori della commissione di
gara nella valutazione dell'offerta, non può arrogarsi alcun potere ed
adottare autonomamente atti come l'esclusione ed una nuova aggiudicazione
dell'appalto.
Diversamente, prosegue la sentenza, “quel giudizio che ha condotto a
ritenere ammissibile l'offerta da parte della Commissione tecnica, a tal
fine appositamente costituita, finirebbe per essere sostituito da un
giudizio personale del RUP, che avrebbe così superato la discrezionalità
tecnica esercitata dalla Commissione".
La revoca dell'aggiudicazione avrebbe potuto essere disposta ma solo dopo un
riesame compiuto dalla commissione di gara che avrebbe dovuto essere
riconvocata «sì da consentire alla stessa la valutazione dell'ammissibilità
dell'offerta alla luce di quanto successivamente emerso».
Pertanto, nel caso
in cui il Rup si avveda di un errore “tecnico” della commissione di gara –nella fase di redazione della proposta per l'aggiudicazione– dovrà
necessariamente riconvocare l'organo valutatore affinché verifichi, in sede
di autotutela, se l'offerta sia «stata legittimamente ammessa o avrebbe
dovuto essere esclusa e solo in quest'ultimo caso» potrebbe disporre
l'esclusione dalla gara della ricorrente e l'aggiudicazione alla controinteressata
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 04.10.2018). |
APPALTI: Nomina
delle commissioni di gara senza regole.
Nella nomina delle commissioni di gara, in attesa della predisposizione
dell'albo dei commissari a gestione Anac, la stazione appaltante non ha
vincoli normativi specifici da seguire potendo ispirarsi anche alla
disposizione, pur abrogata, contenuta nell'articolo 84 del vecchio codice
dei contratti.
In questo senso si è pronunciato il TAR Basilicata,
sentenza
18.09.2018 n. 635.
Il ricorso
Il ricorrente ha impugnato gli atti di aggiudicazione della concessione
della gestione di una casa di riposo per anziani focalizzando le proprie
censure sull'illegittima nomina e composizione della commissione di gara
ritenuta «carente, nel suo complesso, della qualificazione professionale
richiesta ex art. 77 d.lgs. 50/2016».
L'altra illegittimità, secondo il ricorrente, ha riguardato la nomina del
collegio che non sarebbe stata preceduta dalla «predeterminazione di criteri
di competenza e trasparenza». Infine, veniva rilevata anche l'esistenza di
una relazione gerarchica tra due componenti della commissione, «l'uno a capo
dell'ufficio comunale cui l'altro è assegnato, avrebbe inficiato l'autonomia
di giudizio di quest'ultimo».
Effettivamente la questione della legittimità della nomina della commissione
di gara rappresenta una delle maggiori problematiche che affronta il
responsabile unico a causa della carenza di riferimenti normativi
applicabili e non sono mancate situazioni in cui gli atti sono stati
annullati per errori commessi nell’individuazione/nomina del collegio.
In questo caso, però, il giudice ha espresso un diverso ragionamento
palesando che nell'attuale impossibilità di utilizzare il meccanismo
delineato dal legislatore ovvero l'albo dei commissari, un riferimento
sostanziale sta nell'articolo 77, comma 1 del codice dei contratti che si
limita a ribadire che «nelle procedure di aggiudicazione di contratti di
appalti o di concessioni, limitatamente ai casi di aggiudicazione con il
criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, la valutazione delle
offerte dal punto di vista tecnico ed economico è affidata ad una
commissione giudicatrice, composta da esperti nello specifico settore cui afferisce l'oggetto del contratto».
La decisione
Secondo quanto si legge nella sentenza, in attesa dell'istituzione dell'albo
dei commissari, l'attuale norma del codice (articolo 77, comma 1) si limita
a onerare «l'amministrazione aggiudicatrice della scelta dei commissari di
gara con l'unico vincolo dell'esperienza nello specifico settore cui
afferisce l'oggetto del contratto, fatte salve le cause di incompatibilità o
di inconferibilità stabilite nei successivi commi della medesima
disposizione».
Per quanto concerne l'esperienza, il collegio costituito nel caso di specie
è risultato assolutamente adeguato visto il concetto “esteso” di esperienza
che deve coinvolgere la commissione nel suo complesso. Nel senso, precisa il
giudice, che «la Commissione di gara deve essere composta da esperti
nell'area di attività in cui ricade l'oggetto del contratto, ma non
necessariamente in tutte e ciascuna delle materie tecniche e scientifiche o
addirittura nelle tematiche alle quali attengono i singoli e specifici
aspetti presi in considerazione dalla lex specialis ai fini valutativi
(Consiglio di Stato, sez. IV, 15.09.2014, n. 4316; TAR Lazio Roma, sez. III,
05.02.2014, n. 1411)».
Da notare, inoltre, che la concessione da aggiudicare non rappresentava
particolari complessità tali da richiedere specifiche professionalità
tecniche nei commissari.
Molto importante è poi la precisazione –a differenza di quanto sostenuto
anche dall'Anac e da quanto disposto nell'articolo 216, comma 12 del codice
dei contratti– per cui la nomina della commissione di gara non deve essere
preceduta dalla «predeterminazione di criteri di competenza e trasparenza».
E, al riguardo, è sufficiente rilevare secondo questo giudice «che detto
adempimento non è prescritto da alcuna previsione normativa, né appare
rispondente ad alcun principio di carattere generale, considerato che la
scelta dei componenti il seggio di gara è tipica espressione dell'autonoma
discrezionalità della stazione appaltante, con il solo vincolo procedurale
derivante dalla previa acquisizione dei curricula dei componenti al fine di
valutarne la competenza tecnica».
Affermazioni che non appaiono perfettamente aderenti, invece, alla
disposizione richiamata e alle indicazioni dell'Anac. Il giudice, infine,
esclude anche la rilevanza del rapporto gerarchico tra componenti della
commissione di gara evidenziando che nessuna delle fattispecie codicistiche
in tema di incompatibilità (articoli 77, commi 4, 5, 6 e 9) «si attaglia
all'ipotesi prospettata dalla ricorrente». Né, d'altra parte, si può
ritenere «autorizzata alcuna interpretazione estensiva o per principi
considerato che la questione coinvolge profili di libertà, rispetto ai quali
è necessario un approccio rigoroso»
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.10.2018). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO: Incarichi
dirigenziali, il Consiglio di Stato «forza» sugli obblighi di pubblicazione
del bando.
L'esperienza evolutiva degli ultimi anni e le interpretazioni fornite dalla
giurisprudenza del Consiglio di Stato e delle Sezioni Unite della Cassazione
consentono di fornire delle interpretazioni rispetto all'obbligo di
pubblicazione dell'avviso per la nomina di un dirigente secondo l'articolo
110 del Tuel rispetto a quelle basate sulla
sentenza 10.09.2018 n. 5298 del Consiglio di Stato, Sez. V (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 21
settembre) che secondo alcune letture date avrebbe, invece, imposto un
obbligo di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale basato su una diversa
valutazione della natura del procedimento in questione: concorsuale e non
solo comparativo seppur entrambi nell'ambito delle procedure selettive.
Secondo alcune letture interpretative, la procedura in questione sarebbe
«una procedura selettiva come tale affidata alla cognizione del giudice
amministrativo», con le conseguenti «indefettibili modalità pubblicitarie»,
tesi che in effetti sembra provare troppo, non solo rispetto alla stessa
recente decisione dalla quale sono tratte ma in contrasto con il costante
orientamento dello stesso Consiglio di Stato (tra le tante Sezione V del 29.05.2017) che, giudicando su una controversia relativa a una procedura
bandita dopo le recenti modifiche all'articolo 110, comma 1, del Dlgs n. 267
del 2000, ha confermato il consolidato orientamento giurisprudenziale che
esclude la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo nella
materia (conforme Consiglio di Stato, Sezione V, n. 1549/2017) ma
soprattutto con le indicazioni della Cassazione a Sezioni unite (da ultimo
ordinanza n. 21600/2018).
La giurisdizione del giudice ordinario
Il filone giurisprudenziale ricordato ritiene che le controversie relative
al conferimento degli incarichi dirigenziali, anche se implicano
l'assunzione a termine di soggetti esterni, esulano dalla nozione di
«procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche
amministrazioni» e pertanto sono soggette alla giurisdizione del giudice
ordinario.
Solo laddove la selezione si manifesti nelle forme tipiche del concorso
vengono in rilievo posizioni di interesse legittimo contrapposte alle
superiori scelte di interesse pubblico dell'amministrazione, espresse
attraverso forme procedimentalizzate e una motivazione finale desumibile dai
criteri di valutazione dei titoli e delle prove e dalla relativa
graduatoria.
Quando invece la selezione seppur adeguatamente pubblicizzata e aperta, non
si esprima nelle forme tipiche di un concorso, conserva i connotati della
scelta fiduciaria e attiene al potere privatistico dell'amministrazione
pubblica in materia di personale dipendente.
La natura fiduciaria
Dunque, anche dopo le modifiche del Dl 90/2014, le procedure selettive
disciplinate dall'articolo 110, comma 1, del Tuel, conservano
caratteristiche fiduciarie che non consentono di configurarle come veri e
propri concorsi pubblici e su questo presupposto è stata esclusa a più
riprese (in tal senso vari specifici pareri dell'Anci) la necessità di
pubblicare il bando di selezione in Gazzetta Ufficiale trattandosi di una
selezione che non ha lo scopo di formare una graduatoria che vincola a
contrattualizzare il concorrente arrivato per primo, sulla base delle prove
di valutazione delle competenze e capacità (come avviene nei concorsi
pubblici).
La norma si limita a prescrivere che sia accertato in capo a
coloro che presentano la candidatura il possesso dei requisiti per essere
assunti (un'esperienza pluriennale comprovata e una specifica
professionalità).
Sul tema è utile ricordare come nella stesura finale del Dl 90/2014 siano
state a suo tempo eliminate due previsioni inizialmente inserite nelle
bozze. La prima avrebbe dovuto indurre a definire preventivamente il profilo
professionale dell'incarico. La seconda, avrebbe imposto di affidare la
selezione a commissioni composte da soggetti dotati di particolare
competenza, da scegliere tra dirigenti, docenti e professionisti esterni.
Considerazioni conclusive
Tirando le fila delle considerazioni fatte occorre precisare come a diverse
conclusioni non pare giungere neanche la lettura della decisione del
Consiglio di Stato, ricordata all'inizio del presente contributo: la
sentenza pur considerando l'alveo del concorso pubblico quale alveo nel
quale far confluire le procedure idoneative e quelle selettive, ne distingue
ampiamente i contenuti e gli effetti, soprattutto con riferimento al caso
concreto e alle conseguenze sulla giurisdizione che sostanzialmente ne
orientano la decisione.
In altri termini il Consiglio di Stato valorizza
l'auto qualificazione in termini di concorso operato dalla stessa
amministrazione oltre che il puntuale richiamo alla disciplina del Dpr
487/1994 e la sussistenza di tutti gli indici rilevatori della natura
concorsuale della procedura assunzionale avuto riguardo non solo alla
presenza di una commissione esaminatrice tecnica ma soprattutto alla
compilazione di una graduatoria. Una diversa interpretazione avrebbe
compromesso tutti i principi affermati dalla Cassazione a Sezioni Unite in
tema di giurisdizione.
Le due fattispecie sono nettamente distinte: quella concorsuale, laddove per
concorso si intende la procedura di valutazione sulla base dei criteri e
delle prove fissate in un bando, da parte di una commissione esaminatrice
con poteri decisori e destinata alla formazione di una graduatoria finale di
merito dei candidati, distinta da quella meramente valutativa nella quale
l'individuazione del soggetto cui conferire l'incarico costituisce l'esito
di una valutazione di carattere discrezionale, che rimette
all'amministrazione la scelta, del tutto fiduciaria, del candidato da
collocare in posizione di vertice, ancorché ciò avvenga mediante un giudizio
comparativo tra curricula diversi (in questo senso gli orientamenti della
Cassazione paiono recentemente univoci).
In definitiva nel caso specifico trattato dal Consiglio di Stato, l'agire
dell'amministrazione era finalizzato a una graduatoria con indici tali da
classificare l'azione quale procedura concorsuale, non altrettanto avviene
nei casi in cui la procedura sia meramente comparativa, procedura ammessa e
giudicata conforme all'attuale disciplina dell'articolo 110 del Tuel, con la
conseguenza che soltanto nel primo caso è possibile intravedere non solo un
obbligo di pubblicazione simile a quello dei concorsi (sulla Gazzetta
Ufficiale) oltre che una giurisdizione del giudice amministrativo.
Il chiarimento pare utile per eliminare dubbi interpretativi che avevano
indotto alcune amministrazioni a valutare eventuali azioni demolitorie
(revoca e/o annullamento) degli atti inerenti procedure comparative azionate
nell'ambito nel primo o secondo comma dell'articolo 110 del Tuel
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.11.2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
Va ricordato che la qualificazione dell’intervento ha
rilevanza, in quanto non possono realizzarsi opere di
ristrutturazione o di manutenzione straordinaria su un
manufatto abusivo, per il quale non sia stata ancora
definita la procedura di sanatoria o di condono edilizio.
Infatti, secondo l’orientamento consolidato, in presenza di
manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi
ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro oggettività,
alle categorie della manutenzione straordinaria del restauro
e/o del risanamento conservativo, della ristrutturazione,
della realizzazione di opere costituenti pertinenze
urbanistiche), ripetono le caratteristiche di illegittimità
dell'opera principale alla quale ineriscono strutturalmente,
con conseguente obbligo del Comune di ordinarne la
demolizione.
---------------
3.3 Il motivo di censura di cui al punto 3) verte sulla
qualificazione giuridica dell’intervento: si tratterebbe di
un intervento di manutenzione e risanamento, ai fini anche
di un adeguamento alle normative vigenti e sopravvenute, che
prevede un accorpamento e un contestuale frazionamento, con
adeguamento dei servizi igienici, senza aumento di volume o s.l.p. e senza modifica della destinazione d’uso. Al più,
secondo la ricorrente, l’intervento può essere classificato
come intervento di risanamento conservativo, ai sensi
dell’art. 3, comma 1, lettera c), del DPR 380/2001, come
recentemente modificato dall'art. 65-bis della legge n. 96
del 2017.
Contra, l’Amministrazione ha applicato la diversa categoria
della “ristrutturazione edilizia”, considerando l’intervento
in modo unitario.
Va ricordato che la qualificazione dell’intervento ha
rilevanza, in quanto non possono realizzarsi opere di
ristrutturazione o di manutenzione straordinaria su un
manufatto abusivo, per il quale non sia stata ancora
definita la procedura di sanatoria o di condono edilizio.
Infatti, secondo l’orientamento consolidato, in presenza di
manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi
ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro oggettività,
alle categorie della manutenzione straordinaria del restauro
e/o del risanamento conservativo, della ristrutturazione,
della realizzazione di opere costituenti pertinenze
urbanistiche), ripetono le caratteristiche di illegittimità
dell'opera principale alla quale ineriscono strutturalmente,
con conseguente obbligo del Comune di ordinarne la
demolizione (ex multis Tar Bari, (Puglia), sez. III,
03/04/2018, n. 496; Tar Napoli, (Campania), sez. VI,
05/03/2018, n. 1407) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 05.09.2018 n. 2046 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Correttamente l’Amministrazione effettua una
valutazione globale delle opere, non dei singoli interventi:
artificiose frammentazioni, in luogo di una corretta
qualificazione unitaria dell'intervento, comportano una
scomposizione virtuale delle opere finalizzata a “declassare” l’intervento, che deve invece
essere complessivamente considerato.
E’ infatti sempre necessaria una visione globale e non
atomistica dell'intervento edilizio, dal momento che la sua
qualificazione deriva non dalla singola opera, ma
dall’insieme delle variazioni apportate all’assetto del
territorio.
-------------
Nel caso in esame le singole opere sono state puntualmente
descritte nella relazione del tecnico comunale: all’esterno
vengono eliminati “importanti e consistenti tratti di
muratura perimetrale dell’originario fabbricato, (fronte
interno) volti a consentire la fusione di questo con gli
spazi dell’immobile antistante, anch’esso oggetto di
significative opere di sostituzione degli elementi di
tamponamento”; vengono poi create due unità, dotate di nuovi
servizi igienici, con un nuovo sistema di reti di scarico;
oltre alle nuove opere per il contenimento del consumo
energetico, vengono sostituite le esistenti luci con nuove
finestre, quindi con una modifica anche delle facciate.
L’intervento, creando due nuove unità, rese indipendenti tra
di loro dalla costruzione di una nuova parete trasversale di
separazione realizzata in muratura piena, comporta
l’alterazione sostanziale dell'originario manufatto.
Risulta quindi corretta la qualificazione dell’intervento
come ristrutturazione edilizia, stante la differente
distribuzione della superficie interna e dei volumi, il
rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio ed una
alterazione dell'originaria fisionomia e consistenza fisica
dell'immobile.
Non possono qualificarsi come strettamente manutentivi di una costruzione preesistente, ovvero diretti
al suo consolidamento o restauro conservativo, i lavori che
determinano la creazione di un organismo nuovo che veda
alterata la sua struttura; infatti, gli interventi edilizi
che alterino l'originaria consistenza fisica di un immobile
e comportino l'inserimento di nuovi impianti e la modifica e
ridistribuzione dei volumi, non possono configurarsi né come
manutenzione straordinaria né come restauro o risanamento
conservativo, ma rientrano nell'ambito della
ristrutturazione edilizia.
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Il Collegio non ritiene vi siano elementi per discostarsi da
quanto affermato in sede cautelare, circa la qualificazione
dell’intervento come ristrutturazione edilizia.
Va premesso che correttamente l’Amministrazione ha
effettuato una valutazione globale delle opere, non dei
singoli interventi: artificiose frammentazioni, in luogo di
una corretta qualificazione unitaria dell'intervento,
comportano una scomposizione virtuale delle opere
finalizzata a “declassare” l’intervento, che deve invece
essere complessivamente considerato.
E’ infatti sempre necessaria una visione globale e non
atomistica dell'intervento edilizio, dal momento che la sua
qualificazione deriva non dalla singola opera, ma
dall’insieme delle variazioni apportate all’assetto del
territorio.
Nel caso in esame le singole opere sono state puntualmente
descritte nella relazione del tecnico comunale: all’esterno
vengono eliminati “importanti e consistenti tratti di
muratura perimetrale dell’originario fabbricato, (fronte
interno) volti a consentire la fusione di questo con gli
spazi dell’immobile antistante, anch’esso oggetto di
significative opere di sostituzione degli elementi di
tamponamento”; vengono poi create due unità, dotate di nuovi
servizi igienici, con un nuovo sistema di reti di scarico;
oltre alle nuove opere per il contenimento del consumo
energetico, vengono sostituite le esistenti luci con nuove
finestre, quindi con una modifica anche delle facciate.
L’intervento, creando due nuove unità, rese indipendenti tra
di loro dalla costruzione di una nuova parete trasversale di
separazione realizzata in muratura piena, comporta
l’alterazione sostanziale dell'originario manufatto.
Risulta quindi corretta la qualificazione dell’intervento
come ristrutturazione edilizia, stante la differente
distribuzione della superficie interna e dei volumi, il
rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio ed una
alterazione dell'originaria fisionomia e consistenza fisica
dell'immobile. Non possono qualificarsi come strettamente
manutentivi di una costruzione preesistente, ovvero diretti
al suo consolidamento o restauro conservativo, i lavori che
determinano la creazione di un organismo nuovo che veda
alterata la sua struttura; infatti, gli interventi edilizi
che alterino l'originaria consistenza fisica di un immobile
e comportino l'inserimento di nuovi impianti e la modifica e
ridistribuzione dei volumi, non possono configurarsi né come
manutenzione straordinaria né come restauro o risanamento
conservativo, ma rientrano nell'ambito della
ristrutturazione edilizia (Tar Lecce, (Puglia), sez. I,
05/04/2018, n. 554).
Già la sola indicazione di voler procedere a demolizione,
prevista per un ampio tratto di muratura perimetrale, mette
in evidenza come l’intervento nel suo complesso sia tutt’altro
che esiguo (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 05.09.2018 n. 2046 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’abuso edilizio danneggia l’immagine del Comune perché ne
compromette le funzioni di controllo.
In caso di abuso edilizio, non
v'è dubbio che ricorra in capo al comune, ente deputato al
controllo del territorio e alla corretta edificazione sullo
stesso, un danno all'immagine come aspetto non patrimoniale
collegato alla menomazione del rilievo istituzionale
dell'ente e, in particolare, con riferimento alla funzione
di controllo del rispetto
della normativa per le costruzioni in zona sismica, in
funzione di tutela
dell'incolumità pubblica derivante dalla realizzazione di
opere che, non rispettando la normativa antisismica, possono
cagionare danni alla collettività.
---------------
1.- La Corte d'appello di Palermo, in parziale riforma della
sentenza di
condanna del Tribunale di Trapani, ha assolto Be.Sa. e Bi.Fr.Ro. dal reato di cui all'art. 181 d.lvo n. 42 del
2004 e dal reato di cui all'art. 734 cod. pen. perché il
fatto non sussiste ed ha rideterminato la pena per i
reati di cui agli artt. 110 cod. pen. e 93-94 e 95 d.P.R. n.
380 del 2001.
Con la medesima sentenza, ferma la statuizione di condanna
al
risarcimento del danno in favore della parte civile
costituita Comune di Favignana,
la Corte d'appello di Palermo ha ridotto in via equitativa
l'ammontare di esso in
favore della parte civile nella misura di € 1.000,00.
2. - Avverso la sentenza gli imputati hanno proposto,
tramite il loro
difensore, ricorsi per cassazione, deducendo con un unico
motivo, comune ad
entrambi, la violazione di legge in relazione agli artt. 185
cod.pen., 74 e 538
cod. proc. pen. e mancanza di motivazione sui presupposti per
la condanna della
parte civile in assenza di prova dell'esistenza del danno
cagionato alla medesima
parte civile e del suo ammontare.
...
4.- I ricorsi, con cui si deduce il vizio di motivazione
della sentenza in
relazione alla prova della quantificazione del danno
liquidato in favore della parte
civile, non sono fondati.
I ricorrenti non operano alcun riferimento concreto, neanche
a fini di critica,
alla sentenza impugnata, limitandosi ad asserire che non vi
sarebbe alcuna
motivazione sulla quantificazione del danno liquidato alla
parte civile Comune di
Favignana.
Si tratta di un assunto che non si confronta con la
decisione impugnata che,
in continuità con quella del Tribunale, ha ritenuto
sussistente il "danno di immagine
cagionato al Comune di Favignana", "oltre al rischio sismico
derivante dalla
realizzazione in zona sismica di un'opera non
preventivamente controllata
dall'ufficio competente", ed ha espressamente ridotto in via equitativa il danno,
per effetto della pronuncia di assoluzione dai reati
edilizi, sicché il difetto di
motivazione non appare sussistente.
Non v'è dubbio che ricorra, nel caso di specie, in capo al
Comune, ente
deputato al controllo del territorio e alla corretta
edificazione sullo stesso, un
danno all'immagine come aspetto non patrimoniale collegato
alla menomazione
del rilievo istituzionale dell'ente (Sez. 3, n. 1145 del
30/10/2001, Cucchiara,
Rv. 221010) e, in particolare, con riferimento alla funzione
di controllo del rispetto
della normativa per le costruzioni in zona sismica, in
funzione di tutela
dell'incolumità pubblica derivante dalla realizzazione di
opere che, non rispettando la normativa antisismica, possono
cagionare danni alla collettività.
La motivazione
è non solo presente ma anche congrua e corretta in diritto.
In relazione al dedotto difetto di motivazione in relazione
alla sua
quantificazione, la Corte d'appello ha ritenuto di
liquidarlo in via equitativa e la
relativa valutazione del giudice, in quanto affidata ad
apprezzamenti discrezionali
ed equitativi, costituisce valutazione di fatto sottratta al
sindacato di legittimità se
sorretta da congrua motivazione (Sez. 6, n. 48461 del
28/11/2013, Fontana,
Rv. 258170) e in assenza, peraltro, di contestazione sul
quantum da parte dei
ricorrenti (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.08.2018 n. 39035). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’ordine di demolizione è
un atto vincolato ancorato esclusivamente alla sussistenza
di opere abusive e non richiede una specifica motivazione
circa la ricorrenza del concreto interesse pubblico alla
rimozione dell’abuso.
In sostanza, verificata la sussistenza dei manufatti
abusivi, l’Amministrazione ha il dovere di adottarlo,
essendo la relativa ponderazione tra l'interesse pubblico e
quello privato compiuta a monte dal legislatore. In ragione
della natura vincolata dell’ordine di demolizione, non è
pertanto necessaria la preventiva comunicazione di avvio del
procedimento.
---------------
Gli ordini di demolizione di costruzioni abusive, avendo
carattere reale, prescindono dalla responsabilità del
proprietario o dell'occupante l'immobile, applicandosi anche
a carico di chi non abbia commesso la violazione, ma si
trovi al momento dell'irrogazione in un rapporto con la res
tale da assicurare la restaurazione dell'ordine giuridico
violato.
---------------
8. L’appello non merita accoglimento.
8.1. Osserva preliminarmente il Collegio che sono
inammissibili le censure nuove articolate, addirittura in
memoria, nel corso del giudizio d’appello nonché i documenti
nuovi (nella specie depositati il 10.05.2018), siccome in
violazione del divieto sancito dall’art. 104, commi 1 e 2,
c.p.a.
8.2. Il primo motivo d’appello, col quale si lamenta
la sopravvenuta inefficacia dell’ordine demolitorio, si
palesa inammissibile proprio perché, non essendo stato
articolato in primo grado, risulta proposto in violazione
del divieto dei nova in appello.
8.3. Infondato è il secondo motivo articolato
dall’appellante, col quale si deducono i vizi del difetto di
motivazione e della obliterazione delle garanzie
procedimentali.
Come infatti ha avuto modo di rilevare la
giurisprudenza di questo Consiglio (in particolare la
recente Adunanza plenaria 17.10.2017, n. 9;
successivamente si veda la prima applicazione fattane da Cons. Stato, sez. IV, 29.11.2017, n. 5595 nonché Cons.
Stato n. 2799 del 2018), “l’ordine di demolizione è un atto
vincolato ancorato esclusivamente alla sussistenza di opere
abusive e non richiede una specifica motivazione circa la
ricorrenza del concreto interesse pubblico alla rimozione
dell’abuso. In sostanza, verificata la sussistenza dei
manufatti abusivi, l’Amministrazione ha il dovere di
adottarlo, essendo la relativa ponderazione tra l'interesse
pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore.
In ragione della natura vincolata dell’ordine di
demolizione, non è pertanto necessaria la preventiva
comunicazione di avvio del procedimento (cfr. ex multis,
Cons. Stato, sez. IV, 12.12.2016, n. 5198), né
un'ampia motivazione”.
8.4. Infondato è anche il terzo motivo d’appello, col
quale si lamentano il difetto di legittimazione e la
irrilevanza urbanistica dell’opera.
8.4.1. Per il primo versante della critica sollevata
dall’appellante, vale ancora una volta l’insegnamento
giurisprudenziale -confermato di recente dalla menzionata
Plenaria 17.10.2017, n. 9- nel senso che “Gli ordini
di demolizione di costruzioni abusive, avendo carattere
reale, prescindono dalla responsabilità del proprietario o
dell'occupante l'immobile, applicandosi anche a carico di
chi non abbia commesso la violazione, ma si trovi al momento
dell'irrogazione in un rapporto con la res tale da
assicurare la restaurazione dell'ordine giuridico violato” (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 22.08.2018 n. 5008 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo il consolidato orientamento
giurisprudenziale, tettoie e pensiline, specie se
realizzate su terrazzi, rientrano nell’alveo applicativo del
regime concessorio.
---------------
Con riferimento specifico al pergolato, questo Consiglio
ha avuto già modo di affermare che lo
stesso è una struttura realizzata al fine di adornare e
ombreggiare giardini o terrazze, costituita da
un'impalcatura formata da montanti verticali ed elementi
orizzontali che li connettono ad una altezza tale da
consentire il passaggio delle persone.
Di norma quindi il
pergolato, come struttura aperta su tre lati e nella parte
superiore, non richiede alcun titolo edilizio.
Di contro, il
pergolato stesso, quando sia coperto superiormente, anche in
parte, con una struttura non facilmente amovibile, diventa
una tettoia, ed è soggetto alla disciplina relativa.
---------------
La “pergotenda” “è
qualificabile come mero arredo esterno quando è di modeste
dimensioni, non modifica la destinazione d'uso degli spazi
esterni ed è facilmente ed immediatamente rimovibile, con la
conseguenza che la sua installazione si va ad inscrivere
all'interno della categoria delle attività di edilizia
libera e non necessita quindi di alcun permesso”.
---------------
8.4.2. Per il secondo profilo della critica in esame, che
impinge nella rilevanza urbanistica dell’intervento,
sovviene ancora una volta il consolidato orientamento
giurisprudenziale secondo cui tettoie e pensiline, specie se
realizzate su terrazzi, rientrano nell’alveo applicativo del
regime concessorio (sez. IV, 28.06.2016, n. 2864; 12.12.2016, n. 5108).
Con riferimento specifico al pergolato, questo Consiglio
(sentenza sez. VI, 07.05.2018, n. 2701; sez. VI, 25.01.2017, n. 306) ha avuto già modo di affermare che lo
stesso è una struttura realizzata al fine di adornare e
ombreggiare giardini o terrazze, costituita da
un'impalcatura formata da montanti verticali ed elementi
orizzontali che li connettono ad una altezza tale da
consentire il passaggio delle persone. Di norma quindi il
pergolato, come struttura aperta su tre lati e nella parte
superiore, non richiede alcun titolo edilizio. Di contro, il
pergolato stesso, quando sia coperto superiormente, anche in
parte, con una struttura non facilmente amovibile, diventa
una tettoia, ed è soggetto alla disciplina relativa.
Dalla
documentazione di causa ed in particolare dai reperti
fotografici presenti in atti è dato rilevare che la
struttura in questione presenta appunto una copertura che
non assume carattere precario e transitorio di tal che
trattasi di un intervento senz’altro asservito a permesso di
costruire.
Né la fattispecie costruttiva può essere
ricondotta alla nozione di “pergotenda” atteso che questa “è
qualificabile come mero arredo esterno quando è di modeste
dimensioni, non modifica la destinazione d'uso degli spazi
esterni ed è facilmente ed immediatamente rimovibile, con la
conseguenza che la sua installazione si va ad inscrivere
all'interno della categoria delle attività di edilizia
libera e non necessita quindi di alcun permesso” (cfr. Cons.
Stato, sez. VI, 11.04.2014, n. 1777).
Ebbene, il
manufatto in questione proprio per le sue caratteristiche
dimensionali, sfugge al perimetro applicativo della pergotenda e deve pertanto, anche sotto tal profilo,
ritenersi asservito al regime del permesso di costruire (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 22.08.2018 n. 5008 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il concetto di "pertinenza", ai sensi e per i fini di cui all’art. 7 D.L.
23.01.1982, n. 9, conv. dalla L. 25.03.1982, n. 94,
tale da richiedere non già la concessione edilizia, bensì la
mera "autorizzazione", si differenzia, da un lato, da quello
di cui all'art. 817 c.c., che è caratterizzato da un
oggettivo nesso funzionale e strumentale tra cosa accessoria
e principale, (cioè da un nesso che non consenta, per natura
e struttura dell'accessorio, altro uso rispetto alla cosa
cui esso inserisce) e, dall'altro, per potersi avere
pertinenza è indispensabile che il manufatto destinato ad un
uso pertinenziale durevole sia dalle dimensioni ridotte e
modeste, per cui soggiace a concessione edilizia la
realizzazione di un'opera di rilevanti dimensioni, che
modifica l'assetto del territorio e che occupa aree e volumi
diversi rispetto alla res principalis, indipendentemente dal
vincolo di servizio o d'ornamento nei riguardi di essa.
---------------
8.5. Nemmeno può configurarsi il divisato vincolo
pertinenziale che possa giustificare l’alleggerimento del
regime edilizio, in modo da rendere l’intervento estraneo
all’alveo applicativo della sanzione demolitoria, in quanto,
come evidenziato da questo Consiglio (sez. V, 28.04.2014, n. 2196; n. 2864 del 2016 cit.), il concetto di
"pertinenza", ai sensi e per i fini di cui all’art. 7 D.L.
23.01.1982, n. 9, conv. dalla L. 25.03.1982, n. 94,
tale da richiedere non già la concessione edilizia, bensì la
mera "autorizzazione", si differenzia, da un lato, da quello
di cui all'art. 817 c.c., che è caratterizzato da un
oggettivo nesso funzionale e strumentale tra cosa accessoria
e principale, (cioè da un nesso che non consenta, per natura
e struttura dell'accessorio, altro uso rispetto alla cosa
cui esso inserisce) e, dall'altro, per potersi avere
pertinenza è indispensabile che il manufatto destinato ad un
uso pertinenziale durevole sia dalle dimensioni ridotte e
modeste, per cui soggiace a concessione edilizia la
realizzazione di un'opera di rilevanti dimensioni, che
modifica l'assetto del territorio e che occupa aree e volumi
diversi rispetto alla res principalis,
indipendentemente dal vincolo di servizio o d'ornamento nei
riguardi di essa (circostanza questa che non si verifica nel
caso di specie) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 22.08.2018 n. 5008 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini dell'applicazione della normativa
codicistica e regolamentare in materia di distanze tra
edifici, per nuova costruzione deve intendere non
solo la realizzazione a fundamentis di un fabbricato ma
anche qualsiasi modificazione nella volumetria di un
fabbricato precedente che ne comporti l'aumento della sagoma
d'ingombro, in tal guisa direttamente incidendo sulla
situazione degli spazi tra gli edifici esistenti, e ciò
anche indipendentemente dalla realizzazione o meno d'una
maggior volumetria e/o dall'utilizzabilità della stessa a
fini abitativi.
Per il che si è ripetutamente ritenuto che la
sopraelevazione, appunto, costituisca, a tutti gli effetti,
nuova costruzione, così come anche il solo
rifacimento di un tetto quando comporti l'aumento delle
superfici esterne e dei volumi interni, pur se dei piani
sottostanti.
---------------
Questa Corte ha in più occasioni evidenziato come, ai fini
dell'applicazione della normativa codicistica e
regolamentare in materia di distanze tra edifici, per
nuova costruzione debbasi intendere non solo la
realizzazione a fundamentis di un fabbricato ma anche
qualsiasi modificazione nella volumetria di un fabbricato
precedente che ne comporti l'aumento della sagoma
d'ingombro, in tal guisa direttamente incidendo sulla
situazione degli spazi tra gli edifici esistenti, e ciò
anche indipendentemente dalla realizzazione o meno d'una
maggior volumetria e/o dall'utilizzabilità della stessa a
fini abitativi; per il che si è ripetutamente ritenuto che
la sopraelevazione, appunto, costituisca, a tutti gli
effetti, nuova costruzione (Cass. 18.05.2011 n.
10909; Cass. 11.06.1997 n. 5246; Cass. 15.06.1996 n. 5517),
così come anche il solo rifacimento di un tetto quando
comporti l'aumento delle superfici esterne e dei volumi
interni, pur se dei piani sottostanti (Cass. 06.12.1995 n.
12582) (Corte di
Cassazione, Sez. II civile,
sentenza
13.08.2018 n. 20718). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Illegittima
l'istanza unica di accesso ordinario e civico.
Con le
sentenze gemelle
23.07.2018 n. 8302 e
23.07.2018 n. 8303, il TAR Lazio-Roma, Sez. I, ha
respinto due ricorsi in materia di accesso ai documenti riguardanti le
tornate assunzionali di assistenti giudiziari presso il ministero della
Giustizia, esponendo che, con riguardo alla medesima documentazione, non è
possibile presentare unica istanza di accesso ordinario e civico.
L’inconciliabilità
L'accesso ordinario agli atti disciplinato dalla legge 241/1990, resta
senz'altro praticabile parallelamente al più recente accesso civico
istituito dal Dlgs 33/2013. Tuttavia, i due istituti agiscono sulla base di
norme e presupposti molto diversi. Tenere distinte le fattispecie è
essenziale per calibrare i differenti valori in gioco. Il bilanciamento
degli interessi è ben diverso tra accesso ordinario, dove è consentito un
accesso più in profondità ai documenti, e accesso civico, dove le esigenze
di controllo diffuso dei cittadini devono consentire un accesso meno
profondo del primo, ma più dilatato.
L'accesso in questo secondo caso, comporta una larga conoscibilità e
diffusione di dati, documenti e informazioni. Qualora l'accesso ordinario
previsto dalla legge 241/1990 non sia consentito, ad esempio per genericità
della documentazione indicata o per non aver specificato il proprio
interesse personale alla ostensione, non può essere riconosciuto
meccanicamente, in via subordinata, quello civico.
La valenza pubblica
L'accesso civico è concedibile nell'ipotesi in cui la documentazione
richiesta sia orientata al soddisfacimento di un interesse che presenti una
evidente «valenza pubblica» e non resti confinato a un bisogno conoscitivo
privato o individuale.
L'accesso ordinario ha a oggetto documenti amministrativi, dovendosi
pertanto escludere che attraverso questo istituto possano trovare ingresso
richieste finalizzate a un controllo generalizzato sull'operato della Pa,
tanto più quando, non risultino specificamente indicati, né in qualche modo
resi identificabili, i documenti richiesti.
Devono dunque essere valorizzate in chiave selettiva e delimitativa, le
finalità per le quali l'accesso civico è stato previsto dai legislatori del
Dlgs 33/2013 e del Dlgs 97/2016: favorire forme estese di controllo pubblico
sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse
comuni, promuovendo la massima partecipazione dei cittadini al dibattito
sociale. Conseguentemente, per quanto il testo normativo non richieda
l'inserimento di una motivazione nella richiesta di accesso civico, deve
intendersi implicita la rispondenza dell'istanza stessa al soddisfacimento
di un interesse di rilievo pubblico e non di un bisogno conoscitivo
personale.
In altre parole, una istanza d'accesso anfibia, lungi dal rappresentare
partecipazione consapevole del cittadino alla dialettica pubblica, rischia
di compromettere lo spirito stesso dell'istituto dell'accesso civico,
menomandolo a una sorta di duplicato o supplente, di quello ordinario
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 30.10.2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza afferma da tempo il principio
secondo cui il verbale di accertamento dell’inottemperanza
alla demolizione “è manifestamente inidoneo a ledere situazioni
giuridiche”.
L’orientamento del giudice amministrativo è pacifico
nell’enunciare tale avviso sancendo che “Non è ammissibile
il ricorso concernente il verbale di accertamento dell'
inottemperanza alla precedente ingiunzione di demolizione di
opere edilizie abusive, redatto dal personale della Polizia
Municipale, in quanto il suddetto atto ha chiaramente valore endoprocedimentale
ed efficacia meramente dichiarativa delle operazioni
effettuate dai vigili urbani, ai quali non è attribuita la
competenza all'adozione di atti di amministrazione attiva, a
tal uopo occorrendo che la competente autorità
amministrativa ne faccia proprio l'esito attraverso un
formale atto di accertamento”.
Invero, benché il modello legale
dell’atto di accertamento dell’inottemperanza alla
demolizione costituisca titolo per l’immissione in possesso
e per la correlativa trascrizione nei registri immobiliari
connotandosi dunque per una sua intrinseca provvedimentale
lesività, viceversa un mero verbale constatazione
dell’inadempienza alla demolizione redatto dalla Polizia
municipale si
presenta orfano dei delineati attributi per le carenze
contenutistiche appena tratteggiate.
Il mero verbale di accertamento dell’inottemperanza alla
demolizione non ha valore e contenuto provvedimentale e non
si presentata dunque idoneo a ledere la sfera giuridica del
destinatario risolvendosi in un semplice accertamento di un
fatto, ossia la mancata ottemperanza all’ordine di
demolizione, come del resto la stessa giurisprudenza
riportata dal ricorrente afferma.
---------------
E' inammissibile il ricorso proposto avverso un
atto non caratterizzato da valenza provvedimentale, essendo
il verbale di accertamento di inottemperanza all'ordinanza
di demolizione privo di contenuto dispositivo nuovo,
limitandosi a constatare l'inadempimento all'ordine
demolitorio.
L’opzione è espressa anche dal Giudice d’appello, secondo il
quale “Il verbale di inottemperanza non ha di per sé natura
lesiva, altro non essendo che la constatazione della mancata
esecuzione di un ordine impartito nell'esercizio del potere sanzionatorio e, di conseguenza, la sua mancata impugnazione
non determina l'inammissibilità del ricorso avverso
l'ingiunzione di demolizione”.
---------------
3. Ciò precisato, il Collegio deve dichiarare inammissibile il
presente ricorso considerato che il mero verbale di
accertamento redatto dalla Polizia municipale di S. Giuseppe
Vesuviano il 20.12.2012 a carico del ricorrente, attestante
l’inottemperanza alla demolizione ingiunta con la ridetta
ordinanza n. 296 del 30.11.2009, è privo di natura e
contenuto provvedimentale e non profila perciò idoneo a
ledere la sfera giuridica del destinatario, risolvendosi in
un mero accertamento di un fatto, ossia la mancata
ottemperanza all’ordine di demolizione.
3.1. La giurisprudenza afferma da tempo il principio secondo
cui il verbale di accertamento dell’inottemperanza alla
demolizione “è manifestamente inidoneo a ledere situazioni
giuridiche” (TAR Campania–Napoli, Sez. II, 07.03.2008, n.
1175).
L’orientamento del giudice amministrativo è invero pacifico
nell’enunciare tale avviso sancendo che “Non è ammissibile
il ricorso concernente il verbale di accertamento dell'
inottemperanza alla precedente ingiunzione di demolizione di
opere edilizie abusive, redatto dal personale della Polizia
Municipale, in quanto il suddetto atto ha chiaramente valore endoprocedimentale ed efficacia meramente dichiarativa delle
operazioni effettuate dai vigili urbani, ai quali non è
attribuita la competenza all'adozione di atti di
amministrazione attiva, a tal uopo occorrendo che la
competente autorità amministrativa ne faccia proprio l'esito
attraverso un formale atto di accertamento (cfr. TAR
Lazio sez. II, 02.02.1988)” (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, 30.04.2008, n. 3064;
in terminis anche TAR Valle
d'Aosta, 24.07.2012, n. 74; TAR Campania Napoli, Sez. III, 01.02.2011, n. 633; TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, 14.05.2010 n. 1730; TAR Campania–Napoli, Sez. II, 27.08.2010 n. 17245).
Rammenta al riguardo il Collegio che questa Sezione ha
ribadito in argomento che “Invero, benché il modello legale
dell’atto di accertamento dell’inottemperanza alla
demolizione costituisca titolo per l’immissione in possesso
e per la correlativa trascrizione nei registri immobiliari
connotandosi dunque per una sua intrinseca provvedimentale
lesività, viceversa un mero verbale constatazione
dell’inadempienza alla demolizione redatto dalla Polizia
municipale –come quello al vaglio della Sezione- si
presenta orfano dei delineati attributi per le carenze
contenutistiche appena tratteggiate” (TAR Campania–Napoli, Sez. III, 15.07.2014, n. 3942), poi riaffermando che
“il mero verbale di accertamento dell’inottemperanza alla
demolizione non ha valore e contenuto provvedimentale e non
si presentata dunque idoneo a ledere la sfera giuridica del
destinatario risolvendosi in un semplice accertamento di un
fatto, ossia la mancata ottemperanza all’ordine di
demolizione, come del resto la stessa giurisprudenza
riportata dal ricorrente afferma” (TAR Campania–Napoli, Sez. III, 16.11.2017, n. 5412).
3.2. Merita di essere osservato che l’avviso che il Collegio
ritiene di dover confermare in questa sede è pacifico in
giurisprudenza ed è espresso anche dal TAR Lazio, secondo
il quale “E' inammissibile il ricorso proposto avverso un
atto non caratterizzato da valenza provvedimentale, essendo
il verbale di accertamento di inottemperanza all'ordinanza
di demolizione privo di contenuto dispositivo nuovo,
limitandosi a constatare l'inadempimento all'ordine
demolitorio” (TAR Lazio-Roma, Sez. I, 04.05.2016,
n. 5123).
L’opzione è espressa anche dal Giudice d’appello, secondo il
quale “Il verbale di inottemperanza non ha di per sé natura
lesiva, altro non essendo che la constatazione della mancata
esecuzione di un ordine impartito nell'esercizio del potere sanzionatorio e, di conseguenza, la sua mancata impugnazione
non determina l'inammissibilità del ricorso avverso
l'ingiunzione di demolizione” (Cons. Giust. amm. Sicilia,
Sez. giurisd., 12.11.2008, n. 930)
Per le ragioni appena esposte il ricorso si prospetta
inammissibile dunque e tale va dichiarato (TAR
Campania-Napoli, Sez, III,
sentenza 14.03.2018 n. 1617 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo un pacifico orientamento
giurisprudenziale, il Comune, prima di rilasciare un titolo
edilizio, ha sempre l'onere di verificare la legittimazione
del richiedente, accertando che questi sia il proprietario
dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o che,
comunque, ne abbia un titolo di disponibilità sufficiente
per eseguire l'attività edificatoria.
---------------
L’intervento edilizio in questione incide –oltre che su un
sottotetto di cui è controversa la proprietà– sul tetto
dell’edificio.
Tale porzione dell’edificio, così come previsto dall’art.
1117 c.c., si presume essere parte comune; né la sig.ra Di
Mi. dispone di un titolo da cui risulti diversamente e che
provi in modo certo la sua proprietà esclusiva del tetto del
fabbricato.
Ad una tale conclusione è, invero, pervenuta la stessa
amministrazione comunale la quale, nel corso
dell’istruttoria tecnica, ha rilevato che “l’intervento
riguarda parti comuni”, in quanto “l’aspetto esterno
dell’edificio sarà modificato con la creazione del
terrazzo”.
La demolizione di una falda del tetto e la creazione del
terrazzo va indubbiamente a modificare l’architettura
generale e l’aspetto estetico dell’edificio ed è pertanto
subordinata, per pacifica giurisprudenza, all’assenso dei
comproprietari.
È, quindi, necessaria, ai sensi dell'art. 1120 del codice
civile, una apposita deliberazione dell'assemblea
condominiale, assunta con le maggioranze stabilite dall'art.
1136 dello stesso codice.
---------------
8. Con il
primo motivo, i ricorrenti contestano la legittimità del
titolo edilizio rilasciato alla sig.ra Ma.Ri. Di Mi. per
violazione dell’art. 11, d.P.R. n. 380/2001, degli artt.
1102 e 1117 e ss., c.c. per carenza assoluta di istruttoria
e di motivazione: le opere oggetto del permesso di costruire
riguarderebbero un sottotetto ed un tetto di proprietà
comune dei condomini e non esclusiva della controinteressata.
9. La censura è fondata.
9.1 Secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale, il
Comune, prima di rilasciare un titolo edilizio, ha sempre
l'onere di verificare la legittimazione del richiedente,
accertando che questi sia il proprietario dell'immobile
oggetto dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne
abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire
l'attività edificatoria (cfr., fra le tante, Consiglio di
Stato, sez. V, 04.04.2012 n. 1990).
L’intervento edilizio in questione incide –oltre che su un
sottotetto di cui è controversa la proprietà– sul tetto
dell’edificio.
Tale porzione dell’edificio, così come previsto dall’art.
1117 c.c., si presume essere parte comune; né la sig.ra Di
Mi. dispone di un titolo da cui risulti diversamente e che
provi in modo certo la sua proprietà esclusiva del tetto del
fabbricato.
Ad una tale conclusione è, invero, pervenuta la stessa
amministrazione comunale la quale, nel corso
dell’istruttoria tecnica, ha rilevato che “l’intervento
riguarda parti comuni”, in quanto “l’aspetto esterno
dell’edificio sarà modificato con la creazione del terrazzo”
(doc. n. 3 dell’amministrazione).
La demolizione di una falda del tetto e la creazione del
terrazzo va indubbiamente a modificare l’architettura
generale e l’aspetto estetico dell’edificio ed è pertanto
subordinata, per pacifica giurisprudenza, all’assenso dei
comproprietari (cfr. Cons. Stato, sez. V, 21.10.2003, n.
6529; TAR Trentino Alto Adige Bolzano, 27.02.2006, n. 81;
TAR Campania Napoli, sez. II, 27.05.2005, n. 7295).
È, quindi, necessaria, ai sensi dell'art. 1120 del codice
civile, una apposita deliberazione dell'assemblea
condominiale, assunta con le maggioranze stabilite dall'art.
1136 dello stesso codice (Tar Lombardia, Milano, sez. II,
11/07/2013, n. 1820).
9.2 Non può ritenersi che, nel caso di specie, tale consenso
sia stato prestato.
Dalla lettura del verbale dell’assemblea di condominio del
02.07.2012 si evince che l’intervento edilizio sottoposto
all’esame dell’assemblea, e dalla stessa approvato, era un
intervento di recupero di sottotetto. Il titolo abilitativo
successivamente richiesto, rilasciato nel dicembre 2013, ha
un oggetto differente e cioè la realizzazione di un
terrazzo.
Non si può ritenere che quest’ultimo intervento sia stato
assentito in quanto parte del più ampio intervento che
prevedeva il recupero del sottotetto, su cui si è espressa
l’assemblea: il verbale non fa, difatti, parola di un
intervento edilizio volto alla realizzazione, oltre che di
un sottotetto, anche di un terrazzo; né dal verbale risulta
che nel corso dell’assemblea sia stato sottoposto all’esame
dei condomini alcun progetto, e in particolare un progetto
che prevedesse la realizzazione di un terrazzo.
A tale conclusione è giunta la stessa amministrazione la
quale nel provvedimento del 05.11.2013 ha affermato come
dalla relazione proposta al condominio non emergesse
esplicitamente l’intenzione di realizzare un terrazzo.
L’assenso dei condomini è stato dunque espresso unicamente
con riferimento ad un generico intervento di recupero del
sottotetto ma non con riferimento al terrazzo oggetto del
permesso di costruire impugnato.
La necessità di un nuovo assenso da parte dei condomini è
stata, d’altro canto, rilevata dagli stessi uffici
dell’amministrazione comunale, proprio per la ragione che il
progetto in questione non coincideva con quello assentito
dall’assemblea condominiale (v. doc. n. 24 della
controinteressata).
Ciò rende ancor più palese il difetto di istruttoria che
vizia il permesso di costruire impugnato, per avere
l’amministrazione ritenuto sufficiente un mera trasmissione
del progetto all’amministratore del condominio ed avere,
quindi, rilasciato il titolo abilitativo in mancanza di una
manifestazione dell’assenso dei condomini e nonostante il
dissenso espressamente manifestato da alcuni di essi (doc.
nn. 5 e 11 dell’amministrazione) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.12.2014 n. 3062 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 06.12.2018 |
ã |
Debiti fuori bilancio:
azione di
indebito arricchimento (sempre) nei confronti
dell'ente locale oppure (solamente)
del soggetto fisico che ha ordinato la prestazione?? |
APPALTI: Senza
impegno di spesa paga personalmente il funzionario pubblico. I debiti fuori
bilancio e l'azione di arricchimento senza causa nei principi espressi dalla
Cassazione.
La Corte di Cassazione, Sez. I civile, con
ordinanza 20.11.2018 n. 29911 ha ribadito l’indirizzo
giurisprudenziale a tenore del quale il funzionario pubblico che abbia
attivato un impegno di spesa per l'ente locale senza l'osservanza dei
controlli contabili relativi alla gestione risponde degli effetti di tale
attività di spesa verso il terzo contraente, il quale è, pertanto, tenuto ad
agire direttamente e personalmente nei suoi confronti e non già in danno
dell'ente, essendo preclusa anche l'azione di ingiustificato arricchimento
per carenza del necessario requisito della sussidiarietà, che è esclusa
quando esista altra azione esperibile non solo contro l'arricchito, ma anche
verso persona diversa.
Per quanto attiene al procedimento di riconoscimento di un debito fuori
bilancio (previsto all’art. 194, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 267 del
2000, n. 267), secondo la Corte non può valere ad introdurre una sanatoria
per i contratti nulli o, comunque, invalidi -come quelli conclusi senza il
rispetto della forma scritta ad substantiam- ovvero a derogare al
regime di inammissibilità dell'azione di indebito arricchimento di cui
all’art. 23 del decreto-legge n. 66 del 1989.
Sul punto, peraltro, la Suprema Corte -nell'altra
ordinanza 21.11.2018 n. 30109 della I Sez. civile- ha precisato
quando può avvenire il riconoscimento dei debiti fuori bilancio affermando “che
resta esclusa l'azione di indebito arricchimento nei confronti dell'ente, il
quale può soltanto riconoscere a posteriori il debito fuori bilancio, ai
sensi dell'art. 194 del d.lgs. n. 267 del 2000 (cd. T.u.e.l.), nei limiti
dell'utilità e dell'arricchimento per l'ente stesso puntualmente dedotti e
dimostrati”.
Tale riconoscimento può avvenire solo espressamente, con apposita
deliberazione dell'organo competente, e non può essere desunto anche dal
mero comportamento tenuto dagli organi rappresentativi, essendo esso
insufficiente a esprimere un apprezzamento di carattere generale in ordine
alla conciliabilità dei relativi oneri con gli indirizzi di fondo della
gestione economico-finanziaria dell'ente e con le scelte amministrative
compiute.
Se ne ricava -conclude la Corte- che il funzionario pubblico non può
attivare un impegno di spesa per l'ente locale senza un previo contratto e
senza l'osservanza dei controlli contabili relativi alla gestione dello
stesso, ossia al di fuori dello schema procedimentale previsto dalle norme
cosiddette di evidenza pubblica
(commento tratto da www.ilquotidianodellapa.it). |
APPALTI:
E' inammissibile
la domanda di indebito arricchimento formulata contro il
comune in difetto di un'obbligazione derivante da un atto
contrattualmente vincolante per l'amministrazione.
Il contratto si rende necessario in
quanto il funzionario responsabile del servizio non può
altrimenti impegnare il comune sul piano delle obbligazioni
contrattuali.
---------------
In tema di assunzione di obbligazioni da
parte degli enti locali, qualora le obbligazioni contratte
non rientrino nello schema procedimentale di spesa, insorge
un rapporto obbligatorio direttamente con l'amministratore o
il funzionario che abbia consentito la prestazione, per
difetto del requisito della sussidiarietà, sicché resta
esclusa l'azione di indebito arricchimento nei confronti
dell'ente, il quale può soltanto riconoscere a posteriori il
debito fuori bilancio, ai sensi dell'art. 194 del d.lgs. n.
267 del 2000 (cd. T.u.e.l.), nei limiti dell'utilità e
dell'arricchimento per l'ente stesso puntualmente dedotti e
dimostrati.
Peraltro, tale riconoscimento può avvenire
solo espressamente, con apposita deliberazione dell'organo
competente, e non può essere desunto anche dal mero
comportamento tenuto dagli organi rappresentativi, essendo
esso insufficiente a esprimere un apprezzamento di carattere
generale in ordine alla conciliabilità dei relativi oneri
con gli indirizzi di fondo della gestione
economico-finanziaria dell'ente e con le scelte
amministrative compiute.
Se ne ricava che il funzionario pubblico
non può attivare un impegno di spesa per l'ente locale senza
un previo contratto e senza l'osservanza dei controlli
contabili relativi alla gestione dello stesso, ossia al di
fuori dello schema procedimentale previsto dalle norme
cosiddette di evidenza pubblica.
In simile eventualità, degli effetti di
tale attività di spesa verso il terzo risponde proprio e
soltanto il funzionario inadempiente, nei confronti del
quale, pertanto, è tenuto ad agire il terzo interessato.
L'azione di ingiustificato arricchimento
dell'ente locale è preclusa dalla carenza del necessario
requisito della sussidiarietà, notoriamente inesistente
quando vi sia un'altra azione esperibile non solo contro
l'arricchito ma anche verso un distinto soggetto.
---------------
Rilevato che:
- l'arch. Ge.Ma. ricorre per cassazione, con unico motivo,
avverso la sentenza della corte d'appello di Roma depositata
il 30.04.2013, non notificata, che ha rigettato il gravame
del medesimo nei confronti della decisione con la quale il
tribunale di Tivoli, per quanto ancora rileva, aveva
dichiarato inammissibile la domanda di indebito
arricchimento formulata contro il comune di Mentana,
relativamente alle prestazioni eseguite per il collaudo di
alcuni lavori di ristrutturazione della locale piazza C.A.
Dalla Chiesa;
- il comune ha replicato con controricorso;
- il ricorrente ha depositato una memoria.
Considerato che:
- con l'unico motivo il ricorrente denunzia la violazione o
falsa applicazione dell'art. 191, primo e quarto comma, del
T.u.e.l. e degli artt. 2041 e 2042 cod. civ., per avere la
corte d'appello affermato che la sussistenza dell'impegno
contabile assunto con la determinazione dirigenziale di
affidamento dell'incarico, recante l'indicazione del
capitolo di bilancio cui imputare la spesa con visto di
regolarità contabile, non integrava i presupposti per
l'applicazione della norma;
- nello specifico addebita alla Corte d'appello di essersi
avviluppata in una contraddizione, avendo dapprima stabilito
che il responsabile del servizio, conseguita l'esecutività
del provvedimento di spesa, doveva comunicare al terzo
l'impegno di copertura finanziaria e poi, invece, affermato
che, in mancanza di un atto contrattuale giuridicamente
vincolante per l'amministrazione, il funzionario operante
non poteva ordinare la prestazione;
- in termini concreti sostiene che l'avvenuta comunicazione
dell'impegno di spesa era ricavabile dalla fattura n. 2 del
2005, emessa dal ricorrente medesimo e recante i riferimenti
previamente comunicati;
- il motivo è in parte inammissibile, poiché non coglie la ratio
dell'impugnata sentenza, e in parte comunque infondato;
- occorre premettere che la corte d'appello ha accertato che la
prestazione era stata ordinata dal funzionario responsabile
del comune di Mentana in difetto di un'obbligazione
derivante da un atto contrattualmente vincolante per
l'amministrazione, mediante convocazione (risultante da
apposito verbale) della visita periodica di collaudo del
28.12.2004;
- la circostanza non è smentita dal ricorso e rende irrilevante la
questione dell'impegno contabile di spesa, visto che
l'impegno di spesa deve pur sempre conseguire a un atto
contrattuale giuridicamente vincolante per il comune;
- da questo punto di vista deve essere puntualizzato che
il contratto si rende necessario in quanto il
funzionario responsabile del servizio non può altrimenti
impegnare il comune sul piano delle obbligazioni
contrattuali;
- ora la ratio dell'impugnata sentenza si rinviene nella
negazione in tal guisa della possibilità di proporre
l'azione di indebito arricchimento contro l'ente locale, e
tanto è conforme alla giurisprudenza di questa Corte;
- infatti, in tema di assunzione di obbligazioni
da parte degli enti locali, qualora le obbligazioni
contratte non rientrino nello schema procedimentale di
spesa, insorge un rapporto obbligatorio direttamente con
l'amministratore o il funzionario che abbia consentito la
prestazione, per difetto del requisito della sussidiarietà,
sicché resta esclusa l'azione di indebito arricchimento nei
confronti dell'ente, il quale può soltanto riconoscere a
posteriori il debito fuori bilancio, ai sensi dell'art. 194
del d.lgs. n. 267 del 2000 (cd. T.u.e.l.), nei limiti
dell'utilità e dell'arricchimento per l'ente stesso
puntualmente dedotti e dimostrati
(cfr. per tutte Cass. n. 24860/2015, Cass. n. 12608/2017);
- peraltro, tale riconoscimento può avvenire solo
espressamente, con apposita deliberazione dell'organo
competente, e non può essere desunto anche dal mero
comportamento tenuto dagli organi rappresentativi (oltre
tutto nella specie neppure dedotto), essendo esso
insufficiente a esprimere un apprezzamento di carattere
generale in ordine alla conciliabilità dei relativi oneri
con gli indirizzi di fondo della gestione
economico-finanziaria dell'ente e con le scelte
amministrative compiute;
- se ne ricava che il funzionario pubblico non può
attivare un impegno di spesa per l'ente locale senza un
previo contratto e senza l'osservanza dei controlli
contabili relativi alla gestione dello stesso, ossia al di
fuori dello schema procedimentale previsto dalle norme
cosiddette di evidenza pubblica; e proprio questo nella
specie è stato accertato dal giudice del merito;
- in simile eventualità, degli effetti di tale
attività di spesa verso il terzo risponde proprio e soltanto
il funzionario inadempiente, nei confronti del quale,
pertanto, è tenuto ad agire il terzo interessato;
- l'azione di ingiustificato arricchimento
dell'ente locale è preclusa dalla carenza del necessario
requisito della sussidiarietà, notoriamente inesistente
quando vi sia un'altra azione esperibile non solo contro
l'arricchito ma anche verso un distinto soggetto
(cfr. Cass. n. 80/2017); (Corte
di Cassazione, Sez. I civile,
ordinanza 21.11.2018 n. 30109). |
APPALTI:
Chi ordina la prestazione, senza il preventivo impegno di
spesa, paga di tasca propria.
Il funzionario pubblico che abbia
attivato un impegno di spesa per l'ente locale senza
l'osservanza dei controlli contabili relativi alla gestione
dello stesso (ossia al di fuori dello schema procedimentale
previsto dalle norme ccdd. di evidenza pubblica), risponde,
ai sensi dell'art. 23, comma 4, del d.l. n. 66 del 1989,
conv., con modif., dalla l. n. 144 del 1989, degli effetti
di tale attività di spesa verso il terzo contraente, il
quale è, pertanto, tenuto ad agire direttamente e
personalmente nei suoi confronti e non già in danno
dell'ente, essendo preclusa anche l'azione di ingiustificato
arricchimento per carenza del necessario requisito della
sussidiarietà, che è esclusa quando esista altra azione
esperibile non solo contro l'arricchito, ma anche verso
persona diversa.
Né può ipotizzarsi una responsabilità dell'ente ex art. 28
Cost., in quanto tale norma presuppone che l'attività del
funzionario sia riferibile all'ente medesimo, mentre la
violazione delle regole contabili determina una frattura del
rapporto di immedesimazione organica con la pubblica
amministrazione.
Le ragioni fondanti l'indirizzo
summenzionato e, ancor prima, le disposizioni di legge
oggetto della censura in esame sono di tutta evidenza:
l'assunzione di impegni di spesa da parte degli enti locali
postula l'inderogabilità delle modalità procedimentali
imposte dall'art. 23 del decreto-legge n. 66 del 1989
(norma del resto inserita nel titolo IV dedicato al
risanamento finanziario delle gestioni locali),
desumibile sia dalla ratio (intesa
alla consapevole assunzione da parte degli enti locali degli
impegni di spesa), sia dalla rilevanza di ordine
pubblico della norma (diretta a garantire la correttezza
nella gestione amministrativa, il contenimento della spesa
pubblica e l'equilibrio economico-finanziario degli enti
locali), con la logica conseguenza che, in mancanza, il
rapporto obbligatorio non è riferibile all'ente, ma
intercorre, ai fini della controprestazione, tra il privato
e l'amministratore o funzionario che abbia assunto
l'impegno; tale inderogabilità non conosce eccezioni,
né il procedimento di riconoscimento di un debito
fuori bilancio, ex
art. 5 del d.lgs. 15.09.1997, n. 342, poi trasfuso nell'art.
194, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 267 del 2000, n. 267,
può valere ad introdurre una sanatoria per i
contratti nulli o, comunque, invalidi -come quelli conclusi
senza il rispetto della forma scritta ad substantiam- ovvero
a derogare al regime di inammissibilità dell'azione di
indebito arricchimento di cui al citato art. 23 del
decreto-legge n. 66 del 1989.
---------------
Il terzo contraente, nell'accettare
di eseguire lavori di somma urgenza, non può ignorare che,
ove successivamente non intervenga l'autorizzazione da parte
dell'ente, il rapporto contrattuale deve intendersi
intercorso direttamente con il funzionario (o
l'amministratore) ed assume, quindi, volontariamente il
rischio conseguente alla definitiva individuazione della
parte contraente (e patrimonialmente responsabile).
---------------
Ritenuto che:
4. con l'unico motivo di ricorso si deduce, in relazione
agli artt. 3, 24, 41, 42 e 97 Cost., l'illegittimità
costituzionale dell'art. 23, commi 3 e 4, del d.l. n. 66 del
1989, conv. con modif. dalla legge n. 144 del 1989, come
riprodotto nell'art. 191, commi 3 e 4, del d.lgs.
18.08.2000, n. 267, con riferimento alle spese disposte in
situazioni di somma urgenza: con varie argomentazioni parte
ricorrente sostiene, tra l'altro, che svincolare per legge
l'amministrazione dal rapporto obbligatorio «significa
rendere responsabile della spesa unicamente la persona
fisica di chi l'ha ordinata. Questo equivale sottrarre alla
garanzia patrimoniale del creditore il soggetto maggiormente
solvente -per l'oggettiva maggior consistenza della risorse
che, secondo l'id quod plerumque accidit, sono di titolarità
dell'ente, rispetto a quelle di uno stipendiato- e dunque
ridurre le possibilità di realizzo che normalmente
l'ordinamento assegna al creditore (art. 2740 c.c.). Ciò è
tanto più grave, in quanto la prestazione, se ricorrono le
condizioni dell'art. 2041 cod. civ., è resa oggettivamente
nell'interesse dell'Amministrazione, che però se ne
avvantaggerebbe a danno del fornitore, perché questi non
potrebbe agire più nei suoi confronti bensì unicamente nei
confronti del dipendente, con probabilistica incapienza e
comunque con un ingiustificato, rilevante aggravamento nel
realizzo» (p. 6 del ricorso); secondo il ricorrente, le
disposizioni in questione parificherebbero irragionevolmente
situazioni diverse sul piano della meritevolezza quali, da
un lato, quella del «fornitore che, senza alcuna
giustificazione, offre la propria prestazione in violazione
delle norme che disciplinano il procedimento di spesa»
e, dall'altro, quella del «fornitore che -in ragione
dello stato di necessità, fonte di legittimazione prevista e
tipizzata dalla legge- si rende disponibile a prestazioni,
peraltro da realizzarsi normalmente in condizioni non
particolarmente favorevoli», laddove invece, in ragione
della disponibilità manifestata alla P.A., il comportamento
del fornitore "solidale" (tale l'espressione usata in
ricorso) «andrebbe non solo riconosciuto ma addirittura
incentivato», sicché tanto l'appaltatore che ha operato
secondo la normativa ordinario quanto quello che ha operato
secondo la normativa emergenziale avrebbero «pari
legittimità» (pp. 6-7); sempre secondo il ricorrente, la
disciplina censurata avrebbe inoltre un effetto
disincentivante degli interventi di somma urgenza (ciò che
inciderebbe anche sui principi di buona amministrazione)
introducendo, in sostanza, un'esenzione di responsabilità
per le obbligazioni assunte dall'ente, laddove più opportuna
soluzione normativa sarebbe quella di prevedere la
responsabilità del funzionario direttamente nei confronti
dell'amministrazione (pp. 8-9);
5. la doglianza, veicolata con la proposizione di una questione
di legittimità costituzionale manifestamente infondata, non
ha pregio;
5.1. è consolidato l'indirizzo di legittimità -che in questa sede
non può non essere senz'altro confermato- secondo il quale «Il
funzionario pubblico che abbia attivato un impegno di spesa
per l'ente locale senza l'osservanza dei controlli contabili
relativi alla gestione dello stesso (ossia al di fuori dello
schema procedimentale previsto dalle norme ccdd. di evidenza
pubblica), risponde, ai sensi dell'art. 23, comma 4, del
d.l. n. 66 del 1989, conv., con modif., dalla l. n. 144 del
1989, degli effetti di tale attività di spesa verso il terzo
contraente, il quale è, pertanto, tenuto ad agire
direttamente e personalmente nei suoi confronti e non già in
danno dell'ente, essendo preclusa anche l'azione di
ingiustificato arricchimento per carenza del necessario
requisito della sussidiarietà, che è esclusa quando esista
altra azione esperibile non solo contro l'arricchito, ma
anche verso persona diversa. Né può ipotizzarsi una
responsabilità dell'ente ex art. 28 Cost., in quanto tale
norma presuppone che l'attività del funzionario sia
riferibile all'ente medesimo, mentre la violazione delle
regole contabili determina una frattura del rapporto di
immedesimazione organica con la pubblica amministrazione»
(per tutte, Sez. 1, 04.01.2017, n. 80);
5.2. le ragioni fondanti l'indirizzo summenzionato e, ancor prima,
le disposizioni di legge oggetto della censura in esame sono
di tutta evidenza: l'assunzione di impegni di spesa da parte
degli enti locali postula l'inderogabilità delle modalità
procedimentali imposte dall'art. 23 del decreto-legge n. 66
del 1989 (norma del resto inserita nel titolo IV dedicato al
risanamento finanziario delle gestioni locali), desumibile
sia dalla ratio (intesa alla consapevole
assunzione da parte degli enti locali degli impegni di
spesa), sia dalla rilevanza di ordine pubblico della
norma (diretta a garantire la correttezza nella gestione
amministrativa, il contenimento della spesa pubblica e
l'equilibrio economico-finanziario degli enti locali), con
la logica conseguenza che, in mancanza, il rapporto
obbligatorio non è riferibile all'ente, ma intercorre, ai
fini della controprestazione, tra il privato e
l'amministratore o funzionario che abbia assunto l'impegno;
tale inderogabilità non conosce eccezioni (come chiarito da
Sez. U, 18.12.2014, n. 26657 in fattispecie di spesa
interamente finanziata da altro ente pubblico), né il
procedimento di riconoscimento di un debito fuori bilancio,
ex art. 5 del d.lgs. 15.09.1997, n. 342, poi trasfuso
nell'art. 194, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 267 del
2000, n. 267, può valere ad introdurre una sanatoria per i
contratti nulli o, comunque, invalidi -come quelli conclusi
senza il rispetto della forma scritta ad substantiam-
ovvero a derogare al regime di inammissibilità dell'azione
di indebito arricchimento di cui al citato art. 23 del
decreto-legge n. 66 del 1989 (in tal senso Sez. 1,
27.01.2015, n. 1510);
5.3. a fronte di ciò, le argomentazioni, sopra riassunte, svolte da
parte ricorrente a supporto della pretesa illegittimità
costituzionale della norma obliterano del tutto sia la
dimensione pubblicistica degli interessi dalla stessa
presidiati, sia i principi in tema di corretta riferibilità
dell'attività degli agenti amministrativi all'ente pubblico
secondo lo schema dell'immedesimazione organica; per altro
verso, parte ricorrente offre una ricostruzione affatto
monca della fattispecie normativa trascurando tanto la
prevista regolarizzazione dell'ordine dei lavori di somma
urgenza a posteriori entro il termine stabilito (che
costituisce per la P.A. un preciso obbligo, la cui eventuale
violazione può essere fatta valere anche dal terzo
contraente in via di responsabilità precontrattuale: Corte
cost., ord. 06.02.2001, n. 26) quanto il dato
dell'effettività della tutela comunque riconosciuta -nella
cornice del bilanciamento degli interessi in gioco- al
privato contraente, pervenendo infine ad attingere
inammissibilmente il merito delle scelte legislative;
5.4. non può poi mancarsi di rilevare, da ultimo, che la Corte
costituzionale ha in più occasioni (sent. 24.10.1995, n.
446; sent. 30.07.1997, n. 295; ord. n. 26/2001 cit.)
dichiarato infondata la questione di legittimità
costituzionale dell'art. 23 cit. proposta dal ricorrente
proprio con riferimento al profilo della disparità di
trattamento nell'esecuzione dei lavori di somma urgenza,
significativamente osservando, tra l'altro, che «il terzo
contraente, nell'accettare di eseguire lavori di somma
urgenza, non può ignorare che, ove successivamente non
intervenga l'autorizzazione da parte dell'ente, il rapporto
contrattuale deve intendersi intercorso direttamente con il
funzionario (o l'amministratore) ed assume, quindi,
volontariamente il rischio conseguente alla definitiva
individuazione della parte contraente (e patrimonialmente
responsabile)» (cfr. Corte cost., nn. 295/1997 e 446/1995) (Corte
di Cassazione, Sez. I civile,
ordinanza 20.11.2018 n. 29911). |
INCARICHI PROGETTUALI:
Va esclusa l'esperibilità dell'azione d'ingiustificato
arricchimento nei confronti dell'ente in considerazione
della mancanza di una delibera comunale di riconoscimento
del debito fuori bilancio.
A norma del D.L. n. 66 del 1989,
art. 23 (convertito in L. n. 144 del 1989, riprodotto senza
sostanziali modifiche dal D.Lgs. n. 77 del 1995, art. 35, ed
ora rifluito nel D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 191), qualora
la richiesta di prestazioni e servizi proveniente da un
amministratore o un funzionario dell'ente locale non rientri
nello schema procedimentale di spesa tipizzato dal terzo
comma di tale disposizione, non sorgono obbligazioni a
carico dell'ente, bensì dell'amministratore o del
funzionario, i quali ne rispondono con il proprio
patrimonio, con la conseguente esclusione della
proponibilità dell'azione di indebito arricchimento nei
confronti dell'ente.
E' stato peraltro precisato che, ai sensi del D.Lgs. n. 267
del 2000, art. 194, comma 1, lett. e), il predetto principio
non esclude la facoltà dell'ente di riconoscere a posteriori
il debito fuori bilancio, con apposita deliberazione
consiliare, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità
ed arricchimento per l'ente stesso, nell'ambito
dell'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di
competenza, fermo restando che, in caso di mancato
riconoscimento, il rapporto contrattuale intercorre
unicamente tra il terzo contraente e il funzionario o
l'amministratore che ha autorizzato la prestazione, i quali
restano comunque soggetti all'azione diretta e rispondono
delle obbligazioni irregolarmente assunte nei limiti della
parte non riconosciuta mediante la procedura relativa alla
contabilizzazione dei debiti fuori bilancio.
---------------
In tema di assunzione di
obbligazioni da parte degli enti locali, agli effetti di
quanto disposto dall'art. 23, comma 4, del d.l. n. 66 del
1989 (convertito, con modificazioni nella 1. n. 144 del
1989), qualora le obbligazioni contratte non rientrino nello
schema procedimentale di spesa, insorge un rapporto
obbligatorio direttamente con l'amministratore o il
funzionario che abbia consentito la prestazione, per difetto
del requisito della sussidiarietà, sicché resta esclusa
l'azione di indebito arricchimento nei confronti dell'ente,
il quale può, comunque, riconoscere "a posteriori" il debito
fuori bilancio, ai sensi dell'art. 194 del d.lgs. n. 267 del
2000, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed
arricchimento per l'ente stesso.
Peraltro, tale
riconoscimento può avvenire solo espressamente, con apposita
deliberazione dell'organo competente, e non può essere
desunto anche dal mero comportamento tenuto dagli organi
rappresentativi, insufficiente ad esprimere un apprezzamento
di carattere generale in ordine alla conciliabilità dei
relativi oneri con gli indirizzi di fondo della gestione
economico-finanziaria dell'ente e con le scelte
amministrative compiute.
Invero, il riconoscimento del debito fuori
bilancio richiede, ai sensi dell'art. 194, D.Lgs. n. 267 del
2000 "un'apposita deliberazione dell'organo competente a
formare la volontà dell'ente, da allegarsi al bilancio di
esercizio, con cui quest'ultimo non deve limitarsi a dare
atto del vantaggio arrecato dalla prestazione, in relazione
all'espletamento di funzioni e servizi di competenza
dell'ente, ma deve procedere alla verifica dell'incidenza
del corrispettivo sugli equilibri generali di bilancio, e
adottare, in caso di alterazione degli stessi, le misure
necessarie a ripristinare il pareggio ed a ripianare il
debito, in tal modo compiendo una valutazione globale che
investe la compatibilità della prestazione ricevuta con la
situazione economico-finanziaria dell'ente e con gli impegni
già assunti sulla base delle risorse disponibili, nonché la
reperibilità dei fondi necessari per far fronte ad ulteriori
obblighi. A differenza di quella riguardante l'utilità della
prestazione, che può emergere anche dall'appropriazione del
relativo risultato da parte dell'Amministrazione, tale
valutazione non può evidentemente essere desunta dal mero
comportamento degli organi rappresentativi, che, in quanto
riferibile al singolo rapporto, risulta di per sé
insufficiente ad esprimere un apprezzamento di carattere
generale in ordine alla conciliabilità dei relativi oneri
con gl'indirizzi di fondo della gestione economico-
inanziaria dell'ente e con le scelte amministrative già
compiute".
Pertanto, la mancanza di una
formale deliberazione, adottata nelle forme prescritte del
cit. D.Lgs. n. 267, art. 193, comma 2, e art. 191, comma 4,
esclude "la stessa imputabilità dell'obbligazione
all'Amministrazione, prevedendo che il rapporto s'instauri
direttamente tra il privato fornitore e l'amministratore, il
funzionario o il dipendente che hanno consentito la
fornitura, i quali rispondono con il loro patrimonio, con la
conseguente esclusione dell'esperibilità dell'azione
d'ingiustificato arricchimento, per difetto del requisito
della sussidiarietà prescritto dall'art. 2042 c.c., il quale
presuppone che nessun'altra azione sia proponibile non solo
nei confronti dell'arricchito, ma anche nei confronti di
terzi".
Quindi, "la questione riguardante l'accertamento
dell'utilità della prestazione è destinata a porsi soltanto
nel caso in cui l'Amministrazione abbia espressamente
provveduto al riconoscimento del debito fuori bilancio,
assumendo a suo carico l'obbligazione nei limiti consentiti
dalle preminenti esigenze di salvaguardia degli equilibri di
bilancio, ovvero nel caso in cui il funzionario,
l'amministratore o il dipendente, responsabili nei confronti
dell'autore della prestazione, propongano a loro volta
l'azione di cui all'art. 2041 c.c., nei confronti
dell'Amministrazione".
---------------
1. Nel 2004, Ma.Si. convenne in giudizio il Comune di Vische
e Il.Ac., sindaco del predetto Comune nel periodo
1999- 2003, al fine di sentirli condannare, ai sensi
dell'art. 2041 c.c., al pagamento dell'indennizzo a lui
dovuto per i servizi professionali svolti in favore del
Comune di Vische, per un importo di € 14.798,40.
Si costituì il Comune di Vische, il quale contestò la
domanda, assumendo che i lavori erano stati svolti
dall'attore quale responsabile dell'ufficio tecnico e che
comunque non vi era stato alcun conferimento di incarico,
con la conseguenza che la domanda era improponibile nei
confronti del Comune.
Si costituì anche Il.Ac., eccependo il proprio
difetto di legittimazione passiva e chiedendo, nel merito,
il rigetto della domanda.
Il Tribunale di Ivrea, con la
sentenza n. 429/2010, condannò il Comune di Vische al
pagamento dell'importo richiesto, rilevando che era stato
dimostrato che lavori erano stati svolti a titolo di
incarico professionale, che l'esecuzione dei lavori era
stata approvata e comunque non era contestata, che il
quantum richiesto non era stato contestato e che il Comune
aveva tratto utilità dell'attività professionale
dell'attore.
Il Tribunale respinse invece la domanda proposta dall'attore
nei confronti di Il.Ac., non essendovi prova che
quest'ultimo avesse tratto vantaggio dall'opera
professionale dell'attore.
2. La decisione è stata riformata dalla Corte d'Appello di
Torino, con la sentenza n. 408 del 27.02.2014.
La Corte di Appello ha evidenziato che l'azione di
arricchimento senza causa nei confronti della pubblica
amministrazione presuppone non solo il fatto materiale
dell'esecuzione dell'opera o della prestazione vantaggiosa
per l'ente pubblico, ma anche il riconoscimento da parte di
questo dell'utilità dell'opera realizzata o del servizio
prestato, riconoscimento che, benché possa essere
implicitamente desumibile dall'utilizzazione dell'opera o
della prestazione consapevolmente attuata dai suoi organi
rappresentativi, non può essere compiuto, in sostituzione
dell'amministrazione, dal giudice.
Nel caso di specie, non essendovi mai stata, da parte del
Comune di Vischi, una formale delibera avente ad oggetto il
riconoscimento della legittimità del debito fuori bilancio,
il rapporto contrattuale sarebbe intercorso unicamente tra
il terzo contraente e il funzionario che ha autorizzato la
prestazione.
...
4.1. Con l'unico motivo di ricorso, il ricorrente
lamenta la "violazione e falsa applicazione dell'art. 2041
c.c. anche in relazione agli artt. 191, comma 4, e 194, comma 1,
lett. e), del D.Lgs. 267/2000".
La decisione della Corte di appello contrasterebbe con la
consolidata giurisprudenza di legittimità secondo cui, ai
fini dell'ammissibilità dell'azione di arricchimento senza
causa nei confronti della P.A., il riconoscimento
dell'utilità conseguita a mezzo della prestazione di un
privato si realizzerebbe con la mera utilizzazione della
prestazione stessa.
Quando è pacifica l'utilizzazione da parte dell'ente
pubblico della prestazione del privato, l'utilità e
conseguentemente il vantaggio e l'arricchimento della P.A.
sarebbe provato ed evidente e non vi sarebbe necessità del
riconoscimento del debito fuori bilancio, richiesto solo nel
caso in cui l'utilità e il vantaggio non siano palesi.
Nel caso di specie sarebbe stata pacificamente provata
l'utilità che il Comune di Vische ha tratto dalle
prestazioni del geom. Si., grazie alle quali sarebbero
stati eseguiti interventi di interesse pubblico.
Tali ultime circostanze non sarebbero state smentite dal
Comune di Vische il quale, pertanto, avrebbe ammesso i
fatti.
Il motivo è infondato.
In tema di assunzione d'impegni ed effettuazione di spese da
parte degli enti locali, la giurisprudenza di legittimità ha
da tempo affinato che, a norma del D.L. n. 66 del 1989,
art. 23 (convertito in L. n. 144 del 1989, riprodotto senza
sostanziali modifiche dal D.Lgs. n. 77 del 1995, art. 35, ed
ora rifluito nel D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 191), qualora
la richiesta di prestazioni e servizi proveniente da un
amministratore o un funzionario dell'ente locale non rientri
nello schema procedimentale di spesa tipizzato dal terzo
comma di tale disposizione, non sorgono obbligazioni a
carico dell'ente, bensì dell'amministratore o del
funzionario, i quali ne rispondono con il proprio
patrimonio, con la conseguente esclusione della
proponibilità dell'azione di indebito arricchimento nei
confronti dell'ente (cfr. tra le più recenti, Cass., Sez. 1,
30.10.2013, n. 24478; 26.05.2010, n. 12880; 22.05.2007, n. 11854).
E' stato peraltro precisato che, ai sensi del D.Lgs. n. 267
del 2000, art. 194, comma 1, lett. e), il predetto principio
non esclude la facoltà dell'ente di riconoscere a posteriori
il debito fuori bilancio, con apposita deliberazione
consiliare, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità
ed arricchimento per l'ente stesso, nell'ambito
dell'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di
competenza, fermo restando che, in caso di mancato
riconoscimento, il rapporto contrattuale intercorre
unicamente tra il terzo contraente e il funzionario o
l'amministratore che ha autorizzato la prestazione, i quali
restano comunque soggetti all'azione diretta e rispondono
delle obbligazioni irregolarmente assunte nei limiti della
parte non riconosciuta mediante la procedura relativa alla
contabilizzazione dei debiti fuori bilancio (cfr. Cass.,
Sez. 3, 18.04.2006, n. 8950; 31.05.2005, n. 11597).
Circa la possibilità che il riconoscimento del debito possa
essere anche desunto dalla condotta tenuta
dall'Amministrazione, si segnala un primo orientamento della
giurisprudenza di legittimità secondo cui il riconoscimento
dell'utilità della prestazione non richiede
necessariamente un'espressa deliberazione dell'organo
competente a formare la volontà dell'ente, ma può essere
desunto anche per implicito da fatti concludenti, e
segnatamente dalla consapevole utilizzazione della
prestazione, purché la stessa risulti ascrivibile agli
organi rappresentativi dell'ente, e quindi tale da rivelare
un positivo apprezzamento in ordine alla rispondenza
dell'opera all'interesse pubblico, nella cui valutazione,
avente carattere discrezionale, il giudice non può
sostituirsi alla Pubblica Amministrazione (cfr. ex plurimis,
Cass., Sez. 1, 07.03.2014, n. 5397; 18.04.2013, n.
9486; Cass., Sez. 3, 06.09.2012, n. 14939).
Recentemente, una pronuncia di questa Corte (Cass. civ. Sez.
I, 09/12/2015, n. 24860) ha disatteso il suddetto
ragionamento, affermando che in tema di assunzione di
obbligazioni da parte degli enti locali, agli effetti di
quanto disposto dall'art. 23, comma 4, del d.l. n. 66 del
1989 (convertito, con modificazioni nella 1. n. 144 del
1989), qualora le obbligazioni contratte non rientrino nello
schema procedimentale di spesa, insorge un rapporto
obbligatorio direttamente con l'amministratore o il
funzionario che abbia consentito la prestazione, per difetto
del requisito della sussidiarietà, sicché resta esclusa
l'azione di indebito arricchimento nei confronti dell'ente,
il quale può, comunque, riconoscere "a posteriori" il debito
fuori bilancio, ai sensi dell'art. 194 del d.lgs. n. 267 del
2000, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed
arricchimento per l'ente stesso.
Peraltro, tale
riconoscimento può avvenire solo espressamente, con apposita
deliberazione dell'organo competente, e non può essere
desunto anche dal mero comportamento tenuto dagli organi
rappresentativi, insufficiente ad esprimere un apprezzamento
di carattere generale in ordine alla conciliabilità dei
relativi oneri con gli indirizzi di fondo della gestione
economico-finanziaria dell'ente e con le scelte
amministrative compiute.
Secondo tale pronuncia, il riconoscimento del debito fuori
bilancio richiede, ai sensi dell'art. 194, D.Lgs. n. 267 del
2000 "un'apposita deliberazione dell'organo competente a
formare la volontà dell'ente, da allegarsi al bilancio di
esercizio, con cui quest'ultimo non deve limitarsi a dare
atto del vantaggio arrecato dalla prestazione, in relazione
all'espletamento di funzioni e servizi di competenza
dell'ente, ma deve procedere alla verifica dell'incidenza
del corrispettivo sugli equilibri generali di bilancio, e
adottare, in caso di alterazione degli stessi, le misure
necessarie a ripristinare il pareggio ed a ripianare il
debito, in tal modo compiendo una valutazione globale che
investe la compatibilità della prestazione ricevuta con la
situazione economico-finanziaria dell'ente e con gli impegni
già assunti sulla base delle risorse disponibili, nonché la
reperibilità dei fondi necessari per far fronte ad ulteriori
obblighi. A differenza di quella riguardante l'utilità della
prestazione, che può emergere anche dall'appropriazione del
relativo risultato da parte dell'Amministrazione, tale
valutazione non può evidentemente essere desunta dal mero
comportamento degli organi rappresentativi, che, in quanto
riferibile al singolo rapporto, risulta di per sé
insufficiente ad esprimere un apprezzamento di carattere
generale in ordine alla conciliabilità dei relativi oneri
con gl'indirizzi di fondo della gestione economico-
inanziaria dell'ente e con le scelte amministrative già
compiute".
Pertanto la Corte ha affermato che la mancanza di una
formale deliberazione, adottata nelle forme prescritte del
cit. D.Lgs. n. 267, art. 193, comma 2, e art. 191, comma 4,
esclude "la stessa imputabilità dell'obbligazione
all'Amministrazione, prevedendo che il rapporto s'instauri
direttamente tra il privato fornitore e l'amministratore, il
funzionario o il dipendente che hanno consentito la
fornitura, i quali rispondono con il loro patrimonio, con la
conseguente esclusione dell'esperibilità dell'azione
d'ingiustificato arricchimento, per difetto del requisito
della sussidiarietà prescritto dall'art. 2042 c.c., il quale
presuppone che nessun'altra azione sia proponibile non solo
nei confronti dell'arricchito, ma anche nei confronti di
terzi (cfr. Cass., Sez. 1, 30.10.2013, n. 24478; Cass.
14.10.2010, Cass. n. 21242; 22.05.2007, n. 11854)".
Secondo quest'ultimo orientamento cui si intende dare
seguito, quindi, "la questione riguardante l'accertamento
dell'utilità della prestazione è destinata a porsi soltanto
nel caso in cui l'Amministrazione abbia espressamente
provveduto al riconoscimento del debito fuori bilancio,
assumendo a suo carico l'obbligazione nei limiti consentiti
dalle preminenti esigenze di salvaguardia degli equilibri di
bilancio, ovvero nel caso in cui il funzionario,
l'amministratore o il dipendente, responsabili nei confronti
dell'autore della prestazione, propongano a loro volta
l'azione di cui all'art. 2041 c.c., nei confronti
dell'Amministrazione (cfr. Cass., Sez. 6, 23.01.2014,
n. 1391)".
In quest'ottica, non assumerebbe rilievo la pronuncia delle
Sezioni Unite di questa Corte n. 10798 del 26.05.2015,
nella quale si osserva, in via generale, che il
riconoscimento dell'utilità della prestazione da parte
dell'arricchito non costituisce requisito dell'azione di cui
all'art. 2041, e si afferma pertanto che l'esercizio di tale
azione nei confronti di un ente pubblico pone a carico
dell'attore l'onere di provare soltanto il fatto oggettivo
dell'arricchimento, senza che il convenuto possa opporre il
mancato riconoscimento dello stesso.
In tale occasione,
infatti, le Sezioni Unite hanno precisato che nel caso
sottoposto al loro esame non era in discussione la
sussistenza del requisito della sussidiarietà dell'azione,
non essendo applicabile ratione temporis la disciplina
dettata dal D.L. n. 66 del 1989, art. 23, che, in quanto non
avente efficacia retroattiva, non è riferibile a prestazioni
e servizi resi in epoca anteriore alla sua entrata in
vigore.
Nel caso di specie, è invece pacifico che l'incarico
professionale posto a fondamento della domanda è
assoggettabile alla disciplina dettata dagli artt. 191 e
segg. del D.Lgs. n. 267 del 2000, che, riproducendo quella
introdotta dal D.L. n. 66 del 1989, impone di accertare,
ancor prima del vantaggio arrecato dalla prestazione al
Comune, l'eventuale adozione di una delibera di
riconoscimento del debito fuori bilancio da parte del
Consiglio comunale.
Pertanto, la sentenza della Corte di Appello di Torino, che
ha escluso l'esperibilità dell'azione d'ingiustificato
arricchimento nei confronti dell'ente, in considerazione
della mancanza di una delibera comunale di riconoscimento
del debito di bilancio, è scevra da qualsiasi vizio
logico-giuridico (Corte di Cassazione, Sez. I civile,
ordinanza 19.05.2017 n. 12608). |
INCARICHI PROGETTUALI:
Sul pagamento, o meno,
dell'indennizzo dovuto per l'ingiustificato arricchimento
(da parte del comune) derivante da prestazioni professionali
rese, diverse ed ulteriori rispetto a quelle precedentemente
e legittimamente affidate, non costituenti oggetto di un
valido contratto essendo state conferite con lettera firmata
da un assessore e non recante la determinazione
dell'attività commissionata e del relativo compenso.
In tema di assunzione d'impegni ed
effettuazione di spese da parte degli enti locali, la
giurisprudenza di legittimità ha da tempo affermato che, a
norma dell'art. 23 del decreto-legge n. 66 del 1989
(convertito in legge n. 144 del 1989, riprodotto senza
sostanziali modifiche dall'art. 35 del d.lgs. n. 77 del 1995
ed ora rifluito nell'art. 191 del d.lgs. n. 267 del 2000),
qualora la richiesta di prestazioni e servizi proveniente da
un amministratore o un funzionario dell'ente locale non
rientri nello schema procedimentale di spesa tipizzato dal
terzo comma di tale disposizione, non sorgono obbligazioni a
carico dell'ente, bensì dell'amministratore o del
funzionario, i quali ne rispondono con il proprio
patrimonio, con la conseguente esclusione della
proponibilità dell'azione di indebito arricchimento nei
confronti dell'ente.
E' stato peraltro precisato che, ai sensi
dell'art. 194, primo comma, lett. e), del d.lgs. n. 267 del
2000, il predetto principio non esclude la facoltà dell'ente
di riconoscere a posteriori il debito fuori bilancio, con
apposita deliberazione consiliare, nei limiti degli
accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l'ente
stesso, nell'ambito dell'espletamento di pubbliche funzioni
e servizi di competenza, fermo restando che, in caso di
mancato riconoscimento, il rapporto contrattuale intercorre
unicamente tra il terzo contraente e il funzionario o
l'amministratore che ha autorizzato la prestazione, i quali
restano comunque soggetti all'azione diretta e rispondono
delle obbligazioni irregolarmente assunte nei limiti della
parte non riconosciuta mediante la procedura relativa alla
contabilizzazione dei debiti fuori bilancio.
---------------
La sentenza
impugnata ha richiamato il principio, fino ad oggi
costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità
in tema di indebito arricchimento,
secondo cui l'esercizio della relativa
azione nei confronti di una Pubblica Amministrazione postula
l'avvenuto riconoscimento dell'utilità della prestazione da
parte di quest'ultima, il quale non richiede necessariamente
un'espressa deliberazione dell'organo competente a formare
la volontà dell'ente, ma può essere desunto anche per
implicito da fatti concludenti, e segnatamente dalla
consapevole utilizzazione della prestazione, purché la
stessa risulti ascrivibile agli organi rappresentativi
dell'ente, e quindi tale da rivelare un positivo
apprezzamento in ordine alla rispondenza dell'opera
all'interesse pubblico, nella cui valutazione, avente
carattere discrezionale, il giudice non può sostituirsi alla
Pubblica Amministrazione.
Il predetto ragionamento non può essere
tuttavia condiviso, presupponendo un'evidente
sovrapposizione tra l'accertamento del beneficio tratto
dalla prestazione ricevuta, quale presupposto necessario per
il riconoscimento del diritto dell'attore all'indennizzo per
il sacrificio indebitamente sopportato dall'attore a
vantaggio dell'ente pubblico, ed il riconoscimento del
debito fuori bilancio, cui la legge subordina
l'instaurazione del rapporto obbligatorio con l'ente
pubblico.
Ai sensi dell'art. 194 del d.lgs. n. 267 del 2000,
tale riconoscimento richiede un'apposita
deliberazione dell'organo competente a formare la volontà
dell'ente, da allegarsi al bilancio di esercizio, con cui
quest'ultimo non deve limitarsi a dare atto del vantaggio
arrecato dalla prestazione, in relazione all'espletamento di
funzioni e servizi di competenza dell'ente, ma deve
procedere alla verifica dell'incidenza del corrispettivo
sugli equilibri generali di bilancio, e adottare, in caso di
alterazione degli stessi, le misure necessarie a
ripristinare il pareggio ed a ripianare il debito, in tal
modo compiendo una valutazione globale che investe la
compatibilità della prestazione ricevuta con la situazione
economico-finanziaria dell'ente e con gl'impegni già assunti
sulla base delle risorse disponibili, nonché la reperibilità
dei fondi necessari per far fronte ad ulteriori obblighi.
A differenza di quella riguardante
l'utilità della prestazione,
che può emergere anche dall'appropriazione del relativo
risultato da parte dell'Amministrazione,
tale valutazione non può evidentemente essere desunta dal
mero comportamento degli organi rappresentativi, che, in
quanto riferibile al singolo rapporto, risulta di per sé
insufficiente ad esprimere un apprezzamento di carattere
generale in ordine alla conciliabilità dei relativi oneri
con gl'indirizzi di fondo della gestione
economico-finanziaria dell'ente e con le scelte
amministrative già compiute.
In mancanza di una formale deliberazione,
adottata nelle forme prescritte dall'art. 193, secondo
comma, del d.lgs. n. 267 cit., l'art. 191, quarto comma,
esclude d'altronde la stessa imputabilità dell'obbligazione
all'Amministrazione, prevedendo che il rapporto s'instaura
direttamente tra il privato fornitore e l'amministratore, il
funzionario o il dipendente che hanno consentito la
fornitura, i quali rispondono con il loro patrimonio, con la
conseguente esclusione dell'esperibilità dell'azione
d'ingiustificato arricchimento, per difetto del requisito
della sussidiarietà prescritto dall'art. 2042 cod. civ., il
quale presuppone che nessun'altra azione sia proponibile non
solo nei confronti dell'arricchito, ma anche nei confronti
di terzi.
Per effetto di tale disciplina, la
questione riguardante l'accertamento dell'utilità della
prestazione è destinata a porsi soltanto nel caso in cui
l'Amministrazione abbia espressamente provveduto al
riconoscimento del debito fuori bilancio, assumendo a suo
carico l'obbligazione nei limiti consentiti dalle preminenti
esigenze di salvaguardia degli equilibri di bilancio, ovvero
nel caso in cui il funzionario, l'amministratore o il
dipendente, responsabili nei confronti dell'autore della
prestazione, propongano a loro volta l'azione di cui
all'art. 2041 cod. civ. nei confronti dell'Amministrazione.
---------------
1. — Gli arch. Vi.No. ed An.Ma.Ra. convennero in giudizio il
Comune di Grugliasco, per sentirlo condannare al pagamento
dell'indennizzo dovuto per l'ingiustificato arricchimento
derivante dalle prestazioni professionali da loro rese ai
fini della predisposizione del progetto di massima da
allegarsi alla richiesta di un finanziamento CEE per la
riqualificazione di un'area di proprietà del Comune di
Torino concessa in comodato all'Amministrazione convenuta.
Premesso che la riqualificazione dell'area aveva costituito
precedentemente oggetto di uno studio di fattibilità a loro
stesse commissionato dalla Giunta Municipale con delibera
del 27.05.1993 e regolarmente pagato, esposero che con
sentenza n. 495/1992, passata in giudicato, il Tribunale di
Torino aveva accertato che la redazione del progetto di
massima aveva formato oggetto di un distinto incarico,
conferito dall'Assessore ai lavori pubblici con lettera del
20.02.1995, ma aveva dichiarato nullo il contratto per
difetto di forma scritta, rigettando la domanda di pagamento
del compenso professionale.
1.1. — Con sentenza del 02.07.2004, il Tribunale di Torino
accolse la domanda, condannando il Comune al pagamento della
somma di Euro 36.798,01, oltre rivalutazione monetaria,
interessi al tasso annuo del 2% sull'importo via via
rivalutato ed interessi legali dalla data della sentenza.
2. — L'impugnazione proposta dal Comune di Grugliasco è
stata rigettata dalla Corte d'Appello di Torino con sentenza
del 21.03.2008.
Ha premesso la Corte che, come accertato dalla precedente
sentenza, l'incarico professionale posto a fondamento della
domanda, riguardante attività diverse ed ulteriori rispetto
a quelle affidate con la precedente delibera della Giunta
municipale, non aveva costituito oggetto di un valido
contratto, essendo stato conferito con lettera firmata da un
assessore e non recante la determinazione dell'attività
commissionata e del relativo compenso, ma era stato
regolarmente eseguito, essendo risultato che gli elaborati
progettuali consegnati dalle attrici non erano affetti dai
vizi lamentati dal Comune.
Ciò posto, ha osservato che l'art. 191 del d.lgs.
18.08.2000, n. 267, così come il precedente art. 35 del
d.lgs. 25.02.1995, n. 77 e l'art. 23 del decreto-legge
02.03.1989, convertito in legge 24.04.1989, n. 144, pur
subordinando l'effettuazione di spese da parte degli enti
territoriali alla deliberazione dell'impegno contabile da
parte dell'organo competente con attestazione della
copertura finanziaria, e prevedendo che in mancanza di tali
presupposti il rapporto obbligatorio intercorra
esclusivamente con la persona fisica che ha consentito la
fornitura, non esclude in ogni caso la responsabilità
dell'ente: l'art. 194, primo comma, lett. e), consente
infatti a quest'ultimo di sanare la frattura del rapporto
organico derivante dall'inosservanza della procedura
prescritta attraverso la formale acquisizione del rapporto
obbligatorio al proprio patrimonio, previa valutazione
dell'interesse pubblico e nei limiti dell'utilità
conseguita, con la conseguente legittimazione del privato
all'esercizio dell'azione d'ingiustificato arricchimento,
restando limitata l'azione contrattuale nei confronti del
pubblico funzionario alla sola ipotesi in cui non vi sia
stato il predetto riconoscimento.
Precisato inoltre che quest'ultimo può risultare anche da
fatti concludenti, purché imputabili agli organi
rappresentativi dell'ente, la Corte, per quanto ancora
interessa in questa sede, ha rilevato che nella specie
l'attività svolta dalle attrici era stata compiuta con
l'assistenza del personale tecnico del Comune, il quale,
oltre ad essersene avvalso per ottenere un finanziamento
comunitario, si era mostrato consapevole di aver recepito il
relativo risultato, essendosi limitato a contestare
l'autonomia dell'incarico rispetto a quello precedentemente
conferito, ed avendo comunque provveduto all'acquisizione
dell'elaborato con delibera dell'08.06.1995, con cui la
Giunta aveva approvato il progetto di riqualificazione
dell'area.
...
1. — Con l'unico motivo d'impugnazione, il Comune
denuncia la violazione e la falsa applicazione dell'art. 35
del d.lgs. n. 77 del 1995, degli artt. 191, comma quarto,
lett. e), e 194 del d.lgs. n. 267 del 2000 e dell'art. 2042
cod. civ., censurando la sentenza impugnata nella parte in
cui ha ritenuto configurabile la responsabilità
dell'Amministrazione pur in assenza di una specifica
deliberazione di riconoscimento del debito fuori bilancio
adottata dal Consiglio comunale.
Premesso infatti che le norme invocate, volte ad assicurare
che l'attività negoziale degli enti territoriali costituisca
espressione della volontà degli organi istituzionalmente
competenti, anche in funzione del contenimento della spesa
pubblica e della prevenzione della formazione di disavanzi,
hanno inciso profondamente sul rapporto tra l'ente, il
funzionario o l'amministratore ed il privato fornitore,
escludendo la riferibilità al primo delle obbligazioni
contratte al di fuori dello schema procedimentale previsto,
afferma che ai fini dell'ammissibilità dell'azione
d'ingiustificato arricchimento nei confronti
dell'Amministrazione non è sufficiente una generica
dichiarazione di utilità della prestazione, ma è necessaria
una delibera specificamente adottata ai sensi dell'art. 194
cit. Tale disposizione, individuando nel Consiglio comunale
l'unico organo competente a riconoscere il debito e ad
impegnare l'ente al pagamento, escludeva nella specie la
possibilità di ravvisare
un implicito riconoscimento nella delibera di approvazione
del progetto adottata dalla Giunta municipale, sprovvista di
competenza al riguardo.
1.1. — Il motivo è fondato.
In tema di assunzione d'impegni ed effettuazione di spese da
parte degli enti locali, la giurisprudenza di legittimità ha
da tempo affermato che, a norma dell'art. 23 del
decreto-legge n. 66 del 1989 (convertito in legge n. 144 del
1989, riprodotto senza sostanziali modifiche dall'art. 35
del d.lgs. n. 77 del 1995 ed ora rifluito nell'art. 191 del
d.lgs. n. 267 del 2000), qualora la richiesta di prestazioni
e servizi proveniente da un amministratore o un funzionario
dell'ente locale non rientri nello schema procedimentale di
spesa tipizzato dal terzo comma di tale disposizione, non
sorgono obbligazioni a carico dell'ente, bensì
dell'amministratore o del funzionario, i quali ne rispondono
con il proprio patrimonio, con la conseguente esclusione
della proponibilità dell'azione di indebito arricchimento
nei confronti dell'ente (cfr. tra le più recenti, Cass.,
Sez. I, 30.10.2013, n. 24478; 26.05.2010, n. 12880;
22.05.2007, n. 11854).
E' stato peraltro precisato che, ai sensi dell'art. 194,
primo comma, lett. e), del d.lgs. n. 267 del 2000, il
predetto principio non esclude la facoltà dell'ente di
riconoscere a posteriori il debito fuori bilancio, con
apposita deliberazione consiliare, nei limiti degli
accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l'ente
stesso, nell'ambito dell'espletamento di pubbliche funzioni
e servizi di competenza, fermo restando che, in caso di
mancato riconoscimento, il rapporto contrattuale intercorre
unicamente tra il terzo contraente e il funzionario o
l'amministratore che ha autorizzato la prestazione, i quali
restano comunque soggetti all'azione diretta e rispondono
delle obbligazioni irregolarmente assunte nei limiti della
parte non riconosciuta mediante la procedura relativa alla
contabilizzazione dei debiti fuori bilancio (cfr. Cass.,
Sez. III, 18.04.2006, n. 8950; 31.05.2005, n. 11597).
Nel porre a fondamento della decisione il citato
orientamento, la Corte di merito ha ritenuto che il
riconoscimento del debito potesse essere desunto anche dalla
condotta tenuta dall'Amministrazione comunale: ha infatti
rilevato che quest'ultima aveva consapevolmente recepito i
risultati dell'incarico professionale conferito alle
attrici, sia attraverso l'ausilio e l'assistenza prestata
alle attrici dal suo personale tecnico, sia mediante
l'utilizzazione del progetto di massima per il conseguimento
di un finanziamento comunitario, ritenendo a tal fine
decisiva la delibera adottata l'08.06.1995, con cui la
Giunta municipale aveva espressamente approvato l'elaborato,
disponendone la trasmissione alla Regione Piemonte a corredo
della richiesta del contributo.
A sostegno di tali conclusioni, la sentenza impugnata ha
richiamato il principio, fino ad oggi costantemente ribadito
dalla giurisprudenza di legittimità in tema di indebito
arricchimento, secondo cui l'esercizio della relativa azione
nei confronti di una Pubblica Amministrazione postula
l'avvenuto riconoscimento dell'utilità della prestazione da
parte di quest'ultima, il quale non richiede necessariamente
un'espressa deliberazione dell'organo competente a formare
la volontà dell'ente, ma può essere desunto anche per
implicito da fatti concludenti, e segnatamente dalla
consapevole utilizzazione della prestazione, purché la
stessa risulti ascrivibile agli organi rappresentativi
dell'ente, e quindi tale da rivelare un positivo
apprezzamento in ordine alla rispondenza dell'opera
all'interesse pubblico, nella cui valutazione, avente
carattere discrezionale, il giudice non può sostituirsi alla
Pubblica Amministrazione (cfr. ex plurimis, Cass.,
Sez. I, 07.03.2014, n. 5397; 18.04.2013, n. 9486; Cass.,
Sez. III, 06.09.2012, n. 14939).
Il predetto ragionamento non può essere tuttavia condiviso,
presupponendo un'evidente sovrapposizione tra l'accertamento
del beneficio tratto dalla prestazione ricevuta, quale
presupposto necessario per il riconoscimento del diritto
dell'attore all'indennizzo per il sacrificio indebitamente
sopportato dall'attore a vantaggio dell'ente pubblico, ed il
riconoscimento del debito fuori bilancio, cui la legge
subordina l'instaurazione del rapporto obbligatorio con
l'ente pubblico.
Ai sensi dell'art. 194 del d.lgs. n. 267 del 2000, tale
riconoscimento richiede un'apposita deliberazione
dell'organo competente a formare la volontà dell'ente, da
allegarsi al bilancio di esercizio, con cui quest'ultimo non
deve limitarsi a dare atto del vantaggio arrecato dalla
prestazione, in relazione all'espletamento di funzioni e
servizi di competenza dell'ente, ma deve procedere alla
verifica dell'incidenza del corrispettivo sugli equilibri
generali di bilancio, e adottare, in caso di alterazione
degli stessi, le misure necessarie a ripristinare il
pareggio ed a ripianare il debito, in tal modo compiendo una
valutazione globale che investe la compatibilità della
prestazione ricevuta con la situazione economico-finanziaria
dell'ente e con gl'impegni già assunti sulla base delle
risorse disponibili, nonché la reperibilità dei fondi
necessari per far fronte ad ulteriori obblighi.
A differenza di quella riguardante l'utilità della
prestazione, che può emergere anche dall'appropriazione del
relativo risultato da parte dell'Amministrazione, tale
valutazione non può evidentemente essere desunta dal mero
comportamento degli organi rappresentativi, che, in quanto
riferibile al singolo rapporto, risulta di per sé
insufficiente ad esprimere un apprezzamento di carattere
generale in ordine alla conciliabilità dei relativi oneri
con gl'indirizzi di fondo della gestione
economico-finanziaria dell'ente e con le scelte
amministrative già compiute.
In mancanza di una formale deliberazione, adottata nelle
forme prescritte dall'art. 193, secondo comma, del d.lgs. n.
267 cit., l'art. 191, quarto comma, esclude d'altronde la
stessa imputabilità dell'obbligazione all'Amministrazione,
prevedendo che il rapporto s'instaura direttamente tra il
privato fornitore e l'amministratore, il funzionario o il
dipendente che hanno consentito la fornitura, i quali
rispondono con il loro patrimonio, con la conseguente
esclusione dell'esperibilità dell'azione d'ingiustificato
arricchimento, per difetto del requisito della sussidiarietà
prescritto dall'art. 2042 cod. civ., il quale presuppone che
nessun'altra azione sia proponibile non solo nei confronti
dell'arricchito, ma anche nei confronti di terzi (cfr. Cass.,
Sez. I, 30.10.2013, n. 24478; 14.10.2010, n. 21242;
22.05.2007, n. 11854).
Per effetto di tale disciplina, la questione riguardante
l'accertamento dell'utilità della prestazione è destinata a
porsi soltanto nel caso in cui l'Amministrazione abbia
espressamente provveduto al riconoscimento del debito fuori
bilancio, assumendo a suo carico l'obbligazione nei limiti
consentiti dalle preminenti esigenze di salvaguardia degli
equilibri di bilancio, ovvero nel caso in cui il
funzionario, l'amministratore o il dipendente, responsabili
nei confronti dell'autore della prestazione, propongano a
loro volta l'azione di cui all'art. 2041 cod. civ. nei
confronti dell'Amministrazione (cfr. Cass., Sez. VI,
23.01.2014, n. 1391).
In quest'ottica, nessun rilievo può assumere neppure la
recente pronuncia con cui le Sezioni Unite di questa Corte,
componendo un contrasto di giurisprudenza insorto tra le
Sezioni semplici in tema d'ingiustificato arricchimento
della Pubblica Amministrazione, hanno sottoposto a revisione
l'orientamento in precedenza richiamato,
osservando in via generale che il riconoscimento
dell'utilità della prestazione da parte dell'arricchito non
costituisce requisito dell'azione di cui all'art. 2041, ed
affermando pertanto che l'esercizio di tale azione nei
confronti di un ente pubblico pone a carico dell'attore
l'onere di provare soltanto il fatto oggettivo
dell'arricchimento, senza che il convenuto possa opporre il
mancato riconoscimento dello stesso, ferma restando la
possibilità di eccepire e provare che, in quanto non voluto
o non consapevole, la fattispecie è configurabile come
arricchimento imposto (cfr. Cass., Sez. Un., 26.05.2015, n.
10798).
Nell'affermare tale principio, le Sezioni Unite hanno
d'altronde avvertito l'esigenza di precisare che nel caso
sottoposto al loro esame non era in discussione la
sussistenza del requisito della sussidiarietà dell'azione,
non essendo applicabile ratione temporis la
disciplina dettata dall'art. 23 del decreto-legge n. 66 del
1989, che, in quanto non avente efficacia retroattiva, non è
riferibile a prestazioni e servizi resi in epoca anteriore
alla sua entrata in vigore.
Nella specie, è invece pacifico che l'incarico professionale
posto a fondamento della domanda fu conferito ed eseguito
dopo l'entrata in vigore del d.lgs. n. 267 del 2000, con la
conseguente assoggettabilità alla disciplina dettata dagli
artt. 191 e ss. di tale decreto, che, riproducendo quella
introdotta dal decreto-legge n. 66 del 1989, avrebbe imposto
alla Corte di merito di accertare, ancor prima del vantaggio
arrecato dalla prestazione al Comune, l'eventuale adozione
di una delibera di riconoscimento del debito fuori bilancio
da parte del Consiglio comunale (Corte di Cassazione, Sez. I
civile,
sentenza 09.12.2015 n. 24860). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 49 del 06.12.2018, "Legge di
revisione normativa e di semplificazione 2018" (L.R.
04.12.2018 n. 17).
---------------
Di particolare interesse si leggano:
Titolo I –
Ambito istituzionale
●
Art. 6 - Proroga dei termini per l’aggiornamento dell’individuazione e
classificazione dei piccoli comuni e della classificazione del territorio
montano della Lombardia
Titolo
III – Ambito territoriale
●
Art. 19 - Modifica dell’articolo 5 della l.r. 10/2009
1. All’articolo 5 della legge regionale 29.06.2009, n. 10
(Disposizioni in materia di ambiente e servizi di interesse economico
generale – collegato ordinamentale) sono apportate le seguenti modifiche:
...
● Art. 20 - Modifiche
alla l.r. 4/2016
1. Alla legge regionale 15.03.2016, n. 4 (Revisione della
normativa regionale in materia di difesa del suolo, di prevenzione e
mitigazione del rischio idrogeologico e di gestione dei corsi d'acqua) sono
apportate le seguenti modifiche: ...
● Art. 22 - Disposizioni
in materia di valutazione di impatto ambientale. Modifica degli articoli 3,
6, 11 e inserimento del nuovo articolo 5-bis della l.r. 5/2010
1. Alla legge regionale 02.02.2010, n. 5 (Norme in materia
di valutazione di impatto ambientale) sono apportate le seguenti modifiche:
...
● Art. 25 - Adeguamento
dei regolamenti edilizi comunali
● Art. 26 - Modifica alla
l.r. 31/2014
1. Alla legge regionale 28.11.2014, n. 31 (Disposizioni per
la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo
degradato) è apportata la seguente modifica: ...
●
Art. 27 - Modifica alla l.r. 12/2005
1. Alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il
governo del territorio) è apportata la seguente modifica: ... |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 49 del 06.12.2018, "Nomina della
commissione regionale in materia di opere o di costruzioni e relativa
vigilanza in zone sismiche (l.r. 33/2015 e ss.mm.ii., art. 4, comma 2 –
D.g.r. 5001/2016, all. L)" (deliberazione
G.R. 03.12.2018 n. 943). |
LAVORI PUBBLICI:
G.U. 03.12.2018 n. 281 "Testo
del decreto-legge 04.10.2018, n. 113, coordinato con la legge di conversione
01.12.2018, n. 132, recante: «Disposizioni urgenti in materia
di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché
misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e
il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la
destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata»".
---------------
Di particolare interesse, si leggano:
● Articolo 25 -
Sanzioni in materia di subappalti illeciti
● Articolo 26 - Monitoraggio dei cantieri |
EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 03.12.2018 n. 281 "Approvazione di norme tecniche di prevenzione
incendi per le attività commerciali, ove sia prevista la vendita e
l’esposizione di beni, con superficie lorda superiore a 400 mq, comprensiva
di servizi, depositi e spazi comuni coperti, ai sensi dell’articolo 15, del
decreto legislativo 08.03.2006, n. 139 - modifiche al decreto 03.08.2015" (Ministero
dell'Interno,
decreto 23.11.2018). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Oggetto: Chiarimenti in materia di attuazione della conferenza di servizi
(circolare
03.12.2018 n. 4/2018). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI: V.
Salamone,
Le misure di mitigazione degli effetti delle
interdittive antimafia (art. 32, comma 10, del decreto legge 24.06.2014 n.
90 ed art. 34-bis del Codice antimafia
(04.12.2018 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Sommario: 1 - Informativa antimafia ed effetti sui contratti e sui
rapporti in corso nel codice antimafia; 2 - La disciplina degli effetti nei
due codici dei contratti; 3 - Interdittive antimafia e raggruppamenti
temporanei di imprese; 4 - L'articolo 32 del decreto legge 24.06.2014 n. 90
in tema di commissariamento delle imprese; 5 - I presupposti per le misure
straordinarie; 6 - Competenza territoriale del Prefetto e procedimento; 7 -
La tipologia dei provvedimenti adottabili; 8 - La cessazione degli effetti
delle misure straordinarie; 9 - I rapporti con la disciplina del decreto
legislativo 08.06.2001, n. 231; 10 - La casistica giurisprudenziale; 11 -
L’amministrazione ed il controllo giudiziario (artt. 34 e 34-bis codice
antimafia). Le ragioni della disciplina innovativa della legge del
17.10.2017, n. 161; 12 - L’amministrazione giudiziaria; 13 - Il controllo
giudiziario; 14 - La prima giurisprudenza applicativa; 15 - Il rapporto tra
il controllo giudiziario e l’efficacia dell‘interdittiva antimafia. |
QUESITI & PARERI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Fondo
risorse decentrate e accantonamento 0.20%.
Domanda
Questo Ente non ha mai integrato il fondo per la quota dell’0,20 monte
salari 2001 ai sensi dell’art. 32, comma 7, CCNL 22/01/2004. Come deve agire
a questo punto?
Risposta
Proprio in questi giorni, l’ARAN con parere CFL7/2018 ha suggerito la via da
seguire agli Enti che non avevano né stanziato né accantonato lo 0,20% del
MS 2001.
Se le risorse di cui all’art. 32, comma 7, del CCNL del Comparto
Regioni-Autonomie Locali del 22.01.2004 non erano già state stanziate
dall’Ente negli anni precedenti, come pure disposto dalla richiamata
disciplina contrattuale e ribadito dalla dichiarazione congiunta n. 1,
allegata al CCNL del 09.05.2006, allora le stesse non possono in alcun modo
essere inserite nella parte stabile del Fondo di cui all’art. 67, comma 1,
del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018.
In proposito, tuttavia, si ritiene opportuno rilevare che, come già
evidenziato in precedenti orientamenti applicativi predisposti in materia,
qualora l’ente dovesse riconoscere un proprio errore nel procedimento di
calcolo e di quantificazione delle singole voci di alimentazione delle
risorse decentrate, potrebbe eventualmente, procedere, secondo criteri di
correttezza e buona fede, ad un eventuale intervento correttivo, nel
rispetto evidentemente delle clausole negoziali che le prevedono e
disciplinano.
In materia, interverranno i medesimi soggetti che ordinariamente provvedono
e sovrintendono alla quantificazione delle risorse destinate alla
contrattazione integrativa: i competenti uffici dell’ente nonché i revisori
dei conti.
L’ente deve anche procedere ad un ulteriore adempimento in quanto deve
comunicare alla Ragioneria Generale dello Stato del Ministero dell’Economia
e delle Finanze le modifiche intervenute, per effetto del ricalcolo,
nell’ammontare delle risorse decentrate al fine della necessaria variazione
dei dati del Conto annuale, eventualmente evidenziando anche le ragioni
giustificative dello stesso.
Data la rilevanza di tale fattispecie di ricalcolo con effetto retroattivo
delle risorse decentrate, anche ai fini del rispetto dei vincoli legislativi
di finanza pubblica intervenuti anche in passato in materia e venendo in
considerazione una problematica concernente comunque le modalità applicative
di specifiche disposizioni di legge, ulteriori indicazioni possono essere
utilmente acquisite anche dal Ministero dell’Economia e delle Finanze,
istituzionalmente competente per l’interpretazione delle norme di legge
concernenti il rapporto di lavoro pubblico.
Per il rispetto dei vincoli normativi relativi al salario accessorio,
introdotti già dall’art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78/2010, a nostro
avviso probabilmente occorrerà anche operare un ricalcolo dei fondi
dall’anno 2010 in poi
(06.12.2018 - tratto da e link a www.publika.it). |
APPALTI:
Iscrizione interna dei commissari.
Domanda
Quali sono le modalità per l’iscrizione presso l’Albo nazionale dei
componenti delle commissioni giudicatrici dei commissari interni al comune?
Risposta
La risposta al quesito consiste in una guida scaricabile in formato PDF
cliccando qui (05.12.2018 - tratto da e link a
www.publika.it). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO:
Pantouflage e incarichi art. 110.
Domanda
Nel nostro comune abbiamo assunto un dirigente a contratto, ex art. 110 TUEL,
il cui incarico scadrà nella primavera del 2019.
L’istituto del “pantouflage” si applica anche in questa ipotesi o
solo ai dipendenti a tempo indeterminato che cessano dal servizio?
Risposta
Il “pantouflage” o ”revolving doors” (traduzione: porte
girevoli) è un istituto introdotto nel nostro ordinamento dalla legge
06.11.2012, n. 190, ed è disciplinato all’art. 53, comma 16-ter, del Testo
Unico sul pubblico impiego, d.lgs. 30.03.2001, n. 165.
In virtù della disposizione de quo “i dipendenti dell’Ente che nel
corso degli ultimi tre anni di servizio hanno esercitato poteri autoritativi
o negoziali per conto dell’amministrazione, non possono svolgere nei tre
anni successivi alla cessazione del rapporto di pubblico impiego, attività
lavorativa o professionale presso i soggetti privati destinatari
dell’attività dell’Ente svolta attraverso i medesimi poteri”; pena, la
nullità dei contratti di lavoro conclusi e degli incarichi conferiti in
violazione della norma, oltre che il divieto, per i soggetti privati che
hanno concluso illegittimamente i contratti o conferiti incarichi, di
contrattare con l’amministrazione pubblica nei tre anni successivi.
Esso costituisce, per il legislatore e l’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC),
misura di prevenzione della corruzione essendo finalizzato ad evitare –o
quantomeno, a ridurre il rischio– che un dipendente pubblico, nello
svolgimento della propria attività istituzionale, possa precostituirsi una
situazione favorevole per essere successivamente destinatario di incarichi
dirigenziali e/o di consulenza. Viene, pertanto, limitata la libertà
negoziale del dipendente per un determinato periodo successivo alla
cessazione del rapporto di lavoro pubblico, al fine di eliminare la “convenienza”
di accordi fraudolenti.
Ad integrare il disposto normativo, sicuramente non esaustivo, ci ha pensato
in questi anni l’Autorità Nazionale Anticorruzione con interpretazioni e
direttive in materia. Già l’allora Civit (Commissione indipendente per la
valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche),
invero, con il primo Piano Nazionale Anticorruzione, approvato con
deliberazione n. 72/2013, aveva fornito chiarimenti sui confini e l’ambito
di applicazione della norma specificando che i dipendenti interessati “sono
coloro che per il ruolo e la posizione ricoperti nell’amministrazione hanno
avuto il potere di incidere in maniera determinante sulla decisione oggetto
dell’atto e, quindi coloro che hanno esercitato la potestà o il potere
negoziale con riguardo allo specifico procedimento o procedura”; ed
ancora, sempre in riferimento all’applicabilità dell’istituto, che non
rilevava tanto la causa di cessazione del dipendente (comprendendosi anche
il collocamento dello stesso in quiescenza per raggiungimento dei requisiti
di accesso alla pensione), quanto la forma contrattuale del nuovo impiego,
non essendo ammesso né il rapporto di lavoro autonomo, né quello
subordinato.
Nulla era stato specificato, invece, in sede di prima attuazione, sulla
questione oggetto del quesito sottoposto: e cioè se il vincolo imposto dalla
norma valesse per tutti i dipendenti o solo per quelli incardinati in
maniera stabile all’interno dell’amministrazione.
Sul punto è di recente ritornata l’ANAC con l’ultimo aggiornamento al PNA,
tuttora in consultazione, stabilendo che “una limitazione ai soli
dipendenti con contratto a tempo indeterminato sarebbe in contrasto con la
ratio della norma, volta a evitare condizionamenti nell’esercizio di
funzioni pubbliche e sono pertanto da ricomprendersi anche i soggetti legati
alla pubblica amministrazione da un rapporto di lavoro a tempo determinato o
autonomo”.
Nello stabilire ciò l’Autorità ha inoltre richiamato un suo precedente
parere (n. 2 del 04.02.2015), con il quale aveva chiarito la portata
dell’art. 53, comma 16-ter, d.lgs. 30.03.2001, n. 165, affermando che
un’interpretazione della norma limitata esclusivamente ai dipendenti a tempo
indeterminato non fosse in linea con il disposto dell’art. 21, del d.lgs.
08.04.2013, n. 39 (recante «disposizioni in materia di inconferibilità e
incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso
gli enti privati in controllo pubblico, a norma dell’art. 1, commi 49 e 50,
della legge n. 190/2012»), a tenore del quale «ai soli fini
dell’applicazione dei divieti di cui al comma 16-ter dell’articolo 53 del
decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni, sono
considerati dipendenti delle pubbliche amministrazioni anche i soggetti
titolari di uno degli incarichi di cui al presente decreto, ivi compresi i
soggetti esterni con i quali l’amministrazione, l’ente pubblico o l’ente di
diritto privato in controllo pubblico stabilisce un rapporto di lavoro,
subordinato o autonomo. Tali divieti si applicano a far data dalla
cessazione dell’incarico».
Alla luce di tutto quanto sin qui esposto, rientrando l’incarico
dirigenziale, ex art. 110 TUEL 267/2000, nell’alveo degli incarichi a tempo
determinato di tipo subordinato, si risponde in modo affermativo al quesito
posto. Da ciò discende, infine, l’obbligo per l’ente, di specificare tale
situazione sin dall’emanazione dell’avviso pubblico necessario allo
svolgimento della selezione propedeutica all’instaurazione del rapporto di
lavoro (04.12.2018 - tratto da e link a www.publika.it). |
CORTE DEI CONTI |
PUBBLICO
IMPIEGO: Danno
erariale al dipendente che altera le timbrature del cartellino.
Il dipendente pubblico che attesta falsamente la presenza in ufficio con la
reiterata manipolazione delle rilevazioni registrate dal sistema informatico
viola un fondamentale obbligo di servizio, rappresentato dal dovere di
fornire la prestazione di lavoro secondo le condizioni previste dal rapporto
di impiego con la Pa, cagionando alle pubbliche finanze un danno pari alla
retribuzione indebitamente erogata.
Con la
sentenza 06.09.2018 n. 110, la Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per
l'Abruzzo, riporta in primo piano il tema dei «furbetti del cartellino», che
tempo fa ha visto una stretta di rigore con il Dlgs 116/2016, il quale ha
introdotto maggiori responsabilità per i dirigenti tenuti a vigilare
sull'operato dei loro collaboratori, nonché tempi più celeri per il
procedimento disciplinare e la possibilità di condannare il pubblico
dipendente al risarcimento del danno all'immagine della Pa.
La vicenda
Nel caso in esame, la Procura regionale ha chiamato in giudizio un
dipendente dell'Inps rispetto al quale la direzione dell'istituto di
previdenza aveva segnalato, nell'ambito di verifiche dei sistemi di gestione
del personale, una serie di anomalie riscontrate nella rilevazione delle
presenze in ufficio. Anomalie che, secondo la relazione dell'istituto, non
potevano che essere frutto di manomissioni sul sistema da parte
dell'interessato, al preciso fine di alterare gli orari di ingresso e uscita
risultanti dall'orologio marcatempo. La circostanza aggravante di questa
condotta illecita era il lungo arco di tempo poiché le irregolarità si sono
protratte per anni (dal 2004 al 2015).
A fronte delle deboli eccezioni opposte dalla difesa dell'imputato –prescrizione parziale del danno erariale, ipotizzato malfunzionamento degli
orologi marcatempo, asserite «prove tecniche» di timbratura per verificare
il corretto ripristino dell'apparecchiatura)– il collegio non ravvisa i
presupposti per attenuare la responsabilità del convenuto, al quale viene
ascritto un illecito di singolare gravità per il fatto che, come si legge
nella sentenza, «le alterazioni del sistema di registrazione delle presenze
apparivano, all'evidenza, maliziosamente e scientificamente effettuate» per
di trarre un indebito vantaggio personale.
La condanna
Di qui la mano pesante dei giudici, con la condanna al risarcimento di un
danno pari a 42mila euro oltre agli interessi legali, determinato da vari
fattori: l'inutile pagamento della retribuzione a fronte di prestazioni
lavorative non rese dall'interessato e falsamente attestate dal medesimo, la
fruizione di buoni pasto, pur in mancanza dei requisiti contrattuali
previsti e la necessità di dedicare risorse umane all'individuazione ed
all'elaborazione delle alterazioni perpetrate dal dipendente.
La pronuncia, come ben si vede, punta il dito contro il diffuso malcostume
dei «furbetti del cartellino», ed evidenzia ancora una volta come
l'avversione a questo fenomeno sia fortemente avvertita
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 17.09.2018).
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MASSIMA
1. L’azione di responsabilità è fondata: sussistono, infatti, tutti gli
elementi costitutivi della responsabilità amministrativo-contabile.
1.1. Il convenuto era, all’epoca dei fatti, in rapporto di servizio con una
pubblica amministrazione, nella sua qualità di dipendente dell’INPS.
1.2. Sussistono, all’evidenza (né il convenuto le ha integralmente negate),
le indebite manipolazioni della rilevazione delle presenze orarie. Ora, se
solo si scorre, per chi ne abbia la pazienza, il tabulato sinottico
elaborato dall’INPS e versato in giudizio, che pone a confronto le
timbrature effettive, rispetto a quelle manualmente inserite o modificate
dal convenuto, emerge ictu oculi il carattere non episodico delle
alterazioni e la loro dolosa preordinazione al vantaggio personale del
dipendente: questi era solito entrare in ritardo, uscire in anticipo,
assentarsi in pausa anche per la durata di ore, aggiustando poi le
rilevazioni delle presenze a suo piacimento.
La reiterazione e le caratteristiche degli interventi di modifica o di
inserimento ex novo degli orari di ingresso e uscita, a fronte di timbrature
omesse o effettuate in momenti diversi, per i tempi e i modi in cui detti
interventi sono configurati, e in particolare per la stupefacente
coincidenza degli orari “ritoccati” in favore del dipendente, rendono del
tutto inconsistenti le difese dell’interessato medesimo, difese incentrate
sulla inverosimile e non seriamente credibile necessità di testare,
continuamente, la funzionalità del sistema, effettuando plurime timbrature
con il proprio badge.
La testimonianza citata dal convenuto depone, a ben vedere, in senso
esattamente opposto rispetto a quello auspicato: il fatto che,
saltuariamente (il teste indica una frequenza di “ogni due/tre mesi”),
l’interessato potesse utilizzare il proprio badge per effettuare delle prove
di funzionamento del sistema, a seguito del malfunzionamento o del riavvio
di esso, non giustifica le alterazioni pressoché quotidiane delle timbrature
che, per loro stessa natura (inserimento ex novo di una timbratura,
anticipazione dell’entrata, posticipo dell’uscita) non potevano avere altro
scopo che quello, evidente oltre ogni ragionevole dubbio, di frodare
l’amministrazione a vantaggio del dipendente, attribuendogli plus-orari
inesistenti.
A fronte del carattere marchiano e oltremodo evidente delle alterazioni non
occorre dilungarsi ulteriormente sul punto.
1.3. La reiterazione e la callidità delle manipolazioni sulle rilevazioni
orarie rendono palese la natura dolosa delle stesse, perpetrate dal
convenuto con premeditata e pressoché quotidiana regolarità, a suo personale
vantaggio e in danno dell’amministrazione di appartenenza.
Dalla natura dolosa del danno e dal relativo manifesto occultamento doloso
discende anche l’infondatezza dell’eccezione di prescrizione, la quale non
può che decorrere dalla data del disvelamento dell’illecito, ampiamente
ricadente nel quinquennio.
1.4. Il nesso causale è insito nella diretta consequenzialità tra le
alterazioni delle presenze registrate dal sistema e l’effettuazione, da
parte del dipendente, di una prestazione lavorativa oraria sistematicamente
inferiore rispetto a quella dovuta o comunque rispetto a quella
artificiosamente fatta risultare nel sistema di rilevazione delle presenze.
Inoltre, la necessità di ricostruire l’effettiva presenza in servizio del
dipendente infedele discende, direttamente, dall’illecito da questi commesso
e dalle modalità particolarmente insidiose e diuturne con cui l’illecito
stesso è stato posto in essere: anche il danno da disservizio costituisce,
pertanto, diretta ed inevitabile conseguenza dell’illecito perpetrato dal
convenuto.
1.5. Il danno è costituito:
- dall’inutile pagamento della retribuzione a fronte di prestazioni
lavorative non rese dall’interessato e falsamente attestate dal medesimo;
- dalla fruizione di buoni pasto, pur in mancanza dei requisiti contrattuali
all’uopo previsti;
- dalla necessità di dedicare risorse umane alla individuazione ed alla
elaborazione delle alterazioni perpetrate dal dipendente.
Ai fini della liquidazione del danno, devono essere senz’altro utilizzati i
tabulati prodotti in giudizio dalla Procura, come rettificati (nella
colorazione di alcune celle e nel calcolo finale) a seguito dell’ordinanza
istruttoria di questa Corte. Essi ricostruiscono, al centesimo, in maniera
ineccepibile, la retribuzione indebitamente pagata al dipendente per effetto
delle dolose alterazioni delle presenze. La validità del prospetto e la
congruità del calcolo proposto da parte attrice, a seguito dei chiarimenti
forniti dall’INPS, non è scalfita neppure in parte dalle difese di parte
convenuta.
Congrua è anche la liquidazione del danno da “disservizio”, tenuto conto
della dimensione dell’illecito (perpetrato, per di più, in orario di
servizio) e dell’enorme mole di dati da verificare e rielaborare. Né può
condividersi la tesi difensiva della corresponsabilità dell’amministrazione,
alla quale non può addebitarsi alcun concorso di colpa nella sua qualità di
vittima del reato.
Giova ricordare che la risarcibilità della voce di danno in parola è ammessa
dalla ormai consolidata giurisprudenza della Corte dei conti (ex multis, cfr.
Sez. Prima, sent. 421 del 26.07.2012; Sez. Seconda, sent. 295 dell'11.05.2012; Sez. Terza, sent. 545 del 14.09.2010), cui ha aderito da
ultimo anche questa Sezione (sentenze nn. 370/2012, 377/2012 e successive;
da ultimo, cfr. ad esempio n. 47/2017).
Al riguardo, si è precisato che questa particolare figura di nocumento,
ormai ampiamente elaborata dalla giurisprudenza contabile, <<si risolve nel
pregiudizio –ulteriore rispetto al “danno patrimoniale diretto”- recato
dalla condotta illecita del dipendente al corretto funzionamento
dell’apparato pubblico, concretandosi, ad esempio, in una o più delle
seguenti fattispecie: mancato conseguimento della legalità, della
efficienza, della efficacia, della economicità e della produttività
dell’azione e della attività di una Pubblica Amministrazione (Sez. giur.
reg. Umbria, sent. n. 346 del 28.09.2005); dispendio di energie per
la ricostruzione di contabilità mancanti o contraffatte (Sez. giur. reg.
Marche, sent. n. 18 dell’11.01.2005); costo sostenuto
dall’amministrazione per accertare e contrastare gli effetti negativi
sull’organizzazione delle strutture e degli uffici in conseguenza di
comportamenti dolosi di un dipendente (Sez. giur. reg. Marche, sent. n. 195
del 10.03.2003); costi sostenuti per il ripristino della funzionalità
dell’ufficio (Sez. giur. reg. Sicilia, sent. n. 881 del 20.05.2002);
mancato conseguimento del buon andamento dell’azione pubblica (Sez. giur.
reg. Umbria, sent. n. 511 del 29.11.2001); dispendio di risorse umane
e di mezzi strumentali pubblici (Sezione II centrale di appello, sent. n.
125 del 10.04.2000)>> (così, da ultimo, Sez. Emilia Romagna, sent. 210
del 06.09.2012; v. anche Sez. Piemonte, sent. 11 del 13.01.2011; Id., sent. 77 dell'11.05.2011).
Ancora, si è ammessa la risarcibilità
della spesa specificamente affrontata dall’amministrazione per ricostruire,
revisionare e rielaborare le pratiche oggetto di procedimento penale, o
comunque per riparare alle disfunzioni amministrative conseguenti alla
condotta illecita del dipendente (tra cui, ad esempio: spese di missione e
di trattamento salariale del personale auditing; spese di missione dei
funzionari inviati in sostituzione e supporto; spese relative alla quota di
stipendio destinata alla trattazione della pratica; spese postali e di
cancelleria; cfr. Sez. Prima Appello, sent. 641 del 09.05.2014, richiamata
in Sez. Abruzzo, sent. 90 del 09.10.2015).
Ciò posto, ai fini della liquidazione del “disservizio”, nella concreta
fattispecie assume rilievo il comprovato dispendio di risorse pubbliche
cagionato dalle successive attività di individuazione e repressione
dell’illecito, come documentate in atti, per tacere dell’attività lavorativa
dedicata dal convenuto allo svolgimento di attività illecite anziché per
l’espletamento dei propri compiti d’ufficio.
Sulla base dei parametri appena indicati, la stima di euro 4.962,24 indicata
in citazione appare, come già osservato, ampiamente congrua ed equa. Per
praticità di calcolo, nella suddetta somma, equitativamente determinata, può
darsi per ricompresa la rivalutazione monetaria fino alla data della
presente sentenza, arrotondando l’importo in euro 5.100,00.
1.6. Può, tuttavia, riconoscersi una limitata riduzione dell’addebito, in
accoglimento delle istanze difensive, in relazione ai vantaggi comunque
conseguiti dall’amministrazione per quelle ore di servizio effettivamente
prestate dal dipendente (come attestato dal sistema di rilevazione delle
presenze) ma non computate in quanto verosimilmente inferiori rispetto alla
soglia minima giornaliera di 3 ore e 36 minuti o ricadenti al di fuori della
fascia oraria prevista contrattualmente (come esaustivamente chiarito
dall’INPS nei documenti versati in giudizio).
Un margine di arrotondamento
prudenziale può essere eccezionalmente riconosciuto anche a fronte di quelle
giornate (interamente addebitate al dipendente in quanto ritenute invalide)
per le quali consta solo l’entrata o solo l’uscita, ma non la correlata
uscita o entrata, non potendosi quindi ricostruire con certezza l’effettivo
orario di lavoro osservato dal dipendente e dovendosi procedere in via equitativa ex art. 1226 del codice civile. Ugualmente è a dirsi per le
interruzioni della pausa pranzo, alcune delle quali recanti la sola
timbratura iniziale o finale (computate perciò dall’INPS tutte
indistintamente nella misura massima di due ore, a prescindere dalla reale
durata, non più ricostruibile in via analitica).
Al riguardo, ritiene la Sezione che le prestazioni lavorative interessate,
benché invalide ai fini del rapporto di lavoro e comportanti la perdita del
correlato diritto alla retribuzione, con rilievo agli effetti disciplinari o
del computo delle ferie, possano essere comunque valutate ai fini della
liquidazione del danno, in quanto sostanziano comunque una prestazione
lavorativa resa a vantaggio dell’amministrazione; prestazione che, come
tale, in questa sede, appare eccezionalmente scomputabile dal calcolo del
“danno” patito dall’amministrazione stessa.
Analogo discorso può farsi rispetto ai buoni pasto che, in applicazione di
apposita previsione contrattuale vigente all’epoca dei fatti, sono stati
recuperati in danno del dipendente per le giornate in cui questi, pur avendo
abbondantemente superato il debito orario a tal fine giornalmente previsto,
non aveva fatto constare la pausa pranzo con le timbrature di inizio e di
fine della pausa. Motivi di equità suggeriscono, a fronte di tali peculiari
circostanze, di poter scomputare dalla liquidazione del danno i buoni in
parola, anche in considerazione delle favorevoli testimonianze raccolte nel
coesistente processo dinanzi al giudice del lavoro.
In conclusione, alla luce delle predette circostanze e dopo attenta analisi
dei tabulati versati in giudizio, possono essere portati a defalco del danno
circa 200 buoni pasto (a fronte di giornate per le quali il debito orario
era stato comunque integralmente assolto, al lordo della pausa, per il
periodo complessivamente intercorrente dal 2004 al 2015), da valorizzarsi
rispettivamente per l’importo di euro 10,28 e di euro 7 ciascuno, ratione
temporis, per un totale complessivo arrotondato stimabile in euro 1.780,00.
Analogo discorso, per le ragioni dinanzi esposte, può farsi rispetto alle
giornate invalide, riconoscendo in favore del dipendente un abbattimento
prudenziale del 10% circa (valorizzabile, forfetariamente, in complessivi
euro 600,00), nonché con riguardo al rimanente debito orario, a fronte di
pause non ricostruibili con certezza, per un ulteriore importo complessivo
di euro 1.120,00 determinato equitativamente.
L’insieme delle predette somme può essere portato a defalco dell’addebito,
per una diminuzione totale di euro 3.500,00
2. Il convenuto va quindi condannato al pagamento, in favore dell’INPS,
della somma di euro 34.785,50 (38.285,50-3.500,00) a titolo di danno
patrimoniale; detto importo, comprensivo di componenti liquidate anche in
via equitativa, può essere equitativamente elevato e arrotondato in euro
36.900,00 considerandolo già comprensivo della rivalutazione monetaria fino
alla data della presente sentenza, per semplicità di calcolo.
Esso va poi aumentato della somma su indicata di euro 5.100,00 a titolo di
danno da disservizio, per un totale conclusivo di euro 42.000,00
(quarantaduemila/00).
3. La somma di condanna, da intendersi già comprensiva di rivalutazione
monetaria, va maggiorata degli interessi legali, dalla data della presente
sentenza e fino al soddisfo, secondo legge. |
SEGRETARI
COMUNALI: Danno
erariale ridotto al segretario che sbaglia per «troppo lavoro».
L'ingiustificato aumento delle fatture di lavori di somma urgenza liquidati,
senza la necessaria procedura prevista per i debiti fuori bilancio,
rappresenta danno erariale da addebitare al responsabile del servizio.
La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regionale Abruzzo, con la
sentenza 06.09.2018 n. 109 ha, tuttavia, mostrato
clemenza nei confronti del segretario comunale in quanto oberato da troppi
incarichi.
La vicenda
Un segretario comunale a scavalco di un Comune, cui erano state affidate
anche le funzioni di responsabile dei lavori pubblici, è stato rinviato a
giudizio contabile per aver liquidato fatture, a seguito di lavori affidati
in somma urgenza per il rifacimento della rete idrica, senza procedere al
riconoscimento del debito fuori bilancio, in assenza di impegni nell'anno di
riferimento e per importi superiori a quelli affidati.
In particolare, ha
osservato la Procura contabile, la violazione dell'articolo 191, comma 4, del Tuel sul riconoscimento del debito fuori bilancio non ha consentito al
consiglio comunale di valutare l'utilità ricevuta, violando il principio
contabile dell'impegno di spesa. Inoltre, le maggiori spese liquidate e
richieste dalla società appaltatrice risultavano superiori agli importi dei
lavori affidati all'inizio, senza alcuna verifica sulla correttezza degli
importi maggiori successivamente richiesti.
La Procura, dall'importo complessivo ha, tuttavia, scomputato un valore pari
al 40% in compresenza del parere del responsabile finanziario che aveva
espresso il proprio parere positivo, per un importo di danno quantificato, a
seguito della riduzione, in circa 6.577 euro. Secondo il convenuto,
tuttavia, il suo comportamento è stato indirizzato al perseguimento
dell'interesse pubblico; i pagamenti effettuati hanno permesso, in ogni
caso, di evitare la richiesta dei danni che la rete idrica fatiscente e la
strada dissestata e franata avrebbero causato.
La conferma del danno
Secondo i giudici contabili è indubbio che le spese sopportate dall'ente
locale fossero maggiori di quelle inizialmente affidate alla ditta, ma la
colpa grave è consistita anche nella violazione delle cogenti norme di
carattere amministrativo-contabile e sulle somme pagate praticamente «sulla
fiducia», in difetto di una rituale constatazione della effettiva natura e
della regolare esecuzione delle prestazioni fatturate.
In altri termini, non
può non essere addebitato al segretario comunale la corretta procedura che
avrebbe dovuto essere effettuata per i mancati impegni di spesa e,
soprattutto, del riconoscimento del debito fuori bilancio e
dell'accertamento di effettiva utilità da parte del consiglio comunale dei
lavori effettuati.
La riduzione disposta dal collegio contabile
Accertato il danno erariale, per oggettiva responsabilità del segretario
comunale, tuttavia, il danno quantificato dalla Procura deve essere
sostanzialmente ridotto, con massima ampiezza del potere attribuito alla
Corte dei conti.
Nel caso di specie, precisa il Collegio contabile
abruzzese, oltre all'abbattimento già disposto dalla Procura in merito alla
compartecipazione del danno da parte del responsabile finanziario, militano
per altre riduzioni anche la condizione lavorativa del segretario comunale
impegnato «a scavalco» in più enti locali contemporaneamente e
onerato della responsabilità del servizio Lavori Pubblici presso il Comune
cui il danno è stato recato.
Queste condizioni impongono una riduzione pari a circa il 70% del danno lui
attribuito, mediante un importo addebitabile di 2.000 euro rispetto ai 6.577
del danno complessivo attribuito
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 13.09.2018).
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MASSIMA
L’azione di responsabilità è fondata, nei termini di seguito indicati.
Sostanzialmente incontestati i fatti di causa, per la parte che assume
rilievo ai fini del decidere, sussistono tutti gli elementi costitutivi
della responsabilità amministrativo-contabile.
Il convenuto era, all’epoca dei fatti, in rapporto di servizio con una
pubblica amministrazione, nella sua qualità di Segretario Comunale e
responsabile del servizio Lavori Pubblici del Comune di Bomba (CH).
Il danno è costituito dall’aggravio di spesa sopportato dall’ente locale in
relazione alla liquidazione e al pagamento di fatture in violazione delle
cogenti norme di carattere amministrativo-contabile richiamate in citazione
ed indicate in narrativa; si tratta, in buona sostanza, di somme pagate
praticamente “sulla fiducia”, in difetto di una rituale constatazione della
effettiva natura e della regolare esecuzione delle prestazioni fatturate,
divergenti in aumento rispetto ai preventivi originariamente assentiti,
nonché in mancanza non solo dei correlati impegni di spesa, ma anche del
riconoscimento del debito fuori bilancio e dell’accertamento di effettiva
utilità per l’ente dei lavori stessi.
Né vale per il convenuto eccepire la mancata prova della “disutilità” delle
opere realizzate o dell’assenza di causa dei pagamenti; a fronte delle
contestate violazioni e dell’assenza dei formali provvedimenti di
riconoscimento del debito e di accertamento dell’utilità, nonché in mancanza
dei verbali di regolare esecuzione dei lavori eseguiti, cioè in difetto
delle documentate procedure di legge, grava su di lui l’onere di dare
adeguata dimostrazione del fatto che le irregolarità in parola non hanno
prodotto alcun danno in concreto, cioè che i pagamenti possano essere
giustificati sul piano sostanziale.
A fronte di pagamenti non giustificati
secondo le procedure di legge, grava sulla Procura l’onere di provare
l’esecuzione del pagamento in assenza dei presupposti di legge, mentre il
convenuto dovrà dimostrare, in via d’eccezione, il sostanziale buon esito
della spesa, non potendosi pretendere dalla Procura la prova negativa della
assenza di utilità della spesa stessa.
L’elemento soggettivo della colpa grave, in capo al convenuto, è reso
evidente dalla violazione di elementari norme in materia di assunzione degli
impegni di spesa e di esecuzione dei lavori pubblici, come puntualmente
ricostruito nell’atto di citazione; al riguardo, la Sezione condivide ed
intende far integralmente proprie le considerazioni svolte dal Pubblico
Ministero.
Il nesso causale è insito nella diretta consequenzialità tra la negligente
condotta del convenuto (che, nella sua duplice veste di Segretario e di
responsabile del servizio Lavori Pubblici avrebbe dovuto sovrintendere ai
lavori in questione e non avrebbe dovuto liquidare le fatture in mancanza
dei presupposti di legge) e l’esborso sostenuto.
Sussistono, peraltro, nella fattispecie i presupposti per concedere una
cospicua riduzione dell’addebito, esercitando con la massima ampiezza il
potere in tal senso intestato alla Corte dei conti.
Invero, nel caso in questione, per quanto gravemente rimproverabile appaia
il comportamento del convenuto, deve tenersi conto anche del fatto che si è
trattato di una vicenda problematica, efficacemente descritta nella memoria
di costituzione, connotata dalla indifferibilità, urgenza e difficoltà dei
lavori, nonché dalla sussistenza di una previa ordinanza sindacale che ne
disponeva l’immediata esecuzione con oneri a carico del bilancio successivo;
v’era, in più, il parere favorevole della responsabile dei servizi
finanziari (per cui il Pubblico Ministero ha già riconosciuto lo scomputo di
una quota del 40% dell’addebito).
E’ altresì verosimile che, in mancanza di evidenze specifiche ed
incontrovertibili sul punto, le spese eseguite possano essere andate almeno
in parte a vantaggio della collettività amministrata.
Va considerata, ancora, la peculiare situazione del convenuto Segretario
comunale (della cui buona fede peraltro non si è mai dubitato) impegnato “a
scavalco” in più enti locali contemporaneamente e onerato della
responsabilità del servizio Lavori Pubblici presso il Comune di Bomba
all’epoca dei fatti.
Da ultimo, rilevano ragioni di equità.
La stessa Procura Regionale, in citazione, ha espresso parere favorevole
all’accesso al rito monitorio ed ha indicato, in via subordinata, un danno
di circa 2.300 euro, nell’eventualità che fosse accertata l’utilità per
l’ente dei lavori eseguiti.
Tutto ciò premesso e considerato, si ritiene di poter determinare in
complessivi euro 2.000,00 (da intendersi già comprensiva di accessori fino
alla data della sentenza) l’importo del danno da porre concretamente a
carico del convenuto. Spettano interessi legali dalla sentenza al saldo. |
PUBBLICO IMPIEGO: Niente
danno erariale se l’avvocato civico devolve parte dell’onorario al personale
amministrativo.
L'avvocatura civica «dribbla» i rilievi della Procura contabile e del
ministero dell’Economia e delle Finanze sul danno erariale per illegittimità
di un regolamento di un ente locale che aveva previsto la devoluzioni di
parte dei compensi dei propri avvocati interni al personale amministrativo,
nonché per il pagamento di un compenso per lo svolgimento di arbitro in un
procedimento secondo quanto stabilito dall’articolo 814 del codice di
procedura civile.
In un primo momento, il Mef aveva giudicato illegittime le erogazioni
disposte e, successivamente, la Procura contabile aveva rinviato a giudizio
di conto il coordinatore dell'avvocatura (insieme al segretario generale)
per la prima posta di danno, e gli avvocati civici sia per la liquidazione
degli importi al personale amministrativo sia per la liquidazione del
compenso all'avvocato nominato arbitro.
La Corte dei conti, Sezione giurisdizionale della Puglia, con la
sentenza 03.09.2018 n. 615, ha giudicato destituiti
di fondamento i rilievi della Procura.
Sui compensi al personale amministrativo
Il regolamento, a firma del responsabile dell'avvocatura interna e del
segretario generale, disciplina la possibilità che fino al 20% dell'onorario
previsto per l'avvocato possa essere devoluto, su espressa richiesta del
professionista stesso, a un collaboratore amministrativo per l'espletamento
di incombenze per le quali non era richiesta espressamente l'opera di un
professionista.
La relazione sulla verifica amministrativo-contabile,
effettuata dal dirigente dei servizi ispettivi di finanza pubblica, ha
giudicato illegittima la liquidazione disposta dagli avvocati, a valere sui
loro compensi professionali, al personale amministrativo. Questi rilievi
erano risultati sufficienti alla Procura contabile per il rinvio a giudizio
sia dei dipendenti che avevano stilato il regolamento sia per gli avvocati
che ne avevano liquidato i compensi.
Secondo al Procura contabile, infatti,
l'erogazione al di fuori del perimetro contrattuale avrebbe sottratto
compensi dovuti in via esclusiva al professionista avvocato, in palese
violazione delle disposizioni che prevedono l'inderogabilità dei diritti che
derivano dal rapporto di lavoro. Infatti, le rinunzie e le transazioni sui
diritti del prestatore di lavoro sono nulle in base all’articolo 2113 del
codice civile se non sono rese nell'ambito dei procedimenti previsti dallo
stesso articolo 2113 e, a ogni buon conto, non possono essere soggetti a
rinuncia gli obblighi previdenziali e assistenziali.
Di diverso avviso il collegio contabile secondo cui, nel caso di specie,
mancherebbe l'attualità del danno. Infatti, posto che l'ente avrebbe dovuto
comunque erogare a favore degli avvocati interni, la circostanza che una
parte dell’importo sia stato liquidato a un diverso dipendente del settore
dell’avvocatura non determina alcun danno finanziario concreto e attuale per
l'Amministrazione stessa, di qui l'inammissibilità della domanda della
Procura.
Sui compensi per gli arbitri
Sull'altra posta di danno erariale, avendo restituito gli importi percepiti,
gli avvocati convenuti hanno chiesto la dichiarazione di mancanza
dell'interesse da parte della Procura. Il collegio contabile, pur prendendo
atto della restituzione delle somme, evidenzia che la nomina di un arbitro
esterno avrebbe in ogni caso determinato un esborso più elevato per l'ente.
Nel caso di specie, l'ordinanza dell'ente che decide sul ricorso degli
arbitri, in ordine al compenso loro spettante, ha infatti natura
giurisdizionale ed è pertanto idonea a far ritenere che spettino ai legali
dell'ente i compensi erogati per l'attività prestata nell'ambito del
procedimento disciplinato dall’articolo 814 del codice di procedura civile.
Sulla natura giurisdizionale del provvedimento di liquidazione dei compensi
si è già espressa la Suprema Corte a Sezioni unite nella sentenza n.
25045/2016dove ha affermato che «il procedimento speciale previsto dall'art.
814 c.p.c., quale via alternativa al processo ordinario, necessariamente
effettua un accertamento che coinvolge diritti avendone la medesima natura
giurisdizionale. Tale natura del resto non potrebbe essere negata in ragione
delle forme semplificate che lo contraddistinguono, poiché l'utilizzo di
procedimenti sommari non esclude la loro funzione di risolvere una
controversia tra parti contrapposte»
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 14.09.2018). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il patteggiamento basta per il danno erariale.
Con la
sentenza 03.09.2018 n. 138 la Corte dei conti
per il Veneto ha esaminato il caso di un pubblico impiegato che in occasione
di verifiche fiscali, avrebbe posto in essere condotte tali da indurre i
soggetti verificati a corrispondergli somme di denaro in cambio di un
«alleggerimento» dei reports delle verifiche.
La Corte dei Conti veneta,
acquisiti gli atti del procedimento penale, ha ritenuto che la sentenza di
«patteggiamento», divenuta irrevocabile, costituisca adeguato presupposto
per l'esercizio dell'azione per il risarcimento del danno erariale: ai sensi
del comma 1-bis dell'art. 445 cpp, la sentenza prevista dall'art. 444 cpp è
equiparata a sentenza di condanna. In sostanza, pur non essendo precluso al
giudice contabile l'accertamento e la valutazione dei fatti in modo difforme
da quello contenuto nella sentenza pronunciata ai sensi dell'art. 444 cpp,
nondimeno questa assume valore qualificato di prova.
La Corte di cassazione
con sentenza Sez. III, n. 2695 del 2017 ha chiaramente esposto che la
sentenza penale di applicazione della pena ai sensi degli artt. 444 e 445
cpp pur non implicando un accertamento capace di fare stato nel giudizio
(civile), contiene pur sempre una ipotesi di responsabilità di cui il
giudice di merito non può scartare le risultanze senza appropriata e
analitica motivazione.
Segnatamente, a giudizio della Corte di cassazione sent. n. 3980/2016, la sentenza penale di applicazione della pena ex art.
444 cpp pur non configurando una sentenza di condanna, presuppone in
sostanza una ammissione di colpevolezza, sicché esonera la controparte
dall'onere della prova e costituisce un fondamentale elemento di prova per
il giudice di merito, il quale, ove intenda discostarsene, ha il dovere di
esporre le ragioni per cui l'imputato avrebbe (sorprendentemente) ammesso
una propria insussistente responsabilità, e d'altra parte, il giudice penale
abbia prestato fede a una tale ammissione, pur destituita di valido e
incontrovertibile fondamento.
Di talché, nell'ambito del giudizio di
responsabilità erariale, la prova della condotta e del danno che ne
consegue, ben può essere desunta anche da sentenza di «patteggiamento»
concessa nei termini e limiti di cui all'art. 444 cpp su richiesta
dell'imputato e del pubblico ministero. Piuttosto essa assume speciale
valore probatorio, valicabile esclusivamente attraverso prove
significativamente qualificate e pertinenti
(articolo ItaliaOggi del 21.09.2018). |
PUBBLICO IMPIEGO: Corruzione,
danno all'immagine. Corte dei Conti.
Con sentenza 13.07.2018 n. 148 la Corte dei conti Lombardia condanna
un ex dipendente di un comune alle porte di Milano, macchiatosi del reato di
corruzione, al risarcimento del danno all'immagine, quantificato in 20.000
€.
La vicenda inizia nel febbraio 2010 quando la Direzione investigativa
antimafia arrestava politici, funzionari pubblici ed esponenti della
criminalità organizzata calabrese che avevano dato vita a un sistema
corruttivo consolidato, funzionale all'ottenimento da parte delle imprese
edili in odore di 'ndrangheta di favori, autorizzazioni, concessioni, fino a
incarichi di consulenza alla stessa pubblica amministrazione.
Nella sentenza penale di condanna era stato accertato che l'ex dipendente
otteneva da una società facente capo ai corrotti la ristrutturazione di un
immobile di sua proprietà, consapevole di non aver la possibilità di
sostenerne le spese, ma offrendo in cambio al corruttore la modifica delle
conclusioni di una relazione idrogeologica di un piano di lottizzazione.
Il procuratore contabile chiedeva l'applicazione del comma 62 della legge
190/2012 (cd: Anticorruzione), che quantifica l'entità del danno
all'immagine causato alla pubblica amministrazione dall'attività corruttiva
nel doppio della provvista percepita dal corrotto pubblico ufficiale. La
Corte non accettava la richiesta, valutando insormontabile il principio di
irretroattività delle leggi penali sfavorevoli.
Tuttavia il giudice considerava provato il pretium sceleris
dell'attività corruttiva, concretizzatosi nell'utilità della
ristrutturazione dell'unità immobiliare di proprietà del corrotto.
Aggiungeva però che la circostanza che gli fosse stata confiscata una somma
addirittura superiore e che il convenuto avesse restituito all'impresa parte
del corrispettivo dei lavori, consentiva di quantificare il danno
all'immagine arrecato al comune in 20.000 euro
(articolo ItaliaOggi del 14.09.2018). |
APPALTI:
Debiti fuori bilancio: il danno erariale per
omesso impegno di spesa.
Il debito fuori bilancio è un’obbligazione verso terzi per
il pagamento di una determinata somma di danaro che grava
sull’ente pubblico, assunta in violazione delle norme
giuscontabili che regolano i procedimenti di spesa degli
enti interessati: esso consiste, dunque, in un’obbligazione
perfezionatasi nell'ordinamento civilistico
indipendentemente da una specifica previsione di bilancio,
in violazione pertanto delle norme che disciplinano il
procedimento di spesa, e che sussiste pur in assenza di
specifico impegno contabile.
Sulla base di tale premessa la Corte dei Conti, Sez. I
giurisdizionale centrale, nella
sentenza del 18.01.2016 n. 22 ha ritento priva di
pregio la pretesa sollevata da un dirigente di un Consiglio
Regionale -condannato in primo grado al risarcimento dei
maggiori oneri (interessi e spese di giudizio) connessi con
l’assunzione di due obbligazioni contrattuali con
altrettante ditte private in assenza di impegno di spesa,
con successiva necessità di riconoscimento dei relativi
debiti fuori bilancio- di far ritenere superfluo il predetto
adempimento contabile (assunzione dell’impegno di spesa,
successiva liquidazione del dovuto, ordinazione e pagamento
al terzo debitore).
"L’esistenza di una contabilità sia pure “elastica”
(com’è stata definita) per le spese del Consiglio regionale,
certo non rende meno doverosi i vari passaggi procedurali
giuscontabili, per quanto semplificati li si voglia
ritenere, pena l’impossibilità per gli amministratori di
conoscere con esattezza, di volta in volta, l’entità delle
risorse a disposizione. Anzi, è proprio una tale basilare,
quasi banale, considerazione che ha a suo tempo dato origine
a tutte le norme in materia di divieto di gestioni
fuori-bilancio e connessa necessità di far rientrare
nell’alveo dell’ordinaria contabilità tutte le risorse
gestite dagli enti pubblici, specie quelli territoriali".
Ad avviso della Corte, quindi, alcuna norma avrebbe potuto
consentire l’assunzione di spese in difetto di previa
assunzione del relativo impegno e della successiva, esatta
liquidazione della stessa.
Aggiunge la Corte che neppure è sostenibile che anche se le
spese liquidate avevano comunque la loro capienza in
bilancio via sia l’irrilevanza dell’impegno di spesa, in
quanto adempimento meramente formale. Sul punto la Corte
richiama la pacifica giurisprudenza contabile, la quale ha
costantemente sanzionato simili irregolarità nella gestione
delle spese pubbliche in quanto “L'ordinazione irregolare
di spese non deliberate nei modi di legge e prive altresì di
impegno contabile … costituisce una violazione di elementari
doveri di servizio, connotata altresì da colpa di rilevante
gravità … ne consegue l'emersione, a seguito di vittorioso
giudizio avviato dal creditore insoddisfatto, di danni
pubblici corrispondenti alle spese aggiuntive per oneri
accessori del credito e per la rifusione delle spese legali
e che non possono, quindi, non fare carico all'irregolare
ordinatore della spesa”.
Nel caso è stata proprio la carenza del regolare impegno di
spesa a comportare incertezze, ritardi nei pagamenti,
contenzioso con i privati e infine le maggiori, indebite
spese per l’amministrazione regionale. Di qui il rigetto
dell'appello con conferma della condanna inflitta in primo
grado (commento tratto da www.ilquotidianodellapa.it).
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MASSIMA
1. Il dr. Mu. è stato condannato in primo grado al
risarcimento dei maggiori oneri (interessi e spese di
giudizio) connessi con l’assunzione di due obbligazioni
contrattuali con altrettante ditte private in assenza di
impegno di spesa, con successiva necessità di riconoscimento
dei relativi debiti fuori bilancio.
Lamenta ora parte appellante l’erroneità della sentenza
impugnata, la quale non avrebbe valutato: che l’assunzione
di spese in carenza di atti di impegno era stata determinata
dalle peculiari ed autonome modalità di gestione
dell’amministrazione del consiglio regionale campano; che il
danno non era stato determinato dalla carenza di impegno
contabile ma dal mancato tempestivo utilizzo delle risorse
disponibili per la copertura del debito; che alla
realizzazione del danno avevano concorso altri soggetti non
evocati in giudizio.
Tutti i su detti profili di gravame si appalesano infondati
e devono, perciò, essere disattesi.
2. Per quel che riguarda il primo profilo di doglianza,
occorre sia pur brevemente ricordare che il
debito fuori bilancio è un’obbligazione verso terzi per il
pagamento di una determinata somma di danaro che grava
sull’ente pubblico, assunta in violazione delle norme
giuscontabili che regolano i procedimenti di spesa degli
enti interessati
(v., in proposito, la corretta definizione offerta dalla
circolare del Ministero dell’Interno 20.09.1993, n. F.L.21/1993):
esso consiste, dunque, in un’obbligazione
perfezionatasi nell'ordinamento civilistico
indipendentemente da una specifica previsione di bilancio,
in violazione pertanto delle norme che disciplinano il
procedimento di spesa, e che sussiste pur in assenza di
specifico impegno contabile.
Ciò posto, si appalesa priva di pregio la pretesa di parte
attrice di far ritenere superfluo il predetto adempimento
contabile (assunzione dell’impegno di spesa, successiva
liquidazione del dovuto, ordinazione e pagamento al terzo
debitore): l’esistenza di una contabilità sia pure “elastica”
(com’è stata definita) per le spese del Consiglio regionale
della Campania, certo non rende meno doverosi i vari
passaggi procedurali giuscontabili, per quanto semplificati
li si voglia ritenere, pena l’impossibilità per gli
amministratori di conoscere con esattezza, di volta in
volta, l’entità delle risorse a disposizione.
Anzi, è proprio una tale basilare, quasi banale,
considerazione che ha a suo tempo dato origine a tutte le
norme in materia di divieto di gestioni fuori-bilancio e
connessa necessità di far rientrare nell’alveo
dell’ordinaria contabilità tutte le risorse gestite dagli
enti pubblici, specie quelli territoriali.
E dunque, alcuna norma avrebbe potuto consentire
l’assunzione di spese in difetto di previa assunzione del
relativo impegno e della successiva, esatta liquidazione
della stessa.
3. Né, più in generale
–per occuparsi dell’altro profilo di doglianza-
potrebbe in alcun modo convenirsi con l’appellante,
laddove egli (nell’evidenziare che le spese da lui liquidate
avevano comunque la loro capienza in bilancio) sembra quasi
sostenere l’irrilevanza dell’impegno di spesa, in quanto
adempimento meramente formale: è sufficiente richiamare, in
proposito, la pacifica giurisprudenza contabile, la quale ha
costantemente sanzionato simili irregolarità nella gestione
delle spese pubbliche:
v., ex multis, oltre ai precedenti ricordati dal PM,
Sezione II app., 15.04.2002, n. 127 (“L'ordinazione
irregolare di spese non deliberate nei modi di legge e prive
altresì di impegno contabile … costituisce una violazione di
elementari doveri di servizio, connotata altresì da colpa di
rilevante gravità … ne consegue l'emersione, a seguito di
vittorioso giudizio avviato dal creditore insoddisfatto, di
danni pubblici corrispondenti alle spese aggiuntive per
oneri accessori del credito e per la rifusione delle spese
legali e che non possono, quindi, non fare carico
all'irregolare ordinatore della spesa”:
proprio la fattispecie all’odierno esame del Collegio); id.,
05.04.2002, n. 114; id., 18.03.2002, n. 85; Sezione
giurisdizionale TTA-Trento, 02.07.2008, n. 34; id.,
31.05.2006, n. 41; id., 05.04.2006, n. 24.
Nel caso, occorre ribadire, è stata proprio la carenza del
regolare impegno di spesa (e non i fatti successivi) a
comportare incertezze, ritardi nei pagamenti, contenzioso
con i privati e infine le maggiori, indebite spese per
l’amministrazione regionale. |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini del rilascio di un titolo abitativo
edilizio, il Comune è obbligato a verificare il rispetto dei
limiti privatistici solo a condizione che essi siano
agevolmente conoscibili ovvero effettivamente conosciuti e
non contestati.
In altre parole, in conformità all’interpretazione
maggioritaria dell’art. 11 DPR 380/2001, la verifica del
comune in ordine al rispetto della disciplina privatistica
deve essere circoscritta a quei limiti “agevolmente
conoscibili ovvero effettivamente conosciuti e non
contestati”.
Infatti, non è concretamente esigibile un approfondimento da
parte del comune di ogni singolo aspetto privatistico
relativo ai rapporti tra condomini e di vicinato
astrattamente idoneo a riflettersi sulla legittimazione del
richiedente il titolo edilizio.
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7 - La censura è infondata.
Deve infatti osservarsi che l’appellante concentra l’appello
su uno specifico passaggio della sentenza impugnata,
inducendo a supporre che il TAR avrebbe rigettato il ricorso
non perché le ricorrenti non avevano ottenuto il consenso
del terzo confinante –su cui si basava il provvedimento
sanzionatorio– ma perché “all’esito di apposito
sopralluogo” era emerso che “le opere assoggettate a
demolizione sono state eseguite a distanza inferiore a
quella minima di metri cinque dalla proprietà della sig.ra
Sa., ossia di un limite legale destinato ad investire anche
il rapporto pubblicistico immediatamente conoscibile e
sanzionabile da parte dell’ente locale”.
Tale prospettazione non è per nulla condivisibile,
trascurando di considerare il significato complessivo della
sentenza impugnata, la quale ha correttamente risposto al
motivo di ricorso originariamente proposto dalle appellanti,
senza alcuna violazione del principio tra il chiesto ed il
pronunciato.
7.1 - Al riguardo, giova ricordare, come dedotto anche da
parte appellante, che il provvedimento impugnato in prime
cure è fondato sull’accertamento della mancata presentazione
da parte delle ricorrenti del nulla osta del confinante.
In assoluta coerenza con la motivazione che giustifica il
provvedimento impugnato, e con i motivi del ricorso, il TAR
ha statuito che (testualmente): la legittimità del
provvedimento adottato dall’Amministrazione trae fondamento
normativo direttamente dalla previsione di cui all’art. 11
del d.p.r. n. 380/2001.
La sentenza prosegue precisando che: “ai fini del
rilascio di un titolo abitativo edilizio, il Comune è dunque
obbligato a verificare il rispetto dei limiti privatistici
solo a condizione che essi siano agevolmente conoscibili
ovvero effettivamente conosciuti e non contestati”.
In altre parole, il TAR, in conformità all’interpretazione
maggioritaria dell’art. 11 cit., ha precisato che la
verifica del comune in ordine al rispetto della disciplina
privatistica deve essere circoscritta a quei limiti “agevolmente
conoscibili ovvero effettivamente conosciuti e non
contestati”. Infatti, non è concretamente esigibile un
approfondimento da parte del comune di ogni singolo aspetto
privatistico relativo ai rapporti tra condomini e di
vicinato astrattamente idoneo a riflettersi sulla
legittimazione del richiedente il titolo edilizio (Cfr.
Cons. St., Sez IV, 30.12.2006 n. 8262; Cons. St. Sez VI,
20.12.2011 n. 6731; Cons. St. 26.01.2015 n. 316).
E’ in conseguenza di tale affermazione che il TAR ha poi
rilevato che il mancato rispetto della distanza dalla
proprietà confinante ledeva anche un limite legale, da
ritenersi, pertanto, un limite “agevolemente conoscibile”,
e dunque verificabile anche in sede amministrativa, da cui
la legittimità del rilievo concernente il mancato assenso
della proprietà confinante.
Il tenore della sentenza conferma appieno l’assunto che
precede: “l’omessa acquisizione (del consenso) risulta
essere stata accertata dall’Amministrazione comunale
all’esito di sopralluogo da cui è emerso che le opere
assoggettate a demolizione sono state eseguite a distanza
inferiore a quella minima di metri cinque dalla proprietà
della sig.ra Salvatori, ossia di un limite legale destinato
ad investire anche il rapporto pubblicistico immediatamente
conoscibile e sanzionabile da parte dell’ente locale”.
In definitiva, l’evidenziata circostanza che il mancato
rispetto del limite legale potesse di per sé giustificare
l’intervento comunale, non introduce affatto una
considerazione ultronea rispetto all’oggetto della causa,
così come delimitato dai motivi di ricorso; bensì, come
detto, vale unicamente a sottolineare come, nel caso di
specie, fosse necessario il consenso del proprietario
confinante e che, tale limite di natura privatistica doveva
essere indagato anche dal comune, in quanto “agevolmente
conoscibile”, trattandosi per l’appunto di limiti
derivanti direttamente da fonti pubblicistiche e non da
accordi privatistici intercorsi tra le parti.
8 – Alla luce delle considerazioni che precedono, l’appello
non deve trovare accoglimento; ne consegue la condanna di
parte appellante alla refusione delle spese di lite,
liquidate come in dispositivo (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 03.12.2018 n. 6860 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Prescrizione dell'ordine di demolizione del manufatto
abusivo - Esclusione - Natura di sanzione amministrativa a
carattere ripristinatorio - Giurisprudenza della Corte EDU -
Art. 31 del d.P.R. n. 380/2001.
In materia di reati concernenti
violazioni edilizie, l'ordine di demolizione del manufatto
abusivo non è sottoposto alla disciplina della prescrizione
stabilita dall'art. 173 cod. pen. per le sanzioni penali,
avendo natura di sanzione amministrativa a carattere
ripristinatorio, priva di finalità punitive e con effetti
che ricadono sul soggetto che è in rapporto col bene,
indipendentemente dal fatto che questi sia l'autore
dell'abuso.
...
Reati edilizi - Ordine di demolizione - Eventuale «disapplicazione»
dell'atto amministrativo - Potere-dovere di verifica del
giudice penale - Fattispecie: Sentenza passata in giudicato.
In tema di reati edilizi, il giudice
penale ha il potere-dovere di verificare in via incidentale
la legittimità del permesso di costruire in sanatoria e la
conformità delle opere agli strumenti urbanistici, ai
regolamenti edilizi ed alla disciplina legislativa in
materia urbanistico-edilizia, senza che ciò comporti
l'eventuale «disapplicazione» dell'atto amministrativo ai
sensi dell'art. 5 della legge 20.03.1865 n. 2248, allegato
E, atteso che viene operata una identificazione in concreto
della fattispecie con riferimento all'oggetto della tutela,
da identificarsi nella salvaguardia degli usi pubblici e
sociali del territorio regolati dagli strumenti urbanistici.
Nella specie, il richiamo all'art. 5 dell'all. e) della
legge 2248 del 1865 è del tutto inconferente, posto che
l'ordine di demolizione deriva dalla sentenza passata in
giudicato.
Peraltro, il diniego del condono edilizio non risultava
neanche essere stato impugnato
(Cass. Sez. 3, n. 46477 del 13/07/2017, Menga)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.11.2018 n. 53661 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI: Suddivisione
dell’appalto pubblico in lotti.
La scelta della stazione
appaltante circa la suddivisione in lotti di
un appalto pubblico costituisce una
decisione normalmente ancorata, nei limiti
previsti dall’ordinamento, a valutazioni di
carattere tecnico-economico.
In tali ambiti, il concreto esercizio del
potere discrezionale dell’Amministrazione
circa la ripartizione dei lotti da conferire
mediante gara pubblica deve essere
funzionalmente coerente con il bilanciato
complesso degli interessi pubblici e privati
coinvolti dal procedimento di appalto e
resta delimitato, oltre che dalle specifiche
norme del codice dei contratti, anche dai
principi di proporzionalità e di
ragionevolezza.
In definitiva, la scelta della stazione
appaltante se suddividere o meno l’appalto
in più lotti e, a maggior ragione, la scelta
di cosa inserire nel singolo lotto non è
suscettibile di essere censurata per ragioni
di mera opportunità, ma solamente per vizi
sintomatici di eccesso di potere, nelle
forme della carenza dell’istruttoria, della
irragionevolezza e non proporzionalità
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 29.11.2018 n. 2688 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
In linea generale, va ricordato che «la
scelta della stazione appaltante circa la
suddivisione in lotti di un appalto
pubblico, costituisce […] una decisione
normalmente ancorata, nei limiti previsti
dall’ordinamento, a valutazioni di carattere
tecnico-economico.
In tali ambiti, il concreto esercizio del
potere discrezionale dell’Amministrazione
circa la ripartizione dei lotti da conferire
mediante gara pubblica deve essere
funzionalmente coerente con il bilanciato
complesso degli interessi pubblici e privati
coinvolti dal procedimento di appalto e
resta delimitato, oltre che dalle specifiche
norme […] del codice dei contratti, anche
dai principi di proporzionalità e di
ragionevolezza» (così, C.d.S., Sez. III,
sentenza n. 5224/2017).
In definitiva, la scelta della stazione
appaltante se suddividere o meno l’appalto
in più lotti e, a maggior ragione, la scelta
di cosa inserire nel singolo lotto non è
suscettibile di essere censurata per ragioni
di mera opportunità, ma solamente per vizi
sintomatici di eccesso di potere, nelle
forme della carenza dell’istruttoria, della
irragionevolezza e non proporzionalità (cfr.,
C.d.S., Sez. V, sentenza n. 2044/2018). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
Gli architetti non hanno non hanno competenze riconosciute
in materia di opere idrauliche, la quali sono riservate ai
soli ingegneri.
E' ancora attuale la giurisprudenza di
questo Consiglio che ha ritenuto che la progettazione delle
opere viarie, idrauliche ed igieniche, che non siano
strettamente connesse con i singoli fabbricati, sia di
pertinenza degli ingegneri, in base all'interpretazione
letterale, sistematica e teleologica degli artt. 51, 52 e 54
del R.D..
In particolare, sono ancora attuali le considerazioni già
svolte -a proposito delle opere idrauliche- secondo cui
nell’ampia e comprensiva formulazione dell'art. 51 del R.D.
23.10.1925 n. 2537 (“sono di spettanza della professione
d’ingegnere il progetto, la condotta e la stima dei lavori
per estrarre trasformare ed utilizzare i materiali
direttamente od indirettamente occorrenti per le costruzioni
e per le industrie, dei lavori relativi alle vie ed ai mezzi
di trasporto di deflusso e di comunicazione, alle
costruzioni di ogni specie, alle macchine ed agli impianti
industriali, nonché, in generale, alle applicazioni della
fisica, i rilievi geometrici e le operazioni di estimo")
“sono ricomprese le costruzioni stradali, le opere
igienico-sanitarie (acquedotti, fognature ed impianti di
depurazione), gli impianti elettrici, le opere idrauliche e,
di certo, anche le opere di edilizia civile (nella
espressione "costruzioni di ogni specie”)”
Con la precisazione che -tenuto conto di quanto previsto
dall’art. 52, comma 1 (“Formano oggetto tanto della
professione di ingegnere quanto di quella di architetto le
opere di edilizia civile, nonché i rilievi geometrici e le
operazioni di estimo ad esse relative”) dello stesso Regio
Decreto- “non sembra corretto sostenere, su tali basi
normative, che la regola da valere, salvo eccezione
espressamente individuata, sia quella della equivalenza
delle competenze professionali di ingegneri ed architetti”.
---------------
Pur dovendosi riconoscere che la delimitazione di competenze
risultante dalla normativa secondaria è basata su concetti
di carattere descrittivo che consentono di adeguare la
disciplina all’evoluzione della tecnica e delle
qualificazioni professionali, il discrimine tra le due
professioni è rimasto segnato anche nelle sopravvenute
disposizioni del d.P.R. n. del 2001.
Pertanto, se adeguamenti sono certamente possibili in
riferimento al concetto di “edilizia civile”, interpretabile
estensivamente, restano di appannaggio della professione di
ingegnere le opere che richiedono una competenza tecnica
specifica e che esulano dall’edilizia civile rientrante
nella comune competenza.
In particolare, le opere idrauliche, in specie interferenti
con fiumi e corsi d’acqua, quali quelle oggetto dell’appalto
de quo, richiedono capacità professionali per l’analisi dei
fenomeni idrologici ed idraulici e presuppongono
l’applicazione di specifici metodi di calcolo (statistico,
idrologico e idraulico).
Le nozioni relative vengono impartite nei corsi di laurea
universitari della classe della Ingegneria civile e
ambientale, nei cui piani di studio sono inseriti –come
esposto anche nella relazione del verificatore- gli
insegnamenti riguardanti i settori scientifico disciplinari
ICAR/01 “Idraulica” e ICAR/02 “Costruzioni idrauliche e
Marittime e Idrologia” (D.M. Miur 04.10.2000).
Pertanto, fatte salve eventuali competenze di altri
professionisti (come ad esempio i geologi o i dottori
agronomi e forestali), per quanto qui rileva, gli
ingegneri sono i professionisti abilitati alla
progettazione di opere idrauliche fluviali e di corsi
d’acqua, o comunque di opere a questa progettazione
assimilate o collegate, tanto da richiedere l’applicazione
di calcoli idraulici; per contro, gli architetti non
possono essere compresi tra i soggetti abilitati alla
progettazione di opere idrauliche in quanto, sia ai sensi
degli artt. 51 e 52 del R.D. 23.10.1925, n. 2537 sia ai
sensi dell’art. 16 del d.P.R. 05.06.2001, n. 328, non hanno
competenze riconosciute in materia.
---------------
6. In risposta al secondo quesito –che è stato formulato
tenendo conto di quanto dedotto col terzo motivo di gravame
a proposito del superamento, per gli attuali percorsi
formativi universitari, della ripartizione di competenze di
cui agli artt. 51 e 52 del R.D. n. 2537 del 1925- il
verificatore ha dato atto che “i curricula di studio dei
laureati in architettura non contengono alcun insegnamento
delle discipline idrauliche, settori ICAR/01 e ICAR/02”
ed ha aggiunto che tra i due corsi di laurea vi è diversità
di “approccio metodologico generale”, pur
riconoscendo che l’autonomia degli atenei “permetta
differenziazioni anche significative nello stesso corso di
laurea tra atenei diversi”.
Quindi, in riferimento all’ateneo presso il quale ha
conseguito la laurea magistrale il tecnico sottoscrittore
dell’offerta tecnica dell’aggiudicataria, ha concluso nel
senso che -anche tenuto conto della “zona di confine
ambiguo” rappresentata dalla c.d. ingegneria
naturalistica- essendo comunque previsti nel caso di specie
interventi attinenti “l’idraulica fluviale”, il
laureato in architettura era privo delle necessarie
competenze, anche se in possesso di laurea specialistica
della classe 4S (Architettura e Ingegneria Edile) di cui
all’allegato 1 del D.M. 28.11.2000.
6.1. Le conclusioni raggiunte dal verificatore sono coerenti
con la normativa di riferimento.
Considerate le deduzioni dell’appellante, è opportuno
prendere le mosse dal D.P.R. 05.06.2001, n. 328 (Modifiche
ed integrazioni della disciplina dei requisiti per
l’ammissione all’esame di Stato e delle relative prove per
l’esercizio di talune professioni, nonché della disciplina
dei relativi ordinamenti), che è stato emanato proprio al
fine di tenere conto dei nuovi percorsi formativi di accesso
(lauree e lauree specialistiche) alla diverse professioni e
di differenziare, in base a tali percorsi, sia le attività
professionali consentite a ciascuna categoria professionale
che i requisiti di ammissione agli esami di Stato (cfr.
Cons. Stato, V. n. 776/2016 cit.).
L’impianto normativo sopravvenuto -pur lasciando fermo
l’ambito stabilito dalla previgente normativa in ordine alle
attività attribuite o riservate, in via esclusiva o meno, a
ciascuna professione (art. 1, comma 2)- prevede, quanto alle
attività professionali (art. 9):
- per la professione di architetto (art. 16), in possesso di
laurea specialistica (sezione A dell’Albo) – settore
architettura (unico rilevante nella specie), che “formano
oggetto dell’attività professionale … ai sensi e per gli
effetti dell’art. 1, comma 2, restando immutate le riserve e
attribuzioni già stabilite dalla vigente normativa, le
attività già stabilite dalle disposizioni vigenti nazionali
ed europee per la professione di architetto, ed in
particolare quelle che implicano l’uso di metodologie
avanzate, innovative o sperimentali”;
- per la professione di ingegnere (artt. 45-46), in possesso
di laurea specialistica (sezione A dell’Albo) –iscritti al
settore a (sezione degli ingegneri- settore civile e
ambientale), che le attività professionali che formano
oggetto della professione sono: “la pianificazione, la
progettazione, lo sviluppo, la direzione lavori, la stima,
il collaudo, la gestione, la valutazione di impatto
ambientale di opere edili e strutture, infrastrutture,
territoriali e di trasporto, di opere per la difesa del
suolo e per il disinquinamento e la depurazione, di opere
geotecniche, di sistemi e impianti civili e per l’ambiente e
il territorio”.
6.2. Orbene, tale normativa sull’assetto degli ordinamenti
professionali, in relazione ai percorsi formativi di nuova
istituzione, conclusi rispettivamente con laurea triennale o
con laurea magistrale, conserva la ripartizione delle
competenze tra architetti e ingegneri risultante dagli artt.
51 e 52 del R.D. 23.10.1925, n. 2537 (Regolamento per le
professioni d’ingegnere e di architetto) e succ. mod..
Si tratta infatti di normativa secondaria (peraltro,
nell’insieme, ripetutamente modificata e integrata da leggi
e decreti successivi), non solo espressamente mantenuta in
vigore dal menzionato art. 1 del d.P.R. n. 328 del 2001,
oltre che dagli artt. 16 (per gli architetti) e 46, comma 2
(per gli ingegneri iscritti alla sezione A), ma compatibile
col nuovo assetto degli studi, perciò tuttora applicabile
(come, d’altronde, riconosciuto anche da diversi precedenti
giurisprudenziali, tra cui Cons. Stato, IV, 05.06.2009, n.
4866 e id., VI, 15.03.2013, n. 1550).
6.3. Allora, è ancora attuale la giurisprudenza di questo
Consiglio, richiamata nella sentenza appellata, che ha
ritenuto che la progettazione delle opere viarie, idrauliche
ed igieniche, che non siano strettamente connesse con i
singoli fabbricati, sia di pertinenza degli ingegneri, in
base all'interpretazione letterale, sistematica e
teleologica degli artt. 51, 52 e 54 del R.D. (cfr. sez. V,
06.04.1998, n. 416; sez. IV, 19.02.1990, n. 92; sez. III,
11.12.1984, n. 1538; sez. IV, 22.05.2000, n. 2938).
In particolare, sono ancora attuali le considerazioni svolte
a proposito delle opere idrauliche nella sentenza della
Sezione IV, 06.04.1998, n. 416 che –richiamando la sentenza
della sez. IV, n. 92 del 17.02.1990 ed il parere della sez.
III, n. 1538 dell’11.12.1984- ha reputato che nell’ampia e
comprensiva formulazione dell'art. 51 del R.D. 23.10.1925 n.
2537 (“sono di spettanza della professione d’ingegnere il
progetto, la condotta e la stima dei lavori per estrarre
trasformare ed utilizzare i materiali direttamente od
indirettamente occorrenti per le costruzioni e per le
industrie, dei lavori relativi alle vie ed ai mezzi di
trasporto di deflusso e di comunicazione, alle costruzioni
di ogni specie, alle macchine ed agli impianti industriali,
nonché, in generale, alle applicazioni della fisica, i
rilievi geometrici e le operazioni di estimo") “sono
ricomprese le costruzioni stradali, le opere
igienico-sanitarie (acquedotti, fognature ed impianti di
depurazione), gli impianti elettrici, le opere idrauliche e,
di certo, anche le opere di edilizia civile (nella
espressione "costruzioni di ogni specie”)”
Con la precisazione che -tenuto conto di quanto previsto
dall’art. 52, comma 1 (“Formano oggetto tanto della
professione di ingegnere quanto di quella di architetto le
opere di edilizia civile, nonché i rilievi geometrici e le
operazioni di estimo ad esse relative”) dello stesso
Regio Decreto- “non sembra corretto sostenere, su tali
basi normative, che la regola da valere, salvo eccezione
espressamente individuata, sia quella della equivalenza
delle competenze professionali di ingegneri ed architetti”.
6.4. Pur dovendosi riconoscere che la delimitazione di
competenze risultante dalla normativa secondaria è basata su
concetti di carattere descrittivo che consentono di adeguare
la disciplina all’evoluzione della tecnica e delle
qualificazioni professionali (come osservato da Cons. Stato,
IV, n. 4866/2009 e id., VI, n. 1550/2013 cit.), il
discrimine tra le due professioni è rimasto segnato anche
nelle sopravvenute disposizioni del d.P.R. n. del 2001.
Pertanto, se adeguamenti sono certamente possibili in
riferimento al concetto di “edilizia civile”,
interpretabile estensivamente (cfr. Cons. Giust. Amm. Reg.
Sic., 21.01.2005, n. 9), restano di appannaggio della
professione di ingegnere le opere che richiedono una
competenza tecnica specifica e che esulano dall’edilizia
civile rientrante nella comune competenza.
In particolare, le opere idrauliche, in specie interferenti
con fiumi e corsi d’acqua, quali quelle oggetto dell’appalto
de quo, richiedono capacità professionali per
l’analisi dei fenomeni idrologici ed idraulici e
presuppongono l’applicazione di specifici metodi di calcolo
(statistico, idrologico e idraulico).
Le nozioni relative vengono impartite nei corsi di laurea
universitari della classe della Ingegneria civile e
ambientale, nei cui piani di studio sono inseriti –come
esposto anche nella relazione del verificatore- gli
insegnamenti riguardanti i settori scientifico disciplinari
ICAR/01 “Idraulica” e ICAR/02 “Costruzioni
idrauliche e Marittime e Idrologia” (D.M. Miur
04.10.2000).
Pertanto, fatte salve eventuali competenze di altri
professionisti (come ad esempio i geologi o i dottori
agronomi e forestali), per quanto qui rileva, gli ingegneri
sono i professionisti abilitati alla progettazione di opere
idrauliche fluviali e di corsi d’acqua, o comunque di opere
a questa progettazione assimilate o collegate, tanto da
richiedere l’applicazione di calcoli idraulici; per contro,
gli architetti non possono essere compresi tra i soggetti
abilitati alla progettazione di opere idrauliche in quanto,
sia ai sensi degli artt. 51 e 52 del R.D. 23.10.1925, n.
2537 sia ai sensi dell’art. 16 del d.P.R. 05.06.2001, n.
328, non hanno competenze riconosciute in materia.
6.5. Giova aggiungere alla disamina normativa fin qui svolta
che, a seguito della verificazione, si è anche accertato in
concreto il piano di studi prescritto per il conferimento
della laurea specialistica della classe 4S (Architettura e
Ingegneria Edile) conseguita presso l’Università degli Studi
di Napoli dall’architetto incaricato da Co.Ge.Par. s.r.l. e
si è constatata la mancanza di specifici insegnamenti di
discipline idrauliche.
7. In conclusione, è corretta la sentenza impugnata laddove,
ritenendo violato da parte dell’aggiudicataria il punto XI.3
del bando, che imponeva, a pena di esclusione, la
sottoscrizione degli elaborati da parte di un tecnico
abilitato, ha concluso per l’illegittimità
dell’aggiudicazione in favore di Co.Ge.Par. s.r.l., in
quanto l’offerta tecnica di quest’ultima era sottoscritta da
un architetto, mentre -per il contenuto delle proposte
migliorative- avrebbe dovuto essere sottoscritta da un
ingegnere.
Tale profilo di illegittimità avrebbe dovuto imporre alla
stazione appaltante l’esclusione della concorrente poi
divenuta aggiudicataria, tra l’altro, senza alcuna
possibilità di soccorso istruttorio, trattandosi di
criticità direttamente inerenti all’offerta.
L’appello va respinto (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 21.11.2018 n. 6593 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Interesse
a impugnare un PGT che classifica agricola
un’area che il PTCP inserisce in un ambito
agricolo di interesse strategico.
E' inammissibile per
difetto di interesse a ricorrere un ricorso
avverso la classificazione ad area agricola
impressa da un PGT in quanto, stante
l’inserimento di detta area in un più ampio
ambito destinato all’attività agricola di
interesse strategico secondo le Norme
Tecniche del PTCP, deve escludersi che il
Comune avesse la potestà di assegnare al
fondo della ricorrente una destinazione
urbanistica diversa da quella assegnata dal
PTCP e, di conseguenza, la ricorrente non
potrebbe ottenere alcun vantaggio
dall’accoglimento del ricorso
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 21.11.2018 n. 2622 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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1. Il ricorso è inammissibile per carenza di
interesse a ricorrere.
Il ricorrente contesta infatti la
qualificazione agricola dell’area di sua
proprietà imputando tale scelta ad errori di
tipo sostanziale e procedurale compiuti dal
Comune nella redazione della variante al PGT
impugnata.
Dall’esame degli atti risulta invece che il
compendio per cui è causa, secondo il PGT
impugnato, ricade in una zona E non
urbanizzata, Area per attività agricole
disciplinata dall’art. 22 del PdR ed
inserita in un più ampio ambito destinato
all’Attività Agricola di Interesse
Strategico secondo l’art. 6 delle Norme
Tecniche del PTCP della Provincia di Monza e
Brianza. Il PTCP è stato approvato con
deliberazione del Consiglio Provinciale n.
16 del 10.07.2013, che non risulta impugnato
nei termini con il presente ricorso.
In merito occorre rammentare che secondo
l’art. 15, c. 4 e 5, della L.R. 12/2005 “Il PTCP, acquisite le proposte dei comuni,
definisce, in conformità ai criteri
deliberati dalla Giunta regionale, gli
ambiti destinati all’attività agricola di
interesse strategico, analizzando le
caratteristiche, le risorse naturali e le
funzioni e dettando i criteri e le modalità
per individuare a scala comunale le aree
agricole, nonché specifiche norme di
valorizzazione, di uso e di tutela, in
rapporto con strumenti di pianificazione e
programmazione regionali, ove esistenti. 5.
Tale individuazione ha efficacia prevalente
ai sensi dell’articolo 18, nei limiti della
facoltà dei comuni di apportarvi, in sede di
redazione del piano delle regole,
rettifiche, precisazioni e miglioramenti
derivanti da oggettive risultanze riferite
alla scala comunale. In tal caso per
l’approvazione di detto piano si applicano
anche i commi 5 e 7 dell’articolo 13”.
A sua volta l’art. 13 della L.R. 12/2005
stabilisce che il Comune, in sede di controdeduzione alle osservazioni dei
privati e di approvazione definitiva del PGT,
“contestualmente, a pena di inefficacia
degli atti assunti, provvede all’adeguamento
del documento di piano adottato, nel caso in
cui la provincia abbia ravvisato elementi di
incompatibilità con le previsioni prevalenti
del proprio piano territoriale di
coordinamento, o con i limiti di cui
all’articolo 15, comma 5”.
Risulta chiaro quindi che il Piano
Territoriale di Coordinamento Provinciale
ha, con riferimento all’individuazione delle
aree agricole strategiche, una funzione non
solo di indirizzo della programmazione
urbanistica comunale, ma anche una funzione
direttamente conformativa del territorio.
Né d’altro canto è possibile ritenere, come
fa la ricorrente, che “… non corrisponde al
vero quindi l’affermazione per cui si
tratterebbe di “prescrizioni vincolanti per
i Comuni” …”. In realtà il Comune ha la
facoltà di cui all’art. 7, comma 6, delle
norme del PTCP di apportare
all’individuazione degli ambiti destinati
all’attività agricola d’interesse strategico
rettifiche ossia correzioni di errori
evidenziati da oggettive risultanze riferite
alla scala comunale, precisazioni ovvero
integrazioni.
Infatti il potere comunale consiste solo
nella facoltà di specificare gli esatti
limiti del vincolo riportandolo alla scala
comunale più ridotta. Si tratta quindi di
una facoltà di carattere meramente esecutivo
che conferma il carattere prevalente e
direttamente conformativo del territorio
assegnato alla previsione di PTCP con
riferimento alle aree agricole di interesse
strategico. Questa Sezione, del resto, si è
già pronunciata nel senso che simili
previsioni del PTCP assumono carattere
prescrittivo e prevalente rispetto agli
strumenti urbanistici comunali (v. sent. n.
2423 dell’08.10.2014) e che, pertanto,
il potere pianificatorio comunale in subiecta materia risulta finalizzato ad una
mera attività di specificazione e
puntualizzazione delle scelte operate a
livello provinciale (v. sent. n. 2452 del 02.10.2012).
A ciò si aggiunge che non risulta che il
ricorrente abbia richiesto o comunque
ottenuto l’esclusione dell’area di sua
proprietà dal suddetto vincolo con
l’approvazione della variante al PGT.
In definitiva quindi il ricorso va
dichiarato inammissibile per difetto di
interesse a ricorrere in quanto deve
escludersi che il Comune avesse la potestà
di assegnare al fondo della ricorrente una
destinazione urbanistica diversa da quella
assegnata dal PTCP e, di conseguenza, la
ricorrente non potrebbe ottenere alcun
vantaggio dall’accoglimento del presente
ricorso. |
APPALTI: Anomalia
dell’offerta e ulteriori elementi di
giustificazione resi in sede giudiziale
Se in sede
giurisdizionale il concorrente
classificatosi al secondo posto deduce
l’inattendibilità dell’offerta anomala per
aspetti non specificatamente presi in
considerazione dalla stazione appaltante,
legittimamente l’aggiudicataria può
difendersi in giudizio provvedendo a
giustificare tali voci in sede processuale
e, di conseguenza, il giudice è tenuto a
pronunciare anche su tali aspetti in base al
principio dell’art. 112 c.p.c..
In pratica,
l’introduzione di ulteriori elementi di
giustificazione dell’offerta, rispetto a
quelli oggetto della richiesta di
chiarimenti della stazione appaltante –della quale l’appellante lamenta
l’inammissibilità– discende proprio dalla
tecnica difensiva utilizzata dalla
ricorrente nel presente giudizio
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 14.11.2018 n. 6430 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
11. - I primi due motivi di appello possono
essere esaminati congiuntamente essendo tra
loro connessi.
Occorre innanzitutto rilevare che, nel caso
di specie, la stazione appaltante ha
ritenuto congrua l’offerta della
controinteressata (cfr. relazione di
valutazione dell’offerta anomala versata in
atti).
Secondo il costante orientamento della
giurisprudenza, il giudizio favorevole di
non anomalia dell'offerta in una gara
d'appalto non richiede una motivazione
puntuale ed analitica, essendo sufficiente
anche una motivazione espressa per relationem alle giustificazioni rese
dall'impresa offerente, sempre che queste
ultime siano a loro volta congrue ed
adeguate (Cons. Stato, sez. V, 17/05/2018,
n. 2951); solo in caso di giudizio negativo
sussiste, infatti, l’obbligo di una puntuale
motivazione.
Inoltre, la stazione appaltante non è tenuta
a chiedere chiarimenti su tutti gli elementi
dell’offerta e su tutti i costi, ma può
legittimamente limitarsi a verificare se,
nel complesso, quest’ultima sia remunerativa
e come tale assicuri il corretto svolgimento
del servizio: può limitarsi, quindi, a
chiedere le giustificazioni con riferimento
alle sole di voci di costo più rilevanti, le
quali –da sole– potrebbero incidere in
modo determinante sull’attendibilità
dell’offerta complessiva, evitando di
chiedere i giustificativi in relazione ad
elementi marginali dell’offerta non in grado
di incidere sulla complessiva congruità di
essa.
Occorre, infatti, ricordare che:
- la valutazione di congruità deve essere
globale e sintetica, senza concentrarsi
esclusivamente ed in modo parcellizzato
sulle singole voci, dal momento che
l'obiettivo dell'indagine è l'accertamento
dell'affidabilità dell’offerta nel suo
complesso e non già delle singole voci che
la compongono (Cons. Stato A.P. n. 36/2012 ;
Cons. Stato, Sez. V, 14.06.2013, n.
3314; 01.10.2010, n. 7262; 11.03.2010
n. 1414; IV, 22.03.2013, n. 1633; III, 14.02.2012, n. 710);
- ciò che interessa al fine dello
svolgimento del giudizio successivo alla
valutazione dell’anomalia dell’offerta è
rappresentato dall’accertamento della
serietà dell’offerta desumibile dalle
giustificazioni fornite dalla concorrente e
dunque la sua complessiva attendibilità.
La stazione appaltante, nel caso di specie,
si è attenuta a tale principio ed ha chiesto
chiarimenti sul costo del lavoro che, tenuto
conto della natura dell’appalto oggetto di
gara, rappresenta la voce preponderante dei
costi.
Le giustificazioni fornite dalla cooperativa
aggiudicataria riguardavano, ovviamente, i
profili per i quali erano stati chiesti i
chiarimenti e le giustificazioni.
Il provvedimento della stazione appaltante
che ha accolto le giustificazioni e ha
ritenuto congrua l’offerta non contiene una
motivazione dettagliata su tutti i costi, ma
può ben rinviare alle giustificazioni
fornite dalla concorrente (come è accaduto,
per i dettagli, anche nel caso di specie).
Se in sede giurisdizionale il concorrente
classificatosi al secondo posto deduce
l’inattendibilità dell’offerta per aspetti
non specificatamente presi in considerazione
dalla stazione appaltante, legittimamente
l’aggiudicataria può difendersi in giudizio
provvedendo a giustificare tali voci in sede
processuale e, di conseguenza, il giudice è
tenuto a pronunciare anche su tali aspetti
in base al principio dell’art. 112 c.p.c.
In pratica, l’introduzione di ulteriori
elementi di giustificazione dell’offerta,
rispetto a quelli oggetto della richiesta di
chiarimenti della stazione appaltante –della quale l’appellante lamenta
l’inammissibilità– discende proprio dalla
tecnica difensiva utilizzata dalla
ricorrente nel presente giudizio: ne
consegue l’infondatezza della proposta
doglianza.
12. - Altrettanto infondato è il secondo
motivo di appello: nella sentenza di primo
grado il TAR, dopo aver richiamato i
principi costantemente affermati dalla
giurisprudenza in ordine alla funzione della
verifica dell’anomalia dell’offerta, diretta
ad accertare la sua sostenibilità
complessiva e non a verificare specifiche
eventuali inesattezze, ha rilevato che
“parte ricorrente si limita a dedurre
pretese carenze informative nelle
giustificazioni fornite dall’aggiudicataria
all’amministrazione, sostenendo così che
l’offerta avrebbe dovuto essere esclusa solo
per tale ragione” ed ha poi sottolineato
che, invece, avrebbe dovuto “fornire il
quadro economico generale e pluriennale
delle relative ripercussioni sull’offerta
complessiva e sulla sua pretesa
insostenibilità”.
In pratica, il primo giudice, ha
semplicemente rilevato che per poter
contestare il giudizio complessivo di
congruità dell’offerta reso dalla stazione
appaltante la ricorrente avrebbe dovuto
dimostrare non soltanto la mancata
giustificazione di talune voci, ma
l’insostenibilità complessiva dell’offerta.
Con tale affermazione il TAR ha, in pratica,
richiamato il costante orientamento della
giurisprudenza secondo cui l’esclusione
dalla gara necessita la prova
dell'inattendibilità complessiva
dell’offerta (Cons. Stato A.P., 29.11.2012, n. 36; Sez. V, 26.09.2013, n.
4761; 18.08.2010, n. 5848; 23.11.2010, n. 8148)
Ne consegue che la decisione del primo
giudice, non presenta alcuno dei vizi
dedotti con i primi due motivi di appello,
ma semmai richiama principi affermati dalla
giurisprudenza consolidata del giudice
amministrativo. |
EDILIZIA PRIVATA:
Demolizione di opere abusive - Individuazione della
corrispondenza tra l'immobile da demolire e quello descritto
in sentenza - Verifica di tutti gli elementi disponibili -
Limiti della verifica - Casi di aggiunte, modifiche e
superfetazioni successive alla condanna definitiva -
Completa restitutio in integrum dello stato dei
luoghi - Giurisprudenza.
In tema di demolizione di opere abusive,
ai fini della individuazione della corrispondenza tra
l'immobile da demolire e quello descritto nella sentenza di
condanna, è l'identità tra le opere oggetto di imputazione e
quelle da abbattere, desumibile non soltanto dalla
volumetria, soggetta a diversi criteri di computo, ma dalla
sostanziale coincidenza ricavabile in base a tutti gli
elementi disponibili.
Peraltro, la necessità di una simile verifica va esclusa in
tutti i casi di aggiunte, modifiche e superfetazioni
successive alla realizzazione delle opere per le quali vi è
stata condanna definitiva, in quanto, la demolizione
ordinata dal giudice non riguarda soltanto l'immobile
oggetto del procedimento che ha dato vita al titolo
esecutivo, ma anche ogni altro intervento eseguito
successivamente che, per la sua accessorietà all'opera
abusiva, renda ineseguibile l'ordine medesimo, non potendo
consentirsi che un qualunque intervento additivo,
abusivamente realizzato, possa in qualche modo ostacolare
l'integrale attuazione dell'ordine giudiziale di demolizione
dell'opera cui accede e, quindi, impedire la completa
restitutio in integrum dello stato dei luoghi disposta dal
giudice con sentenza definitiva, poiché, se così non fosse,
si finirebbe per incentivare le più diverse forme di
abusivismo, funzionali ad impedire o a ritardare a tempo
indefinito la demolizione di opere in precedenza
illegalmente realizzate
(Sez. 3, n. 6049 del 27/09/2016 (dep. 2017), Molinari; Sez.
3, n. 38947 del 09/07/2013, Amore; Sez. 3, n. 21797 del
27/04/2011, Apuzzo; Sez. 3, n. 2872 del 11/12/2008 (dep.
2009), P.M. in proc. Corimbi; Sez. 3, n. 13649 del
20/02/2002, Corbi; Sez. 3, n. 10248 del 18/1/2001, Vitrani) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.11.2018 n. 51058 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Nozione di acque reflue
industriali - Individuazione dell'attività di produzione
industriale - Insediamenti di attività artigianali e di
prestazioni di servizi - Caratteristiche di quantità e
qualità delle acque - Fattispecie: lavaggio di capannoni
adibiti all'allevamento di tacchini - Artt. 74, 137 e 256,
2° c. d.lgs. n. 152/2006 - Giurisprudenza.
In tema di inquinamento idrico,
rientrano nella nozione di acque reflue industriali definita
dal D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, art. 74, comma 1, lett. h),
(come modificato dal D.Lgs. 16.01.2008, n. 4) tutti i tipi
di acque derivanti dallo svolgimento di attività produttive,
in tale accezione dovendosi ricomprendere tutti i reflui che
non attengono prevalentemente al metabolismo umano ed alle
attività domestiche, cioè non collegati alla presenza umana,
alla coabitazione ed alla convivenza di persone, né si
configurano come acque meteoriche di dilavamento,
intendendosi per tali quelle piovane, anche se venute in
contatto con sostanze o con materiali
(Sez. 3^, n. 12865 del 05/02/2009, Bonaffini).
Da ciò discende che sono da considerare
scarichi industriali, oltre ai reflui provenienti da
attività di produzione industriale vera e propria, anche
quelli provenienti da insediamenti ove si svolgono attività
artigianali e di prestazioni di servizi, quando le
caratteristiche qualitative degli stessi siano diverse da
quelle delle acque domestiche
(Sez. 3, n. 3199 del 02/10/2014 - dep. 23/01/2015, Verbicaro).
Sicché, rientrano nella nozione di acque
reflue industriali quelle provenienti e scaricate, come
nella specie, dalle operazioni di lavaggio di capannoni
adibiti in forma stabile ad allevamento di animali
(tacchini).
...
ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Stabile sistema di
collettamento che unisca il ciclo di produzione del refluo
con il suolo - Art. 137 d.lgs. n. 152/2006, natura di reato
di pericolo - Episodicità delle immissioni - Ininfluenza -
INQUINAMENTO DEL SUOLO - Potenzialità inquinante
dell'ambiente, anche nel suolo o nel sottosuolo.
Ai fini della sua configurabilità del
reato di cui all'art. 137 d.lgs. n. 152/2006, attesa la sua
natura di reato di pericolo, rileva la semplice esistenza di
uno stabile sistema di collettamento che unisca il ciclo di
produzione del refluo con il suolo, costituito nella specie
dalla tubatura interrata confluente nella fossa di raccolta,
non essendo richiesto che lo sversamento avvenga nel sistema
fognario posto che la norma punisce ogni indebita immissione
di acque reflue, in ragione della potenzialità inquinante
dell'ambiente, anche nel suolo o nel sottosuolo.
Pertanto, non è certo l'episodicità delle immissioni
verificatesi in concreto ad escludere la contravvenzione
(Sez. 3, n. 45634 del 22/10/2015 - dep. 17/11/2015, Mora
Fulgido).
...
RIFIUTI - Attività di stoccaggio e smaltimento di rifiuti -
Reato di deposito incontrollato di rifiuti - Presupposti per
la configurabilità del reato - Possesso di fatto dell'area
ovvero di detenzione qualificata da un sottostante rapporto
negoziale.
Ai fini della configurabilità del reato
di deposito incontrollato di rifiuti, quello che rileva è
l'attività di stoccaggio e smaltimento di rifiuti, dovendosi
considerare tali i materiali ammassati alla rinfusa, senza
autorizzazione alcuna, sull'area di cui l'imputato abbia la
disponibilità, senza che rilevi, in relazione al rapporto
sussistente tra l'imputato e l'area adibita a deposito
incontrollato, allorquando non si proceda a confisca della
stessa, che si tratti di un possesso di fatto ovvero di una
detenzione qualificata da un sottostante rapporto negoziale.
...
DANNO AMBIENTALE - Offensività della condotta in ragione dei
danni ambientali - DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Diniego
delle causa di non punibilità - Pluralità dei reati - Reati
ambientali - Art. 131-bis c.p. - Apprezzamento di merito non
sindacabile in sede di legittimità - Fattispecie.
La causa di non punibilità prevista
dall'art. 131-bis c.p., si configura come un apprezzamento
di merito non sindacabile in sede di legittimità se non in
presenza di motivazione incongrua o contraddittoria.
Nella specie, deve escludersi che le plurime ragioni
evidenziate a fondamento del diniego, costituite dalla
natura pericolosa dei rifiuti, dal contemporaneo sversamento
delle acque reflue nel terreno in assenza di autorizzazione
e degli specifici precedenti penali dall'imputato siano
inficiate da qualsivoglia vizio motivazionale, che la stessa
difesa non riesce neppure a configurare.
Con la suddetta motivazione viene infatti dato conto tanto
della offensività della condotta in ragione dei danni
ambientali con essa provocati, quanto dell'abitualità della
condotta del prevenuto sotto il duplice profilo sia
diacronico, avuto riguardo alle precedenti condanne per
reati afferenti anch'essi alla normativa ambientale, sia
sincronico, stante la pluralità dei reati ascrittigli (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.11.2018 n. 51006 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI: Utile
esiguo e anomalia dell’offerta.
Al di fuori dei casi in
cui il margine positivo risulti pari a zero,
non è possibile stabilire una soglia minima
di utile al di sotto della quale l'offerta
deve essere considerata anomala, poiché
anche un utile apparentemente modesto può
comportare un vantaggio significativo, sia
per la prosecuzione in sé dell’attività
lavorativa, sia per la qualificazione, la
pubblicità, il curriculum derivanti per
l’impresa dall’essere aggiudicataria e aver
portato a termine un appalto pubblico (nella
fattispecie si trattava di un utile annuo,
dichiarato in sede di giustificazioni rese
nel procedimento di verifica dell’anomalia,
pari a euro 774,51)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 24.10.2018 n. 2394 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
La censura è in parte inammissibile e in
parte infondata.
E’ inammissibile -come già rilevato in
precedenza– nella parte in cui censura la
verifica di congruità dell’offerta del RTI
controinteressato per vizi diversi da quelli
per i quali questo Tribunale aveva già
annullata la precedente verifica di
congruità e con essa la consequenziale
aggiudicazione dell’appalto.
Si tratta, per
la precisione, della parte della doglianza
concernente una serie di costi asseritamente
non presi in considerazione dalla stazione
appaltante, ovverosia la tassa fissa di
registrazione e le spese di segreteria, il
costo derivante dall’esatto numero di
addetti da inquadrare nel IV livello, il
premio INAIL insuscettibile della riduzione
prospettata dal RTI Sa., il costo
variabile degli automezzi impiegati nel
servizio, la spesa per la produzione e la
distribuzione dei calendari per la raccolta
differenziata, la spesa per la sostituzione
dei vari contenitori, le spese per le
emergenze, il costo dei sacchetti.
La censura è, invece, infondata per la parte
che riguarda il costo del lavoro, il costo
dei bidoni, l’utile d’impresa.
Con riferimento al primo aspetto, va
considerato che il RTI Sa. dichiara un
aumento del costo del lavoro pari a Euro
950,49 all’anno, quale conseguenza
dell’inquadramento nel IV livello, anziché
nel III, degli addetti che in sede di
offerta possedevano quella qualifica.
Tale aumento non può sicuramente che essere
fatto rifluire nelle spese generali (come
pretenderebbe l’odierno controinteressato),
ma va sottratto all’utile annuo, prefigurato
dall’aggiudicatario nelle proprie
giustificazioni in Euro 1.725,00 annui.
Peraltro, il fatto che il consulente esterno
incaricato dal Comune sostenga che i
conteggi effettuati dal RTI Sangalli
eccedano i minimi salariali, e che dunque il
costo del lavoro sarebbe inferiore, lungi
dal smentire le dichiarazioni
dell’aggiudicatario, ne dimostra semmai
l’attendibilità. Resta fermo che è ai
conteggi dell’offerente (e non a quelli del
consulente) che occorre fare riferimento,
perché la verifica di congruità riguarda
quella specifica offerta (comprensiva di
livelli salariali maggiori di quelli minimi)
e non un’offerta astratta.
Per quanto riguarda il costo dei bidoni, il
consulente incaricato dal Comune ha stimato
un costo compreso tra 1,10 e 1,70 Euro + IVA
a bidone per quelli da 10 litri, e un costo
compreso tra 20,00 e 25,00 Euro + IVA a
bidone per quelli da 120 litri.
Il RTI Sa.i nelle proprie
giustificazioni indica un costo d’acquisto
di 0,50 Euro l’uno per quelli da 10 litri e
di 12,00 Euro l’uno per quelli da 120 litri.
Sennonché, a comprova di questi prezzi, che
il consulente dell’Amministrazione ritiene
fuori mercato, l’aggiudicatario ha
presentato un preordine presso un importante
operatore del settore. Detto operatore
economico, poi, su espressa richiesta del
Comune, ha confermato per iscritto le
particolari condizioni economiche
riconosciute con riguardo al quell’ordine al
RTI Sa..
Un tanto è sufficiente per ritenere
giustificato la voce di costo per i bidoni.
All’esito delle giustificazioni, al RTI
Sa. residua, dunque, un utile annuo di
Euro 774,51: si tratta di un utile esiguo,
ma non del tutto azzerato.
E, secondo il consolidato, orientamento
giurisprudenziale «al di fuori dei casi in
cui il margine positivo risulti pari a zero,
non è possibile stabilire una soglia minima
di utile al di sotto della quale l'offerta
deve essere considerata anomala, poiché
anche un utile apparentemente modesto può
comportare un vantaggio significativo, sia
per la prosecuzione in sé dell’attività
lavorativa, sia per la qualificazione, la
pubblicità, il curriculum derivanti per
l’impresa dall’essere aggiudicataria e aver
portato a termine un appalto pubblico»
(così, C.d.S., Sez. III, sentenza n.
3861/2018).
In conclusione, il ricorso è infondato e per
questo viene respinto. |
AGGIORNAMENTO AL 03.12.2018 |
ã |
R.U.P. ed incentivo funzioni
tecniche:
in assenza dell'atto formale di nomina, di volta
in volta per singolo progetto, il compenso incentivante non può essere
erogato!! |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
Responsabile unico del procedimento (RUP) - Conferimento
della funzione - Formale atto di nomina - Necessità -
Compenso incentivante - Dirigente del settore lavori
pubblici - Disciplina applicabile - L. n. 241/1990 e ss.mm.
- L. n. 109/1994 ess.mm.- D.L.vo n. 50/2016.
La funzione di responsabile unico del
procedimento (R.U.P.) nel settore dei lavori pubblici, deve
essere conferita attraverso un formale atto di nomina in
assenza del quale il compenso incentivante, previsto dalla
normativa in materia, non spetta al dirigente dell'ufficio
tecnico di un ente pubblico locale per il solo fatto che
l'art. 5 della L. 241/1990 consideri responsabile del
procedimento il funzionario preposto a ciascuna unità
organizzativa. Il principio di diritto, in applicazione
ratione temporis dell'art. 7 della L. 109/1994, può essere
riportato anche nella vigenza delle successive norme che
hanno previsto e prevedono la nomina del RUP per ciascuna
specifica procedura di affidamento di contratti pubblici,
vale a dire l'art. 10 del D.Leg.vo 163/2006, ed in seguito
l'art. 31 del D.Leg.vo 50/2016.
Pertanto, il riferimento è agli incentivi attribuiti al RUP
nonché ad altri soggetti interni alla pubblica
amministrazione ed esercenti funzioni tecniche in relazione
a ciascuna specifica procedura di aggiudicazione, ai sensi,
prima dell'art. 18 della L. 109/1994, poi, dell'art. 92 del
D.L.vo n. 163/2006, in seguito (dopo le modifiche introdotte
ad opera del D.L. 90/2014, convertito in legge dalla L.
114/2014), dai commi da 7-bis a 7-quater dell’art. 93 del
D.L.vo n. 163/2006, poi ancora dell'art. 113 del c. 3,
D.L.vo 50/2016 (Corte
di Cassazione, Sez. lavoro,
ordinanza 11.07.2018 n. 18274 - link a www.ambientediritto.it). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
Nel
settore dei lavori pubblici, il conferimento della funzione
di R.U.P. deve essere formale, come si evince chiaramente
dal dato testuale del primo comma dell'art. 7 legge n. 109
del 1994, a seguito delle modifiche apportate dalla legge n.
415 del 1998, secondo cui occorre che le Pubbliche
Amministrazioni e gli Ente pubblici di cui all'art. 2, comma
2, lett. a), provvedano alla "nomina" di "un responsabile
unico del procedimento di attuazione di ogni singolo
intervento previsto dal programma triennale dei lavori
pubblici, per le fasi della progettazione, dell'affidamento
e dell'esecuzione".
Il rilievo è decisivo, in quanto per il periodo anteriore al
formale conferimento delle funzioni di R.U.P. non può essere
riconosciuto il compenso di cui all'art. 18 legge n. 109 del
1994.
---------------
1. La Corte di appello di Palermo ha confermato la sentenza
emessa dal Giudice del lavoro del Tribunale di Trapani, che
aveva respinto la domanda proposta dall'ing. An.Ca. nei
confronti del Comune di Mazara del Vallo diretta a ottenere
la condanna dell'Ente convenuto al pagamento del compenso di
cui all'art. 18 L. 109 del 1994, spettante al dirigente che
abbia svolto le funzioni di Responsabile unico del
procedimento.
2. Il Ca., dipendente del Comune di Mazara del Vallo dal
18.09.1990 al 31.12.2005, dapprima quale dirigente del
settore lavori pubblici (fino al 20.09.2004) e poi quale
dirigente del settore servizi alla città (fino al
01.01.2005), aveva adito il Giudice del lavoro sostenendo
che, con determinazioni del Sindaco n. 38 e n. 39 del
17.02.2004, era stato nominato Responsabile unico del
procedimento per la progettazione, affidamento ed esecuzione
di alcuni lavori pubblici, ma che pure nel periodo anteriore
a tale nomina formale di R.U.P., aveva svolto le medesime
mansioni di responsabile unico del procedimento,
strettamente connesse alla funzione di dirigente
dell'Ufficio tecnico LL.PP. del Comune di Mazara del Vallo;
che per tale periodo anteriore al 2004 non aveva percepito
il compenso di cui all'art. 18 L. n. 109 del 1994, seppure
l'art. 5, comma 2, L. n. 241/1990, come recepito dalla legge
regionale n. 10/1991 art. 5, prevedesse che il dirigente è
autonomamente responsabile di tutti i procedimenti assegnati
al settore di competenza, a meno che non provveda egli
stesso ad assegnare ad altro funzionario la relativa pratica
o progetto.
Aveva prospettato inoltre che il compenso spetta al preposto
pur nell'ipotesi in cui l'attività di progettazione sia
stata affidata ad un progettista esterno anziché agli uffici
tecnici interni.
3. La Corte territoriale, nel confermare la sentenza di
rigetto della domanda, ha osservato:
- che, a norma dell'art. 7 L. n. 109 del 1994, i soggetti di cui
all'art. 2, comma 2, lett. a), nominano, ai sensi della
legge n. 241/1990 e succ. mod., un Responsabile unico del
procedimento di attuazione di ogni singolo intervento
previsto dal programma triennale dei lavori pubblici per le
fasi della progettazione, dell'affidamento e
dell'esecuzione;
- che la specificità di tale funzione esclude, contrariamente a
quanto ritenuto dall'appellante, che possa trovare
applicazione l'art. 5 L. n. 241/1990, disposizione che
riguarda gli ordinari procedimenti amministrativi e non
regola la diversa ipotesi della figura del responsabile
unico del procedimento in materia di lavori pubblici, le cui
competenze, caratterizzate da elevata complessità e
richiedenti cognizioni tecniche di particolare rilievo, non
sono surrogabili dall'intervento del funzionario preposto
all'unità organizzativa, che potrebbe anche non essere un
tecnico, con evidente violazione dell'art. 7, comma 5, l. n.
109/1994;
- che, dunque, presupposto indefettibile per esercizio delle
funzioni di responsabile unico del procedimento in materia
di lavori pubblici è l'investitura formale, attraverso il
provvedimento di nomina e ogni eventuale attività svolta
anteriormente all'adozione di tale provvedimento non può dar
luogo al riconoscimento del compenso di cui all'articolo 18,
comma 1, l. n. 109/1994.
3.1. La Corte di appello ha altresì richiamato la
giurisprudenza della Corte dei Conti, sez. reg. Sardegna
(sentenza n. 395 del 2011) secondo cui il compenso di cui
all'articolo 18 ha carattere premiale ed è destinato al
personale che abbia redatto direttamente il progetto
esecutivo; tale compenso non può essere corrisposto ai
dipendenti dell'ufficio tecnico a titolo di incentivi per la
progettazione nelle ipotesi in cui questa sia stata affidata
a soggetti esterni all'amministrazione e, ove tale
erogazione sia avvenuta in difetto dei presupposti, la
stessa integra un danno erariale.
3.2. Infine, ha osservato che la prova espletata in primo
grado non aveva evidenziato alcun intervento del Candela
nell'attività dei progettisti esterni, ma solo attività
riconducibili ai compiti propri di dirigente preposto al
settore dei lavori pubblici.
4. Per la cassazione di tale sentenza l'ing. An.Ca. ha
proposto ricorso affidato ad un unico motivo, seguito da
memoria. Il Comune di Mazara del Vallo è rimasto intimato.
...
1. Con unico motivo di ricorso si denuncia violazione
e falsa applicazione degli artt. 7 e 18 l. n. 109 del 1994 e
successive modificazioni.
Il ricorrente premette che "ancor prima della formale
nomina a R.U.P. per la progettazione, affidamento ed
esecuzione dei lavori (nomina avvenuta il 17.02.2004)...ha
svolto ugualmente le mansioni suddette (di R.U.P.) in quanto
strettamente connesse alla funzione di dirigente
dell'Ufficio Tecnico LL.PP. del Comune di Mazara del Vallo"
e richiama il testo dell'art. 5 della legge 241 del 1990,
evidenziando che la chiarezza del testo normativo non lascia
spazio alcuno ad una diversa interpretazione e applicazione,
poiché tale legge -e i successivi regolamenti attuativi
dell'art. 18- non prevedono, quale presupposto necessario
per il diritto al compenso, l'emanazione da parte dell'ente
di un atto formale di nomina del responsabile unico del
procedimento.
2. Il ricorso è infondato.
3. L'odierno ricorrente ritiene che, in quanto preposto a
dirigere l'Ufficio tecnico LL.PP. del Comune di Mazara del
Vallo, sia da considerare R.U.P. in forza dell'art. 5 legge
n. 241 del 1990 (responsabile del procedimento), poiché tale
norma dispone, al primo comma, che "il dirigente di
ciascuna unità organizzativa provvede ad assegnare a sé o ad
altro dipendente addetto all'unità la responsabilità
dell'istruttoria e di ogni altro adempimento inerente il
singolo procedimento nonché, eventualmente, dell'adozione
del provvedimento finale"; al secondo comma, che "fino a
quando non sia effettuata l'assegnazione di cui al comma
primo, è considerato responsabile del singolo procedimento
il funzionario preposto alla unità organizzativa determinata
a norma del comma primo dell'articolo 4".
4. Tale tesi non può essere accolta.
Come esattamente ritenuto dalla Corte di appello, la
fattispecie è regolata da una disciplina speciale, che
esclude l'applicabilità della disciplina generale dei
procedimenti amministrativi di cui all'art. 5 citato; essa è
precisamente regolata dalla legge n. 109 del 1994, art. 7
(misure per l'adeguamento della funzionalità della pubblica
amministrazione).
Tale disposizione, nel testo vigente ratione temporis
all'epoca dei fatti dedotti in giudizio,
●
al primo comma, dispone che "I soggetti di cui
all'articolo 2, comma 2, lettera a)", ossia le
Amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo,
gli enti pubblici, compresi quelli economici, gli enti e le
amministrazioni locali, le loro associazioni e consorzi
nonché gli altri organismi di diritto pubblico, "nominano
un responsabile unico del procedimento di attuazione di ogni
singolo intervento previsto dal programma triennale dei
lavori pubblici, per le fasi della progettazione,
dell'affidamento e dell'esecuzione";
●
al terzo comma, che il R.U.P. "formula proposte e
fornisce dati e informazioni ai fini della predisposizione
del programma triennale dei lavori pubblici e dei relativi
aggiornamenti annuali; assicura, in ciascuna fase di
attuazione degli interventi, il controllo sui livelli di
prestazione, di qualità e di prezzo determinati in coerenza
alla copertura finanziaria ed ai tempi di realizzazione del
programma oltre che al corretto e razionale svolgimento
delle procedure; segnala altresì eventuali disfunzioni,
impedimenti o ritardi nell'attuazione degli interventi e
accerta la libera disponibilità delle aree e degli immobili
necessari, fornisce all'amministrazione i dati e le
informazioni relativi alle principali fasi di svolgimento
del processo attuativo necessari per l'attività di
coordinamento, di indirizzo e di controllo di sua competenza"
(...);
●
al quarto comma, che il regolamento "disciplina le
ulteriori funzioni del responsabile del procedimento,
coordinando con esse i compiti, le funzioni e le
responsabilità del direttore dei lavori e dei coordinatori
in materia di salute e di sicurezza durante la progettazione
e durante l'esecuzione dei lavori, previsti dal decreto
legislativo 14.08.1996, n. 494, e successive
modificazioni....".
5. Alla stregua di tale disciplina, nel settore dei lavori
pubblici, il conferimento della funzione di R.U.P. deve
essere formale, come si evince chiaramente dal dato testuale
del primo comma dell'art. 7 legge n. 109 del 1994, a seguito
delle modifiche apportate dalla legge n. 415 del 1998,
secondo cui occorre che le Pubbliche Amministrazioni e gli
Ente pubblici di cui all'art. 2, comma 2, lett. a),
provvedano alla "nomina" di "un responsabile unico
del procedimento di attuazione di ogni singolo intervento
previsto dal programma triennale dei lavori pubblici, per le
fasi della progettazione, dell'affidamento e dell'esecuzione".
Il rilievo è decisivo, in quanto per il periodo anteriore al
formale conferimento delle funzioni di R.U.P. non può essere
riconosciuto al ricorrente il compenso di cui all'art. 18
legge n. 109 del 1994, nel testo modificato dalla legge n.
144 del 1999 (modifiche alla disciplina del Fondo per la
progettazione istituito presso il Ministero dei lavori
pubblici) (Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
ordinanza 11.07.2018 n. 18274). |
... ed altro ancora in materia di incentivo: |
INCENTIVO
FUNZIONI TECNICHE: Concessione
di servizi e spettanza, o meno, dell'incentivo.
Sulla base della normativa attualmente vigente è
possibile corrispondere gli incentivi per funzioni tecniche, oltre che per i
contratti di appalto, anche per i contratti di concessione e di partenariato.
---------------
Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, il
valore della concessione non può essere ancorato al canone concessorio ma
deve essere calcolato dall’amministrazione sulla base del presumibile
fatturato totale generato dalla concessione, tenendo conto dei ricavi
ipotizzabili in relazione alla sua futura gestione.
Il calcolo del valore della concessione costituisce adempimento imposto alle
stazioni appaltanti dall’articolo 167 del d.lgs. 50/2016 (e prima
dall’articolo 29 del d.lgs. 163/2006), il quale impone di riferirsi al
fatturato presunto derivante dalla gestione del servizio.
Tale valore deve essere specificato all’interno del bando, al fine di
garantire una corretta informazione al mercato di riferimento sulle
complessive e reali condizioni di gara, nonché di consentire ai soggetti
concorrenti alla procedura di gara la possibilità di formulare la propria
offerta nella più completa conoscenza dei dati economici del servizio da
svolgere.
Pertanto, in una concessione di servizi, ai fini dell’incentivazione per le
funzioni tecniche svolte dai dipendenti, il 2% deve essere calcolato sul
fatturato totale che si prevede possa derivare dalla fornitura dei servizi a
favore dall’insieme degli utenti (e non sul canone di concessione).
---------------
Il regolamento comunale non può prevedere una
disciplina contra legem che determini la possibilità di prevedere
quale base di calcolo per la ripartizione degli incentivi per funzioni
tecniche di cui all'art. 113 del D.Lgs. 50/2016 l’importo del canone
concessorio sostituendolo al valore del fatturato totale.
--------------
Il Sindaco del Comune di Sarcedo (VI) ha trasmesso una richiesta di
parere ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131,
inerente gli incentivi per funzioni tecniche ex articolo 113, comma 2, del
decreto legislativo 50/2016 recante il “Codice degli appalti” al
fine di veder chiarito, alla luce, tra l'altro, del recente
parere 21.06.2018 n. 198
di questa Sezione:
1. se in una concessione di servizi, qualora sia previsto un
canone in favore del Comune, l'importo da considerarsi quale entità su cui
parametrare l'incentivo massimo del 2% di cui al richiamato articolo 113 del
decreto legislativo nr. 50/2016 debba essere il valore della concessione o
l'importo del canone. (…);
2. se nel regolamento da adottarsi da ciascuna amministrazione
per la ripartizione degli incentivi per funzioni tecniche si possa prevedere
autonomamente la possibilità di considerare o il valore della concessione o
l'importo del canone ai fini del calcolo dell'incentivo.
...
VI. Nel merito, l’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016, rubricato “Incentivi
per funzioni tecniche" prevede che "1. Gli oneri inerenti alla
progettazione, alla direzione dei lavori ovvero al direttore
dell'esecuzione, alla vigilanza, ai collaudi tecnici e amministrativi ovvero
alle verifiche di conformità, al collaudo statico, agli studi e alle
ricerche connessi, alla progettazione dei piani di sicurezza e di
coordinamento e al coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione
quando previsti ai sensi del decreto legislativo 09.04.2008 n. 81, alle
prestazioni professionali e specialistiche necessari per la redazione di un
progetto esecutivo completo in ogni dettaglio fanno carico agli stanziamenti
previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati di
previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti.
2. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 1, le amministrazioni
aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura
non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori, servizi e
forniture, posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai
dipendenti delle stesse esclusivamente per le attività di programmazione
della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di
predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei
contratti pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione
dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di
conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire
l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del
progetto, dei tempi e costi prestabiliti. Tale fondo non è previsto da parte
di quelle amministrazioni aggiudicatrici per le quali sono in essere
contratti o convenzioni che prevedono modalità diverse per la retribuzione
delle funzioni tecniche svolte dai propri dipendenti. Gli enti che
costituiscono o si avvalgono di una centrale di committenza possono
destinare il fondo o parte di esso ai dipendenti di tale centrale. La
disposizione di cui al presente comma si applica agli appalti relativi a
servizi o forniture nel caso in cui è nominato il direttore dell'esecuzione.”
In ordine alle modalità di applicazione dei precetti delineati dal sopra
citato articolo, si riportano i principi derivanti dal consolidato
orientamento giurisprudenziale formatosi in materia, che questa Sezione
condivide.
Gli incentivi per funzioni tecniche possono essere riconosciuti
esclusivamente per le attività riferibili a contratti di lavori, servizi o
forniture che, secondo la legge (comprese le direttive ANAC dalla stessa
richiamate) o il regolamento dell’ente, siano stati affidati previo
espletamento di una procedura comparativa (cfr.
parere 09.06.2017 n. 190 della Sezione regionale di controllo per
la Lombardia).
In mancanza di una gara l’art. 113, comma 2, del decreto legislativo n. 50
del 2016 e successive modificazioni non prevede l’accantonamento delle
risorse e, conseguentemente, la relativa distribuzione (cfr.
parere 09.06.2017 n. 185 della Sezione regionale di controllo per
la Lombardia).
Va quindi evidenziato che “La ratio legis è quella di stabilire una
diretta corrispondenza tra incentivo ed attività compensate in termini di
prestazioni sinallagmatiche, nell’ambito dello svolgimento di attività
tecniche e amministrative analiticamente indicate e rivolte alla
realizzazione di specifiche procedure. L’avere correlato normativamente la
provvista delle risorse ad ogni singola opera con riferimento all’importo a
base di gara commisurato al costo preventivato dell’opera, àncora la
contabilizzazione di tali risorse ad un modello predeterminato per la loro
allocazione e determinazione, al di fuori dei capitoli destinati a spesa di
personale” (Sez. Autonomie
deliberazione 26.04.2018 n. 6).
VII. Ciò premesso,
quanto al primo punto della richiesta del comune
di Sarcedo, diretta a verificare se il parametro del 2% di cui all’art. 113
del D.lgs. n. 50/2016, nell’ambito di una concessione di servizi con
previsione di un canone in favore del Comune, debba essere calcolato sul “valore
della concessione” o “sull’importo del canone”, occorre porre in
risalto quanto segue, rinviando -in via preliminare- a quanto già espresso
da questa Sezione con
parere 21.06.2018 n. 198
sull’applicabilità dell’articolo 113 del D.lgs. n. 50/2016 ai contratti di
concessione.
In particolare, si è sottolineato, nella citata deliberazione, il fatto che,
in tema di concessioni, viene favorita “(…) una lettura
logico-sistematica che valorizzi la nozione di concessione trasfusa nel
Codice (art. 3, comma 1, lett. uu e vv) basata sull’assimilazione di detto
istituto al contratto di appalto con la fondamentale differenza del c.d.
rischio operativo insito nella concessione, in recepimento delle definizioni
di cui alla Direttiva Unica Appalti che indica l’elemento distintivo tra i
due contratti (contratti secondo l’orientamento ormai prevalente) nel
diritto del concessionario di gestione l’opera o il servizio accompagnato da
un prezzo.”
Per quanto di interesse in questa sede, occorre evidenziare, altresì, che la
modalità di calcolo dell’importo posto a base di gara nelle concessioni, la
giurisprudenza amministrativa si è costantemente espressa (anche in vigenza
del D.lgs. 163/2006) nel senso che ai fini di una concessione di servizi, il
valore da porre a base di gara dovesse essere parametrato al fatturato
complessivo che si prevedeva potesse derivare dalla fornitura dei servizi a
favore della massa degli utenti. L’indicazione di una chiara quantificazione
del fatturato generato dalla concessione costituisce, invero, un onere della
Stazione appaltante la quale è tenuta a compiere attendibili previsioni di
stima, secondo un metodo oggettivo specificato nei documenti della
concessione stessa.
In altri termini, non si è ritenuta legittima la determinazione del valore
posto a base di gara che prendesse come riferimento il canone dovuto dal
concessionario, il quale rappresentava, peraltro, un elemento eventuale del
rapporto concessorio.
La predetta modalità, infatti, non era ritenuta coerente con la natura della
concessione di servizi, il cui tratto essenziale era (ed è) la
controprestazione a favore del concessionario, costituita principalmente dal
provento della gestione del servizio (fatturato), che a sua volta
rappresenta il nucleo centrale dell'istituto (in questo senso vedasi
Consiglio di Stato n. 4343/2016, 2411/2017; 748/2017; ANAC delibera
245/2017).
A tal proposito, la citata Autorità di Vigilanza ha affermato che nonostante
la difficoltà per le stazioni appaltanti di stimare i proventi dei contratti
di concessione di servizi, poiché provengono interamente dagli utenti e non
da chi bandisce la gara, l’esatta determinazione del valore dell’affidamento
assume rilievo sotto molteplici aspetti: è infatti essenziale per poter
fornire una corretta informazione agli operatori economici potenzialmente
interessati a prestare il servizio, serve ad individuare con esattezza la
forma di pubblicità idonea ed è necessaria per determinare l’entità delle
cauzioni e del contributo dovuto all’Autorità.
La difficoltà di individuazione dell’importo a base di gara non può essere
qualificata, inoltre, quale impossibilità assoluta, bensì quale mera
difficoltà operativa dell’amministrazione originata per lo più dai rapporti
instaurati con il precedente gestore (in questo senso Consiglio Stato sez. V
n. 748/2017).
Inoltre, il Consiglio di Stato con recente sent. n. 4343/2016, ha affermato
che “per le concessioni nella nozione di “importo totale pagabile” è
sicuramente da ricomprendere il flusso dei corrispettivi pagati dagli utenti
per i servizi in concessione. Infatti, così come nella stessa nozione è
ricompreso il corrispettivo pagato dalla stazione appaltante nel caso di
appalto, qualora si tratti di una concessione, non essendovi un prezzo
pagato dalla stazione appaltante, ma solo quello versato dagli utenti, sarà
quest’ultimo a costituire parte integrante dell’“importo totale pagabile” di
cui è fatta menzione nella norma sopra citata; il canone a carico del
concessionario potrà, altresì, essere computato ove previsto, ma certamente
proprio in quanto solo eventuale non può considerarsi l’unica voce
indicativa del valore della concessione”.
Il computo corretto del valore del contratto assume, invero, rilevanza anche
per garantire condizioni di trasparenza, parità di trattamento e non
discriminazione, e garantisce una corretta informazione al mercato di
riferimento sulle complessive e reali condizioni di gara (AVCP del. 40 del
19/12/2013)
Ne discende, quale logica conseguenza, che il valore della concessione non
possa essere computato con riferimento al cd “ristorno” che
rappresenta un costo della concessione, ed è elemento del tutto eventuale,
ma deve essere calcolato sulla base del fatturato generato dal consumo dei
prodotti da parte degli utenti del servizio. (cfr. Cons. Stato sez. V, n.
748/2017, id. sez. III n. 4343/2016)
Tale consolidato orientamento nella giurisprudenza amministrativa ha avuto,
del resto, piena consacrazione nel diritto comunitario, il quale è stato
recepito successivamente dall'ordinamento nazionale tramite l’art. 167 del
nuovo codice degli appalti (D.lgs. 50/2016).
Il citato art. 167 del codice degli appalti, infatti, prevede espressamente
che “Il valore di una concessione, ai fini di cui all'articolo 35, è
costituito dal fatturato totale del concessionario generato per tutta la
durata del contratto, al netto dell'IVA, stimato dall'amministrazione
aggiudicatrice o dall'ente aggiudicatore, quale corrispettivo dei lavori e
dei servizi oggetto della concessione, nonché per le forniture accessorie a
tali lavori e servizi.”.
I successivi commi, inoltre, stabiliscono che “2. Il valore stimato è
calcolato al momento dell'invio del bando di concessione o, nei casi in cui
non sia previsto un bando, al momento in cui l'amministrazione
aggiudicatrice o l'ente aggiudicatore avvia la procedura di aggiudicazione
della concessione.
3. Se il valore della concessione al momento dell'aggiudicazione è superiore
di più del 20 per cento rispetto al valore stimato, la stima rilevante è
costituita dal valore della concessione al momento dell'aggiudicazione.
4. Il valore stimato della concessione è calcolato secondo un metodo
oggettivo specificato nei documenti della concessione. Nel calcolo del
valore stimato della concessione, le amministrazioni aggiudicatrici e gli
enti aggiudicatori tengono conto, se del caso, in particolare dei seguenti
elementi: a) il valore di eventuali forme di opzione ovvero di altre forme
comunque denominate di protrazione nel tempo dei relativi effetti; b) gli
introiti derivanti dal pagamento, da parte degli utenti dei lavori e dei
servizi, di tariffe e multe diverse da quelle riscosse per conto
dell'amministrazione aggiudicatrice o dell'ente aggiudicatore; c) i
pagamenti o qualsiasi vantaggio finanziario conferito al concessionario, in
qualsivoglia forma, dall'amministrazione aggiudicatrice o dall'ente
aggiudicatore o da altre amministrazioni pubbliche, incluse le compensazioni
per l'assolvimento di un obbligo di servizio pubblico e le sovvenzioni
pubbliche di investimento; d) il valore delle sovvenzioni o di qualsiasi
altro vantaggio finanziario in qualsivoglia forma conferiti da terzi per
l'esecuzione della concessione; e) le entrate derivanti dalla vendita di
elementi dell'attivo facenti parte della concessione; f) il valore
dell'insieme delle forniture e dei servizi messi a disposizione del
concessionario dalle amministrazioni aggiudicatrici o dagli enti
aggiudicatori, purché siano necessari per l'esecuzione dei lavori o la
prestazione dei servizi; g) ogni premio o pagamento o diverso vantaggio
economico comunque denominato ai ((candidati o agli offerenti.)).
5. Nel calcolo del valore stimato della concessione le amministrazioni
aggiudicatrici o gli enti aggiudicatori tengono conto degli atti di
regolazione delle Autorità indipendenti.
6. La scelta del metodo per il calcolo del valore stimato della concessione
non può essere fatta con l'intenzione di escludere tale concessione
dall'ambito di applicazione del presente codice. Una concessione non può
essere frazionata al fine di escluderla dall'osservanza delle norme del
presente codice, tranne nel caso in cui ragioni oggettive lo giustifichino,
valutate al momento della predisposizione del bando dalla amministrazione
aggiudicatrice o dall'ente aggiudicatore.
7. Quando un'opera o un servizio proposti possono dar luogo
all'aggiudicazione di una concessione per lotti distinti, è computato il
valore complessivo stimato della totalità di tali lotti.
8. Quando il valore complessivo dei lotti è pari o superiore alla soglia di
cui all'articolo 35 il presente codice si applica all'aggiudicazione di
ciascun lotto.”.
La disposizione di cui sopra, in quanto norma di rango primario, è
vincolante e costituisce, come sopra accennato, recepimento,
nell’ordinamento italiano dell’art. 8 della direttiva n. 2014/23/UE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014, sull'aggiudicazione dei
contratti di concessione; il citato art. 167 prescinde, inoltre -a
differenza della direttiva comunitaria- da soglie minime di applicabilità o
esenzioni per concessioni di minore valore economico (in questo senso TAR
Napoli sezione VIII, n. 5596/2017).
La norma comunitaria ha stabilito che il valore di una concessione è
costituito dal fatturato totale del concessionario generato per tutta la
durata del contratto, al netto dell’IVA, stimato dall’amministrazione
aggiudicatrice o dall’ente aggiudicatore, quale corrispettivo dei lavori e
dei servizi oggetto della concessione, nonché per le forniture accessorie a
tali lavori e servizi.
Del resto, non si può non evidenziare che l’indicazione del valore della
concessione all'interno del bando è essenziale ed obbligatoria per garantire
ai soggetti concorrenti alla procedura di gara la possibilità di formulare
la propria offerta nella più completa conoscenza dei dati economici del
servizio da svolgere (TAR Toscana Firenze Sez. II, 14.02.2017, n. 239);
l'eventuale omissione di questo dato, inoltre, non può essere superata dalla
semplice indicazione del canone di concessione (in questo senso Consiglio di
Stato sez. III n. 2926/2017).
Da quanto esposto appare chiaro, pertanto,
che ai fini dell’incentivazione
per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti, il 2% sull'importo dei lavori,
servizi e forniture, posti a base di gara, si debba calcolare sul
fatturato totale che si prevede possa derivare dalla fornitura dei servizi a
favore dall’insieme degli utenti e non sul canone di concessione, secondo il
principio interpretativo in claris non fit interpretatio.
Tanto premesso, condividendo la tesi maggioritaria e consolidata dei giudici
amministrativi da un lato, e dell’Autorità di vigilanza dall’altro,
si ribadisce che il valore della concessione non possa essere determinato
sulla scorta di un elemento del tutto eventuale e non indicativo degli
effettivi valori economici originati dal rapporto concessorio.
La ratio legis perseguita dalla norma, infatti, consiste nel
garantire che il valore della concessione sia correlato al complesso degli
introiti che possono essere ricavati, sotto qualsiasi forma, dal
concessionario (comprensivi quindi sia di quelli rinvenibili dal mercato che
di quelli ricevuti direttamente dall'ente concedente o da altri soggetti,
comunque in relazione all'oggetto della concessione, ovvero alla gestione
del servizio). Nell’intenzione del legislatore la corretta determinazione
del valore del contratto, del resto, è rilevante non solo ai fini della
disciplina applicabile, ma altresì è atta a consentire agli operatori
economici la possibilità di formulare un’offerta economica più consapevole
(ex
multis, ANAC delibera n. 245/2017, parere 104/2015).
In questa logica,
non vi è spazio per parametrare tale valore al canone
corrisposto dal concessionario, che evidentemente non rappresenta per quest'ultimo
un introito quanto un esborso peraltro -lo si ribadisce– eventuale, cui lo
stesso concessionario deve far fronte nell'ambito del rapporto concessorio.
Quanto al secondo punto della richiesta di parere formulata dal
Sindaco del Comune di Sarcedo, ovvero, “se nel regolamento da adottarsi
da ciascuna amministrazione per la ripartizione degli incentivi per funzioni
tecniche si possa prevedere autonomamente la possibilità di considerare o il
valore della concessione o l'importo del canone ai fini del calcolo
dell'incentivo”, questa Sezione non può che richiamare i principi
fondamentali che reggono la disciplina delle fonti.
Nella gerarchia delle fonti del diritto, i regolamenti rappresentano delle
fonti secondarie e dunque, per tale ragione non possono derogare o
contrastare con la Costituzione, né con i principi in essa contenuti, non
possono derogare o contrastare con le leggi ordinarie, salvo che sia una
legge ad attribuire loro il potere -in un determinato settore e per un
determinato caso- di innovare anche nell’ordine legislativo (delegificando
la materia); non possono regolamentare le materie riservate dalla
Costituzione alla legge ordinaria o costituzionale (riserva assoluta di
legge), né derogare al principio di irretroattività della legge (art. 11
preleggi).
Ne consegue evidentemente che
il regolamento comunale non può prevedere una
disciplina contra legem che determini la possibilità di prevedere
quale base di calcolo per la ripartizione degli incentivi per funzioni
tecniche di cui all'art. 113 del D.Lgs. 50/2016 l’importo del canone
concessorio sostituendolo al valore del fatturato totale
(Corte dei Conti, Sez. controllo, Veneto,
parere 27.11.2018 n. 455). |
INCENTIVO
FUNZIONI TECNICHE: Fuori
dai limiti del salario accessorio gli incentivi tecnici per gare aggiudicate
dopo il 2018.
Il regolamento sugli incentivi tecnici adottato dopo il 01.01.2018
salva dai limiti del salario accessorio le attività tecniche effettuate
precedentemente.
Al principio enunciato la scorsa estate (si veda il
Quotidiano degli enti locali e della Pa del 01.08.2018), la Corte dei
conti del Veneto, con il
parere 14.11.2018 n. 429, aggiunge un corollario
precisando che questa condizione è necessaria ma non sufficiente in quanto
per maturare il diritto, l'ente deve aver proceduto sia all’accantonamento
nei quadri economici dell'opera pubblica, servizio o fornitura e, inoltre,
l'aggiudicazione della gara non deve essersi conclusa prima dell'entrata in
vigore della legge di bilancio 2018.
Il caso
Un sindaco ha posto la questione alla Corte richiamando due delibere (parere
25.07.2018 n. 264 e
parere 25.07.2018 n. 265) con le quali il collegio contabile del Veneto avrebbe
precisato da un lato che, l'avvenuto accantonamento, prima del 01.01.2018, delle somme relative agli incentivi per le funzioni tecniche nei
capitoli di spesa previsti per i lavori e le forniture consente di
escluderle dalla spesa per il personale e pure dalla spesa per il
trattamento accessorio (e ai suoi limiti di legge).
Dall'altro lato, nel caso in cui l'ente non abbia operato l'accantonamento,
gli incentivi per funzioni tecniche relativi alle attività svolte prima del
2018, stante l'irretroattività della legge di bilancio 2018, continuano a
rientrare nel tetto della spesa per il personale e nel tetto di spesa per il
fondo produttività. Tuttavia, il solo accantonamento non sembrerebbe
sufficiente, in quanto per evitare la retroattività è fondamentale che
l'ente non abbia già approvato il relativo regolamento unico a stabilire il
diritto soggettivo nei confronti dei dipendenti.
Le precisazioni dei giudici contabili
In merito alle due delibere richiamate dal sindaco, il collegio contabile ha
evidenziato come nella prima deliberazione (parere
25.07.2018 n. 264) si è preso atto del
fatto che fosse possibile ripartire le somme accantonate, per le finalità
stabilite dall'articolo 113 del Dlgs 50/2016, prima della adozione del
regolamento previsto dalla norma, allo scopo di remunerare prestazioni rese
in precedenza dai dipendenti dell'ente.
Nella seconda delibera, invece, si
precisava che per le attività svolte e concluse con l'aggiudicazione della
gara, prima dell'entrata in vigore del comma 5-bis dell'articolo 113 del Dlgs 50/2016, gli incentivi debbano essere invece inclusi nel calcolo della
spesa del personale e del trattamento accessorio erogato dall'ente e dai
relativi limiti di spesa stabiliti dalla vigente normativa, non avendo la
legge disposto una interpretazione autentica e quindi retroattiva.
In altri termini, non sarebbe consentito remunerare attività concluse con
l'aggiudicazione della gara prima del 01.01.2018, data di efficacia
dell'intervento normativo, modificando il riparto degli incentivi una
seconda volta.
In risposta alla domanda posta il collegio contabile ritiene, pertanto, che
l'intervenuto accantonamento degli incentivi, secondo l’articolo 113 del
Dlgs 50/2016, anche se anteriore al 01.01.2018, sia da considerarsi escluso
dal computo della spesa per il personale e dai limiti del fondo produttività
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 21.11.2018). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: L'intervenuto accantonamento degli incentivi di cui
all'art. 113 D.lgs. 50/2016, anche se anteriori al 01/01/2018, è da
considerarsi escluso dal computo della spesa per il personale e dai limiti
del fondo produttività.
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Il Sindaco del Comune di Gaiarine (TV), richiamate le deliberazioni di
questa Sezione
parere 25.07.2018 n. 264 e
parere 25.07.2018 n. 265, ha posto un quesito di
interpretazione di quanto affermato nelle suddette deliberazioni, in materia
di contabilizzazione degli incentivi di cui all’art. 113 del D. Lgs. 18.04.2016, n. 50.
In particolare, il Sindaco ha formulato il seguente quesito:
- “il
parere 25.07.2018 n. 264 sembra aver stabilito che l'avvenuto
accantonamento, prima del 01.01.2018, delle somme relative agli incentivi
per le funzioni tecniche nei capitoli di spesa previsti per i lavori e le
forniture consente di escludere tali somme dalla spesa per il personale e
pure dalla spesa per il trattamento accessorio (e ai suoi limiti di legge).
L’allocazione in bilancio degli incentivi, operata con l’accantonamento, ha
quindi conformato in modo giuridico tale posta ricomprendendola nel costo
dell’opera e non nella spesa di personale.
Quindi il Regolamento comunale, una volta adottato, può consentire la
distribuzione degli incentivi tecnici, accantonati in precedenza, al di
fuori della spesa del personale e del fondo produttività, anche se gli
incentivi risalgono al periodo 2014-2018.
- Il
parere 25.07.2018 n. 265 sembra invece stabilire, nel caso in cui
non ha operato l'accantonamento, che gli incentivi per funzioni tecniche per
attività svolte prima del 2018, stante l'irretroattività della legge
205/2017, continuano a rientrare nel tetto della spesa per il personale e
nel tetto di spesa per il fondo produttività. Mancherebbe in questo caso
l'effetto "conformativo" dato dall'accantonamento degli incentivi.
Può quindi correttamente sostenersi che: l'intervenuto accantonamento (in
passato) esclude oggi gli incentivi per le funzioni tecniche maturati prima
del 01.01.2018 dalla spesa per il personale e dai limiti del fondo
produttività.
In ciò consiste il quesito interpretativo del
parere 25.07.2018 n. 264 e
parere 25.07.2018 n. 265”.
...
Sulla questione questa Sezione si è pronunciata in più occasioni, come, del
resto, il Sindaco del Comune di Gaiarine dimostra di conoscere.
In particolare, nella prima deliberazione di questa Sezione richiamata dal
richiedente, veniva affrontata la questione della possibilità di ripartire
le somme accantonate, per le finalità di cui all’art. 113 D.Lgs. 50/2016,
prima della adozione del regolamento previsto dalla norma, allo scopo di
remunerare prestazioni rese in precedenza dai dipendenti dell’ente.
Nella deliberazione spora richiamata, così come anche in quella successiva,
veniva esposta l’articolata evoluzione normativa che ha segnato la
disciplina di questo istituto, a partire da quella contenuta nel D.lgs. 12.04.2006, n. 163 fino a quella attuale di cui al già citato art. 113 D.Lgs. 50/2016, e dei relativi orientamenti interpretativi elaborati dalla
Corte dei conti, culminati nelle decisioni della Sezione delle Autonomie che
hanno ritenuto, in un primo momento, che la spesa degli incentivi in
argomento fosse da qualificarsi non più come spesa per investimenti ma come
spesa corrente del personale (cfr. Sez. Aut.
deliberazione 06.04.2017 n. 7 e
deliberazione 10.10.2017 n. 24).
Nella medesima deliberazione si dà atto dell’innovazione introdotta con la
novella di cui alla legge di stabilità 2018 (legge 27.12.2017, n. 205)
che ha aggiunto, all’articolo 113, il comma 5-bis (entrato in vigore il
01/01/2018), stabilendo che: “Gli incentivi di cui al presente articolo
fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori,
servizi e forniture.”
Questa novella ha successivamente portato la Sezione della Autonomie, con la
deliberazione 26.04.2018 n. 6, a stabilire che “Gli incentivi disciplinati
dall’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 nel testo modificato dall’art. 1,
comma 526, della legge n. 205 del 2017, erogati su risorse finanziarie
individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli sui quali gravano gli
oneri per i singoli lavori, servizi e forniture, non sono soggetti al
vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti
degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017”.
Nella citata deliberazione veniva altresì stabilito che l’incentivo essendo
previsto da una disposizione di legge speciale (art. 113 del D.Lgs.
50/2016), valevole per i dipendenti di tutte le amministrazioni pubbliche,
non è assoggettabile al vincolo del trattamento accessorio che, invece,
trova la sua fonte nei contratti collettivi di comparto.
Nella seconda deliberazione di questa Sezione, richiamata nella richiesta di
parere, invece, veniva esaminata la questione se i trattamenti accessori di
cui all’art. 113 del D.lgs. 50/2016, per l’attività svolta e conclusasi con
l'aggiudicazione della gara prima dell'entrata in vigore del sopra citato
comma 5-bis, debbano essere o meno esclusi dal calcolo della spesa del
personale e del trattamento accessorio erogato dall'ente e dai relativi
limiti di spesa stabiliti dalla vigente normativa.
Anche in questa sede, dopo aver richiamato il recente approdo
giurisprudenziale della Sezione delle Autonomie e, in particolare, che la
ratio legis degli incentivi in questione sia “quella di stabilire una
diretta corrispondenza tra incentivo ed attività compensate in termini di
prestazioni sinallagmatiche, nell’ambito dello svolgimento di attività
tecniche e amministrative analiticamente indicate e rivolte alla
realizzazione di specifiche procedure” in ordine al fatto se le prestazioni
per gli incentivi vadano o meno considerate quale spesa del personale, è
giunta a ritenere chiaramente che “L’avere correlato normativamente la
provvista delle risorse ad ogni singola opera con riferimento all’importo a
base di gara commisurato al costo preventivato dell’opera, àncora la
contabilizzazione di tali risorse ad un modello predeterminato per la loro
allocazione e determinazione, al di fuori dei capitoli destinati a spesa di
personale”.
Con ciò confermando che l’onere relativo non transita
nell’ambito dei capitoli dedicati alla spesa del personale e, quindi non può
essere soggetto ai vincoli posti, nel caso in specie agli enti territoriali,
alla relativa spesa.
Tenuto conto che la medesima Sezione della Autonomie, nella sopra citata
deliberazione 26.04.2018 n. 6 afferma che “va considerato che, sul piano
logico, l’ultimo intervento normativo, pur mancando delle caratteristiche
proprie delle norme di interpretazione autentica (tra cui la retroattività),
non può che trovare la propria ratio nell’intento di dirimere
definitivamente la questione della sottoposizione ai limiti relativi alla
spesa di personale delle erogazioni a titolo di incentivi tecnici”,
questa
Sezione ritiene che l’intervenuto accantonamento degli incentivi di cui al
citato art. 113 D.lgs. 50/2016, anche se anteriori al 01/01/2018, sia da
considerarsi escluso dal computo della spesa per il personale e dai limiti
del fondo produttività
(Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto,
parere
14.11.2018 n. 429). |
INCENTIVO
FUNZIONI TECNICHE: In relazione “...alla
questione se gli incentivi per attività svolta e conclusasi con
l'aggiudicazione della gara prima dell'entrata in vigore del comma 5-bis dell'art.
113 dlgs 50/2016, ……debbano essere o meno esclusi dal calcolo della spesa
del personale e del trattamento accessorio erogato dall'ente e dai relativi
limiti di spesa stabiliti dalla vigente normativa” la soluzione non può che
essere ricondotta all’effetto innovativo prodotto dal medesimo comma 5-bis
a far data dall’entrata in vigore della disposizione
normativa in relazione sia al principio del tempus regit actum che a quello
dell’irretroattività della legge (art. 11, comma 1, delle Preleggi, secondo
il quale la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto
retroattivo).
---------------
Il Sindaco del Comune di Cornedo Vicentino (VI) ha inviato la richiesta di
parere ex art. 7, comma 8, della Legge n. 131/2003 esponendo quanto segue.
L’Ente, preliminarmente, richiama la più recente giurisprudenza della Corte
dei conti in materia di remunerazione delle funzioni tecniche svolte
all’interno dell’Ente, ed in particolare la
deliberazione 26.04.2018 n. 6 della Sezione Autonomie con la quale è stato
stabilito che “Gli incentivi disciplinati dall’art. 113 del D.Lgs. n. 50 del
2016 nel testo modificato dall’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del
2017, erogati su risorse finanziarie individuate ex lege facenti capo agli
stessi capitoli sui quali gravano gli oneri per singoli lavori, servizi e
forniture, non sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento
accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del
D.Lgs. n. 75 del 2017” indicando, al contempo, di aver adottato, con
deliberazione della Giunta comunale n. 40 del 20.03.2018, un Regolamento
comunale per la costituzione e la ripartizione del fondo incentivi per le
funzioni tecniche.
Il Sindaco inoltre dichiara di ritenere che, pur essendovi una parte della
dottrina che ritiene che “gli emolumenti siano esclusi dal Fondo per il
trattamento accessorio solo a decorrere dal 2018, ovverosia dopo
l’integrazione dell’art. 113 con il comma 5-bis approvata con L. 205/2017
(entrata in vigore il 01.01.2018) e non anche per il periodo pregresso
che va dal 19.04.2016 ..omissis…al 31.12.2017, affermando che la
liquidazione delle prestazioni tecniche rese in detto arco temporale sono
soggette al limite di spesa del fondo del trattamento accessorio”, la Corte
dei conti, con la summenzionata
deliberazione 26.04.2018 n. 6, abbia inteso stabilire
fin dall’origine il principio che gli incentivi non sono soggetti al vincolo
posto al complessivo trattamento accessorio dei dipendenti degli Enti
pubblici posto che “la novella normativa non possa avere natura
interpretativa alla luce dei principi già stabiliti dal D.Lgs. n. 50/2016
all’art. 113 commi 1 e 2”.
L’ente ritiene che, alla luce delle disposizioni di legge, il Legislatore
abbia voluto sin dall'origine mantenere la destinazione delle somme da
liquidarsi come incentivi per funzioni tecniche interne nelle somme facenti
parte del quadro economico dell'opera e “...solo qualora programmate ed
eseguite procedere alla liquidazione dei compensi ai dipendenti per le
funzioni tecniche effettivamente compiute”.
Secondo il comune di Cornedo Vicentino la programmazione e la realizzazione
delle opere, servizi e forniture dipendono dalla programmazione
amministrativa dell'Ente, pertanto si sostiene che “...ragionando per
assurdo, lavori pubblici, servizi e forniture potrebbero anche non essere
annualmente previsti dall'Ente. Ecco perché detti incentivi non possono
rientrare nel fondo salario accessorio, che invece va a remunerare istituti
contrattuali relativi ad attività ordinarie dell'Ente come ribadito e
precisato dalla Sezione Autonomie”.
Alla luce di dette considerazioni, il Sindaco del Comune di Cornedo
Vicentino conclude quindi chiedendo un parere in merito “alla legittimità
dell’erogazione degli incentivi di cui all’art. 113 del nuovo Codice dei
contratti pubblici D.Lgs. n. 50 del 18/04/2016, imputando la spesa ai
competenti capitoli afferenti alla realizzazione di lavori, servizi o
forniture effettivamente realizzati nel periodo temporale che va dal
19.04.2016 fino al 31.12.2017”.
...
Tanto premesso, il quesito formulato dal Comune di Cornedo Vicentino si
sostanzia nell’acquisire un parere della Sezione da un lato, in ordine alla
legittimità di erogazione degli incentivi imputando la relativa spesa ai
capitoli afferenti la realizzazione di lavori servizi e forniture nel
periodo temporale che va dall’entrata in vigore dell’art. 113 del Codice
Appalti fino al giorno anteriore all’entrata in vigore del comma 5-bis di
detto articolo (introdotta far data dal 01.01.2018). Dall’altro, la
richiesta necessita di chiarire se sia possibile che le modalità di
costituzione e ripartizione del fondo incentivi tecnici contenute in un
regolamento approvato nel marzo 2018 possano essere utilizzate per liquidare
gli incentivi riferibili al periodo temporale sopra indicato ovvero quello
anteriore all’entrata in vigore della novella normativa che riconduce gli
oneri per gli incentivi “…al medesimo capitolo di spesa previsto per i
singoli lavori, servizi e forniture”.
Venendo al merito, preliminarmente, si evidenzia come la ratio sottesa alla
previsione normativa di incentivi per il personale delle pubbliche
amministrazioni impegnato nelle attività di progettazione interna agli enti
pubblici oltre che nelle attività di esecuzione dei lavori pubblici era
finalizzata a valorizzare le professionalità interne esistenti: ciò anche
con lo scopo di originare risparmi sulla spesa corrente delle pubbliche
amministrazioni che in tal modo, avrebbero potuto evitare di ricorrere, per
l’acquisizione di tali prestazioni, all’esternalizzazione con una probabile
levitazione degli oneri.
Non va poi sottaciuto che il quadro normativo di riferimento è stato
caratterizzato da numerose integrazioni delle disposizioni in materia
succedutesi nel tempo in modo non sempre organico. In particolare, l’art.
113 del d.lgs. n. 50 del 2016 (Codice dei contratti pubblici), rubricato
“incentivi per funzioni tecniche”, ha riproposto, in materia di incentivi
tecnici, norme previgenti (quali l’art. 18 della legge n. 109 del 1994, e
successive modifiche ed integrazioni, e l’art. 92, commi 5 e 6, del d.lgs.
n. 163 del 2006, confluito in seguito nell’art. 93, commi 7-bis e seguenti,
del medesimo decreto legislativo).
Detta norma consente, previa adozione di
un regolamento interno e della stipula di un accordo di contrattazione
decentrata, di erogare emolumenti economici accessori a favore del personale
interno alle Pubbliche amministrazioni per attività, tecniche e
amministrative, nelle procedure di programmazione, aggiudicazione,
esecuzione e collaudo (o verifica di conformità) degli appalti di lavori,
servizi o forniture.
Successivamente, l’art. 76 del d.lgs. n. 56 del 2017, ha innovato la
disciplina prevedendo che l’imputazione degli oneri per le attività tecniche
ai pertinenti stanziamenti degli stati di previsione della spesa, vada
effettuato non solo con riferimento agli appalti di lavori (nella
formulazione originaria della norma), ma anche a quelli di fornitura di beni
e di servizi.
In particolare, il comma 2 dell’art. 113 in esame consente alle
amministrazioni aggiudicatrici di destinare, a valere sugli stanziamenti di
cui al precedente comma 1, “ad un apposito fondo risorse finanziarie in
misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori,
servizi e forniture, posti a base di gara”. L’importo del fondo è destinato
a remunerare una serie di funzioni, amministrative e tecniche, svolte dai
dipendenti interni ben individuate quali: “attività di programmazione della
spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di
predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei
contratti pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione
dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di
conformità, di collaudatore statico”.
Il successivo comma 3 della medesima disposizione non solo estende la
possibilità di erogare gli incentivi anche ai rispettivi “collaboratori” ma
stabilisce che l’80% delle risorse allocate sul detto fondo possa
ripartirsi, per ciascun lavoro, servizio, fornitura, “con le modalità e i
criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del
personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni
secondo i rispettivi ordinamenti”, ai destinatari indicati al comma 2. Il
restante 20%, invece, va destinato secondo quanto prescritto dal successivo
comma 4 (acquisto di strumentazioni e tecnologie funzionali all’uso di
metodi elettronici di modellazione per l'edilizia e le infrastrutture;
attivazione di tirocini formativi; svolgimento di dottorati di ricerca; etc.).
Successivamente, all’articolo 113 del Codice Appalti di cui trattasi è stato
aggiunto il comma 5-bis che dispone “Gli incentivi di cui al presente
articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli
lavori, servizi e forniture”.
In seguito all’entrata in vigore di detta disposizione la Sezione delle
Autonomie chiamata a pronunciarsi in merito alla questione interpretativa
prospettata dalla Sezione di controllo per la Lombardia in ordine alla
circostanza “se i compensi erogati a carico del predetto fondo per gli
incentivi tecnici debbano essere computati ai fini del rispetto dei limiti
al trattamento accessorio disposti dal soprarichiamato articolo 23, comma 2, d.lgs. n. 75/2017”, ha affermato, sul punto, il seguente principio di
diritto “Gli incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016
nel testo modificato dall’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017,
erogati su risorse finanziarie individuate ex lege facenti capo agli stessi
capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e
forniture, non sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento
economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma
2, del d.lgs. n. 75 del 2017” (Sezione delle Autonomie
deliberazione 26.04.2018 n. 6).
Inoltre, proprio in ordine agli incentivi di cui trattasi questa Sezione ha
già avuto modo di affermare, altresì, che gli stessi, “diversamente da
quanto accade per il trattamento retributivo (principale o accessorio) dei
pubblici dipendenti, di competenza della contrattazione collettiva
nazionale, sono previsti dalla legge –attualmente, art. 113 del D.lgs. n.
50/2016– che definisce le prestazioni (espletamento di funzioni tecniche,
appunto, analiticamente individuate) che danno luogo alla corresponsione
degli stessi; lo speciale trattamento retributivo in questione, dunque,
trova la propria fonte in una norma, la quale prevede, ai fini della
corresponsione –rectius ripartizione del fondo all’uopo accantonato– la
fissazione dei criteri e della modalità di distribuzione delle risorse ad
esso specificamente “destinate” in sede di contrattazione collettiva
decentrata e l’adozione di “apposito regolamento” Quest’ultimo costituisce
un “passaggio fondamentale per la regolazione interna della materia”
(deliberazione
13.05.2016 n. 18), strumento di adattamento della
disciplina normativa alle specifiche esigenze dell’ente, legate alle singole
procedure di appalto, ma, nell’ottica che qui interessa, è soprattutto
l’atto che, recependo i criteri e le modalità individuati dalla
contrattazione decentrata, consente il riparto delle risorse accantonate e
rende determinabile il quantum dell’incentivo spettante ai singoli
dipendenti, con ciò sancendo il sorgere della pretesa patrimoniale (ovvero
del diritto) alla corresponsione del trattamento accessorio.” (questa
Sezione
parere 25.07.2018 n. 264).
Non solo quindi la norma contempla il ricorso allo strumento regolamentare
ma, come questa Sezione ha già avuto modo di osservare, lo stesso va
ritenuto quale “…condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli
aventi diritto delle risorse accantonate sul fondo. Ciò, evidentemente,
perché esso è destinato ad individuare le modalità ed i criteri della
ripartizione, oltre alla percentuale, che comunque non può superare il tetto
massimo fissato dalla legge” (questa Sezione
parere 07.09.2016 n. 353).
Invero, il Collegio ha già affermato in precedenza come “…con riferimento ad
una fattispecie sorta nella vigenza della disciplina anteriore al Codice
degli appalti, la Corte di Cassazione ha chiarito il proprio orientamento,
precisando che i principi affermati nella sentenza del 2004 non avallano
affatto la possibilità di riconoscere il diritto all’incentivo in assenza
del regolamento (allora prescritto dall’art. 18 della L. n. 109/1994, a
seguito delle modifiche introdotte prima dall’art. 16 della L. n. 127/2007 e
poi dall’art. 13 della L. n. 144 del 1999) e che, in ogni caso, “l’incentivo
può essere attribuito se previsto dalla contrattazione collettiva decentrata
e se sia stato adottato l’atto regolamentare della Amministrazione aggiudicatrice volto alla precisazione dei criteri di dettaglio per la
ripartizione delle risorse finanziarie confluite nel Fondo” (Cass. civ. sez. lav.,
sentenza 05.06.2017 n. 13937).
Sulla base del tenore,
assolutamente analogo, sotto il profilo considerato, delle disposizioni sin
qui menzionate ed alla luce delle condivisibili conclusioni alle quali è
giunto anche il Giudice del lavoro, non può configurarsi un diritto
soggettivo alla erogazione dell’incentivo (per la progettazione o per
funzioni tecniche) prima della adozione del regolamento. In altri termini,
secondo il chiaro disposto tanto del previgente art. 93 del D.lgs. n.
163/2016 –ancora applicabile alle fattispecie afferenti alle procedure
bandite prima della entrata in vigore del nuovo Codice degli appalti– quanto
dell’art. 113 del D.lgs. n. 50/2016, lo svolgimento delle attività tecniche
(ed amministrative) non costituisce, in sé, un fatto compiuto generatore
della pretesa patrimoniale (essendo, a tal fine, necessario il regolamento e
la fissazione dei criteri di riparto del fondo, la cui assenza, sempre
secondo la Suprema Corte, non può essere ovviata attraverso l’esercizio
della potestà di cui all’art. 2099 c.c.) o, comunque, determinante
l’acquisizione definitiva di una utilità da parte dei soggetti interessati.”
(questa Sezione
parere 25.07.2018 n. 264 già richiamata).
Con riferimento, invece, alla sottoposizione degli incentivi di cui trattasi
maturati prima della novella normativa di cui al richiamato comma 5-bis
questa Sezione ha già avuto modo di affermare che in relazione “...alla
questione se gli incentivi per attività svolta e conclusasi con
l'aggiudicazione della gara prima dell'entrata in vigore del comma 5-bis del
medesimo decreto, ……debbano essere o meno esclusi dal calcolo della spesa
del personale e del trattamento accessorio erogato dall'ente e dai relativi
limiti di spesa stabiliti dalla vigente normativa” la soluzione non può che
essere ricondotta all’effetto innovativo prodotto dal comma 5-bis
dell’articolo 113 a far data dall’entrata in vigore della disposizione
normativa in relazione sia al principio del tempus regit actum che a quello
dell’irretroattività della legge (art. 11, comma 1, delle Preleggi, secondo
il quale la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto
retroattivo).
La stessa Sezione delle Autonomie, d’altronde afferma che “… va considerato
che, sul piano logico, l’ultimo intervento normativo, pur mancando delle
caratteristiche proprie delle norme di interpretazione autentica (tra cui la
retroattività), non può che trovare la propria ratio nell’intento di
dirimere definitivamente la questione della sottoposizione ai limiti
relativi alla spesa di personale delle erogazioni a titolo di incentivi
tecnici …”.
Per altro verso la richiamata
deliberazione 26.04.2018 n. 6 della sezione delle Autonomie
dopo aver affermato che “la ratio legis è quella di stabilire una diretta
corrispondenza tra incentivo ed attività compensate in termini di
prestazioni sinallagmatiche, nell’ambito dello svolgimento di attività
tecniche e amministrative analiticamente indicate e rivolte alla
realizzazione di specifiche procedure” in ordine al fatto se le prestazioni
per gli incentivi vadano o meno considerate quale spesa del personale, è
giunta a ritenere chiaramente che “L’avere correlato normativamente la
provvista delle risorse ad ogni singola opera con riferimento all’importo a
base di gara commisurato al costo preventivato dell’opera, àncora la
contabilizzazione di tali risorse ad un modello predeterminato per la loro
allocazione e determinazione, al di fuori dei capitoli destinati a spesa di
personale”.
Con ciò confermando che “l’onere relativo non transita
nell’ambito dei capitoli dedicati alla spesa del personale e, quindi, non può
essere soggetto ai vincoli posti, nel caso in specie agli enti territoriali,
alla relativa spesa.” (questa Sezione
parere 25.07.2018 n. 265)
(Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto,
parere
13.11.2018 n. 405). |
INCENTIVO
FUNZIONI TECNICHE: La
fonte di copertura inizia a variare per tutte le procedure la cui
programmazione della spesa è approvata dopo il 01.01.2018, stante la intima
compenetrazione sussistente tra tale programmazione ed i relativi
stanziamenti con accantonamento di risorse nel Fondo costituito ai fini
della successiva ripartizione e liquidazione dei compensi incentivanti.
Per cui la nuova forma di copertura del Fondo introdotta dal comma 5-bis
inizierà ad applicarsi ai contratti pubblici il cui progetto dell'opera o
del lavoro sono stati approvati ed inseriti nei documenti di programmazione
dopo il 01.01.2018 o, per le altre tipologie di appalti, in cui
l’affidamento del contratto è stato deliberato dopo tale data.
---------------
Ciò che rileva ai fini della corresponsione dell'incentivo è:
- da un lato, l’effettivo svolgimento di una delle attività
elencate dalla norma di riferimento. Nell’art. 113 citato, infatti, “...
l’avverbio “esclusivamente” esprime con chiarezza l’intenzione del
legislatore di riconoscere il compenso incentivante limitatamente alle
attività espressamente previste, ove effettivamente svolte dal dipendente
pubblico, sicché l’elencazione contenuta nella norma deve considerarsi
tassativa”;
-
dall’altro, che le suddette attività incentivabili siano
riferibili a contratti affidati mediante procedura di “gara”, seppur in
forma semplificata. L’art. 113, infatti, dispone l’accantonamento in un
apposito fondo di risorse finanziarie “... in misura non superiore al 2
per cento modulate sull’importo dei lavori posti a base di gara”, con ciò,
quindi, presupponendo esplicitamente lo svolgimento di una gara o, comunque,
di una procedura comparativa.
A questo fine inoltre occorre ricordare che
gli incentivi di cui trattasi,
in virtù del principio di onnicomprensività del trattamento economico,
possono essere corrisposti solo al ricorrere di tutti i requisiti fissati
dalla legge.
Il punto dirimente diviene dunque non tanto quello del meccanismo di
approvvigionamento, adottato dall’ente,
quale presupposto per l’erogazione
dell’incentivo –nella specie il ricorso a Centrali di committenza, Consip o
Mepa (che comunque rappresentano meccanismi di gara seppur semplificati
tramite e-procurement), autonomamente di per sé considerato–,
ma
quello dell’effettiva occorrenza, secondo la specifica disciplina della
procedura di e-procurement concretamente applicata,
di una delle
attività incentivate, nel caso di specie concretamente accertata come svolta
(vale a dire attività di programmazione della spesa per investimenti, di
verifica preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle
procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile
unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero di direzione
dell’esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di
conformità, di collaudatore statico). Spetta all’ente tale valutazione, in
concreto, nelle diverse possibili evenienze.
Al riguardo,
l’ente, nel valutare concretamente le attività incentivate e le modalità di
rimodulazione dell’incentivo nelle diverse evenienze, deve altresì
considerare correttamente il quadro normativo,
sistematicamente considerato,
che prevede che per i compiti svolti dal personale di una centrale unica di committenza, nell'espletamento di procedure di
acquisizione di lavori, servizi e forniture per conto di altri enti,
possa
essere riconosciuta, su richiesta della centrale unica di committenza, una
quota parte, non superiore ad un quarto, dell'incentivo (art. 113, comma 5).
Ciò posto,
spetta dunque all’ente la valutazione nelle specifiche evenienze
dell’occorrenza, in concreto,
di attività effettivamente incentivate in forza della ricordata disposizione
normativa.
---------------
E' preclusa alle amministrazioni la possibilità di liquidare incentivi non
previsti nei quadri economici dei singoli appalti, in ragione del chiaro
quadro normativo e anche per quanto già più volte ribadito dalla
giurisprudenza contabile.
---------------
Con la nota sopra citata il Sindaco del Comune di Pioltello (MI) pone tre
quesiti concernenti l’erogazione degli “incentivi per funzioni tecniche”
di cui all’art. 113, del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 (codice dei
contratti pubblici).
In primo luogo, l’Ente dichiara di aver impegnato nel corso dell’anno 2017
somme a titolo di incentivo per le funzioni tecniche (art. 113 del D.Lgs.
50/2016 e ss.mm. e ii.) per le attività previste nel relativo regolamento,
sugli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e
forniture del bilancio per l’esercizio 2017 e che parte delle attività sono
state svolte nel corso del 2017 e parte sono svolte nel corso del 2018 come
le attività di aggiudicazione delle gare, direzione dell’esecuzione,
collaudo tecnico amministrativo.
Ciò premesso, il Comune di Pioltello, atteso che l’incentivo per le
prestazioni relativo a funzioni tecniche, svolte fino al 31.12.2017 rientra
nei limiti di cui all’art. 23, comma 2, del decreto legislativo n. 75 del
2017, chiede se, a seguito della
deliberazione 26.04.2018 n. 6 della Sezione autonomie della Corte dei Conti,
l’incentivo per le prestazioni rese allo stesso titolo nel corso del 2018 e
relativo ai sopra detti impegni, non sia soggetto al vincolo posto al
complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti previsto
dall’art. 23 citato.
In secondo luogo si chiede conferma che la locuzione prevista all’art.
113 del D.Lgs. 50/2016 “posti a base di gara” escluda dal perimetro
di applicazione della norma tutti gli acquisti di beni e servizi effettuati
tramite adesione a una convenzione presente in una centrale pubblica
d’acquisto sul presupposto del mancato svolgimento della procedura di gara e
se sia legittimo riconoscere incentivi tecnici per la parte di attività di
controllo connessi all’attuazione di investimenti affidati tramite il
ricorso a una convenzione Consip.
Da ultimo si chiede di conoscere se è preclusa la possibilità di
liquidare incentivi non previsti nei quadri economici dei singoli appalti
per difetto di copertura dei singoli appalti in ragione del chiaro dato
normativo.
...
La questione degli incentivi per funzioni tecniche è stata ampiamente
dibattuta e sul tema si sono pronunciate più volte, sia diverse Sezioni
regionali della Corte dei Conti (Sez. Controllo Lombardia
parere 07.11.2017 n. 307, Sez. Controllo Lazio
parere 06.07.2018 n. 57, Sez. Controllo Friuli Venezia
Giulia
parere 02.02.2018 n. 6, Sez. Controllo Veneto
parere 25.07.2018 n. 264), sia la Sezione Autonomie
nella veste di organo nella propria funzione nomofilattica.
Così anche la ricostruzione del quadro giuridico generale e della sua
evoluzione nel tempo è stata ampiamente ripresa da questa stessa sezione
regionale e anche più recentemente dalla Sezione del Lazio.
Questa stessa sezione si è poi espressa da ultimo (parere
27.09.2018 n. 258), sulla questione relativa alla successione temporale
delle norme riferite alla questione della imputabilità degli incentivi tra
le spese del personale, ricordando quanto già chiarito dalla Sezione
autonomie (deliberazione
26.04.2018 n. 6) circa la efficacia
novativa della norma prevista dall’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del
2017 e l’esclusione degli incentivi previsti dall’art. 103 del D.Lgs. 50 del
2016 dalle spese di personale a partire dal 2018, e assumendo a proposito
del problema posto la stessa posizione già espressa dalla Sezione Lazio (parere
06.07.2018 n. 57) che afferma sul punto “la fonte di copertura inizia a
variare per tutte le procedure la cui programmazione della spesa è approvata
dopo il 01.01.2018, stante la intima compenetrazione sussistente tra tale
programmazione ed i relativi stanziamenti con accantonamento di risorse nel
Fondo costituito ai fini della successiva ripartizione e liquidazione dei
compensi incentivanti. Per cui la nuova forma di copertura del Fondo
introdotta dal comma 5-bis inizierà ad applicarsi ai contratti pubblici il
cui progetto dell'opera o del lavoro sono stati approvati ed inseriti nei
documenti di programmazione dopo il 01.01.2018 o, per le altre tipologie di
appalti, in cui l’affidamento del contratto è stato deliberato dopo tale
data”.
Per quanto concerne il secondo quesito sollevato dalla richiesta di
parere del Comune di Pioltello, si chiede conferma che la locuzione prevista
all’art. 113 del D.Lgs. 50/2016 “posti a base di gara” escluda dal
perimetro di applicazione della norma tutti gli acquisti di beni e servizi
effettuati tramite adesione a una convenzione presente in una centrale
pubblica d’acquisto sul presupposto del mancato svolgimento della procedura
di gara e se sia legittimo riconoscere incentivi tecnici per la parte di
attività di controllo connessi all’attuazione di investimenti affidati
tramite il ricorso a una convenzione Consip.
A tale fine occorre richiamare quanto già sottolineato da questa stessa
sezione (parere
09.06.2017 n. 185) e più recentemente
dalla Sezione Toscana (parere
27.03.2018 n. 19).
Al riguardo, la giurisprudenza contabile infatti ha da tempo chiarito come
ciò che rileva ai fini della corresponsione di detti incentivi sia:
- da un lato, l’effettivo svolgimento di una delle attività
elencate dalla norma di riferimento. Nell’art. 113 citato, infatti, “...
l’avverbio “esclusivamente” esprime con chiarezza l’intenzione del
legislatore di riconoscere il compenso incentivante limitatamente alle
attività espressamente previste, ove effettivamente svolte dal dipendente
pubblico, sicché l’elencazione contenuta nella norma deve considerarsi
tassativa” (Sezione regionale di controllo per la Lombardia,
parere 09.06.2017 n. 185);
- dall’altro, che le suddette attività incentivabili siano
riferibili a contratti affidati mediante procedura di “gara”, seppur in
forma semplificata. L’art. 113, infatti, dispone l’accantonamento in un
apposito fondo di risorse finanziarie “... in misura non superiore al 2
per cento modulate sull’importo dei lavori posti a base di gara”, con
ciò, quindi, presupponendo esplicitamente lo svolgimento di una gara o,
comunque, di una procedura comparativa (Sezione regionale di controllo per
la Toscana,
parere 14.12.2017 n. 186).
A questo fine inoltre occorre ricordare che gli incentivi di cui trattasi,
in virtù del principio di onnicomprensività del trattamento economico,
possono essere corrisposti solo al ricorrere di tutti i requisiti fissati
dalla legge.
Il punto dirimente diviene dunque non tanto quello del meccanismo di
approvvigionamento, adottato dall’ente, quale presupposto per l’erogazione
dell’incentivo –nella specie il ricorso a Centrali di committenza, Consip o
Mepa (che comunque rappresentano meccanismi di gara seppur semplificati
tramite e-procurement), autonomamente di per sé considerato–, ma
quello dell’effettiva occorrenza, secondo la specifica disciplina della
procedura di e-procurement concretamente applicata, di una delle
attività incentivate, nel caso di specie concretamente accertata come svolta
(vale a dire attività di programmazione della spesa per investimenti, di
verifica preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle
procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile
unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero di direzione
dell’esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di
conformità, di collaudatore statico). Spetta all’ente tale valutazione, in
concreto, nelle diverse possibili evenienze.
Al riguardo, l’ente, nel valutare concretamente le attività incentivate e le
modalità di rimodulazione dell’incentivo nelle diverse evenienze, deve
altresì considerare correttamente il quadro normativo, sistematicamente
considerato, che prevede che per i compiti svolti dal personale di una centrale unica di committenza, nell'espletamento di procedure di
acquisizione di lavori, servizi e forniture per conto di altri enti, possa
essere riconosciuta, su richiesta della centrale unica di committenza, una
quota parte, non superiore ad un quarto, dell'incentivo (art. 113, comma 5)
(Sez. Lombardia
parere 09.06.2017 n. 185).
Ciò posto, spetta dunque all’ente la valutazione nelle specifiche evenienze
dell’occorrenza, in concreto, di attività effettivamente incentivate in
forza della ricordata disposizione normativa.
Con riferimento infine al terzo quesito infine il Comune chiede se
sia preclusa la possibilità di liquidare incentivi non previsti nei quadri
economici dei singoli appalti per difetto di copertura in ragione del chiaro
dato normativo.
Al riguardo questa sezione non può che condividere che sia preclusa alle
amministrazioni la possibilità di liquidare incentivi non previsti nei
quadri economici dei singoli appalti, in ragione appunto del chiaro quadro
normativo e anche per quanto già più volte ribadito dalla giurisprudenza
contabile (es. Sez. Liguria
deliberazione 29.06.2017 n. 58 e
Sezione
Toscana
parere 14.12.2017 n. 186)
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere
06.11.2018 n. 304). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Il legislatore, con norma innovativa contenuta
nella legge di bilancio per il 2018, ha stabilito che gli incentivi
gravano su risorse autonome e predeterminate del bilancio (indicate proprio
dal comma 5-bis dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016) diverse dalle
risorse ordinariamente rivolte all’erogazione di compensi accessori al
personale.
Gli incentivi per le funzioni tecniche, quindi, devono ritenersi
non soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico
accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017.
---------------
Il Sindaco del Comune di BRA (CN), con nota dell’08.02.2018, chiede, all’adita Sezione, l’espressione di un parere ai
sensi dell’art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131.
La Sezione regionale di Controllo per il Piemonte, nell’adunanza del 20.02.2018, ha deliberato di rinviare la discussione del parere posto dal
sindaco di Bra. Tale decisione, ha riguardato anche il parere, richiesto
successivamente, dal Comune di Trecate, ed è stata motivata dal fatto che su
analogo problema, sollevato dalle Sezioni di Controllo per la Regione Puglia
e per la Regione Lombardia, doveva esprimersi, nel breve tempo, la sezione
delle Autonomie. Tale decisione è stata assunta con
deliberazione 26.04.2018 n. 6.
Nella nota in epigrafe il Sindaco, prima della formulazione del quesito
specifico, richiama l’attenzione su alcuni principi normativi. In
particolare si fa riferimento all' articolo 113, comma 2, del D.Lgs. 18/04/2016
n. 50, recante il nuovo "Codice dei contratti pubblici (così come modificato
ad Opera dell'articolo 76 del successivo D.lgs. 19/04/2017, n. 56), in parte
innovando rispetto alla disciplina previgente in materia di incentivi per i
tecnici dipendenti di amministrazioni pubbliche in caso di appalti di
lavori”.
Nella stessa si sottolinea che: “Tale fondo non è previsto da parte di
quelle amministrazioni aggiudicatrici per le quali sono in essere contratti
o convenzioni che prevedono modalità diverse per la retribuzione delle
funzioni tecniche svolte dai propri dipendenti. Gli enti che costituiscono o
si avvalgono di una centrale di committenza possono destinare il fondo o
parte di esso ai dipendenti dì tale centrale”. “La disposizione di cui al
testé citato comma 2 si applica agli appalti relativi a servizi o forniture
solo nel caso in cui è nominato il direttore dell'esecuzione”.
“Il successivo comma 3 del medesimo articolo di legge”, scrive il Sindaco di BRA nella richiesta di parere, “in analogia a quanto in precedenza disposto
dalla richiamata previgente normativa in terna di appalti di opere e lavori
pubblici, ha stabilito che l'ottanta per cento delle risorse finanziarie del
fondo costituito ai sensi del comma 2 è ripartito, per ciascuna opera o
lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i criteri previsti in sede di
Contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito
regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti,
tra il responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le
funzioni tecniche indicate, al comma 2 nonché tra i loro Collaborati”.
Nella stessa nota si fa espresso riferimento all'articolo 1, comma 236,
della legge n. 20/2015 (legge dì stabilità 2016) che dispone: “Nelle more
dell'adozione dei decreti legislativi attuativi degli articoli 11 e 17 della
legge 07.08.2015, n. 124, con particolare riferimento
all'omogeneizzazione del trattamento economico fondamentale e accessorio
della dirigenza, tenuto conto delle esigenze di finanza pubblica, a
decorrere dal 01.01.2016 l'ammontare complessivo delle risorse
destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di
livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche di cui
all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e
successive modificazioni, non può superare il corrispondente importo
determinato per l'anno 2015 ed è, comunque, automaticamente ridotto in
misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio, tenendo conto
del personale assumibile ai sensi della normativa vigente”.
Inoltre, nella nota in oggetto ci si riferisce alla
deliberazione 06.04.2017 n. 7
della
sezione delle Autonomie, relativa ad una
pronuncia su una questione di massima sollevata dalla sezione regionale di
controllo per l’Emilia Romagna, ed in particolare all’enunciazione di
diritto in essa contenuta: ”gli incentivi per funzioni tecniche di cui
all’art. 113, comma 2, dlgs. n. 50/2016 sono da includere nel tetto dei
trattamenti accessori di cui all’articolo 1, comma 236, l. n. 208/2015 (legge
di stabilità 2016)” sottolineando nella medesima deliberazione che “gli
stessi si configurino, in maniera inequivocabile, come spese di
funzionamento e, dunque, come spese correnti e quindi di personale”.
La nota del Sindaco fa un ulteriore riferimento all’articolo 23, comma 2,
del d.lgs. 25.05.2017 n. 75, che ha abrogato il citato articolo 1, comma
236, della legge 208/2015, riformulando la materia di cui trattasi, dal 01.01.2017, nel seguente modo: “omissis.., al fine di assicurare la
semplificazione amministrativa, la valorizzazione del merito, la qualità dei
servizi e garantire adeguati livelli di efficienza ed economicità
dell’azione amministrativa, assicurando al contempo l'invarianza della
spesa, a decorrere dal 01.01.2017, l’ammontare complessivo delle
risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche
di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche di cui
all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 non
può superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2016. A
decorrere dalla predetta data l'articolo 1, comma 236, della legge 28.12.2015, n. 208 è abrogato. Per gli enti locali che non hanno potuto
destinare nell'anno 2016 risorse aggiuntive alla contrattazione integrativa
a causa del mancalo rispetto del patto di stabilità interno del 2015,
l'ammontare complessivo delle risorse di cui al primo periodo del presente
comma non può superare. il corrispondente importo determinato per l’anno
2015, ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in
servizio nell'anno 2014”.
Si sottolinea altresì, nella predetta richiesta di parere, che la Sezione
delle Autonomie, con successiva
deliberazione 10.10.2017 n. 24 si è pronunciata, su una questione di massima, posta dalla
Sezione regionale di controllo per la Liguria. Ritenendo la stessa richiesta
simile a quella posta dalla sezione di controllo per l’Emilia Romagna, ha
dichiarato la questione inammissibile e ha confermato, in modo pieno, il
principio di diritto già enunciato, ai sensi dell'art. 6, comma 4, del d.l.
10.10.2012, n. 174, convertito dalla legge 07.12.2012, n. 213, con
la
deliberazione 06.04.2017 n. 7.
Inoltre il Sindaco di BRA fa espresso riferimento al
parere 09.06.2017 n. 113, dalla Sezione di regionale di
controllo per il Piemonte in cui si conferma che gli incentivi di cui
all’articolo 113, comma 3, del D.lgs. n. 50/2016, rientrano a pieno titolo,
nel limite di cui all’articolo 1, comma 236, della legge n. 208/2015.
Infine la legge di bilancio 2018 è intervenuta con l’articolo 1, comma 526,
della legge 27.12.2017, aggiungendo all’articolo 113 del D.lgs. n.
50/2016 il comma 5-bis: “Gli incentivi di cui al presente articola fanno
capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e
forniture”. Relativamente a tale enunciato si fa presente, nella nota del
Sindaco di BRA, che “non vi è, nelle amministrazioni destinatarie l'assoluta
certezza che superi in maniera chiara il principio di diritto come sopra
formulato e confermato dalla Corte dei Conti”.
Premesso quanto sopra si formula il seguente quesito:
“Se, anche alla luce del nuovo comma 5-bis inserito nell’articolo 113 del D.lgs. n. 50/2016 e s.m.i., gli incentivi per le funzioni tecniche” di cui
al comma 3 del medesimo articolo vadano o meno conteggiati ai fini del
rispetto del limite annuale di cui all’articolo 23, commi 2 e 3, del D.lgs.
n. 75/2017”.
...
Il quesito posto dall’ente locale fa riferimento, come in
precedenza detto, all’art. 113, comma 5-bis, come modificato dall’articolo 1
comma 526 della legge 27.12.2017, n. 205 (legge di bilancio 2018) che
enuncia: “gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo
capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”.
In quest’ambito si chiede chiarire se gli incentivi per le “funzioni
tecniche” di cui al comma 3 del medesimo articolo (peraltro gli incentivi
per le funzioni tecniche vengono indicati al comma 2; ed analogamente anche
la delibera della sezione regionale di controllo del Piemonte si riferiva al
comma 2 e non al comma 3), vadano o meno conteggiati ai fini del rispetto
del limite annuale di cui all’articolo 23, commi 2 e 3, del D.lgs. n.
75/2017 che rispettivamente recitano:
“comma 2 -nelle more di quanto previsto dal comma 1, al fine di assicurare
la semplificazione amministrativa, la valorizzazione del merito, la qualità
dei servizi e garantire adeguati livelli di efficienza ed economicità
dell'azione amministrativa, assicurando al contempo l'invarianza della
spesa, a decorrere dal 01.01.2017, l'ammontare complessivo delle
risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche
di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche di cui
all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, non
può superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2016. A
decorrere dalla predetta data l'articolo 1, comma 236, della legge 28.12.2015, n. 208 è abrogato. Per gli enti locali che non hanno potuto
destinare nell'anno 2016 risorse aggiuntive alla contrattazione integrativa
a causa del mancato rispetto del patto di stabilità interno del 2015,
l'ammontare complessivo delle risorse di cui al primo periodo del presente
comma non può superare il corrispondente importo determinato per l'anno
2015, ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in
servizio nell'anno 2016.
Comma 3 - Fermo restando il limite delle risorse complessive previsto dal
comma 2, le regioni e gli enti locali, con esclusione degli enti del
Servizio sanitario nazionale, possono destinare apposite risorse alla
componente variabile dei fondi per il salario accessorio, anche per
l'attivazione dei servizi o di processi di riorganizzazione e il relativo
mantenimento, nel rispetto dei vincoli di bilancio e delle vigenti
disposizioni in materia di vincoli della spesa di personale e in coerenza
con la normativa contrattuale vigente per la medesima componente variabile”.
Su tale quesito si è espressa in modo esaustivo, con
parere 05.02.2018 n. 14, la sezione regionale di controllo per l’Umbria ribadendo
che, con riferimento agli incentivi tecnici disciplinati dalla precedente
normativa (ex art. 93, comma 7-ter, del D.lgs. n. 163/2006) “vi era stata
una pronuncia delle Sezioni Riunite la 51/2011 che aveva “escluso dal
rispetto del limite di spesa posto dall’art. 9, comma 2-bis, del d.l. n.
78/2010, tutti quei compensi per prestazioni professionali specialistiche
offerte da soggetti qualificati, tra i quali l’incentivo per la
progettazione”.
In questo specifico contesto si era espressa anche la Sezione delle
Autonomie con la
deliberazione 13.11.2009 n. 16/2009, disponendo, ai fini del
computo delle voci di spesa da ridurre a norma dell’art. 1, commi 557 e 562,
della legge 27.12.2006 n. 296, l’esclusione di incentivi per la
progettazione interna a motivo della loro riconosciuta natura: “di spese di
investimento, attinenti alla gestione in conto capitale, iscritte nel titolo II della spesa, e finanziate nell’ambito dei fondi stanziati per la
realizzazione di un’opera pubblica, e non di spese di funzionamento”.
La Sezione delle Autonomie con la
deliberazione 06.04.2017 n. 7, ha
stabilito che gli incentivi per le funzioni tecniche, diversi dagli
incentivi per la progettazione, rientrino nel tetto del fondo per la
contrattazione decentrata.
Su questo punto, in particolare, la Sezione di Controllo per la Liguria con
deliberazione n. 58/2017 aveva espressamente richiesto alla Sezione delle
Autonomie un riesame della problematica in esame: “la Sezione, considerata
l’esigenza di un’interpretazione uniforme della normativa disciplinante gli
incentivi tecnici di cui al comma 2 dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016,
ai fini del rispetto dei limiti di spesa del personale” sottoponendo la
seguente questione di massima: “se gli incentivi tecnici di cui al comma 2
dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016, debbano essere ricompresi nel
computo della spesa rilevante ai fini del rispetto del tetto di spesa
previsto dall’art. 1, comma 557, della legge n. 296 del 2006, nonché ai fini
del rispetto del tetto di spesa previsto dall’art. 1, comma 236, della legge
n. 208 del 2015”.
La Sezione delle Autonomie, in risposta alla richiesta formulata dalla
sezione di controllo della Liguria, con
deliberazione 10.10.2017 n. 24, aveva
ribadito il proprio orientamento espresso con la
deliberazione 06.04.2017 n. 7 della
stessa Sezione, pronunciandosi sul rapporto tra nuovi incentivi e norme
vincolistiche sul contenimento della spesa del personale, rimarcando che gli
incentivi per le funzioni tecniche di cui all’art. 113, comma 2, del d.lgs.
n. 50/2016, fossero da includere nel tetto di spesa per il salario
accessorio dei dipendenti pubblici “posto che gli stessi si configurino, in
maniera inequivocabile, come spese di funzionamento e, dunque, come spese
correnti, e, quindi, di personale.”
Nella
deliberazione 10.10.2017 n. 24 della Sezione delle Autonomie si chiariva che:
“Le intervenute modifiche, comunque, non hanno inciso sulla risoluzione
adottata da questa Sezione ma, anzi, ne hanno avvalorato l’iter argomentativo in relazione alla rilevata difformità della fattispecie
introdotta dall’art. 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016, rispetto all’abrogato
istituto degli incentivi alla progettazione.
IV. Ciò debitamente rappresentato, si osserva che la questione di massima
deferita dalla Sezione regionale di controllo per la Liguria è
sostanzialmente identica a quella già valutata e risolta da questa Sezione
delle autonomie con la recente
deliberazione 06.04.2017 n. 7 con la quale, sia pure in via incidentale,
in conformità alla questione di massima ad essa in tale sede deferita, la
Sezione si è pronunciata anche sul rapporto tra nuovi incentivi e norme
vincolistiche sul contenimento della spesa del personale.
Come sottolineato in detta deliberazione, nel delineato nuovo scenario
normativo gli incentivi per le funzioni tecniche non possono essere
assimilati ai compensi per la progettazione e, pertanto, non possono essere
esclusi dal perimetro di applicazione delle norme vincolistiche in tema di
contenimento della spesa del personale, nell’alveo delle quali si collocano
anche le norme limitative delle risorse destinate annualmente al trattamento
accessorio, posto che per detti nuovi incentivi non ricorrono –come anche
costantemente affermato dalla giurisprudenza contabile (ex multis: SS.RR. in
sede giurisdizionale, sent. n. 23/99/QM n. 2/2012/QM, n. 54/2015/QM)– per le
argomentazioni tutte esposte nella richiamata
deliberazione 06.04.2017 n. 7
–come anche costantemente affermato dalla giurisprudenza contabile (ex multis: SS.RR. in sede giurisdizionale, sent. n. 23/99/QM n. 2/2012/QM, n.
54/2015/QM)– i presupposti legittimanti la loro esclusione dal computo di
detta voce di spesa, quali delineati dalle Sezioni riunite con la
deliberazione 04.10.2011 n. 51 (in relazione ai trattamenti accessori del personale) e
dalla Sezione delle autonomie con la
deliberazione 13.11.2009 n. 16/2009 (in
relazione al limite previsto per la spesa di personale ex art. 1, commi 557
e 562, della l. 296/2006).
IV.1. Sulla problematica si sono successivamente pronunciate, in sede
consultiva, le Sezioni regionali di controllo per il Piemonte e Lombardia
(rispettivamente con il
parere 09.06.2017 n. 113 e
parere 09.06.2017 n. 185) in conformità al principio di diritto espresso
dalla Sezione delle autonomie.
Pertanto, allo stato non si registrano ulteriori contrasti interpretativi in
relazione alla novella legislativa oggetto della questione di massima
nuovamente riproposta dalla Sezione regionale di controllo per la Liguria,
ed oggi all’esame”.
Fermo restando la ricostruzione fin qui svolta, che dava un orientamento
restrittivo, è tuttavia intervenuto successivamente l’articolo 1, comma 526,
della legge 27/12/2017, n. 205 che ha aggiunto all’articolo 113 il comma
5-bis, che si inserisce all’interno del quadro normativo pregresso,
innovandolo.
Nel
parere 05.02.2018 n. 14 della Sezione di Controllo per
l’Umbria si sottolinea che la Legge di Bilancio 2018 con l’articolo 1, comma
n. 526, ha “infatti, aggiunto all’articolo 113 del d.lgs. n. 75 del 2016, il
comma 5-bis il cui testo è il seguente: “Gli incentivi di cui al presente
articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli
lavori, servizi e forniture”.
“In tal modo il legislatore è intervenuto sulla questione della rilevanza
degli incentivi tecnici ai fini del rispetto del tetto di spesa per il
trattamento accessorio, escludendoli dal computo rilevante ai fini
dall'articolo 23, comma 2, d.l.gs. n. 75 del 2017. Il legislatore ha voluto,
pertanto, chiarire come gli incentivi non confluiscono nel capitolo di spesa
relativo al trattamento accessorio (sottostando ai limiti di spesa previsti
dalla normativa vigente) ma fanno capo al capitolo di spesa dell’appalto”.
“Del resto, sia il comma 1 che il comma 2 dell’art. 113 citato, già
disponevano che tutte le spese afferenti gli appalti di lavori, servizi o
forniture, debbano trovare imputazione sugli stanziamenti previsti per i
predetti appalti. Il comma 5-bis rafforza tale intendimento e individua come
determinante, ai fini dell’esclusione degli incentivi tecnici dai tetti di
spesa sopra citati, l’imputazione della relativa spesa sul capitolo di spesa
previsto per l’appalto”.
La Sezione delle Autonomie, con
deliberazione 26.04.2018 n. 6,
ha affrontato due distinte questioni sollevate, ai sensi dell’art. 6, comma
4, del decreto legge 10.10.2012 n. 174, convertito con modificazioni
dalla legge 07.12.2012 n. 213. In particolare:
1) dalla Sezione di controllo per la Regione Puglia, con la
deliberazione 09.02.2018 n. 9, a seguito della richiesta di parere del Sindaco del
Comune di San Giovanni Rotondo (FG) concernente l’accertamento, alla luce
della novella normativa di cui all’art. 1, comma 526, della L. n. 205/2017,
della natura giuridica della spesa per incentivi per funzioni tecniche e
dell’inclusione, o meno, della stessa nell’ambito della spesa per il
personale, con le relative conseguenze in ordine al rispetto dei vincoli
normativi in tema di trattamento accessorio;
2) dalla Sezione di controllo per la Regione Lombardia, con la
deliberazione 16.02.2018 n. 40, in ordine alla
richiesta di parere presentata dal Sindaco del Comune di Cisano Bergamasco
(BG) in merito alla sottoposizione ai generali limiti posti al trattamento
accessorio del personale dipendente anche degli emolumenti economici erogati
a titolo di incentivi dall’art. 113 del codice dei contratti pubblici,
d.lgs. n. 50/2016.
Anche ad avviso di questa Sezione di controllo si ritiene che il nuovo
assetto normativo fin qui riproposto, possa dare una “nuova” luce ed una più
chiara interpretazione che permetta, in modo più esaustivo, di colmare le
distanze rispetto a precedenti interpretazioni normative e
giurisprudenziali.
Nella predetta delibera della Sezione delle Autonomie si sottolinea che:
“Proprio alla luce dei suesposti orientamenti, va considerato che, sul piano
logico, l’ultimo intervento normativo, pur mancando delle caratteristiche
proprie delle norme di interpretazione autentica (tra cui la retroattività),
non può che trovare la propria ratio nell’intento di dirimere
definitivamente la questione della sottoposizione ai limiti relativi alla
spesa di personale delle erogazioni a titolo di incentivi tecnici proprio in
quanto vengono prescritte allocazioni contabili che possono apparire non
compatibili con la natura delle spese da sostenere.
La ratio legis è quella di stabilire una diretta corrispondenza tra
incentivo ed attività compensate in termini di prestazioni sinallagmatiche,
nell’ambito dello svolgimento di attività tecniche e amministrative
analiticamente indicate e rivolte alla realizzazione di specifiche
procedure. L’avere correlato normativamente la provvista delle risorse ad
ogni singola opera con riferimento all’importo a base di gara commisurato al
costo preventivato dell’opera, àncora la contabilizzazione di tali risorse
ad un modello predeterminato per la loro allocazione e determinazione, al di
fuori dei capitoli destinati a spesa di personale.
Sulla questione è anche rilevante considerare che la norma contiene un
sistema di vincoli compiuto per l’erogazione degli incentivi che, infatti,
sono soggetti a due limiti finanziari che ne impediscono l’incontrollata
espansione: uno di carattere generale (il tetto massimo al 2% dell’importo
posto a base di gara) e l’altro di carattere individuale (il tetto annuo al
50% del trattamento economico complessivo per gli incentivi spettante al
singolo dipendente).
Oltre alla esplicita afferenza della spesa per gli incentivi tecnici al
medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e
forniture è da rilevare che tali compensi non sono rivolti
indiscriminatamente al personale dell’ente, ma mirati a coloro che svolgono
particolari funzioni (“tecniche”) nell’ambito di specifici procedimenti e ai
loro collaboratori (in senso conforme: SRC Lombardia
parere 16.11.2016 n. 333).
Si tratta, quindi di una platea ben circoscritta di possibili destinatari,
accomunati dall’essere incaricati dello svolgimento di funzioni rilevanti
nell’ambito di attività espressamente e tassativamente previste dalla legge
(in senso conforme: SRC Puglia
parere 24.01.2017 n. 5 e
parere 21.09.2017 n. 108).
Va rilevato, inoltre, che per l’erogazione degli incentivi l’ente deve
munirsi di un apposito regolamento, essendo questa la condizione essenziale
ai fini del legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse
accantonate sul fondo (in termini: SRC Veneto
parere 07.09.2016 n. 353) e la sede
idonea per circoscrivere dettagliatamene le condizioni alle quali gli
incentivi possono essere erogate. Il comma 3 dell’art. 113 citato, infatti,
fa obbligo all'amministrazione aggiudicatrice, di stabilire “i criteri e le
modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola
opera o lavoro” nel caso di “eventuali incrementi dei tempi o dei costi”.
Una condizione, dunque, che collega necessariamente l’erogazione
dell’incentivo al completamento dell’opera o all’esecuzione della fornitura
o del servizio oggetto dell’appalto in conformità ai costi ed ai tempi
prestabiliti.
Se tale risulta, dunque, il quadro della materia, come configurato a seguito
delle ultime modifiche normative intervenute, occorre prendere atto che
l’allocazione in bilancio degli incentivi tecnici stabilita dal legislatore
ha l’effetto di conformare in modo sostanziale la natura giuridica di tale
posta, in quanto finalizzata a considerare globalmente la spesa complessiva
per lavori, servizi o forniture, ricomprendendo nel costo finale dell’opera
anche le risorse finanziarie relative agli incentivi tecnici. Questi ultimi
risultano previsti da una disposizione di legge speciale (l’art. 113 del
d.lgs. n. 50 del 2016), valevole per i dipendenti di tutte le
amministrazioni pubbliche, a differenza degli emolumenti accessori aventi
fonte nei contratti collettivi nazionali di comparto.
In altre parole, con un intervento volto a tipizzare espressamente
l’allocazione in bilancio degli incentivi per le funzioni tecniche, si deve
ritenere che il legislatore (che, in tal modo, ha reso “ordinamentale” il
disposto di cui all’art. 113 citato) abbia voluto dare maggiore risalto alla
finalizzazione economica degli interventi cui accedono tali risorse,
nonostante i possibili dubbi che ne potrebbero conseguire sul piano della
gestione contabile. Pur permanendo l’esigenza di chiarire le specifiche
modalità operative di contabilizzazione, la novella impone che l'impegno di
spesa, ove si tratti di opere, vada assunto nel titolo II della spesa,
mentre, nel caso di servizi e forniture, deve essere iscritto nel titolo I,
ma con qualificazione coerente con quella del tipo di appalti di
riferimento.
Pertanto, il legislatore, con norma innovativa contenuta nella legge di
bilancio per il 2018, ha stabilito che i predetti incentivi gravano su
risorse autonome e predeterminate del bilancio (indicate proprio dal comma
5-bis dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016) diverse dalle risorse
ordinariamente rivolte all’erogazione di compensi accessori al personale.
Gli incentivi per le funzioni tecniche, quindi, devono ritenersi non
soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio
dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75
del 2017.
La predetta conclusione assorbe le ulteriori questioni poste in via
subordinata dalla Sezione remittente lombarda”.
Questa Sezione, pertanto, non può che uniformare il proprio parere a quanto
stabilito dalla Sezione delle Autonomie nella richiamata deliberazione
(Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte,
parere
23.05.2018 n. 54). |
INCENTIVO
FUNZIONI TECNICHE: Gli
incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 nel testo
modificato dall’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017, erogati su
risorse finanziarie individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli
sui quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e forniture, non
sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico
accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del
d.lgs. n. 75 del 2017.
---------------
Il Sindaco del Comune di San Giovanni Rotondo (FG), dopo aver
richiamato la normativa dell’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016 in tema di
incentivi per funzioni tecniche ed, in particolare, l’art. 1, comma 526,
della L. 27/12/2017 n. 205 che ha aggiunto che tali incentivi “fanno capo
al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e
forniture” richiedeva il parere di questa Sezione al fine di
pervenire alla corretta interpretazione della novella normativa ritenendo
che i predetti incentivi dovessero essere esclusi dalla voce di spesa del
personale per essere allocati al titolo II nell’ambito delle spese di
investimento.
...
Con
deliberazione 09.02.2018 n. 9, questa Sezione, dopo aver
preliminarmente valutato i profili di ricevibilità ed ammissibilità della
richiesta, rilevava che la Sezione delle Autonomie, con
deliberazione 06.04.2017 n. 7, aveva evidenziato la non
sovrapponibilità degli incentivi per funzioni tecniche all’incentivo per la
progettazione di cui al previgente art. 93, comma 7-ter, del D.Lgs. n.
163/2006 ed aveva sottolineato che, gli incentivi previsti dall’art. 113 del
D.Lgs. n. 50/2016 non sussistono gli elementi che consentono di qualificare
la relativa spesa come finalizzata ad investimenti posto che tali emolumenti
sono erogabili, con carattere di generalità, anche per gli appalti di
servizi e forniture e ciò comporta che gli stessi si configurino, in maniera
inequivocabile, come spese di funzionamento e, dunque, come spese correnti
(e di personale).
Con la su richiamata
deliberazione 06.04.2017 n. 7,
la Sezione delle Autonomie aveva aggiunto che non potevano ravvisarsi gli
ulteriori presupposti delineati dalla
deliberazione 04.10.2011 n. 51
delle Sezioni riunite in sede di controllo, per escludere gli incentivi di
cui trattasi dal limite del tetto di spesa per i trattamenti accessori del
personale dipendente “in quanto essi non vanno a remunerare “prestazioni
professionali tipiche di soggetti individuati e individuabili” acquisibili
anche attraverso il ricorso a personale esterno alla P.A. con possibili
aggravi di costi per il bilancio dell’ente interessato”.
Conseguentemente, la Sezione delle Autonomie aveva enunciato il principio di
diritto secondo il quale gli incentivi per funzioni tecniche devono essere
inclusi nel tetto di spesa per il salario accessorio dei dipendenti
pubblici.
Tale conclusione era stata poi confermata dalla successiva
deliberazione 10.10.2017 n. 24
della Sezione delle Autonomie che, preso atto dell’abrogazione del
comma 236 dell’art. 1 della legge n. 208/2015 ad opera dell’art. 23, comma
2, del D.Lgs. 25.05.2017 n. 75, aveva ribadito che: “gli incentivi per le
funzioni tecniche non possono essere assimilati ai compensi per la
progettazione e, pertanto, non possono essere esclusi dal perimetro di
applicazione delle norme vincolistiche in tema di contenimento della spesa
del personale, nell’alveo delle quali si collocano anche le norme limitative
delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio”.
Questa Sezione, rilevato che la collocazione della spesa per incentivi
tecnici nell’ambito del medesimo capitolo di spesa di realizzazione
dell’opera pubblica introdotta dalla legge di stabilità 2018, comportando
l’esclusione di tale tipologia di spesa dall’ammontare complessivo della
spesa del personale e della spesa per il trattamento accessorio superava, di
fatto, l’interpretazione resa dalla Sezione delle Autonomie con le su
enunciate
deliberazione 06.04.2017 n. 7
e
deliberazione 10.10.2017 n. 24, sottolineava che quando il
legislatore ha ritenuto di escludere determinate spese dall’ammontare
complessivo della spesa del personale lo ha affermato espressamente, come
avvenuto con l’art. 1, comma 424, della L. 23/12/2014 n. 190 in tema di
ricollocazione del personale delle Province e con l’art. 11, comma 4-ter,
del D.L. 24/06/2014 n. 90 convertito dalla L. 11/08/2014 n. 114, per i
comuni colpiti dal sisma.
Aggiungeva, inoltre, la Sezione che poteva assumere valore indiziante della
natura di spesa del personale anche l’esame del glossario Siope, vigente per
gli enti territoriali a decorrere dal 2018, dal quale emerge che: “i
compensi a titolo di incentivo alla progettazione devono essere erogati al
personale utilizzando gli appositi codici di spesa previsti per la spesa di
personale” e che, anche nell’ipotesi in cui si fosse aderito alla tesi
che trattasi in ogni caso di spesa corrente eccezionalmente allocabile al
titolo II della spesa, il finanziamento di tale spesa non avrebbe potuto
comunque avvenire mediante ricorso all’indebitamento stante il disposto
dell’art. 119, ultimo comma, della Costituzione che vieta il ricorso
all’indebitamento per il finanziamento di spesa corrente, confermato anche
dall’art. 202 del Tuel.
Conclusivamente, questa Sezione riteneva che la questione volta ad accertare
la natura giuridica della spesa per incentivi per funzioni tecniche e
l’eventuale esclusione dalla spesa del personale e del trattamento
accessorio alla luce della novella normativa di cui all’art. 1, comma 526,
della L n. 205/2017, assumeva notevole rilevanza inserendosi in un contesto
normativo per il quale risultavano già intervenute la
deliberazione 04.10.2011 n. 51
delle Sezioni riunite in sede di controllo e la
deliberazione 13.05.2016 n. 18,
deliberazione 06.04.2017 n. 7 e
deliberazione 10.10.2017 n. 24
delle Sezioni delle Autonomie e pertanto sottoponeva al Presidente della
Corte dei conti la valutazione dell’opportunità di deferire la questione di
massima alle Sezioni riunite in sede di controllo o alla Sezione delle
Autonomie, ai sensi dell’art. 17, comma 31, del D.L. n. 78/2009 e dell’art.
6, comma 4, del D.L. 10.10.2012 n. 174.
Con
deliberazione 26.04.2018 n. 6, la Sezione delle Autonomie ha
chiarito che gli incentivi per funzioni tecniche sono, per loro natura,
estremamente variabili nel corso del tempo e, come tali, difficilmente
assoggettabili a limiti di finanza pubblica a carattere generale che hanno
come parametro di riferimento un predeterminato anno base; che la normativa
delineata dall’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016 contiene un compiuto sistema
di vincoli per l’erogazione degli incentivi individuando due limiti
finanziari che ne impediscono l’incontrollata espansione: uno di carattere
generale, il tetto massimo al 2% dell’importo posto a base di gara e l’altro
di carattere individuale, il tetto annuo al 50% del trattamento economico
complessivo per gli incentivi spettante al singolo dipendente e che la ratio
legis della disposizione introdotta dall’art. 1, comma 526, della L. n.
205/2017, “è quella di stabilire una diretta corrispondenza tra incentivo
ed attività compensate in termini di prestazioni sinallagmatiche,
nell’ambito dello svolgimento di attività tecniche e amministrative
analiticamente indicate e rivolte alla realizzazione di specifiche
procedure. L’avere correlato normativamente la provvista delle risorse ad
ogni singola opera con riferimento all’importo a base di gara commisurato al
costo preventivato dell’opera, àncora la contabilizzazione di tali risorse
ad un modello predeterminato per la loro allocazione e determinazione, al di
fuori dei capitoli destinati a spesa di personale”.
La Sezione delle Autonomie ha, inoltre, evidenziato che “tali compensi
non sono rivolti indiscriminatamente al personale dell’ente, ma mirati a
coloro che svolgono particolari funzioni nell’ambito di specifici
procedimenti e ai loro collaboratori” e che “l’allocazione in
bilancio degli incentivi tecnici stabilita dal legislatore ha l’effetto di
conformare in modo sostanziale la natura giuridica di tale posta, in quanto
finalizzata a considerare globalmente la spesa complessiva per lavori,
servizi o forniture, ricomprendendo nel costo finale dell’opera anche le
risorse finanziarie relative agli incentivi tecnici” conferendo, quindi,
“maggiore risalto alla finalizzazione economica degli interventi cui
accedono tali risorse” e pertanto “pur permanendo l’esigenza di
chiarire le specifiche modalità operative di contabilizzazione, la novella
impone che l'impegno di spesa, ove si tratti di opere, vada assunto nel
titolo II della spesa, mentre, nel caso di servizi e forniture, deve essere
iscritto nel titolo I, ma con qualificazione coerente con quella del tipo di
appalti di riferimento”.
I predetti incentivi gravano, inoltre, su risorse autonome e predeterminate
del bilancio (indicate proprio dal comma 5-bis dell’art. 113 del D.Lgs. n.
50/2016) diverse dalle risorse ordinariamente rivolte all’erogazione di
compensi accessori al personale.
Conclusivamente, sulla questione di massima all’esame, la Sezione delle
Autonomie della Corte dei conti ha pronunciato il seguente principio di
diritto al quale questa Sezione si conforma: “Gli incentivi disciplinati
dall’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 nel testo modificato dall’art. 1,
comma 526, della legge n. 205 del 2017, erogati su risorse finanziarie
individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli sui quali gravano gli
oneri per i singoli lavori, servizi e forniture, non sono soggetti al
vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti
degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017”
(Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia,
parere
16.05.2018 n. 74). |
INCENTIVO
FUNZIONI TECNICHE: Gli
incentivi disciplinati dall’art. 113, comma 2, del D.Lgs. n. 50 del 2016, in
virtù delle modifiche introdotte dall’art. 1, comma 526, della legge n. 205
del 2017, non sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento
economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma
2, del D.Lgs. n. 75 del 2017.
---------------
Con nota acquisita al protocollo interno della Sezione al n. 759 in data
01.03.2018, il Sindaco del Comune di Montecatini Terme (PT) ha
inoltrato, per il tramite del Consiglio delle Autonomie Locali, richiesta di
parere ex art. 7, comma 8, della l. n. 131/2003, avente ad oggetto gli oneri
derivanti dall’erogazione degli incentivi per funzioni tecniche.
In particolare, l’Ente, dato conto della novella legislativa recata
dall’art. 1, co. 526, della L. n. 205/2017 (legge di bilancio 2018) –che ha
introdotto nell’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016 il comma 5-bis, a mente del
quale “Gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo
capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”– e
richiamata la giurisprudenza delle Sezioni riunite in sede giurisdizionale e
della Sezione delle autonomie della Corte dei conti relativamente alla
qualificazione degli incentivi per funzioni tecniche quali spese di
funzionamento (spese di personale), ha formulato i seguenti quesiti:
“1) In virtù del comma 5-bis dell'art. 113 del D.Lgs. 50/2016
tutti gli incentivi per le funzioni tecniche di cui al comma 2 del precitato
art. 113 sono da escludersi dal tetto di spesa del fondo per il trattamento
economico accessorio?
2) Se, in caso di risposta negativa, siano da escludersi dal
tetto gli incentivi relativi alle spese d'investimento e come tali
finanziati sul titolo II ovvero gli incentivi volti a remunerare prestazioni
professionali tipiche la cui provvista all'esterno potrebbe comportare
aggravi di spesa a carico dei bilanci delle amministrazioni pubbliche
(direttore dei lavori, collaudi, etc.)?
3) Se gli incentivi per funzioni tecniche spettino anche agli
appalti di forniture e servizi la cui provvista avvenga in virtù di adesioni
a Convenzioni Consip o simili?
4) Vista altresì la deliberazione della Corte dei Conti Lombardia
n. 305/2017 successiva al pronunciamento di Codesta illustrissima Corte
(177/2017) con cui la stessa Corte della Lombardia così si pronuncia in
merito alla retroattività del regolamento ex art. 113 del Codice: "Ne deriva
che non può aversi ripartizione del fondo tra gli aventi diritto se non dopo
l'adozione del prescritto regolamento. Il che tuttavia non impedisce che
quest'ultimo possa disporre anche la ripartizione degli incentivi per
funzioni tecniche espletate dopo l'entrata in vigore dei nuovo codice dei
contratti pubblici e prima dell'adozione del regolamento stesso, utilizzando
le somme già accantonate allo scopo nel quadro economico riguardante la
singola opera (Sezione regionale di controllo per la Lombardia,
deliberazione n. 185/2017/PAR; Sezione regionale di controllo per il Veneto,
deliberazione n. 353/2016/PAR)." si chiede se codesta illustrissima Corte
ritenga di concordare con tale posizione e se, in caso affermativo sia
possibile liquidare gli incentivi (a seguito dell'adozione del relativo
regolamento) anche qualora le somme non siano state previste nei quadri
economici riguardanti i singoli appalti”.
Nell’adunanza del 27.03.2018, questo Collegio rilevava come la Sezione
regionale di controllo per la Puglia (con
deliberazione 09.02.2018 n. 9) e la Sezione regionale di
controllo per la Lombardia (con
deliberazione 16.02.2018 n. 40)
avessero sollevato –ai sensi degli artt. 17, co. 31, del D.L. n. 78/2009 e
6, co. 4, del D.L. n. 174/2012– apposita questione di massima in ordine alla
natura giuridica degli incentivi ex art. 113 del D.Lgs. 50/2016, ai fini
della loro eventuale esclusione dalla spesa del personale e del trattamento
accessorio, alla luce della novella legislativa recata dall’art. 1, co. 526,
della L. n. 205/2017, che, come ricordato, ha introdotto il nuovo comma
5-bis all’art. 113 citato.
Pertanto, con
parere 27.03.2018 n. 19, la Sezione, dopo aver reso il parere con
riferimento al terzo e quarto quesito, rinviava la decisione
relativamente alle prime due domande all’esito delle determinazioni che
sarebbero state assunte in merito, in via nomofilattica, dalla Sezione delle
autonomie.
A seguito del deposito della
deliberazione 26.04.2018 n. 6
della Sezione delle autonomie, con la quale è stata risolta la questione di
massima in parola, è stata fissata l’udienza di camera di consiglio per la
risoluzione delle questioni rimanenti.
...
2. Nel merito, con il primo quesito il Comune chiede se, considerata
la modifica legislativa intervenuta, sia possibile escludere tutti gli
incentivi ex art. 113 citato dal tetto di spesa del fondo per il trattamento
economico accessorio.
Con il secondo quesito il Comune chiede, invece, se -in caso di
risposta negativa alla questione di cui al punto che precede– “… siano da
escludersi dal tetto gli incentivi relativi alle spese d'investimento e come
tali finanziati sul titolo II ovvero gli incentivi volti a remunerare
prestazioni professionali tipiche la cui provvista all'esterno potrebbe
comportare aggravi di spesa a carico dei bilanci delle amministrazioni
pubbliche (direttore dei lavori, collaudi, etc.)”.
3. La Sezione delle autonomie, con la richiamata
deliberazione 26.04.2018 n. 6,
ha risolto la questione di massima sottoposta dalle Sezioni pugliese e
lombarda, affermando che “Gli incentivi disciplinati dall’art. 113 del
D.Lgs. n. 50 del 2016 nel testo modificato dall’art. 1, comma 526, della
legge n. 205 del 2017, erogati su risorse finanziarie individuate ex lege
facenti capo agli stessi capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli
lavori, servizi e forniture, non sono soggetti al vincolo posto al
complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti
pubblici dall’art. 23, comma 2, del D.Lgs. n. 75 del 2017”.
4. Il percorso motivazionale seguito dalla Sezione delle autonomie, premessa
l’esposizione del quadro normativo di riferimento, muove dalla disciplina
innovativamente introdotta dal legislatore con il comma 5-bis dell’art. 113
del codice degli appalti.
In proposito, asseriva che: “Anche se l’allocazione contabile degli
incentivi di natura tecnica nell’ambito del ‘medesimo capitolo di spesa’
previsto dai singoli lavori, servizi o forniture potrebbe non mutarne la
natura di spesa corrente –trattandosi, in senso oggettivo, di emolumenti di
tipo accessorio spettanti al personale– la contabilizzazione prescritta ora
dal legislatore sembra consentire di desumere l’esclusione di tali risorse
dalla spesa di personale e dalla spesa per il trattamento accessorio (…) sul
piano logico, l’ultimo intervento normativo, pur mancando delle
caratteristiche proprie delle norme di interpretazione autentica (tra cui la
retroattività), non può che trovare la propria ratio nell’intento di
dirimere definitivamente la questione della sottoposizione ai limiti
relativi alla spesa di personale delle erogazioni a titolo di incentivi
tecnici proprio in quanto vengono prescritte allocazioni contabili che
possono apparire non compatibili con la natura delle spese da sostenere.
La ratio legis è quella di stabilire una diretta corrispondenza tra
incentivo ed attività compensate in termini di prestazioni sinallagmatiche,
nell’ambito dello svolgimento di attività tecniche e amministrative
analiticamente indicate e rivolte alla realizzazione di specifiche
procedure. L’avere correlato normativamente la provvista delle risorse ad
ogni singola opera con riferimento all’importo a base di gara commisurato al
costo preventivato dell’opera, àncora la contabilizzazione di tali risorse
ad un modello predeterminato per la loro allocazione e determinazione, al di
fuori dei capitoli destinati a spesa di personale.
Sulla questione è anche rilevante considerare che la norma contiene un
sistema di vincoli compiuto per l’erogazione degli incentivi che, infatti,
sono soggetti a due limiti finanziari che ne impediscono l’incontrollata
espansione: uno di carattere generale (il tetto massimo al 2% dell’importo
posto a base di gara) e l’altro di carattere individuale (il tetto annuo al
50% del trattamento economico complessivo per gli incentivi spettante al
singolo dipendente).
Oltre alla esplicita afferenza della spesa per gli incentivi tecnici al
medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e
forniture è da rilevare che tali compensi non sono rivolti
indiscriminatamente al personale dell’ente, ma mirati a coloro che svolgono
particolari funzioni (“tecniche”) nell’ambito di specifici procedimenti e ai
loro collaboratori (in senso conforme: SRC Lombardia
parere 16.11.2016 n. 333).
Si tratta, quindi, di una platea ben circoscritta di possibili destinatari,
accomunati dall’essere incaricati dello svolgimento di funzioni rilevanti
nell’ambito di attività espressamente e tassativamente previste dalla legge
(in senso conforme: SRC Puglia
parere 24.01.2017 n. 5 e
parere 21.09.2017 n. 108).
Va rilevato, inoltre, che per l’erogazione degli incentivi l’ente deve
munirsi di un apposito regolamento, essendo questa la condizione essenziale
ai fini del legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse
accantonate sul fondo (in termini: SRC Veneto
parere 07.09.2016 n. 353) e la sede idonea per circoscrivere
dettagliatamene le condizioni alle quali gli incentivi possono essere
erogate. Il comma 3 dell’art. 113 citato, infatti, fa obbligo
all'amministrazione aggiudicatrice, di stabilire “i criteri e le modalità
per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o
lavoro” nel caso di “eventuali incrementi dei tempi o dei costi”. Una
condizione, dunque, che collega necessariamente l’erogazione dell’incentivo
al completamento dell’opera o all’esecuzione della fornitura o del servizio
oggetto dell’appalto in conformità ai costi ed ai tempi prestabiliti”.
5. Tutto ciò premesso ed alla luce del principio espresso dalla Sezione
delle autonomie con la riportata deliberazione, avente valenza vincolante
per le Sezioni regionali della Corte, può affermarsi che gli incentivi
disciplinati dall’art. 113, comma 2, del D.Lgs. n. 50 del 2016, in virtù
delle modifiche introdotte dall’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del
2017, non sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento
economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma
2, del D.Lgs. n. 75 del 2017.
Ciò, fermi naturalmente restando i vincoli oggettivi, soggettivi e
procedurali stabiliti dalla normativa e richiamati nella citata
deliberazione 26.04.2018 n. 6
della Sezione delle autonomie.
6. Il secondo quesito posto dal Comune, in quanto subordinato alla
eventuale risposta negativa al primo, risulta dunque assorbito
(Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana,
parere
09.05.2018 n. 30). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Poteri dell’Amministrazione su c.i.l.a. presentata per
lavori di manutenzione straordinaria.
---------------
Edilizia - C.i.l.a. – Valutazione di ammissibilità -
Esclusione - Limite.
La c.i.l.a. relativa a lavori di
manutenzione straordinaria, inoltrata dal privato alla
Pubblica amministrazione, non può essere oggetto di una
valutazione in termini di ammissibilità o meno
dell’intervento da parte dell’amministrazione comunale ma,
al contempo, a quest’ultima non è precluso il potere di
controllare la conformità dell’immobile oggetto di c.i.l.a.
alle prescrizioni vigenti in materia (1).
---------------
(1)
Ha ricordato il Tar che la c.i.l.a. è ritenuta atto avente
natura privatistica, come tale non suscettibile di autonoma
impugnazione innanzi al g.a. (Tar
Catania, sez. I, 16.07.2018, n. 1497).
Operando un raffronto con la s.c.i.a., il
Consiglio di Stato, nel parere reso il 04.08.2016, n. 1784,
rileva come “l’attività assoggettata a c.i.l.a. non solo
è libera, come nei casi di s.c.i.a., ma, a differenza di
quest’ultima, non è sottoposta a un controllo sistematico,
da espletare sulla base di procedimenti formali e di
tempistiche perentorie, ma deve essere soltanto conosciuta
dall’amministrazione, affinché essa possa verificare che,
effettivamente, le opere progettate importino un impatto
modesto sul territorio”, conseguendo a ciò che “ci si
trova… di fronte a un confronto tra un potere meramente
sanzionatorio (in caso di c.i.l.a.) con un potere
repressivo, inibitorio e conformativo, nonché di autotutela
(con la s.c.i.a.)”.
Sotto altro profilo, peraltro, giova osservare come la p.a.
in materia edilizia mantenga fermo, sulla scorta del regime
giuridico di cui all’art. 27, d.P.R. n. 380 del 2001, un
potere di vigilanza contro gli abusi, implicitamente
contemplato dallo stesso art. 6-bis, d.P.R. n. 380 del 2001
Ne deriva che il diniego della c.i.l.a. è nullo ai sensi
dell’art. 21-septies, l. n. 241 del 1990, poiché espressivo
di un potere non tipizzato nell’art. 6-bis, d.P.R. n. 380
del 2001, salva e impregiudicata l’attività di vigilanza
contro gli abusi e l’esercizio della correlata potestà
repressiva dell’Ente territoriale
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 29.11.2018 n. 2052 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
6. Il ricorso sottoposto al vaglio del Collegio è
articolato su un duplice petitum, il primo dei quali
ha ad oggetto la richiesta di annullamento o nullità del
diniego di c.i.l.a., mentre il secondo è finalizzato a
conseguire una pronuncia di accertamento.
7. Ciò chiarito, è fondata la domanda con cui la ricorrente
denuncia la nullità dell’avversato rigetto, in quanto
espressione di un potere non tipizzato nell’art. 6-bis
D.P.R. n. 380/2001.
Occorre premettere che la c.i.l.a. è stata introdotta
dall'art. 3, comma 1, lett. c), D.Lgs. n. 222/2016. Sulla
novella si sono appuntante le riflessioni del Consiglio di
Stato nel parere reso il 04.08.2016, n. 1784, in cui essa è
qualificata come “un istituto intermedio tra l’attività
edilizia libera e la s.c.i.a.”, ascrivibile, al pari del
secondo, nel genus della liberalizzazione delle
attività private.
In particolare, la c.i.l.a. ha carattere residuale, poiché
applicabile agli interventi non riconducibili tra quelli
elencati agli artt. 6, 10 e 22 D.P.R. n. 380/2001 e
riguardanti, rispettivamente, l’edilizia libera, le opere
subordinate a permesso di costruire e le iniziative edilizie
sottoposte a s.c.i.a.
In base, poi, alle prime pronunce giurisprudenziali,
la c.i.l.a. è ritenuta atto avente natura privatistica, come
tale non suscettibile di autonoma impugnazione innanzi al
g.a. (TAR Catania, Sez. I, 16.07.2018, n. 1497).
Operando un raffronto con la s.c.i.a., il Consiglio di
Stato, nel menzionato parere, rileva inoltre come
“l’attività assoggettata a c.i.l.a. non solo è libera, come
nei casi di s.c.i.a., ma, a differenza di quest’ultima, non
è sottoposta a un controllo sistematico, da espletare sulla
base di procedimenti formali e di tempistiche perentorie, ma
deve essere soltanto conosciuta dall’amministrazione,
affinché essa possa verificare che, effettivamente, le opere
progettate importino un impatto modesto sul territorio”,
conseguendo a ciò che “ci si trova… di fronte a un confronto
tra un potere meramente sanzionatorio (in caso di c.i.l.a.)
con un potere repressivo, inibitorio e conformativo, nonché
di autotutela (con la s.c.i.a.)”.
Sotto altro profilo, peraltro, giova osservare come la p.a.
in materia edilizia mantenga fermo, sulla scorta del regime
giuridico di cui all’art. 27, D.P.R. n. 380/2001, un potere
di vigilanza contro gli abusi, implicitamente contemplato
dallo stesso art. 6-bis, D.P.R. n. 380/2001 (Consiglio di
Stato, Commissione speciale, cit.).
In ragione di quanto evidenziato, quindi, la c.i.l.a.
inoltrata dal privato alla p.a. non può essere oggetto di
una valutazione in termini di ammissibilità o meno
dell’intervento da parte dell’amministrazione comunale ma,
al contempo, a quest’ultima non è precluso il potere di
controllare la conformità dell’immobile oggetto di c.i.l.a.
alle prescrizioni vigenti in materia.
Ne deriva che l’avversato provvedimento di diniego della c.i.l.a., adottato dalla resistente amministrazione, è nullo
ai sensi dell’art. 21-septies, L. n. 241/1990, poiché
espressivo di un potere non tipizzato nell’art. 6-bis D.P.R.
n. 380/2001, salva e impregiudicata l’attività di vigilanza
contro gli abusi e l’esercizio della correlata potestà
repressiva dell’Ente territoriale.
Sul punto, occorre inoltre osservare come il Collegio sia
consapevole che, ad avviso di altro orientamento
giurisprudenziale, eventuali provvedimenti “… dell’ente in
ordine alla ammissibilità degli interventi comunicati con CILA non hanno… carattere provvedimentale ma meramente
informativo, non rispondendo gli stessi ad un potere
legislativamente tipizzato” (TAR Toscana, Sez. III, n. 20.09.2016, n. 1625). La qualificazione del diniego di c.i.l.a. in termini di atto meramente informativo
postulerebbe quale conseguenza la declaratoria di
inammissibilità del ricorso per assenza di lesività
dell’atto impugnato, soluzione che, ad avviso dell’adìto
T.a.r., non è condivisibile.
Invero, il diniego di c.i.l.a. -sebbene provvedimento nullo
secondo quanto chiarito- incide comunque nella dinamica del
rapporto giuridico amministrativo tra privato e p.a.
Pertanto, la declaratoria di nullità dello stesso impedisce
-diversamente dalla qualificazione dell’atto quale mera
informazione e conseguente inammissibilità del gravame- che
il descritto rapporto giuridico amministrativo possa
mantenere una zona grigia di ambiguità tra privato e p.a..
7. Va di contro rigettata la domanda tesa a conseguire nella
fattispecie una pronuncia di accertamento della regolarità
del fabbricato e delle conseguenti facoltà esercitabili
dalla ricorrente, involgendo la verifica della regolarità
dell’immobile valutazioni di esclusiva spettanza
dell’amministrazione comunale, rispetto alle quali una
sentenza di accertamento implicherebbe uno sconfinamento
della potestà giurisdizionale nella sfera riservata alla p.a.,
al di fuori delle tassative ipotesi di giurisdizione di
merito previste dall’art. 134 c.p.a.. |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Secondo un principio consolidato “il
contributo di concessione va determinato con
riferimento alla disciplina, legislativa e
regolamentare, vigente al momento del
rilascio del titolo edilizio, che segna il
perfezionamento della fattispecie concessoria (o autorizzatoria, a seconda
della tipologia di titolo edilizio)”.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale cui
il Collegio aderisce, la misura del
contributo di costruzione può essere
successivamente rideterminata nel caso di
errore di calcolo rispetto al contributo
dovuto in base alla situazione di fatto e
alla disciplina vigente al tempo del
rilascio del titolo.
---------------
Tali considerazioni devono reputarsi
estensibili anche alla c.d. monetizzazione
di standard, in quanto –nonostante la
diversa natura di tale pretesa rispetto a
quella concernente il contributo di
costruzione–
deve ritenersi
che, anche in relazione a tale diritto di
credito, la fonte dell’obbligazione sia
comunque costitutiva dal provvedimento
assentivo dell’intervento, sia esso un atto
espresso del Comune o un atto privato
rispetto al quale l’Amministrazione non
esercita alcun potere inibitorio.
---------------
Nel caso in cui l’intervento sia
legittimato da una denuncia di inizio
attività, il termine per la rideterminazione
degli importi dovuti decorre dalla
presentazione della denuncia, poiché dal
relativo contenuto sono desumibili tutti i
profili dell’intervento rilevanti per la
quantificazione di tali importi.
Alla
medesima data dovrà, inoltre, farsi
riferimento anche per l’individuazione della
disciplina applicabile ai fini della
determinazione delle somme, atteso che “la
d.i.a. non costituisce un provvedimento
amministrativo a formazione tacita, ma un
atto privato, volto a comunicare
l'intenzione di intraprendere un'attività
direttamente ammessa dalla legge, che si
perfeziona con la sua presentazione, per cui
allo stesso non può che applicarsi la
disciplina legislativa vigente al momento
della sua presentazione alla pubblica
amministrazione”.
---------------
La quantificazione degli standard e la
misura del contributo di costruzione devono,
quindi, determinarsi in ragione della
normativa vigente all’epoca della formazione
dell’effettivo titolo che costituisce la
fonte o il presupposto di tale obbligazione.
---------------
2.1. Il ricorso è parzialmente fondato ai
sensi e nei limiti di seguito indicati.
2.2. Gli interventi edilizi realizzati dalla
società ricorrente e ai quali fa riferimento
il provvedimento comunale di determinazione
degli stardard urbanistici e del contributo
di costruzione hanno fondamento giuridico in
una pluralità di titoli, in precedenza
indicati.
Secondo un principio consolidato “il
contributo di concessione va determinato con
riferimento alla disciplina, legislativa e
regolamentare, vigente al momento del
rilascio del titolo edilizio, che segna il
perfezionamento della fattispecie concessoria (o autorizzatoria, a seconda
della tipologia di titolo edilizio)”
(Consiglio di Stato, sez. VI, 07.05.2015,
n. 2294; nello stesso senso, ex plurimis:
Id., Sez. IV, 07.06.2012, n. 3379; Id.,
Sez. IV, 25.06.2010, n. 4109; Id, Sez.
V, 13.06.2003, n. 3332).
Secondo l’orientamento giurisprudenziale cui
il Collegio aderisce, la misura del
contributo di costruzione può essere
successivamente rideterminata nel caso di
errore di calcolo rispetto al contributo
dovuto in base alla situazione di fatto e
alla disciplina vigente al tempo del
rilascio del titolo (cfr. Consiglio di
Stato, Sez. IV, 12.06.2017, n. 2821).
Tali considerazioni devono reputarsi
estensibili anche alla c.d. monetizzazione
di standard, in quanto –nonostante la
diversa natura di tale pretesa rispetto a
quella concernente il contributo di
costruzione (Cons. Stato, Sez. IV, 28.12.2012, nn. 6706, 6707 e 6708; Id.,
16.02.2011, n. 1013; TAR Lombardia,
Milano, Sez. II, 26.07.2016, n. 1507; Id.,
19.07.2016, n. 1447: Id., 01.08.2013, n. 2056; Id., 14.02.2013, n.
451; TAR Campania, Salerno, Sez. I, 15.09.2014, n. 1558)– deve ritenersi
che, anche in relazione a tale diritto di
credito, la fonte dell’obbligazione sia
comunque costitutiva dal provvedimento
assentivo dell’intervento, sia esso un atto
espresso del Comune o un atto privato
rispetto al quale l’Amministrazione non
esercita alcun potere inibitorio.
Infatti, nel caso in cui l’intervento sia
legittimato da una denuncia di inizio
attività, il termine per la rideterminazione
degli importi dovuti decorre dalla
presentazione della denuncia, poiché dal
relativo contenuto sono desumibili tutti i
profili dell’intervento rilevanti per la
quantificazione di tali importi.
Alla
medesima data dovrà, inoltre, farsi
riferimento anche per l’individuazione della
disciplina applicabile ai fini della
determinazione delle somme, atteso che “la
d.i.a. non costituisce un provvedimento
amministrativo a formazione tacita, ma un
atto privato, volto a comunicare
l'intenzione di intraprendere un'attività
direttamente ammessa dalla legge, che si
perfeziona con la sua presentazione, per cui
allo stesso non può che applicarsi la
disciplina legislativa vigente al momento
della sua presentazione alla pubblica
amministrazione” (così Consiglio di
Stato, Adunanza Plenaria, 29.07.2011 n. 15;
Consiglio di Stato, sez. IV, 04.09.2012 n.
4669; Id., sez. IV, 07.07.2016, n. 3014; Tar
per la Lombardia–sede di Milano, sez. II,
16.06.2014, n. 1578; TAR per la
Lombardia–sede di Milano, Sez. I,
30.11.2016, n. 2277).
2.3. La quantificazione degli standard e la
misura del contributo di costruzione devono,
quindi, determinarsi in ragione della
normativa vigente all’epoca della formazione
dell’effettivo titolo che costituisce la
fonte o il presupposto di tale obbligazione.
Nel caso di specie, la D.I.A. del 20.10.2010 è relativa alla demolizione di
fabbricato preesistente a destinazione
autorimessa, sito a Milano in via ... 25, e
alla costruzione di nuovo edificio
residenziale, per una s.l.p. di 2123,21 mq.,
e si perfeziona in ragione del mancato
esercizio di poteri inibitori da parte del
Comune.
La D.I.A. è quindi titolo legittimo
dell’intervento in esame, non sostituito dai
successivi interventi che hanno portata più
limitata e che, comunque, non sostituiscono
il primo titolo. Infatti, la successiva
D.I.A. del 2012 costituisce una variante
ordinaria che limita semplicemente la s.l.p.
a 2122,28 mq.
Il successivo intervento (permesso di
costruire n. 154 del 2014) non comporta la
mera sostituzione del patrimonio edilizio
esistente pur generando un aumento della
s.l.p.. L’ultimo intervento è costituito
dalla segnalazione certificata di inizio
attività del 10.04.2014 con la quale si
realizzano semplicemente opere di
completamento della precedente D.I.A.
2.4. La concreta disamina svolta consente,
quindi, di affermare che gli interventi –pur relativi alla medesima complessiva opera
e aventi delle fisiologiche interferenze–
costituiscono lavori legittimati dai
rispettivi titoli e per questo sottoposti
alla normativa vigente all’epoca di
formazione degli stessi (cfr., Consiglio di
Stato, sez. VI, 24.11.2017, n. 5485).
Di conseguenza, la determinazione degli
standard urbanistici e del contributo di
costruzione non può che avere ad oggetto lo
specifico intervento realizzato con
applicazione della normativa ratione
temporis vigente. In particolare, la prima
D.I.A. del 2010 risulta soggetta alle
prescrizioni dettate dal previgente P.R.G.;
al contrario, sono soggette alla specifiche
regole dettate dal sopraggiunto P.G.T. (in
relazione ai singoli interventi assentiti) i
successivi titoli sin qui esaminati
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 31.08.2018 n. 2039 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Conclusione del periodo transitorio di dodici mesi, previsto dall’art. 13
della l.r. 33/2015, durante il quale è consentito il deposito della
documentazione di cui all’art. 6 della medesima L.R. 33/2015 e ss.mm.ii. in
formato sia elettronico che cartaceo, prorogato dal D.d.u.o. 21.05.2018 - n.
7262 (B.U.R.L. Serie Ordinaria n. 21 - 24.05.2018)
(ANCI Lombardia,
circolare 23.11.2018 n. 325/18). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Oggetto:
Piano di Gestione del Rischio di Alluvioni (PGRA) e Piano Stralcio per
l’Assetto idrogeologico del Fiume Po (PAI) – Approvazione disposizioni
regionali concernenti le verifiche del rischio idraulico degli impianti
esistenti di trattamento delle acque reflue, di gestione dei rifiuti, di
approvvigionamento idropotabile e di lavorazione inerti ricadenti in aree
interessate da alluvioni (Regione Lombardia,
nota 11.07.2018 n. 17023 di prot.). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 48 del 30.11.2018, "Aggiornamento
della modulistica approvata dalla d.g.r. 30.03.2016 - n. X/5001
«Approvazione delle linee di indirizzo e coordinamento per l’esercizio delle
funzioni trasferite ai comuni in materia sismica (artt. 3, comma 1, e 13,
comma 1, della l.r. 33/2015)»" (decreto
D.U.O. 28.11.2018 n. 17589).
---------------
●
Moduli 1 e 2 - Istanza di autorizzazione sismica e
Comunicazione di deposito sismico/istanza di certificazione alla
sopraelevazione
●
Modulo 3 - Denuncia di costruzione in corso in zona di nuova
classificazione sismica
●
Modulo 4 - Dichiarazione del progettista
(coordinatore) delle strutture ai sensi dell’art. 12, comma 5, della l.r. n.
33 del 2015 e s.m.i.
●
Modulo 5 - Procura speciale autografa per
l’effettuazione in forma telematica delle procedure di cui alla l.r. n. 33
del 2015
●
Modulo 6 - Asseverazione di congruità e conformità del
progetto strutturale
●
Modulo 7 - Asseverazione di congruità e conformità del
progetto architettonico
●
Modulo 8 - Dichiarazione del progettista per interventi di
sopraelevazione
●
Modulo 9 - Dichiarazione/asseverazione del geologo di
congruità dei contenuti della relazione geologica ai requisiti richiesti dal
paragrafo 6.2.1 N.T.C. 2018 e/o dalla d.g.r. n. 2616 del 2011
●
Modulo 10 - Dichiarazione/asseverazione dell’estensore
della relazione geotecnica di congruità dei contenuti della relazione
geotecnica ai requisiti richiesti dal paragrafo 6.2.2 N.T.C. 2018
●
Modulo 11 - Dichiarazione del progettista strutturale
relativa agli aspetti geotecnici dell’intervento
●
Modulo 12 - Relazione illustrativa e scheda sintetica
dell’intervento o di parti compiute dello stesso
●
Modulo 13 - Dichiarazione di fine lavori strutturali
ai sensi dell’art. 12, comma 8, lett. b), della l.r. n. 33 del 2015 |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 47 del 22.11.2018, "Approvazione
dello schema di accordo con Anci Lombardia per la realizzazione di un
progetto di sviluppo in materia di governo del territorio" (deliberazione
G.R. 19.11.2018 n. 838). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 47 del 22.11.2018, "Avvio della
gestione informatica delle procedure di valutazione di incidenza attraverso
l’utilizzo del sistema Informativo per la Valutazione di Incidenza [SIVIC]" (deliberazione
G.R. 19.11.2018 n. 836).
---------------
Al riguardo, si veda l'apposito sito web:
www.sivic.servizirl.it |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 47 del 22.11.2018, "Approvazione
delle specifiche tecniche per l’interoperabilità relative alla modulistica
edilizia unificata e standardizzata regionale" (decreto
D.S. 16.11.2018 n. 16757). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 47 del 20.11.2018, "Identificazione
dei comuni dove è vietato, nell’anno campagna 2018-2019, l’impiego per uso
agronomico dei fanghi di depurazione in attuazione dell’articolo 6.2
«Condizioni e modalità di utilizzo dei fanghi», lettera d) dell’allegato 1
della deliberazione della giunta regionale 01.07.2014, n. X/2031" (decreto
D.S. 13.11.2018 n. 16377). |
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
19.11.2018 n. 269 "Testo
del decreto-legge 28.09.2018, n. 109, coordinato con la legge di conversione
16.11.2018, n. 130, recante: «Disposizioni urgenti per la
città di Genova, la sicurezza della rete nazionale delle infrastrutture e
dei trasporti, gli eventi sismici del 2016 e 2017, il lavoro e le altre
emergenze»".
---------------
Di particolare interesse, si leggano:
● Art. 13. Istituzione dell’archivio informatico nazionale delle opere
pubbliche - AINOP
● Art. 25. Definizione delle procedure di condono
● Art. 26. Ricostruzione pubblica
● Art. 27. Soggetti attuatori degli interventi relativi alle opere
pubbliche e ai beni culturali
● Art. 30. Qualificazione degli operatori economici per
l’affidamento dei servizi di architettura e di ingegneria
● Art. 39-ter. Modifiche all’art. 1-sexies del
decreto-legge 29.05.2018, n. 55, convertito, con modificazioni, dalla legge
24.07.2018, n. 89, recante ulteriori misure urgenti a favore delle
popolazioni dei territori delle Regioni Abruzzo, Lazio, Marche ed Umbria,
interessati dagli eventi sismici verificatisi a far data dal 24.08.2016. |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 47 del 19.11.2018, "Aggiornamento e
sostituzione della modulistica edilizia unificata e standardizzata approvata
con deliberazione n. 6894 del 17.07.2017, in attuazione di norme di settore
comunitarie, nazionali e regionali" (deliberazione
G.R. 12.11.2018 n. 784). |
PUBBLICO IMPIEGO:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 45 del 09.11.2018, "Approvazione dei
modelli di tessera di riconoscimento e di fascia distintiva di cui devono
essere muniti gli agenti abilitati all’esercizio delle funzioni di
accertamento delle violazioni di natura amministrativa (l.r. 6/2015, art.
14)" (deliberazione
G.R. 05.11.2018 n. 745). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 45 del 09.11.2018, "Assegnazione dei
contributi per l’esercizio delle funzioni trasferite ai comuni, singoli o
associati, in materia di opere o di costruzioni e relativa vigilanza in zone
sismiche (l.r. 33/2015, art. 2, c. 1) – definizione dei criteri e delle
modalità per la liquidazione dei contributi e assunzione degli impegni di
spesa per un importo pari ad € 135.511,08" (decreto
D.U.O. 31.10.2018 n. 15781). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 45 del 07.11.2018, "Criteri e
modalità per la rotazione del personale titolare di posizione organizzativa" (decreto
D.G. 05.11.2018 n. 15903). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 45 del 07.11.2018, "Individuazione
dei divieti temporali di utilizzazione agronomica nella stagione autunno
vernina 2018/2019 in applicazione del d.m. 25.02.2016" (decreto
D.G. 31.10.2018 n. 15728). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 44 del 31.10.2018, "Contributi per
l’esercizio delle funzioni trasferite ai comuni, singoli o associati, in
materia di opere o di costruzioni e relativa vigilanza in zone sismiche (l.r.
33/2015, art. 2, c. 1)" (deliberazione
G.R. 24.10.2018 n. 699). |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 44 del 31.10.2018, "Aggiornamento
della d.g.r. 18.12.2017 n. X/7581 in merito ai canoni regionali di
concessione di polizia idraulica per l’anno 2019 in applicazione dell’art. 6
della l.r. 29.06.2009 n. 10 (Allegato F) e alle linee guida di polizia
idraulica (Allegato E)"
(deliberazione
G.R. 24.10.2018 n. 698). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 44 del 31.10.2018, "Recepimento
dell’intesa tra il governo, le regioni e le autonomie locali, concernente
l’adozione del regolamento edilizio-tipo di cui all’articolo 4, comma
1-sexies, del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380"
(deliberazione
G.R. 24.10.2018 n. 695). |
APPALTI: G.U.
26.10.2018 n. 250 "Disposizioni per la revisione della disciplina del
casellario giudiziale, in attuazione della delega di cui all’articolo 1,
commi 18 e 19, della legge 23.06.2017, n. 103" (D.Lgs.
02.10.2018 n. 122). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
URBANISTICA:
L. Spallino,
Piani attuativi: gli oneri di urbanizzazione secondaria sono dovuti
indipendentemente dall'edificazione
(02.12.2018 - link a www.dirittopa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: D.
Ponte,
Il vincolo paesistico in fronte al mare
(29.11.2018 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
N. Durante,
L’interdittiva antimafia, tra tutela
anticipatoria ed eterogenesi dei fini
(26.11.2018 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: R.
Ruoppo,
La dubbia legittimità dell’usucapione
pubblica alla luce della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo (21.11.2018
- tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Considerazioni introduttive. 2. Lo standard di tutela
convenzionale dello statuto proprietario. 3. Le occupazioni della p.a.: una
storia di illegittimità convenzionale. 4. L’usucapione pubblica, cenni
introduttivi. 4.1. Profili di incompatibilità domestica. 4.2. Profili di
incompatibilità convenzionale. 5. Conclusioni. |
INCARICHI PROFESSIONALI: A.
Russo,
Dalla straordinarietà all’ordinarietà
dell’affidamento diretto del patrocinio legale: brevi note a margine del
parere del Consiglio di Stato e delle linee guida Anac sugli affidamenti dei
servizi legali
(21.11.2018 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Il servizio legale tra contratto d’opera
intellettuale ed appalto di servizi. 2. Diversi servizi legali per diversi
inquadramenti giuridici: l’art. 17 e l’Allegato IX al Codice dei contratti
sotto la lente del Consiglio di Stato. 3. L’affidamento diretto come
procedura ordinaria per la soddisfazione del singolo bisogno di difesa: le
linee guida Anac n. 12/2018. 4. Conclusioni. |
EDILIZIA
PRIVATA: F.
Donegani,
Strade private ad uso pubblico
(07.11.2018 - link a www.dirittopa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L.
Spallino,
L'edilizia di culto secondo il TAR Lombardia
(17.10.2018 - link a www.dirittopa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: A.
Galbiati,
Autorizzazioni paesaggistiche: termini per il rilascio
(11.10.2018 - link a www.dirittopa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Il
decreto Genova e il condono edilizio per Ischia
(01.10.2018 - link a www.dirittopa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L.
Spallino,
Edifici di culto: l’uso di un bene come luogo di preghiera è illegittimo in
assenza di permesso di costruire
(04.09.2018 - link a www.dirittopa.it). |
APPALTI: L.
Spallino,
ANAC: poteri di precontenzioso e impugnazione
(20.07.2018 - link a www.dirittopa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: A.
Galbiati,
Regione Lombardia: "Misure di semplificazione e incentivazione per il
recupero del patrimonio edilizio"
(09.07.2018 - link a www.dirittopa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: F.
Donegani,
Impianti pubblicitari: il sacrificio della libertà economica è giustificato
dalla cura di interessi pubblici
(29.06.2018 - link a www.dirittopa.it). |
QUESITI & PARERI |
INCENTIVO
FUNZIONI TECNICHE:
Incentivi funzioni tecniche e limiti salario accessorio.
Domanda
Nel fondo delle risorse decentrate 2016 di questo ente sono state inserite,
tra le risorse soggette al limite dell’art. 23, comma 2, del D.Lgs. n.
75/2017, quote per incentivi funzioni tecniche, ex art. 113 del D.Lgs. n.
50/2016, per € 28.000,00.
All’epoca, infatti, la magistratura contabile orientava i propri pareri in
tal senso. Ora che l’interpretazione è cambiata ci si chiede se, ai fini del
rispetto del limite del predetto art. 23, la somma di € 28.000,00 sia da
escludere dall’ammontare complessivo del 2016, senza rideterminare il fondo
2016, ma dandone atto nella determinazione di costituzione del fondo 2018.
Risposta
In riferimento al quesito esposto si rappresenta quanto segue.
Negli anni 2016 e 2017 le risorse relative agli incentivi per funzioni
tecniche, di cui all’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016 dovevano essere indicate
tra le risorse assoggettate a vincolo di contenimento del trattamento
accessorio del personale dipendente. Tale allocazione appare corretta, anche
alla luce dei pronunciamenti della Corte dei Conti depositati nell’anno
2017.
Infatti la Sezione Autonomie della Corte dei Conti con la
deliberazione 10.10.2017 n. 24,
aveva confermato quanto la stessa aveva chiarito con la precedente
deliberazione 06.04.2017 n. 7,
che «gli incentivi per funzioni tecniche, di cui all’art. 113, comma 2,
del d.lgs. 50/2016, costituiscono spese correnti, devono essere finanziati
dal bilancio dell’ente e, pertanto, rientrano nel tetto di spesa per il
salario accessorio dei dipendenti pubblici».
Solo nel corrente anno, con la
deliberazione 26.04.2018 n. 6, la Sezione Autonomie della Corte
dei Conti ha enunciato il seguente principio di diritto: «Gli incentivi
disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 nel testo modificato
dall’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017, erogati su risorse
finanziarie individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli sui quali
gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e forniture, non sono
soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio
dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75
del 2017».
Tale posizione è stata inoltre recepita dalla contrattazione nazionale; le
parti, con, con la dichiarazione congiunta n. 9, allegata al nuovo CCNL del
comparto Funzioni locali 2016/2018, sottoscritto in data 21/05/2018, hanno
preso atto positivamente della pronuncia sopra richiamata, e con cui si
chiarisce che gli incentivi per funzioni tecniche sono da considerarsi non
soggetti ai limiti dell’art. 23, comma 2, del D.Lgs. n. 75/2017.
Tale orientamento ha validità a decorrere dall’anno 2018, pertanto, le somme
inserite sul fondo dell’anno 2016, devono essere correttamente assoggettate
al tetto di spesa di cui all’art. 1, comma 236, della legge 208/2015.
Solo dall’anno 2018, gli incentivi per funzioni tecniche d.lgs. 50/2016,
potranno essere inseriti tra le risorse variabili del fondo ai sensi
dell’art. art. 67, comma 3, lettera c), non assoggettate al limite di spesa
di cui all’art. 23, comma 2 del D.Lgs. 75/2017 (29.11.2018 - tratto
da e link a www.publika.it). |
APPALTI:
Rispetto principio rotazione.
Domanda
Il nostro ente deve procedere con l’aggiudicazione del servizio di
assistenza macchine d’ufficio e supporto tecnico. Il pregresso appalto, in
prossimità di scadenza, triennale, è stato aggiudicato con una procedura
aperta (una gara “vera e propria”) che ha visto aggiudicarsi la ditta
X.
Il RUP, anche per una particolare situazione di carenza di organico venutasi
a creare ed altre difficoltà determinate dalla necessità di procedere con
una serie di adempimenti, suggerisce ora –in luogo della gara “vera e
propria”– l’espletamento di una procedura semplificata (biennale) ai
sensi dell’articolo 36, comma 2, lett. b), del codice dei contratti. Nella
procedura ad inviti, il responsabile unico ritiene che non possa essere
invitato anche il pregresso affidatario per la necessità di rispettare il
principio di rotazione.
Questa impostazione deve ritenersi corretta considerato che il pregresso
affidatario in realtà si è aggiudicato una gara pubblica ed “escluderlo”
per effetto della rotazione sembrerebbe una penalizzazione che neppure le
linee guida ANAC n. 4 sembrano ammettere. E’ possibile avere un riscontro
sulla correttezza dell’ impostazione del RUP?
Risposta
La questione dell’applicazione pratica della rotazione tra imprese,
oggettivamente, nel nostro paese sta determinando un conflitto intenso a
cui, anche i giudici, spesso non forniscono orientamenti totalmente
convincenti.
Ulteriore questione, poi, è che all’interno della stazione appaltante il
criterio della rotazione viene applicato in modo differente dai vari
responsabili di servizio e RUP, con approcci spesso opposti.
Da qui, l’inevitabile constatazione che l’approccio a tale criterio debba
avere un momento di “sintesi” di tipo generale all’interno dell’ente
magari con una delibera giuntale (se si tratta di comuni) o un indirizzo
generale avvallato dal responsabile anticorruzione magari adottato in
conferenza di servizi tra responsabili.
Fatta questa premessa, occorre focalizzarsi sulla esigenza sottesa alla
rotazione. L’esigenza della rotazione si impone per evitare che chi sia
stato parte di un contratto possa utilizzare quel “bagaglio” di
conoscenze/esperienze” determinate dalla “contiguità” con la stazione
appaltante nella fase di esecuzione.
Essere parte di un contratto, secondo la giurisprudenza e l’ANAC (con le
linee guida n. 4), può generare rapporti particolari tra appaltatore e
stazione appaltante (RUP e responsabile del servizio) che possono essere
strumentalizzati per ottenere proroghe, rinnovi contrattuali ed altre
opzioni non dovute (per legge) ed allo stesso modo possono “condizionare”
la libera autonomia della stazione appaltante nel momento in cui questa si
dispone a predisporre gli atti di gara.
Ad esempio, astraendo dal caso posto con la domanda, tale posizione di “vantaggio”
(determinata dalle conoscenze acquisite in fase di esecuzione del contratto)
potrebbero indurre, a fine contratto, il RUP a scegliere invece che una
nuova procedura di gara (assolutamente asettica e libera) l’opzione del
procedimento ad inviti (proprio per invitare, pur con adeguata motivazione,
il pregresso affidatario).
Nelle linee guida n. 4, l’ANAC associa l’esigenza di rispettare il criterio
della rotazione a successione di appalti con “stessa” commessa (o
commessa riconducibile allo stesso settore o allo stesso genere di servizi
e, secondo la giurisprudenza, anche servizi “analoghi”).
La rotazione, evidentemente, non si pone nel caso in cui il RUP opti per una
procedura aperta. E’ chiaro che non è possibile porre alcun limite alla
partecipazione.
Più delicata è la questione della successione tra procedura aperta e
procedura semplificata ad inviti.
In questo senso, nella relazione tecnica che accompagna le linee guida, l’ANAC
puntualizza che –nonostante posizioni anche dottrinali diverse– “si
ritiene più coerente con l’essenza del principio (di rotazione) ammetterne
l’applicabilità anche a fronte di selezioni (a monte) rispettose
dell’evidenza pubblica. D’altra parte, come ha di recente osservato il
Consiglio di Stato (si veda la sentenza del Consiglio di Stato n. 4142 del
31.08.2017), il rischio di consolidamento di rendite di posizione, vuoi solo
per ottenere proroghe, rinnovi o estensioni contrattuali, o anche –si
potrebbe aggiungere– per influenzare la predisposizione dei successivi atti
di gara, è ipotizzabile pienamente anche in presenza di una selezione
originaria che avvenga tramite procedura aperta”.
In sostanza, secondo l’autorità anticorruzione al procedimento semplificato
non può essere invitato il pregresso affidatario anche se questi si sia
aggiudicato il precedente l’appalto (con ad oggetto la stessa commessa o
commessa di settori analoghi) con un procedimento ad evidenza pubblica,
salvo evidentemente una chiara ed esaustiva motivazione.
L’unica motivazione che appare realmente plausibile è quella della carenza
nel mercato di potenziali contraenti, sempre che il RUP possa certificare
l’espletamento di una gestione del precedente contratto in modo più che
soddisfacente (non solo a regola d’arte) anche considerando la convenienza
indiscutibile dell’offerta.
Si tratta però, e si ripete, di aspetti che devono trovare una uniforme
applicazione all’interno della stazione appaltante per evitare disparità di
trattamento grave tra i vari appaltatori (28.11.2018 - tratto da e
link a www.publika.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO:
CV
collaboratori e privacy.
Domanda
La deliberazione ANAC n. 1310 del 28/12/2016 “Prime linee guida recanti
indicazioni sull’attuazione degli obblighi di pubblicità, trasparenza e
diffusione di informazioni contenute nel d.lgs. 33/2013 come modificato dal
d.lgs. 97/2016” prevede la pubblicazione, nella sezione web di “Amministrazione
Trasparente” – Sottosezione “Consulenti e collaboratori”, del
curriculum vitae in formato europeo di ogni consulente o collaboratore
al quale viene conferito un incarico esterno.
Questo obbligo normativo è in contrasto con quanto previsto dal Regolamento
UE 679/2016 (GDPR) e dal decreto legislativo n. 101 del 10.08.2018?
Risposta
Il 25.05.2018, ha dispiegato tutti i suoi effetti il Regolamento (UE)
2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 27.04.2016 «relativo
alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati
personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la
direttiva 95/46/CE (Regolamento generale sulla protezione dei dati)» (di
seguito GDPR).
In seguito, il 19.09.2018, è entrato in vigore il decreto legislativo
10.08.2018, n. 101 che adegua il Codice in materia di protezione dei dati
personali (decreto legislativo 30.06.2003, n. 196) alle disposizioni del
Regolamento (UE) 2016/679.
Con riferimento al quesito posto, occorre anzitutto evidenziare che
l’articolo 2-ter, del decreto legislativo 196/2003 –introdotto dal decreto
legislativo 101/2018– dispone al comma 1 che la base giuridica per il
trattamento di dati personali effettuato per l’esecuzione di un compito di
interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri, ai sensi
dell’art. 6, paragrafo 3, lett. b) del Regolamento (UE) 2016/679, «è
costituita esclusivamente da una norma di legge o, nei casi previsti dalla
legge, di regolamento».
Ciò sta a dimostrare che il regime normativo per il trattamento di dati
personali da parte dei soggetti pubblici è rimasto sostanzialmente
inalterato, restando fermo il principio per cui lo stesso trattamento sia
consentito unicamente se ammesso da una norma di legge o di regolamento.
Pertanto, occorre che l’ente, prima di mettere a disposizione sul proprio
sito web istituzionale dati e documenti in forma integrale o per estratto
–allegati compresi– contenenti dati personali, verifichi che la disciplina
in materia preveda l’obbligo di pubblicazione e, in più, accerti il rispetto
di tutti i principi applicabili al trattamento dei dati personali contenuti
all’art. 5 del Regolamento (UE) 2016/679.
In particolare, assumono rilievo i principi di adeguatezza, pertinenza e
limitazione a quanto necessario rispetto alle finalità per le quali i dati
personali sono trattati («minimizzazione dei dati») (par. 1, lett. c) e
quelli di esattezza e aggiornamento dei dati, con il conseguente dovere di
adottare tutte le misure ragionevoli per cancellare o rettificare
tempestivamente i dati inesatti (o non pertinenti) rispetto alle finalità
per le quali sono trattati (par. 1, lett. d).
Nel caso di specie prospettato dal quesito, dovrà essere obbligatoriamente
pubblicato il curriculum vitae dell’incaricato (secondo l’articolo 15, comma
1, lettera b), decreto legislativo 33/2013, avendo cura di oscurare le
informazioni non direttamente connesse all’attività professionale, come ad
esempio la data di nascita, la residenza privata, la casella mail e il
numero di telefono privato del professionista (27.11.2018 - tratto da
e link a www.publika.it). |
CORTE DEI CONTI |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO: Il
Comune ha formulato una richiesta di parere in ordine alla
possibilità di autorizzare una mobilità in compensazione tra un dipendente
di categoria D, posizione economica D2 (ex VII livello), ed un dipendente di
categoria D3, posizione economica D6 (ex VIII livello) ed alle modalità di
finanziamento della differenza di costo dei due dipendenti.
La Sezione ha dichiarato il parere parzialmente ammissibile, rilevando che
il presupposto fondamentale per la legittimità dell’operazione in esame è
l’osservanza dei limiti di spesa cui gli enti coinvolti sono soggetti, ai
sensi dell’art. 1, comma 47, l. 311/2004.
Ciò che rileva, pertanto, è che l’operazione sia finanziariamente neutra ai
fini assunzionali. L’accertamento in concreto della corrispondenza dei
profili professionali del personale coinvolto nella procedura di mobilità
alla luce di quanto previsto dall’art 3 del CCNL 31.03.1999, come modificato
dall’art. 12 CCNL 2016-2018, è materia estranea al perimetro dell’attività
consultiva di questa Corte, trattandosi di profili rimessi alla
contrattazione collettiva.
Per tali ragioni, il quesito proposto deve essere dichiarato inammissibile
limitatamente al profilo sopra indicato. Infine, l’impossibilità di
estendere il vaglio alla fattispecie concreta determina l’inammissibilità
del secondo quesito, relativo alle modalità di finanziamento della
differenza di costo tra i due dipendenti.
---------------
Con la nota in epigrafe, il Comune di Arcola (SP) ha formulato una richiesta
di parere in ordine alla possibilità di autorizzare una mobilità in
compensazione tra un dipendente di categoria D, posizione economica D2 (ex
VII livello), ed un dipendente di categoria D3, posizione economica D6 (ex
VIII livello).
Preliminarmente, l’Ente istante richiama la disciplina normativa della
materia, in particolare:
- l’art 30 d.lgs. 165/2001 rubricato “passaggio diretto di
personale tra amministrazioni diverse”;
- l’art. 7 D.P.C.M. 325/1988 che sancisce: “E’ consentita in
ogni momento, nell’ambito delle dotazioni organiche di cui all’art 3, la
mobilità dei singoli dipendenti presso la stessa od altre amministrazioni,
anche di diverso comparto, nei casi di domanda congiunta di compensazione
con altri dipendenti di corrispondente profilo professionale, previo nulla
osta dell’amministrazione di provenienza e di quella di destinazione”;
- l’art. 1, comma 47, l. 30.12.2004 n. 311 che recita: “In
vigenza di disposizioni che stabiliscono in regime di limitazione delle
assunzioni di personale a tempo indeterminato, sono consentiti trasferimenti
per mobilità, anche intercompartimentale, tra amministrazioni sottoposte al
regime di limitazione, nel rispetto delle disposizioni sulle dotazioni
organiche e, per gli enti locali, purché abbiano rispettato il patto di
stabilità interno per l’anno precedente”;
- la circolare n. 4/2008 ed il parere n. 4 del 19.03.2010 della
Presidenza del Consiglio dei Ministri-Dipartimento della Funzione Pubblica-
che hanno precisato che la configurabilità della mobilità in termini di
neutralità di spesa resta garantita solo nel caso in cui avvenga tra
amministrazioni entrambe sottoposte a vincoli in materia di assunzioni a
tempo indeterminato.
L’attuale quadro normativo consente, pertanto, la mobilità
intercompartimentale all’interno di due diversi blocchi di amministrazioni
soggette a regimi di limitazioni delle assunzioni, garantendo la necessaria
neutralità della mobilità sugli equilibri economico finanziari ed impedendo
che essa sia esperita come leva per nuove assunzioni di personale (cfr.
Corte dei conti, Sezioni Riunite n. 53/2010)
Il Comune richiama, infine, l’art. 12 CCNL 2016-2018 che prevede un unico
accesso corrispondente alla posizione economica iniziale per ciascuna
categoria, disapplicando di fatto, per la categoria D, la declaratoria
allegata al CCNL 31.03.1999.
Alla luce delle coordinate normative e giurisprudenziali sopra richiamate,
il Comune chiede un parere in merito alla possibilità di autorizzare come
compensativa una mobilità tra i due dipendenti appartenenti a differenti
categorie e posizioni economiche (rispettivamente categoria D, posizione
economica D2 e categoria D3, posizione economica D6).
In caso di risposta positiva al primo quesito, chiede, altresì, “se la
differenza di costo dei due dipendenti (tra posizione D2 e D6) sia
imputabile per intero alle risorse stabili del fondo decentrato oppure debba
essere finanziata con risorse di bilancio per il differenziale tra la
posizione economica D2 e D3 e con le risorse del fondo decentrato per il
differenziale D3-D6”.
...
3. Passando la merito della richiesta, il Comune chiede un parere in merito
alla possibilità di autorizzare una mobilità per interscambio tra dipendenti
appartenenti, rispettivamente, alla categoria D, posizione economica D2, ed
alla categoria D3, posizione economica D6.
Sul piano normativo, l’art. 30, comma 1, d.lgs. 165/2001 richiede, ai fini
della mobilità volontaria, che l’operazione avvenga tra “dipendenti
appartenenti ad una qualifica corrispondente” (cfr., sul punto, Sezione
controllo Lombardia delibera n. 342/PAR/2015, che sottolinea la necessaria
identità di qualifica funzionale dei dipendenti coinvolti, confermata
successivamente da Sezione controllo Puglia, delibera n. 79/PAR/2017).
Con specifico riferimento alla mobilità cd. compensativa, o per
interscambio, che fa seguito alla domanda congiunta di trasferimento di due
dipendenti, l’art. 7 del DPCM 325/1988, richiamato anche dal comune istante,
sancisce la necessaria identità di profilo professionale.
Il riferimento all’identità del profilo professionale deve essere
interpretato, per gli enti locali, alla luce del sistema di classificazione
contenuto nell’art 3 del CCNL 31.03.1999, sulla base del quale il personale
degli enti locali viene suddiviso in quattro categorie, denominate
rispettivamente A, B, C e D.
Il presupposto fondamentale per la legittimità dell’operazione in esame è
l’osservanza dei limiti di spesa cui gli enti coinvolti sono soggetti.
L’art. 1, comma 47, l. 311/2004 precisa, infatti, che “in vigenza di
disposizioni che stabiliscono un regime di limitazione delle assunzioni di
personale a tempo indeterminato, sono consentiti trasferimenti per mobilità,
anche intercompartimentale, tra amministrazioni sottoposte al regime di
limitazione, nel rispetto delle disposizioni sulle dotazioni organiche e,
per gli enti locali, purché abbiano rispettato il patto di stabilità interno
per l’anno precedente”.
Ciò che rileva, pertanto, è che l’operazione sia finanziariamente neutra ai
fini assunzionali. Sul punto, si richiama quanto osservato dalla Sezione
regionale di controllo Lombardia con delibera n. 373/2012/PAR: “né la
normativa sulla mobilità prevista dal d.lgs. n. 165/2001, né la disciplina
di finanza pubblica, che ha introdotto particolari limitazioni alla spesa di
personale, hanno limitato la possibilità di ricorrere a mobilità all’interno
di categorie di enti che debbono applicare le stesse regole limitative alle
assunzioni. La mobilità, pertanto, può essere attuata anche fra enti che
debbono rispondere a limiti differenziati purché, a conclusione
dell’operazione, non vi sia stata alcuna variazione nella consistenza
numerica e nell’ammontare della spesa di personale".
L’operazione deve, pertanto, garantire il rispetto dei vincoli di spesa (cfr.
art. 1, comma 557, l. 296/2006) con riferimento a tutti gli enti coinvolti,
in quanto solo se la mobilità si traduce in un mero “spostamento di
personale da un’amministrazione ad un’altra … non ha incidenza sulle
capacità assunzionali degli Enti” (Sezione controllo Liguria delibera n.
37/PAR/2017, negli stessi termini, cfr. Sezione controllo Piemonte, delibera
n. 27/2016/SRCPIE/PAR).
In altri termini, la mobilità in compensazione, al pari della mobilità
volontaria, deve garantire la necessaria neutralità ai fini delle assunzioni
ai sensi dell’art. 1, comma 47, l. 311/2004 e può avvenire solo tra
dipendenti appartenenti al medesimo profilo professionale (da intendersi con
riferimento al sistema di classificazione di cui all’art. 3 CCNL
31.03.1999).
D’altra parte, la più volte richiamata neutralità finanziaria
dell’operazione di mobilità si può realizzare solo se entrambi “gli enti
locali sono soggetti a vincoli di assunzione (o, meglio ancora, sono in
regola con le prescrizioni del patto)” (Sezioni Riunite delibera 53/CONTR/2010).
L’accertamento in concreto della corrispondenza dei profili professionali
del personale coinvolto nella procedura di mobilità alla luce di quanto
previsto dall’art. 3 del più volte citato CCNL 31.03.1999, come modificato
dall’art. 12 CCNL 2016-2018, è materia estranea al perimetro dell’attività
consultiva di questa Corte, trattandosi di profili rimessi alla
contrattazione collettiva.
Per tali ragioni, il quesito proposto deve essere dichiarato inammissibile
limitatamente al profilo sopra indicato.
Infine, l’impossibilità di estendere il vaglio alla fattispecie concreta
determina l’inammissibilità del secondo quesito, relativo alle modalità di
finanziamento della differenza di costo tra i due dipendenti
(Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria,
parere
24.10.2018 n. 128). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Violazioni edilizi - Ordine
di demolizione del manufatto abusivo - Revoca o sospensione
dell'esecuzione dell'ordine di demolizione - Limiti - Natura
di sanzione amministrativa a carattere ripristinatorio -
Principio del ne bis in idem - Normativa convenzionale ed
eurounitaria - Artt. 23 e 31, comma 9, d.P.R. 06.06.2001, n.
380.
In materia di reati concernenti
violazioni edilizie, l'ordine di demolizione del manufatto
abusivo non è sottoposto alla disciplina estintiva stabilita
per le sanzioni penali, né a quella della prescrizione
prevista dall'art. 173 cod. pen. avendo natura di sanzione
amministrativa a carattere ripristinatorio, priva di
finalità punitive e con effetti che ricadono sul soggetto
che è in rapporto col bene, indipendentemente dal fatto che
questi sia l'autore dell'abuso - né a quella conseguente al
decorso del tempo con condotta favorevole, prevista
dall'art. 445, comma 2, cod. proc. pen..
Proprio con riguardo a quest'ultima disposizione, invocata
in ricorso, è stato infatti ripetutamente affermato che
l'ordine di demolizione del manufatto abusivo (previsto
dall'art. 31, comma 9, d.P.R. 06.06.2001, n. 380), qualora
sia stato impartito con la sentenza di applicazione della
pena su richiesta, resta eseguibile anche nel caso di
estinzione del reato conseguente al decorso del termine di
cui all'art. 445, comma 2, cod. proc. pen., poiché, detto
ordine, in quanto sanzione amministrativa, non è soggetto
alle norme relative all'estinzione della pena o del reato,
nemmeno per effetto di un'applicazione analogica delle
medesime.
Detta sanzione, peraltro, non è neppure soggetta alla
prescrizione stabilita dall'art. 28 legge 24.11.1981, n.
689, che riguarda unicamente le sanzioni pecuniarie con
finalità punitiva.
Pertanto, l'imposizione dell'ordine di demolizione di un
manufatto abusivo non comporta la violazione del principio
del "ne bis in idem" convenzionale, come interpretato dalla
sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo nella
causa Grande Stevens c. Italia del 04.03.2014.
...
Demolizione del manufatto
abusivo - Coordinamento tra l'intervento specifico
giudiziario e quello generale, di carattere amministrativo -
Fase esecutiva dei provvedimenti - Poteri e valutazione del
giudice dell'esecuzione - Fattispecie.
Il coordinamento tra l'intervento
specifico giudiziario e quello generale, di carattere
amministrativo si realizza non già a livello dei rispettivi
poteri, bensì nella fase esecutiva dei provvedimenti, ma
solo nel senso che spetta al giudice dell'esecuzione
valutare la compatibilità del provvedimento giurisdizionale
di demolizione con le determinazioni dell'Amministrazione,
al fine di decidere se vi siano i presupposti per metterlo
in esecuzione e con quali modalità
(Sez. 3, n. 702 del 14/02/2000, Cucinella).
Nel caso di specie non è stata allegata
l'adozione di alcun provvedimento amministrativo
incompatibile con l'esecuzione della demolizione, sicché
nulla osta a che l'autorità giudiziaria proceda in via
esecutiva, avendo peraltro l'ordinanza impugnata attestato
che l'esecuzione in sede amministrativa non ha avuto seguito (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.11.2018 n. 53685 - link a www.ambientediritto.it). |
ESPROPRIAZIONE: Decreto
di esproprio pronunciato al di là dei
termini della dichiarazione di pubblica
utilità.
Il decreto di esproprio
pronunciato al di là dei termini della
dichiarazione di pubblica utilità non può
considerarsi nullo, ma deve qualificarsi
come illegittimo, con conseguente necessità
d’impugnazione entro i termini di decadenza.
Invero, “laddove esista una norma
attributiva del potere di emettere l'atto
autoritativo, ma questo venga emanato senza
rispettare i presupposti previsti da essa
per la corretta esplicazione del potere
conferito, si configuri una violazione di
legge. Questa sussiste tutte le volte in cui
venga violata una qualsivoglia regola posta
dall'ordinamento giuridico e va qualificata
quale vizio di legittimità dell'atto
amministrativo unitamente ed al pari
dell'incompetenza o dell'eccesso di potere.
La previsione, ex art. 13 della l.
25.06.1865 n. 2359, di termini per
l'emanazione del decreto di esproprio,
configura un precetto posto dalla legge ed
indirizzato all'amministrazione pubblica al
fine di porre un vincolo alla
discrezionalità dei suoi poteri.
La sua violazione, pertanto, va qualificata
come violazione di legge ossia come vizio di
legittimità dell'atto amministrativo. Se il
mancato rispetto dei presupposti a cui la
norma riconnette la corretta esplicazione
del potere configura un vizio di legittimità
dell'atto e la previsione dei termini ex
art. 13 cit. altro non è se non presupposto
per la legittima esplicazione del potere, è
evidente che il precipitato logico del
ragionamento seguito consiste nella
qualificabilità della violazione dei termini
fissati per l'emanazione del decreto di
esproprio quale vizio dell'atto da farsi
valere negli ordinari termini decadenziali,
pena la inoppugnabilità dello stesso ed il
divieto, per il Giudice Amministrativo, di
disapplicazione”.
---------------
Il ricorso è in parte infondato e in parte
irricevibile.
Dato per pacifico tra le parti –oltre agli
ulteriori fatti sopra specificati- che il
decreto di esproprio di data 01.03.1999 è
stato assunto tardivamente rispetto ai
termini indicati nella dichiarazione di
pubblica utilità del 20.10.1992, si osserva
che non può trovare accoglimento la domanda
di accertamento della nullità del suddetto
decreto.
Non ignora il Collegio l’esistenza di alcune
pronunce che affermano che il decreto di
esproprio, ove emesso oltre la scadenza del
termine finale per il completamento della
procedura espropriativa, debba essere
dichiarato tardivo e tamquam non esset
(TAR Lazio, Latina, sez. I, 12.05.2015, n.
383), ma ritiene di aderire al consolidato
orientamento giurisprudenziale –dal quale
non sussistono valide ragioni per
discostarsi- secondo cui, al contrario, il
decreto di esproprio pronunciato al di là
dei termini della dichiarazione di pubblica
utilità non può considerarsi nullo, ma deve
qualificarsi come illegittimo, con
conseguente necessità d’impugnazione entro i
termini di decadenza (ex multis,TAR
Campania, Napoli, sez. V, 23.01.2016, n.
1494).
Invero, come è stato con divisibilmente
osservato, “laddove esista una norma
attributiva del potere di emettere l'atto
autoritativo, ma questo venga emanato senza
rispettare i presupposti previsti da essa
per la corretta esplicazione del potere
conferito, si configuri una violazione di
legge. Questa sussiste tutte le volte in cui
venga violata una qualsivoglia regola posta
dall'ordinamento giuridico e va qualificata
quale vizio di legittimità dell'atto
amministrativo unitamente ed al pari
dell'incompetenza o dell'eccesso di potere.
La previsione, ex art. 13 della l.
25.06.1865 n. 2359, di termini per
l'emanazione del decreto di esproprio,
configura un precetto posto dalla legge ed
indirizzato all'amministrazione pubblica al
fine di porre un vincolo alla
discrezionalità dei suoi poteri. La sua
violazione, pertanto, va qualificata come
violazione di legge ossia come vizio di
legittimità dell'atto amministrativo. Se il
mancato rispetto dei presupposti a cui la
norma riconnette la corretta esplicazione
del potere configura un vizio di legittimità
dell'atto e la previsione dei termini ex
art. 13 cit. altro non è se non presupposto
per la legittima esplicazione del potere, è
evidente che il precipitato logico del
ragionamento seguito consiste nella
qualificabilità della violazione dei termini
fissati per l'emanazione del decreto di
esproprio quale vizio dell'atto da farsi
valere negli ordinari termini decadenziali,
pena la inoppugnabilità dello stesso ed il
divieto, per il Giudice Amministrativo, di
disapplicazione” (in tal senso TAR
Calabria, Reggio Calabria, 12.05.2008, n.
248, espressamente richiamata da TAR Puglia,
Bari, sez. III, 06.04.2017, n. 375; nello
stesso senso anche Consiglio di Stato, sez.
IV, 18.11.2016, n. 4799; TAR Umbria,
21.04.2015, n. 189; TAR Lazio, Roma, sez.
II-bis, 04.03.2015, n. 3710; TAR Sicilia,
Palermo, sez. I, 28.02.2013, n. 453).
La domanda di accertamento della nullità del
decreto di esproprio va, dunque,
respinta.(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 29.11.2018 n. 1130 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Corte
di giustizia, solo chi partecipa può impugnare gli atti di una gara.
La legittimazione a impugnare gli atti di gara spetta soltanto alle imprese
che partecipano al bando. Le eccezioni a questo principio sono poche e,
comunque, non allargano in maniera indefinita le possibilità di tutela.
È quanto ha deciso ieri la Corte di giustizia dell’Unione europea (sentenza
28.11.2018 - causa C-328/17), confermando così la linea interpretativa dei
giudici amministrativi italiani. E, soprattutto, chiudendo una controversia
sul punto che andava avanti da anni e che nel 2016 (sentenza n. 245) aveva
visto coinvolta anche la Corte costituzionale.
La vicenda
Il caso riguarda una gara avviata dall’Agenzia regionale per il trasporto
pubblico locale della Liguria del 2015. La stazione appaltante aveva indetto
una gara per l’affidamento del servizio di trasporto pubblico, contro il
quale era stato proposto ricorso al Tar. Il motivo era l’affidamento del
servizio in un lotto unico: nessuna delle società ricorrenti, infatti, aveva
potuto partecipare alla gara, non avendo a disposizione la struttura
necessaria a garantire il servizio.
Il Tar Liguria, sebbene il bando di gara sia poi stato revocato, chiede alla
Corte di giustizia «se il diritto dell’Unione in materia di aggiudicazione
degli appalti pubblici di forniture e di lavori sia contrario o meno ad una
normativa nazionale che riconosca la possibilità di impugnare gli atti di
una procedura di gara ai soli operatori economici che abbiano presentato
domanda di partecipazione alla gara stessa, anche qualora la domanda
giudiziale sia volta a sindacare in radice la procedura».
La decisione
La Corte, con la sentenza di ieri, ha ricordato che la partecipazione a un
procedimento di aggiudicazione di un appalto può, in linea di principio,
«validamente costituire una condizione» che deve essere soddisfatta per
dimostrare che il soggetto coinvolto ha interesse a ricorrere contro la
procedura. Difficile dimostrare l’interesse a opporsi in assenza di
un’offerta.
Ci sono, per la verità, delle eccezioni. L’operatore economico potrà, cioè,
fare ricorso «nelle ipotesi in cui tale offerta era oggettivamente
impossibile», per esempio, per la presenza nel bando «di clausole
immediatamente escludenti o di clausole che impongono oneri manifestamente
incomprensibili o del tutto sproporzionati o che rendono impossibile la
stessa formulazione dell’offerta».
Il sistema italiano, consolidatosi con questo assetto attraverso diverse
pronunce, viene allora giudicato compatibile con le norme europee. Tenendo
fermi questi principi, affermati sia dal Consiglio di Stato che dalla Corte
costituzionale, bisognerà solo verificare che «il diritto a una tutela
giurisdizionale effettiva» dell’impresa ricorrente sia concretamente
garantito
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 29.11.2018).
---------------
MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Terza Sezione) dichiara:
Sia l’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva
89/665/CEE del Consiglio, del 21.12.1989, che coordina le disposizioni
legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle
procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di
forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva 2007/66/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11.12.2007, sia l’articolo 1,
paragrafo 3, della direttiva 92/13/CEE del Consiglio, del 25.02.1992, che
coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative
relative all’applicazione delle norme comunitarie in materia di procedure di
appalto degli enti erogatori di acqua e di energia e degli enti che
forniscono servizi di trasporto nonché degli enti che operano nel settore
delle telecomunicazioni, come modificata dalla direttiva 2007/66, devono
essere interpretati nel senso che non ostano a una normativa nazionale, come
quella di cui al procedimento principale, che non consente agli operatori
economici di proporre un ricorso contro le decisioni dell’amministrazione
aggiudicatrice relative a una procedura d’appalto alla quale essi hanno
deciso di non partecipare poiché la normativa applicabile a tale procedura
rendeva molto improbabile che fosse loro aggiudicato l’appalto in questione. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Sentenza con motivazione dubitativa e perplessa.
---------------
Processo amministrativo – Decisioni - Motivazione –
Redatta in forma dubitativa – Va annullata in appello.
Deve essere annullata in appello la
sentenza del giudice di primo grado motivata in modo
perplesso e con espressioni dubitative (1).
---------------
(1)
Ha chiarito la Sezione che una motivazione non convinta, da
parte dell’organo giudicante, è anche una motivazione non
convincente, incapace di esprimere, cioè, in modo
sufficiente –e tale da reggere comunque al vaglio
giurisdizionale del giudice del secondo grado– la pur
concisa esposizione delle ragioni in fatto e in diritto che
sorreggono la statuizione impugnata (art. 88, comma 2, lett.
d), c.p.a.).
La motivazione perplessa, dubitativa, espressa con formule
amletiche o ermetiche, non può soddisfare quel rigoroso
onere motivazionale che è imposto, a tacer d’altro,
anzitutto dall’art. 111, comma 6, Cost..
L’iter motivazionale della sentenza impugnata non deve
riflettere un irrisolto e tortuoso travaglio interiore del
giudice che, proprio in quanto tale, deve rimanere interno
alla sfera del proprio convincimento, ma esprimere, con la
chiarezza e la sinteticità dovute (art. 3, comma 2, c.p.a.),
le ragioni che lo hanno indotto a superare il dubbio, sul
piano della ricostruzione dei fatti e della interpretazione
delle norme, e a giungere alla soluzione della controversia,
enunciando la regola del caso concreto secondo il nostro
ordinamento.
Non esiste regola del caso concreto –e tale è, per
definizione, la statuizione giudiziale atta a costituire
cosa giudicata– che si presenti, già nella sua stessa
formulazione, perplessa, incerta, periclitante, perché ciò
contraddice l’essenza stessa della funzione giurisdizionale,
che deve essere chiara, sintetica, in funzione della sua
certezza e della sua intellegibilità (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 27.11.2018 n. 6711 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Affidamento con gara della gestione degli spazi pubblicitari.
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Pubblicità – Spazi pubblicitari – Gestione – Affidamento
con gara – Legittimità.
È legittimo il regolamento comunale
sulla pubblicità nella parte in cui prevede l’affidamento
con gara pubblica della gestione degli spazi pubblicitari
(1).
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(1)
Ha ricordato il Tar che l’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato, con decisione 25.02.2013,
n. 5, dopo aver precisato che “...è una
concessione di area pubblica il provvedimento iniziale che
conforma il rapporto” ha chiarito che “...sia
corretto allocare l’uso degli spazi pubblici contingentati
con gara, dovendosi altrimenti ricorrere all’unico criterio
alternativo dell’ordine cronologico di presentazione delle
domande accoglibili, che è di certo meno idoneo ad
assicurare l’interesse pubblico all’uso più efficiente del
suolo pubblico e quello dei privati al confronto
concorrenziale”.
Ne deriva che “il procedimento di gara non contrasta
infatti con la libera espressione dell’attività
imprenditoriale di cui si tratta, considerato, in linea
generale, che la procedura ad evidenza pubblica è istituto
tipico di garanzia della concorrenza nell’esercizio
dell’attività economica privata incidente sull’uso di
risorse pubbliche e che, in particolare, la concessione
tramite gara dell’uso di beni pubblici per l’esercizio di
attività economiche private è istituto previsto
dall’ordinamento, essendo perciò fondata la qualificazione
della gara come strumento per assicurare il principio
costituzionale della libera iniziativa economica anche
nell’accesso al mercato degli spazi per la pubblicità”.
Dunque, ciò che conta è che, attraverso questo sistema si
regolamenta la concessione dell’uso di un’area pubblica,
ossia una risorsa limitata, non già la concessione di
servizio; il che significa che l’attività di installazione
di impianti pubblicitari non perde affatto le sue
connotazioni di libera attività imprenditoriale ma assume,
semmai, fisionomia di attività economica suscettibile di
essere conformata per fini di utilità sociale, secondo
quanto esplicitato dall’art. 41 Cost.
(TAR Puglia-Bari, Sez. III.
sentenza 26.11.2018, n. 1526 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
In tema di dichiarazioni relative al possesso di titoli di
merito –che
non costituiscono requisiti di partecipazione– rese in buona
fede dell’interessato.
Il Collegio osserva che, alla stregua
dell’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale in
tema di dichiarazioni relative al possesso di titoli di
merito –che
non costituiscono requisiti di partecipazione– rese in
buona fede dell’interessato, il ricorso risulta fondato.
Si è, infatti, più volte affermato che la ritenuta
dichiarazione mendace (in realtà erronea) avrebbe potuto
comportare la rivalutazione della posizione del ricorrente
per un corretto posizionamento in graduatoria e non già la
sua decadenza dalla ferma prefissata.
Tale orientamento condivide l’impostazione del giudice
d’appello, che invita a distinguere tra il caso in cui la
dichiarazione è mirata a far conseguire, quale beneficio
primario, l’ammissione al concorso, rispetto a quella in cui
è volta all’assegnazione di un maggior punteggio. Il
Consiglio di Stato ha osservato che, in quest’ultima
ipotesi, “una volta acclarata la mendacità della
dichiarazione, la decadenza dai benefici eventualmente
conseguenti al provvedimento emanato sulla base della
dichiarazione non veritiera, può essere solo quella della
privazione del punteggio stesso, con il conseguente
ridimensionamento della posizione in graduatoria”.
La
Sezione si è adeguata all’orientamento sopra richiamato ed
ha attenuato le conseguenze negative dell’autocertificazione
erronea del possesso di titoli di merito e non requisiti di
partecipazione, osservando che “l’indicata dichiarazione non
possa ritenersi mendace ai fini della decadenza, proprio in
considerazione della buona fede del candidato, che ha
indicato nella domanda di partecipazione al concorso,
esattamente il titolo dallo stesso asseritamente posseduto”. Tale orientamento è stato ribadito in ulteriori
pronunce del Consiglio di Stato, le quali avevano accolto
l’appello cautelare sulla base della considerazione che il
candidato si sarebbe comunque collocato tra i vincitori.
Da allora, la Sezione si è sempre conformata
all’insegnamento del Supremo Consenso, osservando “che
l’indicata dichiarazione deve configurarsi quale mero errore
del candidato, con la conseguente esclusione
dell’assegnazione del punteggio inerente al titolo
contestato”.
---------------
Nel caso di specie, la dichiarazione erronea resa dal
Signor Ca. con riguardo al possesso della patente del
computer ECDL “Core Full” ha comportato esclusivamente il
conseguimento di un maggior punteggio ma non ha influito
sull’ammissione al reclutamento: la decurtazione del
punteggio addizionale derivante dal predetto errore avrebbe
collocato in ogni caso l’odierno esponente in posizione
utile.
Ne discende, pertanto, che la erronea dichiarazione resa dal
candidato è stata irrilevante e non ha comportato “un
indebito beneficio”: tale erronea indicazione avrebbe dovuto
comportare la rivalutazione della posizione del ricorrente,
ai fini di un corretto posizionamento in graduatoria -in
relazione all’effettivo punteggio spettante, in base ai
titoli effettivamente posseduti, con esclusione, quindi,
soltanto di quello contestato- ma non la decadenza dalla
ferma prefissata.
Difatti non è stato il punteggio addizionale
derivante dal predetto errore -pari a 0,2 punti- ad aver
consentito al ricorrente di essere classificato in posizione
utile.
Alla luce delle considerazioni sopra svolte, le doglianze
articolate dal ricorrente devono ritenersi fondate, non
potendosi considerare mendace l’indicazione fatta in buona
fede nella domanda di partecipazione, ma semplicemente
erronea, con la conseguenza che la sua erroneità avrebbe
dovuto comportare la sola sottrazione del punteggio relativo
al titolo originariamente riconosciuto e il riposizionamento
dell’interessato in graduatoria.
---------------
1. Il Collegio, ad un più approfondito esame del ricorso, proprio della
fase di merito, ritiene di confermare l’orientamento seguito
in sede cautelare, rilevando la fondatezza del gravame.
2. L’odierno esponente deduce, quali motivi di ricorso, la
circostanza che si sia trattato di un mero errore, posto che
egli sarebbe effettivamente in possesso di un diploma ECDL
ma della tipologia “IT-Security” e non “Core Full”.
L’Amministrazione avrebbe dovuto procedere all’esclusione
del concorrente soltanto nel caso in cui la falsa
dichiarazione avesse permesso al candidato di collocarsi in
posizione utile in graduatoria: nel caso di specie, invece,
il Sig. Ca. sarebbe stato egualmente ammesso. Pertanto
egli non avrebbe ottenuto un indebito beneficio dall’erronea
indicazione resa nella domanda di partecipazione e
l’Amministrazione non avrebbe dovuto escluderlo dalla
procedura de qua.
2.1 La censure dedotte dal ricorrente sono condivisibili.
2.2 Il Collegio osserva che, alla stregua dell’ormai
consolidato orientamento giurisprudenziale in tema di
dichiarazioni relative al possesso di titoli di merito –che
non costituiscono requisiti di partecipazione– rese in
buona fede dell’interessato, il ricorso risulta fondato.
Si è, infatti, più volte affermato che la ritenuta
dichiarazione mendace (in realtà erronea) avrebbe potuto
comportare la rivalutazione della posizione del ricorrente
per un corretto posizionamento in graduatoria e non già la
sua decadenza dalla ferma prefissata (TAR Lazio, Sez. I-bis,
05.06.2018, n. 6214; id. 05.04.2018, n. 3820; 08.06.2017, n. 6802; 21.11.2017, n. 11498 e n. 11499).
Tale orientamento condivide l’impostazione del giudice
d’appello, che invita a distinguere tra il caso in cui la
dichiarazione è mirata a far conseguire, quale beneficio
primario, l’ammissione al concorso, rispetto a quella in cui
è volta all’assegnazione di un maggior punteggio. Il
Consiglio di Stato ha osservato che, in quest’ultima
ipotesi, “una volta acclarata la mendacità della
dichiarazione, la decadenza dai benefici eventualmente
conseguenti al provvedimento emanato sulla base della
dichiarazione non veritiera, può essere solo quella della
privazione del punteggio stesso, con il conseguente
ridimensionamento della posizione in graduatoria” (Cons.
Stato, Sez., 14.11.2012, n. 5762).
Con sentenza TAR Lazio, Sez. I-bis, n. 2668 del 2017, la
Sezione si è adeguata all’orientamento sopra richiamato ed
ha attenuato le conseguenze negative dell’autocertificazione
erronea del possesso di titoli di merito e non requisiti di
partecipazione, osservando che “l’indicata dichiarazione non
possa ritenersi mendace ai fini della decadenza, proprio in
considerazione della buona fede del candidato, che ha
indicato nella domanda di partecipazione al concorso,
esattamente il titolo dallo stesso asseritamente posseduto”
(TAR Lazio, I-bis, 20.02.2018, n. 1940; id. 21.07.2017, n. 8850; 13.07.2017, n. 8468;
08.06.2017, n.
6802). Tale orientamento è stato ribadito in ulteriori
pronunce del Consiglio di Stato, le quali avevano accolto
l’appello cautelare sulla base della considerazione che il
candidato si sarebbe comunque collocato tra i vincitori.
Da allora, la Sezione si è sempre conformata
all’insegnamento del Supremo Consenso, osservando “che
l’indicata dichiarazione deve configurarsi quale mero errore
del candidato, con la conseguente esclusione
dell’assegnazione del punteggio inerente al titolo
contestato” (TAR Lazio, Sez. I-bis, 21.05.2018, n. 5609;
02.01.2018, n. 8; 21.07.2017, n. 8848).
2.3 Nel caso di specie, la dichiarazione erronea resa dal
Signor Ca. con riguardo al possesso della patente del
computer ECDL “Core Full” ha comportato esclusivamente il
conseguimento di un maggior punteggio ma non ha influito
sull’ammissione al reclutamento: la decurtazione del
punteggio addizionale derivante dal predetto errore avrebbe
collocato in ogni caso l’odierno esponente in posizione
utile.
Ne discende, pertanto, che la erronea dichiarazione resa dal
candidato è stata irrilevante e non ha comportato “un
indebito beneficio”: tale erronea indicazione avrebbe dovuto
comportare la rivalutazione della posizione del ricorrente,
ai fini di un corretto posizionamento in graduatoria -in
relazione all’effettivo punteggio spettante, in base ai
titoli effettivamente posseduti, con esclusione, quindi,
soltanto di quello contestato- ma non la decadenza dalla
ferma prefissata (TAR Lazio, Sez. I-bis, 08.06.2017, n.
6802). Difatti non è stato il punteggio addizionale
derivante dal predetto errore -pari a 0,2 punti- ad aver
consentito al ricorrente di essere classificato in posizione
utile ai fini della prestazione del servizio in ferma
prefissata di un anno nell’Aeronautica Militare (TAR Lazio, Sez. I-bis, 20.06.2018, n. 6889;
08.06.2017, n.
6802).
3. Alla luce delle considerazioni sopra svolte, le doglianze
articolate dal ricorrente devono ritenersi fondate, non
potendosi considerare mendace l’indicazione fatta in buona
fede nella domanda di partecipazione, ma semplicemente
erronea, con la conseguenza che la sua erroneità avrebbe
dovuto comportare la sola sottrazione del punteggio relativo
al titolo originariamente riconosciuto e il riposizionamento
dell’interessato in graduatoria (TAR Lazio-Roma, Sez. I-bis,
sentenza 24.11.2018 n. 11389 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'art. 20 della l. n. 241/1990, mentre al comma 1
prevede che, «fatta salva l'applicazione dell'art. 19, nei procedimenti
ad istanza di parte per il rilascio di provvedimenti
amministrativi il silenzio dell'amministrazione competente
equivale a provvedimento di accoglimento della domanda,
senza necessità di ulteriori istanze o diffide», al comma 4
precisa che «le disposizioni del presente articolo non si
applicano agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio
culturale e paesaggistico, l'ambiente, la difesa nazionale».
Il rapporto tra la disposizione contenuta nell’art. 20,
comma 4, della l. n. 241/1990 e quella contenuta nell’art.
13, comma 1, della l. n. 394/1991 (secondo cui «il rilascio
di concessioni o autorizzazioni relative ad interventi,
impianti ed opere all'interno del parco è sottoposto al
preventivo nulla osta dell'Ente Parco … il nulla osta è reso
entro sessanta giorni dalla richiesta … decorso inutilmente
tale termine il nulla osta si intende rilasciato»), è stato
chiarito dalla giurisprudenza nel senso di annettere
prevalenza alla prima e di escludere, quindi, l’operatività
del silenzio-assenso sulle richieste di nulla osta del
competente Ente Parco nell’ambito dei procedimenti
abilitativi edilizi.
Il Consiglio di Stato,
nel decidere una questione analoga a quella dedotta nel
presente giudizio, ha così statuito: «Il Collegio è dunque
chiamato a stabilire se, come sostiene l'appellante, nel
conflitto tra la norma contenuta nell'art. 20, comma 4,
della l. n. 241/1990 (come sostituita dalla l. n. 80/2005) e
la disposizione dell'art. 13 della l. n. 394/1991, sarebbe quest'ultima, in quanto norma speciale, a dover prevalere su
quella generale sopravvenuta o, al contrario, … debba darsi
prevalenza alla prima. Alla questione deve darsi esito …
muovendo dal rilievo per cui entrambe le norme hanno la
medesima natura procedimentale e vengono a disciplinare lo
stesso istituto operante in materia edilizia-ambientale;
resta, infatti, escluso che tra esse possa configurarsi un
rapporto di specialità, poiché questo presuppone un certo
grado di equivalenza tra norme a confronto, ma che non può
spingersi sino alla sostanziale identità tra le due
discipline in contrasto. In questo secondo caso, il
prospettato conflitto tra due disposizioni, che, seppur con
esiti opposti per l'istante, disciplinano il medesimo
istituto procedimentale del silenzio assenso, deve quindi
essere risolto alla luce della successione nel tempo tra due
norme generali e pertanto secondo il principio per cui la
legge posteriore abroga la legge anteriore con essa
incompatibile (arg. ex art. 15 cod. civ.)».
Il Consiglio di Stato prosegue affermando che: «Anche qui il
Collegio condivide, perciò, l'orientamento … per cui non si
può far ricorso al principio di specialità che postula
l'equivalenza tra le norme stesse, ma deve necessariamente
applicarsi il criterio cronologico, in base al quale la
legge successiva prevale su quella precedente. Ciò
considerato, è evidente che l'intervento dell'art. 20 della
l. n. 241/1990, come successivamente modificato, determina che
il regime del silenzio assenso non trovi applicazione in
materia di tutela ambientale, con la conseguenza che il
diniego di nulla osta, pur sopravvenuto oltre il termine
fissato dalla legge precedente, risulta pienamente legittimo
in quanto emesso in forza di potere non consumatosi –in
quanto esplicato nella vigenza della nuova legge– ed il cui
esercizio, dunque, non presupponeva l'annullamento in autotutela di un precedente silenzio-assenso, viceversa
inesistente».
---------------
2. Venendo ora a scrutinare il ricorso iscritto a r.g. n. 2244/2013, privo
di pregio si rivela l’ordine di doglianze secondo cui sulla
domanda di permesso di costruire del 15.02.2013 (prot.
n. 2401) il nulla osta dell’Ente Parco si sarebbe formato
per silenzio-assenso per decorso del termine all’uopo
previsto dall’art. 13 della l. n. 394/1991.
A ripudio di un simile assunto, giova rammentare che l'art.
20 della l. n. 241/1990, mentre al comma 1 prevede che,
«fatta salva l'applicazione dell'art. 19, nei procedimenti
ad istanza di parte per il rilascio di provvedimenti
amministrativi il silenzio dell'amministrazione competente
equivale a provvedimento di accoglimento della domanda,
senza necessità di ulteriori istanze o diffide», al comma 4
precisa che «le disposizioni del presente articolo non si
applicano agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio
culturale e paesaggistico, l'ambiente, la difesa nazionale».
Il rapporto tra la disposizione contenuta nell’art. 20,
comma 4, della l. n. 241/1990 e quella contenuta nell’art.
13, comma 1, della l. n. 394/1991 (secondo cui «il rilascio
di concessioni o autorizzazioni relative ad interventi,
impianti ed opere all'interno del parco è sottoposto al
preventivo nulla osta dell'Ente Parco … il nulla osta è reso
entro sessanta giorni dalla richiesta … decorso inutilmente
tale termine il nulla osta si intende rilasciato»), è stato
chiarito dalla giurisprudenza nel senso di annettere
prevalenza alla prima e di escludere, quindi, l’operatività
del silenzio-assenso sulle richieste di nulla osta del
competente Ente Parco nell’ambito dei procedimenti
abilitativi edilizi.
Il Consiglio di Stato, infatti, con sentenza n. 5188/2013,
nel decidere una questione analoga a quella dedotta nel
presente giudizio, ha così statuito: «Il Collegio è dunque
chiamato a stabilire se, come sostiene l'appellante, nel
conflitto tra la norma contenuta nell'art. 20, comma 4,
della l. n. 241/1990 (come sostituita dalla l. n. 80/2005) e
la disposizione dell'art. 13 della l. n. 394/1991, sarebbe quest'ultima, in quanto norma speciale, a dover prevalere su
quella generale sopravvenuta o, al contrario, … debba darsi
prevalenza alla prima. Alla questione deve darsi esito …
muovendo dal rilievo per cui entrambe le norme hanno la
medesima natura procedimentale e vengono a disciplinare lo
stesso istituto operante in materia edilizia-ambientale;
resta, infatti, escluso che tra esse possa configurarsi un
rapporto di specialità, poiché questo presuppone un certo
grado di equivalenza tra norme a confronto, ma che non può
spingersi sino alla sostanziale identità tra le due
discipline in contrasto. In questo secondo caso, il
prospettato conflitto tra due disposizioni, che, seppur con
esiti opposti per l'istante, disciplinano il medesimo
istituto procedimentale del silenzio assenso, deve quindi
essere risolto alla luce della successione nel tempo tra due
norme generali e pertanto secondo il principio per cui la
legge posteriore abroga la legge anteriore con essa
incompatibile (arg. ex art. 15 cod. civ.)».
Il Consiglio di Stato prosegue affermando che: «Anche qui il
Collegio condivide, perciò, l'orientamento … per cui non si
può far ricorso al principio di specialità che postula
l'equivalenza tra le norme stesse, ma deve necessariamente
applicarsi il criterio cronologico, in base al quale la
legge successiva prevale su quella precedente. Ciò
considerato, è evidente che l'intervento dell'art. 20 della
l. n. 241/1990, come successivamente modificato, determina che
il regime del silenzio assenso non trovi applicazione in
materia di tutela ambientale, con la conseguenza che il
diniego di nulla osta, pur sopravvenuto oltre il termine
fissato dalla legge precedente, risulta pienamente legittimo
in quanto emesso in forza di potere non consumatosi –in
quanto esplicato nella vigenza della nuova legge– ed il cui
esercizio, dunque, non presupponeva l'annullamento in autotutela di un precedente silenzio-assenso, viceversa
inesistente» (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 23.11.2018 n. 1694 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Nullità delle clausole del bando che introducono condizioni
limitative o restrittive dell’avvalimento.
--------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Avvalimento –
Attestazione Soa in capo ad impresa ausiliata – Nullità
della clausola.
E' nulla la clausola del bando di
gara che impone a pena di esclusione che, in caso di
avvalimento, l’impresa ausiliata debba essere in possesso di
propria attestazione SOA, dal momento che la disciplina
dell’istituto dell’avvalimento di cui all’art. 89 del d.lgs.
18.04.2016 n. 50 non riconosce alcun potere alla stazione
appaltante di introdurre condizioni limitative o, comunque,
restrittive dell’avvalimento, tanto meno di sanzionarne la
mancanza con l’immediata esclusione del concorrente (1).
--------------
(1)
La Sezione, richiamando un proprio precedente in termini (Tar
Napoli, sez. I, 24.07.2018, n. 4943), ha chiarito che la
questione centrale della controversia è la qualificazione
giuridica del vizio che potrebbe riguardare la prescrizione
del disciplinare, in disparte ogni delibazione in ordine
alla sua fondatezza.
Difatti, ove tale patologia si dovesse ritenere quale
ipotesi di annullabilità, il ricorso non potrebbe trovare
accoglimento, atteso che il provvedimento di esclusione
impugnato si rivelerebbe pedissequa applicazione della
presupposta disposizione del disciplinare, la cui perdurante
validità non potrebbe che comportare, in sede di riedizione
del potere, l’adozione di un identico provvedimento di
esclusione; ove, il vizio dovesse ritenersi di nullità,
trattandosi di un’ipotesi di esclusione che la lex
specialis avrebbe previsto in assenza di copertura
legislativa, l’operato della commissione risulterebbe
travolto dall’accertamento di tale più grave patologia che
il giudice deve comunque eseguire, ai sensi dell’art. 83,
comma 9, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, secondo cui “i bandi e
le lettere di invito non possono contenere ulteriori
prescrizioni a pena di esclusione rispetto a quelle previste
dal presente codice e da altre disposizioni di legge
vigenti. Dette prescrizioni sono comunque nulle”.
Osserva il Collegio che principi generali dell’azione
autoritativa dell’amministrazione pubblica, contenuti negli
artt. 21-septies e 21-octies, l. 07.08.1990, n. 241,
disciplinano la patologia del provvedimento, in
considerazione dell’incidenza più o meno intensa che
discende dal tipo di illegittimità, parlando di
annullabilità nelle tradizionali fattispecie di
incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge e di
nullità in caso di mancanza di elementi essenziali, difetto
assoluto di attribuzione, violazione o elusione del
giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti
dalla legge; differente ne è poi la disciplina sostanziale e
processuale di riferimento.
A ben vedere, la differenza tra annullabilità e nullità
ricalca la tradizionale impostazione dicotomica tra cattivo
esercizio del potere e carenza di potere, tali essendo state
qualificate da risalente giurisprudenza le fattispecie di
assenza di elementi costitutivi, difetto assoluto di
attribuzione, mentre di nullità tout court si parlava anche
con riferimento alle ipotesi di elusione o violazione del
giudicato e nelle più recenti fattispecie di nullità ex
lege.
Ebbene, applicando tale impostazione generale alla
fattispecie di nullità delle clausole di bandi e lettere di
invito per violazione del principio di tassatività delle
cause di esclusione, può ritenersi che si sia in presenza di
annullabilità ove la norma contempli il potere
dell’amministrazione di disciplinare e richiedere
determinati requisiti di partecipazione ai concorrenti o
modalità di formazione delle offerte, per cui ogni possibile
criticità si risolve in un vizio per esercizio contra
legem di quel potere; si è in presenza di nullità tutte
le volte in cui, invece, quel potere sia esercitato
praeter legem, ossia laddove l’amministrazione abbia
richiesto requisiti che la norma codicistica o altra non
contemplino affatto.
Tale soluzione risponde anche ad esigenze di armonizzazione
delle qualificazioni sostanziali de quibus con
l’indiscutibile preoccupazione del legislatore di
consolidamento degli atti delle procedure di gara, la cui
definitività è attualmente anticipata dalla previsione di un
rito speciale di tipo impugnatorio-decadenziale per le
ipotesi di contestazione di atti di esclusione e di
ammissione che si assumano illegittimi, segnatamente l’art.
120, commi 2-bis e 6-bis, c.p.a..
Ha quindi concluso la Sezione nel senso che la disciplina
dell’istituto dell’avvalimento di cui all’art. 89, d.lgs. n.
50 del 2016 non riconosce alcun potere alla stazione
appaltante di introdurre condizioni limitative o, comunque,
restrittive dell’avvalimento, tanto meno di sanzionarne la
mancanza con l’immediata esclusione del concorrente; a ben
vedere, invero, unico spazio per una modulazione da parte
della stazione appaltante della disciplina positiva è
contenuto nei commi quarto e terzo della predetta
disposizione, ove, nel primo caso, si stabilisce che «nel
caso di appalti di lavori, di appalti di servizi e
operazioni di posa in opera o installazione nel quadro di un
appalto di fornitura, le stazioni appaltanti possono
prevedere nei documenti di gara che taluni compiti
essenziali siano direttamente svolti dall'offerente o, nel
caso di un'offerta presentata da un raggruppamento di
operatori economici, da un partecipante al raggruppamento»
e nel secondo che «nel bando di gara possono essere
altresì indicati i casi in cui l'operatore economico deve
sostituire un soggetto per il quale sussistono motivi non
obbligatori di esclusione, purché si tratti di requisiti
tecnici».
Nessun altro potere di conformare i requisiti di accesso
all’avvalimento è riconosciuto, in aderenza all’orientamento
giurisprudenziale che in sede europea considera l’istituto
come espressione del riconoscimento della più ampia libertà
di autoorganizzazione degli operatori economici (TAR
Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 19.11.2018 n. 6691 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - URBANISTICA:
Sulla sospensione dell'iter procedimentale, di un Piano
Attuativo, relativo ad alcuni comparti soggetti a
procedimento penale.
Il Collegio ritiene fondato l’orientamento espresso, in
materia di pianificazione urbanistica ed attuativa dal
Consiglio di Stato, secondo cui “mentre piano urbanistico
attuativo e schema di convenzione formano oggetto di un
unico atto di approvazione (di competenza del Consiglio
comunale), la convenzione propriamente detta (cioè il
contratto ad oggetto pubblico successivamente stipulato)
costituisce certamente ... un atto negoziale autonomo (nel
senso di essere giuridicamente distinto dal provvedimento -
atto unilaterale di approvazione), la cui sottoscrizione
deve essere effettuata dal dirigente del Comune, ex art.
107, co. 3, lett. c), T.U. enti locali", il quale, se non ha
"un potere di modifica e/o integrazione delle clausole, che
inciderebbe sul contenuto stesso della potestà
pianificatoria precedentemente esercitata dal Consiglio
comunale", tuttavia "laddove ritenga che le clausole
contrattuali in sé considerate, ovvero lo stesso piano
urbanistico attuativo contrastino con disposizioni di legge,
ben può rimettere le sue osservazioni all'organo competente,
onde sollecitarne una ulteriore valutazione ed,
eventualmente, l'esercizio del potere di annullamento in
autotutela, ai sensi dell'art. 21-nonies l. n. 241/1990".
Difatti, la convenzione di lottizzazione costituisce un atto
accessorio al Piano di lottizzazione, deputato alla
regolazione dei rapporti tra il soggetto esecutore delle
opere e il Comune con riferimento agli adempimenti derivanti
dal Piano medesimo, ed è quindi cronologicamente e
fisiologicamente distinta dal sovrastante strumento di
pianificazione secondaria, non inciso dal provvedimento
contestato di sospensione oggetto di impugnativa.
---------------
Il principio di
tipicità degli atti amministrativi non consente che un
qualsiasi procedimento possa essere sospeso se una norma non
prevede il relativo potere. A ciò si aggiunga che,
nell’ipotesi di procedimento ampliativo, come quello in
esame, non sarebbe possibile ipotizzare la sussistenza di un
generale potere di sospensione in quanto distonico rispetto
all’obbligo per la P.A di definire il procedimento con un
provvedimento espresso, con il conseguente termine
procedimentale di durata massima del procedimento
amministrativo (art. 2 L. 241/1990).
Ma, a ben vedere, la sospensione sine die del procedimento
ampliativo si pone altresì in contrasto con i principi
espressi con l’art. 21-quater della L. 241/1990 ancorché la
norma da ultimo citata sia precipuamente diretta alla
disciplina della sospensione del provvedimento già
esistente.
L’art. 21-quater della L. 241/1990 stabilisce invero che
l'efficacia ovvero l'esecuzione del provvedimento
amministrativo può essere sospesa, per gravi ragioni e per
il tempo strettamente necessario, dallo stesso organo che lo
ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge; il
termine della sospensione è esplicitamente indicato
nell'atto che la dispone e può essere prorogato o differito
per una sola volta, nonché ridotto per sopravvenute
esigenze; la sospensione non può comunque essere disposta o
perdurare oltre i termini per l'esercizio del potere di
annullamento di cui all'art. 21-nonies, l. 07.08.1990, n.
241.
Si tratta, in altre parole, di un generale potere di
sospensione di natura cautelare e durata temporanea, cui fa
da pendant il necessario controlimite della prefissione di
un termine che salvaguardi l'esigenza di certezza della
posizione giuridica della parte, proprio al fine di
scongiurare il rischio di una illegittima sospensione sine
die, che equivarrebbe, nel caso di interesse pretensivo ad
un atto ampliativo, al sostanziale diniego dell’atto stesso.
---------------
Nella fattispecie in esame, il dirigente comunale si è
limitato a sospendere l’attività amministrativa relativa i
comparti C,D,E,F oggetto del procedimento penale n. ... (in
corso) almeno sino alle risultanze prodotte dall’udienza
preliminare.
Il Tribunale ritiene che il riferimento a tale avvenimento
futuro, ma incerto nel quando, si ponga in contrasto con
l’obbligo per la P.A di concludere il procedimento nel
termine di legge prefissato (art. 2 L. 241/1990).
In ogni caso, tale evento non può surrogare la necessità,
espressa dall’art. 21-quater L. 241/1990 dell'indicazione
espressa di un termine finale di efficacia del provvedimento
di sospensione, eventualmente coincidente con quello
necessario per l’esercizio del potere di autotutela, stante
l’impossibilità per lo stesso dirigente comunale, all’atto
dell’adozione del gravato provvedimento, di ipotizzare un
termine certo di conclusione dell’udienza preliminare.
---------------
Posto quanto sopra, è evidente che l’Amministrazione resta
in ogni caso titolare del potere di valutare se la pendenza
del procedimento penale costituisca fatto idoneo a far
venire meno gli interessi pubblici di natura urbanistica
sottesi all’originaria lottizzazione, ovvero a verificare se
sussistano le condizioni di legge per poter procedere in
variante, emendando il Piano dagli eventuali profili di
illegittimità riscontrati in sede penale.
Circostanza, quest’ultima, peraltro, già rappresentata dalla
stessa Amministrazione con la nota prot. 11595/16,
genericamente contestata dal ricorrente con l’odierno
gravame, laddove il Comune si riservava di attuare le
procedure in autotutela nel caso di mancato adeguamento, da
parte del Consorzio ricorrente, del Piano di Lottizzazione
alle conclusioni del consulente ratificate dal Consiglio
Comunale.
Costituisce, invero principio pacifico che qualora tra
approvazione del piano attuativo e la stipulazione della
convenzione di lottizzazione, vengano meno i presupposti sui
quali la stessa approvazione è stata fondata,
“l'amministrazione, la quale ben può verificare la
persistenza di detti presupposti fino al momento della
stipula, non può ritenersi obbligata alla stipulazione della
convenzione, ma valuterà la sussistenza di ragioni di revoca
dell'approvazione, ai sensi dell'art. 21-quinquies l. n.
241/1990", ovvero di annullamento del piano già approvato,
in esercizio del potere di autotutela.
---------------
14. Posto quanto sopra, per quanto concerne, invece, la
domanda di annullamento delle note comunali contestate, deve
procedersi alla conversione del rito speciale del silenzio
in rito ordinario.
15. In disparte la genericità dell’impugnativa delle note
comunali del 2015 e del 2016 contestate con il ricorso
introduttivo, quanto all’oggetto precipuo dell’impugnativa
(nota del Dirigente UTC prot. n. 12837/2017 del 21.06.2017 e
la connessa e richiamata nota 7684 del 07.04.2016), deve
ritenersi non fondata la censura di incompetenza, motivata
da parte ricorrente sulla base del presupposto che la
sospensione del procedimento sarebbe stata decisa dal
dirigente preposto e non già dal Consiglio comunale, organo
che ha approvato il piano di lottizzazione.
Al riguardo sia sufficiente osservare che, l’avversata
determinazione dirigenziale non sospende il Piano di
lottizzazione (che, allo stato risulta efficace fino alla
sua naturale scadenza), ma solo l’attività amministrativa
consequenziale che va ascritta ex art. 107 comma 3, lett.
c), Dlgs 267/2000 alla competenza dell’organo di gestione.
In proposito, il Collegio ritiene fondato l’orientamento
espresso, in materia di pianificazione urbanistica ed
attuativa dal Consiglio di Stato, secondo cui “mentre
piano urbanistico attuativo e schema di convenzione formano
oggetto di un unico atto di approvazione (di competenza del
Consiglio comunale), la convenzione propriamente detta (cioè
il contratto ad oggetto pubblico successivamente stipulato)
costituisce certamente ... un atto negoziale autonomo (nel
senso di essere giuridicamente distinto dal provvedimento -
atto unilaterale di approvazione), la cui sottoscrizione
deve essere effettuata dal dirigente del Comune, ex art.
107, co. 3, lett. c), T.U. enti locali", il quale, se
non ha "un potere di modifica e/o integrazione delle
clausole, che inciderebbe sul contenuto stesso della potestà
pianificatoria precedentemente esercitata dal Consiglio
comunale", tuttavia "laddove ritenga che le clausole
contrattuali in sé considerate, ovvero lo stesso piano
urbanistico attuativo contrastino con disposizioni di legge,
ben può rimettere le sue osservazioni all'organo competente,
onde sollecitarne una ulteriore valutazione ed,
eventualmente, l'esercizio del potere di annullamento in
autotutela, ai sensi dell'art. 21-nonies l. n. 241/1990"
(Consiglio di Stato n. 4027/2016 cit.).
Difatti, la convenzione di lottizzazione costituisce un atto
accessorio al Piano di lottizzazione, deputato alla
regolazione dei rapporti tra il soggetto esecutore delle
opere e il Comune con riferimento agli adempimenti derivanti
dal Piano medesimo, ed è quindi cronologicamente e
fisiologicamente distinta dal sovrastante strumento di
pianificazione secondaria, non inciso dal provvedimento
contestato di sospensione oggetto di impugnativa.
16. Deve, invece,
ravvisarsi, in accoglimento del secondo motivo di
ricorso, l’illegittimità della sospensione del procedimento
in quanto disposta dall’amministrazione senza l’indicazione
di un termine prefissato e certo di durata.
In primis, infatti, deve osservarsi che il principio
di tipicità degli atti amministrativi non consente che un
qualsiasi procedimento possa essere sospeso se una norma non
prevede il relativo potere. A ciò si aggiunga che,
nell’ipotesi di procedimento ampliativo, come quello in
esame, non sarebbe possibile ipotizzare la sussistenza di un
generale potere di sospensione in quanto distonico rispetto
all’obbligo per la P.A di definire il procedimento con un
provvedimento espresso, con il conseguente termine
procedimentale di durata massima del procedimento
amministrativo (art. 2 L. 241/1990).
Ma, a ben vedere, la sospensione sine die del
procedimento ampliativo si pone altresì in contrasto con i
principi espressi con l’art. 21-quater della L. 241/1990
ancorché la norma da ultimo citata sia precipuamente diretta
alla disciplina della sospensione del provvedimento già
esistente.
L’art. 21-quater della L. 241/1990 stabilisce invero che
l'efficacia ovvero l'esecuzione del provvedimento
amministrativo può essere sospesa, per gravi ragioni e per
il tempo strettamente necessario, dallo stesso organo che lo
ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge; il
termine della sospensione è esplicitamente indicato
nell'atto che la dispone e può essere prorogato o differito
per una sola volta, nonché ridotto per sopravvenute
esigenze; la sospensione non può comunque essere disposta o
perdurare oltre i termini per l'esercizio del potere di
annullamento di cui all'art. 21-nonies, l. 07.08.1990, n.
241.
Si tratta, in altre parole, di un generale potere di
sospensione di natura cautelare e durata temporanea, cui fa
da pendant il necessario controlimite della
prefissione di un termine che salvaguardi l'esigenza di
certezza della posizione giuridica della parte, proprio al
fine di scongiurare il rischio di una illegittima
sospensione sine die, che equivarrebbe, nel caso di
interesse pretensivo ad un atto ampliativo, al sostanziale
diniego dell’atto stesso.
Pertanto, alla luce e nei limiti delle considerazioni sopra
rassegnate, il provvedimento di sospensione deve
considerarsi illegittimo.
Nella fattispecie in esame, infatti, il dirigente comunale
si è limitato a sospendere l’attività amministrativa
relativa i comparti C,D,E,F oggetto del procedimento penale
n. -OMISSIS- (in corso) almeno sino alle risultanze prodotte
dall’udienza preliminare.
Il Tribunale ritiene che il riferimento a tale avvenimento
futuro, ma incerto nel quando, si ponga in contrasto con
l’obbligo per la P.A di concludere il procedimento nel
termine di legge prefissato (art. 2 L. 241/1990); in ogni
caso, tale evento non può surrogare la necessità, espressa
dall’art. 21-quater L. 241/1990 dell'indicazione espressa di
un termine finale di efficacia del provvedimento di
sospensione (TAR Lecce, sez. III, 26/04/2017, n. 636),
eventualmente coincidente con quello necessario per
l’esercizio del potere di autotutela, stante l’impossibilità
per lo stesso dirigente comunale, all’atto dell’adozione del
gravato provvedimento, di ipotizzare un termine certo di
conclusione dell’udienza preliminare.
17. Posto quanto sopra, è evidente che l’Amministrazione
resta in ogni caso titolare del potere di valutare se la
pendenza del procedimento penale costituisca fatto idoneo a
far venire meno gli interessi pubblici di natura urbanistica
sottesi all’originaria lottizzazione, ovvero a verificare se
sussistano le condizioni di legge per poter procedere in
variante, emendando il Piano dagli eventuali profili di
illegittimità riscontrati in sede penale.
Circostanza, quest’ultima, peraltro, già rappresentata dalla
stessa Amministrazione con la nota prot. 11595/16,
genericamente contestata dal ricorrente con l’odierno
gravame, laddove il Comune si riservava di attuare le
procedure in autotutela nel caso di mancato adeguamento, da
parte del Consorzio ricorrente, del Piano di Lottizzazione
alle conclusioni del consulente ratificate dal Consiglio
Comunale.
Costituisce, invero principio pacifico che qualora tra
approvazione del piano attuativo e la stipulazione della
convenzione di lottizzazione, vengano meno i presupposti sui
quali la stessa approvazione è stata fondata, “l'amministrazione,
la quale ben può verificare la persistenza di detti
presupposti fino al momento della stipula (Cons. Stato, sez.
IV, 26.07.2016 n. 3334), non può ritenersi obbligata alla
stipulazione della convenzione, ma valuterà la sussistenza
di ragioni di revoca dell'approvazione, ai sensi dell'art.
21-quinquies l. n. 241/1990", ovvero di annullamento del
piano già approvato, in esercizio del potere di autotutela
(v. sent. Consiglio di Stato n. 4027/2016) (TAR
Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 19.11.2018 n. 1480 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Cessione di cubatura edificabile un fondo in favore di altro
fondo - Condizioni - Requisito della reciproca prossimità -
Omogeneità urbanistica.
La cessione di cubatura, è un istituto
di fonte negoziale ed è consentita a prescindere dalla
comune titolarità dei due terreni, la "cessione" della
cubatura edificabile propria di un fondo in favore di altro
fondo, cosicché, invariata la cubatura complessiva
risultante, il fondo cessionario sarà caratterizzato da un
indice di edificabilità superiore a quello originariamente
goduto.
Tuttavia, tale meccanismo, onde evitare la facile elusione
dei vincoli posti alla realizzazione di manufatti edili in
funzione della corretta gestione del territorio, è soggetto
a determinate condizioni, delle quali le principali, in
vicenda, sono costituite:
a) dall'essere i terreni in questione, se non precisamente
contermini, quanto meno dotati del requisito della reciproca
prossimità;
b) dall'essere i medesimi caratterizzati sia dalla omogeneità
urbanistica, avere, cioè, tutti la stessa destinazione e lo
stesso indice di fabbricabilità originario, perché
altrimenti, in assenza di dette condizioni, attraverso
l'utilizzazione di tale strumento, astrattamente del tutto
legittimo, sarebbe possibile realizzare scopi del tutto
estranei ed, anzi, confliggenti con le esigenze di corretta
pianificazione del territorio.
Significativo il dato fattuale dell'assenza del necessario
requisito della "contiguità" dei fondi, intesa nel senso che
gli stessi, anche in assenza di continuità fisica tra tutte
le particelle catastali interessate dalla nuova costruzione,
devono pur sempre essere caratterizzati da una effettiva e
significativa vicinanza (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.11.2018 n. 51833 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
Rilascio di autorizzazione paesaggistica - Responsabile
dell'ufficio tecnico - Criteri di valutazione - Presupposti
giuridico-fattuali - Falsità ideologica commessa dal
pubblico ufficiale in atti pubblici - Art. 479 cod. pen. -
Giurisprudenza.
Il reato di cui all'art. 479 cod. pen.,
si configuri con il rilascio di autorizzazione
paesaggistica, da parte del responsabile dell'ufficio
tecnico competente, nella consapevolezza della falsità di
quanto attestato dal richiedente circa la sussistenza dei
presupposti giuridico-fattuali per l'accoglimento della
relativa domanda, essendo l'organo competente obbligato a
svolgere in qualunque modo, e non necessariamente con un
sopralluogo, le necessarie preventive verifiche in merito
alla sussistenza delle relative condizioni. Inoltre, va
ricordato il principio secondo il quale è configurabile il
delitto di falso ideologico nella valutazione tecnica
formulata in un contesto implicante l'accettazione di
parametri normativamente predeterminati o tecnicamente
indiscussi (Cass.
Sez. 3, n. 41373 del 17/07/2014, P.M in proc. Pasteris e
altri, che a sua volta richiama Sez. 1, n. 45373 del
10/06/2013, Capogrosso e altro).
Sicché, anche nel caso in cui il pubblico
ufficiale sia libero nella scelta dei criteri di
valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale
e, come tale, il documento che contiene il giudizio non è
destinato a provare la verità di alcun fatto, tuttavia, se
l'atto da compiere fa riferimento, anche implicito, a
previsioni normative che dettano criteri di valutazione, si
è in presenza di un esercizio di discrezionalità tecnica,
che vincola la valutazione ad una verifica di conformità
della situazione fattuale a parametri predeterminati, con
conseguente integrazione della falsità se detto giudizio di
conformità non sia rispondente ai parametri cui esso è
implicitamente vincolato
(Sez. 3, n. 9881 dell'08/02/2018, Costantini ed altri; Sez.
3, n. 2281 del 24/11/2017 (dep. 2018), Siciliano ed altri;
Sez. 3, n. 30040 del 30/01/2018, Strambane; Sez. 3, n. 30025
del 04/12/2017 (dep. 2018), Scrudato; Sez. 3, n. 57120 del
29/09/2017, Borrello ed altro; Sez. 3, n. 57108 del
17/05/2017, Renna; Sez. 3 n. 18890 dell'08/11/2017 (dep.
2018), Renna).
...
Dscrezionalità tecnica - Presupposti e limiti - Reato di
falso ideologico - Configurabilità - Valutazione
normativamente fissati - Criteri tecnici generalmente
accettati - Atto pubblico - Funzione di affidamento -
Fattispecie.
La discrezionalità tecnica deve essere
vincolata alla verifica della conformità della situazione
fattuale alle previsioni normative. Pertanto, il reato di
falso ideologico è pienamente configurabile quando detto
giudizio di conformità non sia rispondente, come nei casi
esaminati, ai parametri normativi richiesti per l'emanazione
di atti amministrativi, che la veridicità di determinate
situazioni fattuali richiedono quali necessari presupposti
per l'integrazione delle fattispecie giuridiche di
riferimento, ossia nei casi in cui l'agente, in presenza di
criteri di valutazione normativamente fissati o anche solo
di criteri tecnici generalmente accettati, se ne discosti
consapevolmente in modo da creare, con la propria idonea e
concreta condotta, una situazione di pericolo per il normale
svolgimento del traffico giuridico, impedendo all'atto
pubblico di adempiere alla funzione di affidamento che gli è
propria.
Nella specie, i provvedimenti autorizzativi rilasciati erano
fondati su presupposti urbanistici e paesaggistici falsi,
contenuti anche nella relazione tecnica e, come tale,
anch'essa falsa (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.11.2018 n. 51833 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Demolizione di un manufatto abusivo - Effetti sul soggetto
che è in rapporto con il bene - Natura di sanzione
amministrativa - Autonoma funzione ripristinatoria -
Principio ne bis in idem e Corte europea dei diritti
dell'uomo - Art. 31, comma 9, D.P.R. n. 380/2001.
La demolizione del manufatto abusivo,
anche se disposta dal giudice penale ai sensi dell'art. 31,
comma 9, D.P.R. n. 380/2001, qualora non sia stata
altrimenti eseguita, ha natura di sanzione amministrativa
che assolve ad un'autonoma funzione ripristinatoria del bene
giuridico leso, configura un obbligo di fare, imposto per
ragioni di tutela del territorio, non ha finalità punitive
ed ha carattere reale, producendo effetti sul soggetto che è
in rapporto con il bene, indipendentemente dall'essere stato
o meno quest'ultimo l'autore dell'abuso.
Sicché, l'imposizione dell'ordine di demolizione di un
manufatto abusivo non comporta la violazione del principio
del "ne bis in idem" convenzionale, come interpretato dalla
sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo nella
causa Grande Stevens c. Italia del 04.03.2014.
...
SENTENZA
Caratteristiche dell'ordine di demolizione - Violazione del
divieto del ne bis in idem - Ordine impartito dal giudice
che configura un obbligo di fare - Prescrizione -
Giurisprudenza della Corte EDU.
Il divieto del ne bis in idem può
ritenersi violato allorquando, per un fatto corrispondente
sotto il profilo storico-naturalistico a quello oggetto di
sanzione penale, sia già stata irrogata all'imputato una
sanzione formalmente amministrativa, della quale venga
riconosciuta natura "sostanzialmente penale"
(Sez. 6, n. 31873 del 09/05/2017, P.G. in proc. Basco),
escludendo, quindi, la sussistenza di una violazione
del principio del "ne bis in idem" convenzionale nel caso in
cui uno dei procedimenti in relazione al quale si invoca il
principio non abbia natura sostanzialmente penale
(Sez. 3, n. 56264 del 18/05/2017, P.G. e altro in proc. Elan
e altro), nonché la sua deducibilità anche
in presenza di una sanzione formalmente amministrativa della
quale venga riconosciuta la natura "sostanzialmente penale"
quando manchi qualsiasi prova della definitività della
irrogazione della sanzione amministrativa medesima
(Sez. 3, n. 19334 del 11/02/2015, Andreatta; Sez. 3, n.
48591 del 26/04/2016, Pellicani).
Inoltre, l'ordine impartito dal giudice,
che configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di
tutela del territorio, non è soggetto alla prescrizione
quinquennale stabilita per le sanzioni amministrative
dall'art. 28 della L. 689/1981, che riguarda le sanzioni
pecuniarie con finalità punitiva
(Sez. 3, n. 16537 del 18/02/2003, Filippi) e, stante la sua
natura di sanzione amministrativa, non si estingue neppure
per il decorso del tempo ai sensi dell'art. 173 cod. pen. (Sez.
3, n. 36387 del 7/7/2015, Formisano; Sez. 3, n. 19742 del
14/04/2011, Mercurio e altro; Sez. 3, n. 43006 del
10/11/2010, La Mela), atteso che quest'ultima disposizione
si riferisce alle sole pene principali (Sez. 3, n. 39705 del
30/4/2003, Pasquale).
Tali principi sono stati ribaditi anche
osservando che, avuto riguardo alle richiamate
caratteristiche dell'ordine di demolizione, lo stesso non
può ritenersi una «pena» nel senso individuato dalla
giurisprudenza della Corte EDU e non è quindi soggetto alla
prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen.
(Sez. 3, n. 49331 del 10/11/2015, P.M. in proc. Delorier) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.11.2018 n. 51044 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Termine
di impugnazione di un permesso di costruire
in sanatoria.
Se è vero che la "piena
conoscenza" cui fa riferimento l'art. 41,
comma 2, c.p.a. non può essere intesa quale
conoscenza integrale dell'atto, è
altrettanto vero che la stessa, per essere
idonea a far decorrere il termine per
l’impugnazione, presuppone la consapevolezza
non solo dell’esistenza dello stesso, ma
altresì della sua portata illegittimamente
lesiva e quindi del suo contenuto
essenziale.
In altre parole, è essenziale che la
conoscenza effettiva dell’atto non copra
solo la sua portata lesiva dell’interesse
del ricorrente, ma deve includere anche
quegli aspetti tali da poter valutare il
provvedimento, non solo svantaggioso, ma
illegittimamente sfavorevole.
Pertanto, la conoscenza dell’effettivo
lesivo implica la conoscenza del contenuto
dell’atto, così da poterne percepire gli
eventuali vizi (nel caso di specie, il
ricorrente attraverso un’istanza di accesso
riferito a un permesso di costruire in
sanatoria ha mostrato solo di conoscere
l’esistenza del titolo edilizio,
manifestando l’interesse a conoscerne il
contenuto, in qualità di confinante, come
specificato nell’istanza stessa; mentre la
percezione dell’effetto lesivo e della sua
supposta illegittimità si è avuta solo con
la successiva cognizione del contenuto
dell’atto)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 09.11.2018 n. 6335 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
Rilevato che:
- la sentenza impugnata -n. 189/2018 del 30.03.2018 del TAR dell’Umbria-
relativa al giudizio promosso da Vi.Ra. per
l’ottemperanza delle sentenze del medesimo
TAR n. 90/2011 e n. 23/2016 (confermate
dalla sentenza del Consiglio di Stato n.
4380/2016) ha: a) dichiarato inammissibile
il ricorso proposto per l’ottemperanza della
sentenza n. 90/2011; b) rigettato la domanda
di nullità del permesso di costruire in
sanatoria n. 21 del 07/07/2017 proposta dal
ricorrente con motivi aggiunti; c) fissato
l’udienza di discussione per l’esame della
domanda di annullamento del predetto
provvedimento nelle forme del rito
ordinario;
- il Comune di Passignano sul Trasimeno e Ag.Im. s.n.c. hanno
proposto appello avverso la predetta
sentenza nella parte in cui ha convertito il
rito e ha rinviato lo scrutinio della
domanda di annullamento dei provvedimenti
impugnati a successiva udienza pubblica,
rigettando l’eccezione preliminare di
decadenza dalla domanda;
- il ricorrente in primo grado (Vi.Ra.) ha proposto appello
incidentale, chiedendo la riforma della
sentenza nella parte in cui ha rigettato,
siccome infondata, la domanda di nullità del
permesso di costruire in sanatoria n. 21 del
07.07.2017;
considerato che:
- nel rispetto dell’ordine logico di esame delle questioni appare
opportuno esaminare in via prioritaria
l’appello incidentale proposto dal
ricorrente in primo grado, volto a
contestare la sentenza impugnata che ha
respinto la domanda di nullità del
provvedimento n. 21 del 07/07/2017; più
precisamente, l’appellante deduce che il
Comune avrebbe violato e/o eluso il
giudicato per aver accolto la domanda di
Agilla Immobiliare e sanato il manufatto
(con diversa destinazione d’uso) a norma
dell’art. 36 D.P.R. n. 380/2001, anziché
avviare e concludere il procedimento
previsto in caso di annullamento di un
titolo edilizio dall’art. 38 dello stesso
Testo Unico, trasfuso nell’art. 149 L.R.U.
n. 1/2015;
- le sentenze, di cui il ricorrente chiede l’ottemperanza, si
limitano a rilevare l’illegittimità del
titolo edilizio, ma non contengono alcun
vincolo che imponga al Comune di procedere
alla demolizione, ovvero di procedere
secondo un iter predeterminato e vincolato;
- in generale, seppur dall’annullamento del titolo edilizio
discenda una condizione di abusività
dell’immobile, anche in base all’art. 38 cit.,
l’amministrazione ha in primo luogo
l’obbligo di verificare la sussistenza delle
condizioni per l’applicazione della
sanatoria prevista dalla stessa norma (ex
multis: Cons. St., Sez. IV, 12.05.2014,
n. 2398);
- nel caso di specie, a valle della sentenza del Consiglio di Stato
n. 4380/2016, che aveva confermato le
sentenze del TAR di annullamento dei titoli
edilizi in base ai quali era stato assentito
il capannone di Ag.Im., l’Amministrazione ha
attivato il procedimento sanzionatorio, a
cui è seguita da parte di Ag.Im. la
presentazione dell’istanza n. 835/2017 per
il rilascio di un permesso di costruire in
sanatoria ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001, a
fronte della quale il Comune si è
determinato con il rilascio del permesso n.
21/2017;
- che quest’ultimo provvedimento, per le considerazioni innanzi
esposte, non si pone in violazione del
giudicato, ben potendo, come in effetti è
avvenuto, essere censurato in sede di
legittimità, ove verrà valutata anche la
dedotta violazione del principio della c.d.
“doppia conformità”;
- infatti, come già ricordato, anche a seguito del giudicato di
annullamento del titolo edilizio,
l’amministrazione, a fronte dell’istanza del
privato tesa alla sanatoria del manufatto,
ben può determinarsi sulla stessa, senza
violare, di per sé, il giudicato, salva
ovviamente la valutazione circa la
legittimità del provvedimento di sanatoria;
- per le ragioni esposte, l’appello di Vi.Ra. non può trovare
accoglimento;
- devono essere rigettate anche le impugnazioni proposte dal Comune
e da An.Im., volte a contestare la
conversione del rito in ordinario, disposta
dal TAR al fine di scrutinare la legittimità
del permesso a costruire in sanatoria; più
precisamente, si deduce la tardività del
ricorso proposto dal ricorrente avverso il
permesso a costruire, assumendo che, anche
in ragione del tenore letterale dell’istanza
di accesso proposta il 04.09.2017, a quella
data, il ricorrente aveva già acquisito la “piena
conoscenza” dell’esistenza e del
contenuto essenziale del permesso di
costruire in sanatoria n. 21/2017;
- la piena conoscenza dell’atto –quando esso non è notificato o
comunicato– costituisce una circostanza di
fatto che deve essere specificatamente
provata da chi eccepisce la tardività del
ricorso;
- l’istanza di accesso proposta dal ricorrente in data 04.09.2017
non rappresenta, a tal fine, una prova
idonea dell’avvenuta conoscenza del
provvedimento di sanatoria successivamente
impugnato, dal momento che dalla stessa
emerge solo che il ricorrente era
consapevole del provvedimento di sanatoria,
non certo del contenuto di questo, di cui ha
preso contezza solo a seguito
dell’ostensione dello stesso in accoglimento
dell’istanza di accesso in data 24/10/2017;
ne consegue che, condivisibilmente, il TAR
ha considerato che il termine dovesse
decorre da tale momento e non dal momento
dell’istanza di accesso;
- se è vero che la "piena conoscenza" cui fa riferimento
l'art. 41, co. 2, CPA, non può essere intesa
quale conoscenza integrale dell'atto, è
altrettanto vero che la stessa, per essere
idonea a far decorrere il termine per
l’impugnazione, presuppone la consapevolezza
non solo dell’esistenza dello stesso, ma
altresì della sua portata illegittimamente
lesiva e quindi del suo contenuto
essenziale; in altre parole, è essenziale
che la conoscenza effettiva dell’atto non
copra solo la sua portata lesiva
dell’interesse del ricorrente, ma deve
includere anche quegli aspetti tali da poter
valutare il provvedimento, non solo
svantaggioso, ma illegittimamente
sfavorevole; pertanto, la conoscenza
dell’effettivo lesivo implica la conoscenza
del contenuto dell’atto, così da poterne
percepire gli eventuali vizi (cfr. Cons. St.,
Sez. VI, 08.02.2007, n. 522);
- nel caso di specie, il ricorrente attraverso l’istanza di accesso
ha mostrato solo di conoscere l’esistenza
del titolo edilizio, manifestando
l’interesse a conoscerne il contenuto, in
qualità di confinante, come specificato
nell’istanza stessa; mentre la percezione
dell’effetto lesivo e della sua supposta
illegittimità si è avuta solo con la
successiva cognizione del contenuto
dell’atto; |
URBANISTICA: Reiterazione
del vincolo espropriativo e onere
motivazionale.
Per la reiterazione del
vincolo è necessaria una motivazione congrua
che valuti l’interesse dell’amministrazione
alla continuazione del vincolo unitamente a
quello del privato al pieno godimento del
proprio bene, alla luce anche del tempo
trascorso dalla prima imposizione e quindi
della durata complessiva del vincolo.
Il TAR Milano ritiene quindi illegittima una
previsione di vincolo –alla quale non ha
fatto peraltro seguito alcun provvedimento
attuativo o esecutivo– reiterata dal Comune
con un generico richiamo alla necessità di
realizzare l’opera pubblica, in mancanza
dell’esplicitazione delle specifiche ragioni
della scelta dell’amministrazione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 09.11.2018 n. 2539 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
2. In sede di adozione della prima variante
al PGT, il Comune decideva di eliminare la
previsione del tratto di pista ciclabile
sull’area di via XX Settembre, pur
confermando la destinazione a parcheggio
dell’area sita invece nel centro storico.
L’esponente presentava la propria
osservazione alla variante così adottata (cfr.
il doc. 5 del resistente), nella quale
chiedeva che la destinazione a parcheggio
pubblico fosse limitata ad una sola porzione
del fondo interessato e non più all’intero
sedime, con possibilità in ogni modo di
acquisire in permuta un’altra area dove era
collocata la ex massicciata ferroviaria.
In sede di controdeduzioni,
l’amministrazione accoglieva formalmente
l’osservazione, seppure a condizione che
fosse realizzata una pista ciclopedonale di
proprietà comunale tra piazza del
Bersagliere e via Benedetto Croce (cfr. la
relazione di controdeduzione alle
osservazioni, doc. 6 del resistente).
In tal modo, la deliberazione di
approvazione definitiva della variante n.
7/2013 (cfr. il doc. 3 della ricorrente e il
doc. 11 del resistente, osservazione n. 16),
introduceva nuovamente la previsione della
realizzazione della pista ciclabile, già
contemplata nell’originario PGT impugnato
col gravame principale e non più indicata
nella delibera di adozione della variante.
Le doglianze dei motivi aggiunti si
indirizzano contro la determinazione di
reintroduzione della destinazione a pista
ciclabile, la quale realizza un vincolo
espropriativo limitativo del diritto di
proprietà della ricorrente.
Tale vincolo, già previsto dal PGT del 2009
(cfr. il doc. 1 della ricorrente e il doc. 4
del resistente), è stato quindi reiterato
nel 2013.
Tale reiterazione deve reputarsi
illegittima, per le ragioni che seguono.
Come noto, ai sensi dell’art. 9, comma 2,
del DPR 327/2001 (Testo Unico sulle
espropriazioni) il vincolo preordinato
all’esproprio ha durata quinquennale e dopo
la decadenza (si veda il comma 4 dell’art.
9), può essere “motivatamente reiterato”.
La giurisprudenza esige per la reiterazione
del vincolo una motivazione congrua, che
valuti l’interesse dell’amministrazione alla
continuazione del vincolo unitamente a
quello del privato al pieno godimento del
proprio bene, alla luce anche del tempo
trascorso dalla prima imposizione e quindi
della durata complessiva del vincolo (cfr.,
fra le tante, TAR Lombardia, Milano, sez. IV,
28.05.2018, n. 1344; TAR Toscana, sez. I,
06.11.2017, n. 1352, con la giurisprudenza
ivi richiamata).
Nel caso di specie, a fronte della
previsione di vincolo del 2009 –alla quale
non ha fatto peraltro seguito alcun
provvedimento attuativo o esecutivo– il
Comune, nell’anno 2013, si è limitato
semplicemente a riaffermare la necessità
della pista ciclopedonale, senza aggiungere
alcunché, quindi con una dichiarazione
sostanzialmente priva di motivazione (cfr.
ancora il doc. 3 della ricorrente, risposta
all’osservazione n. 16 e la relazione
comunale sulle controdeduzioni, doc. 6 del
resistente, pag. 19).
Neppure potrebbe sostenersi che l’onere
motivazionale possa essere assolto con un
generico richiamo alla necessità di
realizzare l’opera pubblica, in mancanza
dell’esplicitazione delle specifiche regioni
della scelta dell’amministrazione.
In definitiva, il ricorso per motivi
aggiunti deve essere accolto, con
conseguente annullamento della norma di
piano che impone il vincolo di cui è causa
sul terreno dell’esponente. |
EDILIZIA PRIVATA:
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Rilascio di titoli
abilitativi edilizi - Regolarità dei procedimenti
amministrativi - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Verifica di atti
della pubblica amministrazione - Insindacabilità in sede di
legittimità - Art. 44, lett. b) d. P R. n. 380/2001.
L'accertamento della correttezza dei
procedimenti amministrativi per il rilascio di titoli
abilitativi edilizi è sostanzialmente riservata al giudice
di merito, poiché presuppone necessariamente la verifica di
atti della pubblica amministrazione, mentre il controllo in
sede di legittimità concerne la correttezza giuridica
dell'accertamento di merito sul punto.
Deve peraltro tenersi conto della natura sommaria del
giudizio cautelare, la quale impedisce una esaustiva
verifica della regolarità dei procedimenti amministrativi,
in quanto l'accertamento dell'esistenza del fumus dei reati
è fondato sulle prospettazioni della pubblica accusa, che
non appaiano errate sul piano giuridico ovvero non siano
contraddette in modo inconfutabile dalla difesa.
Pertanto, è insindacabile, in sede di legittimità, la
regolarità dei procedimenti amministrativi seguiti per il
rilascio di titoli abilitativi edilizi, essendo altresì
precluso alla Corte di cassazione procedere all'accertamento
di eventuali errori di fatto commessi in sede di merito nel
verificare detta regolarità
(Sez. 3, n. 20571 del 28/4/2010, Alberti) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.11.2018 n. 50161- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Aree sottoposte a vincoli -
Realizzazione, modifica o allargamento di una strada -
Permesso di costruire - Necessità - Fattispecie:
realizzazione ex novo di una strada - Artt. 3, 29 e 44
D.P.R. n. 380/2001 - Art. 181, d.lgs. n. 42/2004.
In tema di tutela delle aree sottoposte
a vincoli, non soltanto (a fortiori) la realizzazione di un
nuovo tracciato ma anche la modificazione o l'allargamento
di una preesistente strada deve essere preceduta dal
rilascio della concessione edilizia (ora permesso di
costruire) e dalla autorizzazione dell'autorità proposta
alla tutela del vincolo, atteso che trattasi di
modificazione ambientale di carattere stabile, in assenza
delle quali si configurano i reati di cui agli artt. 44 del
d.P.R. 06.06.2001 n. 380 e 181 del D.Lgs. 22.01.2004 n. 42
(Cass. Sez. 3, n. 33186 del 03/06/2004, Spano; Sez. 3, n.
1442 del 06/11/2012, dep. 2013, Pallone).
Pertanto, la realizzazione ex novo di una
strada -nella specie avvenuta mediante sbancamento del
costone, con lavori peraltro ancora corso al momento
dell'accertamento- è opera che certamente richiede il
rilascio del permesso di costruire, trattandosi di
intervento di urbanizzazione realizzato da soggetto diverso
dal comune, espressamente considerato quale intervento di
nuova costruzione dall'art. 3, comma 1, lett. e.2), d.p.R.
380 del 2001, e che, se ricadente in zona vincolata,
richiede altresì l'autorizzazione paesaggistica, in quanto
potenzialmente idoneo a modificare stabilmente il paesaggio.
...
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Reati ambientali - Interventi
abusivi che ricadono nelle zone sottoposte a vincolo
paesaggistico - Mancata indicazione del provvedimento
impositivo del vincolo.
In materia di reati ambientali, la
fattispecie di cui all'art. 181, comma 1-bis, lett. a), del
D.Lgs. 42 del 2004 -che punisce gli interventi abusivi che
ricadono nelle zone sottoposte a vincolo paesaggistico- è
correttamente contestata quando, pur in assenza di esplicita
menzione dello specifico provvedimento impositivo del regime
vincolistico, sulla base delle altre indicazioni sia
comunque possibile risalire al vincolo gravante sull'area
(Sez. 3, n. 48984 del 21/10/2014, Maresca) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.11.2018 n. 50138 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati edilizi -
Individuazione responsabile dell'abuso edilizio -
Comproprietario non committente - Compartecipazione anche
morale - Necessità - Giurisprudenza.
In tema di reati edilizi,
l'individuazione del comproprietario non committente quale
soggetto responsabile dell'abuso edilizio può essere desunta
da elementi oggettivi di natura indiziaria della
compartecipazione, anche morale, alla realizzazione del
manufatto, ricavabili dalla presentazione della domanda di
condono edilizio, dalla piena disponibilità giuridica e di
fatto del suolo, dall'interesse specifico ad edificare la
nuova costruzione, dai rapporti di parentela o affinità tra
terzo e proprietario, dalla presenza di quest'ultimo in loco
e dallo svolgimento di attività di vigilanza nell'esecuzione
dei lavori o dal regime patrimoniale dei coniugi
(Sez. 3, n. 52040 del 11/11/2014, Langella e a.; Sez. 3, n.
25669 del 30/05/2012, Zeno e a.).
Pena la sostanziale applicazione del
ripudiato principio della responsabilità formale per il mero
possesso della qualità, si è successivamente chiarito che la
prova della responsabilità del proprietario non committente
delle opere abusive non può essere desunta esclusivamente
dalla piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo e
dall'interesse specifico ad edificare la nuova costruzione,
ma necessita di ulteriori elementi, sintomatici della sua
compartecipazione, anche morale, alla realizzazione del
manufatto quali quelli più sopra indicati
(Sez. 3, n. 38492 del 19/05/2016, Avanato).
...
Reati edilizi -
Comproprietario dell'immobile - Responsabilità - Inerzia di
chi non rivesta una posizione di garanzia - Irrilevanza
penale.
In tema di rati edilizi, l'inerzia di
chi non rivesta una posizione di garanzia ai sensi dell'art.
29 d.P.R. 380 del 2001 non ha rilievo penale.
La vera natura di tale ultima disposizione, di fatti, non è
quella di individuare i soggetti attivi di un presunto reato
proprio che, salvo specifiche ipotesi, tale invece non è
(Cass, Sez. 3, Sentenza n. 45146 del 08/10/2015, Fiacchino e
a.), bensì quella di estendere la
responsabilità penale delle figure indicate nel caso di
omesso, costante, controllo, anche sulla condotta altrui,
circa la conformità delle opere in corso d'esecuzione ai
parametri di legalità sostanziale contenuti nel titolo,
negli strumenti urbanistici, nelle disposizioni di legge.
Tale forma di responsabilità non può dunque essere ascritta
a soggetti diversi da quelli indicati nell'art. 29 d.P.R.
380/2001, e quindi non può riguardare il (com)proprietario
dell'immobile sul quale si eseguono i lavori abusivi che
resti del tutto inerte rispetto all'altrui condotta illecita
(Cass., Sez. 3, n. 33387 del 08/06/2018, Nigro e aa.).
...
Costruzione abusiva -
Responsabilità e limiti del proprietario dell'area estraneo
all'attività edificatoria.
Il proprietario di un'area su cui viene
realizzata una costruzione abusiva, il quale sia rimasto
estraneo alla relativa attività edificatoria anche in veste
di semplice committente dei lavori, non ha -perché non
impostogli da alcuna norma di legge- l'obbligo giuridico di
impedire o di denunciare l'attività illecita di costruzione
abusiva da altri su detta area posta in essere
(Sez. 3, 16/05/2000, Molinaro e a.).
Anzi, la previsione contenuta nell'art. 29
d.P.R. 380 del 2001, prevede che, «pur indicando alcuni
soggetti (il titolare della concessione edilizia, il
committente, il costruttore, il direttore dei lavori) che
sono tenuti a garantire la conformità dell'opera alla
concessione edilizia e pertanto sono da ritenere
responsabili dell'eventuale costruzione in assenza di
concessione, tra essi non include il proprietario del
terreno.
Or se non v'è alcuna norma di legge che impone a carico del
proprietario dell'area l'obbligo di impedire la costruzione
abusiva, è da escludere che un tale soggetto possa
rispondere del reato edilizio sol perché è rimasto inerte
dinanzi all'illecito commesso da altri»
(Sez. 3, 04/04/1997, Celi; Sez. 3, 09/01/2003, Costa; Sez.
3, n. 47083 del 22/11/2007, Tartaglia; Sez. 3, n. 44202 del
10/10/2013, Menditto) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.11.2018 n. 50138 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
RIFIUTI - Terre e rocce da scavo - Inserimento nella
categoria dei c.d. sottoprodotti - Condizioni - Onere della
prova - Mancata prova - Reato di inottemperanza
all'ordinanza emessa di ripristino - Artt. 134-bis, 135,
192, 255 D.L.vo n. 152/2006.
L'applicazione della disciplina sulle
terre e rocce da scavo (art. 186, D.Lgs. 03.04.2006, n.
152), nella parte in cui sottopone i materiali da essa
indicati al regime dei sotto-prodotti e non a quello dei
rifiuti, è subordinata alla prova positiva, gravante su chi
intende far valere la sussistenza delle condizioni previste
per la sua operatività, in quanto trattasi di disciplina
avente natura eccezionale e derogatoria rispetto a quella
ordinaria (Sez. 3,
n. 16078 del 10/03/2015, Fortunato).
Nella specie, non risultavano
soddisfatte le condizioni che le terre e rocce da scavo
richiedono per rientrare nella categoria dei c.d.
sottoprodotti e conseguente integrazione del reato previsto
dall'articolo 255, comma 3, del D.L.vo n. 152/2006 (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.11.2018 n. 50134 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Differenza tra manutenzione edilizia ordinaria e
manutenzione delle infrastrutture di rilevanza pubblica -
Differenza tra gestione ordinaria e particolare di categorie
di rifiuti - Attività di gestione di rifiuti non autorizzata
- Artt. 181, 183, 184, 184-bis, 230, 256, 266, d.lgs. n.
152/2006.
Nell'ambito delle speciali categorie di
rifiuti (di cui agli artt. 227 e ss. del n. 152/2006),
l'art. 230 del dlgs n. 152 del 2006 disciplina quelli
derivanti dalla manutenzione delle infrastrutture, non
potendosi ritenere tali i rifiuti derivanti della
svolgimento della ordinaria attività di manutenzione
edilizia ma solo quelli derivante dalla manutenzione delle
infrastrutture di rilevanza pubblica.
Sicché, la disciplina applicabile ai rifiuti derivanti della
svolgimento della normale attività di manutenzione edilizia
è quella ordinaria, (contenuta al titolo I - del capo I -
disposizioni generali, ad es. artt. 181, 183, 184, 184-bis e
del 256, comma 1, lettera a), del dlgs n. 152 del 2006), e
non quella particolare contenuta negli articoli 227 e ss. né
quella di cui all’art. 266, comma 4, del medesimo decreto.
Diversamente opinando, si giungerebbe all'inaccettabile
conseguenza che il produttore di rifiuti potrebbe sia
lasciarli sul luogo di produzione indefinitamente, in tal
modo impedendo ai medesimi di acquisire la qualifica
normativamente significativa di rifiuti, sia, addirittura,
trasferirli, senza che gli stessi acquistino la qualifica di
rifiuti, dal luogo di loro produzione verso un luogo diverso
dalla sua sede o domicilio.
...
RIFIUTI - Nozione di "luogo di produzione del rifiuto" -
Criteri e condizioni - Onere della prova - Giurisprudenza.
In tema di rifiuti, per luogo di
produzione del rifiuto va inteso non solo quello ove lo
stesso è stato materialmente prodotto ma anche quello nella
disponibilità del produttore che sia funzionalmente
collegato al precedente
(Corte di cassazione, Sezione VII penale, 27.04.2016, n.
17333; idem Sezione III penale, 20.02.2013, n. 8061),
incombendo sulla parte privata l'onere di dimostrare
l'esistenza di siffatto collegamento
(Corte di cassazione, Sezione III penale, 26.08.2016, n.
35494), va ricordato che fra le condizioni
necessarie per la individuazione del deposito temporaneo vi
è il divieto incondizionato di permanenza dei rifiuti nel
sito di deposito per un periodo superiore all'anno ovvero,
nel caso in cui gli stessi superino il volume dei 30 mc. al
trimestre
(Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.11.2018 n. 50129 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA:
FAUNA E FLORA – Ambiente – Conservazione degli habitat
naturali - Conservazione della flora e della fauna
selvatiche – DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Progetto di
costruzione stradale – Il committente deve fornire
informazioni relative all’impatto ambientale - VIA VAS AIA –
Valutazione dell’impatto di determinati progetti - Opportuna
valutazione dell’impatto ambientale – Portata dell’obbligo
di motivazione – Perizia scientifica e informazioni
supplementari - Direttiva 2011/92/UE – Portata della nozione
di "principali alternative" - Direttiva 92/43/CEE.
L’articolo 6, paragrafo 3, della
direttiva 92/43/CEE del Consiglio, del 21.05.1992, relativa
alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e
della flora e della fauna selvatiche, deve essere
interpretato nel senso che un’«opportuna valutazione» deve,
da un lato, censire la totalità dei tipi di habitat e
delle specie per i quali un sito è protetto, nonché,
dall’altro, individuare ed esaminare tanto l’impatto del
progetto proposto sulle specie presenti su detto sito, e per
le quali quest’ultimo non è stato registrato, quanto quello
sui tipi di habitat e le specie situati al di fuori dei
confini del suddetto sito, laddove tale impatto possa
pregiudicare gli obiettivi di conservazione del sito.
Pertanto, l’articolo 6, paragrafo 3, della direttiva 92/43
deve essere interpretato nel senso che esso consente
all’autorità competente di autorizzare un piano o un
progetto che lascia il committente libero di determinare
successivamente taluni parametri relativi alla fase di
costruzione, quali l’ubicazione dei cantieri e le vie di
trasporto, solo se è certo che l’autorizzazione stabilisce
condizioni sufficientemente rigorose che garantiscano che
tali parametri non pregiudicheranno l’integrità del sito.
Sempre, l’articolo 6, paragrafo 3, della direttiva 92/43
deve essere interpretato nel senso che, quando l’autorità
competente respinge le conclusioni di una perizia
scientifica che raccomanda l’acquisizione di informazioni
supplementari, l’«opportuna valutazione» deve contenere una
motivazione esplicita e dettagliata, atta a dissipare ogni
ragionevole dubbio scientifico in ordine agli effetti dei
lavori previsti sul sito interessato.
Mentre, l’articolo 5, paragrafi 1 e 3, nonché l’allegato IV
della direttiva 2011/92/UE del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 13.12.2011, concernente la valutazione
dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e
privati devono essere interpretati nel senso che impongono
al committente di fornire informazioni che esaminino
esplicitamente l’impatto significativo del suo progetto su
tutte le specie individuate nella dichiarazione fornita in
applicazione di tali disposizioni.
Infine, l’articolo 5, paragrafo 3, lettera d), della
direttiva 2011/92 deve essere interpretato nel senso che il
committente deve fornire informazioni relative all’impatto
ambientale tanto della soluzione prescelta quanto di
ciascuna delle principali alternative da lui prese in esame,
nonché le ragioni della sua scelta, sotto il profilo,
perlomeno, del loro impatto sull’ambiente, anche in caso di
rigetto, in una fase iniziale, di tale alternativa (Corte
di Giustizia UE, Sez. II,
sentenza 07.11.2018 n. C-461/17 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
RIFIUTI - Deposito temporaneo - Caratteristiche e condizioni
di qualità di tempo e di quantità - Rispetto dei principi di
precauzione e di azione preventiva - Limiti al collegamento
funzionale con il luogo di produzione del rifiuto e la
contiguità delle aree - Artt. 183, 256, d.lgs. n. 152/2006.
In materia di rifiuti, il deposito
temporaneo deve rispettare le condizioni fissate dall'art.
183, lett. m), del D.Lgs. n. 152 del 2006 ed è comunque
soggetto al rispetto dei principi di precauzione e di azione
preventiva in quanto, ai sensi delle direttive comunitarie
in materia e della normativa nazionale attuativa delle
medesime, contenuta nel d.lgs. n. 152 del 2006, il deposito
temporaneo deve osservare precise condizioni di qualità, di
tempo, di quantità, di organizzazione tipologica e di
rispetto delle norme tecniche. Pertanto non rileva il nesso
di collegamento funzionale con il luogo di produzione del
rifiuto e la contiguità delle aree ove essi vengono
raggruppati quando non sono rispettati i principi di
precauzione e di azione preventiva nonché le condizioni
richieste dall'art. 183, lett. bb), del d.lgs. n. 152 del
2006 (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 30.10.2018 n. 49674 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI:
Impugnazione immediata del bando.
Né il codice dei
contratti pubblici del 2006 né quello del
2016 consentono di rinvenire elementi per
pervenire all’affermazione che debba imporsi
all’offerente di impugnare immediatamente la
clausola del bando che prevede il criterio
di aggiudicazione, ove la ritenga errata.
Versandosi nello stato iniziale della
procedura, l'onere di immediata impugnativa
imporrebbe all’offerente di denunciare la
clausola del bando sulla scorta della
preconizzazione di una futura e ipotetica
lesione, per tutelare un interesse
(strumentale alla riedizione della gara),
subordinato rispetto all’interesse primario
(quello a rendersi aggiudicatario) del quale
non sarebbe certa la non realizzabilità
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 24.10.2018 n. 6040 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
1. Il primo motivo di appello, che
contesta la dichiarazione di inammissibilità
del ricorso di primo grado, è fondata.
Infatti, come da Cons. Stato, Ad. plen.,
26.04.2018, n. 4, che conferma
l’orientamento tradizionale,
le clausole del bando di gara prive
di portata escludente vanno impugnate
unitamente al provvedimento lesivo e possono
essere impugnate unicamente dall’operatore
economico che abbia partecipato alla gara o
manifestato formalmente il proprio interesse
alla procedura.
La giurisprudenza ha spesso
puntualizzato che rientrano nel genus
delle “clausole immediatamente escludenti”
le fattispecie di:
a) clausole impositive, ai fini della partecipazione, di oneri
manifestamente incomprensibili o del tutto
sproporzionati per eccesso rispetto ai
contenuti della procedura concorsuale
(Cons. Stato, IV, 07.11.2012, n. 5671);
b) regole che rendano la partecipazione
incongruamente difficoltosa o addirittura
impossibile
(Cons. Stato, Ad. plen., n. 3 del 2001);
c) disposizioni abnormi o irragionevoli che
rendano impossibile il calcolo di
convenienza tecnica ed economica ai fini
della partecipazione alla gara; ovvero
prevedano abbreviazioni irragionevoli dei
termini per la presentazione dell'offerta
(Cons. Stato, V, 24.02.2003, n. 980);
d) condizioni negoziali che rendano il rapporto
contrattuale eccessivamente oneroso e
obiettivamente non conveniente
(Cons. Stato, V, 21.11.2011, n. 6135; id.,
III, 23.01.2015, n. 293);
e) clausole impositive di obblighi contra ius
(es. cauzione definitiva pari all'intero
importo dell'appalto:
Cons. Stato, II, 19.02.2003, n. 2222);
f) bandi con gravi carenze nell'indicazione di
dati essenziali per la formulazione
dell'offerta (come ad esempio quelli
relativi al numero, qualifiche, mansioni,
livelli retributivi e anzianità del
personale destinato ad essere assorbiti
dall'aggiudicatario), ovvero che presentino
formule matematiche del tutto errate
(come quelle per cui tutte le offerte
conseguono comunque il punteggio di "0"
punti);
g) atti di gara del tutto mancanti della
prescritta indicazione nel bando di gara dei
costi della sicurezza "non soggetti a
ribasso"
(Cons. Stato, III, 03.10.2011, n. 5421).
Le rimanenti clausole, non
immediatamente lesive, vanno impugnate con
l'atto di approvazione della graduatoria
definitiva, che definisce la procedura
concorsuale ed identifica in concreto il
soggetto leso dal provvedimento, rendendo
attuale e concreta la lesione della
situazione soggettiva
(Cons. Stato, V, 27.10.2014, n. 5282)
e postulano la preventiva
partecipazione alla gara.
Pertanto, né il Codice dei
contratti pubblici del 2006 né il quello del
2016 consentono di rinvenire elementi per
pervenire all’affermazione che debba imporsi
all’offerente di impugnare immediatamente la
clausola del bando che prevede il criterio
di aggiudicazione, ove la ritenga errata:
versandosi nello stato iniziale della
procedura, non vi sarebbe infatti base per
assumere l’impugnante non sarebbe divenuto
aggiudicatario. Sicché si imporrebbe
all’offerente di denunciare la clausola del
bando sulla scorta della preconizzazione di
una futura ed ipotetica lesione, per
tutelare un interesse (strumentale alla
riedizione della gara), subordinato rispetto
all’interesse primario (quello a rendersi
aggiudicatario), del quale non sarebbe certa
la non realizzabilità.
Imporre l’immediata
impugnazione di qualsiasi clausola del
bando, in questo contesto, rischierebbe di
produrre le seguenti conseguenze:
a) tutte le offerenti che ritengano di potere
prospettare critiche avverso prescrizioni
del bando pur non rivestenti portata
escludente sarebbero incentivate a proporre
immediatamente l’impugnazione (nella
certezza che non potrebbero proporla
successivamente);
b) al contempo, in vista del perseguimento del
loro obiettivo primario (quello
dell’aggiudicazione) esse sarebbero tentate
di dilatare in ogni modo la tempistica
processuale (in primis omettendo di
proporre la domanda cautelare), così
consentendo alla stazione appaltante di
proseguire nell’espletamento della gara, in
quanto, laddove si rendessero aggiudicatarie
prima che il ricorso proposto avverso il
bando pervenga alla definitiva decisione,
esse potrebbero rinunciare al detto ricorso
proposto avverso il bando, avendo conseguito
l’obiettivo primario dell’aggiudicazione;
c) soltanto se non si rendessero aggiudicatarie, a
quel punto, coltiverebbero l’interesse
strumentale alla riedizione della procedura
di gara incentrato sul ricorso già proposto
avverso il bando. |
LAVORI PUBBLICI:
Appalto di opere pubbliche - Esecuzione dei lavori - Mancata
acquisizione delle autorizzazioni amministrative o
rinnovazione delle autorizzazioni - Compito del committente
salvo specifiche pattuizioni contrarie - Art. 1206 cod. civ.
- Sospensioni disposte nel corso dei lavori di costruzione -
Risarcimento dei danni all'appaltatore - Giurisprudenza.
In tema di appalto di opere pubbliche,
le ragioni di pubblico interesse o necessità che possono
giustificare la sospensione dei lavori vanno essenzialmente
identificate in esigenze pubbliche oggettive e sopravvenute,
non previste né prevedibili da parte dell'Amministrazione
con l'uso dell'ordinaria diligenza, e non possono quindi
essere invocate al fine di porre rimedio a negligenza o
imprevidenza della committente
(Cass., Sez. VI, 25/10/2012, n. 18239; Cass., Sez. I,
22/07/2004, n. 13643; 11/04/2002, n. 5135).
Sicché, l'acquisizione delle autorizzazioni
amministrative necessarie per l'esecuzione dei lavori spetta
al committente, che, in qualità di titolare dell'opera da
realizzare, è tenuto a procurarsele, in osservanza del
dovere, discendente dall'art. 1206 cod. civ. e più in
generale dai principi di correttezza e buona fede oggettiva,
di cooperare all'adempimento dell'appaltatore, ponendo in
essere tutte quelle attività, distinte dal comportamento
dovuto da quest'ultimo, necessarie affinché egli possa
realizzare il risultato cui è preordinato il rapporto
obbligatorio (cfr.
Cass., Sez. I, 05/06/2014, n. 12698; 29/04/2006, n. 10052;
Cass., Sez. II, 22/11/2013, n. 26260).
Nella specie, in assenza di specifiche
pattuizioni, la cui stipulazione non è stata nemmeno
prospettata, volte a trasferire il predetto obbligo a carico
dell'appaltatore, il committente deve altresì provvedere, se
necessario, alla rinnovazione di tali autorizzazioni, la cui
scadenza, che impedisca la prosecuzione dei lavori, non
costituisce affatto un evento imprevisto ed imprevedibile,
configurandosi piuttosto come inadempimento della stazione
appaltante, tenuta ad attivarsi tempestivamente, con la
conseguente impossibilità di porvi rimedio attraverso la
sospensione, a meno che le parti non raggiungano un accordo
in tal senso. Fattispecie: illegittimità delle sospensioni
disposte nel corso dei lavori di costruzione della rete
fognaria nera e delle stazioni di sollevamento degli
impianti (Corte
di Cassazione, Sez. I civile,
ordinanza 12.10.2018 n. 25554 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La cd. cessione di cubatura presuppone il
perfezionamento di un accordo con il quale una parte (il
proprietario cedente) si impegna a prestare il proprio
consenso affinché la cubatura (o una parte di essa) che gli
compete in base agli strumenti urbanistici venga attribuita
dalla P.A. al proprietario del fondo vicino (cessionario),
compreso nella stessa zona urbanistica, cosi consentendogli
di chiedere ed ottenere una concessione per la costruzione
di un immobile di volume maggiore di quello cui avrebbe
avuto altrimenti diritto.
Il trasferimento di cubatura tra le parti e nei confronti
dei terzi consegue, tuttavia, esclusivamente al
provvedimento concessorio, discrezionale e non vincolato,
che, a seguito della rinuncia all'utilizzazione della
volumetria manifestata al Comune dal cedente, aderendo al
progetto edilizio presentato dal cessionario, può essere
emanato dall'ente pubblico a favore del cessionario.
Tale accordo, quindi, ha un'efficacia meramente obbligatoria
tra i suoi sottoscrittori e non è, quindi configurabile come
un contratto traslativo (e, tanto meno, costitutivo) di un
diritto reale opponibile ai terzi.
---------------
7. Con il quarto motivo, i ricorrenti, lamentando la
violazione degli artt. 277 c.p.c., 118 disp. att. c.p.c., 17
della l. n. 765 del 1967, 1027, 1062, 1063, 1064, 1072,
1073, 1074 e 1075 c.c., per l'erronea applicazione di norme
di legge, carenza e contraddittorietà della motivazione
circa un punto decisivo della controversia prospettato dai
ricorrenti, in relazione all'art. 360 n. 3 e n. 5 c.p.c.,
hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la
corte d'appello ha rigettato la domanda con la quale era
stato chiesto che si dichiarasse che la parte convenuta non
ha il diritto di edificare sul proprio terreno in quanto
asservito da An.Co. all'unità immobiliare dei ricorrenti,
come risulta tanto dall'atto del 28/07/1977, con il quale il
lotto è stato venduto dalla Co. in favore del Biondi, che
poi lo ha venduto ai ricorrenti, tanto dall'atto
dell'01/02/1995, con il quale il fondo limitrofo è stato
venduto dalla stessa Co. ai coniugi Fo./Mi..
L'asservimento operato dalla Co., originaria proprietaria di
tutti i terreni, hanno aggiunto i ricorrenti, si configura,
in realtà, come l'istituzione, per destinazione del padre di
famiglia, di una servitù di non edificabilità dei terreni,
tra cui quello venduto ai coniugi Fonti/Milana, con la
conseguente impossibilità assoluta, per detti terreni, di
essere edificati, essendo la loro volumetria e cubatura già
stata utilizzata in favore del fondo dei ricorrenti.
8. Il motivo è infondato.
Questa Corte ha avuto già modo di affermare che la cd.
cessione di cubatura presuppone il perfezionamento di un
accordo con il quale una parte (il proprietario cedente) si
impegna a prestare il proprio consenso affinché la cubatura
(o una parte di essa) che gli compete in base agli strumenti
urbanistici venga attribuita dalla P.A. al proprietario del
fondo vicino (cessionario), compreso nella stessa zona
urbanistica, cosi consentendogli di chiedere ed ottenere una
concessione per la costruzione di un immobile di volume
maggiore di quello cui avrebbe avuto altrimenti diritto
(Cass. n. 20623 del 2009; Cass. n. 12631 del 2016, in
motiv.).
Il trasferimento di cubatura tra le parti e nei confronti
dei terzi consegue, tuttavia, esclusivamente al
provvedimento concessorio, discrezionale e non vincolato,
che, a seguito della rinuncia all'utilizzazione della
volumetria manifestata al Comune dal cedente, aderendo al
progetto edilizio presentato dal cessionario, può essere
emanato dall'ente pubblico a favore del cessionario (Cass.
n. 1352 del 1996, in motiv.; Cass. n. 20623 del 2009 in
motiv.).
Tale accordo, quindi, ha un'efficacia meramente obbligatoria
tra i suoi sottoscrittori e non è, quindi configurabile come
un contratto traslativo (e, tanto meno, costitutivo) di un
diritto reale opponibile ai terzi (Corte di Cassazione, Sez.
II civile,
sentenza 10.10.2018 n.
24948). |
EDILIZIA PRIVATA: Misure
di salvaguardia, determinazione degli
standard e quantificazione del contributo di
costruzione.
Le misure di
salvaguardia sono unicamente finalizzate ad
evitare l’immediata realizzazione di
interventi che ledano le scelte
programmatorie del Comune, quali risultanti
dall’adozione del nuovo piano, ma non si
traducono in una applicazione anticipata
delle previsioni contenute in quest’ultimo.
In particolare, ove l’intervento risulti in
sé legittimo e, come tale, si sottragga alla
preclusione temporanea di cui all’articolo
12, comma 3, del D.P.R. 380/2001, non può
neppure configurarsi la ratio sottesa alle
misure di salvaguardia, al solo fine di dare
attuazione anticipata alle diverse regole in
tema di determinazione degli standard e
quantificazione del contributo di
costruzione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 31.08.2018 n. 2039 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
A non diversa conclusione può condurre la
ritenuta applicazione delle nuove
disposizioni del P.G.T. operante in regime
di salvaguardia.
Infatti, occorre
considerare che “la normativa relativa alle
misure di salvaguardia ha lo scopo di
evitare la realizzazione di interventi che
nelle more dell'approvazione degli strumenti
urbanistici adottati possono compromettere
l'assetto del territorio programmato dal
Comune, vanificandone la sua concreta
attuazione e […], proprio per ovviare a tali
inconvenienti, la legge ha stabilito che a
decorrere dalla data della deliberazione di
adozione dei piani regolatori generali e
fino all'emanazione del decreto di
approvazione il dirigente dell'ufficio
comunale sia obbligato a sospendere ogni
determinazione in ordine ai progetti che
risultino in contrasto con le relative
previsioni” (Consiglio di Stato, sez. IV, 20.01.2014, n. 257).
Le misure di salvaguardia sono, quindi,
unicamente finalizzate ad evitare
l’immediata realizzazione di interventi che
ledano le scelte programmatorie del Comune –quali risultanti dall’adozione del nuovo
piano–, ma non si traducono in una
applicazione anticipata delle previsioni
contenute in quest’ultimo. In particolare,
ove l’intervento risulti in sé legittimo e,
come tale, si sottragga alla preclusione
temporanea di cui all’articolo 12, comma 3,
del D.P.R. 380/2001, non può neppure
configurarsi la ratio sottesa alle misure di
salvaguardia, al solo fine di dare
attuazione anticipata alle diverse regole in
tema di determinazione degli standard e
quantificazione del contributo di
costruzione.
Né convince il richiamo effettuato in
memoria di replica dal Comune di Milano alla
sentenza del Consiglio di Stato, Sez. IV, 20.04.2016, n. 1558. Difatti,
l’affermazione del Giudice d’Appello
(secondo cui “La tesi principale di parte
appellante (secondo cui le misure di
salvaguardia non si estendevano alle
disposizioni “procedimentali” contenute nel
regolamento urbanistico) è palesemente
destituita di fondamento: allorché il
pianificatore compie una scelta, stabilendo
quale titolo abilitativo debba trovare
applicazione in relazione alla singola
tipologia di opera erigenda nella singola
area, all’evidenza compie una valutazione
urbanistica, né più e né meno di quelle
dirette ad imprimere una certa destinazione
ad un’area del territorio comunale”) non è,
invero, sovrapponibile al caso in esame.
Infatti, nel caso esaminato dal Consiglio di
Stato, si tratta di dare applicazione ad una
previsione che determina il titolo
abilitativo necessario. Situazione ben
diversa dal caso di specie ove, al
contrario, vengono applicate, a titolo di
misure di salvaguardia, le previsioni sulle
determinazioni degli standard e del
contributo di costruzione di interventi
abilitati da un titolo legittimamente
formatosi nella vigenza del precedente
strumento urbanistico, sicché di questo il
titolo edilizio segue integralmente il
regime.
2.5. In ragione delle considerazioni
espresse, il primo motivo deve essere
accolto con annullamento in parte qua degli
atti impugnati e conseguente obbligo del
Comune di rideterminare le somme dovute in
considerazione della normativa vigente
all’epoca di formazione del relativo titolo
edilizio. Il calcolo degli standard relativi
al nuovo permesso di costruire deve quindi
essere condotto solo sulla s.l.p. di 123,74
mq che, come dedotto in via di subordine dal
Comune, tiene conto delle riduzioni in
precedenza operate, considerato che il
permesso di costruire viene rilasciato per
un ampliamento di 204,17 mq. |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA:
VIA VAS AIA – Ambiente progetti pubblici e privati –
Omissione della valutazione di impatto ambientale di un
progetto - Possibilità di procedere, a posteriori, alla
valutazione a titolo di regolarizzazione - DIRITTO
DELL'ENERGIA - Impianto per la produzione di energia da
biogas già in funzione al fine di ottenere una nuova
autorizzazione - DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Impatto
ambientale intervenuto a partire dalla realizzazione
dell'opera – Direttiva 85/337/CEE – Direttiva 2011/92/UE.
In caso di omissione di una valutazione
di impatto ambientale di un progetto prescritta dalla
direttiva 85/337/CEE del Consiglio, del 27.06.1985,
concernente la valutazione dell’impatto ambientale di
determinati progetti pubblici e privati, come modificata
dalla direttiva 2009/31/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 23.04.2009, il diritto dell’Unione, da un
lato, impone agli Stati membri di rimuovere le conseguenze
illecite di tale omissione e, dall’altro, non osta a che una
valutazione di tale impatto sia effettuata a titolo di
regolarizzazione, dopo la costruzione e la messa in servizio
dell’impianto interessato, purché le norme nazionali che
consentono tale regolarizzazione non offrano agli
interessati l’occasione di eludere le norme di diritto
dell’Unione o di disapplicarle e la valutazione effettuata a
titolo di regolarizzazione non si limiti alle ripercussioni
future di tale impianto sull’ambiente, ma prenda in
considerazione altresì l’impatto ambientale intervenuto a
partire dalla sua realizzazione (Corte
di Giustizia UE, Sez. I,
sentenza 26.07.2018 cause riunite C-196/16 e C-197/16 - link a www.ambientediritto.it). |
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