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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di DICEMBRE 2018

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aggiornamento al 31.12.2018

aggiornamento al 06.12.2018

aggiornamento al 03.12.2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 31.12.2018

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ZONE SISMICHE:
a bassa sismicità è solo la zona 4!!
Ecco la 2^ sentenza in ordine di tempo, in diversa composizione del collegio giudicante, che conferma quella di fine anno 2017 che tanto scalpore ha destato e per la quale, ad oggi, nessuno (Consiglio Superiore LL.PP., M.I.T., Governo) ha posto rimedio.

EDILIZIA PRIVATA: In conseguenza dell'eliminazione di quello che, in precedenza, era definito "territorio non classificato" e considerando che è attualmente prevista la facoltatività della prescrizione dell'obbligo della progettazione antisismica per le opere rientranti nella zona 4, alla stessa devono ritenersi corrispondenti le aree a bassa sismicità, di cui al combinato disposto degli artt. 83 e 94 d.PR. 380/2001.
Altresì, il reato di omessa denuncia lavori in zona sismica, previsto dall'art. 93 d.P.R. 380/2001, è configurabile anche in caso di esecuzione di opere in zona inclusa tra quelle a basso indice sismico, atteso che l'art. 83, comma secondo, del citato decreto, non pone alcuna distinzione in merito alle categorie delle zone medesime.
---------------
Quanto alla consistenza delle opere, occorre ricordare che la giurisprudenza di questa Corte ha, in più occasioni, delimitato l'ambito di applicazione della normativa sulle costruzioni in zona sismica con riferimento alla natura degli interventi realizzati.
Seppure, in un primo tempo, si sia affermato che la funzione di salvaguardia della pubblica utilità perseguita porta ad escluderne l'applicazione per gli interventi che non interessano la pubblica incolumità, quali quelli di manutenzione ordinaria o straordinaria del patrimonio edilizio già esistente, si è successivamente chiarito che la natura delle opere è irrilevante e ciò in quanto la violazione delle norme antisismiche richiede soltanto l'esecuzione di lavori edilizi in zona sismica.
Altrettanto inconferente è stata ritenuta la natura dei materiali usati e delle strutture realizzate, in quanto le disposizioni relative alla disciplina antisismica hanno una portata particolarmente ampia e si applicano a tutte le costruzioni la cui sicurezza possa comunque interessare la pubblica incolumità.
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1. Il ricorso è inammissibile.
2. Occorre rilevare, con riferimento al primo motivo di ricorso, la collocazione del comune di Licata tra le zone con grado di sismicità 4, caratterizzate da pericolosità sismica molto bassa, come risulta dall'imputazione e dalla sentenza impugnata. Sulla base di tale evenienza la ricorrente assume, del tutto apoditticamente, che il giudice del merito non avrebbe dovuto affermare la sua responsabilità penale.
A tale proposito richiama una recente pronuncia di questa Corte (Sez. 3, n. 56040 del 15.12.2017, D'Alessio, non massimata) la quale, considerando la eliminazione del territorio non classificato e la previsione della facoltatività della prescrizione dell'obbligo della progettazione antisismica per le opere rientranti nella zona 4, individua, in mancanza di altre definizioni normative, come aree a bassa sismicità, di cui al combinato disposto degli artt. 83 e 94 d.P.R. 380/2001, solamente quelle ricomprese nella zona 4.
3. Le conclusioni cui perviene la richiamata decisione sono pienamente condivisibili.
La sentenza richiama, infatti, il contenuto dell'art. 94 d.P.R. 380/2001 nella parte in cui, al primo comma, esclude la necessità della preventiva autorizzazione scritta del competente Ufficio regionale per le opere da realizzare in località a bassa sismicità, all'uopo indicate nei decreti di cui all'articolo 83 del medesimo decreto, ricordando anche come il secondo comma di tale ultima disposizione preveda la definizione, con decreto del Ministro per le infrastrutture e i trasporti, di concerto con il Ministro per l'interno, sentiti il Consiglio superiore dei lavori pubblici, il Consiglio nazionale delle ricerche e la Conferenza unificata, dei criteri generali per l'individuazione delle zone sismiche e dei relativi valori differenziati del grado di sismicità, da prendere a base per la determinazione delle azioni sismiche e di quant'altro specificato dalle norme tecniche.
La decisione chiarisce, poi, che a tale fine è stata emanata l'ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3274 del 20.03.2003 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 105 dell'08.05.2003), con la quale sono stati dettati i principi generali sulla base dei quali le Regioni, a cui lo Stato ha delegato l'adozione della classificazione sismica del territorio, hanno redatto l'elenco dei comuni con la relativa attribuzione a una delle quattro zone, a pericolosità decrescente, nelle quali è stato riclassificato il territorio nazionale. Ciò ha comportato, ricorda sempre la sentenza D'Alessio, l'eliminazione del territorio "non classificato" e l'introduzione della zona 4, rispetto alla quale è data alle Regioni la facoltà di prescrivere l'obbligo della progettazione antisismica, da considerarsi quindi, in assenza di ulteriori specificazioni, come a bassa sismicità.
4. Occorre pertanto ribadire che in conseguenza dell'eliminazione di quello che, in precedenza, era definito "territorio non classificato" e considerando che è attualmente prevista la facoltatività della prescrizione dell'obbligo della progettazione antisismica per le opere rientranti nella zona 4, alla stessa devono ritenersi corrispondenti le aree a bassa sismicità, di cui al combinato disposto degli artt. 83 e 94 d.PR. 380/2001.
5. Ciò posto, va anche ricordato come, in maniera altrettanto condivisibile, la giurisprudenza di questa Corte abbia ripetutamente affermato che il reato di omessa denuncia lavori in zona sismica, previsto dall'art. 93 d.P.R. 380/2001, è configurabile anche in caso di esecuzione di opere in zona inclusa tra quelle a basso indice sismico, atteso che l'art. 83, comma secondo, del citato decreto, non pone alcuna distinzione in merito alle categorie delle zone medesime (Sez. 3, n. 30651 del 20/12/2016 (dep. 2017), Rubini ed altro, Rv. 270233; Sez. 3, n. 22312 del 15/02/2011, Morini, Rv. 250369).
Alla odierna ricorrente è stato contestato anche il reato di cui al menzionato art. 93 d.P.R. 380/2001, sicché è evidente come le osservazioni formulate nel motivo di ricorso in esame siano del tutto inconferenti.
6. Per ciò che concerne, poi, l'ulteriore contestazione della violazione sanzionata dall'
art. 94, osserva il Collegio come il motivo di ricorso si risolva, sul punto, in una mera asserzione, non essendo stato in alcun modo specificato per quali ragioni il giudice avrebbe errato nell'affermare la responsabilità dell'imputata, dal momento che la mera collocazione del territorio del comune dove insistono le opere abusivamente realizzate in zona 4 non esclude automaticamente la necessità del titolo abilitativo, ben potendo la Regione prevedere comunque, come si è appena visto, tale obbligo.
La ricorrente non fornisce alcun elemento che consenta di ritenere che la Regione non abbia utilizzato tale facoltà ed, anzi, una esplicita smentita si rinviene nella Deliberazione n. 408 del 19.12.2003, recante "Individuazione, formazione ed aggiornamento dell'elenco delle zone sismiche ed adempimenti connessi al recepimento ed attuazione dell'Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri 20.03.2003, n. 3274" e nell'allegato decreto dirigenziale del 15/01/2004, ove, nell'art. 5, si afferma la volontà di "introdurre l'obbligo della progettazione antisismica anche per i Comuni classificati sismicamente in zona 4, sia per la progettazione delle nuove costruzioni che per gli interventi sul patrimonio edilizio esistente, fermi restando i contenuti semplificati delle norme tecniche e il regime transitorio previsto dall'Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3274 del 20.03.2003".
...
8. Quanto alla consistenza delle opere, che la ricorrente ritiene modesta, occorre ricordare che la giurisprudenza di questa Corte ha, in più occasioni, delimitato l'ambito di applicazione della normativa sulle costruzioni in zona sismica con riferimento alla natura degli interventi realizzati.
Seppure, in un primo tempo, si sia affermato che la funzione di salvaguardia della pubblica utilità perseguita porta ad escluderne l'applicazione per gli interventi che non interessano la pubblica incolumità, quali quelli di manutenzione ordinaria o straordinaria del patrimonio edilizio già esistente (Sez. 3, n. 10188 del 10/07/1981, Filloramo, Rv. 150961), si è successivamente chiarito che la natura delle opere è irrilevante e ciò in quanto la violazione delle norme antisismiche richiede soltanto l'esecuzione di lavori edilizi in zona sismica (Sez. 3, n. 46081 del 08/10/2008, Sansone, Rv. 241783). Il principio è stato successivamente ribadito (Sez. 3, n. 34604 del 17/06/2010, Todaro, Rv. 248330).
Altrettanto inconferente è stata ritenuta la natura dei materiali usati e delle strutture realizzate, in quanto le disposizioni relative alla disciplina antisismica hanno una portata particolarmente ampia e si applicano a tutte le costruzioni la cui sicurezza possa comunque interessare la pubblica incolumità (cfr. Sez. 3, n. 24086 del 11/04/2012, Di Nicola, Rv. 253056; Sez. 3, n. 6591 del 24/11/2011 (dep. 2012), D'Onofrio, Rv. 252441; Sez. 3, n. 30224 del 21/06/2011, Floridia, Rv. 251284; Sez. 3, n. 23076 del 27/04/2011, Coppa, non massimata; Sez. 3, n. 33767 del 10/05/2007, Puleo, Rv. 237375; Sez. 3, n. 38142 del 26/09/2001, Tucci, Rv. 220269).
Nel caso di specie, peraltro, si tratta comunque di opere di una certa consistenza, come emerge dalla semplice lettura dell'imputazione, riferita a realizzazione di manufatti adibiti a box, deposito, ricovero autoclave, chiosco bar, laboratorio di pasticceria etc.
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.11.2018 n. 51600).

EDILIZIA PRIVATA: Reato di omessa denuncia lavori in zona sismica - Aree a bassa sismicità - Obbligo della progettazione antisismica - Introduzione della zona 4 - Facoltà per le Regioni - Disciplina applicabile - Artt. 83, 93, 94 e 95 d.PR. 380/2001.
In conseguenza dell'eliminazione di quello che, in precedenza, era definito "territorio non classificato" e considerando che è attualmente prevista la facoltatività della prescrizione dell'obbligo della progettazione antisismica per le opere rientranti nella zona 4, alla stessa devono ritenersi corrispondenti le aree a bassa sismicità.
Pertanto, in mancanza di altre definizioni normative, per le opere rientranti nella zona 4, devono ritenersi corrispondenti le aree a bassa sismicità, di cui al combinato disposto degli artt. 83 e 94 d.P.R. 380/2001.
Sicché, il reato di omessa denuncia lavori in zona sismica, previsto dall'art. 93 d.PR. 380/2001, è configurabile anche in caso di esecuzione di opere in zona inclusa tra quelle a basso indice sismico, atteso che l'art. 83, comma secondo, del d.PR. 380/2001, non pone alcuna distinzione in merito alle categorie delle zone medesime.

...
Zona sismica - Esecuzione di lavori edilizi - Consistenza delle opere "modesta entità" - Natura dei materiali usati e delle strutture realizzate - Progettazione - Necessità - Tutela normativa - Pubblica incolumità e sicurezza delle costruzioni - Giurisprudenza.
In materia di progettazione in zona sismica, la natura delle opere è irrilevante e ciò in quanto la violazione delle norme antisismiche richiede soltanto l'esecuzione di lavori edilizi in zona sismica.
Altrettanto inconferente è ritenuta la natura dei materiali usati e delle strutture realizzate, in quanto le disposizioni relative alla disciplina antisismica hanno una portata particolarmente ampia e si applicano a tutte le costruzioni la cui sicurezza possa comunque interessare la pubblica incolumità.
Nel caso di specie, peraltro, si tratta comunque di opere di una certa consistenza, come emerge dalla semplice lettura dell'imputazione, riferita a realizzazione di manufatti adibiti a box, deposito, ricovero autoclave, chiosco bar, laboratorio di pasticceria etc.
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.11.2018 n. 51600 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Grisanti, La Cassazione torna sull'obbligo dell'autorizzazione sismica nelle zone 3 e 4 (commento a Cassazione, Sez. III penale, n. 51600 depositata il 15.11.2017) (17.12.2018 - link a www.lexambiente.it).

     C'è da dire, al riguardo, che poco dopo la 1^ sentenza del 2017 la Regione Toscana ha chiesto lumi a Roma ma ad oggi, come già anticipato più sopra, tutto tace. Nello specifico:

   1-0- nota 16.01.2018 n. T/22340/A.060.010 di prot. (Regione Toscana);
   1-1- Oggetto: Legge 64/1974, Classificazione sismica del Comune di Tignale. Brescia (Consiglio Superiore dei LL.PP., Sez. I, parere 16.11.2005 n. 234 di prot.);
   1-2- Oggetto: Applicazione del D.M. 14.09.2005, recante "Norme tecniche per le costruzioni" (Consiglio Superiore dei LL.PP., Sez. I, parere 13.12.2005 n. 264 di prot.);
   1-3- Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 18.04.2012 n. 2275;
   1-4- TAR Liguria, Sez. I, sentenza 03.12.2015 n. 996;
   2- Oggetto: Richiesta di parere sul regime dei controlli delle costruzioni in zone sismiche. Artt. 83, 93 e 94 del DPR 380/2001 (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per gli Affari Regionali e le Autonomie, nota 29.01.2018 n. 1637 di prot.);
   3- Sentenze Corte di Cassazione, Sez. penale, 05.07.2017 n. 56040 e 14.11.2017, n. 2118 (190/2018) - Artt. 93 e 94 D.P.R. 06.06.2001, n. 380 recante ‟TESTO UNICO DELLE DISPOSIZIONI LEGISLATIVE E REGOLAMENTARI IN MATERIA EDILIZIA” - Ordine del giorno di impegno per il Governo (Conferenza delle Regioni ed elle Province autonome, ordine del giorno 19.04.2018 n. 18/45/SRFS/C4);
   4- Oggetto: Interpretazione sulla classificazione delle zone sismiche in relazione all’attivazione dei controlli sulle costruzioni edilizie di cui agli artt. 93 e 94 del D.P.R. 380/2001, nell’ambito delle competenze esclusive dello Stato di cui all’art. 83 del medesimo D.P.R. (Consiglio Superiore dei LL.PP., Servizio Tecnico Centrale, nota 17.07.2018 n. 6602 di prot.),

     Ebbene, La Conferenza delle Regioni del 19.04.2018 "chiede al Governo una disciplina chiara sulla individuazione delle zone a bassa sismicità, eliminando possibili dubbi interpretativi sulla classificazione sismica del territorio.
     I dubbi derivano dalla recente giurisprudenza della Cassazione penale che ha classificato aree a bassa sismicità quelle inserite in zona 4 determinando così rilevanti conseguenze sugli edifici pubblici realizzati nelle aree in zona 3 antecedentemente considerate, su indirizzo del Consiglio Superiore dei lavori pubblici, aree a bassa sismicità. Siffatta interpretazione resa dalla Cassazione penale, potrebbe, infatti, metterne in discussione la sicurezza e quindi l'uso con rilevanti conseguenze.
     Le Regioni hanno dato la propria disponibilità al Governo al fine di pervenire all’adozione di un provvedimento che elimini l’ambiguità delle attuali regole in materia sismica in relazione ai ruoli e alle funzioni di Stato, Regioni ed Enti Locali. In particolare per quanto attiene alla definizione dei criteri necessari per la puntuale individuazione delle zone a bassa sismicità e la definizione dei livelli di sicurezza accettabili per le costruzioni esistenti.
     Si chiede, quindi, di adottare un provvedimento provvisorio con forza di legge per chiarire l'individuazione delle “zone a bassa sismicità” oggetto di interventi edilizi.
     Le regioni chiedono pertanto al Governo di impegnare il Tavolo Tecnico presso il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici per l’introduzione di specifiche norme
".
     Ma a distanza di oltre otto mesi a questa parte tale "provvedimento provvisorio con forza di legge" chi l'ha visto??

31.12.2018 - LA SEGRETERIA PTPL

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: La presentazione dell’istanza di accertamento di conformità produce l’effetto di rendere inefficace l’ordinanza di demolizione delle opere abusive comportando la necessità di un nuovo provvedimento sanzionatorio con l’assegnazione di un nuovo termine per adempiere, allo stato non emanato.
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Il PGT non può prevedere una norma tecnica che vieti la modifica di destinazione d’uso degli edifici condonati.
Se la zona in cui insiste un edificio condonato ammette una determinata destinazione è illegittima l’ulteriore norma tecnica che –creando una artificiale distinzione tra edifici condonati ed edifici autorizzati o assentiti mediante sanatoria ordinaria– vieti comunque il cambio d’uso sui primi.
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... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia:
   a) del provvedimento comunale del 11.10.2018, notificato il 19.10.2018, recante diniego di permesso di costruire in sanatoria relativo all’istanza presentata in data 13.09.2018 per ristrutturazione edilizia con parziale cambio d’uso ed ampliamento relativamente all’edificio di proprietà sito in via ... n. 13, nonché recante conferma dell’ordinanza comunale n. 165/2018 del 23.07.2018 ed indicazione di prosecuzione del procedimento repressivo;
   b) della comunicazione dei motivi ostativi del 01.10.2018 richiamata dal provvedimento indicato sub a);
   c) dell’ordinanza comunale del 23.07.2018 n. 165/2018 recante ingiunzione di ripristino dello stato dei luoghi, confermata dal provvedimento indicato sub a);
   d) dell’art. 45 delle Norme Tecniche Attuative del piano delle regole del Piano di Governo del Territorio di Lissone,
nonché per la condanna, del Comune di Lissone al risarcimento dei danni patiti e patiendi nella misura da quantificarsi in corso di causa.
...
1. Considerato che parte ricorrente fonda la domanda cautelare, in primo luogo, sul pregiudizio derivante dalla prosecuzione del procedimento di cui all’ordinanza demolitiva del 23.07.2018.
1.1. Ritenuto sussistente il pregiudizio indicato e non privo di fumus boni iuris il relativo motivo di ricorso atteso che la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità produce l’effetto di rendere inefficace l’ordinanza di demolizione delle opere abusive comportando la necessità di un nuovo provvedimento sanzionatorio con l’assegnazione di un nuovo termine per adempiere, allo stato non emanato (cfr., per il principio, la recente sentenza della sezione: TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 23.11.2018, n. 2635).
2. Considerato, inoltre, che l’istanza cautelare è proposta anche al fine di “suggerire anche un più meditato riesame della vicenda e condurre ad un ripensamento in termini più ragionevoli ed equilibrati, anche a seguito dei motivati rilievi qui esposti”.
2.1. Considerato che:
   a) a fronte di un provvedimento negativo la tutela cautelare può assumere carattere propulsivo e concretizzarsi nella forma del remand, con cui il giudice ordina all’Amministrazione di riesaminare l’istanza del privato in base ai criteri da esso individuati in base agli elementi di fondatezza del gravame;
   b) simile misura risulta, tuttavia, suscettibile di adozione soltanto laddove ricorrano i presupposti del fumus boni iuris e del periculum in mora indicati all’articolo 55 del codice del processo amministrativo;
2.2. Ritenuto sussistente il periculum in mora e rilevato che, nel pur sommario esame tipico della presente fase cautelare, non paiono prive di adeguato fumus boni iuris le censure articolare in ordine all’articolo 45 delle N.T.A. del piano delle regole del P.G.T. tenuto conto che:
   a) nel caso in esame difetta una previsione normativa sovraordinata che imponga la limitazione in esame al pari di quanto avviene nel caso deciso dalla sentenza n. 1991 del 2017 di questo Tribunale;
   b) la previsione in esame detta un divieto di carattere assoluto e generale (e senza alcuna valutazione di compatibilità concreta) privando il titolare del diritto di proprietà della possibilità di procedere ad interventi di manutenzione straordinaria aventi quale finalità la tutela della integrità della costruzione, la conservazione della sua funzionalità, e, nel caso di specie, la realizzazione di esigenze abitative (cfr., per il principio, Corte Costituzionale, 29.12.1995, n. 529; Corte Costituzionale, 23.06.2000, n. 238);
   c) non sussistono ulteriori specifiche ragioni che legittimino previsioni restrittive per il caso di immobili oggetto di condono (cfr. Consiglio di Stato, 16.12.2016, n. 5358);
2.3. Considerato, inoltre, che, nel caso di specie, la possibilità di riesame della vicenda da parte dell’Amministrazione può avvenire, comunque, senza investire necessariamente la previsione di cui all’articolo 45 delle N.T.A del piano delle regole del P.G.T., la cui eventuale modificazione richiede un complesso ed articolato procedimento.
2.4. Infatti, non paiono comunque privi di fondamento i motivi articolati sul punto da parte ricorrente considerato che la previsione di cui all’articolo 45 delle N.T.A. del piano delle regole del P.G.T. si riferisce agli immobili condonati e non contempla invece la fattispecie di immobili oggetto di condono parziale, per i quali la disposizione sembra operare in forza di una estensione analogica difficilmente giustificabile, tuttavia, in ragione della natura eccezionale della regola in esame.
2.5. Inoltre, deve considerarsi che, come risulta dalla documentazione depositata da parte ricorrente in data 03.12.2018 (senza opposizione del Comune resistente quanto al suo vaglio in sede cautelare), le istanze di condono sono relative ad opere in difformità dal titolo ma conformi alle norme e alle prescrizioni dettate dagli strumenti urbanistici vigenti e, come tali, risultano assimilabili alle ipotesi previste in via ordinaria dall’articolo 36 del D.P.R. 380 del 2001.
2.6. In ultimo, l’asserita necessità di parere della Commissione del paesaggio muove correttamente dalla classe di sensibilità paesaggistica del sito ma non sembra considerare in modo adeguato le caratteristiche proprie del sito oggetto di intervento e del miglioramento estetico che le modifiche effettuate apportano all’immobile.
3. In definitiva, deve sospendersi l’efficacia dei provvedimenti impugnati con contestuale ordine all’Amministrazione di riesaminare la vicenda alla luce dei rilievi indicati ai punti 2.2–2.6 della presente ordinanza depositando gli eventuali provvedimenti emessi entro il termine indicato in dispositivo.
4. Le spese di lite della presente fase cautelare possono essere compensate in ragione della complessità delle questioni trattate.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Seconda),
   a) accoglie la domanda cautelare nei sensi di cui in motivazione e, per l’effetto, sospende l’efficacia dei provvedimenti impugnati e ordina all’Amministrazione di riesaminare l’istanza del privato, entro il 31.03.2019, alla luce dei criteri indicati in motivazione;
   b) fissa per la trattazione di merito del ricorso l'udienza pubblica del 13.11.2019, ore di regolamento (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, ordinanza 05.12.2018 n. 1698 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: L'esecuzione in assenza o in difformità degli interventi subordinati a SCIA comporta l'applicazione della sanzione penale prevista dall'art. 44, lett. a), d.P.R. 380/2001 se gli stessi non sono conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia in vigore, mentre soltanto in caso di interventi eseguiti in assenza o difformità dalla SCIA, ma conformi alla citata disciplina, è applicabile la sanzione amministrativa prevista dall'art. 37 d.P.R. 380/2001.
Si è pervenuti a tali conclusioni osservando che l'art. 22 d.P.R. 380/2001 stabilisce espressamente che sono realizzabili mediante SCIA (e, in precedenza, a DIA) gli interventi descritti ai commi 1 e 2 che siano anche conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente e che solo ricorrendo tale condizione è possibile applicare la disposizione dell'art. 37 che prevede la sola sanzione amministrativa per gli interventi realizzati in assenza o in difformità.
In caso di interventi che, invece, non sono conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente, la loro realizzazione, sempre che non si tratti di interventi per i quali è richiesto il permesso di costruire, comporta l'applicazione della sanzione penale di cui all'art. 44, lett. a), in quanto tale disposizione sanziona "l'inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dal presente titolo, in quanto applicabili, nonché dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dal permesso di costruire".
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Anche l'infondatezza del secondo motivo di entrambi i ricorsi è di macroscopica evidenza.
Come affermano i ricorrenti, la giurisprudenza di questa Corte, ha chiarito che l'esecuzione in assenza o in difformità degli interventi subordinati a SCIA comporta l'applicazione della sanzione penale prevista dall'art. 44, lett. a), d.P.R. 380/2001 se gli stessi non sono conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia in vigore, mentre soltanto in caso di interventi eseguiti in assenza o difformità dalla SCIA, ma conformi alla citata disciplina, è applicabile la sanzione amministrativa prevista dall'art. 37 d.P.R. 380/2001 (Sez. 3, n. 952 del 07/10/2014 (dep. 2015), Parisi, Rv. 261783; Sez. 3, n. 9894 del 20/01/2009, Tarallo, Rv. 243099; Sez. 3, n. 41619 del 22/11/2006, Cariello, Rv. 235413).
Si è pervenuti a tali conclusioni osservando che l'art. 22 d.P.R. 380/2001 stabilisce espressamente che sono realizzabili mediante SCIA (e, in precedenza, a DIA) gli interventi descritti ai commi 1 e 2 che siano anche conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente e che solo ricorrendo tale condizione è possibile applicare la disposizione dell'art. 37 che prevede la sola sanzione amministrativa per gli interventi realizzati in assenza o in difformità.
In caso di interventi che, invece, non sono conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente, la loro realizzazione, sempre che non si tratti di interventi per i quali è richiesto il permesso di costruire, comporta l'applicazione della sanzione penale di cui all'art. 44, lett. a), in quanto tale disposizione sanziona "l'inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dal presente titolo, in quanto applicabili, nonché dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dal permesso di costruire".
Il principio richiamato è pienamente condiviso dal Collegio, che intende ribadirlo, ma, nel fare ciò, deve però rilevarsi che nella sentenza impugnata risulta accertato in fatto che le opere erano state realizzate "...in parte in assenza di titolo ed in parte in difformità dalla DIA n. 322/2010, nonché in violazione degli strumenti urbanistici ed edilizi vigenti al momento del fatto presso il Comune di Colle Val D'Elsa".
A fronte di tale affermazioni, entrambi i ricorsi si limitano alla apodittica affermazione della conformità delle opere espressamente smentita dal giudice del merito, con le conclusioni del quale neppure si confrontano (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.11.2018 n. 50144).

UTILITA'

CONDOMINIOQuesiti & risposte sul condomino - Oltre 400 quesiti e risposte divisi in 11 macro tematiche (dicembre 2018 - tratto da www.condominioweb.com).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Agevolazioni c.d. sisma bonus per interventi di demolizione e ricostruzione di edifici (art. 16, del DL n. 63 del 2013 - Interpello articolo 11, comma 1, lettera a), legge 27.07.2000, n. 212 (Agenzia delle Entrate - Divisione Contribuenti - Direzione Centrale Persone Fisiche, Lavoratori Autonomi ed Enti non Commerciali, risposta 27.12.2018 n. 131/2018).
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L’istante chiede chiarimenti in merito alla possibilità di fruire delle agevolazioni c.d. sisma bonus per interventi di demolizione e ricostruzione di edifici che, in presenza di vincoli, prevedono una traslazione del fabbricato, di uguale volumetria, ma con variazione di area di sedime. (...continua).

EDILIZIA PRIVATAInterrogazione a risposta immediata in commissione 5-01866 del 14.01.2014 (link a www.camera.it).
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GEBHARD, ALFREIDER, PLANGGER, SCHULLIAN e OTTOBRE. — Al Ministro dell'economia e delle finanze. —
Per sapere – premesso che:
   - l'articolo 1, comma 139, lettera b), della legge 27.12.2013, n. 147 (legge di stabilità 2014), attraverso una novella all'articolo 16, comma 2, del decreto-legge 04.06.2013, n. 63, convertito, con modificazioni dalla legge 03.08.2013, n. 90, ha da ultimo prorogato al 31.12.2014 le detrazioni fiscali per interventi di recupero del patrimonio edilizio, nella misura del 50 per cento per un ammontare massimo di spesa di 96 mila euro e nella misura del 40 per cento per il 2015;
   - l'articolo 30, comma 1, lettera a), del decreto-legge 21.06.2013, n. 69, convertito con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98, ha rivisto la definizione di ristrutturazione edilizia di cui all'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, recante il Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, eliminando il riferimento alla sagoma all'articolo 3, comma 1, lettera d);
   - la suddetta modifica ha pertanto ricompreso negli interventi di ristrutturazione edilizia rientranti nel regime delle agevolazioni fiscali ai sensi dell'articolo 16-bis del decreto del Presidente della Repubblica 22.12.1986, n. 917, anche il ripristino e/o la ricostruzione di edifici crollati o demoliti, con la stessa volumetria di quelli precedenti, anche se con variazioni della sagoma;
   -
se possa rientrare nel regime delle detrazioni fiscali per interventi di ristrutturazione edilizia, ai sensi del nuovo articolo 3, comma 1, lettera d), del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, anche la ricostruzione di un edificio, con la stessa volumetria di quello precedente, ma con uno spostamento di lieve entità dell'immobile rispetto al sedime originario. (5-01866). (...continua).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - LAVORI PUBBLICI: G.U. 31.12.2018 n. 302, suppl. ord. n. 62/L, "Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021" (Legge 30.12.2018 n. 145).
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In merito, si leggano anche:
  
LEGGE DI BILANCIO 2019 - Le modifiche approvate dal Senato della Repubblica - A.C. 1334-B - Articolo 1, commi 1-601 (27.12.2018 - VOLUME I);
   ● LEGGE DI BILANCIO 2019 - Le modifiche approvate dal Senato della Repubblica - A.C. 1334-B - Articolo 1, commi 604-1143 e Articoli 2-19 (27.12.2018 - VOLUME II);
   ● Via libera definitivo alla Legge di bilancio 2019. Proroga dei bonus edilizi e del bonus verde, 8,1 miliardi per la messa in sicurezza degli edifici e del territorio, modifica al Codice dei contratti, istituzione della Struttura per la progettazione di beni ed edifici pubblici, estensione del regime forfetario, riqualificazione energetica edifici Pa (31.12.2018 - link a www.casaeclima.com);
   ● In Gazzetta Ufficiale la Manovra 2019. Le misure di interesse del Mit. Dal 01.01.2019 in vigore la Legge n. 145 del 30.12.2018 che proroga di un anno l'ecobonus, i bonus ristrutturazioni e mobili e il bonus verde (31.12.2018 - link a www.casaeclima.com);
   ● Legge di Bilancio 2019: Approvata in via definitiva dalla Camera dei Deputati (31.12.2018 - link a www.lavoripubblici.it);
   ● Ddl di Bilancio 2019 e Appalti pubblici: esteso l'affidamento diretto per i lavori fino a 150 mila euro (28.12.2018 - link a www.lavoripubblici.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 52 del 29.12.2018, "Disposizioni per l’attuazione della programmazione economico-finanziaria regionale, ai sensi dell’articolo 9-ter della l.r. 31.03.1978, n. 34 (Norme sulle procedure della programmazione, sul bilancio e sulla contabilità della Regione) - Collegato 2019" (L.R. 28.12.2018 n. 23).
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Di interesse si leggano:
  
● Art. 4 (Modifiche alla l.r. 18/2015)
1. Alla legge regionale 01.07.2015, n. 18 (Gli orti di Lombardia. Disposizioni in materia di orti didattici, sociali periurbani, urbani e collettivi) sono apportate le seguenti modifiche: ...
  
● Art. 7 (Modifiche alla l.r. 33/2015)
1. Alla legge regionale 12.10.2015, n. 33 (Disposizioni in materia di opere o di costruzioni e relativa vigilanza in zone sismiche) sono apportate le seguenti modifiche: ...
   ● Art. 9 (Modifiche alla l.r. 26/2003)
1. Alla legge regionale 12.12.2003, n. 26 (Disciplina dei servizi locali di interesse economico generale. Norme in materia di gestione dei rifiuti, di energia, di utilizzo del sottosuolo e di risorse idriche) sono apportate le seguenti modifiche: ...
   ● Art. 13 (Modifiche alla l.r. 5/2017 e al r.r. 3/2017)
1. Alla legge regionale 27.02.2017, n. 5 (Rete escursionistica della Lombardia) sono apportate le seguenti modifiche: ...

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: G.U.U.E. 21.12.2018 n. L 328 "DIRETTIVA (UE) 2018/2002 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO dell'11.12.2018 che modifica la direttiva 2012/27/UE sull'efficienza energetica".

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: G.U.U.E. 21.12.2018 n. L 328 "DIRETTIVA (UE) 2018/2001 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO dell'11.12.2018 sulla promozione dell'uso dell'energia da fonti rinnovabili (rifusione)".

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U.U.E. 21.12.2018 n. L 328 "REGOLAMENTO (UE) 2018/1999 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO dell'11.12.2018 sulla governance dell'Unione dell'energia e dell'azione per il clima che modifica le direttive (CE) n. 663/2009 e (CE) n. 715/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio, le direttive 94/22/CE, 98/70/CE, 2009/31/CE, 2009/73/CE, 2010/31/UE, 2012/27/UE e 2013/30/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, le direttive del Consiglio 2009/119/CE e (UE) 2015/652 e che abroga il regolamento (UE) n. 525/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio".

LAVORI PUBBLICI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 51 del 19.12.2018, "Programma degli interventi prioritari sulla rete viaria di interesse regionale - Aggiornamento 2018" (deliberazione G.R. 17.12.2018 n. 1052).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI : G.U. 18.12.2018 n. 293 "Testo del decreto-legge 23.10.2018, n. 119, coordinato con la legge di conversione 17.12.2018, n. 136, recante: «Disposizioni urgenti in materia fiscale e finanziaria»".
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Si legga, al riguardo:
  
In Gazzetta il decreto fiscale convertito in legge. La legge di conversione n. 136/2018 è in vigore dal 19 dicembre. Il punto sulle misure (19.12.2018 - link a www.casaeclima.com).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 51 del 18.12.2018, "Disciplina delle attività cosiddette «In Deroga» ai sensi dell’art. 272, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 152/2006 «Norme in materia ambientale» sul territorio regionale e ulteriori disposizioni in materia di emissioni in atmosfera" (deliberazione G.R. 11.12.2018 n. 983).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 51 del 18.12.2018, "Disciplina delle attività ad inquinamento scarsamente rilevante ai sensi dell’art. 272, comma 1, del d.lgs. n. 152/2006 «Norme in materia ambientale» collocate sul territorio regionale" (deliberazione G.R. 11.12.2018 n. 982).

ENTI LOCALI: G.U. 17.12.2018 n. 292 "Differimento del termine per la deliberazione del bilancio di previsione 2019/2021 degli enti locali dal 31.12.2018 al 28.02.2019" (Ministero dell'Interno, decreto 07.12.2018).

VARI: G.U. 15.12.2018 n. 291 "Modifica del saggio di interesse legale" (Ministero dell'Economia ed elle Finanze, decreto 12.12.2018),

AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI: G.U. 14.12.2018 n. 290 "Disposizioni urgenti in materia di sostegno e semplificazione per le imprese e per la pubblica amministrazione" (D.L. 14.12.2018 n. 135).
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Si legga, al riguardo:
  
In vigore il decreto-legge Semplificazioni pubblicato in Gazzetta. Il provvedimento, oltre a sopprimere il Sistri dal 01.01.2019, introduce una modifica al comma 5 dell'articolo 80 del nuovo Codice dei contratti (17.12.2018 - link a www.casaeclima.com).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 50 del 12.12.2018, "Ottavo aggiornamento 2018 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 06.12.2018 n. 18272).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: M. Carrer, Il caso delle imprese agricole in aree protette come paradigma del bilanciamento costituzionale tra tutela dell’ambiente e proprietà terriera. Spunti problematici (31.12.2018 - tratto da www.ambientediritto.it).
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SOMMARIO: 1. Premessa di inquadramento. – 2. Il ruolo della legge e la complessità del sistema nella lente della distribuzione delle competenze. – 3. Le materie agricoltura e tutela dell’ambiente e loro collocazione competenziale. – 4. La disciplina tra principi e dettagli. – 4.1. La rete Natura 2000. – 4.2. Le imprese agricole e la multifunzionalità: la ricerca di cause ed effetti per un settore agricolo che cambia. – 5. Gli strumenti: dal principio al dettaglio, dalle norme ai bandi. – 6. Conclusioni: il bilanciamento costituzionale e il contributo dell’art. 44, co. 1°, Cost..

ATTI AMMINISTRATIVI: A. Di Capizzi - N. L. Guglielmo - J. K. Chabora - F. Vona, Il diritto di accesso tra ordinamento interno e ordinamenti sovranazionali (22.12.2018 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E. Bonelli, Effettività del sistema sanzionatorio edilizio e tutela dei diritti fondamentali protetti dalla Cedu (19.12.2018 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. I passaggi salienti della motivazione della sentenza della Corte costituzionale n. 140/2018 con cui si dichiara l'incostituzionalità dell'art. 2 della L.R. Campania n. 19/17. 2. L'arrêt dell'A.P. n. 9/2017 del Consiglio di Stato e l'affermazione del principio della demolizione degli immobili abusivi "in ogni caso". 3. Gli approdi più recenti della giurisprudenza della Corte Edu in tema di applicazione delle sanzioni edilizie e di tutela dei diritti protetti dalla Cedu: in particolare il revirement di cui alla sentenza della Grande Camera del 28.06.2018 (Case of G.I.E.M. s.r.l. and Others v. Italy). 4. La problematica utilizzazione per finalità pubbliche degli immobili abusivi acquisiti dai Comuni: la destinazione ad housing sociale. 5. La questione della copertura finanziaria da parte dei Comuni della spesa occorrente per le demolizioni. 6. A mo' di conclusione.

EDILIZIA PRIVATA: M. Grisanti, La Cassazione torna sull'obbligo dell'autorizzazione sismica nelle zone 3 e 4 (commento a Cassazione, Sez. III penale, n. 51600 depositata il 15.11.2017) (17.12.2018 - link a www.lexambiente.it).

APPALTI: M. Lipari, La decorrenza del termine di ricorso nel rito superspeciale di cui all’art. 120, co. 2-bis e 6-bis, del CPA: pubblicazione e comunicazione formale del provvedimento motivato, disponibilità effettiva degli atti di gara, irrilevanza della “piena conoscenza”; l’ammissione conseguente alla verifica dei requisiti (17.12.2018 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: A. Palumbo Grandinetti, Licenziamento - Cassazione Civile: è illegittimo il licenziamento del dipendente che utilizza le registrazioni fonografiche occulte per scopi difensivi (14.12.2018 - link a www.filodiritto.com).
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La Corte di Cassazione - Sez. lavoro, con la sentenza 10.05.2018 n. 11322, ha accolto il ricorso sull’illegittimità del licenziamento proposto dal lavoratore che aveva consegnato al datore di lavoro, nell’ambito di un procedimento disciplinare, una chiavetta USB contenente registrazioni di conversazioni con altri dipendenti effettuate in orario e sul posto di lavoro, senza che questi ultimi ne fossero a conoscenza. (...continua).

EDILIZIA PRIVATA: L. Spallino, Proroga dei documenti di piano: le novità della legge regionale di semplificazione (13.12.2018 - link a www.dirittopa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: V. Papanice, Canne fumarie in condominio rapporti con il comune: consenso dei condomini sì, o consenso dei condomini no? Questione di giurisprudenza!
Canne fumarie e giustizia amministrativa: è preferibile conseguire il consenso del condominio (11.12.2018 - link a www.condominioweb.com).

EDILIZIA PRIVATA: I Pavimenti Industriali in calcestruzzo sono una struttura che deve essere progettata e controllata.
Il parere della Regione Toscana chiarisce che la pavimentazione industriale nella maggior parte dei casi è una struttura e che quindi debba essere progettata da un professionista qualificato e sottoposta al controllo della Direzione Lavori (06.12.2018 - link a www.casaeclima.com).
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Per il parere del Genio Civile Regione Toscana si legga: PAVIMENTAZIONI INDUSTRIALI: devono essere considerate strutture? Il parere del Genio Regione Toscana (26.10.2018 - link a www.conpaviper.org).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: A. Gallucci, Condominio e sostituzione infissi in legno con infissi in alluminio.
Infissi in alluminio e decoro dell'edificio, contestazioni e rimedi (06.12.2018 - link a www.condominioweb.com).

EDILIZIA PRIVATA: G. di Plinio e G. Nicolucci, I poteri sanzionatori dell’Ente Parco (05.12.2018 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Il profilo generale delle sanzioni amministrative. — 2. La disciplina sanzionatoria della legge quadro sulle aree naturali protette. — 3. Le sanzioni amministrative nella legge quadro: configurazione e garanzie. — 4. Il vaglio della Suprema corte. — 5. Percorsi motivazionali. — 6. I confini della sanzione amministrativa. — 7. Questioni eccentriche. — 8. Considerazioni di sintesi.

EDILIZIA PRIVATA: R. Dolce, Abusi edilizi. Il coniuge comproprietario è responsabile?
Reati edilizi: profili di responsabilità del proprietario o comproprietario non committente (05.12.2018 - link a www.condominioweb.com).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: A. Moscatelli, La realizzazione di una canna fumaria a servizio del proprio appartamento sul parapetto del lastrico solare.
Può il singolo condòmino realizzare una canna fumaria a servizio del proprio appartamento sul parapetto del lastrico solare? (04.12.2018 - link a www.condominioweb.com).

EDILIZIA PRIVATA: A. Pesce, Anche il vano scala deve rispettare le distanze legali.
Il corpo scala, se volumetricamente consistente, è equiparabile ad una costruzione, pertanto deve rispettare le distanze legali fra edifici (30.11.2018 - link a www.condominioweb.com).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: A. Gallucci, Condominio e installazione canna fumaria a servizio di un locale, serve l'unanimità?
Canna fumaria a servizio di un locale e decoro architettonico (27.11.2018 - link a www.condominioweb.com).

CONDOMINIO: Carlo Pikler, Telecamere in luogo di pubblico transito, si può fare! Basta stipulare l'accordo con i Comuni. La richiesta può partire dal singolo amministratore di condominio o anche dalle Associazioni di categoria.
Le telecamere private possono andare ad inquadrare le aree di pubblico transito, previo semplice accordo vincolante con l'amministrazione comunale (26.11.2018 - link a www.condominioweb.com).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: G. Nuzzo, La nozione di sopraelevazione e l'interpretazione delle clausole regolamentari in condominio.
Il diritto dei condomini dell'ultimo piano dell'edificio a sopraelevare: quali limiti? (26.11.2018 - link a www.condominioweb.com).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: ELSA, D. Neri Africano, Straining - Cassazione Lavoro: un qualsiasi comportamento idoneo a rendere l’ambiente di lavoro ostile per il dipendente è risarcibile come violazione dell’obbligo datoriale di sicurezza (23.11.2018 - link a www.filodiritto.com).
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La Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con ordinanza 29.03.2018 n. 7844 ha stabilito l’esistenza del danno da straining e la sua idoneità ad essere risarcibile come violazione del dovere di sicurezza imputabile al datore di lavoro.
Dal momento che la suprema Corte ha confermato questa possibilità, sarà possibile ottenere il risarcimento danni in seguito al verificarsi di una qualsiasi situazione “stressogena” sul luogo di lavoro, a condizione che ve ne siano le prove. (...continua).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: G. Zangari, Gli impianti di condizionamento soggiacciono alla normativa sulle distanze legali?
Un primo richiamo applicativo al principio sancito dalla Corte d'Appello di Palermo con la sentenza n. 269/2015 (20.11.2018 - link a www.condominioweb.com).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: G. Nuzzo, La Soprintendenza non può bocciare l'ascensore in cortile solo perché nuoce all'immobile vincolato.
Non si può impedire la realizzazione di un ascensore esterno che serve alla persona anziana solo perché la realizzazione dell'impianto può arrecare un pregiudizio all'immobile vincolato (16.11.2018 - link a www.condominioweb.com).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: G. De Santis, Canne fumarie ad uso esclusivo: installazione, distanze, immissioni. Una breve ricognizione giurisprudenziale.
La disciplina condominiale delle canne fumarie (19.03.2018 - link a www.condominioweb.com).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE - SEGRETARI COMUNALIIncentivi tecnici ai segretari comunali solo se non sono equiparati ai dirigenti
Se le disposizioni legislative hanno eliminato la possibilità di erogare gli incentivi tecnici ai dirigenti, nulla hanno indicato per quanto riguarda i segretari comunali. Una possibile linea di demarcazione è, al momento, quella di riconoscerli esclusivamente agli appartenenti alla fascia C che, per disposizioni contrattuali, non sono equiparati ai dirigenti. Si ricorda come questa indicazione sia stata già utilizzata in occasione del contenzioso aperto per i diritti di rogito che ha visto, tuttavia, soccombente la Corte dei conti davanti alla magistratura ordinaria.

Le indicazioni sugli incentivi tecnici ai soli segretari appartenenti alla fascia C è contenuta nel parere 06.12.2018 n. 131 della Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per Liguria.
La vicenda
Il sindaco di un Comune di piccole dimensioni (inferiore ai 5.000 abitanti), privo di qualifiche dirigenziali, ha chiesto ai magistrati contabili chiarimenti sulla possibilità di erogare gli incentivi tecnici anche al segretario comunale per le sue attività di responsabile unico del procedimento e di responsabile dei servizi scolastici, e se lo stesso, in considerazione del divieto posto dall'articolo 113, comma 3, del Dlgs 50/2016 sull'erogazione degli incentivi tecnici ai dirigenti, debba o meno rientrare nella categoria esclusa da questi incentivi.
Gli incentivi tecnici
Nell'attuale quadro legislativo, sono stati molti i pareri resi dai giudici contabili sull'erogazione degli incentivi tecnici. Al momento rientrano in questa incentivazione oltre le attività collegate ai lavori pubblici, con esclusione delle manutenzioni ordinarie e straordinario non espressamente indicate dalla normativa, anche gli appalti di servizi e forniture e le concessioni di servizi (tra le tante Sezione controllo Veneto parere 27.11.2018 n. 455) in quanto assimilabili agli appalti. Tra la platea dei destinatari, per espressa previsione legislativa, sono stati esclusi i dirigenti per il superiore principio di onnicomprensività della retribuzione.
La qualifica dei segretari comunali
Per rispondere alla domanda posta dal Comune, il collegio contabile evidenzia come vada preliminarmente risolto il problema dell'equiparabilità o meno dei segretari comunali ai dirigenti. Le disposizioni contrattuali (contratto 16.05.2001) prevedono che i segretari comunali siano ripartiti in tre fasce professionali, disciplinando analiticamente le equiparazioni di ciascuna fascia con le varie categorie o aree professionali, in caso di mobilità presso le altre pubbliche amministrazioni, con equiparazione ai dirigenti per quelli appartenenti alla fascia A, mentre per quelli di fascia B solo qualora abbiano uno stipendio tabellare equiparato a quello della dirigenza.
Tuttavia, in merito alla equiparazione dei segretari ai dirigenti si sono espresse anche le Sezioni unite della Cassazione (sentenza n. 786 del 19.01.2016), ma delle cui conclusioni la Corte dei conti non ha alcun potere di cognizione, trattandosi di presupposti rientranti in problematiche di natura esclusivamente giuslavoristiche.
Per il collegio contabile, pertanto, l'erogazione degli incentivi tecnici al segretario generale che svolge le funzioni di Rup è possibile solo nella misura in cui venga esclusa l'equiparazione dello stesso, in considerazione della fascia professionale di appartenenza, al personale con qualifica dirigenziale (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 12.12.2018).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE - SEGRETARI COMUNALI: In merito all’erogabilità degli incentivi per funzioni tecniche al Segretario comunale.
L'equiparazione del Segretario comunale al dirigente ai fini dell’erogazione dell’incentivo di cui all’art. 113 d.lgs. 50/2016 presuppone, al pari dell’equiparazione ai fini della mobilità, la soluzione di complesse problematiche di stampo schiettamente giuslavoristico che -al pari dell’interpretazione del contratto collettivo di riferimento- sono sottratte alla cognizione di questa Corte.
Sicché, l’erogazione degli incentivi tecnici al Segretario generale che svolge le funzioni di Rup è possibile solo nella misura in cui venga esclusa l’equiparazione dello stesso, in considerazione della fascia professionale di appartenenza, al personale con qualifica dirigenziale.

...
Con la nota in epigrafe, il Comune di Toirano (SV) chiede alla Sezione un parere in merito all’erogabilità degli incentivi per funzioni tecniche al Segretario generale, individuato quale responsabile dei servizi scolastici in un Ente locale privo di dirigenti.
In particolare, l’Ente chiede se “il Segretario generale di questo Ente, sprovvisto di dirigenti in quanto con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, abbia diritto alla percezione degli incentivi di cui all’art. 113 del D.Lgs. 18.04.2016 n. 50 in qualità di RUP-Responsabile dei servizi scolastici del comune di Toirano o debba essere equiparato alla dirigenza, e quindi escluso dalla percezione degli incentivi così come previsto dal comma 3, ultimo capoverso, del suddetto art. 113.
...
L’esame del quesito, tuttavia, non può che essere limitato al piano generale ed astratto dell’interpretazione del precetto, essendo riservata alla sfera di discrezionalità dell’Ente l’applicazione alla fattispecie concreta del principio enunciato. Per tale ragione, questa Corte non può che indicare, sul piano astratto, le coordinate interpretative disciplinanti l’istituto degli incentivi per funzioni tecniche contemplato dall’art. 113 dlgs 50/2016, mentre rimane estranea all’attività consultiva la declinazione concreta dei principi enunciati con riferimento alla specifica vicenda rappresentata, dovendo la Corte rimanere estranea all’ambito dell’attività di amministrazione attiva.
3. Passando la merito della richiesta, il Comune chiede un parere in merito alla possibilità di erogare gli incentivi per funzioni tecniche al Segretario generale che ha svolto attività di Rup in un ente privo di dirigenza, in base a quanto disposto dall’art. 113 d.lgs. 50/2016.
L’articolo da ultimo citato disciplina, al comma 3, la destinazione (per la quota dell’80%) delle risorse finanziarie del fondo per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti, sancendo che gli importi siano ripartiti tra il responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche nonché i loro collaboratori. La corresponsione dell’incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile del servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento delle specifiche attività svolte dai dipendenti destinatari dell’incentivo.
La ratio della previsione è stata individuata nella “funzione premiale dell’istituto, volto a incentivare, con un surplus di retribuzione, lo svolgimento di prestazioni intellettive qualificate che, ove fossero svolte –invece che da dipendenti interni ratione officii– da esterni sarebbero da considerare prestazioni di lavoro autonomo professionali” (Sezione controllo Lazio parere 06.07.2018 n. 57).
4.Quanto ai presupposti oggettivi per l’erogabilità, la giurisprudenza contabile, nel sottolineare la natura derogatoria dell’istituto rispetto al principio dell’onnicomprensività della retribuzione, ne ha circoscritto l’applicazione alle attività tassativamente previste dalla legge, con esclusione delle attività di manutenzione ordinaria e straordinaria, in quanto non espressamente indicate (cfr. Sezione regionale di controllo per la Puglia, parere 28.09.2018 n. 140).
Per contro, sulla base di una interpretazione estensiva, sono state ricondotte nell’alveo applicativo dell’articolo non solo gli appalti di servizi e forniture, ivi contemplati (Sezione regionale controllo Lombardia parere 16.11.2016 n. 333), ma anche le concessioni di servizi, attesa l’assimilabilità delle medesime all’appalto (Sezione controllo Veneto parere 27.11.2018 n. 455).
Più in generale, “si tratta nel complesso di compensi volti a remunerare prestazioni tipiche di soggetti individuati e individuabili, direttamente correlati all’adempimento dello specifico compito affidato ai potenziali beneficiari dell’incentivo” (Sezione delle Autonomie, deliberazione 26.04.2018 n. 6).
5.Per tali ragioni, la tassatività che connota la dimensione oggettiva della fattispecie non può che riverberarsi sul piano soggettivo, in quanto i soggetti destinatari dell’incentivo sono, come precisato dalla Sezione Autonomie nella citata delibera, individuati o facilmente individuabili con riferimento alle attività incentivate (responsabile unico del procedimento, soggetti che svolgono le funzioni tecniche, i loro collaboratori), sicché, ad esempio, è stata ritenuta preclusa l’erogazione dell’incentivo ai commissari di gara (Sezione controllo Lazio, parere 06.07.2018 n. 57, cit.)
L’ambito soggettivo dei destinatari viene, quindi, delimitato per relationem con riferimento ai soggetti che svolgono le attività tecniche contenute nell’elenco tassativo del comma 2. La platea dei beneficiari, inoltre, viene ulteriormente circoscritta con l’espressa esclusione dei dirigenti, per i quali la relatio soggetto beneficiario – attività incentivata cessa di operare con conseguente riespansione dell’ambito di operatività del principio di onnicomprensività della retribuzione. La disposizione, infatti, testualmente dispone: “il presente comma non si applica al personale con qualifica dirigenziale”.
6. La questione della riconoscibilità o meno al Segretario Generale che svolge funzioni di RUP dell’incentivo in esame presuppone, quindi, che venga preliminarmente affrontato e risolto il problema dell’equiparabilità o meno dei Segretari comunali ai dirigenti.
Sotto tale profilo, il CCNL 16.05.2001 sancisce che i segretari comunali siamo ripartiti in tre fasce professionali (art 31), disciplinando analiticamente le equiparazioni di ciascuna fascia con le varie categorie o aree professionali, in caso di mobilità presso le altre pubbliche amministrazioni.
L’art. 32 del richiamato CCNL, in particolare, nel disciplinare la mobilità, dispone che “il segretario collocato nella fascia professionale B, con stipendio tabellare economico di cui all’art. 39, comma 1, è equiparato al personale con qualifica dirigenziale” e che “il segretario collocato nella fascia A è equiparato al personale con qualifica dirigenziale”.
In merito all’inquadramento dei Segretari comunali nei ruoli dirigenziali in caso di mobilità si sono pronunciate anche le Sezioni Unite della Cassazione, che con sentenza n. 786 del 19.01.2016 hanno ricostruito (anche de iure condendo) il quadro normativo disciplinante la materia.
Da quanto sopra, è evidente che
l’equiparazione del Segretario comunale al dirigente ai fini dell’erogazione dell’incentivo di cui all’art. 113 dlgs 50/2016 presuppone, al pari dell’equiparazione ai fini della mobilità, la soluzione di complesse problematiche di stampo schiettamente giuslavoristico che -al pari dell’interpretazione del contratto collettivo di riferimento- sono sottratte alla cognizione di questa Corte.
Per le ragioni sopra esposte, la Sezione osserva che
l’erogazione degli incentivi tecnici al Segretario generale che svolge le funzioni di Rup è possibile solo nella misura in cui venga esclusa l’equiparazione dello stesso, in considerazione della fascia professionale di appartenenza, al personale con qualifica dirigenziale (Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria, parere 06.12.2018 n. 131).

A.N.AC.

INCARICHI PROFESSIONALIAffidamento dei servizi legali senza deroghe ai parametri sui compensi degli avvocati.
La valutazione della componente economica non è il criterio fondamentale nelle procedure di affidamento di attività legali per la gestione del contenzioso, ma vanno rispettati dei parametri sui compensi degli avvocati.

L' Autorità nazionale anticorruzione analizza nelle linee guida n. 12 (delibera 24.10.2018 n. 907) (si veda anche il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 7 novembre) la particolare problematica relativa alla gestione dell'analisi del prezzo delle prestazioni professionali dei legali, assumendo a presupposto la necessaria applicazione del principio di economicità ai percorsi selettivi dei professionisti ai quali affidare la rappresentanza legale nel singolo contenzioso giudiziale e stragiudiziale.
Congruità ed equità
L'Anac evidenzia come il principio, esplicitato tra quelli che devono ispirare il processo selettivo nell' articolo 4 del codice dei contratti pubblici, imponga alle amministrazioni un uso ottimale delle risorse da impiegare nello svolgimento della selezione ovvero nell'esecuzione del contratto, in virtù del quale le stesse, prima dell' affidamento dell' incarico, sono tenute ad accertare la congruità e l'equità del compenso.
Le linee guida chiariscono che in considerazione della particolare natura dei servizi legali e dell'importanza della qualità delle prestazioni, il risparmio di spesa non è il criterio di guida nella scelta che deve compiere l'amministrazione, ma anche che il richiamo all'economicità implica la necessità di tener conto dell' entità della spesa e di accertarne la congruità.
La preferenza per la valutazione fondata su una pluralità di elementi oltre alla componente economica si evince nelle indicazioni dell'Anac che sollecitano le amministrazioni a porre particolare attenzione ai profili di competenza e di esperienza specifiche. In ordine alla definizione del compenso, viene peraltro a essere evidenziato il necessario rispetto del sistema di parametri stabilito per la professione forense dal Dm 55/2014, recentemente attualizzato e integrato dal Dm 37/2018.
Preventivi a confronto
Le linee guida n. 12 forniscono anche altre alcune soluzioni operative per la valutazione della congruità del compenso (e quindi delle proposte dei singoli professionisti ricondotti alla procedura comparativa), che può essere effettuata anche mediante un confronto con la spesa per precedenti affidamenti, o con gli oneri riconosciuti da altre amministrazioni per incarichi analoghi o con una valutazione comparativa di due o più preventivi.
In quest'ultimo caso, trattandosi di servizi esclusi dall' ambito di applicazione del codice dei contratti pubblici, l'amministrazione può stabilire discrezionalmente il numero di preventivi da confrontare, più confacente alle proprie esigenze, tenendo conto anche del valore economico dell' affidamento (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'08.11.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOL'avvocato dell'Ente pubblico non può ricoprire il ruolo di responsabile anticorruzione.
Partendo dalla richiesta di parere dell'ente portuale del mar Adriatico meridionale, l'Anac con la delibera 02.10.2018 n. 841 ha dichiarato «altamente non opportuno» attribuire il ruolo di responsabile anticorruzione al all’avvocato dell'ente.
Inconciliabilità dei ruoli
Il ruolo di responsabile anticorruzione comporta attribuzioni di natura gestionale e sanzionatoria inconciliabili con quello di avvocato dell'ente. Parimenti, le avvocature degli enti pubblici devono essere dotate di autonomia organizzativa distinta dagli altri uffici. A questo ufficio devono essere preposti avvocati addetti in via esclusiva agli affari legali, con esclusione dello svolgimento di «attività di gestione».
Inoltre l'iscrizione nell'albo speciale dei legali dipendenti di enti pubblici richiede, quale presupposto imprescindibile, la “esclusività” delle funzioni di rappresentanza e difesa dell'ente pubblico, contrastante con mansioni di diversa natura. Per derogare all'incompatibilità con la professione di avvocato, il pubblico dipendente deve provare l'esistenza di un ufficio nell'ente che abbia esclusiva attribuzione di affari legali.
Le competenze del responsabile anticorruzione, pur non essendo propriamente compiti di amministrazione attiva, possono presentare profili di inadattabilità con quelle di legale dell'ente pubblico. Ad esempio nei casi di segnalazione da parte del responsabile anticorruzione all'ufficio di disciplina, di inadempimenti di compiti di pubblicazione, qualora ne scaturisse un contenzioso con l'ente di cui è anche avvocato, si troverebbe in paradossale conflitto di interessi, finendo per essere avvocato di se stesso.
Gli enti locali
Questi principi sembrerebbero comuni a tutte le amministrazioni pubbliche tranne che per gli avvocati presso le Regioni e gli enti locali, dal momento che la legge 208/2015 ha previsto la possibilità di attribuire ai dirigenti dell'avvocatura civica e della polizia municipale anche altre funzioni di natura gestionale.
Il Consiglio nazionale forense (rigettando l’opposta interpretazione dell’Anci) ha, invece, confermato la imprescindibile necessità di garantire agli avvocati, anche di Regioni ed enti locali, non solo l'autonomia e l'indipendenza propria e dell'ufficio a cui appartengono –sia essa di consulenza o di assistenza e rappresentanza dell'ente- ma anche l'estraneità dal resto della macchina amministrativa.
L'Anac ha comunque precisato, con riguardo a (piccole) realtà comunali, prive di professionalità idonee a ricoprire il ruolo di responsabile anticorruzione, che l'avvocato comunale può partecipare all'ufficio dei controlli interni e all'ufficio del responsabile della prevenzione della corruzione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.10.2018).

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALIL’accertamento di responsabilità non spetta al responsabile anticorruzione.
L'Anac, con la delibera 02.10.2018 n. 840, ha fatto il punto sul ruolo e i poteri del responsabile anticorruzione e trasparenza, l'occasione è nata da una serie di istanze di parere pervenute all'Autorità.
La figura del responsabile anticorruzione e trasparenza è disciplinata nella legge 190/2012 dove si stabilisce che ogni amministrazione approva un piano triennale della prevenzione della corruzione e trasparenza che valuta il livello di esposizione degli uffici al rischio corruzione e indica gli interventi organizzativi e le misure necessari per mitigarlo.
La predisposizione e la verifica del piano sono attribuite al responsabile anticorruzione e trasparenza. Altre disposizioni sul ruolo di questa figura sono contenute nel decreto trasparenza 33/2013, nel Dpr 62/2013 (codice di comportamento dei dipendenti pubblici) e e nel Dlgs 39/2013 in materia di inconferibilità e incompatibilità degli incarichi.
Il ruolo del responsabile anticorruzione e trasparenza rispetto all'istituto del whistleblowing disciplinato dalla legge 179/2017 sarà affrontato in apposite linee guida che Anac sta predisponendo.
I compiti del responsabile
Anac, partendo da una ricognizione delle disposizioni che delineano i compiti assegnati al responsabile anticorruzione e trasparenza ha fornito le proprie indicazioni rispetto ai casi sottoposti, affermando preliminarmente il «principio di carattere generale secondo cui non spetta al responsabile anticorruzione e trasparenza l'accertamento di responsabilità (e quindi la fondatezza dei fatti oggetto di segnalazione)».
Infatti, il responsabile anticorruzione e trasparenza è tenuto a fare riferimento agli organi interni ed esterni all'amministrazione che hanno specifici poteri e responsabilità sul buon andamento dell'attività amministrativa nonché sull'accertamento di responsabilità.
Questo in una logica di non sovrapposizione dei poteri secondo «un modello a rete in cui il responsabile anticorruzione e trasparenza possa effettivamente esercitare poteri di programmazione, impulso e coordinamento e la cui funzionalità dipende dal coinvolgimento e dalla responsabilizzazione di tutti coloro che, a vario titolo, partecipano dell'adozione e dell'attuazione delle misure di prevenzione».
Qualora il responsabile anticorruzione e trasparenza riscontri o riceva segnalazioni di irregolarità effettua una delibazione sul fumus di quanto rappresentato, verificando se nel piano anticorruzione vi siano o meno misure volte a prevenire il tipo di fenomeno segnalato, anche al fine di valutare a quali organi interni o enti/istituzioni esterne rivolgersi per l'accertamento di responsabilità o per l'assunzione di decisioni.
Nell'ambito di questa attività, Anac ritiene che il responsabile anticorruzione trasparenza possa acquisire atti/documenti ed effettuare l'audizione di dipendenti se questo gli permette di avere una più chiara ricostruzione dei fatti oggetto della segnalazione al fine di attivare gli organi interni ed esterni all'amministrazione o per calibrare il piano triennale anticorruzione, qualora il processo cui si riferisce il fatto riscontrato o segnalato non sia mappato oppure sia mappato ma le misure non siano adeguate. Tutto questo non deve invece essere volto all'accertamento di responsabilità o della fondatezza dei fatti oggetto della segnalazione.
Un'eccezione, peraltro l'unica, al principio generale secondo cui non spetta al responsabile anticorruzione l'accertamento di responsabilità, è rappresentata dai poteri attribuiti in materia di accertamento della violazione delle incompatibilità e inconferibilità degli incarichi disciplinati dal Dlgs 39/2013. Infatti, nella
determinazione 03.08.2016 n. 833, Anac ha precisato che spetta al responsabile anticorruzione «avviare il procedimento sanzionatorio, ai fini dell'accertamento delle responsabilità soggettive e dell'applicazione della misura interdittiva prevista dall'art. 18 (per le sole inconferibilità)».
Controlli di legittimità o di merito
Sempre nella delibera 02.10.2018 n. 840, Anac afferma che il responsabile anticorruzione non deve svolgere controlli di legittimità o di merito su atti e provvedimenti dell'amministrazione, né esprimersi sulla loro regolarità tecnica o contabile, altrimenti sconfinerebbe nelle competenze di soggetti a ciò preposti, a meno che da tali atti non siano state tratte misure di prevenzione inserite nel piano anticorruzione.
Come pure sono da escludere dalle funzioni del responsabile anticorruzione le attività sui controlli interni previste dagli articolo 147 e seguenti del Tuel, fermo restando quanto previsto nel piano triennale anticorruzione rispetto all'area «Affari legali e contenzioso», quale area generale a rischio corruttivo.
Infine, nella delibera in commento, Anac precisa che il rapporto fra i responsabili anticorruzione di un'amministrazione vigilante e di un ente vigilato, seppur improntato su di una leale collaborazione, non può essere di subordinazione, fermi restando i poteri che un ente può esercitare su un altro in attuazione del rapporto di vigilanza (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 12.11.2018).

SEGRETARI COMUNALISegretari senza tutela contro la revoca immotivata da parte della giunta.
La procedura disegnata dal regolamento Anac che tutela i responsabili anticorruzione da revoche arbitrarie delle amministrazioni non può contare su un quadro normativo esaustivo.

Le lacune rimangono anche dopo la delibera 18.07.2018 n. 657 dell’Autorità (si vedano gli articoli sul Quotidiano degli enti locali e della Pa di ieri e del 18 settembre), che certo non avrebbe potuto colmarle senza correre il rischio di esercitare illegittimamente una funzione suppletiva rispetto a questioni che debbono trovare necessaria soluzione in sede normativa. Quale è quella -più volte reiterata- di introdurre un’adeguata ed efficace tutela del segretario comunale e provinciale, investito di importanti funzioni di controllo interno di legalità, tra cui il ruolo di Rpct.
Evidente è apparsa la definizione di un sistema di tutela che appare limitato rispetto a quello riservato al whistleblower dalla legge n. 179/2017.
L'organo competente alla comunicazione della revoca
La legge prevede che la comunicazione del provvedimento di revoca all’Anac debba essere effettuata dai prefetti nei casi previsti dall'articolo 1, comma 82, della legge 190/2012. L'articolo 15, comma 3, del Dllgs 39/2013, invece, prevede in modo più generico che «il provvedimento di revoca (…) comunque motivato, è comunicato all'Autorità», senza ulteriori specificazioni.
L'interpretazione data dal regolamento, dunque, tenuto conto del tenore delle norme e anche per responsabilizzare le amministrazioni, è che la revoca va comunicata immediatamente da chi ha adottato l'atto o dal prefetto. A questo fine, l’Anac si è riservata di fornire linee di indirizzo agli enti locali, tenuto conto che da questi dipende l'adempimento da parte dell'autorità prefettizia. Né è stato previsto che siano le organizzazioni sindacali cui il Rptc avesse aderito o conferito mandato possano comunicare la revoca.
Diversamente, tale possibilità non è stata esclusa a priori per segnalare misure discriminatorie, come avviene per esempio per la comunicazione di atti ritorsivi nei confronti del whistleblower.
L'inapplicabilità della tutela riservata al whistlelower
Il regolamento Anac in vigore dal 24 agosto scorso non ha potuto introdurre strumenti di protezione analoghi a quelli riconosciuti dall'articolo 1, commi 7 e 8, della legge 179/2017 per il whistleblower. E nemmeno analoghe sanzioni.
Come evidenziato dall'Autorità nella relazione AIR allegata al regolamento, sono due normative con finalità differenti che non possono essere assimilate. A ciò si aggiunga che per le sanzioni vale il principio di stretta legalità, per cui non è possibile applicarle in via analogica.
Esclusa, in quanto la normativa non lo prevede, anche la possibilità di estendere la tutela del regolamento per un periodo di tempo predeterminato (non inferiore a un anno) anche oltre la cessazione dall'incarico del Rpct, per evitare che le eventuali misure discriminatorie, irrogate in tale periodo, sfuggano completamente alla funzione di controllo dell'Anac con il semplice metodo della loro adozione in via differita.
La questione (irrisolta) della tutela del segretario
Rimane irrisolta –e non poteva essere diversamente in assenza di norma specifiche– la questione della tutela del segretario comunale e provinciale rispetto a provvedimenti di revoca immotivati da parte dell'organo di indirizzo politico competente alla nomina.
L'attribuzione di funzioni in materia di prevenzione della corruzione, infatti, è stata «bilanciata» dalla legge con la previsione di una tutela aggiuntiva al segretario da attivarsi nelle ipotesi di revoca dall'incarico di Rpct, per evitare che la stessa divenisse meccanismo di ritorsione. Questa tutela aggiuntiva si limita alla sospensione di efficacia della revoca del segretario comunale per 30 giorni, termine entro il quale l'Anac deve verificare se il provvedimento sia in qualche modo connesso alle funzioni svolte in materia di anticorruzione.
L'Anac può formulare una richiesta di riesame qualora rilevi che la revoca sia correlata alle attività svolte dal responsabile in materia di prevenzione della corruzione. Decorso il termine la revoca diventa in ogni caso efficace. In tal senso, l'Autorità non interviene a valutare la legittimità o meno del provvedimento di revoca in relazione ai comportamenti e agli inadempimenti contestati, ma solo per verificare se sia correlata alle attività svolte dal segretario comunale in materia di prevenzione della corruzione.
Occorre peraltro evidenziare che con la deliberazione del 23.01.2017 n. 20, l'Anac ha espresso parere non favorevole alla revoca di un Segretario, modificando in termini estensivi il perimetro dell'ambito della propria verifica (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 20.09.2018).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALI: Inconferibilità di incarichi ai sensi dell'art. 8 del D.Lgs. 39/2013. Incompatibilità sopravvenuta ai sensi delle disposizioni del D.Lgs. 267/2000.
   1) Non sussiste la causa di inconferibilità di cui all’art. 8, co. 5, del D.Lgs. 39/2013 per l’assessore di un Comune con popolazione inferiore a 15.000 abitanti che sia nominato direttore generale di un’azienda sanitaria nel cui ambito territoriale è compreso il Comune presso cui l’amministratore locale svolge il proprio mandato elettivo.
   2) L’indicata causa di inconferibilità non sussiste nemmeno nel caso in cui il Comune partecipi ad un’Unione territoriale intercomunale con popolazione superiore a 15.000 abitanti, compresa nell'ambito territoriale dell'azienda sanitaria, a condizione che l’amministratore locale non faccia parte (o non abbia fatto parte nei due anni precedenti) dell’organo consiliare o dell’organo con funzioni esecutive dell’Unione.
   3) Nel caso in cui l’assessore comunale venisse nominato direttore generale di un’azienda sanitaria si realizzerebbe, invece, la causa di incompatibilità sopravvenuta di cui all’art. 66 TUEL, il quale prevede che “La carica di direttore generale, di direttore amministrativo e di direttore sanitario delle aziende sanitarie locali e ospedaliere è incompatibile con quella di consigliere provinciale, di sindaco, di assessore comunale, di presidente o di assessore della comunità montana.”

Il Comune, il quale ha una popolazione inferiore a 15.000 abitanti e partecipa ad un’Unione territoriale intercomunale con popolazione superiore alla soglia indicata, chiede un parere in merito alla possibilità che un proprio assessore sia nominato direttore generale di azienda sanitaria, alla luce della disposizione dettata in materia di inconferibilità di incarichi dall’art. 8, comma 5, del decreto legislativo 08.04.2013, n. 39.
Tale norma stabilisce infatti che “Gli incarichi di direttore generale, direttore sanitario e direttore amministrativo nelle aziende sanitarie locali non possono essere conferiti a coloro che, nei due anni precedenti, abbiano fatto parte della giunta o del consiglio di una provincia, di un comune con popolazione superiore ai 15.000 o di una forma associativa tra comuni avente la medesima popolazione, il cui territorio è compreso nel territorio della ASL”.
Premesso che la consistenza demografica del Comune esclude di per sé il sorgere della causa di inconferibilità in esame, per quanto riguarda la “forma associativa tra comuni”, risulta necessario verificare che l’assessore comunale non faccia parte (o non abbia fatto parte nei due anni precedenti) dell’organo consiliare o dell’organo con funzioni esecutive dell’Unione.
Atteso che, secondo quanto precisato dal Comune, l’assessore non partecipa/ha partecipato né all’Assemblea né all’Ufficio di Presidenza dell’Unione, in coerenza con le previsioni statutarie relative alla composizione degli organi della forma associativa, si ritiene che non si configuri nei suoi confronti l’inconferibilità dell’incarico di direttore generale dell’azienda sanitaria, di cui alla disposizione in argomento.
Qualora all’assessore sia conferito detto incarico, il Comune chiede inoltre se nei suoi confronti venga in essere una causa di incompatibilità sopravvenuta, ai sensi delle disposizioni contenute nel decreto legislativo 18.08.2000, n. 267.
Al riguardo rileva il disposto di cui all’articolo 66 TUEL il quale recita: “La carica di direttore generale, di direttore amministrativo e di direttore sanitario delle aziende sanitarie locali e ospedaliere è incompatibile con quella di consigliere provinciale, di sindaco, di assessore comunale, di presidente o di assessore della comunità montana.”.
Segue che, nel caso in cui l’assessore comunale venisse nominato direttore generale di un’azienda sanitaria si realizzerebbe la causa di incompatibilità sopravvenuta sopra descritta con necessità che il consiglio comunale attivi nei suoi confronti il procedimento di cui all’articolo 69 TUEL (21.12.2018 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Certificato giorno prima.
Domanda
Quali sono i casi in cui il certificato di malattia può avere validità dal giorno precedente quello della redazione?
Risposta
L’Inps ha fornito indicazioni nel merito della domanda formulata con le circolari n. 63 del 07.03.1991 e n. 147 del 15.07.1996.
Pur essendo circolati molto retrodatate, sono istruzioni che l’Istituto ritiene tutt’ora valide e che si esprimono in merito alla validità della data di decorrenza della prognosi indicata nel certificato di malattia ai fini del riconoscimento della tutela previdenziale da parte dell’istituto.
Le istruzioni precisano che il certificato di malattia ha validità dal giorno di redazione e l’eventuale compilazione della voce “dichiara di essere ammalato dal…” assume rilevanza solo come dato anamnestico.
Le circolari precisano che, solo in caso di certificazione rilasciata durante una visita domiciliare, l’istituto ammette la possibilità di riconoscere la sussistenza dello stato morboso e la relativa copertura previdenziale di malattia, anche dal giorno precedente alla data di redazione del certificato medesimo.
Le indicazioni sono state fornite in un momento in cui la redazione del certificato era esclusivamente cartacea e non era possibile identificare con certezza se la visita era stata domiciliare o ambulatoriale.
Da questo derivava una tolleranza da parte dell’istituto sul giorno precedente alla redazione della certificazione.
Dall’introduzione del certificato telematico è possibile inserire nella “maschera” del certificato se la visita è stata eseguita in ambulatorio o al domicilio del paziente.
Solo nel caso della visita domiciliare l’istituto ammette la “copertura” del giorno precedente.
Le indicazioni sopra riportate valgono certamente per i dipendenti privati e possono ragionevolmente intendersi valevoli anche per i lavoratori del pubblico impiego nella misura in cui l’ente intenda darne applicazione. Ricordiamo che nelle aziende private la tutela e la copertura della malattia è a carico dell’Istituto mentre nel pubblico impiego è a carico dell’ente. Dette istruzioni possono certamente guidare nell’interpretazione delle norme, e, per analogia di fattispecie trattata, essere applicate.
Interessante precisazione viene offerta nelle ipotesi di lavoratori turnisti. Qualora l’evento di malattia si manifesti in orario successivo alla chiusura dell’ambulatorio medico, il lavoratore, ai fini dell’erogazione dell’indennità di malattia dell’Inps, dovrà necessariamente rivolgersi ad una struttura pubblica di continuità assistenziale per il rilascio della certificazione attestante l’incapacità temporanea al lavoro.
Qualora ciò non fosse possibile, per motivi giustificati e da documentare adeguatamente, il lavoratore medesimo potrà farsi rilasciare la certificazione di malattia dal medico durante il giorno successivo all’inizio dell’evento (20.12.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI: Svincolo offerente.
Domanda
Vorrei sottoporre una questione che riguarda l’area organizzativa di cui sono responsabile, relativamente all’aggiudicazione di un appalto di assistenza software ed hardware.
Per varie lungaggini e, soprattutto, per sopravvenute carenze finanziarie, pur avendo bandito una procedura ad invito (ai sensi dell’articolo 36, comma 2, lett. b), del codice dei contratti, non siamo riusciti ad aggiudicare nel termine di 60 giorni dalla scadenza della gara e l’aggiudicataria ha comunicato che non intende procedere con la stipula del contratto per scadenza dei termini.
Vorremmo capire, pertanto, se siamo, come stazione appaltante, vincolati a questo comportamento (visto che il ritardo è senza dubbio imputabile all’amministrazione) o se abbiamo invece, altre possibilità come procedere all’assegnazione dell’appalto al secondo in graduatoria.
Risposta
La questione posta ha una certa rilevanza anche perché incide sulla correttezza dei rapporti che la stazione appaltante (e reciprocamente), l’appaltatore debbono mantenere.
Dal quesito non è chiaro il riferimento al termine di 60 giorni come vincolo per l’aggiudicazione. In realtà, il termine indicato viene in rilievo in relazione alla stipula del contratto (e non di aggiudicazione).
Ai sensi del comma 1 dell’articolo 32 del codice dei contratti, il termine di 60 giorni è riferito al “tempo” entro cui occorre giungere alla formalizzazione del contratto (da cui, tra l’altro, sorge, l’obbligazione giuridica che consente l’assunzione dell’impegno di spesa).
Il comma citato –prima parte– sottolinea che “Divenuta efficace l’aggiudicazione, e fatto salvo l’esercizio dei poteri di autotutela nei casi consentiti dalle norme vigenti, la stipulazione del contratto di appalto o di concessione ha luogo entro i successivi sessanta giorni, salvo diverso termine previsto nel bando o nell’invito ad offrire, ovvero l’ipotesi di differimento espressamente concordata con l’aggiudicatario. Se la stipulazione del contratto non avviene nel termine fissato, l’aggiudicatario può, mediante atto notificato alla stazione appaltante, sciogliersi da ogni vincolo o recedere dal contratto”.
Aspetto completamente diverso è quello del “tempo” dell’aggiudicazione. Il tempo (o il termine) dell’aggiudicazione deve essere indicato nel bando di gara (o atto omologo) e, tradizionalmente viene fissato dalla norma –in caso di mancata espressa o diversa indicazione– in 180 giorni. Termine che decorre dalla data di scadenza di presentazione dell’offerta.
In particolare, il comma 4 sempre dell’articolo 32, –secondo disposizioni già note anche sotto l’egida del pregresso codice degli appalti– puntualizza che “Ciascun concorrente non può presentare più di un’offerta. L’offerta è vincolante per il periodo indicato nel bando o nell’invito e, in caso di mancata indicazione, per centottanta giorni dalla scadenza del termine per la sua presentazione. La stazione appaltante può chiedere agli offerenti il differimento di detto termine”.
Ora, non v’è dubbio che se nella lettera di invito (o nel testo della richiesta a presentare offerta o in atti tecnici differenti) non è stata riportata alcuna indicazione (e deve ritenersi sufficiente un semplice richiamo al codice dei contratti) il termine che l’appaltatore deve “subire” è quello di 180 giorni. Sempre fatto salvo che invece non sia stato indicato altro termine.
Se viene a mancare una indicazione specifica e diversa, la norma in questione è eterointegrativa e l’appaltatore non può legittimamente rifiutarsi di stipulare il contratto. Si esporrebbe a provvedimenti della stazione appaltante (quelli classici dell’escussione della cauzione e della trasmissione degli atti all’ANAC ed in più detto comportamento è valutabile anche in successivi appalti quale “misuratore” dell’affidabilità ai sensi dell’articolo 80 del codice).
Il suggerimento, evidentemente, è quello di convocare l’appaltatore ponendo in chiaro il riferimento normativo e gli obblighi a cui deve sottostare per aver partecipato alla competizione.
In difetto si opera con un provvedimento di revoca dell’aggiudicazione imputabile all’appaltatore e assegnazione al secondo classificato.
In giurisprudenza, può essere utile il ragionamento espresso dal TAR Puglia, Bari, sez. III, sentenza del 06.12.2018 n. 1556.
In questa si legge che “l’art. 32, comma 4, del Dlgs 50/2016, prevede che nelle gare d’appalto l’offerta del concorrente è vincolante per il periodo indicato nel bando e, in caso di mancata indicazione, per 180 giorni decorrenti dalla scadenza del termine per la sua presentazione, salvo che la Stazione appaltante chieda ai concorrenti il differimento di tale termine. La disposizione in questione, tuttavia, contrariamente a quanto sostenuto da parte ricorrente, non prevede una ipotesi di decadenza ex lege dell’offerta decorso il relativo termine, consentendo all’offerente, con atto espresso, di potersi svincolare dalla stessa prima dell’approvazione dell’aggiudicazione definitiva. Pertanto, se l’offerente non dichiara tempestivamente (alla scadenza del predetto termine di 180 giorni, ma prima dell’approvazione dell’aggiudicazione definitiva) di ritenersi sciolto dall’offerta, la stessa non decade” (19.12.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI: Verifiche contributi associazioni, onlus, fondazioni.
Domanda
La cosiddetta Legge Concorrenza ha introdotto l’obbligo per “associazioni, onlus e fondazioni” di comunicare entro il 28 febbraio, tramite il proprio sito, i contributi ricevuti dalle pubbliche amministrazioni, pena la restituzione delle somme.
Dal momento che il nostro comune eroga contributi, durante l’anno, a tali associazioni, dobbiamo compiere delle verifiche?
Risposta
La legge 04.08.2017, n. 124, recante: Legge annuale per il mercato e la concorrenza, all’articolo 1, commi 125, 126 e 127 ha disposto, fra le altre cose, un adempimento per le associazioni che ricevono benefici economici da parte delle pubbliche amministrazioni. Se tali contributi o vantaggi economici superano, durante l’anno solare, l’importo di 10.000 euro, le associazioni dovranno pubblicare i dati e le informazioni in un’apposita sezione del proprio sito internet.
L’obbligo menzionato riguarda “le associazioni, le Onlus e le fondazioni che intrattengono rapporti economici con le pubbliche amministrazioni” (oltre che con società controllate di diritto o di fatto direttamente o indirettamente da pubbliche amministrazioni) e cioè che ricevono da queste “sovvenzioni, contributi, incarichi retribuiti e comunque vantaggi economici di qualunque genere”.
La normativa, entrata in vigore il 29.08.2017, si riferisce non solo ai contributi pubblici, ma anche agli incarichi affidati dalla pubblica amministrazione alle organizzazioni menzionate, aventi natura commerciale, oltre che i vantaggi economici di qualunque genere.
Se l’importo di tali diverse voci, sommate fra loro, supera, nell’anno solare, i 10.000 euro, l’organizzazione deve pubblicare sul sito web, entro il 28 febbraio dell’anno successivo, l’entità di quanto ha ricevuto. Se, invece, il contributo ricevuto fosse di importo inferiore, non è previsto alcun obbligo di pubblicazione.
La norma prevede anche una sanziona piuttosto pesante, conseguente al mancato adempimento: l’obbligo di restituzione dell’intera somma ricevuta, ai soggetti eroganti.
Il passaggio rilevante, per coloro che erogano i benefici economici, sta proprio nel fatto che, in caso di omessa pubblicazione, i soggetti inadempienti sono tenuti alla restituzione delle somme, entro tre mesi dal termine del 28 febbraio.
Per rispondere al quesito posto, quindi, si evidenzia che in via indiretta, la normativa richiama degli obblighi di verifica e controllo, in capo al comune, circa l’avvenuto adempimento della pubblicazione dei dati da parte dei soggetti del Terzi Settore.
Alla data del 28.02.2019, risulta perciò opportuno che si compia una verifica sul portale o sul sito internet del soggetto beneficiario, al fine di verificare la tempistica dell’adempimento.
Qualora il soggetto non abbia provveduto alla pubblicazione entro i termini, il comune dovrà avvisare il beneficiario del contributo che, a partire dal 31 maggio, sarà tenuto a richiedere in restituzione le somme erogate, come disposto dalla normativa.
Inoltre, si suggerisce di inserire negli accordi e nelle convenzioni che verranno stipulate con le associazioni, che erogano particolari servizi a favore dell’ente, una disposizione che imponga all’associazione di comunicare, all’ente locale, l’avvenuto adempimento della pubblicazione, segnalando, ad esempio, il link dove sono rintracciabili le informazioni necessarie.
Si evidenzia, infine, che, a carico del comune erogatore dei benefici economici, permangono comunque gli obblighi di pubblicazione già previsti dagli articoli 26 e 27 del d.lgs. 33/2013, ossia:
   • pubblicazione degli atti di concessione delle sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari alle imprese, e comunque di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati di importo superiore a mille euro (articolo 26, comma 2);
   • pubblicazioni degli atti con i quali sono determinati i criteri e le modalità di concessione dei benefici economici di cui al punto precedente (articolo 26, comma 1);
   • pubblicazione annuale dell’elenco dei soggetti beneficiari (art. 27, comma 2) (18.12.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

TRIBUTI: Esonero TOSAP passi carrai.
Domanda
Questo ente applica la tassa per l’occupazione degli spazi ed aree pubbliche (TOSAP) e vorrebbe abolire il tributo sui passi carrabili. E’ possibile?
Risposta
Prima di rispondere al quesito è opportuno premettere che tra le occupazioni permanenti una posizione del tutto specifica è assunta dai passi carrabili, la cui disciplina originaria (art. 44 del d.lgs. 507/1993) è stata in buona parte riscritta con la l. 549/1995 (collegata alla finanziaria 1996).
In particolare, la determinazione della superficie da assoggettare ad imposizione avviene con criteri in parte forfettari, assumendo l’apertura del passo carrabile per la profondità convenzionale di un metro lineare.
L’ammontare della tassa per metro quadrato, applicabile ai passi carrabili, è pari a quella ordinaria, stabilita per le altre occupazioni permanenti, ridotta alla metà. Tale riduzione peraltro non dipende dalla discrezionalità degli enti impositori, ma è dovuta in base alla legge.
I comuni hanno, invece, la facoltà di applicare il COSAP (canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche: art. 63 del d.lgs. 446/1997) in alternativa alla TOSAP, oppure rimanere in TOSAP ma non applicare la tassa sui passi carrabili (esonero, peraltro, estensibile ad altre fattispecie, tra cui le autovetture adibite a trasporto pubblico o privato nelle aree pubbliche e le condutture idriche necessarie per l’attività agricola nei comuni classificati montani).
Invero, per quanto riguarda il quesito sull’esonero dei passi carrabili, non si rinviene nel d.lgs. 507/1993 alcuna previsione specifica ma occorre fare riferimento a norme contenute in altri provvedimenti legislativi e, in particolare, nell’art. 6, comma 63, lett. a), della l. 549/1995, e nell’art. 6-quater, comma 4, della l. 410/1997 (che ha introdotto il comma 63-bis all’art. 6 della l. 549/1995).
In particolare, l’art. 3, comma 63, lett. a), della l. 549/1995 stabilisce che i comuni, anche in deroga agli artt. 44 e seguenti del d.lgs. 507/1993, possono con apposite deliberazioni “stabilire la non applicazione della tassa sui passi carrabili”.
Inoltre, l’art. 6-quater, comma, 3 della l. 410/97 (di conversione del d.l. 29/9/1997 n. 328) consente ai comuni di attribuire alla relativa delibera effetto retroattivo.
I comuni hanno pertanto la facoltà, con propria deliberazione, alla quale può essere attribuita efficacia retroattiva, di esonerare dalla TOSAP le occupazioni realizzate con passi carrabili per gli anni nei quali non sia stata applicata la tassa (art. 3, comma 63, lett. a), della l. 549/1995; art. 6-quater, comma 3, della l. 410/1997; Ministero Finanze risoluzione 10/02/1999 n. 19/E).
Si evidenzia, infine, che il Ministero delle Finanze ha ritenuto legittimo il comportamento dell’ente che abbia disciplinato in sede regolamentare l’applicazione del beneficio dell’esenzione ai soli passi carrabili di uso agricolo (Risoluzione n. 101/E del 04/07/2000), vale a dire i passi carrabili utilizzati da veicoli agricoli o da mezzi comunque impiegati nell’esercizio normale delle attività di cui all’art. 2135 c.c. (17.12.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Calcolo e utilizzo resti assunzionali.
Domanda
Il nostro ente ha avviato nel 2018 una procedura di assunzione che si concluderà, presumibilemente, nel 2019. Potete spiegare come funziona l’utilizzo dei resti della capacità assunzionale?
Risposta
Non avendo conoscenza delle modalità di calcolo della capacità assunzionale effettuato dall’ente, si premette che, se non utilizzata entro il 31.12.2019, solo la quota dei resti inutilizzati dell’anno 2016 sulle cessazioni di personale avvenute nell’anno 2015, andrà “persa” e non potrà più essere utilizzata.
Non bisogna riferirsi ad un aggregato unico, poiché il triennio precedente è a scorrimento, dinamico.
Nel calcolo della capacità assunzionale dell’anno 2019, l’ente avrebbe già dovuto tener conto di ciò, procedendo, dapprima al calcolo della capacità assunzionale di competenza, basata sulle cessazioni di personale dell’anno 2018, e poi sommare a questo dato, l’importo dei resti 2016/2018, sulle cessazioni 2015/2017.
Comunque, fermo restando l’impossibilità di entrare nel dettaglio non avendo tutti gli elementi conoscitivi necessari, se l’ente è in grado di dimostrare di aver attivato tutte le procedure propedeutiche all’assunzione già a partire dall’anno 2018, e non ha modificato l’atto di programmazione del fabbisogno di personale, confermando l’esigenza di coprire il posto del profilo ricercato, si ritiene che l’ente possa concludere le procedure assunzionali entro l’anno 2019 (13.12.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI: Operatore economico non invitato.
Domanda
Come RUP mi sono occupato di predisporre gli atti per una procedura negoziata per la fornitura di cancelleria. Al procedimento, per un importo sotto soglia, ho, previa indagine di mercato sul MEPA, individuato 7 operatori a cui ho rivolto specifico invito.
Tra le offerte, peraltro non ancora aperte, è pervenuta la proposta tecnico/economica di un diverso operatore che, evidentemente venuto a conoscenza della procedura, ha deciso di partecipare alla procedura negoziata nonostante non sia stato esplicitamente invitato.
Nell’analizzare questo aspetto, con il responsabile del servizio, ci si è posti il problema se questo soggetto partecipante alla gara debba essere ammesso. Secondo alcuni operatori il RUP dovrebbe procedere con l’esclusione ma io rimango con forti dubbi. E’ possibile avere un chiarimento in merito?
Risposta
L’aspetto sollevato è, effettivamente, uno dei più delicati in quanto, normalmente, alla procedura negoziata (soprattutto in relazione ad un procedimento semplificato e libero come quello previsto nell’articolo 36 del codice dei contratti), ordinariamente può partecipare solo l’appaltatore che viene invitato.
Del resto, aspetti differenti non emergono neppure dalle linee guida n. 4 dell’ANAC che rimettono a discrezione della stazione appaltante su come modellare l’avviso pubblico e/o come procedere con l’indagine di mercato purché secondo criteri trasparenti ed oggettivi.
È bene però annotare che, anche in ossequio ad un comportamento imparziale, anche la recente giurisprudenza ha invece evidenziato che, in caso di proposta da parte di un operatore non invitato (sempre che risulti in possesso dei prescritti requisiti), la stazione appaltante non possa discrezionalmente decidere l’estromissione.
In questo senso, esemplificativo è il riscontro fornito dal Tar Abruzzo–L’Aquila, con la recente sentenza n. 397/2018 con cui il giudice ha ritenuto persuasivo il ragionamento del ricorrente che ha impugnato la propria esclusione (o meglio il fatto che la propria offerta non sia stata oggetto di considerazione per il fatto che risultava appaltatore non invitato).
Di seguito si porta la parte sostanziale della sentenza con suggerimento al RUP di attenersi a quanto in essa indicato;
Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti pubblicava nell’Agosto 2018 la lettera d’invito per l’affidamento, con il sistema della procedura negoziata di cui all’art. 36, comma 2, lett. c), del D.Lgs. 50/2016, dei lavori di consolidamento per il ripristino della transitabilità di un tratto della S.P. 49 di Valle Castellana;
Considerato che la ricorrente, che aveva espressamente richiesto di poter partecipare alla procedura, presentava domanda di partecipazione pur non avendo ricevuto la lettera d’invito;
Ritenuto che la disposizione di cui all’art. 36, lett. c), D.Lgs. 50/2016 delinei una disciplina speciale che, pur nel rispetto dei principi di non discriminazione, parità di trattamento, proporzionalità e trasparenza, affida esclusivamente all’amministrazione, non essendo prevista la previa pubblicazione del bando di gara, l’individuazione degli operatori economici astrattamente idonei a svolgere la prestazione e pertanto invitati a presentare l’offerta, ispirandosi a principi di snellimento e celerità della procedura e che, trattandosi pertanto di una procedura speciale e derogatoria dei principi di pubblicità, come tale limitativa dell’altro principio della massima partecipazione possibile posto a tutela della concorrenza, le relative disposizioni devono essere oggetto di stretta interpretazione;
Considerato che la giurisprudenza amministrativa ha affermato che “la Sezione è dell’avviso che se, in ragione del potere riconosciuto all’amministrazione di individuare gli operatori economici idonei a partecipare e pertanto invitati a partecipare alla gara, un operatore economico non possa vantare alcun diritto ad essere invitato a partecipare a tale tipo di gara (potendo eventualmente, qualora sussista una posizione legittimante e l’interesse, ricorrere nei confronti della scelta discrezionale della amministrazione appaltante dell’individuazione dei soggetti da invitare), non può negarsi ad un operatore economico, che sia comunque venuto a conoscenza di una simile procedura e che si ritenga in possesso dei requisiti di partecipazione previsti dalla legge di gara, di presentare la propria offerta, salvo il potere dell’amministrazione di escluderlo dalla gara per carenze dell’offerta o degli stessi requisiti di partecipazione ovvero perché l’offerta non è pervenuta tempestivamente (rispetto alla scadenza del termine indicata nella lettera di invito agli operatori invitati) e sempre che la sua partecipazione non comporti un aggravio insostenibile del procedimento di gara e cioè determini un concreto pregiudizio alle esigenze di snellezza e celerità che sono a fondamento del procedimento semplificato delineato dall’art. 122, comma 7, e 57, comma 6, del D.Lgs. n. 163/2006: conseguentemente anche gli altri partecipanti, in quanto invitati, non possono dolersi della partecipazione alla gara di un operatore economico e tanto meno dell’aggiudicazione in favore di quest’ultimo della gara, salva evidentemente la ricorrenza di vizi di legittimità diversi dal fatto della partecipazione in quanto non invitato.
Una simile interpretazione è conforme non solo e non tanto al solo principio del favor partecipationis, costituendo piuttosto puntuale applicazione dell’altro fondamentale principio di concorrenza cui devono essere ispirate le procedure ad evidenza pubblica e rappresentando contemporaneamente anche un ragionevole argine, sia pur indiretto e meramente eventuale, al potere discrezionale dell’amministrazione appaltante di scelta dei contraenti” (Cons. St. 3989/2018)
” (12.12.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Anonimizzazione percettori contributi.
Domanda
Nel nostro comune, per rendere anonime le persone a cui viene erogato un contributo, utilizziamo le iniziali. A un corso di formazione ci è stato detto che non vanno bene. Come potremmo agire per essere trasparenti e rispettare le norme di legge in materia di privacy?
Risposta
L’articolo 26, comma 4, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33 (cosiddetto decreto Trasparenza), prevede l’esclusione dalla pubblicazione dei dati identificativi dei destinatarie di provvedimenti di concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi e attribuzione di vantaggi economici a persone fisiche, qualora da tali dati sia possibile ricavare informazioni sullo stato di salute o sulla situazione di disagio economico-sociale.
Trattandosi di categorie di persone ben delineate, l’esclusione deve intendersi assoluta, per cui l’ente dovrà adottare tutte le cautele necessarie a rendere non identificabili i soggetti beneficiari. In tal senso, l’uso delle iniziali del cognome e nome, a nostro giudizio, non risponde affatto alle caratteristiche che una sana operazione di anonimizzazione dovrebbe garantire.
Molto più valido ci appare, alla luce delle Linee guida del garante privacy, l’utilizzo di un codice identificativo sostitutivo, con il quale individuare il soggetto beneficiario di un contributo economico.
A completamento informativo, si fa presente che:
   a) per contributi e sovvenzioni occorre rifarsi alle disposizioni dell’art. 12, della legge 07.08.1990, n. 241 e del regolamento (obbligatorio) presente in ogni ente;
   b) nella sezione Amministrazione trasparente l’obbligo riguarda solamente i contributi di importo superiore a 1.000 euro, erogati con appositi atti di concessione;
   c) la pubblicazione è condizione di efficacia dei provvedimenti e, quindi, deve avvenire tempestivamente e, comunque, prima della liquidazione delle somme oggetto del provvedimento;
   d) l’elenco dei contributi erogati, deve essere reso anche disponibile nella sezione «Amministrazione trasparente», secondo modalità di facile consultazione, in formato tabellare aperto che ne consenta l’esportazione, il trattamento e il riutilizzo e devono essere organizzate annualmente in unico elenco per singola amministrazione;
   e) molte amministrazioni –prevedendolo nella sezione Trasparenza del Piano Anticorruzione– hanno esteso l’obbligo di pubblicare tutti gli atti di concessione di contributi o vantaggi economici, di qualsiasi importo.
Resta, comunque, confermato l’obbligo di non rendere identificabili i nominativi dei beneficiari (persone fisiche), quando il contributo è dovuto per situazione di salute o legata a condizione socio-economica, quali –ad esempio– graduatorie compilate mediante reddito ISEE o altri parametri economici, di norma, stabiliti nei vari regolamenti in materia.
Per comprendere meglio tutta la questione del rapporto tra obblighi di pubblicità e trasparenza e obblighi di tutela dei dati delle persone fisiche, si consiglia un’attenta lettura (e applicazione) delle Linee Guida del Granate privacy italiano, datate 15.05.2014, rubricate “Linee guida in materia di trattamento di dati personali, contenuti anche in atti e documenti amministrativi, effettuato per finalità di pubblicità e trasparenza sul web da soggetti pubblici e da altri enti obbligati”.
Per coloro che redigono e approvano atti che vengono pubblicati sui siti web delle amministrazioni (albo pretorio e amministrazione trasparente), le citate Linee guida sono la “Bibbia” a cui attenersi con scrupolo e meticolosità (11.12.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALIQuesito sulla disciplina della parità di genere nelle giunte comunali dei Comuni con popolazione inferiore ai 3.000 abitanti.
È legittima la composizione della giunta di un comune con popolazione inferiore a 3.000 abitanti composta dal sindaco di genere femminile e due assessori di genere maschile.
Per quanto riguarda il numero la composizione rispetta la legge regionale 29.12.2010, n. 22 (Legge finanziaria 2011) e il dettato dello Statuto comunale, che prevede che “la Giunta è composta dal sindaco che la presiede e fino a 4 assessori uno dei quali è investito della carica di vice sindaco”, conferendo al Sindaco spazi di discrezionalità nella determinazione del numero degli stessi, potendo lo stesso, entro il limite massimo stabilito dallo statuto, nominarne il numero che reputa ottimale.
Sotto il profilo del rispetto delle quote di genere è conforme sia allo statuto comunale, che prevede che la rappresentanza di ciascun genere sia garantita in misura non inferiore ai 2/5, arrotondati per difetto, dei componenti della Giunta sia al l’articolo 46, comma 2, del decreto legislativo 267/2000, così come modificato dall’articolo 2, comma 1, lettera b), della legge 23.11.2012, n. 215, il quale recita: “Il sindaco (…) nomina (…), nel rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la presenza di entrambi i sessi, i componenti della Giunta (…)”.

Il Sindaco del Comune, la cui popolazione all’ultimo censimento ufficiale è pari a 1.715 abitanti, chiede un parere in merito al computo o meno del sindaco fra i componenti della giunta comunale; un tanto al fine di verificare la conformità dell’attuale organo esecutivo (composto dal sindaco di genere femminile e da due assessori dell’altro genere) alla previsione statutaria dell’Ente, che fissa la rappresentanza di genere in misura non inferiore ai due quinti, arrotondati per difetto, dei componenti della giunta.
Nei Comuni della Regione Friuli Venezia Giulia la composizione delle Giunte comunali è disciplinata dalla legge regionale 29.12.2010, n. 22 (Legge finanziaria 2011), che all’articolo 12, comma 39, dispone che il numero massimo degli assessori comunali non possa essere superiore ad un quarto del numero dei consiglieri comunali, con arrotondamento all’unità superiore e computando nel calcolo anche il Sindaco. Per il Comune di cui trattasi, il numero massimo degli assessori risulta essere quattro, ai quali va aggiunto il sindaco, portando la composizione della Giunta comunale a complessivi cinque componenti.
La previsione legislativa va letta però nell’ottica dell’autonomia statutaria dell’Ente, che consente allo statuto comunale, nel rispetto della soglia massima stabilita dalla legge, di fissare il numero degli assessori ovvero il numero massimo degli stessi. Pertanto, nell’ipotesi in cui lo statuto dell’Ente preveda la nomina di un numero di assessori inferiore al massimo consentito dalla legge regionale, il sindaco dovrà attenersi al numero massimo indicato dallo statuto in vigore, mentre nel diverso caso in cui lo statuto preveda la nomina di un numero di assessori superiore al massimo consentito dalla legge regionale, il Sindaco dovrà attenersi al numero massimo indicato da quest’ultima.
Nel caso di specie, il numero massimo di assessori è fissato in quattro anche nello Statuto che, all’articolo 26, comma 1, dispone che “la Giunta è composta dal sindaco che la presiede e fino a 4 assessori uno dei quali è investito della carica di vice sindaco”, conferendo al Sindaco spazi di discrezionalità nella determinazione del numero degli stessi, potendo lo stesso, entro il limite massimo stabilito dallo statuto, nominarne il numero che reputa ottimale.
[1] Peraltro, come sottolineato anche dal Sindaco, dalla lettura sistematica dell’articolo 28, comma 3, del medesimo Statuto, si evince che il numero minimo di assessori nominabili coincide con il quorum costitutivo ivi fissato, ovvero due. [2]
Per quanto concerne poi, il tema della rappresentanza di genere nelle giunte comunali, la norma generale in vigore per i Comuni con popolazione inferiore a 3.000 abitanti è l’articolo 46, comma 2, del decreto legislativo 267/2000, così come modificato dall’articolo 2, comma 1, lettera b), della legge 23.11.2012, n. 215, il quale recita: “Il sindaco (…) nomina (…), nel rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la presenza di entrambi i sessi, i componenti della Giunta (…)”.
La disposizione non fissa delle vere e proprie quote da rispettare (che sono invece pari al 40% per i comuni con popolazione superiore ai 3.000 abitanti ai sensi della Legge 07.04.2014, n. 56, c.d. Legge Delrio), con la conseguenza che il principio potrebbe ritenersi rispettato anche con la presenza di un solo componente di genere diverso rispetto a quello maggiormente rappresentato.
[3]
In questo ambito, il Comune ha adeguato il proprio Statuto, prevedendo che la rappresentanza di ciascun genere sia garantita in misura non inferiore ai 2/5, arrotondati per difetto, dei componenti della Giunta (articolo 26, comma 2, dello Statuto), nell’esercizio dell’autonomia statutaria prevista dall’articolo 12, comma 2, della legge regionale 1/2006 e in attuazione dei principi contenuti nell’articolo 6, comma 3 e 46, comma 2, del TUEL.
Si precisa inoltre che il Ministero dell’interno, con la circolare del 09.06.2014, emanata all’indomani dell’entrata in vigore della Legge Delrio, ha chiarito che nel calcolo degli assessori vada incluso anche il Sindaco, a garanzia della rappresentanza di genere, osservando come il legislatore, laddove ha voluto il contrario, lo ha previsto espressamente.
[4]
Da tutto quanto sopra esposto consegue che l’attuale composizione della Giunta comunale risulta conforme al dettato normativo, sia sotto il profilo numerico che in tema di rispetto delle quote di genere fissate dalla disciplina statale e statutaria.
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[1] Cfr., fra gli altri, il parere del Ministero dell’interno 16.07.2009, consultabile al seguente indirizzo. Si veda anche la pubblicazione “L’ordinamento locale nel Friuli Venezia Giulia 2018” alle pagg. 26 e 27, reperibile sul Portale delle autonomie locali nella sezione Pubblicazioni.
[2] L’articolo 28 (Funzionamento della giunta) al comma 3, dello Statuto recita: “Le sedute sono valide se sono presenti 3 componenti e le deliberazioni adottate a maggioranza dei presenti”.
[3] Un tanto è sempre specificato nelle circolari in materia di composizione delle giunte comunali che annualmente lo scrivente Servizio redige per i comuni interessati al rinnovo dei propri organi (si veda, per il 2018, la circolare n. 04 EL/C dell’08.03.2018, reperibile al seguente indirizzo.
[4] Peraltro la presenza di un solo componente di genere femminile rispetta in ogni caso la quota di rappresentanza fissata dalla norma statutaria, che prevede l’arrotondamento per difetto, in quanto sia che i 2/5 siano calcolati su 3 (composizione attuale della Giunta) sia che lo siano su 4 (composizione della Giunta antecedente alle dimissioni del secondo assessore di genere femminile), il risultato (1,6 nel primo caso e 1,2 nel secondo) arrotondato è sempre 1
(05.12.2018 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Mancata elezione Presidente Consiglio comunale.
Sintesi/Massima
Mancata elezione Presidente Consiglio comunale.
Atteso il perdurare della mancata elezione della figura del presidente e dei suoi vice, in relazione a quanto disposto nelle norme statutarie dell’ente, le sedute del consiglio comunale successive alla prima debbono essere convocate dal Consigliere Anziano che dovrà inserire l’elezione del presidente al primo punto all’ordine del giorno.

Testo
Sono state chieste delucidazioni circa le funzioni esercitabili dal consigliere anziano, atteso il protrarsi della situazione di stallo determinata dalla mancata elezione del presidente del consiglio.
La prima seduta del consiglio comunale, eletto a seguito delle elezioni del giugno scorso, si è tenuta in data 03.08.2018.
Come previsto dagli artt. 39 e 40 del decreto legislativo n. 267/2000, tale adunanza è stata convocata dal sindaco e presieduta dal consigliere anziano. Tuttavia la votazione per l’elezione del Presidente del consiglio non ha dato esito positivo né nell’ambito della prima adunanza consiliare e neppure nelle votazioni che si sono tenute successivamente ai sensi dell’art. 8 dello statuto comunale.
Al riguardo, si rappresenta che la figura del presidente del consiglio è stata introdotta nell’ordinamento dall’art. 1 della l. n. 81/1993 al fine di assicurare, nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti, la separazione delle funzioni tra l’Ufficio di sindaco e quello di presidente del consiglio.
Ai sensi dell’art. 8 dello statuto comunale è previsto che "Il Presidente del Consiglio comunale è eletto, nella seduta di insediamento subito dopo la convalida degli eletti, con voto segreto a maggioranza dei due terzi dei componenti il Consiglio nel primo scrutinio e con la maggioranza assoluta a partire dal secondo scrutinio.
2. Qualora la maggioranza assoluta non venga conseguita entro il terzo scrutinio, la seduta è sospesa, e riprenderà secondo le modalità di cui al co. 3.
3. La votazione è ripetuta, fino ad un massimo di tre scrutini, in successive sedute, senza necessità di previa convocazione, da tenersi ogni 48 (quarantotto) ore.
4. Alle predette votazioni si procede, sempre a scrutinio segreto, fino al raggiungimento del voto favorevole della maggioranza assoluta dei componenti
.".
L’art. 9 della medesima fonte statutaria stabilisce che i Vice Presidenti, con priorità al Vice Presidente Vicario, sostituiscono il Presidente in caso di sua assenza, impedimento e vacanza. In caso di assenza, impedimento o vacanza anche dei Vice Presidenti, le funzioni di Presidente vengono svolte dal Consigliere anziano.
Dall’esame della normativa in commento emerge che lo stesso ente locale, nell’ambito della propria autonomia, si è dotato di strumenti idonei a consentire l’elezione di tale figura indefettibile nell’ambito dell’ordinamento locale, prevedendo votazioni ripetute ad oltranza, ogni 48 ore. Emerge, altresì, che in caso di vacanza delle figure di Presidente e dei Vice Presidenti sia il Consigliere Anziano a svolgere le funzioni presidenziali. Tale figura assume la totalità delle funzioni spettanti al Presidente. Circa l’eventualità che il consigliere anziano rinunci a presiedere l’assemblea, ai sensi dell’art. 12, comma 2, dello statuto comunale, tale rinuncia avrebbe effetto unicamente con riferimento ai poteri di presidenza nell’ambito della medesima seduta non potendo il consigliere anziano spogliarsi tout court di tutto il complesso dei poteri e delle funzioni attribuiti al presidente del consiglio.
Ciò premesso, atteso il perdurare della mancata elezione della figura del presidente e dei suoi vice, si rileva che, in relazione a quanto disposto nelle norme statutarie dell’ente, le sedute del consiglio comunale successive alla prima debbono essere convocate dal Consigliere Anziano che dovrà inserire l’elezione del presidente al primo punto all’ordine del giorno.
Le previsioni recate dall’art. 8, commi 2 e 3, dello statuto comunale si intendono riferite anche alle sedute successive alla prima.
Si fa presente, peraltro, che gli atti adottati da un consiglio che non sia riuscito ad eleggere il proprio presidente sono validi, tanto è vero che è lo stesso ordinamento locale a prevedere, in ipotesi, il perdurare di successive votazioni infruttuose da tenersi ogni 48 ore. Quanto al mancato giuramento del sindaco, appare utile far riferimento alle osservazioni diramate in materia da questa amministrazione con circolare n. 3 del 30.06.1999.
In tale atto fu precisato che, alla luce delle modifiche legislative intervenute ai sensi della legge n. 127/1997, i sindaci neoletti avrebbero assunto tutte le funzioni dopo la proclamazione, ivi comprese quelle di ufficiale di governo. Il giuramento del sindaco dinanzi al consiglio comunale, pur configurandosi quale adempimento solenne che individua nel rispetto alla Costituzione il parametro fondamentale dell’azione dell’organo di vertice dell’amministrazione "non può condizionare l’esercizio delle funzioni inerenti alla carica, che possono essere tutte legittimamente svolte sin dalla data della proclamazione".
Si osserva, altresì, che, nell’ambito dell’ordinamento degli enti locali, non si rinviene alcuna disposizione che attribuisca al Prefetto uno specifico potere di intervento in ordine alla problematica rappresentata (06.11.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

EDILIZIA PRIVATAPAVIMENTAZIONI INDUSTRIALI: devono essere considerate strutture? Il parere del Genio Regione Toscana.
PAVIMENTAZIONI INDUSTRIALI: un parere richiesto al Genio della Regione Toscana conferma la novità, in alcuni casi devono essere considerate strutture.
Come già evidenziato in alcune Circolari la nuova edizione delle Norme Tecniche delle Costruzioni contiene delle novità che portano ad includere alcune tipologie di pavimentazioni industriali tra le strutture.
Cosa significa questo? Per saperne di più abbiamo inviato un quesito alla Sezione Sismica della Regione Toscana, che ha portato il caso alla propria Commissione tecnica.
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IL NOSTRO QUESITO ALLA REGIONE TOSCANA
Premesso:
  
che la nuova revisione delle Norme Tecniche (ed. 2018) prevede al capitolo 4.1 che “Formano oggetto delle presenti norme le strutture di: Calcestruzzo armato normale (cemento armato), Calcestruzzo armato precompresso (cemento armato precompresso), Calcestruzzo a bassa percentuale di armatura o non armato” e che quindi anche le pavimentazioni industriali in calcestruzzo possano essere richiamate in quest’ultima voce;
  
che la proposta della circolare esplicativa delle NTC2018, introduce per la prima volta un riferimento esplicito alle pavimentazioni, attraverso il riferimento alle istruzioni sopra citate, riportato nel capitolo 4 (C4.1 Costruzioni in calcestruzzo);
  
che le Istruzioni per la Progettazione, l’Esecuzione ed il Controllo delle Pavimentazioni di Calcestruzzo emesse dal CNR (doc. CNR-DT 211/2014), stabiliscono per opere rilevanti la necessità di dimensionare e verificare la pavimentazione agli Stati Limite di Esercizio e Ultimi a cura di un progettista, di cui specificano compiti e responsabilità;
Qualora fosse confermato, nel decreto di pubblicazione, il testo della circolare sopra citato, si chiede:
   • se la progettazione delle pavimentazioni in calcestruzzo debba essere realizzata da un progettista abilitato;
   • se il progetto debba essere depositato presso il Genio Civile;
   • se la realizzazione della pavimentazione debba essere controllata da una direzioni lavori;
   • se non richieda la denuncia allo sportello unico, pur trattandosi di opere in conglomerato cementizio armato normale, composte da un complesso di strutture in conglomerato cementizio e armature con funzione statica, oppure in conglomerato cementizio armato post-tesi, quelle composte da strutture in conglomerato cementizio e armature nelle quali si imprime artificialmente uno stato di sollecitazione addizionale di natura ed entità che assicurano permanentemente l'effetto statico voluto.
Cordiali saluti.
Andrea Dari - Direttore CONPAVIPER
...
LA RISPOSTA DELLA REGIONE TOSCANA
Regione Toscana - Sismica: Responsabile di Settore

OGGETTO: DPR 380/2001 e LR 65/2014. Costruzioni in zona sismica - Parere in merito a “Le pavimentazioni in calcestruzzo” - Richiedente: Ente Nazionale CONPAVIPER.

In riferimento alla Vs. richiesta di parere via e-mail in data 21/09/2018 relativa ad eventuali obblighi connessi alla realizzazione di pavimentazioni in calcestruzzo si osserva occorre distinguere i seguenti casi:
   • la pavimentazione (ipotizzata come una soletta almeno debolmente armata) abbia una specifica funzione strutturale, autonoma oppure in combinazione con altri elementi (ad esempio travi) e che la stessa sia essenziale per assicurare, localmente o globalmente, la sicurezza statica della costruzione;
   • la pavimentazione costituisca solo un elemento di “finitura” della costruzione e pertanto lo si possa considerare come elemento “portato” alla stregua dei carichi permanenti non strutturali usualmente gravanti sulle costruzioni.
A parere di questo Settore solo il sopra illustrato caso 2 risulta esentato dall’obbligo del deposito del progetto ai sensi degli art. 65 e 93 del DPR 380/2001, restando inteso che le strutture chiamate a sostenere tale pavimentazione dovranno essere verificate da tecnico abilitato e, se già esistenti, essere sottoposte a eventuali interventi di rinforzo locale o globale per il quale sarà necessario predisporre uno specifico progetto da depositare ai sensi dei sopra citati articoli del DPR 380/2001.
Ricorrendo il caso 1, invece, occorrerà che la pavimentazione in calcestruzzo (elemento con funzione strutturale) sia progettata da professionista abilitata, sia oggetto di deposito presso gli organi di controllo (ex Genio Civile), sia sottoposta al controllo di un Direttore dei lavori abilitato.
Infine si fa presente che l’art. 53 del DPR 380/2001 (da leggersi in parallelo al successivo art. 64 e comunque anche nel testo originario dell’art. 1 dell’ancora vigente L. 1086/1971) classifica le opere in c.a. quelle “composte da un complesso di strutture in conglomerato cementizio ed armature che assolvono una funzione statica”; inoltre l’art. 64, sempre per le medesime opere richiede di “evitare qualsiasi pericolo per la pubblica incolumità”. Ne consegue che tali evenienze ricorrono solo nel sopra descritto caso 2.

Cordiali saluti.
Il responsabile PO: Ing. Luca Gori - Il Dirigente responsabile Ing. Franco Gallori
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Ricevuta la lettera di cui sopra, abbiamo posto agli stessi uffici un ulteriore quesito:
"Salve ingegnere,
se il parere non è ancora formalmente chiuso ci sarebbe utile capire se le pavimentazioni industriali su cui poggiano scaffalature rientrino nella categoria 1 o 2."
...
LA RISPOSTA DELLA REGIONE TOSCANA
Se il pavimento ha funzioni strutturali proprie o collabora con la struttura principale allora va considerato come elemento strutturale. E' il caso 1.
Altrimenti, se è solo un pavimento cioè una finitura -anche se di tipo industriale dell'edificio- dovrà rispondere a esigenze di altra natura, non strutturali.
Il fatto che poi sopra ci vadano carichi pesanti (botti o parmigiano, per esempio) deve far porre questa domanda: il pavimento industriale è solo un ripartitore di carico prima di incontrare le strutture oppure collabora insieme alle strutture a garantire la capacità portante?
Da questo discende se si debba considerare struttura o meno (26.10.2018 - tratto da e link a www.conpaviper.org).

CONSIGLIERI COMUNALIDelega a Presidente del consigliere comunale.
Sintesi/Massima
Il consigliere può essere incaricato di studi su determinate materie, di compiti di collaborazione circoscritti all'esame e alla cura di situazioni particolari, che non implichino la possibilità di assumere atti a rilevanza esterna, né, infine, di adottare atti di gestione spettanti agli organi burocratici.
Il Presidente del Consiglio può essere delegato dal Sindaco al pari degli altri consiglieri per la cura di affari particolari, purché non gli si attribuiscano anche poteri di gestione assimilabili a quelli degli Assessori e dei Dirigenti.

Testo
E' stato posto un quesito concernente la possibilità di conferire la delega alla protezione civile al Presidente del consiglio comunale, che riveste la qualifica di operatore di protezione civile nell'ambito del centro operativo comunale.
Secondo quanto rappresentato dal Sindaco, il servizio di protezione civile è gestito in forma associata in base ad apposite convenzioni. Lo statuto comunale prevede che il Sindaco può delegare l'esercizio di funzioni ad esso attribuite a singoli assessori ed a consiglieri nei casi previsti dalla legge.
Al riguardo, si rappresenta che nell'ambito dell'autonomia statutaria dell'ente locale, sancita dall'art. 6 del decreto legislativo n. 267/2000, è ammissibile la disciplina di deleghe interorganiche, purché il contenuto delle stesse sia coerente con la funzione istituzionale dell'organo cui si riferisce.
Occorre considerare, quale criterio generale, che il consigliere può essere incaricato di studi su determinate materie, di compiti di collaborazione circoscritti all'esame e alla cura di situazioni particolari, che non implichino la possibilità di assumere atti a rilevanza esterna, né, infine, di adottare atti di gestione spettanti agli organi burocratici.
Il consigliere, infatti, svolge la sua attività istituzionale, in qualità di componente di un organo collegiale quale il consiglio, che è destinatario dei compiti individuati e prescritti dalle leggi e dallo statuto.
Una ristrettissima serie delle funzioni sindacali può essere delegabile in virtù di specifiche previsioni normative (in particolare, le funzioni svolte dal sindaco ex art. 54 nella sua attività di Ufficiale di Governo).
Va osservato che il TAR Toscana, con decisione n. 1248/2004, ha respinto il ricorso avverso una norma statutaria concernente la delega ai consiglieri di funzioni sindacali in quanto la stessa escludeva implicitamente che potessero essere delegati compiti di amministrazione attiva, tali da comportare "l'inammissibile confusione in capo al medesimo soggetto del ruolo di controllore e di controllato".
Ciò posto per quanto concerne lo specifico quesito prospettato, si ritiene che il Presidente del Consiglio può essere delegato dal Sindaco al pari degli altri consiglieri per la cura di affari particolari, purché non gli si attribuiscano anche poteri di gestione assimilabili a quelli degli Assessori e dei Dirigenti (27.09.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALIDiritto di informazione ed accesso agli atti e documenti da parte dei consiglieri comunali.
Sintesi/Massima
Art. 43 del d.lgs. n. 267/2000.
In materia di “diritto di accesso” dei consiglieri comunali in ordine agli atti in possesso dell'Amministrazione comunale, al fine di evitare che eventuali continue richieste si trasformino in un aggravio dell'ordinaria attività amministrativa dell'ente locale, la Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi ha riconosciuto la possibilità per il consigliere comunale di avere accesso diretto al sistema informatico interno (anche contabile) del Comune attraverso l'uso della password di servizio (cfr. parere del 29.11.2009).
Conformemente alla vigente normativa in materia di digitalizzazione della pubblica amministrazione (in particolare, art. 2 del d.lgs. n. 82/2005), qualora si tratti di esibire documentazione complessa e voluminosa, è altresì legittimo il rilascio di supporti informatici al consigliere o la trasmissione mediante posta elettronica, in luogo delle copie cartacee.

Testo
E' stato posto un quesito in materia di diritto di accesso esercitabile dai consiglieri comunali. Al riguardo, si rappresenta che il "diritto di accesso" ed il "diritto di informazione" dei consiglieri comunali in ordine agli atti in possesso dell'Amministrazione comunale trovano la loro disciplina specifica nell’art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000 il quale riconosce il diritto di ottenere dagli uffici del comune, nonché dalle proprie aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato.
Il diritto dei consiglieri ha una ratio diversa da quella che contraddistingue il diritto di accesso ai documenti amministrativi riconosciuto alla generalità dei cittadini (ex articolo 10 del richiamato decreto legislativo n. 267/2000) ovvero a chiunque sia portatore di un "interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso" (ex art. 22 e ss. della legge 07.08.1990, n. 241).
Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 4525 del 05.09.2014, ha affermato che, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale (Cons. Stato, Sez. V, 17.09.2010, n. 6963; 09.10.2007, n. 5264), i consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento delle loro funzioni, ciò anche al fine di permettere di valutare -con piena cognizione- la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
Gli unici limiti all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali possono rinvenirsi nel fatto che esso deve avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali, attraverso modalità che ragionevolmente sono fissate nel regolamento dell'ente; inoltre, non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche, ovvero meramente emulative, fermo restando, tuttavia, che la sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto stesso (C.d.S. Sez. V n. 6993/2010).
In merito alle segnalate fattispecie di rilascio di ingenti copie di atti, si osserva che il diritto si esercita con l'unico limite di potere esaudire la richiesta (qualora essa sia di una certa gravosità) secondo i tempi necessari per non determinare interruzione delle altre attività di tipo corrente (cfr. C.d.S. 4855/2006)… e ciò in ragione del fatto che il consigliere comunale non può abusare del diritto all'informazione riconosciutogli dall'ordinamento, pregiudicando la corretta funzionalità amministrativa dell'ente civico con richieste non contenute entro i limiti della proporzionalità e della ragionevolezza (v. C.d.S. n. 4471/05 del 02.09.2005).
Sempre secondo il Consiglio di Stato è necessario contemperare l'esigenza dei consiglieri ad espletare il proprio mandato con quella dell'amministrazione al regolare svolgimento della propria attività, con una specifica disciplina in merito all'esercizio del diritto.
Anche la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi (Plenum 06.07.2010) ha più volte precisato che, per non impedire od ostacolare lo svolgimento dell'azione amministrativa, fermo restando che il diritto di accesso non può essere garantito nell'immediatezza in tutti i casi, o con mezzi estranei all'organizzazione attuale dell'ente, "…rientrerà nelle facoltà del responsabile del procedimento dilazionare opportunamente nel tempo il rilascio delle copie richieste, al fine di contemperare tale adempimento straordinario con l'esigenza di assicurare l'adempimento dell'attività ordinaria, mentre il consigliere avrà facoltà di prendere visione, nel frattempo, di quanto richiesto negli orari stabiliti presso gli uffici comunali competenti".
Infatti, è stata segnalata la necessità che la formulazione di richieste da parte dei consiglieri sia il più possibile precisa, riportando l'indicazione degli oggetti di interesse ed evitando adempimenti gravosi o intralci all'attività ed al regolare funzionamento degli uffici (C.d.S. sent. n. 4471/2005; n. 5109/2000; n. 6293/2002).
Pertanto, proprio al fine di evitare che le continue richieste di accesso si trasformino in un aggravio dell'ordinaria attività amministrativa dell'ente locale, la citata Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi ha riconosciuto la possibilità per il consigliere comunale di avere accesso diretto al sistema informatico interno (anche contabile) del Comune attraverso l'Uso della password di servizio (cfr. parere del 29.11.2009).
Qualora si tratti di esibire documentazione complessa e voluminosa, appare, altresì, legittimo il rilascio di supporti informatici al consigliere, o la trasmissione mediante posta elettronica, in luogo delle copie cartacee. Tale modalità, peraltro, è conforme alla vigente normativa in materia di digitalizzazione della pubblica amministrazione (decreto legislativo n. 82 del 07.03.2005), che all’articolo 2 prevede che anche "le autonomie locali assicurano la disponibilità, la gestione, l'accesso, la trasmissione, la conservazione e la fruibilità dell'informazione in modalità digitale e si organizzano ed agiscono a tale fine utilizzando con le modalità più appropriate le tecnologie dell'informazione e della comunicazione" (27.09.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALICommissioni consiliari permanenti.
Sintesi/Massima
L’articolo 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000 prevedendo con disposizione statutaria la facoltatività dell’istituzione delle commissioni, richiede il rispetto del criterio proporzionale nella loro composizione.
Sono comunque escluse artificiose creazioni di gruppi minoritari che impediscano la piena partecipazione a tutte le commissioni da parte dell’autentica minoranza.
Tuttavia, la collocazione dinamica dei consiglieri alla maggioranza o alla minoranza, ammessa in virtù del mancato vincolo relativo al mandato imperativo -anche alla luce della decisione del C.d.S. n. 4600/2003- passa attraverso i movimenti tra i gruppi.
Infatti, sono possibili i mutamenti che possono sopravvenire all’interno delle forze politiche presenti in consiglio comunale per effetto di dissociazioni dall’originario gruppo di appartenenza, comportanti la costituzione di nuovi gruppi consiliari ovvero l’adesione a diversi gruppi esistenti, con diretta influenza sulla composizione delle commissioni consiliari che deve, pertanto, adeguarsi ai nuovi assetti.

Testo
E’ stato posto un quesito in ordine alla corretta composizione delle commissioni consiliari permanenti. In particolare, è stato chiesto se, a fronte del mutamento politico intervenuto recentemente in un gruppo consiliare costituito da due consiglieri che sostenevano la maggioranza, sia necessario un riequilibrio generale delle commissioni consiliari permanenti, originariamente costituite, che consenta anche al consigliere capogruppo dissenziente di essere rappresentato nella minoranza.
Al riguardo, si richiama l’articolo 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000, che ribadisce la necessità del rispetto del criterio proporzionale nella composizione delle commissioni. Si osserva che la predetta norma, prevedendo con disposizione statutaria la facoltatività dell’istituzione delle commissioni, rinvia al regolamento consiliare la determinazione dei relativi poteri e la disciplina della loro organizzazione.
Pertanto, è anche alle disposizioni interne all'Ente che bisogna fare riferimento per la risoluzione della problematica, tenendo presente che la composizione delle commissioni non può prescindere dai gruppi consiliari al fine della distinzione tra maggioranza e minoranza.
Lo statuto del Comune in oggetto, all’art. 14 prevede l’istituzione di commissioni permanenti, ribadendo il principio della proporzionalità con la presenza di due rappresentanti della minoranza nell’ambito di ogni commissione e la garanzia della partecipazione di ogni consigliere ad almeno una commissione e demanda al regolamento, tra l’altro, la disciplina del funzionamento delle commissioni.
Il regolamento consiliare, all’art. 10, costituisce le quattro commissioni permanenti che sono nominate dal consiglio con votazione palese, prevedendo, al comma 2, che i consiglieri comunali rappresentino, con criterio proporzionale, complessivamente, tutti i gruppi.
In materia di gruppi, l’articolo 8 del regolamento comunale prevede preliminarmente che "i consiglieri eletti nella medesima lista formano di regola, un gruppo consiliare".
Il comma 2 consente i gruppi unipersonali così come eventualmente scaturiti a seguito del risultato elettorale, e prevede, comunque, la formazione di gruppi costituiti da almeno due consiglieri.
Il successivo comma 4 lascia facoltà al singolo consigliere di transitare da un gruppo ad altro (nel rispetto del requisito minimo di due consiglieri), mentre il comma 5, ferma restando la possibilità di costituire un gruppo misto ove confluiscono i consiglieri che si distacchino da gruppi precedenti, non consente al singolo consigliere, che dopo il distacco non aderisca ad altri gruppi, di acquisire le prerogative dei gruppi consiliari.
Ciò posto, alla luce proprio delle norme interne all’Ente, non è possibile la costituzione di gruppi unipersonali; pertanto i consiglieri facenti parte del gruppo in questione, qualora mantengano le divergenze politiche e sostengano tale esigenza, dovrebbero trovare collocazione in altri gruppi già esistenti.
Si osserva, inoltre, che la legge non fornisce una definizione di maggioranza o di minoranza.
In proposito, il Consiglio di Stato (sentenza n. 4600/2003) ha rilevato che "la nozione di minoranza … va definita con esclusivo riferimento alle liste collegate ad un candidato sindaco non eletto e che, quindi, nel confronto elettorale sono risultate sconfitte, risultando tale parametro preferibile a quello che ammette una qualificazione della "minoranza" con riguardo ad eventi politici successivi alle elezioni", ma è anche vero che lo stesso Giudice ammette implicitamente la possibilità di "decifrare in senso dinamico e propriamente politico la nozione di minoranza".
Il Giudice giunge, poi, alla conclusione che "si deve negare che la collaborazione con la giunta di un solo consigliere eletto in una lista inizialmente contrapposta a quella collegata al candidato sindaco risultato eletto implichi automaticamente, ed in difetto della comprovata adesione politica al governo del comune di tutti i membri della lista originariamente di opposizione, il transito di questi ultimi nella maggioranza e, quindi, la necessità della loro partecipazione in quella quota alle elezioni dei rappresentati del consiglio comunale (nel caso di specie) alla comunità montana, con voto separato".
Sono comunque escluse artificiose creazioni di gruppi minoritari che impediscano la piena partecipazione a tutte le commissioni da parte dell'autentica minoranza. Tuttavia, la collocazione dinamica dei consiglieri alla maggioranza o alla minoranza, ammessa in virtù del mancato vincolo relativo al mandato imperativo -anche alla luce della lettura della citata decisione del C.d.S. n. 4600/2003- passa attraverso i movimenti tra i gruppi.
Infatti, il caso prospettato si inquadra nell’ambito dei possibili mutamenti che possono sopravvenire all’interno delle forze politiche presenti in consiglio comunale per effetto di dissociazioni dall’originario gruppo di appartenenza, comportanti la costituzione di nuovi gruppi consiliari ovvero l'adesione a diversi gruppi esistenti con diretta influenza sulle composizione delle commissioni consiliari che deve, pertanto, adeguarsi ai nuovi assetti (26.09.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALIDeleghe ai consiglieri.
Sintesi/Massima
E’ ammissibile la disciplina di deleghe interorganiche ai consiglieri comunali da parte del Sindaco, purché il contenuto delle stesse sia coerente con la funzione istituzionale dell'organo cui si riferisce.
Occorre considerare, quale criterio generale, che il consigliere può essere incaricato di studi su determinate materie, di compiti di collaborazione circoscritti all'esame e alla cura di situazioni particolari, che non implichino la possibilità di assumere atti a rilevanza esterna, né, infine, di adottare atti di gestione spettanti agli organi burocratici.
Resta ferma l'inderogabilità sostanziale del limite numerico di componenti della Giunta imposto dall’art. 1, comma 135, della legge n. 56/2014 e dell’art. 1, comma 185, della legge 23.12.2009, n. 191, modificato dall’art. 1 comma 1-bis del d.l. n. 2/2010, convertito in legge n. 42/2010.

Testo
Un consigliere comunale ha segnalato l’attribuzione di deleghe, con potere di firma su atti a rilevanza esterna, ad alcuni consiglieri comunali da parte del Sindaco.
Al riguardo, fatte salve le iniziative che verranno assunte da codesta Prefettura al fine di verificare la natura delle deleghe in parola (alla luce anche dell’art. 57 dello Statuto comunale che consente invece l’affidamento di incarichi ai consiglieri da parte del sindaco) si osserva che nell'ambito dell'autonomia statutaria dell'ente locale, sancita dall'art. 6 del decreto legislativo n. 267/2000, è ammissibile la disciplina di deleghe interorganiche, purché il contenuto delle stesse sia coerente con la funzione istituzionale dell'organo cui si riferisce.
Occorre considerare, quale criterio generale, che il consigliere può essere incaricato di studi su determinate materie, di compiti di collaborazione circoscritti all'esame e alla cura di situazioni particolari, che non implichino la possibilità di assumere atti a rilevanza esterna, né, infine, di adottare atti di gestione spettanti agli organi burocratici.
Il consigliere, infatti, svolge la sua attività istituzionale in qualità di componente di un organo collegiale quale il consiglio che è destinatario dei compiti individuati e prescritti dalle leggi e dallo statuto.
Nella specie, peraltro, le funzioni del sindaco sono quelle dettate dall’art. 50 e dall’art. 54 del citato decreto legislativo n. 267/2000.
Alcune di tali funzioni possono essere delegabili in virtù delle stesse previsioni normative (in particolare, le funzioni svolte dal sindaco ex art. 54 nella sua attività di Ufficiale di Governo e quelle di cui all'art. 31 del citato Testo Unico, che consente al sindaco di trasferire proprie attribuzioni in caso di partecipazione alle assemblee consortili).
In ogni caso, occorre prestare particolare attenzione alla inderogabilità sostanziale del limite numerico di componenti della Giunta imposto dall’art. 1, comma 135, della legge n. 56/2014 e dell’art. 1, comma 185, della legge 23.12.2009, n. 191, modificato dall’art. 1, comma 1-bis, del d.l. n. 2/2010, convertito in legge n. 42/2010 (24.09.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALICommissioni consiliari permanenti.
Sintesi/Massima
Le commissioni consiliari permanenti devono rispecchiare in modo proporzionale i gruppi presenti in consiglio, pertanto, in caso di intervenuti mutamenti nella composizione dei gruppi, il consiglio dovrà procedere, con propria deliberazione, ad un riequilibrio complessivo delle commissioni consiliari permanenti al fine di garantire il rispetto del criterio proporzionale previsto dall’art. 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000.
Testo
E' stato posto un quesito in materia di commissioni consiliari permanenti.
In particolare è stato rappresentato che cinque consiglieri di maggioranza sono passati all’opposizione e quattro consiglieri di minoranza sono transitati nel gruppo di maggioranza. Ciò posto, si chiede se sia necessario provvedere ad un riequilibrio generale delle commissioni consiliari permanenti originariamente costituite al fine di rispettare il criterio proporzionale previsto ai sensi dell’art. 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000.
Il caso prospettato si inquadra nell’ambito dei possibili mutamenti che possono sopravvenire all’interno delle forze politiche presenti in consiglio comunale per effetto di dissociazioni dall’originario gruppo di appartenenza, comportanti la costituzione di nuovi gruppi consiliari ovvero l’adesione a diversi gruppi esistenti.
Va da sé che i mutamenti in parola modificano i rapporti tra le forze politiche presenti in consiglio, incidendo sul numero dei gruppi ovvero sulla consistenza numerica degli stessi, e ciò non può non influire sulla composizione delle commissioni consiliari che deve, pertanto, adeguarsi ai nuovi assetti.
Lo statuto del comune in oggetto prevede all’art. 16 la costituzione delle commissioni consiliari permanenti demandandone la composizione al regolamento del consiglio comunale, nel rispetto del criterio proporzionale fra maggioranza e minoranze. Ai sensi dell’art. 11, comma 2, del regolamento è previsto che ciascuna commissione sia composta da cinque consiglieri comunali, eletti con voto limitato dal consiglio comunale, di cui due appartenenti al gruppo di minoranza.
Pertanto si condividono le osservazioni con le quali codesta Prefettura ha rappresentato la necessità che il comune proceda, con deliberazione di consiglio, ad un riequilibrio complessivo delle commissioni consiliari permanenti al fine di garantire il rispetto del criterio proporzionale previsto dall’art.38, comma 6, citato (24.09.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALIDiritto dei consiglieri comunali ex art. 43, comma 2, TUOEL ad accedere agli atti relativi ai servizi erogati dal Piano Sociale di Zona.
Sintesi/Massima
Nell’ipotesi in cui gli Uffici comunali non dispongano degli atti richiesti dal consigliere comunale nell'esercizio del diritto di accesso che riguardano, nella specie, una associazione in ambiti territoriali tra comuni come prevista, tra l’altro, dalla legge regionale -a cui il Comune contribuisce mediante finanziamenti a valere sui propri bilanci- che si avvale dell'Ufficio di Piano individuato quale struttura tecnica di supporto per la realizzazione del piano di zona, in carenza di specifiche disposizioni in merito che deleghino la struttura affidataria del servizio, sarà tale ultimo soggetto a corrispondere al consigliere comunale gli atti richiesti, nei tempi previsti.
Testo
E’ stato formulato un quesito in materia di accesso agli atti da parte dei consiglieri comunali. In particolare, è stato chiesto quale sia la corretta modalità di esercizio del diritto di accesso nell’ipotesi i cui gli Uffici comunali non dispongano degli atti richiesti e che, dunque, abbiano necessità di reperire i dati e le informazioni presso altro soggetto competente per la gestione del servizio.
Al riguardo, come anche osservato da codesta Prefettura, al consigliere comunale è riconosciuto dalle vigenti disposizioni (art. 43, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000) il diritto di ottenere dagli uffici del comune, nonché dalle proprie aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato.
Il comune con l’articolo 38 dello Statuto ha ribadito sostanzialmente il diritto in parola, "nel rispetto delle modalità prefissate dall’art. 43 del TUEL".
Il regolamento per il diritto di accesso adottato dal Comune contiene disposizioni di dettaglio nella materia, prevedendo all’articolo 8, comma 2, che il diritto in parola si esercita presso gli uffici dell’amministrazione comunale, nonché presso enti, istituzioni e altri enti gestori di servizi pubblici locali. "Per notizie e informazioni si intendono dati già formati ancorché non tradotti in atti o documenti amministrativi per i quali non sia richiesta alcuna elaborazione fatta salva quella di mera raccolta".
L’articolo 9 del regolamento precisa, inoltre, che l'accesso agli atti e documenti è effettuato presso il responsabile di servizio titolare o individuato su richiesta formale.
Nel caso in esame il Piano Sociale di zona a cui la documentazione richiesta farebbe riferimento, sembrerebbe corrispondere, sulla base delle indicazioni rintracciabili nel portale internet, all'Ufficio di Piano individuato quale struttura tecnica di supporto per la realizzazione del piano di zona previsto dall’art. 23, comma 1, della legge regionale n. 11/2007.
La struttura in parola è in sostanza una associazione in ambiti territoriali tra comuni come prevista, tra l’altro, dall’articolo 10 della citata legge regionale n. 11/2007.
Premesso che il Comune in parola contribuisce al funzionamento dell’Associazione mediante finanziamenti a valere sui propri bilanci, è acclarato il diritto del consigliere comunale ad accedere agli atti del Piano sociale di Zona.
Nella fattispecie, valendo l'esercizio sostanziale del diritto, qualora il Comune non sia in possesso immediato degli atti richiesti, in carenza di specifiche disposizioni in merito che deleghino la struttura affidataria del servizio, sarà il Piano Sociale di Zona a corrispondere al consigliere comunale gli atti richiesti, nei tempi previsti (24.09.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALIIrregolarità della convocazione del consiglio comunale.
Sintesi/Massima
Convocazione del consiglio. Eventuali vizi di legittimità attinenti alla convocazione del consiglio. Il vigente ordinamento, come noto, non prevede poteri di controllo di legittimità sugli atti degli enti locali in capo a questa Amministrazione.
Gli eventuali vizi di legittimità degli atti adottati possono essere fatti valere solo nelle competenti sedi amministrative ovvero giurisdizionali, secondo le consuete regole vigenti in materia.

Testo
E' stata segnalata una problematica in ordine all’applicazione della normativa sulla convocazione del consiglio comunale.
In particolare, un consigliere di opposizione ha lamentato vizi di legittimità nella procedura seguita dall’ente per l’inoltro della notifica dell’avviso di convocazione di una seduta consiliare, eccependone la tardività.
Secondo l'esponente non sarebbe stata rispettata la disposizione recata dall'art. 40, comma 2, del regolamento sul funzionamento del consiglio comunale ai sensi del quale "per le adunanze straordinarie la consegna dell’avviso deve avvenire almeno tre giorni liberi prima di quello stabilito per la riunione".
Dall’esame della nota emerge che nel contesto della seduta tenutasi in data 31.12.2017, il gruppo di minoranza, dopo aver contestato il mancato rispetto del citato art. 40, comma 2, ed aver posto la questione pregiudiziale, ha abbandonato la seduta.
Ciò posto il consigliere ha chiesto a codesta prefettura di procedere all'attivazione dei poteri sostitutivi e di provvedere, altresì, all’annullamento della seduta consiliare tenutasi in data 31.12.2017.
Al riguardo si rappresenta che è lo stesso regolamento sul funzionamento del consiglio comunale a chiarire che "l’eventuale omessa o ritardata consegna dell’avviso di convocazione è sanata quando il consigliere interessato partecipa all’adunanza del Consiglio alla quale era stato invitato" (cfr. art. 40, comma 8).
In ogni caso, si rappresenta che il vigente ordinamento, come noto, non prevede poteri di controllo di legittimità sugli atti degli enti locali in capo a questa Amministrazione.
Gli eventuali vizi di legittimità degli atti adottati, pertanto, possono essere fatti valere solo nelle competenti sedi amministrative ovvero giurisdizionali, secondo le consuete regole vigenti in materia (24.09.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALIAccesso al protocollo informatico da parte dei consiglieri comunali.
Sintesi/Massima
Il “diritto di accesso” ed il “diritto di informazione” dei consiglieri comunali nei confronti della P.A. trovano la loro disciplina nell’art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000 che riconosce a questi il diritto di ottenere dagli uffici comunali, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato.
Testo
E’ stato posto un quesito circa la legittimità di una regolamentazione da parte dell’Ente dell’attività consultiva del protocollo informatico da parte dei consiglieri comunali che hanno avanzato istanza di accesso.
In merito, come osservato dal Plenum della Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, del 16.03.2010, il “diritto di accesso” ed il “diritto di informazione” dei consiglieri comunali nei confronti della P.A. trovano la loro disciplina nell’art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000 che riconosce a questi il diritto di ottenere dagli uffici comunali, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato (Confermato dal successivo parere del 23.10.2012)
Sempre secondo quanto sostenuto dalla Commissione per l’accesso con il citato parere “l’accesso diretto tramite utilizzo di apposita password al sistema informatico dell’Ente, ove operante, è uno strumento di accesso certamente consentito al consigliere comunale che favorirebbe la tempestiva acquisizione delle informazioni richieste senza aggravare l’ordinaria attività amministrativa. Ovviamente il consigliere comunale rimane responsabile della segretezza della password di cui è stato messo a conoscenza a tali fini (art. 43, comma 2, T.U.O.E.L.)”.
Anche il Garante per la protezione dei dati personali (v. relazione del 2004, pag. 19 e 20) ha specificato che “nell’ipotesi in cui l’accesso da parte dei consiglieri comunali riguardi dati sensibili, l’esercizio di tale diritto, ai sensi dell’art. 65, comma 4, lett. b), del Codice, è consentito se indispensabile per lo svolgimento della funzione di controllo, di indirizzo politico, di sindacato ispettivo e di altre forme di accesso a documenti riconosciute dalla legge e dai regolamenti degli organi interessati per consentire l’espletamento di un mandato elettivo. Resta ferma la necessità, … che i dati così acquisiti siano utilizzati per le sole finalità connesse all’esercizio del mandato, rispettando in particolare il divieto di divulgazione dei dati idonei a rivelare lo stato di salute. Spetta quindi all’amministrazione destinataria della richiesta accertare l’ampia e qualificata posizione di pretesa all’informazione ratione officii del consigliere comunale”.
Peraltro, anche la giurisprudenza ha affermato il diritto del consigliere alla visione del protocollo generale, senza alcuna esclusione di oggetti e notizie riservate e di materie coperte da segreto, posto che i consiglieri comunali sono tenuti al segreto - ai sensi del citato articolo 43 del decreto legislativo n. 267/2000.
La materia, comunque, così come richiesto, deve trovare apposita disciplina regolamentare di dettaglio per il suo esercizio nel rispetto delle prescrizioni e dei limiti sopra indicati a salvaguardia del diritto dei consiglieri (21.08.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALIModifica regolamento consiglio comunale in materia di mozioni.
Sintesi/Massima
Mozioni.
Il diritto di presentare mozioni è previsto dall’art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000, che al comma 3, demanda allo statuto ed al regolamento la disciplina concernente le modalità di presentazione degli atti di sindacato ispettivo e le relative risposte.
Ad avviso della scrivente, il consiglio comunale potrebbe adottare disposizioni regolamentari limitative del diritto di proporre emendamenti alle mozioni, tali da stravolgerne surrettiziamente il significato originario.

Testo
E’ stato chiesto un parere circa la possibilità di modificare la normativa recata dal regolamento del consiglio comunale in materia di mozioni.
In particolare si chiede se sia coerente con l’ordinamento degli enti locali una normativa regolamentare che limiti la possibilità di emendare le proposte di mozioni. La finalità di un siffatto intervento normativo sarebbe individuabile nella necessità di tutelare il diritto del consigliere firmatario della mozione a non consentire eventuali emendamenti che ne stravolgano il senso.
Al riguardo si osserva che il predetto diritto è previsto dall’art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000, che al comma 3, demanda allo statuto ed al regolamento la disciplina concernente le modalità di presentazione degli atti di sindacato ispettivo e le relative risposte.
La dottrina definisce “mozioni” gli atti approvati dal consiglio per esercitare un’azione di indirizzo, esprimere posizioni e giudizi su determinate questioni, organizzare la propria attività, disciplinare procedure e stabilire adempimenti dell’amministrazione nei confronti del Consiglio.
Il TAR Puglia –Sezione di Lecce– I Sez., sentenza n. 1022/2004, individua la mozione quale “istituto a contenuto non specificato … , trattandosi di un potere a tutela della minoranza per situazioni non predefinibili, a differenza di altri strumenti più a valenza di mera conoscenza (quali l’interrogazione o la interpellanza), essendo strumento di “introduzione ad un dibattito” che si conclude con un voto che è ragione ed effetto proprio della mozione”.
Tanto premesso, il consiglio comunale potrebbe adottare disposizioni regolamentari limitative del diritto di proporre emendamenti alle mozioni, tali da stravolgerne surrettiziamente il significato originario.
Tuttavia, rientrando la materia in esame nella competenze delle fonti di autonomia locale, spetterà alla valutazione del singolo ente determinarsi in tal senso (21.08.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALIComposizione delle Commissioni consiliari permanenti. Impossibilità di insediamento.
Sintesi/Massima
Composizione delle Commissioni consiliari permanenti. Impossibilità di insediamento.
In base a quanto disposto dall’articolo 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000, le commissioni consiliari, una volta istituite sulla base di una facoltativa previsione statutaria, sono disciplinate dall’apposito regolamento comunale con l’inderogabile limite, posto dal legislatore, riguardante il rispetto del criterio proporzionale nella composizione.
Le forze politiche presenti in consiglio devono, pertanto, essere il più possibile rappresentate anche nelle commissioni.
A fronte delIa oggettiva impossibilità di insediare validamente le commissioni a causa della indisponibilità manifestata da alcuni consiglieri di minoranza, la situazione di fatto verificatasi è tale da giustificare, in ragione del principio della continuità amministrativa, il riespandersi della competenza piena del consiglio comunale.

Testo
E’ stato formulato un quesito in materia di commissioni consiliari consultive permanenti.
L’art. 37 dello statuto comunale prevede l’istituzione delle commissioni consultive, distinte in permanenti e temporanee, “…formate da consiglieri o cittadini iscritti nelle liste elettorali del comune con esperienza e competenza utili all’espletamento dei compiti”.
Ai sensi del regolamento del funzionamento del consiglio sono previste sei commissioni consiliari permanenti composte da un massimo di cinque membri, di cui tre consiglieri in rappresentanza della maggioranza e due della minoranza.
Tuttavia nessun consigliere di minoranza ha accettato l’incarico di componente delle commissioni e, pertanto, le stesse risultano composte solamente dai tre membri di maggioranza.
Attesa la mancata designazione dei rappresentanti della minoranza, si chiede un parere in merito all’operatività delle Commissioni consiliari permanenti.
Al riguardo si osserva, in via preliminare, che in base a quanto disposto dall’articolo 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000, le commissioni consiliari, una volta istituite sulla base di una facoltativa previsione statutaria, sono disciplinate dall’apposito regolamento comunale con l’inderogabile limite, posto dal legislatore, riguardante il rispetto del criterio proporzionale nella composizione. Le forze politiche presenti in consiglio devono, pertanto, essere il più possibile rappresentate anche nelle commissioni.
In base al principio consolidato in materia di organi collegiali, secondo il quale all’atto del primo insediamento l’organo deve essere completo in tutte le sue componenti per potersi dire legittimamente costituito e poter validamente operare, si ritiene che la mancata designazione dei rappresentanti di minoranza abbia impedito, di fatto, la costituzione delle commissione in argomento.
Al riguardo, va rilevato anzitutto la natura delle commissioni consiliari. Esse non sono organi necessari dell’ente locale, cioè non sono componenti indispensabili della sua struttura organizzative, bensì organi strumentali dei consigli ed, in quanto tali, costituiscono componenti interne dell’organo assembleare, prive di una competenza autonoma e distinta da quella ad esso attribuita. In altri termini, le commissioni consiliari operano sempre e comunque nell’ambito della competenza dei consigli.
A fronte della oggettiva impossibilità di insediare validamente le commissioni a causa della indisponibilità manifestata da alcuni consiglieri di minoranza, la situazione di fatto verificatasi è tale da giustificare, in ragione del principio della continuità amministrativa, il riespandersi della competenza piena del consiglio comunale.
Ovviamente ciò non esclude che l’argomento della ricostituzione delle commissioni comunali possa essere iscritto all’ordine del giorno delle sedute consiliari fino alla sua positiva trattazione.
Per quanto concerne la previsione dello statuto comunale circa la possibilità di eleggere, quali componenti delle commissioni, anche cittadini esterni al consiglio comunale, si rappresenta che, ai sensi del citato art. 38, comma 6, lo statuto può prevedere la costituzione di commissioni consiliari, istituite dal consiglio «nel proprio seno». Pertanto, la formulazione della norma statutaria non appare coerente con la disciplina dettata dal legislatore circa la indefettibilità dello status di consigliere comunale in capo ai componenti delle commissioni consiliari ex art. 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000 (19.07.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALIUtilizzo fascia tricolore.
Sintesi/Massima
Utilizzo fascia tricolore.
Con circolare di questo Ministero n. 5/1998, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 270 del 18.11.1998, è stato evidenziato il carattere sostanziale dell’intervento normativo (art. 36, comma 7 della legge n. 142/1990 come sostituito dall’art. 4, comma 2, della legge 15.05.1997, n. 127 - ora art. 50, comma 12 del decreto legislativo n. 267/2000), con il quale è stato espressamente disposto che «distintivo del sindaco è la fascia tricolore con lo stemma della Repubblica e lo stemma del comune» e che “nell’uso corrente si è affermata la consuetudine che il sindaco indossi la fascia in tutte le occasioni ufficiali, in qualunque veste intervenga”.

Testo
E’ stato posto un quesito in ordine al corretto uso della fascia tricolore.
In particolare, è stato chiesto se l’utilizzo della predetta fascia tricolore, previa autorizzazione del Sindaco, per la partecipazione alla commemorazione dei caduti di Salò da parte di un consigliere comunale sia corretto.
Al riguardo si osserva che, con circolare di questo Ministero n. 5/98, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 270 del 18.11.1998, si sono fornite indicazioni in ordine all’utilizzo della fascia tricolore da parte del sindaci.
Nella predetta circolare viene evidenziato il carattere sostanziale dell’intervento normativo (art. 36, comma 7, della legge n. 142/1990 come sostituito dall’art. 4, comma 2, della legge 15.05.1997, n. 127 - ora art. 50, comma 12 del decreto legislativo n. 267/2000), con il quale è stato espressamente disposto che «distintivo del sindaco è la fascia tricolore con lo stemma della Repubblica e lo stemma del comune» e che “nell’uso corrente si è affermata la consuetudine che il sindaco indossi la fascia in tutte le occasioni ufficiali, in qualunque veste intervenga”.
Va da sé che, allorquando il sindaco sia assente o impedito temporaneamente ai sensi dell’art. 53, comma 2, del T.U.O.E.L., spetta solo al vice sindaco fregiarsene.
Restano validi gli utilizzi stabiliti da esplicite previsioni normative, come quella di cui all’articolo 70 del d.P.R. n. 396, del 3 novembre 2000, ove, in ragione della particolarità delle funzioni espletate, si prevede che “l’ufficiale dello stato civile, nel celebrare il matrimonio e nel costituire l’unione civile, deve indossare la fascia tricolore…”.
Pertanto, l’uso della fascia tricolore, anche per delega dello stesso sindaco, da parte di altri soggetti, seppur eventualmente incardinati nell’Amministrazione comunale o facenti parte di Organismi o Enti a cui partecipino gli Enti locali con propri rappresentanti, è ammesso solo nelle ipotesi sopra indicate.
In ogni caso, ribadendo sempre il contenuto della richiamata circolare ministeriale, ove viene precisato che “viene attribuito ad un elemento simbolico una specifica funzione che è distintiva, siccome finalizzata a rendere palese la differenza tra il sindaco e gli altri titolari di pubbliche cariche”, si ritiene che l’uso della fascia tricolore sia legato proprio alla natura delle funzioni sindacali che sono di capo dell’Amministrazione comunale e di ufficiale di Governo e che, dunque, anche il sindaco sia vincolato al suo utilizzo nei limiti previsti dalla normativa (19.07.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALIProcedimento di formazione dei gruppi consiliari.
Sintesi/Massima
Ipotesi inclusione del sindaco in un gruppo consiliare. Il sindaco, pur se membro del consiglio comunale ai sensi dell'art. 46 del T.U.O.E.L., ha, in effetti, una posizione differenziata rispetto ai singoli consiglieri comunali.
Tale disposizione lascia emergere la configurazione della posizione di terzietà del sindaco nel rapporto con i gruppi medesimi.
Ne deriva che l’iscrizione del sindaco ad un gruppo o addirittura la costituzione di un gruppo unipersonale nel corso della consiliatura da parte dello stesso sindaco può incidere sul corretto e bilanciato esercizio delle funzioni di governo dell’ente.

Testo
E’ stato trasmesso il quesito del Segretario generale del Comune di Trecate, in materia di formazione dei gruppi consiliari.
In particolare, è stato chiesto se, alla luce della vigente normativa anche regolamentare e statutaria dell’Ente, sia legittimo mantenere l’inclusione del sindaco in un gruppo consiliare e se lo stesso debba considerarsi “terzo” in tutti gli organismi consiliari e, in coerenza con tale posizione di terzietà, se il criterio di determinazione del quorum strutturale debba prescindere dal sindaco consigliere.
Al riguardo, come noto, la disciplina della materia relativa alla costituzione dei gruppi consiliari è demandata allo statuto e al regolamento del consiglio nell'esercizio della propria autonomia funzionale ed organizzativa riconosciuta in particolare dall'art. 38, comma 3, del decreto legislativo n. 267/2000.
Ne deriva che le problematiche relative alla costituzione e al funzionamento dei gruppi consiliari dovrebbero essere valutate alla stregua delle specifiche norme statutarie e regolamentari di cui l'ente locale si è dotato, competendo al consiglio comunale l'eventuale interpretazione autentica delle predette norme.
Tuttavia, si ricorda che con una serie di pareri di questa Direzione Centrale emessi nel corso degli anni alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 44/1997 (la quale afferma che il Sindaco viene computato ad ogni fine tra i componenti del Consiglio stesso) ed alla luce della decisione del C.d.S. n. 476/1998 (da cui emerge che il sindaco, essendo componente del consiglio a tutti gli effetti può astrattamente essere componente delle commissioni consiliari), si è affermata la tesi di una possibile partecipazione del sindaco sia alle commissioni consiliari e sia ai gruppi dai quali proporzionalmente scaturiscono tali commissioni.
L’attività interpretativa, nondimeno, non può essere disgiunta dall'osservanza dei principi di buona amministrazione, né possono essere utilizzate a sostegno di tale attività, massime giurisprudenziali o dottrinarie che non si adattino perfettamente alla fattispecie esaminata.
Il sindaco, pur se membro del consiglio comunale ai sensi dell'art. 46 del T.U.O.E.L., ha, in effetti, una posizione differenziata rispetto ai singoli consiglieri comunali.
Tale disposizione lascia emergere la configurazione della posizione di terzietà del sindaco nel rapporto con i gruppi medesimi.
Ne deriva che l’iscrizione del sindaco ad un gruppo o addirittura la costituzione di un gruppo unipersonale nel corso della consiliatura da parte dello stesso sindaco può incidere sul corretto e bilanciato esercizio delle funzioni di governo dell’ente.
Riguardo al quorum strutturale per la validità delle sedute, l’art. 38, comma 2, del T.U.O.E.L. demanda al regolamento l’individuazione del numero dei consiglieri necessario per la validità delle sedute, prevedendo che in ogni caso debba esservi la presenza di almeno un terzo dei consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a tale fine il sindaco e il presidente della provincia.
Fermo restando il principio generale che, nelle ipotesi in cui l'ordinamento non ha inteso annoverare il sindaco o il presidente della provincia, nel quorum richiesto per la validità delle sedute, lo ha indicato espressamente usando la formula “senza computare a tal fine il sindaco ed il presidente della provincia”, si ritiene legittimo, al di fuori del caso prospettato, includere nel calcolo dei consiglieri anche il sindaco, fatte salve le eventuali previsioni statutarie o regolamentari difformi adottate dall’ente locale nell’ambito della propria discrezionalità (19.07.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALIAtti urgenti e improrogabili. Applicazione artt. 38, comma 5, e 39 comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000.
Sintesi/Massima
Ai sensi dell’art. 38, comma 5, i consigli comunali durano in carica per un periodo di cinque anni sino all’elezione dei nuovi, limitandosi, dopo la pubblicazione del decreto di indizione dei comizi elettorali, ad adottare gli atti urgenti e improrogabili.
La previsione legislativa in esame trae la propria ratio ispiratrice dalla necessità di evitare che il consiglio comunale possa condizionare la formazione della volontà degli elettori adottando atti aventi natura cosiddetta “propagandistica”, tali da alterare la par condicio tra le forze politiche che partecipano alle elezioni amministrative.

Testo
E’ stato formulato un quesito in ordine alla portata applicativa dell’art. 38, comma 5, del decreto legislativo n. 267/2000.
In particolare, alcuni consiglieri del comune in oggetto hanno prospettato doglianze circa la prosecuzione dell’esame delle osservazioni e delle controdeduzioni al regolamento urbanistico, da parte del consiglio comunale, successivamente alla pubblicazione del decreto di convocazione dei comizi elettorali.
Secondo quanto osservato dagli esponenti, l’esame di tali atti da parte del consiglio comunale sarebbe impedito proprio dal disposto dell’art 38, comma 5, citato, stante l’assenza di un termine perentorio per l’adozione del regolamento urbanistico ed in considerazione della natura tipicamente discrezionale delle deliberazioni in parola destinate ad incidere sul futuro del territorio.
Come noto, ai sensi del richiamato art. 38, comma 5, i consigli comunali durano in carica per un periodo di cinque anni sino all’elezione dei nuovi, limitandosi, dopo la pubblicazione del decreto di indizione dei comizi elettorali, ad adottare gli atti urgenti e improrogabili. La previsione legislativa in esame trae la propria ratio ispiratrice dalla necessità di evitare che il consiglio comunale possa condizionare la formazione della volontà degli elettori adottando atti aventi natura cosiddetta “propagandistica”, tali da alterare la par condicio tra le forze politiche che partecipano alle elezioni amministrative.
La prevalente giurisprudenza precisa che la preclusione disposta dalla citata norma opera solamente con riguardo a quelle fattispecie in cui il consiglio comunale è chiamato ad operare in pieno esercizio di discrezionalità e senza interferenze con i diritti fondamentali dell’individuo riconosciuti e protetti dalla fonte normativa superiore.
Quando invece l’organo consiliare è chiamato a pronunciarsi su questioni vincolate nell’an, nel quando e nel quomodo e che, inoltre, coinvolgano diritti primari dell’individuo, l’esercizio del potere non può essere rinviato (TAR Puglia n. 382/2004).
E’ stato precisato, inoltre, che il carattere di atti urgenti e improrogabili possa essere riconosciuto agli atti “… per i quali è previsto un termine perentorio e decadenziale, superato il quale viene meno il potere di emetterli, ovvero essi divengono inutili, cioè inidonei a realizzare la funzione per la quale devono essere formati … o hanno un’utilità di gran lunga inferiore” (TAR Veneto 1118 del 2012).
In ordine alla sussistenza del presupposto della urgenza ed improrogabilità, è stato osservato che lo stesso …“costituisce apprezzamento di merito insindacabile in sede di giurisdizione di legittimità, se non sotto il limitato profilo della inesistenza del necessario apparato motivazionale, ovvero della palese irrazionalità od illogicità della motivazione addotta” (sentenza Tar Friuli Venezia Giulia n. 585 del 2006, confermata in appello dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 6543/2008).
Come indicato nella circolare di questo Ministero n. 2 del 07.12.2006, va rilevato che l’esistenza dei presupposti di urgenza ed improrogabilità deve essere valutata caso per caso dallo stesso consiglio comunale che ne assume la relativa responsabilità politica, tenendo presente il criterio interpretativo di fondo che pone, quali elementi costitutivi della fattispecie, scadenze fissate improrogabilmente dalla legge e/o il rilevante danno per l’amministrazione comunale che deriverebbe da un ritardo nel provvedere.
Per quanto concerne la specifica problematica evidenziata, si prende atto che l’organo assembleare ha motivato la necessità di proseguire i lavori propedeutici all’approvazione del regolamento urbanistico, aderendo alle osservazioni tecniche espresse dal dirigente competente circa la necessità di pervenire all’approvazione di tale regolamento entro il 24.07.2018.
Pertanto si ritengono sussistenti le ragioni giustificative della prosecuzione dei lavori assembleari successivamente alla pubblicazione del decreto di convocazione dei comizi elettorali (19.07.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALIRichiesta di convocazione da parte di un quinto dei consiglieri.
Sintesi/Massima
Richiesta di convocazione da parte di un quinto dei consiglieri. Art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000.
Al Presidente del Consiglio spetta solo la verifica formale della richiesta (prescritto numero di consiglieri), mentre non potrebbe essere sindacata nel merito, salvo che non si tratti di oggetto che, in quanto illecito, impossibile o per legge manifestamente estraneo alle competenze dell’assemblea.
Il Tar Puglia nella sentenza n. 1022/2004 ha precisato che appartiene ai poteri "sovrani" dell'assemblea decidere in via pregiudiziale che un dato argomento inserito nell'ordine del giorno non debba essere discusso ("questione pregiudiziale"), ovvero se ne debba rinviare la discussione ("questione sospensiva").
Il citato Tar Puglia ha sottolineato, inoltre, che "…l’ordinamento ritiene un valore essenziale del sistema democratico che alla minoranza sia assicurata effettività del diritto di iniziativa, e cioè del diritto di discussione in assemblea sull’argomento richiesto.
Ove, così non fosse, grave ed evidente sarebbe la contraddizione fra tutela rafforzata del diritto di iniziativa e mancanza di limiti per la maggioranza di metterlo nel nulla con la proposizione di una qualunque questione pregiudiziale.”.

Testo
Sono stati chiesti chiarimenti in ordine alla normativa recata dall’art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000.
Al riguardo, com'é noto, il citato art. 39 prescrive che il presidente del consiglio comunale è tenuto a riunire il consiglio, in un termine non superiore ai venti giorni, quando lo richiedano un quinto dei consiglieri o il sindaco, inserendo all’ordine del giorno le questioni richieste. La disposizione configura un obbligo del Presidente del consiglio comunale di procedere alla convocazione dell'organo assembleare senza alcun riferimento alla necessaria adozione di determinazioni, da parte del consiglio stesso.
In caso di inosservanza degli obblighi di convocazione, in base al comma 5, previa diffida, provvede il prefetto.
La dibattuta questione sulla sindacabilità, da parte del Presidente del Consiglio (o del Sindaco), dei motivi che determinano i consiglieri a chiedere la convocazione straordinaria dell’assemblea, si è orientata, sempre in base alla giurisprudenza, nel senso che allo stesso spetti solo la verifica formale della richiesta (prescritto numero di consiglieri), mentre non potrebbe essere sindacata nel merito, salvo che non si tratti di oggetto che, in quanto illecito, impossibile o per legge manifestamente estraneo alle competenze dell’assemblea in nessun caso potrebbe essere posto all’ordine del giorno (v. TAR Piemonte, Sez. II, 24.04.1996, n. 268).
Alla luce del richiamato orientamento giurisprudenziale e dottrinario, le uniche ipotesi per le quali l'organo che presiede il consiglio comunale può omettere la convocazione dell'assemblea sembrano la carenza del prescritto numero di consiglieri oppure la verificata illiceità, impossibilità o manifesta estraneità dell'oggetto alle competenze del Consiglio.
Nello stabilire se una determinata questione sia o meno di competenza del Consiglio comunale occorre aver riguardo non solo agli atti fondamentali espressamente elencati dal comma 2 dell'art. 42 del citato testo unico, ma anche alle funzioni di indirizzo e di controllo politico-amministrativo di cui al comma 1 del medesimo art. 42, con la possibilità, quindi, che la trattazione da parte del collegio non debba necessariamente sfociare nell'adozione di un provvedimento finale.
Il Consiglio comunale ha, infatti, un potere generale di indirizzo e di controllo politico-amministrativo sull'attività del Comune, nel cui ambito rientra pure quello di indirizzo, coordinamento e controllo sull'operato della Giunta (conforme, Tribunale di Giustizia Amministrativa di Trento n. 20/2010 del 14.01.2010).
L’amministrazione locale in oggetto, nel ritenere non obbligatoria la convocazione dell'assemblea per esaminare questioni considerate "estranee" alla competenza consiliare, ha richiamato le osservazioni formulate dal Tar Puglia nella sentenza n. 1022/2004. Nella citata pronuncia il giudice amministrativo ha precisato che appartiene ai poteri "sovrani" dell’assemblea decidere in via pregiudiziale che un dato argomento inserito nell'ordine del giorno non debba essere discusso ("questione pregiudiziale"), ovvero se ne debba rinviare la discussione ("questione sospensiva").
La sentenza offre, altresì, un'interessante riflessione circa il necessario bilanciamento del potere assembleare di esaminare le questioni pregiudiziali con il diritto riconosciuto alle minoranze di attivare l’istituto della convocazione dell’assemblea su richiesta di un quinto dei consiglieri.
A tale proposito, il citato Tar Puglia ha ritenuto di dover sottolineare che "…tale diritto di iniziativa è tutelato in modo specifico dalla legge con la previsione severa ed eccezionale della modificazione dell'ordine delle competenze mediante intervento sostitutorio del Prefetto in caso di mancata convocazione del consiglio comunale in un termine emblematicamente breve (venti giorni). Il significato giuridicamente utile di tale procedura rafforzata di tutela va individuato nel fatto che l'ordinamento ritiene un valore essenziale del sistema democratico che alla minoranza sia assicurata effettività del diritto di iniziativa, e cioè del diritto di discussione in assemblea sull'argomento richiesto. Ove, così non fosse, grave ed evidente sarebbe la contraddizione fra tutela rafforzata del diritto di iniziativa e mancanza di limiti per la maggioranza di metterlo nel nulla con la proposizione di una qualunque questione pregiudiziale.”.
Pertanto è nell'ambito delle descritte coordinate giurisprudenziali che il Presidente del consiglio dovrà conformare il proprio operato (28.06.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Gruppi consiliari.
Sintesi/Massima
Ai sensi dell’art. 3 dello statuto speciale della Regione Sardegna, l’ordinamento degli enti locali rientra nella competenza della legislazione regionale nel rispetto della Costituzione, dei principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica, degli obblighi internazionali e degli interessi nazionali, nonché delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica.
Testo
E’ stato formulato un quesito in materia di gruppi consiliari.
In particolare, è stato chiesto se, alla luce della normativa recata dalle fonti di autonomia locale del Comune in oggetto, due consiglieri, originariamente inseriti nel gruppo corrispondente alla lista di maggioranza, possano costituire un nuovo gruppo diverso dal gruppo misto e se, nell’ambito di un eventuale gruppo misto, possa essere designato un capogruppo.
Si osserva preliminarmente che, ai sensi dell’art. 3 dello statuto speciale della Regione Sardegna, l’ordinamento degli enti locali rientra nella competenza della legislazione regionale nel rispetto della Costituzione, dei principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica, degli obblighi internazionali e degli interessi nazionali, nonché delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica.
La normativa in materia di gruppi consiliari è prevista dall’art. 14 dello statuto comunale e dall’art. 7 del regolamento sul funzionamento del consiglio comunale.
A termini della disciplina statutaria, i consiglieri possono costituire gruppi anche non corrispondenti alle liste elettorali nelle quali sono stati eletti “purché tali gruppi risultino composti da almeno 2 membri”.
Ai sensi dell’art. 7, comma 5, del regolamento del consiglio comunale è riconosciuta la possibilità ai consiglieri che si siano distaccati dal proprio gruppo originario e che non abbiano aderito ad altro gruppo di costituire il “gruppo misto”. Il gruppo misto elegge al suo interno un capogruppo.
Dall’esame del quadro normativo delineato i due consiglieri comunali fuoriusciti dal gruppo corrispondente alla lista nella quale sono risultati eletti ben potrebbero formare un nuovo gruppo diverso dal gruppo misto. Ciò in quanto l’unico limite posto dalle fonti di autonomia locale per la formazione di un nuovo gruppo è che lo stesso sia costituito da “almeno 2 membri”.
Nell’eventualità che alcuni consiglieri decidano di formare il gruppo misto saranno tenuti ad eleggere al proprio interno il Capogruppo (28.06.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALIUso della fascia tricolore.
Sintesi/Massima
Uso della fascia tricolore.
La disciplina del suo uso è legata, dunque, alla natura delle funzioni sindacali che sono di capo dell’Amministrazione comunale e di ufficiale di Governo.
Allorquando il sindaco sia assente o impedito temporaneamente ai sensi dell’art. 53, c. 2, del T.U.O.E.L., spetta solo al vice sindaco fregiarsene.

Testo
E’ stato posto un quesito in ordine al corretto uso della fascia tricolore.
In particolare, è stato rappresentato che un consigliere comunale, delegato alla cultura, ma non membro della giunta, dovrebbe utilizzare la fascia per partecipare ad iniziative popolari in altro Paese della Regione e a un ricevimento organizzato da concittadini emigrati all’estero, mentre un assessore dovrebbe utilizzarla per rappresentare il comune in una commemorazione dei caduti in un Paese limitrofo.
Al riguardo, si osserva che con circolare di questo Ministero n. 5/98 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 270 del 18.11.1998 si sono fornite indicazioni in ordine al corretto utilizzo della fascia tricolore da parte del sindaco.
Nella circolare viene evidenziato il carattere sostanziale dell’intervento normativo (ora, art. 50, comma 12, del decreto legislativo n. 267/2000), con il quale è stato espressamente disposto che «distintivo del sindaco è la fascia tricolore con lo stemma della Repubblica e lo stemma del comune» e che “nell’uso corrente si è affermata la consuetudine che il sindaco indossi la fascia in tutte le occasioni ufficiali, in qualunque veste intervenga”.
La disciplina del suo uso è legata, dunque, alla natura delle funzioni sindacali che sono di capo dell’Amministrazione comunale e di ufficiale di Governo.
Allorquando il sindaco sia assente o impedito temporaneamente ai sensi dell’art. 53, c. 2, del T.U.O.E.L., spetta solo al vice sindaco fregiarsene.
Restano validi gli utilizzi stabiliti da esplicite previsioni normative, come quella di cui all’articolo 70 del d.P.R. n. 396, del 03.11.2000 ove, in ragione della particolarità delle funzioni espletate, si prevede che “l’ufficiale dello stato civile, nel celebrare il matrimonio, deve indossare la fascia tricolore…”.
Pertanto l’uso della fascia tricolore, anche per delega dello stesso sindaco, da parte di altri soggetti, seppur incardinati nell’Amministrazione comunale o facenti parte di Organismi o Enti a cui partecipino gli Enti locali con propri rappresentanti, non appare in linea con il dettato normativo.
Va comunque evidenziato che, alla luce della legge costituzionale n. 3 del 18.10.2001, sussiste oggi ampia possibilità per le autonomie locali di disciplinare, con normazione regolamentare, l’utilizzo dei propri segni distintivi, anche a scopo di rappresentanza, senza così ricorrere all’impiego di un simbolo, quale la fascia tricolore, attinente nello specifico al capo dell’amministrazione ed allo svolgimento delle proprie funzioni in conformità alle indicazioni di legge (28.06.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALIAccesso al sistema informativo comunale da parte di consiglieri.
Sintesi/Massima
Accesso al sistema informativo comunale da parte di consiglieri tramite password.
Come osservato dal Plenum della Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, del 16.03.2010, il “diritto di accesso” ed il “diritto di informazione” dei consiglieri comunali nei confronti della P.A. trovano la loro disciplina nell’art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000 che riconosce a questi il diritto di ottenere dagli uffici comunali, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato. (Confermato dal successivo parere del 23.10.2012).
“L’accesso diretto tramite utilizzo di apposita password al sistema informatico dell’Ente, ove operante, è uno strumento di accesso certamente consentito al consigliere comunale che favorirebbe la tempestiva acquisizione delle informazioni richieste senza aggravare l’ordinaria attività amministrativa. Ovviamente il consigliere comunale rimane responsabile della segretezza della password di cui è stato messo a conoscenza a tali fini (art. 43, comma 2, T.U.O.E.L.)”.

Testo
E’ stato chiesto un parere in materia di diritto di accesso al sistema informativo comunale.
In particolare, i consiglieri hanno avanzato al Sindaco richiesta di rendere disponibile la password al fine “di accedere anche al Protocollo informatico”.
Il Sindaco ha chiesto a codesta Prefettura se, in mancanza di un programma informatico in grado di oscurare, anche solo temporaneamente, oggetti e contenuti per i quali sia necessario il differimento, sia possibile consentire l’accesso al solo elenco del protocollo.
I medesimi consiglieri hanno chiesto anche a questo Ministero le motivazioni in ordine alla mancata autorizzazione ad accedere al “solo elenco del protocollo” per le finalità indicate dal Comune.
In merito, come osservato dal Plenum della Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, del 16.03.2010, il “diritto di accesso” ed il “diritto di informazione” dei consiglieri comunali nei confronti della P.A. trovano la loro disciplina nell’art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000 che riconosce a questi il diritto di ottenere dagli uffici comunali, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato (confermato dal successivo parere del 23.10.2012)
Sempre secondo quanto sostenuto dalla Commissione per l’accesso con il citato parere “l’accesso diretto tramite utilizzo di apposita password al sistema informatico dell’Ente, ove operante, è uno strumento di accesso certamente consentito al consigliere comunale che favorirebbe la tempestiva acquisizione delle informazioni richieste senza aggravare l’ordinaria attività amministrativa. Ovviamente il consigliere comunale rimane responsabile della segretezza della password di cui è stato messo a conoscenza a tali fini (art. 43, comma 2, T.U.O.E.L.)”.
Anche il Garante per la protezione dei dati personali (v. relazione del 2004, pag. 19 e 20) ha specificato che “nell’ipotesi in cui l’accesso da parte dei consiglieri comunali riguardi dati sensibili, l’esercizio di tale diritto, ai sensi dell’art. 65, comma 4, lett. b), del Codice, è consentito se indispensabile per lo svolgimento della funzione di controllo, di indirizzo politico, di sindacato ispettivo e di altre forme di accesso a documenti riconosciute dalla legge e dai regolamenti degli organi interessati per consentire l’espletamento di un mandato elettivo. Resta ferma la necessità, … che i dati così acquisiti siano utilizzati per le sole finalità connesse all’esercizio del mandato, rispettando in particolare il divieto di divulgazione dei dati idonei a rivelare lo stato di salute. Spetta quindi all’amministrazione destinataria della richiesta accertare l’ampia e qualificata posizione di pretesa all’informazione ratione officii del consigliere comunale”.
Peraltro, anche la giurisprudenza ha affermato il diritto del consigliere alla visione del protocollo generale, senza alcuna esclusione di oggetti e notizie riservate e di materie coperte da segreto, posto che i consiglieri comunali sono tenuti al segreto - ai sensi del citato articolo 43 del decreto legislativo n. 267/2000.
Fatto salvo il diritto dei consiglieri, la materia, comunque, dovrebbe trovare apposita disciplina regolamentare di dettaglio per il suo esercizio (28.06.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALIRiprese audiovisive delle sedute del consiglio comunale. Richiesta di annullamento.
Sintesi/Massima
Riprese audiovisive delle sedute del consiglio comunale.
Nell'ambito dell'attribuzione al consiglio comunale dell'autonomia funzionale ed organizzativa si riconduce quella potestà di regolare opportunamente, con apposite norme, ogni aspetto attinente al funzionamento dell'assemblea, tra cui anche quello della registrazione del dibattito e delle votazioni con mezzi audiovisivi, sia da parte degli uffici di supporto all'attività di verbalizzazione del segretario comunale, che da parte dei consiglieri, degli organi di informazione e dei cittadini che assistono alla sedute pubbliche.

Testo
E’ stato chiesto l’annullamento di una deliberazione con cui era stato approvato il regolamento sulle riprese audiovisive delle sedute del consiglio comunale.
Al riguardo, premesso che questo Ministero, com’è noto, non dispone di poteri di controllo sugli atti degli enti locali, si osserva che le eventuali illegittimità possono farsi rilevare in sede di giudizio da parte di chi ne abbia interesse.
Riguardo alla specifica fattispecie, si evidenzia come nell'ambito dell'attribuzione al consiglio comunale dell'autonomia funzionale ed organizzativa (art. 38, comma 3, T.U.O.E.L.) si riconduce quella potestà di regolare opportunamente, con apposite norme, ogni aspetto attinente al funzionamento dell'assemblea, tra cui anche quello della registrazione del dibattito e delle votazioni con mezzi audiovisivi, sia da parte degli uffici di supporto all'attività di verbalizzazione del segretario comunale, che da parte dei consiglieri, degli organi di informazione e dei cittadini che assistono alla sedute pubbliche.
Sulla materia è intervenuta la sentenza n. 826 del 16.03.2010 con la quale il TAR per il Veneto ha respinto un ricorso avverso il diniego opposto da un sindaco ad una richiesta di registrazione audio-video delle sedute del consiglio comunale, nella considerazione che, in assenza di un'apposita disciplina regolamentare adottata dall'ente, non possano essere garantiti i diritti previsti dal codice sul trattamento dei dati personali di cui al d.lgs. 196 del 2003 e successive modifiche.
Secondo quanto osservato nella citata pronuncia, infatti, gli adempimenti previsti dal suddetto codice “non possono per certo conseguire da estemporanei assensi alla videoregistrazione emanati dal sindaco-Presidente del consiglio comunale nel corso delle sedute del Consiglio medesimo, ma necessitano di essere disciplinati da un'apposita fonte regolamentare di competenza consiliare”.
Il citato giudice amministrativo ha ritenuto, peraltro, immediatamente concedibile da parte del Presidente del Consiglio Comunale, nei confronti di emittenti televisive nazionali e locali l'autorizzazione a riprendere, in via non sistematica, gratuitamente e senza diritti di esclusiva, talune brevi fasi delle sedute del Consiglio Comunale in quanto da tale autorizzazione non conseguono obblighi di sorta per l'Amministrazione Comunale quale 'titolare' o 'responsabile' del trattamento dei personali (28.06.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Richiesta di convocazione da parte di un quinto dei consiglieri.
Sintesi/Massima
Richiesta di convocazione da parte di un quinto dei consiglieri. Art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000.
Al Presidente del Consiglio spetta solo la verifica formale della richiesta (prescritto numero di consiglieri), mentre non potrebbe essere sindacata nel merito, salvo che non si tratti di oggetto che, in quanto illecito, impossibile o per legge manifestamente estraneo alle competenze dell’assemblea.
Il Tar Puglia nella sentenza n. 1022/2004 ha precisato che appartiene ai poteri “sovrani” dell’assemblea decidere in via pregiudiziale che un dato argomento inserito nell’ordine del giorno non debba essere discusso (“questione pregiudiziale”), ovvero se ne debba rinviare la discussione (“questione sospensiva”).
Il citato Tar Puglia ha sottolineato, inoltre, che “…l’ordinamento ritiene un valore essenziale del sistema democratico che alla minoranza sia assicurata effettività del diritto di iniziativa, e cioè del diritto di discussione in assemblea sull’argomento richiesto. Ove, così non fosse, grave ed evidente sarebbe la contraddizione fra tutela rafforzata del diritto di iniziativa e mancanza di limiti per la maggioranza di metterlo nel nulla con la proposizione di una qualunque questione pregiudiziale.”.

Testo
Sono stati chiesti chiarimenti in ordine alla normativa recata dall’art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000.
Al riguardo, com’è noto, il citato art. 39 prescrive che il presidente del consiglio comunale è tenuto a riunire il consiglio, in un termine non superiore ai venti giorni, quando lo richiedano un quinto dei consiglieri o il sindaco, inserendo all’ordine del giorno le questioni richieste. La disposizione configura un obbligo del Presidente del consiglio comunale di procedere alla convocazione dell’organo assembleare senza alcun riferimento alla necessaria adozione di determinazioni, da parte del consiglio stesso.
In caso di inosservanza degli obblighi di convocazione, in base al comma 5, previa diffida, provvede il prefetto.
La dibattuta questione sulla sindacabilità, da parte del Presidente del Consiglio (o del Sindaco), dei motivi che determinano i consiglieri a chiedere la convocazione straordinaria dell’assemblea, si è orientata, sempre in base alla giurisprudenza, nel senso che allo stesso spetti solo la verifica formale della richiesta (prescritto numero di consiglieri), mentre non potrebbe essere sindacata nel merito, salvo che non si tratti di oggetto che, in quanto illecito, impossibile o per legge manifestamente estraneo alle competenze dell’assemblea in nessun caso potrebbe essere posto all’ordine del giorno (v. TAR Piemonte, Sez. II, 24.04.1996, n. 268).
Alla luce del richiamato orientamento giurisprudenziale e dottrinario, le uniche ipotesi per le quali l’organo che presiede il consiglio comunale può omettere la convocazione dell’assemblea sembrano la carenza del prescritto numero di consiglieri oppure la verificata illiceità, impossibilità o manifesta estraneità dell’oggetto alle competenze del Consiglio.
Nello stabilire se una determinata questione sia o meno di competenza del Consiglio comunale occorre aver riguardo non solo agli atti fondamentali espressamente elencati dal comma 2 dell’art. 42 del citato testo unico, ma anche alle funzioni di indirizzo e di controllo politico-amministrativo di cui al comma 1 del medesimo art. 42, con la possibilità, quindi, che la trattazione da parte del collegio non debba necessariamente sfociare nell’adozione di un provvedimento finale.
Il Consiglio comunale ha, infatti, un potere generale di indirizzo e di controllo politico - amministrativo sull’attività del Comune, nel cui ambito rientra pure quello di indirizzo, coordinamento e controllo sull'operato della Giunta (conforme, Tribunale di Giustizia Amministrativa di Trento n. 20/2010 del 14.01.2010).
L’amministrazione locale in oggetto, nel ritenere non obbligatoria la convocazione dell’assemblea per esaminare questioni considerate “estranee” alla competenza consiliare, ha richiamato le osservazioni formulate dal Tar Puglia nella sentenza n. 1022/2004. Nella citata pronuncia il giudice amministrativo ha precisato che appartiene ai poteri “sovrani” dell’assemblea decidere in via pregiudiziale che un dato argomento inserito nell’ordine del giorno non debba essere discusso (“questione pregiudiziale”), ovvero se ne debba rinviare la discussione (“questione sospensiva”).
La sentenza offre, altresì, un’interessante riflessione circa il necessario bilanciamento del potere assembleare di esaminare le questioni pregiudiziali con il diritto riconosciuto alle minoranze di attivare l’istituto della convocazione dell’assemblea su richiesta di un quinto dei consiglieri.
A tale proposito, il citato Tar Puglia ha ritenuto di dover sottolineare che “…tale diritto di iniziativa è tutelato in modo specifico dalla legge con la previsione severa ed eccezionale della modificazione dell’ordine delle competenze mediante intervento sostitutorio del Prefetto in caso di mancata convocazione del consiglio comunale in un termine emblematicamente breve (venti giorni). Il significato giuridicamente utile di tale procedura rafforzata di tutela va individuato nel fatto che l’ordinamento ritiene un valore essenziale del sistema democratico che alla minoranza sia assicurata effettività del diritto di iniziativa, e cioè del diritto di discussione in assemblea sull’argomento richiesto. Ove, così non fosse, grave ed evidente sarebbe la contraddizione fra tutela rafforzata del diritto di iniziativa e mancanza di limiti per la maggioranza di metterlo nel nulla con la proposizione di una qualunque questione pregiudiziale.”.
Pertanto è nell’ambito delle descritte coordinate giurisprudenziali che il Presidente del consiglio dovrà conformare il proprio operato (28.06.2018 - link a http://dait.interno.gov.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Il soggetto che ha denunciato abusi edilizi non riveste automaticamente la qualità di controinteressato in senso proprio, a meno che non sia contemplato nel provvedimento impugnato quale co-destinatario dell’atto in relazione agli effetti prodotti della determinazione adottata nella propria sfera giuridica.
Infatti, per giurisprudenza consolidata, la individuazione dei controinteressati nel processo amministrativo deriva dalla simultanea compresenza di un presupposto formale, consistente nella indicazione nominativa del soggetto nel provvedimento impugnato, e di un elemento sostanziale, derivante dall'esistenza in capo a tale soggetto di un interesse qualificato, giuridicamente rilevante, di carattere uguale e contrario rispetto a quello fatto valere con l'azione impugnatoria, al fine di mantenere la regolazione degli interessi prodotta dall’atto contestato dal ricorrente.
Sennonché, nella specie, la vicinitas dei fondi e la mera menzione nell’atto in chiave descrittiva delle distinte proprietà non sono sufficienti a qualificare formalmente e sostanzialmente un interesse legittimo a difendere in giudizio la legittimità delle sanzioni edilizie applicate con il provvedimento impugnato.
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... per l'annullamento:
- dell'ordinanza n. 63 del 24.10.2018 per la parte in cui revoca solo parzialmente la precedente ordinanza di demolizione n. 48 del 24.08.2018 confermando l'ordine demolitorio relativamente all'installazione di n. 6 paletti metallici ed alla posa in opera della pavimentazione di un’area di circa 35 mq.;
- dell'ordinanza n. 48 del 24.08.2018 per la parte non oggetto della revoca operata con l'ordinanza di cui al precedente punto; nonché di ogni altro atto connesso, se ed in quanto lesivo, ivi compreso il verbale di sopralluogo del 15.03.2017 redatto congiuntamente da Polizia Locale e U.T.C.;
...
Considerato preliminarmente che:
   - è da escludere la sussistenza nella specie di contraddittori necessari non intimati in giudizio, posto che il soggetto che ha denunciato abusi edilizi non riveste automaticamente la qualità di controinteressato in senso proprio, a meno che non sia contemplato nel provvedimento impugnato quale co-destinatario dell’atto in relazione agli effetti prodotti della determinazione adottata nella propria sfera giuridica;
   - infatti, per giurisprudenza consolidata, la individuazione dei controinteressati nel processo amministrativo deriva dalla simultanea compresenza di un presupposto formale, consistente nella indicazione nominativa del soggetto nel provvedimento impugnato, e di un elemento sostanziale, derivante dall'esistenza in capo a tale soggetto di un interesse qualificato, giuridicamente rilevante, di carattere uguale e contrario rispetto a quello fatto valere con l'azione impugnatoria, al fine di mantenere la regolazione degli interessi prodotta dall’atto contestato dal ricorrente (cfr. Cons. St., sez. IV, 01/08/2018, n. 4736);
   - sennonché, nella specie, la vicinitas dei fondi e la mera menzione nell’atto in chiave descrittiva delle distinte proprietà non sono sufficienti a qualificare formalmente e sostanzialmente un interesse legittimo a difendere in giudizio la legittimità delle sanzioni edilizie applicate con il provvedimento impugnato (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 24.12.2018 n. 7333 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sull'illegittimità dell'ordinanza di demolizione relativamente all'installazione di n. 6 paletti metallici con rete metallica ed alla posa in opera della pavimentazione di un’area di circa 35 mq..
La sanzione prevista dall’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 si riferisce agli interventi di nuova costruzione per i quali è prescritta la previa acquisizione di un permesso di costruire ai sensi dell’art. 10, co. 1, lett. a), ed eseguiti in assenza, o in difformità totale del prescritto titolo abilitativo.
Gli interventi di nuova costruzione che richiedono il permesso di costruire, in difetto del quale è applicabile l’ingiunzione di demolizione ex art. 31, consistono negli interventi di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio, non rientranti nelle categorie della manutenzione ordinaria e straordinaria, del restauro e risanamento conservativo e della ristrutturazione edilizia, contemplati nell’art. 3, co. 1, lett. e), del citato d.P.R. n. 380.
La posa di sei paletti infissi nel suolo, destinati a sorreggere una recinzione di rete metallica senza opere murarie, costituisce un manufatto di limitato impatto urbanistico e visivo, essenzialmente destinato al solo scopo di delimitare la proprietà per separarla dalle altre, per cui l’intervento non richiede il rilascio di un permesso di costruire, fatta salva ovviamente l’osservanza dei vincoli paesaggistici.
L'opera di pavimentazione di un’area esterna di modesta estensione neppure è di per sé soggetta al permesso di costruire salvo che non comporti una trasformazione urbanistica del suolo ed un cambio della sua destinazione, sempre ferma restando l’osservanza dei vincoli paesaggistici.
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... per l'annullamento:
- dell'ordinanza n. 63 del 24.10.2018 per la parte in cui revoca solo parzialmente la precedente ordinanza di demolizione n. 48 del 24.08.2018 confermando l'ordine demolitorio relativamente all'installazione di n. 6 paletti metallici ed alla posa in opera della pavimentazione di un’area di circa 35 mq.;
- dell'ordinanza n. 48 del 24.08.2018 per la parte non oggetto della revoca operata con l'ordinanza di cui al precedente punto; nonché di ogni altro atto connesso, se ed in quanto lesivo, ivi compreso il verbale di sopralluogo del 15.03.2017 redatto congiuntamente da Polizia Locale e U.T.C.;
...
Ritenuto nel merito che:
   - la sanzione prevista dall’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001, nella specie irrogata con le ordinanze impugnate, si riferisce agli interventi di nuova costruzione per i quali è prescritta la previa acquisizione di un permesso di costruire ai sensi dell’art. 10, co. 1, lett. a), ed eseguiti in assenza, o in difformità totale del prescritto titolo abilitativo;
   - gli interventi di nuova costruzione che richiedono il permesso di costruire, in difetto del quale è applicabile l’ingiunzione di demolizione ex art. 31, consistono negli interventi di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio, non rientranti nelle categorie della manutenzione ordinaria e straordinaria, del restauro e risanamento conservativo e della ristrutturazione edilizia, contemplati nell’art. 3, co. 1, lett. e), del citato d.P.R. n. 380;
   - la posa di sei paletti infissi nel suolo, destinati a sorreggere una recinzione di rete metallica senza opere murarie, costituisce un manufatto di limitato impatto urbanistico e visivo, essenzialmente destinato al solo scopo di delimitare la proprietà per separarla dalle altre, per cui l’intervento non richiede il rilascio di un permesso di costruire, fatta salva ovviamente l’osservanza dei vincoli paesaggistici (cfr. TAR Brescia, sez. II, 25/09/2018, n. 907; TAR Roma, sez. II, 04/09/2017, n. 9529; Cons. St., sez. IV, 15/12/2017, n. 5908);
   - l'opera di pavimentazione di un’area esterna di modesta estensione neppure è di per sé soggetta al permesso di costruire salvo che non comporti una trasformazione urbanistica del suolo ed un cambio della sua destinazione, sempre ferma restando l’osservanza dei vincoli paesaggistici (cfr. TAR Napoli, sez. VI, 01/08/2018, n. 5144; cfr. art. 6, co. 1, lett. e-ter), del d.P.R. n. 380);
   - nella specie non risultano adottati atti di autotutela riferiti ai titoli abilitativi di cui la ricorrente riferisce il possesso e posti a sostegno degli interventi in questione;
   - né la sussistenza di vincoli paesaggistici giustifica l’applicazione di una sanzione edilizia diversa da quella prevista in relazione al difetto del prescritto titolo abilitativo edilizio, fatta salva ovviamente l’applicazione, se del caso, delle pertinenti misure repressive (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 24.12.2018 n. 7333 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’acquisizione gratuita al patrimonio dell’ente costituisce un’autonoma sanzione derivante dall’inottemperanza dell’ingiunzione di demolizione. In altre parole, essa rappresenta la reazione dell’ordinamento al duplice illecito posto in essere dal privato che, dapprima, esegue un’opera abusiva e, successivamente, non adempie all’obbligo di demolire entro il termine fissato dall’amministrazione.
Alla luce dei principi esposti, deve ritenersi che le questioni relative all’acquisizione dell’area, ed i relativi presupposti, attenendo ad un successivo momento procedimentale, non possono essere introdotte nel giudizio con il quale si impugna l’ordine di demolizione, bensì avverso l’eventuale provvedimento di acquisizione laddove venga effettivamente emesso.
Per tale ragione, l’omessa o imprecisa indicazione di un’area che verrà acquisita di diritto al patrimonio pubblico non costituisce motivo di illegittimità dell’ordinanza di demolizione; invero, l’indicazione dell’area è requisito necessario ai fini dell’acquisizione, che costituisce distinta misura sanzionatoria.
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In generale, quanto al rispetto del dovere di motivazione, deve ricordarsi che il provvedimento con cui viene ingiunta la demolizione di un immobile abusivo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso.
Nel caso in esame, il provvedimento impugnato contiene sufficienti elementi in fatto e diritto per evidenziare il tipo di abuso edilizio e le norme in violazione delle quali lo stesso è stato commesso, come meglio specificato nel rapporto della polizia municipale, al quale l’ordinanza rinvia per relationem.
A questo riguardo, va ricordato che l'obbligo per l'Autorità di motivare il provvedimento amministrativo non può ritenersi violato attraverso il richiamo per relationem degli atti procedimentali, se questi offrano comunque elementi sufficienti e univoci dai quali possano ricostruirsi le concrete ragioni e l'iter motivazionale posti a sostegno della determinazione assunta.
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4 – Con il primo motivo si deduce la violazione dell’art. 7 della l. 47/1985, oggi art. 31 del d.p.r. 380/2001 e art. 132 della l.reg. 01/2005.
Più precisamente, si censura la sentenza impugnata nel punto in cui afferma che “l’indicazione dell’area di sedime non deve essere contenuta nel provvedimento di demolizione, bensì nell’atto in cui l’Amministrazione accerta l’inottemperanza all’ordine di demolizione”.
Secondo l’appellante, la sanzione che determina l'acquisizione della proprietà del bene altrui -anche in relazione alla sua particolare gravità- richiederebbe una esatta individuazione del bene che il Comune intende acquisire e tale indicazione dovrebbe essere contenuta già nell'ingiunzione.
4.1 – La censura non può essere accolta, contrastando con l’orientamento di gran lunga maggioritario a cui il Collegio intende aderire.
Al riguardo, deve infatti ricordarsi che l’acquisizione gratuita al patrimonio dell’ente costituisce un’autonoma sanzione (cfr. Corte Cost. n. 82/1991, Corte Cost. n. 345/1991), derivante dall’inottemperanza dell’ingiunzione di demolizione. In altre parole, essa rappresenta la reazione dell’ordinamento al duplice illecito posto in essere dal privato che, dapprima, esegue un’opera abusiva e, successivamente, non adempie all’obbligo di demolire entro il termine fissato dall’amministrazione (cfr. Cons. St., sez. IV, 03.05.2011, n. 2639; Cons. St., sez. V, 15.07.2016, n. 3834).
Alla luce dei principi esposti, deve ritenersi che le questioni relative all’acquisizione dell’area, ed i relativi presupposti, attenendo ad un successivo momento procedimentale, non possono essere introdotte nel giudizio con il quale si impugna l’ordine di demolizione, bensì avverso l’eventuale provvedimento di acquisizione laddove venga effettivamente emesso.
Per tale ragione, l’omessa o imprecisa indicazione di un’area che verrà acquisita di diritto al patrimonio pubblico non costituisce motivo di illegittimità dell’ordinanza di demolizione; invero, l’indicazione dell’area è requisito necessario ai fini dell’acquisizione, che costituisce distinta misura sanzionatoria (cfr. Cons. St., sez. IV, 25 n. 5593 del 2013; Cons. St., sez. V. n. 3438 del 2014; Cons. St., sez. IV, n. 4659 del 2008; Cons. St. sez. VI, n. 1998 del 2004).
5 - Con il secondo motivo di appello si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 3 l. n. 241/1990.
A tal fine, l’appellante rileva che il provvedimento impugnato si riferisce genericamente ad “opere abusive” così come descritte nel verbale della P.M., ma non distinguerebbe le singole fattispecie, che sarebbero soggette a discipline diverse.
5.1 - Può essere esaminata in questa sede anche la censura con la quale si contesta il difetto di motivazione dell’ordinanza impugnata nel punto in cui ha disposto la demolizione della tettoia e del box-container.
In particolare, l’appellante contesta la decisione del TAR che, rispetto a tale censura, avrebbe preso in considerazione la situazione del solo box–container, senza fare alcun riferimento alla tettoia.
6 – Le censure sono infondate.
In generale, quanto al rispetto del dovere di motivazione, deve ricordarsi che il provvedimento con cui viene ingiunta la demolizione di un immobile abusivo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso(cfr. Cons. St., Ad. Plen., 17.10.2017, n. 9).
6.1 - Nel caso in esame, come già osservato dal Giudice di prime cure, il provvedimento impugnato contiene sufficienti elementi in fatto e diritto per evidenziare il tipo di abuso edilizio e le norme in violazione delle quali lo stesso è stato commesso, come meglio specificato nel rapporto della polizia municipale, al quale l’ordinanza rinvia per relationem.
A questo riguardo, va ricordato che l'obbligo per l'Autorità di motivare il provvedimento amministrativo non può ritenersi violato attraverso il richiamo per relationem degli atti procedimentali, se questi offrano comunque elementi sufficienti e univoci dai quali possano ricostruirsi le concrete ragioni e l'iter motivazionale posti a sostegno della determinazione assunta (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 21.04.2015, n. 2011).
Le considerazioni che precedono valgano evidentemente sia per il box che per la tettoia, dal momento che anche quest’ultima è contemplata nel verbale di accertamento del 21.10.1996 (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 24.12.2018 n. 7210 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di un box-container, stabilmente appoggiato al terreno, pur nella precarietà dei materiali e nella funzione pertinenziale alla quale il soggetto che lo installa intende impiegarlo in modo stabile nel tempo, costituisce permanente alterazione del terreno ai fini urbanistico-edilizi e richiede, pertanto, il rilascio del previo titolo edilizio.
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Vale un analogo discorso per la tettoia (“realizzata con vecchi pali di cemento e copertura in eternit”), che per dimensioni e caratteristiche non può certo considerarsi indifferente rispetto all’assetto del territorio nel quale si colloca.
La giurisprudenza ha già avuto modo di affermare che la realizzazione di una tettoia necessita di permesso di costruire quale “nuova costruzione”, comportando una trasformazione del territorio e dell’assetto edilizio anteriore; essa arreca, infatti, un proprio impatto volumetrico e, se e in quanto priva di connotati di precarietà, è destinata a soddisfare esigenze non già temporanee e contingenti, ma durevoli nel tempo, con conseguente incremento del godimento dell’immobile cui inerisce e del relativo carico urbanistico.

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7 – Con un’ulteriore censura si deduce la violazione dell’art. 7 della l. 47/1985 in relazione all’art. 1 l. 28.01.1977 n. 10 e all’art. 7 d.l. 663 del 1981.
Secondo la prospettazione dell’appellante, la realizzazione della tettoia e del box-container non necessitavano della concessione edilizia, bensì della autorizzazione ex art. 10 della legge 47/1985.
7.1 - La censura è infondata.
In primo luogo, deve evidenziarsi l’inconferenza della giurisprudenza citata nell’atto di appello riferibile alla differente sanzione dell’acquisizione gratuita, trattandosi, come già innanzi spiegato, di una sanzione differente ed autonoma rispetto alla demolizione.
Da un altro punto di vista, l’appellante non introduce alcun elemento concreto dal quale desumere che le opere in questione –tettoia e box– non debbano essere soggette a licenzia edilizia.
7.2 - In particolare, per quanto riguarda il box, valgono le considerazioni già espresse dal TAR, che ha sottolineato come la realizzazione di un box-container, stabilmente appoggiato al terreno (nel verbale di accertamento si specifica che il box poggia su pavimentazione di cemento), pur nella precarietà dei materiali e nella funzione pertinenziale alla quale il soggetto che lo installa intende impiegarlo in modo stabile nel tempo, costituisce permanente alterazione del terreno ai fini urbanistico-edilizi e richiede, pertanto, il rilascio del previo titolo edilizio (cfr. Cons. Stato, sez V, 24.02.2003, n. 986).
7.3 - Vale un analogo discorso per la tettoia (“realizzata con vecchi pali di cemento e copertura in eternit”), che per dimensioni e caratteristiche non può certo considerarsi indifferente rispetto all’assetto del territorio nel quale si colloca.
La giurisprudenza ha già avuto modo di affermare che la realizzazione di una tettoia necessita di permesso di costruire quale “nuova costruzione”, comportando una trasformazione del territorio e dell’assetto edilizio anteriore; essa arreca, infatti, un proprio impatto volumetrico e, se e in quanto priva di connotati di precarietà, è destinata a soddisfare esigenze non già temporanee e contingenti, ma durevoli nel tempo, con conseguente incremento del godimento dell’immobile cui inerisce e del relativo carico urbanistico (cfr. Cons. St., sez. VI, n. 2715/2018 C.d.S. sez. IV 08.01.2018 n. 12 e sez. VI 16.02.2017 n. 694).
7.4 - Infine, ad ulteriore conferma dell’infondatezza del motivo di appello in esame, deve evidenziarsi la circostanza che l’area sulla quale sono stati realizzate senza titolo le opere in discorso è soggetta anche a vincolo ambientale, con quanto ne consegue in termini di disciplina autorizzatoria e di repressione degli abusi
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 24.12.2018 n. 7210 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La stazione appaltante conserva in ogni modo il potere di disporre l’esclusione delle offerte tecniche che di fatto non rispettano i requisiti minimi previsti dalla legge di gara, in quanto tali offerte configurano la presentazione di un prodotto che, ponendosi al di sotto degli “standard” minimi chiesti dall’amministrazione, realizza un vero e proprio “aliud pro alio”.
La giurisprudenza appare infatti concorde nel ritenere che la radicale mancanza di livelli essenziali dell’offerta tecnica non permette la valutazione della stessa ed impone l’esclusione del concorrente per la sostanziale inidoneità dello stesso nei termini richiesti dalla stazione appaltante.
Sul punto, fra le tante, si vedano:
  
Consiglio di Stato, sez. III, 03.08.2018, n. 4809, per cui: «…le caratteristiche tecniche previste nel capitolato di appalto valgono a qualificare i beni oggetto di fornitura e concorrono, dunque, a definire il contenuto della prestazione sulla quale deve perfezionarsi l’accordo contrattuale, di talché eventuali, apprezzabile difformità registrate nell’offerta concretano una forma di 'aliud pro alio', comportante, di per sé, l'esclusione dalla gara, anche in mancanza di apposita comminatoria, e, nel contempo, non rimediabile tramite regolarizzazione postuma, consentita soltanto quando i vizi rilevati nell'offerta siano puramente formali o chiaramente imputabili a errore materiale…»;
  
oltre a TAR Lazio, Roma. Sez. II, 21.02.2018, n. 2016; senza contare che “le difformità dell’offerta tecnica che rivelano l’inadeguatezza del progetto proposto dall’impresa offerente rispetto ai requisiti minimi previsti dalla stazione appaltante per il contratto da affidare legittimano l’esclusione dalla gara e non già la mera penalizzazione dell’offerta nell’attribuzione del punteggio, perché determinano la mancanza di un elemento essenziale per la formazione dell'accordo necessario per la stipula del contratto”.
Le difformità dell’offerta tecnica, anche parziali, si risolvono quindi in un aliud pro alio, che giustifica l’esclusione dalla selezione.
Non è necessario neppure che la sanzione espulsiva sia espressamente prevista dalla legge di gara giacché, “ai fini dell’esclusione, non è necessaria un’espressa previsione in tal senso, essendo sufficiente il riscontro della difformità dell’offerta rispetto alle specifiche tecniche richieste dalla lex specialis, che abbiano per l’Amministrazione un valore essenziale”.
L’esclusione del concorrente risponde ai principi fondamentali in materia di selezione del contraente e trova altresì un fondamento nell’art. 94, comma 1, lett. a), del codice dei contratti pubblici, articolo riguardante appunto i principi generali in materia di selezione dei contraenti.
Le caratteristiche minime essenziali devono essere possedute al momento di presentazione dell’offerta, non essendo ammissibile che possa trovare accettazione da parte dell’amministrazione un bene privo di tali caratteristiche, con l’impegno dell’offerente ad apportare gli adeguamenti necessari dopo l’eventuale aggiudicazione o prima dell’esecuzione del contratto d’appalto.
Una simile soluzione si porrebbe in evidente contrasto con la regola del rispetto della par condicio fra i partecipanti, oltre a determinare anche un inevitabile stravolgimento dell’offerta economica, posto che l’offerta di un bene privo dei requisiti minimi potrebbe consentire un prezzo apparentemente più vantaggioso, salvi i costi successivi per l’adeguamento del bene agli standard minimi.
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Orbene, il Collegio deve evidenziare che, ad onta delle dichiarazioni rese dalle imprese partecipanti, la stazione appaltante conserva in ogni modo il potere di disporre l’esclusione delle offerte tecniche che di fatto non rispettano i requisiti minimi previsti dalla legge di gara, in quanto tali offerte configurano la presentazione di un prodotto che, ponendosi al di sotto degli “standard” minimi chiesti dall’amministrazione, realizza un vero e proprio “aliud pro alio”.
La giurisprudenza appare infatti concorde nel ritenere che la radicale mancanza di livelli essenziali dell’offerta tecnica non permette la valutazione della stessa ed impone l’esclusione del concorrente per la sostanziale inidoneità dello stesso nei termini richiesti dalla stazione appaltante.
Sul punto, fra le tante, si vedano Consiglio di Stato, sez. III, 03.08.2018, n. 4809, per cui: «…le caratteristiche tecniche previste nel capitolato di appalto valgono a qualificare i beni oggetto di fornitura e concorrono, dunque, a definire il contenuto della prestazione sulla quale deve perfezionarsi l’accordo contrattuale, di talché eventuali, apprezzabile difformità registrate nell’offerta concretano una forma di 'aliud pro alio', comportante, di per sé, l'esclusione dalla gara, anche in mancanza di apposita comminatoria, e, nel contempo, non rimediabile tramite regolarizzazione postuma, consentita soltanto quando i vizi rilevati nell'offerta siano puramente formali o chiaramente imputabili a errore materiale…»; oltre a TAR Lazio, Roma. Sez. II, 21.02.2018, n. 2016; senza contare che “le difformità dell’offerta tecnica che rivelano l’inadeguatezza del progetto proposto dall’impresa offerente rispetto ai requisiti minimi previsti dalla stazione appaltante per il contratto da affidare legittimano l’esclusione dalla gara e non già la mera penalizzazione dell’offerta nell’attribuzione del punteggio, perché determinano la mancanza di un elemento essenziale per la formazione dell'accordo necessario per la stipula del contratto” (così Consiglio di Stato, Sez. V, 05.05.2016, n. 1809, oltre a Sez. III, 21.10.2015, n. 4804; 01.07.2015, n. 3275; Sez. V, 17.02.2016, n. 633 e 23.09.2015, n. 4460).
Le difformità dell’offerta tecnica, anche parziali, si risolvono quindi in un aliud pro alio, che giustifica l’esclusione dalla selezione (Consiglio di Stato, Sez. III, 26.01.2018, n. 565 e Sez. V, 05.05.2016, n. 1818).
Non è necessario neppure che la sanzione espulsiva sia espressamente prevista dalla legge di gara giacché, “ai fini dell’esclusione, non è necessaria un’espressa previsione in tal senso, essendo sufficiente il riscontro della difformità dell’offerta rispetto alle specifiche tecniche richieste dalla lex specialis, che abbiano per l’Amministrazione un valore essenziale” (così ancora Consiglio di Stato, Sez. III, 26.01.2018, n. 565 e TAR Umbria, 01.09.2017, n. 563).
L’esclusione del concorrente risponde ai principi fondamentali in materia di selezione del contraente e trova altresì un fondamento nell’art. 94, comma 1, lett. a), del codice dei contratti pubblici, articolo riguardante appunto i principi generali in materia di selezione dei contraenti (sul punto si veda TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 02.02.2017, n. 145).
Le caratteristiche minime essenziali devono essere possedute al momento di presentazione dell’offerta, non essendo ammissibile che possa trovare accettazione da parte dell’amministrazione un bene privo di tali caratteristiche, con l’impegno dell’offerente ad apportare gli adeguamenti necessari dopo l’eventuale aggiudicazione o prima dell’esecuzione del contratto d’appalto.
Una simile soluzione si porrebbe in evidente contrasto con la regola del rispetto della par condicio fra i partecipanti, oltre a determinare anche un inevitabile stravolgimento dell’offerta economica, posto che l’offerta di un bene privo dei requisiti minimi potrebbe consentire un prezzo apparentemente più vantaggioso, salvi i costi successivi per l’adeguamento del bene agli standard minimi (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza non definitiva 24.12.2018 n. 2845 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’impresa deve essere in regola con l’assolvimento degli obblighi previdenziali ed assistenziali fin dalla presentazione dell’offerta e conservare tale stato per tutta la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto con la stazione appaltante, restando dunque irrilevante, un eventuale adempimento tardivo dell’obbligazione contributiva.
L’istituto dell’invito alla regolarizzazione (il c.d. preavviso di DURC negativo), già previsto dall’art. 7, comma 3, del decreto ministeriale 24.10.2007 e ora recepito a livello legislativo dall’ art. 31, comma 8, del decreto legge 21.06.2013 n. 69, può operare solo nei rapporti tra impresa ed ente previdenziale, ossia con riferimento al DURC chiesto dall’impresa e non anche al DURC richiesto dalla stazione appaltante per la verifica della veridicità dell’autodichiarazione resa ai sensi dell’art. 38, comma 1, lettera i), ai fini della partecipazione alla gara d’appalto.
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Ciò accertato, in punto di diritto si scontrano ricorrente e controinteressata in particolare sul momento in cui la positività del Durc rileva, sostenendo la prima che la regolarità debba sussistere per tutta la durata della procedura, opponendo la seconda la tesi secondo cui il momento rilevante sia solo quello dell’aggiudicazione.
Osserva il Tribunale, come già fatto nel provvedimento cautelare, che l’impresa debba essere in regola con l’assolvimento degli obblighi previdenziali ed assistenziali fin dalla presentazione dell’offerta e conservare tale stato per tutta la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto con la stazione appaltante, restando dunque irrilevante, un eventuale adempimento tardivo dell’obbligazione contributiva.
L’istituto dell’invito alla regolarizzazione (il c.d. preavviso di DURC negativo), già previsto dall’art. 7, comma 3, del decreto ministeriale 24.10.2007 e ora recepito a livello legislativo dall’ art. 31, comma 8, del decreto legge 21.06.2013 n. 69, può operare solo nei rapporti tra impresa ed ente previdenziale, ossia con riferimento al DURC chiesto dall’impresa e non anche al DURC richiesto dalla stazione appaltante per la verifica della veridicità dell’autodichiarazione resa ai sensi dell’art. 38, comma 1, lettera i), ai fini della partecipazione alla gara d’appalto (v. per tutte n. 5/2016 e n. 10/2016 dell’Adunanza plenaria (e confermati dalla Corte di giustizia nella sentenza 10.11.2016, C-199/15) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 21.12.2018 n. 2172 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOUso privato dell’auto di servizio solo se autorizzato specificamente.
L'uso dell'auto di servizio a fini privati è in via generale vietato presumendo la sua esclusiva destinazione a uso pubblico, a meno che non ci siano provvedimenti che consentano deroghe «puntuali e documentate». Provvedimenti la cui esistenza e i cui contenuti devono essere oggetto di specifica prova se non si vuole incappare nel reato di peculato.

Con questo principio la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 19.12.2018 n. 57517 mette il punto sull'ennesimo caso di utilizzo personale dell'auto di servizio.
La vicenda vede protagonista un dipendente della Asl di Napoli che, in qualità di sindaco di un Comune, si faceva scarrozzare tra posto di lavoro e municipio dall'autista con l'auto di rappresentanza.
La Cassazione ha respinto il suo ricorso contro la sentenza del tribunale di Napoli prima e della Corte d'appello poi che lo avevano condannato per peculato.
La non utilizzabilità dell'auto a fini privati è logica conseguenza della sua destinazione a fini pubblici che deve ritenersi esclusiva in mancanza di atti amministrativi che ne autorizzassero l'uso privato. Di fronte a questo principio non hanno molto peso le testimonianze a favore rese dall'autista o la mancanza di un danno patrimoniale apprezzabile.
A parte il fatto che –sottolineano i giudici- tragitti di pochi kilometri, ma molto frequenti e reiterati, hanno avuto il loro peso sulle casse del Comune non solo perché distoglievano l'autista dai propri compiti istituzionali ma anche e soprattutto per l'usura causata al mezzo e la spesa del carburante (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 20.12.2018).
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MASSIMA
3. - Il ricorso è inammissibile.
3.1. - Il primo motivo di doglianza è formulato in modo non specifico.
La difesa non contesta che i tragitti oggetto dell'imputazione di peculato d'uso siano stati effettuati, ma si limita a criticare l'impianto probatorio della sentenza, senza formulare alcun rilievo critico alla motivazione della stessa; ed afferma che la prova dell'inutilizzabilità della macchina di servizio per i tragitti effettuati dall'imputato sarebbe stata ricavata dalla testimonianza dell'autista circa il contenuto di atti amministrativi comunali di regolamentazione dell'uso dell'auto.
Si tratta di un'affermazione palesemente erronea, a fronte dell'oggettiva mancanza, negli atti di causa, di provvedimenti amministrativi comunali che autorizzassero l'uso dell'auto anche per ragioni private, la cui esistenza non è stata prospettata neanche con il ricorso per cassazione.
Del tutto correttamente, dunque, i giudici di primo e secondo grado, con conforme valutazione, hanno ritenuto che l'auto, i cui costi e le cui spese erano interamente a carico della pubblica amministrazione, potesse essere utilizzata solo per fini pubblici e non anche per fini privati. La testimonianza dell'autista sul punto è, dunque, irrilevante nell'economia motivazionale del provvedimento impugnato, perché la non utilizzabilità dell'auto a fini privati è logica conseguenza della sua destinazione a fini pubblici, che deve ritenersi esclusiva in mancanza di atti amministrativi -per loro natura sottratti all'applicazione del principio iura novit curia- che ne autorizzassero l'uso privato.
Deve dunque affermarsi che,
ai fini della configurabilità del reato di peculato, l'uso dell'auto di servizio a fini privati è in via generale vietato, dovendosi presumere la sua esclusiva destinazione ad uso pubblico, a meno che non vi siano provvedimenti che consentano puntuali e documentate deroghe a tale uso pubblico; provvedimenti la cui esistenza e il cui contenuto devono essere oggetto di specifica prova.
3.2. - Analoghe considerazioni valgono quanto alla apprezzabilità del danno, oggetto del secondo motivo di doglianza.
Il ricorrente si limita e reiterare, sul punto, rilievi parziali, già esaminati e motivatamente disattesi dei giudici di primo e secondo grado, con conforme valutazione. Questi hanno correttamente evidenziato che le condotte, anche se aventi ad oggetto tragitti di pochi kilometri, hanno avuto una rilevantissima reiterazione, avendo cagionato al Comune un apprezzabile danno, non solo in conseguenza del fatto che l'attività dell'autista era distolta dai fini istituzionali, ma anche e soprattutto per l'usura dell'auto e la spesa per il carburante.
Ne deriva l'inammissibilità anche di tale motivo di doglianza.

APPALTI: Diniego iscrizione Albo Gestori Ambientali di impresa colpita da informativa antimafia.
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Informativa antimafia - Provvedimenti di tipo abilitativo-autorizzativo – Richiesta iscrizione Albo Gestori Ambientali - Applicabilità.
E’ legittimo il diniego di iscrizione all’Albo Gestori Ambientali dell’impresa destinataria di interdittiva antimafia, e ciò in quanto tali informative interdittive sono applicabili anche ai provvedimenti di tipo abilitativo-autorizzativo, nei quali rientra l’iscrizione all'Albo Nazionale Gestori Ambientali; tale iscrizione abilita, infatti, l’operatore economico allo svolgimento di attività individuate nel d.m. n. 120 del 2014 (1).
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   (1) Ha ricordato la Sezione, richiamando un proprio recente precedente (08.03.2018, n. 1109) che la disciplina dettata dal d.lgs. n. 159 del 2011 (c.d. codice delle leggi antimafia) consente l’applicazione delle informazioni antimafia anche ai provvedimenti a contenuto autorizzatorio. La tendenza del legislatore muove infatti, in questa materia, verso il superamento della rigida bipartizione e della tradizionale alternatività tra comunicazioni antimafia, applicabili alle autorizzazioni, e informazioni antimafia, applicabili ad appalti, concessioni, contributi ed elargizioni.
Il sistema così delineato, che risponde a valori costituzionali ed europei di preminente interesse e di irrinunciabile tutela, non attenua le garanzie che la tradizionale ripartizione tra le comunicazioni e le informazioni antimafia prima assicurava, consentendo alle sole comunicazioni antimafia, emesse sulla base di un provvedimento di prevenzione definitivo adottato dal Tribunale con tutte le garanzie giurisdizionali, di precludere l’ottenimento di licenze, autorizzazioni o di qualsivoglia provvedimento, comunque denominato, per l’esercizio di attività imprenditoriali (art. 67, comma 1, lett. f), d.lgs. n. 159 del 2011).
L’ordinamento positivo in materia, dalla legge-delega al cd. “Codice antimafia” sino alle più recenti integrazioni di quest’ultimo, ha voluto apprestare, per l’individuazione del pericolo di infiltrazione mafiosa nell’economia e nelle imprese, strumenti sempre più idonei e capaci di consentire valutazioni e accertamenti tanto variegati e adeguabili alle circostanze, quanto variabili e diversamente atteggiati sono i mezzi che le mafie usano per cercare di moltiplicare i loro illeciti profitti.
Nella ponderazione degli interessi in gioco, tra cui certo quello delle garanzie per l’interessato da una misura interdittiva è ben presente, non può pensarsi che gli organi dello Stato contrastino con “armi impari” la pervasiva diffusione delle organizzazioni mafiose che hanno, nei sistemi globalizzati, vaste reti di collegamento e profitti criminali quale “ragione sociale” per tendere al controllo di interi territori.
Le conclusioni alle quali è pervenuta la Sezione con la sentenza n. 1109 del 2017 sono state confermate dal Giudice delle leggi (sentenza 18.01.2018, n. 4) secondo cui “indipendentemente da quale fosse l’ambito riservato dal legislatore all’informazione e alla comunicazione antimafia anteriormente al d.lgs. n. 159 del 2011, non sussisteva alcun ostacolo logico o concettuale, che imponesse di circoscrivere gli effetti dell’informazione antimafia alle attività contrattuali della pubblica amministrazione. Nel contesto normativo di cui al d.lgs. n. 159 cit. e sulla base della legge delega n. 136 del 2010, nulla autorizza quindi a pensare che il tentativo di infiltrazione mafiosa, acclarato mediante l’informazione antimafia interdittiva, non debba precludere anche le attività ulteriori rispetto ai rapporti contrattuali con la Pubblica amministrazione” (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 19.12.2018 n. 7151 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Ai sensi dell’art. 30, co. 1, del d.P.R. n. 380/2001, la lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio consiste nella trasformazione urbanistica o edilizia degli stessi attuata mediante l’avvio e l’esecuzione non autorizzati di opere, in violazione degli strumenti urbanistici vigenti o adottati, ovvero predisposta attraverso il frazionamento e la vendita di un terreno in lotti che, per le loro caratteristiche, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio (la norma elenca una serie di elementi rivelatori di tale destinazione, sui quali si tornerà infra).
Può, dunque, trattarsi di un’attività materiale o anche soltanto giuridica (lottizzazione “negoziale” o “cartolare”), ma anche del concorso dell’una e dell’altra (lottizzazione “mista”).
La giurisprudenza ha da tempo individuato l’interesse tutelato dalla norma nella salvaguardia dell’ordinato sviluppo del tessuto urbano e, soprattutto, del potere di pianificazione attuativa e di controllo dell’amministrazione, che risulterebbero pregiudicati dalla realizzazione di insediamenti potenzialmente privi dei servizi e delle opere di urbanizzazione necessari; mentre il concetto di “trasformazione” viene inteso in senso funzionale, dovendosi perciò avere riguardo al complesso delle opere realizzate e al correlativo aggravio del carico urbanistico, ancorché le singole costruzioni -isolatamente considerate– risultino eventualmente assistite da regolare titolo edilizio (per questo può costituire lottizzazione abusiva materiale anche il cambio di destinazione d’uso di un complesso immobiliare formato da singoli elementi legittimamente edificati, se ne deriva un carico urbanistico diverso da quello in origine previsto.
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e è vero che ciascun proprietario risponde relativamente alle opere realizzate sul proprio fondo, la lottizzazione abusiva costituisce, secondo la definizione che ne dà la giurisprudenza penalistica, fattispecie a forma libera e progressiva nell’evento, al cui perfezionamento ben possono concorrere più soggetti e anche con condotte eterogenee, purché tutte abbiano contribuito alla causazione dell’illecito.
Ed è per tale ragione che, una volta riguardati nel contesto del mutato assetto dell’area, gli interventi eseguiti dai diversi proprietari sui singoli lotti non possono venire trattati come abusi individuali a se stanti, ma esprimono la volontà di partecipare alla complessiva trasformazione dei luoghi.

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3.1. I ricorsi sono infondati.
3.1.1. Ai sensi dell’art. 30, co. 1, del d.P.R. n. 380/2001, la lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio consiste nella trasformazione urbanistica o edilizia degli stessi attuata mediante l’avvio e l’esecuzione non autorizzati di opere, in violazione degli strumenti urbanistici vigenti o adottati, ovvero predisposta attraverso il frazionamento e la vendita di un terreno in lotti che, per le loro caratteristiche, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio (la norma elenca una serie di elementi rivelatori di tale destinazione, sui quali si tornerà infra).
Può, dunque, trattarsi di un’attività materiale o anche soltanto giuridica (lottizzazione “negoziale” o “cartolare”), ma anche del concorso dell’una e dell’altra (lottizzazione “mista”).
La giurisprudenza ha da tempo individuato l’interesse tutelato dalla norma nella salvaguardia dell’ordinato sviluppo del tessuto urbano e, soprattutto, del potere di pianificazione attuativa e di controllo dell’amministrazione, che risulterebbero pregiudicati dalla realizzazione di insediamenti potenzialmente privi dei servizi e delle opere di urbanizzazione necessari; mentre il concetto di “trasformazione” viene inteso in senso funzionale, dovendosi perciò avere riguardo al complesso delle opere realizzate e al correlativo aggravio del carico urbanistico, ancorché le singole costruzioni -isolatamente considerate– risultino eventualmente assistite da regolare titolo edilizio (per questo può costituire lottizzazione abusiva materiale anche il cambio di destinazione d’uso di un complesso immobiliare formato da singoli elementi legittimamente edificati, se ne deriva un carico urbanistico diverso da quello in origine previsto: fra le moltissime, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 28.07.2017, n. 3788, e i precedenti ivi citati; id., sez. IV, 30.08.2016, n. 3721; id., sez. IV, 19.06.2014, n. 3115).
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D’altro canto, se è vero che ciascun proprietario risponde relativamente alle opere realizzate sul proprio fondo, la lottizzazione abusiva costituisce, secondo la definizione che ne dà la giurisprudenza penalistica, fattispecie a forma libera e progressiva nell’evento, al cui perfezionamento ben possono concorrere più soggetti e anche con condotte eterogenee, purché tutte abbiano contribuito alla causazione dell’illecito (per tutte, cfr. Cass. pen., sez. III, 20.02.2018, n. 14053; id., 16.07.2013, n. 37383).
Ed è per tale ragione che, una volta riguardati nel contesto del mutato assetto dell’area, gli interventi eseguiti dai diversi proprietari sui singoli lotti non possono venire trattati come abusi individuali a se stanti, ma esprimono la volontà di partecipare alla complessiva trasformazione dei luoghi (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 03.04.2018, n. 2082, richiamata anche dalla difesa comunale)
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 19.12.2018 n. 1643 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il contratto di compravendita con cui viene trasferito il diritto di proprietà di un immobile sul quale il venditore abbia esercitato il possesso per un tempo sufficiente al compimento dell'usucapione non è nullo ancorché l'acquisto della proprietà da parte sua non sia stato giudizialmente accertato in contraddittorio con il precedente proprietario, ciò in quanto l'acquisto per usucapione avviene ipso iure per il semplice fatto del possesso protratto per venti anni e la sentenza con cui viene pronunciato l'acquisto per usucapione del diritto di servitù ha natura meramente dichiarativa e non costitutiva del diritto stesso.
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Il fatto che il comune abbia successivamente ritenuto di contestare il perfezionamento dei presupposti per l’acquisito a titolo originario in capo al dante causa del ricorrente -e la conseguente carenza della posizione legittimante richiesta dall’art. 11 DPR 380/2001-, assumendo la proprietà esclusiva del bene immobile in capo alla stessa amministrazione comunale, non giustifica, sul piano pubblicistico e dei relativi poteri istruttori di controllo, l’annullamento del titolo edilizio (peraltro a distanza di oltre quattro anni dal suo rilascio ed a lavori già ultimati), ma vale a radicare una pretesa petitoria, che può essere fatta valere dinanzi al Giudice ordinario.
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6. Il ricorso è fondato e merita di essere accolto.
6.1. La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha chiarito che “il contratto di compravendita con cui viene trasferito il diritto di proprietà di un immobile sul quale il venditore abbia esercitato il possesso per un tempo sufficiente al compimento dell'usucapione non è nullo ancorché l'acquisto della proprietà da parte sua non sia stato giudizialmente accertato in contraddittorio con il precedente proprietario (Cass., Sez. 2, n. 2485 del 05/02/2007), ciò in quanto l'acquisto per usucapione avviene ipso iure per il semplice fatto del possesso protratto per venti anni e la sentenza con cui viene pronunciato l'acquisto per usucapione del diritto di servitù ha natura meramente dichiarativa e non costitutiva del diritto stesso (Cass., Sez. 2, n. 2717 del 29/04/1982; Sez. 3, n. 8650 del 21/10/1994)” (Cass. Civ., Sez. II, 29.03.2018 n. 7853).
Ciò significa che il ricorrente poteva validamente far riferimento all’atto pubblico di donazione del 27.07.2012, recante il trasferimento in suo favore della proprietà del fabbricato e dell’annessa corte, nel presupposto, ivi espressamente dichiarato, che la proprietà della detta corte fosse stata acquisita dal suo dante causa in forza di usucapione, anche se non accertata giudizialmente.
6.2. Il fatto che il comune di Crotone abbia successivamente ritenuto di contestare il perfezionamento dei presupposti per l’acquisito a titolo originario in capo al dante causa del ricorrente -e la conseguente carenza della posizione legittimante richiesta dall’art. 11 DPR 380/2001-, assumendo la proprietà esclusiva del bene immobile in capo alla stessa amministrazione comunale, non giustifica, sul piano pubblicistico e dei relativi poteri istruttori di controllo, l’annullamento del titolo edilizio (peraltro a distanza di oltre quattro anni dal suo rilascio ed a lavori già ultimati), ma vale a radicare una pretesa petitoria, che può essere fatta valere dinanzi al Giudice ordinario: “4.3. - Veniamo ora al punto centrale della questione sottoposta all’attenzione del Collegio: la possibilità per l’amministrazione comunale di sindacare la “validità” del titolo di proprietà esibito per verificare la legittimazione soggettiva del richiedente il permesso di costruire, ai sensi e per gli effetti dell’art. 11 del D.P.R. n. 380/2001. Si rammenta infatti che il diniego censurato è incentrato sulla presunta inidoneità del titolo stesso al trasferimento della proprietà del fondo in parola, sul presupposto che il dante causa dell’odierno ricorrente ne abbia acquisito la titolarità in virtù di usucapione non accertata giudizialmente.
4.3.1. - La problematica non può che essere affrontata prendendo le mosse dall’art. 11 appena richiamato. La norma consente -testualmente- il rilascio del p.d.c. “al proprietario dell’immobile o a chi abbia titolo per richiederlo” (cfr. 1° comma), con la precisazione che “esso non incide sulla titolarità della proprietà o di altri diritti reali relativi agli immobili realizzati per effetto del suo rilascio” (cfr. comma 2°) e che “non comporta limitazioni dei diritti dei terzi” (cfr. comma 3°). Evidente, pertanto, sia l’attenzione del legislatore alle possibili interferenze tra titolo edilizio autorizzatorio e diritti di stampo privatistico sui beni oggetto della richiesta di titolo autorizzatorio stesso, sia l’opzione per una soluzione che non aggravi oltremodo i compiti istruttori rimessi all’amministrazione, giacché la previsione dei possibili conflitti viene risolta con l’affermazione di una generica prevalenza dei diritti dei terzi, da far valere –evidentemente- nelle sedi giurisdizionali competenti …
4.3.2. - Nella fattispecie, l’odierno ricorrente ha esibito regolare titolo di proprietà. Ogni ulteriore questione o indagine in merito al titolo stesso appare pertanto ultronea e ingiustificata, spettando al giudice ordinario eventualmente adito dagli interessati delibare in merito alla diversa questione della “validità” del titolo stesso; salvo a determinare un’illegittima interferenza di competenze tra potere giudiziario ed esecutivo secondo le condivisibili contestazioni mosse dal ricorrente
” (TAR Bari, Sez. III, 21.05.2008 n. 1205) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 18.12.2018 n. 2153 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il potere di intervento dell'Amministrazione sussiste anche dopo la scadenza del termine perentorio per la verifica della legittimità della SCIA, ma trova una diversa base giuridica, potendo essere esercitato solo in presenza dei presupposti individuati dall'art. 21-nonies, l. n. 241/1990 per l'annullamento d'ufficio degli atti amministrativi illegittimi … con esternazione delle prevalenti ragioni di interesse pubblico concrete e attuali, diverse da quelle al mero ripristino della legalità violata, che depongono per la loro adozione, tenendo in considerazione gli interessi dei destinatari e degli eventuali controinteressati.
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5.2. Per quanto riguarda poi la rilevanza delle carenze in questione ai fini dell’esercizio del potere di annullamento della SCIA edilizia e della conseguente declaratoria di irricevibilità della segnalazione certificata di agibilità, si osserva che, fermo l’obbligo della ricorrente di conformare l’area a parcheggio agli standard di legge, l’amministrazione comunale non ha operato la necessaria comparazione tra il pubblico interesse al ripristino della legalità ed il sacrificio imposto al privato, specie a fronte dei gravi effetti indiretti sull’esercizio dell’attività commerciale: “Il potere di intervento dell'Amministrazione sussiste anche dopo la scadenza del termine perentorio per la verifica della legittimità della SCIA, ma trova una diversa base giuridica, potendo essere esercitato solo in presenza dei presupposti individuati dall'art. 21-nonies, l. n. 241/1990 per l'annullamento d'ufficio degli atti amministrativi illegittimi … con esternazione delle prevalenti ragioni di interesse pubblico concrete e attuali, diverse da quelle al mero ripristino della legalità violata, che depongono per la loro adozione, tenendo in considerazione gli interessi dei destinatari e degli eventuali controinteressati” (TAR Napoli, Sez. VII, 23.04.2018 n. 2664) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 18.12.2018 n. 2141 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sull'illegittimità dell'ordinanza sindacale contingibile ed urgente per l’abbattimento dei colombi stanziati sul proprio territorio.
Considerato che:
   - il provvedimento in contestazione appare carente sotto l’aspetto istruttorio, non essendo stata effettuata alcuna effettiva ponderazione in ordine quantitativo di colombi che si renda necessario abbattere al fine di realizzare un corretto contenimento del numero di animali di tale specie;
   - sotto altro profilo, detto provvedimento appare carente sotto l’aspetto motivazionale, non avendo messo in evidenza alcun elemento fattuale concreto, comprovante il fatto che la presenza di colombi nel territorio comunale possa determinare situazioni di potenziale pericolo al traffico veicolare, ovvero all’incolumità di cose o persone;
   - da ultimo, il provvedimento in questione appare adottato in violazione dell’art. 50, comma 5, del d.lgs. n. 267/2000, non risultando accertata la sopravvenienza di alcuna situazione eccezionale e/o imprevedibile che possa giustificare l’intervento contingente ed urgente del sindaco a tutela della salute pubblica.
Non pare sussista dubbio alcuno in ordine al fatto che il provvedimento impugnato sia non solo inficiato dal denunciato difetto di motivazione e di istruttoria, ma vieppiù carente dei presupposti richiesti dall’art. 54, comma 4, del D.Lgs. n. 267/2000 per l’adozione da parte del Sindaco di provvedimenti contingibili ed urgenti.
Invero, si ricorda, sinteticamente, che le ordinanze contingibili ed urgenti sono provvedimenti assunti, sulla base di una norma di legge, per fare fronte a situazioni di urgente necessità, concreta ed attuale, che non potrebbero essere affrontate e risolte in maniera efficace con gli ordinari strumenti a disposizione della stessa Amministrazione; tali provvedimenti costituiscono strumenti atipici per quanto attiene al contenuto, fissando la legge unicamente i presupposti per l’esercizio del potere di ordinanza, ma non il contenuto della stessa, atteso che l’atipicità è conseguenza della funzione dell’istituto, considerato che le situazioni di urgenza concretamente verificabili non sono prevedibili a priori e, quindi, non è possibile prevedere il contenuto che l’ordinanza dovrà avere per fronteggiare la situazione di urgenza.
A fronte degli esposti elementi caratterizzanti l’istituto in esame, in relazione alla segnalata presenza di colombi, il provvedimento impugnato:
   - non motiva in ordine ai presupposti, che devono essere attuali e concreti e non meramente potenziali o eventuali, di necessità ed urgenza, indispensabili, come detto, per l’adozione dell’atto extra ordinem in questione;
   - non specifica le ragioni in base alle quali la paventata situazione di pericolo non potrebbe essere affrontata e risolta in maniera efficace con gli ordinari strumenti previsti dall’Ordinamento, peraltro esistenti nel caso in discussione, come dimostra la legge n. 157/1992;
   - non rappresenta gli elementi costituenti pericolo per “l’incolumità pubblica” e per “la sicurezza urbana” ex art. 54, comma 4, del D.Lgs. n. 267/2000.
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Con il presente ricorso, l’associazione Earth Onlus, ente avente come fine statutario la tutela del patrimonio faunistico ambientale, ha adito l’intestato Tribunale per chiedere l’annullamento dell’ordinanza, meglio in epigrafe specificata, con la quale il Comune di Castelnuovo del Garda ha disposto l’abbattimento dei colombi stanziati sul proprio territorio, deducendo avverso detto provvedimento la violazione degli artt. 50 e 54 del d.lgs. n. 267/2000, nonché eccesso di potere per motivazione contraddittoria, carente e difetto di istruttoria;
Considerato, a tale riguardo, che:
   - il provvedimento in contestazione appare carente sotto l’aspetto istruttorio, non essendo stata effettuata alcuna effettiva ponderazione in ordine quantitativo di colombi che si renda necessario abbattere al fine di realizzare un corretto contenimento del numero di animali di tale specie;
   - sotto altro profilo, detto provvedimento appare carente sotto l’aspetto motivazionale, non avendo messo in evidenza alcun elemento fattuale concreto, comprovante il fatto che la presenza di colombi nel territorio comunale possa determinare situazioni di potenziale pericolo al traffico veicolare, ovvero all’incolumità di cose o persone;
   - da ultimo, il provvedimento in questione appare adottato in violazione dell’art. 50, comma 5, del d.lgs. n. 267/2000, non risultando accertata la sopravvenienza di alcuna situazione eccezionale e/o imprevedibile che possa giustificare l’intervento contingente ed urgente del sindaco a tutela della salute pubblica.
Non pare sussista dubbio alcuno in ordine al fatto che il provvedimento impugnato sia non solo inficiato dal denunciato difetto di motivazione e di istruttoria, ma vieppiù carente dei presupposti richiesti dall’art. 54, comma 4, del D.Lgs. n. 267/2000 per l’adozione da parte del Sindaco di provvedimenti contingibili ed urgenti.
Invero, si ricorda, sinteticamente, che le ordinanze contingibili ed urgenti sono provvedimenti assunti, sulla base di una norma di legge, per fare fronte a situazioni di urgente necessità, concreta ed attuale, che non potrebbero essere affrontate e risolte in maniera efficace con gli ordinari strumenti a disposizione della stessa Amministrazione; tali provvedimenti costituiscono strumenti atipici per quanto attiene al contenuto, fissando la legge unicamente i presupposti per l’esercizio del potere di ordinanza, ma non il contenuto della stessa, atteso che l’atipicità è conseguenza della funzione dell’istituto, considerato che le situazioni di urgenza concretamente verificabili non sono prevedibili a priori e, quindi, non è possibile prevedere il contenuto che l’ordinanza dovrà avere per fronteggiare la situazione di urgenza.
A fronte degli esposti elementi caratterizzanti l’istituto in esame, in relazione alla segnalata presenza di colombi, il provvedimento impugnato:
   - non motiva in ordine ai presupposti, che devono essere attuali e concreti e non meramente potenziali o eventuali, di necessità ed urgenza, indispensabili, come detto, per l’adozione dell’atto extra ordinem in questione;
   - non specifica le ragioni in base alle quali la paventata situazione di pericolo non potrebbe essere affrontata e risolta in maniera efficace con gli ordinari strumenti previsti dall’Ordinamento, peraltro esistenti nel caso in discussione, come dimostra la legge n. 157/1992;
   - non rappresenta gli elementi costituenti pericolo per “l’incolumità pubblica” e per “la sicurezza urbana” ex art. 54, comma 4, del D.Lgs. n. 267/2000.
Né esso potrebbe mai essere interpretato, in senso adeguativo, come espressione del potere di programmare piani di abbattimento ai sensi della legge 157/1992, in astratto esercitabile essendo oramai pacificamente qualificato il piccione torraiolo quale specie appartenente alla fauna selvatica ex lege 157/1992 (cfr. giurisprudenza costante), ma che risulterebbe in concreto esercitato in mancanza delle relative condizioni di legittimità (id est: previo parere dell’Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica, previsione di metodi ecologici alternativi da esperire preventivamente all’abbattimento, specifica del numero di capi in eccesso e dei soggetti abilitati ex art. 19 delle legge 157/1992), come puntualmente dedotto dalla ricorrente.
Conclusivamente, il ricorso deve essere accolto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 18.12.2018 n. 1182 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Presupposti dell’ordinanza sindacale contingibile e urgente.
La chiusura di una scalinata che collega due vie, con impedimento del pubblico transito, non configura una situazione di pericolo, di grave incuria o di degrado del territorio, tale da giustificare l’adozione di un provvedimento contingibile e urgente ex art. 50, comma 5, del decreto legislativo 267 del 2000.
Per costante giurisprudenza l'adozione di un'ordinanza sindacale contingibile e urgente presuppone necessariamente situazioni, non tipizzate dalla legge, di pericolo effettivo, la cui sussistenza deve essere suffragata da un'istruttoria adeguata e da una congrua motivazione, in ragione delle quali si giustifica la deviazione dal principio di tipicità degli atti amministrativi e la possibilità di derogare alla disciplina vigente, stante la configurazione residuale, quasi di chiusura, di tale tipologia provvedimentale, nella quale la contingibilità deve essere intesa come impossibilità di fronteggiare l'emergenza con i rimedi ordinari, in ragione dell'accidentalità, imprescindibilità ed eccezionalità della situazione verificatasi e l'urgenza come assoluta necessità di porre in essere un intervento non rinviabile.
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   - Premesso che i ricorrenti chiedono l’annullamento dell’ordinanza del sindaco numero 46 del 17.08.2018, notificata il 20.08.2018 e chiedono, contestualmente, il risarcimento del danno;
   - Che, con il provvedimento impugnato, il sindaco, considerando la necessità e l’urgenza di provvedere a tutelare l’ordine e la sicurezza pubblica, ha ordinato ai ricorrenti di rimuovere immediatamente gli ostacoli all’accesso della scalinata di collegamento tra via Castello e via Peroncello, riscontrandone la chiusura al pubblico transito a mezzo di un portone in legno e di un cancello in metallo;
   - Ritenuta, preliminarmente, inammissibile la domanda risarcitoria, in quanto genericamente formulata;
   - Ritenuto, ancora in via preliminare, di dover respingere l’eccezione di inammissibilità del ricorso per omessa notifica della domanda risarcitoria al Ministero dell’interno; l’inammissibilità della domanda risarcitoria, autonoma ancorché connessa alla domanda di annullamento, non determina automaticamente l’inammissibilità anche dell’impugnazione;
   - Considerato che, con il 1° motivo di ricorso, la parte ricorrente deduce violazione dell’articolo 50, commi 4 e 5, del decreto legislativo 267 del 2000 ed eccesso di potere per difetto dei presupposti, contraddittorietà e illogicità manifesta;
   - Ritenuto fondato e assorbente il 1º motivo di impugnazione, atteso che, per costante giurisprudenza (cfr. TAR Napoli, sez. VII, 22.02.2017, n. 1065) l'adozione di un'ordinanza sindacale contingibile e urgente presuppone necessariamente situazioni, non tipizzate dalla legge, di pericolo effettivo, la cui sussistenza deve essere suffragata da un'istruttoria adeguata e da una congrua motivazione, in ragione delle quali si giustifica la deviazione dal principio di tipicità degli atti amministrativi e la possibilità di derogare alla disciplina vigente, stante la configurazione residuale, quasi di chiusura, di tale tipologia provvedimentale, nella quale la contingibilità deve essere intesa come impossibilità di fronteggiare l'emergenza con i rimedi ordinari, in ragione dell'accidentalità, imprescindibilità ed eccezionalità della situazione verificatasi e l'urgenza come assoluta necessità di porre in essere un intervento non rinviabile (cfr. anche TAR Lazio, Roma, sez. II, 27.05.2016 n. 6201; Cons. St., sez. III, 29.05.2015, n. 2697);
   - Nella fattispecie il provvedimento impugnato richiama quale base normativa principalmente l’articolo 50, comma 5, del decreto legislativo 267 del 2000 che attribuisce al sindaco il potere di adottare ordinanze contingibili e urgenti in caso di emergenza sanitaria o di igiene pubblica o anche per l’urgente necessità di interventi volti a superare situazioni di grave incuria o degrado del territorio, dell’ambiente, del patrimonio culturale o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana, con particolare riferimento alle esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti;
   - Ritenuto che la chiusura di una scalinata con impedimento del pubblico transito non configura una situazione di pericolo, di grave incuria o di degrado del territorio, tale da giustificare l’adozione di un provvedimento contingibile e urgente;
   - Ne consegue il difetto dei presupposti per l’adozione del provvedimento atipico, avendo apprestato l’ordinamento altri strumenti per intervenire correttamente, nel rispetto delle regole sul procedimento amministrativo e, più in generale, del principio di legalità, a tutela degli interessi pubblici coinvolti, mediante il confronto delle ragioni pubbliche con gli interessi privati attinti dall’azione amministrativa;
   - Ritenuto, pertanto, di dover accogliere l’impugnazione proposta con il ricorso, in quanto manifestamente fondata e, per l’effetto, di dover annullare il provvedimento impugnato (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 17.12.2018 n. 12276 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: A mente dell'art. 9 del d.p.r. n. 380/2001, costituisce regola generale ed imperativa, in materia di governo del territorio, il rispetto delle previsioni del p.r.g. che impongono, per una determinata zona, la pianificazione di dettaglio e che sono vincolanti e idonee ad inibire l'intervento diretto costruttivo.
Corollari immediati di tale principio fondamentale sono:
   a) che, quando lo strumento urbanistico generale prevede che la sua attuazione debba aver luogo mediante un piano di livello inferiore, il rilascio del titolo edilizio può essere legittimamente disposto solo dopo che lo strumento esecutivo sia divenuto perfetto ed efficace, vale a dire solo dopo che il relativo procedimento sia concluso;
   b) che, in presenza di una normativa urbanistica generale che preveda per il rilascio del titolo edilizio in una determinata zona l'esistenza di un piano attuativo, non è consentito superare tale prescrizione facendo leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione della zona stessa;
   c) l'insurrogabilità dell'assenza del piano attuativo con l'imposizione di opere di urbanizzazione all'atto del rilascio del titolo edilizio.
La mera esistenza di infrastrutture (strade, spazi di sosta, fognature, reti di distribuzione del gas, dell'acqua e dell'energia elettrica, scuole, ecc.) all’interno, e, viepiù, all’esterno, del comparto interessato dall’attività edificatoria che si vorrebbe porre in essere senza previa approvazione dello strumento attuativo non implica, dunque, di per sé, anche quell’adeguatezza e quella proporzionalità delle opere in parola rispetto all’aggregato urbano formatosi, la quale soltanto sarebbe idonea a soddisfare le esigenze della collettività, pari agli standards urbanistici minimi prescritti, ed esimerebbe, quindi, da ulteriori interventi per far fronte all'ulteriore aggravio derivante da nuove costruzioni.
Ed invero, i piani particolareggiati e i piani di lottizzazione hanno lo scopo di garantire che all'edificazione del territorio a fini residenziali corrisponda l'approvvigionamento delle dotazioni minime di infrastrutture pubbliche, le quali, a loro volta, garantiscono la normale qualità del vivere in un aggregato urbano. Diversamente opinando, col rilascio di singoli permessi di costruire in area non urbanizzata, gli interessati verrebbero legittimati ad utilizzare l’intera proprietà a fini privati, scaricando interamente sulla collettività i costi conseguenti alla realizzazione di infrastrutture per i nuovi insediamenti.
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Alla luce di tanto, è evidente che, ove si tratti di asservire per la prima volta ad insediamenti edilizi aree non ancora urbanizzate –che obiettivamente richiedano, per il loro armonico raccordo col preesistente aggregato abitativo, la realizzazione o il potenziamento delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria volte a soddisfare le esigenze della collettività– si rende necessario un piano esecutivo, quale presupposto per il rilascio del permesso di costruire.
In tale fattispecie, nella quale l’originaria integrità del territorio non è sostanzialmente vulnerata, deve essere rigorosamente rispettata la cadenza, in ordine successivo, dell'approvazione dello strumento urbanistico generale e dello strumento urbanistico attuativo, in modo da garantire una pianificazione razionale e ordinata del futuro sviluppo del territorio dal punto di vista urbanistico.
Il piano esecutivo, previsto dallo strumento urbanistico generale come presupposto dell'edificazione, non ammette, cioè, equipollenti, nel senso che, in sede amministrativa o giurisdizionale, non possono essere effettuate indagini volte a verificare se sia tecnicamente possibile realizzare costruzioni, che, ad avviso del legislatore, incidono negativamente sul razionale assetto del territorio, vanificando la funzione del piano attuativo, la cui approvazione può essere stimolata dall'interessato con i mezzi apprestati dal sistema.
L’indefettibilità dello strumento urbanistico attuativo neppure viene meno nelle ipotesi di zone edificate, esposte al rischio di compromissione di valori urbanistici, nelle quali la pianificazione può ancora conseguire l'effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto; zone nelle quali si prospetti, quindi, l'esigenza di raccordare armonicamente le nuove costruzioni col preesistente aggregato urbano e di potenziare le opere di urbanizzazione esistenti, tanto più quando il nuovo intervento edilizio, per le sue dimensioni, abbia un consistente impatto sull'assetto territoriale; e nelle quali la preventiva redazione di un piano esecutivo per il rilascio del titolo abilitativo edilizio si ponga, in definitiva, come imprescindibile.
Ed invero, non è sufficiente un qualsiasi stadio di urbanizzazione di fatto per eludere il principio fondamentale della pianificazione e per eventualmente aumentare i guasti urbanistici già verificatisi, essendo la pianificazione dell'urbanizzazione doverosa fino a quando essa conservi una qualche utile funzione anche in aree già compromesse o edificate..
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Peraltro, quando si sia in presenza di un lotto intercluso o in altri casi analoghi in cui la zona risulti totalmente urbanizzata attraverso la realizzazione delle opere e dei servizi atti a soddisfare i necessari bisogni della collettività, quali strade, spazi di sosta, fognature, reti di distribuzione dell’acqua, dell’energia elettrica e del gas, scuole, ecc., lo strumento urbanistico attuativo deve ritenersi superfluo e non più esigibile da parte dell’amministrazione comunale tenuta al rilascio del titolo edilizio.
Tuttavia, tale ultimo principio non assume valenza assoluta e deve essere contemperato con l’altro consolidato principio testé ricordato, secondo il quale l’esigenza di un piano particolareggiato o di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio del permesso di costruire, si impone anche per garantire un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, pure al più limitato fine di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate per le quali la relativa strumentazione urbanistica postuli la necessità di una pianificazione di dettaglio, anche laddove ricorra l’ipotesi di lotto intercluso o di altre situazioni analoghe di pregressa completa urbanizzazione: quindi, il principio secondo cui può prescindersi nelle zone di espansione dalla previa presentazione di un piano particolareggiato o di lottizzazione qualora la zona sia completamente urbanizzata, recede nel caso in cui sussista una specifica previsione della strumentazione urbanistica che imponga l’assolvimento di tale onere prima di avviare l’attività edilizia.
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Parimenti infondato è, poi, il secondo motivo di ricorso, con il quale si sostiene che, essendo la zona interessata dall’intervento ormai sufficientemente urbanizzata, il Comune di San Cipriano d’Aversa avrebbe errato nel ritenere necessaria la previa adozione di un Piano Attuativo per potersi rilasciare il chiesto titolo edilizio in sanatoria.
In proposito, giova rammentare che è incontestato che il manufatto oggetto di istanza di sanatoria (costituito da un “fabbricato per attività commerciale ed area di stoccaggio con capannone annesso”) ricade nella “Zona Omogenea C – espansione residenziale privata” del PRG; che, ai sensi dell’art. 22 delle N.T.A. in essa “........ II P.R.G. si attua mediante intervento urbanistico preventivo di iniziativa privata. In caso di inerzia di parte o di tutti i privati interessati, l'Amministrazione Comunale ha facoltà di ricorrere alle procedure per la formazione di lottizzazioni d'ufficio. Il rilascio delle concessioni edilizie (ora permessi di costruire) e l'edificazione dei singoli lotti sono subordinati all'approvazione preventiva dei piani di lottizzazione, estesi ad una superficie di almeno 1,00 Ha, o ad un intero ambito delimitato dai confini di zona e/o dalla viabilità pubblica esistente o di progetto, nel caso questa risulti di dimensioni inferiori a quella sopra indicata, nonché alla stipula della relativa convenzione. ......”; e che la mancanza nell’area di intervento di un tale strumento urbanistico attuativo è un dato fattuale anch’esso incontestato.
Occorre premettere che, a mente dell'art. 9 del d.p.r. n. 380/2001, costituisce regola generale ed imperativa, in materia di governo del territorio, il rispetto delle previsioni del p.r.g. che impongono, per una determinata zona, la pianificazione di dettaglio e che sono vincolanti e idonee ad inibire l'intervento diretto costruttivo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 30.12.2008, n. 6625).
Corollari immediati di tale principio fondamentale sono:
   a) che, quando lo strumento urbanistico generale prevede che la sua attuazione debba aver luogo mediante un piano di livello inferiore, il rilascio del titolo edilizio può essere legittimamente disposto solo dopo che lo strumento esecutivo sia divenuto perfetto ed efficace, vale a dire solo dopo che il relativo procedimento sia concluso (cfr. Cons. Stato sez. V, 01.04.1997, n. 300);
   b) che, in presenza di una normativa urbanistica generale che preveda per il rilascio del titolo edilizio in una determinata zona l'esistenza di un piano attuativo, non è consentito superare tale prescrizione facendo leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione della zona stessa (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 03.11.2008, n. 5471; TAR Campania-Napoli n. 1662 del 05.04.2016; TAR Campania-Napoli n. 3538 del 03.07.2017);
   c) l'insurrogabilità dell'assenza del piano attuativo con l'imposizione di opere di urbanizzazione all'atto del rilascio del titolo edilizio (Cons. Stato, sez. IV, 10.06.2010, n. 3699).
La mera esistenza di infrastrutture (strade, spazi di sosta, fognature, reti di distribuzione del gas, dell'acqua e dell'energia elettrica, scuole, ecc.) all’interno, e, viepiù, all’esterno, del comparto interessato dall’attività edificatoria che si vorrebbe porre in essere senza previa approvazione dello strumento attuativo non implica, dunque, di per sé, anche quell’adeguatezza e quella proporzionalità delle opere in parola rispetto all’aggregato urbano formatosi, la quale soltanto sarebbe idonea a soddisfare le esigenze della collettività, pari agli standards urbanistici minimi prescritti, ed esimerebbe, quindi, da ulteriori interventi per far fronte all'ulteriore aggravio derivante da nuove costruzioni. Ed invero, i piani particolareggiati e i piani di lottizzazione hanno lo scopo di garantire che all'edificazione del territorio a fini residenziali corrisponda l'approvvigionamento delle dotazioni minime di infrastrutture pubbliche, le quali, a loro volta, garantiscono la normale qualità del vivere in un aggregato urbano. Diversamente opinando, col rilascio di singoli permessi di costruire in area non urbanizzata, gli interessati verrebbero legittimati ad utilizzare l’intera proprietà a fini privati, scaricando interamente sulla collettività i costi conseguenti alla realizzazione di infrastrutture per i nuovi insediamenti (Cons. Stato, sez. V, 03.03.2004, n. 1013).
Alla luce di tanto, è evidente che, ove si tratti di asservire per la prima volta ad insediamenti edilizi aree non ancora urbanizzate –che obiettivamente richiedano, per il loro armonico raccordo col preesistente aggregato abitativo, la realizzazione o il potenziamento delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria volte a soddisfare le esigenze della collettività– si rende necessario un piano esecutivo, quale presupposto per il rilascio del permesso di costruire (cfr., Cons. Stato, sez. IV, 22.05.2006, n. 3001; 04.12.2007, n. 6171; TAR Campania, sez. IV, 02.03.2000, n. 596; 08.05.2003, n. 5330; TAR Lazio, Latina, 27.10.2006, n. 1375; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 02.02.2005, n. 4403 aprile 2007, n. 1501; 15.03.2007, n. 1037).
In tale fattispecie, nella quale l’originaria integrità del territorio non è sostanzialmente vulnerata, deve essere rigorosamente rispettata la cadenza, in ordine successivo, dell'approvazione dello strumento urbanistico generale e dello strumento urbanistico attuativo, in modo da garantire una pianificazione razionale e ordinata del futuro sviluppo del territorio dal punto di vista urbanistico.
Il piano esecutivo, previsto dallo strumento urbanistico generale come presupposto dell'edificazione, non ammette, cioè, equipollenti, nel senso che, in sede amministrativa o giurisdizionale, non possono essere effettuate indagini volte a verificare se sia tecnicamente possibile realizzare costruzioni, che, ad avviso del legislatore, incidono negativamente sul razionale assetto del territorio, vanificando la funzione del piano attuativo, la cui approvazione può essere stimolata dall'interessato con i mezzi apprestati dal sistema (Cons. Stato, sez. V, 03.03.2004, n. 1013; 10 dicembre 2003, n. 7799; sez. IV, 19.02.2008, n. 531).
L’indefettibilità dello strumento urbanistico attuativo neppure viene meno nelle ipotesi di zone edificate, esposte al rischio di compromissione di valori urbanistici, nelle quali la pianificazione può ancora conseguire l'effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto (Cons. Stato, sez. V, 01.12.2003, n. 7799); zone nelle quali si prospetti, quindi, l'esigenza di raccordare armonicamente le nuove costruzioni col preesistente aggregato urbano e di potenziare le opere di urbanizzazione esistenti, tanto più quando il nuovo intervento edilizio, per le sue dimensioni, abbia un consistente impatto sull'assetto territoriale; e nelle quali la preventiva redazione di un piano esecutivo per il rilascio del titolo abilitativo edilizio si ponga, in definitiva, come imprescindibile (TAR Veneto, Venezia, sez. II, 31.03.2003, n. 2171; 08.09.2006, n. 2893; TAR Lazio, Roma, sez. II, 13.09.2006, n. 8463).
Ed invero, non è sufficiente un qualsiasi stadio di urbanizzazione di fatto per eludere il principio fondamentale della pianificazione e per eventualmente aumentare i guasti urbanistici già verificatisi, essendo la pianificazione dell'urbanizzazione doverosa fino a quando essa conservi una qualche utile funzione anche in aree già compromesse o edificate (TAR Puglia, Lecce, sez. III, 18.01.2005, n. 164).
Peraltro, quando si sia in presenza di un lotto intercluso o in altri casi analoghi in cui la zona risulti totalmente urbanizzata attraverso la realizzazione delle opere e dei servizi atti a soddisfare i necessari bisogni della collettività, quali strade, spazi di sosta, fognature, reti di distribuzione dell’acqua, dell’energia elettrica e del gas, scuole, ecc., lo strumento urbanistico attuativo deve ritenersi superfluo e non più esigibile da parte dell’amministrazione comunale tenuta al rilascio del titolo edilizio (cfr. per tutte TAR Sicilia Catania, Sez. I, 29.10.2015 n. 2518).
Tuttavia, tale ultimo principio non assume valenza assoluta e deve essere contemperato con l’altro consolidato principio testé ricordato, secondo il quale l’esigenza di un piano particolareggiato o di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio del permesso di costruire, si impone anche per garantire un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, pure al più limitato fine di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate per le quali la relativa strumentazione urbanistica postuli la necessità di una pianificazione di dettaglio, anche laddove ricorra l’ipotesi di lotto intercluso o di altre situazioni analoghe di pregressa completa urbanizzazione: quindi, il principio secondo cui può prescindersi nelle zone di espansione dalla previa presentazione di un piano particolareggiato o di lottizzazione qualora la zona sia completamente urbanizzata, recede nel caso in cui sussista una specifica previsione della strumentazione urbanistica che imponga l’assolvimento di tale onere prima di avviare l’attività edilizia (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 29.02.2012 n. 1177; Consiglio di Stato, Sez. IV, 10.01.2012 n. 26; TAR Campania Napoli, Sez. II, 05.04.2016 n. 1662; TAR Campania Salerno, Sez. I, 23.03.2015 n. 633; TAR Campania Napoli, Sez. VIII, 03.07.2012 n. 3140) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 17.12.2018 n. 7205 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Con riferimento alla realizzazione di parcheggi, questo Consiglio più volte ha rilevato che la sistemazione di un’area a parcheggio aumenta il carico urbanistico e richiede il previo rilascio del permesso di costruire.
La trasformazione in piazzale, in particolare in parcheggio con un fondo stradale in qualche modo stabile, di un terreno precedentemente aperto, con modifica tendenzialmente non reversibile dello stato dei luoghi, aumenta il carico urbanistico, comporta una modifica del territorio e costituisce quindi nuova opera, da assentire con il titolo edilizio maggiore: tale principio si applica anche quando, rispetto all’originario piano di campagna, vi siano state in tempi diversi le opere che abbiano progressivamente modificato lo stato dei luoghi.
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In particolare, con riferimento alla realizzazione di parcheggi, questo Consiglio più volte ha rilevato che la sistemazione di un’area a parcheggio aumenta il carico urbanistico e richiede il previo rilascio del permesso di costruire.
La trasformazione in piazzale, in particolare in parcheggio con un fondo stradale in qualche modo stabile, di un terreno precedentemente aperto, con modifica tendenzialmente non reversibile dello stato dei luoghi, aumenta il carico urbanistico, comporta una modifica del territorio e costituisce quindi nuova opera, da assentire con il titolo edilizio maggiore (cfr., in tal senso, Cons. Stato, Sez. VI, 06.02.2018, n. 753, e Sez. IV, 12.09.2007, n. 4831, in tema di generica realizzazione di un piazzale, nonché Sez. IV, 10.10.2007, n. 5035, su una fattispecie di trasformazione di un agrumeto in parcheggio mediante posa di ghiaia sul terreno): tale principio si applica anche quando, rispetto all’originario piano di campagna, vi siano state in tempi diversi le opere che abbiano progressivamente modificato lo stato dei luoghi.
Nel caso di specie, da quanto si desume dalla relazione tecnica di parte depositata in entrambi i gradi di giudizio e dalla rappresentazione fotografica dei luoghi allegata, emerge con evidenza che l’area era inizialmente ‘vuota’, quando è stata adibita a piazzale di parcheggio (con la trasformazione oggetto della domanda di condono edilizio del 1994) e proprio in quell’area si assisteva alla ulteriore trasformazione in un parcheggio con intervento di opere (99 pali di cemento armato interrati), rispetto alla quale nessun titolo abilitativo è stato preventivamente richiesto, per come sarebbe stato necessario, anche perché si sarebbe dovuta valutare l’accoglibilità della relativa istanza.
Peraltro è incontestato che –per di più- l’area sia gravata da vincolo e quindi la realizzazione senza titolo di interventi edilizi di qualsiasi natura non siano consentiti dalla normativa di settore (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 17.12.2018 n. 7103 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Gare telematiche su piattaforma M.E.P.A..
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Contratti della Pubblica amministrazione - Gare telematiche – Piattaforma M.E.P.A. - Manuale operativo – Integra il disciplinare di gara – Conseguenza.
La partecipazione alle procedure di gara gestite in forma telematico-informatica comporta la necessità di adempiere, con scrupolo e diligenza, alle prescrizioni di bando e alle norme tecniche rilevanti, come da manuale applicativo e da normativa sul punto vigente, nell’utilizzazione delle forme digitali, le cui regole (di necessaria osservanza, mettendosi altrimenti a repentaglio lo stesso funzionamento della procedura) ex se integrano per relationem la disciplina di gara e sono poste a garanzia di tutti i partecipanti, con la conseguenza che l’inesatto o erroneo utilizzo, a contrario, rimane a rischio del partecipante (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che un simile procedimento di evidenza pubblica, svolto con forme informatico-telematiche massimamente semplificate, su una piattaforma creata e disciplinata dal Ministero dell’economia e delle finanze, il M.E.P.A., viene posto ex lege a disposizione di tutte le Pubbliche amministrazioni, al fine di rendere veloci e sicure le procedure di gara, coinvolgendo una pluralità di operatori economici, che interloquiscono con il sistema, attenendosi però scrupolosamente alle regole ivi previste, onde poter proporre i propri prodotti e servizi.
Un tale procedimento elettronico non può essere indi aggravato da adempimenti e oneri, volti a decodificare un documento, che venga prodotto da un partecipante, per propria responsabilità (Cons. St., sez. V, 07.11.2016, n. 4645), in modo non conforme alla proficua fruizione da parte del sistema informatico. Ciò pregiudicando la stessa ratio di un simile sistema celere informatico-telematico di individuazione dei migliori offerenti e impedendo quindi, a causa dell’inosservanza di quanto richiesto dalle regole tecniche e procedurali rilevanti nel caso di specie, all’amministrazione di acquisire il bene o servizio ricercato.
Diversamente opinando, le questioni che potrebbero in astratto porsi, ogniqualvolta si diverga dall’attenersi con diligenza a quanto prescritto dai manuali applicativi dei sistemi informatico-telematici, potrebbero essere così varie e molteplici, tali da frustrare le potenzialità, che invece questi sistemi offrono alle pubbliche amministrazioni e che consentono di evitare di ricorrere alle ormai obsolete e farraginose procedure cartacee.
Ergo, va affermato il principio per il quale –prima di porsi qualsiasi questione in ordine alla corretta trasmissione e al corretto funzionamento di un sistema informatico-telematico– intanto quel dato sistema deve essere stato correttamente utilizzato, secondo le modalità rese adeguatamente note e disponibili, da chi ne deduca un erroneo funzionamento o invochi supplementari accertamenti.
Tali ulteriori indagini, infatti, da un lato, finiscono per impedire la celerità di funzionamento dello strumento e, dall’altro, costituiscono una verifica superflua, visto che i disguidi trovano spiegazione nei comportamenti degli stessi soggetti che se ne lamentano (TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 17.12.2018 n. 1609 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIContratti pubblici, poteri extra large per le stazioni appaltanti.
La V Sez. del Consiglio di Stato conferma, con la sentenza 14.12.2018 n. 7056, che non è necessaria la comunicazione di avvio del procedimento di revoca della proposta di aggiudicazione di un appalto e che la stazione appaltante ha un ampio potere decisionale sull'individuazione degli illeciti professionali che consentono di escludere l'operatore dalla procedura di gara.
Il fatto
Si controverte su due provvedimenti, il primo di ammissione di una società a una gara per l'affidamento del servizio di trasporto scolastico, dichiarato improcedibile; il secondo di esclusione dalla procedura, respinto. Entrambi emanati a seguito dell'esito del riscontro del possesso dei requisiti di ordine generale e speciale.
Due i motivi di appello: un operatore denuncia di non essere mai stato informato dell'avvio del procedimento relativo all'annullamento del provvedimento di ammissione, lamentando la violazione delle garanzie partecipative previste dalla legge 241/1990; l'altro contesta la latitudine applicativa dell'articolo 80, comma 5, del Codice dei contratti, relativo alle situazioni che rendono possibili alle stazioni appaltanti di escludere dalla partecipazione alla procedura d'appalto un operatore economico.
L'avvio del procedimento
Infondato per i giudici di palazzo Spata il primo motivo, in quanto le garanzie procedimentali non trovano applicazione negli atti meramente procedimentali, tra i quali deve annoverarsi l'aggiudicazione provvisoria, che fa nascere in capo all'interessato solo una mera aspettativa alla definizione positiva del procedimento ma non costituisce il provvedimento conclusivo della procedura di evidenza pubblica, avendo, per sua natura, un'efficacia destinata a essere superata.
L'atto di ritiro dunque non ha bisogno dell'avviso di avvio del procedimento ovvero di preavviso di rigetto (articolo 10-bis della legge 241/1990), poiché l'atto di aggiudicazione provvisoria non è individuabile come provvedimento conclusivo della procedura di evidenza pubblica, tanto che la sua omessa impugnazione non preclude l'impugnazione dell'aggiudicazione definitiva. La revoca dell'aggiudicazione provvisoria non equivale all'esercizio del potere di autotutela, in quanto permane in capo all'ente quello «spazio concreto per l'attività di controllo» –nei termini in cui si esprime la sezione nella sentenza– che l'organo competente ad adottare l'atto di aggiudicazione definitiva è obbligato a effettuare.
Gli illeciti
Quanto al secondo motivo, la quinta sezione ricorda che l'articolo 80, comma 5, del codice consente alle stazioni appaltanti di escludere l'operatore economico qualora possa dimostrare con qualunque mezzo adeguato la presenza di gravi infrazioni debitamente accertate alle norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro nonché agli obblighi in materia ambientale, sociale e del lavoro (lettera a); o che l'operatore si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità (lettera c).
Queste elencazioni, affermano i giudici, non sono tassative ma esemplificative, «nel senso che la stazione appaltante può ben desumere da altre circostanze, purché puntualmente identificate (…), il compimento di gravi illeciti professionali». La ratio della norma risiede infatti nell'esigenza di verificare l'affidabilità complessivamente considerata dell'operatore economico che contratta con la pubblica amministrazione per evitare, a tutela del buon andamento dell'azione amministrativa, che quest'ultima entri in contatto con soggetti privi di affidabilità morale e professionale.
L'affidabilità
L'operatore era stato escluso da una precedente procedura di gara per omessa dichiarazione dell'intervenuta risoluzione per inadempimento con un altro comune per un appalto antecedente. Un terzo ente inoltre, all'esito di una serie di contestazioni relative sia alla regolarità del servizio che al pagamento delle retribuzioni ai dipendenti e alla violazione dei diritti dei lavoratori, aveva revocato l'affidamento del servizio di trasporto scolastico.
Prove che il Consiglio di Stato ritiene adeguate a dimostrare un grave illecito professionale della società, per aver violato disposizioni relative allo svolgimento del servizio affidato e omesso di corrispondere le retribuzioni e versare contributi previdenziali ai dipendenti. Elementi da cui la stazione appaltante ha legittimamente desunto la non affidabilità dell'operatore, anche in relazione alla peculiarità del servizio messo a gara (trasporto di minori) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 20.12.2018).
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MASSIMA
1. L’appello è infondato.
1.1. Con il primo motivo di gravame l’appellante deduce di non essere mai stato informato dell’avvio del procedimento relativo all’annullamento del precedente provvedimento di ammissione, lamentando pertanto la violazione delle garanzie partecipative previste dalla L. n. 241-1990.
Il motivo è destituito di fondamento.
Al riguardo occorre rammentare che
le invocate garanzie procedimentali non trovano applicazione degli atti meramente procedimentali, tra cui deve annoverarsi l’aggiudicazione provvisoria, che fa nascere in capo all’interessato solo una mera aspettativa alla definizione positiva del procedimento stesso, ma non costituisce il provvedimento conclusivo della procedura di evidenza pubblica, avendo, per sua natura, un’efficacia destinata ad essere superata.
Pertanto, ai fini del suo ritiro, non vi è obbligo di avviso di avvio del procedimento ovvero di preavviso di rigetto ex art. 10-bis l. n. 241/1990, poiché nel caso di procedimento iniziato ad istanza di parte quale quello di evidenza pubblica non può ammettersi una partecipazione procedimentale come invocata dall’interessato.
Infatti, l’atto di aggiudicazione provvisoria non è individuabile come provvedimento conclusivo della procedura di evidenza pubblica, tanto che la sua omessa impugnazione non preclude l’impugnazione dell’aggiudicazione definitiva, e ai fini della sua revoca o del suo annullamento (a differenza di quanto accade per l’autotutela dell’aggiudicazione definitiva) non vi è obbligo di avviso di avvio del procedimento; pertanto, sarebbe incoerente escludere la possibilità di intervenire in autotutela nei confronti di una pre-decisione come l’aggiudicazione provvisoria.
Se non si consentisse alla stazione appaltante di rivedere gli esiti delle decisioni preliminari assunte durante la gara, sarebbe anche difficile individuare uno spazio concreto per l’attività di controllo, che pure l’organo competente ad adottare l’atto di aggiudicazione definitiva è tenuto ad effettuare, sugli atti compiuti dal seggio di gara sino all’aggiudicazione provvisoria
(così, da ultimo Consiglio di Stato, sez. III, 05.10.2016, n. 4107).
La revoca dell’aggiudicazione provvisoria, ovvero, la sua mancata conferma, non è, difatti, qualificabile alla stregua di un esercizio del potere di autotutela, sì da richiedere un raffronto tra l’interesse pubblico e quello privato sacrificato.
A conferma di tale ricostruzione deve aggiungersi che con l’entrata in vigore del nuovo Codice degli appalti (d.lgs. 18.04.2016, n. 50) l’aggiudicazione provvisoria è stata sostituita dalla “proposta di aggiudicazione” (art. 33) che a fortiori postula la non definitività dell’atto.

PUBBLICO IMPIEGO: Licenziamento disciplinare per il dipendente pubblico iscritto all’albo degli avvocati.
Il funzionario comunale che svolge contemporaneamente l'attività di avvocato versa in una situazione di incompatibilità, prevista dall'articolo 53 del Testo unico sul pubblico impiego, che giustifica il licenziamento disciplinare. La sanzione è legittima anche soltanto in presenza della mera iscrizione all'albo degli avvocati, da cui è lecito presumere lo svolgimento in concreto della professione forense.

Lo si afferma nella sentenza 12.12.2018 n. 32156 della Sez. lavoro della Corte di Cassazione.
Il caso
Protagonista della vicenda è un avvocato che nel settembre 2012 veniva assunto alle dipendenze del Comune di Pompei senza dichiarare la propria situazione di incompatibilità a svolgere l'incarico pubblico. Il legale, infatti, era rimasto iscritto all'albo degli avvocati e aveva in qualche occasione continuato a svolgere la professione forense difendendo in giudizio alcuni suoi clienti. L'ente locale si accorgeva però dell'anomalia e chiedeva chiarimenti al suo funzionario, il quale adduceva a sua difesa la cancellazione della partita Iva e la sua dichiarazione dei redditi, da cui si desumeva il mancato svolgimento dell'attività di avvocato.
Dopo qualche mese, tuttavia, il Comune chiedeva al dipendente ulteriori chiarimenti e dalla risposta alla contestazione disciplinare fornita da quest'ultimo emergeva che lo stesso era di fatto ancora iscritto all'albo. Tanto bastava per l'ente datore di lavoro a presumere in concreto l'esercizio dell'attività professionale, sicché, sulla base degli articoli 53 del Testo unico sul pubblico impiego (Dlgs 165/2001) e 21 della nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense (legge 267/2012), il Comune nel settembre 2015 disponeva il licenziamento disciplinare del dipendente.
A questo punto il funzionario impugnava il provvedimento dinanzi all'autorità giudiziaria chiedendo l'annullamento della massima sanzione disciplinare per la tardività dell'irrogazione del provvedimento rispetto alla contestazione iniziale, nonché per la mancata dimostrazione della effettiva attività forense da lui svolta. I giudici però, sia in primo che in secondo grado, hanno confermato il licenziamento per l'incompatibilità della funzione di pubblico dipendente con l'esercizio della professione forense.
La tempestività del provvedimento
La questione così è arrivata in Cassazione dove l'ex dipendente pubblico ha cercato di contestare il licenziamento sul piano formale e sostanziale. Il verdetto però non è cambiato. La Corte ha replicato alla presunta tardività del provvedimento spiegando che il Comune, nel caso di specie, ha potuto procedere al licenziamento solo in un secondo momento, ovvero dopo la precisa ricostruzione della situazione di fatto avvenuta a seguito dei chiarimenti chiesti al lavoratore, non essendo possibile «un arretramento cronologico del momento dell'acquisizione della notizia dell'infrazione». D'altra parte ben può la pubblica amministrazione «svolgere indagini pre-procedimentali per chiarire i termini della vicenda e valutare la consistenza disciplinare dei fatti emersi a carico del dipendente.
La valenza dell'incompatibilità
I giudici di legittimità hanno chiarito anche che la mera iscrizione all'albo è sufficiente a fornire la prova della incompatibilità, non essendo necessarie ulteriori indagini in merito all'effettivo svolgimento della libera professione.
Difatti, l'articolo 53 del Testo unico sul pubblico impiego «ha sancito una vera e propria estensione a tutti i dipendenti pubblici, contrattualizzati e non» della disciplina delle incompatibilità, escludendo solo il personale docente, direttivo e ispettivo della scuola, il personale del servizio sanitario nazionale e i dipendenti con rapporto di lavoro a tempo parziale, per i quali sono previste speciali disposizioni.
Pertanto, chiosa la Corte, a eccezione di quelle categorie, il generale principio della incompatibilità sancito per i dipendenti statali e degli enti pubblici economici si estende a tutti i pubblici dipendenti (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 13.12.2018).
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SENTENZA
8. Il quarto motivo presenta anch'esso profili di inammissibilità ex art. 366 n. 4 c.p.c. per difetto di pertinenza al decisum: la sentenza impugnata ha evidenziato come il permanere dell'iscrizione all'albo degli avvocati lasciasse presumere l'esercizio della professione forense con connotazione di abitualità e che dirimenti fossero anche le risultanze istruttorie, che  avevano evidenziato come il Vitiello avesse continuato a curare cause innanzi all'autorità giudiziaria negli anni successivi al 2012.
8.1. Comunque, il motivo è anche destituito di fondamento giuridico. Il d.lgs. 30.03.2001, n. 165, art. 53 (Incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi) dispone, al comma 1, che resta ferma per tutti i dipendenti pubblici la disciplina delle incompatibilità dettata dagli artt. 60 e seguenti del testo unico approvato con D.P.R. 10.01.1957, n. 3, salva la deroga prevista dall'articolo 23-bis del presente decreto, nonché, per i rapporti di lavoro a tempo parziale, dal D.P.C.M. 17.03.1989, n. 117, art. 6, comma 2, e dalla L. 23.12.1996, n. 662, art. 1,  commi 57 e seguenti.
Restano ferme altresì le disposizioni di cui al D.Lgs. 16.04.1994,n. 297, art. 267, comma 1, artt. 273, 274, 508 nonché art. 676, alla L. 23.12.1992, n. 498, art. 9, commi 1 e 2, alla L. 30.12.1991, n. 412, art. 4, comma 7, ed ogni altra successiva modificazione ed integrazione della relativa disciplina. Gli altri commi dello stesso articolo si occupano, con norme dichiarate espressamente applicabili sia ai dipendenti a regime di diritto pubblico sia a quelli c.d. contrattualizzati, dello svolgimento di attività extraistituzionali (incarichi), disciplinandone le condizioni di legittimità e prevedendo poteri di autorizzazione dell'amministrazione.
8.2. La norma dettata dal richiamato art. 53, comma 1, ha sancito una vera e propria estensione a tutti i dipendenti pubblici, contrattualizzati e non, compresi quelli per i quali vigeva in precedenza una disciplina speciale (quali i dipendenti degli enti del parastato L. n. 70 del 1975, ex art. 8), della disciplina delle incompatibilità dettata dal testo unico degli impiegati civili dello Stato agli artt. 60 e seguenti.
La stessa norma, poi, ha fatto salve le disposizioni speciali in materia di incompatibilità già vigenti per il personale docente, direttivo e ispettivo della scuola, per il personale docente dei conservatori di musica, per il personale degli enti lirici  e del servizio sanitario nazionale, nonché per i dipendenti pubblici con rapporto di lavoro a tempo parziale.
Dunque, l'art. 53 cit. ha ribadito il generale principio dell'incompatibilità, sancito per i dipendenti statali (e degli enti pubblici non economici), con riferimento a tutti i pubblici dipendenti (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 12.12.2018 n. 32156).

APPALTI: Necessaria congruenza tra certificazione camerale e oggetto del contratto d’appalto.
In sede di procedimento di gara d’appalto, l’utilità sostanziale della certificazione camerale è quella di filtrare l’ingresso in gara dei soli concorrenti forniti di una professionalità coerente con le prestazioni oggetto dell’affidamento pubblico. Da tale ratio –nell’ottica di una lettura del bando fedele ai principi vigenti in materia di contrattualistica pubblica, che tenga cioè conto dell’oggetto e della funzione dell’affidamento (1363 1367 1369 c.c.)– si desume la necessità di una congruenza contenutistica, tendenzialmente completa, tra le risultanze descrittive della professionalità dell’impresa, come riportate nell’iscrizione alla Camera di Commercio, e l’oggetto del contratto d’appalto, evincibile dal complesso di prestazioni in esso previste; e ciò in quanto l’oggetto sociale viene inteso come la “misura” della capacità di agire della persona giuridica, la quale può validamente acquisire diritti ed assumere obblighi solo per le attività comprese nello stesso, come riportate nel certificato camerale.
Nell’impostazione del nuovo codice appalti, l’iscrizione camerale è assurta a requisito di idoneità professionale (art. 83, commi 1, lett. a), e 3 d.lgs. n. 50/2016), anteposto ai più specifici requisiti attestanti la capacità tecnico-professionale ed economico-finanziaria dei partecipanti alla gara, di cui alle successive lettere b) e c) del medesimo comma.
Pacifica in giurisprudenza la considerazione per cui utilità sostanziale della certificazione camerale è quella di filtrare l’ingresso in gara dei soli concorrenti forniti di una professionalità coerente con le prestazioni oggetto dell’affidamento pubblico.
Da tale ratio –nell’ottica di una lettura del bando fedele ai principi vigenti in materia di contrattualistica pubblica, che tenga cioè conto dell’oggetto e della funzione dell’affidamento (1363 1367 1369 c.c.)– si desume la necessità di una congruenza contenutistica, tendenzialmente completa, tra le risultanze descrittive della professionalità dell’impresa, come riportate nell'iscrizione alla Camera di Commercio, e l’oggetto del contratto d'appalto, evincibile dal complesso di prestazioni in esso previste; e ciò in quanto l’oggetto sociale viene inteso come la "misura" della capacità di agire della persona giuridica, la quale può validamente acquisire diritti ed assumere obblighi solo per le attività comprese nello stesso, come riportate nel certificato camerale.
A parziale mitigazione di tale impostazione si sostiene, d’altra parte, che detta corrispondenza contenutistica -tra risultanze descrittive del certificato camerale e oggetto del contratto d'appalto- non debba tradursi in una perfetta ed assoluta sovrapponibilità tra tutte le componenti dei due termini di riferimento, ma che la stessa vada appurata secondo un criterio di rispondenza alla finalità di verifica della richiesta idoneità professionale, e quindi in virtù di una considerazione non già atomistica e frazionata, bensì globale e complessiva delle prestazioni dedotte in contratto.
Diversamente, una rigida e formalistica applicazione del requisito condurrebbe all'ammissione alla gara dei soli operatori aventi un oggetto sociale pienamente speculare rispetto a tutti i contenuti del servizio in gara (indipendentemente dal peso delle diverse prestazioni ad esso inerenti), con ciò restringendosi in modo ingiustificato la platea dei potenziali concorrenti e la stessa finalità del confronto comparativo-concorrenziale".
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Proprio il principio del favor participationis e di massima concorrenza risponde alla esigenza che la corrispondenza tra le risultanze descrittive della professionalità dell’impresa, come riportate nell’iscrizione camerale, e l’oggetto del contratto di appalto non debba essere intesa in modo assoluto, ma in termini di congruenza contenutistica, secondo un criterio di rispondenza alla finalità di verifica della richiesta idoneità professionale, attraverso una valutazione non atomistica e frazionata, ma globale e complessiva delle prestazioni oggetto di affidamento.
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La problematica sollevata nel presente ricorso è quella dei limiti di congruenza contenutistica tra l’iscrizione camerale dell’impresa partecipante alla gara e l’oggetto del contratto d’appalto, in ipotesi di raggruppamento di tipo orizzontale e di oggetto dell’appalto individuato attraverso una finalità- obiettivo, cui seguono singole voci di prestazione in funzione di descrittori.
Nell’impostazione del nuovo codice appalti, l’iscrizione camerale è assurta a requisito di idoneità professionale (art. 83, commi 1, lett. a), e 3 d.lgs. n. 50/2016), anteposto ai più specifici requisiti attestanti la capacità tecnico-professionale ed economico-finanziaria dei partecipanti alla gara, di cui alle successive lettere b) e c) del medesimo comma.
Pacifica in giurisprudenza la considerazione per cui utilità sostanziale della certificazione camerale è quella di filtrare l’ingresso in gara dei soli concorrenti forniti di una professionalità coerente con le prestazioni oggetto dell’affidamento pubblico.
Da tale ratio –nell’ottica di una lettura del bando fedele ai principi vigenti in materia di contrattualistica pubblica, che tenga cioè conto dell’oggetto e della funzione dell’affidamento (1363 1367 1369 c.c.)– si desume la necessità di una congruenza contenutistica, tendenzialmente completa, tra le risultanze descrittive della professionalità dell’impresa, come riportate nell'iscrizione alla Camera di Commercio, e l’oggetto del contratto d'appalto, evincibile dal complesso di prestazioni in esso previste; e ciò in quanto l’oggetto sociale viene inteso come la "misura" della capacità di agire della persona giuridica, la quale può validamente acquisire diritti ed assumere obblighi solo per le attività comprese nello stesso, come riportate nel certificato camerale (Cons. Stato, sez. V, 07.02.2012, n. 648 e sez. IV, 23.09.2015, n. 4457; TAR Napoli, sez. I, 03.02.2015, n. 819; TAR Veneto, sez. I, 01.09.2015, n. 953).
A parziale mitigazione di tale impostazione si sostiene, d’altra parte, che detta corrispondenza contenutistica -tra risultanze descrittive del certificato camerale e oggetto del contratto d'appalto- non debba tradursi in una perfetta ed assoluta sovrapponibilità tra tutte le componenti dei due termini di riferimento, ma che la stessa vada appurata secondo un criterio di rispondenza alla finalità di verifica della richiesta idoneità professionale, e quindi in virtù di una considerazione non già atomistica e frazionata, bensì globale e complessiva delle prestazioni dedotte in contratto.
Diversamente, una rigida e formalistica applicazione del requisito condurrebbe all'ammissione alla gara dei soli operatori aventi un oggetto sociale pienamente speculare rispetto a tutti i contenuti del servizio in gara (indipendentemente dal peso delle diverse prestazioni ad esso inerenti), con ciò restringendosi in modo ingiustificato la platea dei potenziali concorrenti e la stessa finalità del confronto comparativo-concorrenziale"
(CdS n. 5170/2017).
Si presenta dunque decisivo indagare la natura e la qualità delle prestazioni dedotte nel capitolato d’appalto e la relazione nella quale queste si pongono rispetto ai richiesti requisiti di capacità dalle risultanze descrittive dei certificati camerali.
Nella specie, come si rileva dall’art. 3 del disciplinare di gara, l’oggetto dell’appalto è affidamento di servizi necessari per l’ideazione la progettazione e la realizzazione del sistema integrato di comunicazione plurimediale on-line e on–site “Open Campania. I musei della Campania in Rete” e comprende le attività utili per creare un’architettura di infrastrutture immateriali che agevoli una visione complessiva di fruizione di quattro siti di interesse museale individuati come attrattori di rilevanza strategica.
Trattandosi di costituendo raggruppamento orizzontale, come dichiarato e ribadito dalle concorrenti, e di oggetto dell’appalto individuato attraverso una finalità- obiettivo in cui non viene messa in rilievo una prestazione principale, va indagato il certificato camerale delle partecipanti, tenendo conto della circostanza che la indicazione delle singole prestazioni assume il carattere di descrittore.
Ciò è confermato dalla specificazione contenuta nell’oggetto del servizio, “La scelta di non suddividere in lotti e legata alla necessita che i diversi contributi possano integrarsi e che la comunicazione si sviluppi in maniera organica”.
La stessa Amministrazione nel redigere la documentazione di gara ha espresso la necessità di acquisire differenti servizi senza indicare quelli ritenuti principali, ma richiedendo una integrazione organica nella loro ideazione, progettazione e realizzazione.
Le prestazioni dedotte come specificazione di tale oggetto sono poi molteplici, ma non comportano una scomposizione dei servizi cui corrisponda una possibilità escludente per mancanza della singola voce prestazionale nel certificato camerale.
Risulta dunque ragionevole ritenere che il requisito camerale andasse riferito al solo oggetto del contratto (servizi necessari per l’ideazione la progettazione e la realizzazione del sistema integrato di comunicazione plurimediale on-line e on–site “Open Campania. I musei della Campania in Rete”) e che lo stesso dovesse intendersi come attestazione della generica qualificazione professionale-imprenditoriale del concorrente; viceversa, l’ulteriore specificazione di tale idoneità professionale, in rapporto alla totalità delle prestazioni incluse nell’appalto posto in gara, era affidata alla enucleazione di ulteriori e più specifici requisiti di capacità economico/finanziaria e tecnico/professionale.
In particolare, per quanto oggetto di specifica contestazione, va rilevato che dal certificato di GE., si evince che la società svolge attività “di progettazione, realizzazione, adeguamento, gestione, manutenzione ed uso degli impianti e delle infrastrutture per l’esercizio dell’attività aeroportuale nonché delle attività connesse o collegate……..la società potrà gestire tutti i servizi quali ad esempio la commercializzazione degli spazi…la creazione di spazi dedicati alla cultura...”. La Ge. in sede di interlocuzione procedimentale, ha evidenziato alla stazione appaltante di aver svolto:
   a) attività di progettazione strategica-advertising;
   b) elaborazione app;
   c) caricamento di contenuti offerta di servizi multimediali e plurimediali;
   d) formazione e affiancamento risorse interne amministrative;
   e) realizzazione materiali di divulgazione.
Inoltre anche la iscrizione camerale di Op.La.Fi. non presenta attività avulse dall’oggetto dell’appalto, basti rilevare che dalla stessa si evince lo svolgimento di attività di “gestione di spazi espositivi manifestazioni ed eventi vari e servizi ad essi collegati con vendita al dettaglio di libri ed altre pubblicazioni realizzate con procedimenti tipografici o di altro genere, audiovisivi compresi ed oggetti ricordo, esercitate prevalentemente in musei e strutture pubbliche; attività di promozione turistica; conduzione di campagne pubblicitarie e altri servizi pubblicitari; attività di musei; gestione di spazi espositivi manifestazioni ed eventi vari e servizi ad essi collegati con vendita al dettaglio di libri ed altre pubblicazioni realizzate con procedimenti tipografici o di altro genere, audiovisivi compresi ed oggetti ricordo, esercitate prevalentemente in musei e strutture pubbliche”.
Peraltro proprio il principio del favor participationis e di massima concorrenza risponde alla esigenza che la corrispondenza tra le risultanze descrittive della professionalità dell’impresa, come riportate nell’iscrizione camerale, e l’oggetto del contratto di appalto non debba essere intesa in modo assoluto, ma in termini di congruenza contenutistica, secondo un criterio di rispondenza alla finalità di verifica della richiesta idoneità professionale, attraverso una valutazione non atomistica e frazionata, ma globale e complessiva delle prestazioni oggetto di affidamento (CdS 796/2018).
La domanda va conclusivamente accolta, con annullamento della gravata esclusione (TAR Campania-Napli, Sez. IV, sentenza 12.12.2018 n. 7130 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Esclusione dalla gara per irregolarità contributiva del locatore il ramo di azienda.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Irregolarità contributiva del locatore il ramo di azienda – Legittimità.
E’ legittima l’esclusione dalla gara di un concorrente, che aveva affittato il ramo di azienda, per irregolarità contributiva del cedente (1).
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   (1) Ha ricordato la Sezione che la responsabilità per fatto di soggetto giuridico terzo a cui soggiace il cessionario trova risposta nel principio ubi commoda, ibi incommoda: il cessionario, come si avvale dei requisiti del cedente sul piano della partecipazione a gare pubbliche, così risente delle conseguenze, sullo stesso piano, delle eventuali responsabilità del cedente” (Adunanza plenaria n. 10 del 04.05.2012).
In particolare, con riferimento al contratto di affitto di azienda, è stato affermato che “non soltanto l'affittuario è in condizione di utilizzare mezzi d'opera e personale facenti capo all'azienda affittata ma, soprattutto, si mette in condizione di avvantaggiarsi anche dei requisiti di ordine tecnico organizzativo ed economico finanziario facenti capo a tale azienda, per quanto ciò avvenga per un periodo di tempo determinato e malgrado la reversibilità degli effetti una volta giunto a scadenza il contratto di affitto d'azienda, con l'obbligo di restituzione del complesso aziendale" (Cons. St., sez. V, 5 novembre 2014, n. 5470, per cui, inoltre, “la continuità imprenditoriale tra l’affittuario e l’affittante risulta insita in re ipsa nello stesso trasferimento della disponibilità economica di una parte dell’azienda ad altra impresa, giuridicamente qualificabile come affitto, ad eccezione della sola ipotesi in cui il soggetto interessato abbia fornito la prova di una completa cesura tra le gestioni”.
La Sezione ha altresì escluso che potesse applicarsi la procedura di preavviso di Durc negativo, ai sensi dell’art. 31, comma 8, d.l. 21.06.2013, n. 69 convertito nella l. 09.08.2013, n. 98, che si applica solo al DURC richiesto dalla impresa e non al Durc richiesto dalla stazione appaltante nella successiva fase di verifica dei requisiti.
Tale conclusione deriva dalla applicazione del principio per cui tutti i requisiti di partecipazione devono essere posseduti alla data di scadenza del termine per la presentazione delle offerte e rimanere per tutta la durata della procedura di gara, con la conseguenza di escludere una regolarizzazione successiva al termine di presentazione delle domande di partecipazione alla gara, momento in cui devono essere posseduti i requisiti di partecipazione, compresa la regolarità contributiva (Cons. St., sez. V, 26.04.2018, n. 2537).
Tale orientamento è stato ribadito anche a seguito della modifica dell’art. 80, comma 4, d.lgs. n. 50 del 2016, che consente –nel testo vigente a seguito delle modifiche introdotte con il d.lgs. 19.04.2017 n. 56- la partecipazione alle gare qualora l’operatore “ha ottemperato ai suoi obblighi pagando o impegnandosi in modo vincolante a pagare le imposte o i contributi previdenziali dovuti, compresi eventuali interessi o multe, purché il pagamento o l'impegno siano stati formalizzati prima della scadenza del termine per la presentazione delle domande”.
La norma aggiunta al comma 4 consente all'impresa che intenda partecipare alla gara di aderire all'invito alla regolarizzazione fino al momento di presentazione dell'offerta, potendo perciò autocertificare il possesso del requisito a tale momento anche se non abbia ancora pagato le somme dovute agli enti di previdenza ed assistenza, ma purché a tale data si sia formalmente impegnata al pagamento.
Non supera, quindi, il disposto del comma 6 dell’art. 80 per cui “le stazioni appaltanti escludono un operatore economico in qualunque momento della procedura, qualora risulti che l'operatore economico si trova, a causa di atti compiuti o omessi prima o nel corso della procedura, in una delle situazioni di cui ai commi 1, 2, 4 e 5", che non consente di distinguere tra omissioni di pagamenti di contributi precedenti o sopravvenute all'inizio della procedura; né consente di distinguere, ai fini dell'emissione del provvedimento di esclusione, i diversi momenti della procedura di gara, imponendo perciò l'esclusione anche successivamente, a meno che l'operatore economico abbia pagato o si sia impegnato a pagare "prima della scadenza del termine per la presentazione delle domande" (Cons. St., sez. V, 02.07.2018, n. 4039).
L’irrilevanza della regolarizzazione successivamente al termine di presentazione delle offerte è stata ritenuta conforma all’ordinamento comunitario dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea, con sentenza 10.11.2016, n. C-199/15, in cui ha affermato, con riferimento all’articolo 45 della direttiva 2004/18/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, che “non osta a una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, che obbliga l'amministrazione aggiudicatrice a considerare quale motivo di esclusione una violazione in materia di versamento di contributi previdenziali ed assistenziali risultante da un certificato richiesto d'ufficio dall'amministrazione aggiudicatrice e rilasciato dagli istituti previdenziali, qualora tale violazione sussistesse alla data della partecipazione ad una gara d'appalto, anche se non sussisteva più alla data dell'aggiudicazione o della verifica d'ufficio da parte dell'amministrazione aggiudicatrice”. E ciò anche nel caso in cui “l'importo dei contributi sia poi stato regolarizzato, prima dell'aggiudicazione o prima della verifica d'ufficio da parte dell'amministrazione aggiudicatrice”.
La Corte ha inoltre aggiunto che non sussiste violazione della disposizione innanzi citata anche nel caso in cui la disciplina nazionale preveda “quale motivo di esclusione una violazione in materia di versamento di contributi previdenziali ed assistenziali risultante da un certificato richiesto d'ufficio dall'amministrazione aggiudicatrice e rilasciato dagli istituti previdenziali, qualora tale violazione sussistesse alla data della partecipazione ad una gara d'appalto, escludendo così ogni margine di discrezionalità delle amministrazioni aggiudicatrici a tale riguardo”.
Anche l’art. 57, par. 3, della direttiva 2014/24 si riferisce in via generale al limite massimo del termine di presentazione delle offerte, attribuendo agli Stati membri la facoltà di prevedere una deroga alle esclusioni obbligatorie di cui al par. 2 (tra cui il mancato pagamento di imposte o contributi previdenziali) “nei casi in cui un'esclusione sarebbe chiaramente sproporzionata, in particolare qualora non siano stati pagati solo piccoli importi di imposte o contributi previdenziali o qualora l'operatore economico sia stato informato dell'importo preciso dovuto a seguito della sua violazione degli obblighi relativi al pagamento di imposte o di contributi previdenziali in un momento in cui non aveva la possibilità di prendere provvedimenti in merito, come previsto al par. 2, terzo comma, (pagamento o impegno vincolante a pagare le imposte o i contributi previdenziali dovuti, compresi eventuali interessi o multe) prima della scadenza del termine per richiedere la partecipazione ovvero, in procedure aperte, del termine per la presentazione dell'offerta” (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 12.12.2018 n. 7022 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Rito ordinario e rito superaccelerato nel contenzioso appalti.
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Processo amministrativo - Competenza - Gara - Tar competente - Individuazione.
  
Processo amministrativo - Rito appalti - Rito superaccelerato - Applicabilità - Presupposti.
  
Processo amministrativo - Rito appalti - Cumulo riti diversi - Sì applica il rito appalti ordinario.
  
Contratti della Pubblica amministrazione - Offerta - Anomalia - Costo del lavoro - Scostamento minimo dalle tabelle ministeriali - Possibilità
  
Competente a conoscere del ricorso avverso gli atti di una procedura ad evidenza pubblica è, in base all’art. 13, comma 1, secondo periodo, c.p.a., il tribunale amministrativo del luogo di produzione degli effetti diretti cui è preordinato l’atto finale della procedura, ossia dell’ambito territoriale di esplicazione dell’attività dell’impresa conseguente all’emanazione dell’atto di aggiudicazione e alla stipula contrattuale, indipendentemente dalla sede della stazione appaltante, dal luogo di svolgimento delle operazioni di gara e/o dalla sede dei partecipanti alla gara e da circostanze successive ed puramente eventuali, legate all’esito del giudizio (nella fattispecie si trattava di gara indetta da RFI s.p.a. e suddivisa in 37 lotti su tutto il territorio nazionale) (1).
  
Ai fini della decorrenza del termine previsto dall’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., non è sufficiente la pubblicazione dell’elenco dei soggetti ammessi, atteso che ai sensi dell’art. 29, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 il termine decorre dal momento in cui gli atti sono resi “in concreto disponibili, corredati di motivazione” (2).
  
È ammissibile, ed è soggetto al rito abbreviato ordinario per gli appalti di cui all’art. 120 c.p.a. e non a quello “super accelerato” di cui al comma 2-bis, il ricorso nel quale sono cumulate le domande avverso due segmenti concorsuali soggetti a riti processuali diversi, ossia ammissione ed aggiudicazione, allorché non sia possibile ravvisare alcuna distinzione tra la fase di verifica dei requisiti di partecipazione e la successiva fase di valutazione delle offerte e di individuazione del miglior offerente (3).
  
I valori del costo del lavoro, risultanti dalle apposite tabelle ministeriali, costituiscono un semplice parametro di valutazione della congruità dell’offerta, con la conseguenza che l’eventuale scostamento delle voci di costo da essi non legittima, di per sé, un giudizio di anomalia.
  
Premesso che nei raggruppamenti misti ogni sub-raggruppamento deve essere esaminato autonomamente, nel caso di sub-raggruppamento di tipo orizzontale nella categoria prevalente composto da due imprese, poiché deve esservi coincidenza tra la mandataria dell’intero raggruppamento e la mandataria del relativo sub-raggruppamento, deve essere accertata la partecipazione maggioritaria della mandataria, così come previsto nel combinato disposto degli artt. 92, comma 2, d.P.R. n. 207 del 2010, 83, comma 8, e 48, comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016 (4).
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   (1) Ha ricordato il Tar che ai sensi dell’art. 13, comma 1, c.p.a. “sulle controversie riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti di pubbliche amministrazioni è inderogabilmente competente il tribunale amministrativo regionale nella cui circoscrizione territoriale esse hanno sede. Il tribunale amministrativo regionale è comunque inderogabilmente competente sulle controversie riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti di pubbliche amministrazioni i cui effetti diretti sono limitati all’ambito territoriale della regione in cui il tribunale ha sede”.
Ai fini dell’individuazione del tribunale amministrativo competente a conoscere del ricorso avverso gli atti di una procedura di evidenza pubblica (ivi compresi eventuali provvedimenti di esclusione), “deve aversi riguardo al luogo di produzione degli effetti diretti cui è preordinato l’atto finale della procedura, ossia all’ambito territoriale di esplicazione dell’attività dell’impresa aggiudicataria conseguente all’emanazione dell’atto di aggiudicazione e alla stipula contrattuale […] indipendentemente dalla sede della stazione appaltante, dal luogo di svolgimento delle operazioni di gara e/o dalla sede dei partecipanti alla gara” (Tar Lazio, sez. I, ord., n. 10172 del 2017).
Avuto riguardo al criterio degli “effetti diretti dell’atto” (derogatorio di quello della sede dell’ente), nella fattispecie in esame non può che rilevarsi la competenza del Tar Reggio Calabria, attenendo la controversia all’affidamento dello specifico lotto da eseguirsi nell’ambito della circoscrizione di questa Sezione.
Né ad una diversa conclusione può indurre la circostanza secondo la quale l’eventuale annullamento dei provvedimenti qui impugnati potrebbe produrre effetti anche sugli altri lotti in virtù della espressa previsione secondo la quale ogni concorrente non avrebbe potuto risultare aggiudicatario di più di tre lotti, trattandosi di effetti certamente non diretti (la stessa società controinteressata utilizza l’espressione “effetto domino”) e, comunque, solo eventuali e legati all’esito del giudizio.
   (2) Ad avviso del Tar l’art. 29, d.lgs. n. 50 del 2016 introduce un preciso onere di comunicazione a carico delle stazioni appaltanti “al fine di consentire l'eventuale proposizione del ricorso ai sensi dell'articolo 120, comma 2-bis, del codice del processo amministrativo”. Dal mero elenco delle imprese ammesse alla procedura nonché di quelle escluse non è possibile trarre alcun elemento da cui desumere eventuali motivi di esclusione delle imprese partecipanti.
   (3) Ha chiarito il Tar che “il rito cd. “specialissimo” o “super speciale”, di cui ai commi 2-bis e 6-bis del citato articolo 120 c.p.a. è applicabile unicamente nei casi in cui vi sia una netta distinzione tra fase di ammissione/esclusione e fase di aggiudicazione” (Tar Bari, sez. III, n. 394 del 14.04.2017).
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza 26.04.2018, n. 4 ha evidenziato che il rito c.d. “superaccelerato” è volto “nella sua ratio legis, a consentire la pronta definizione del giudizio prima che si giunga al provvedimento di aggiudicazione e, quindi, a definire la platea dei soggetti ammessi alla gara in un momento antecedente all'esame delle offerte e alla conseguente aggiudicazione (
Consiglio di Stato, parere n. 855/2016 sul codice degli appalti pubblici). Il legislatore ha quindi inteso evitare che con l'impugnazione dell'aggiudicazione possano essere fatti valere vizi attinenti alla fase della verifica dei requisiti di partecipazione alla gara, il cui eventuale accoglimento farebbe regredire il procedimento alla fase appunto di ammissione, con grave spreco di tempo e di energie lavorative, oltre al pericolo di perdita di eventuali finanziamenti, il tutto nell'ottica dei principi di efficienza, speditezza ed economicità, oltre che di proporzionalità del procedimento di gara (Consiglio di Stato, parere n. 782/2017 sul decreto correttivo al nuovo codice degli appalti pubblici)”.
   (4) Ha ricordato la Sezione che la valutazione favorevole circa le giustificazioni dell'offerta sospetta di anomalia non richiede un particolare onere motivazionale, mentre è richiesta una motivazione più approfondita laddove l'amministrazione ritenga di non condividere le giustificazioni offerte dall'impresa, in tal modo disponendone l'esclusione (Cons. St., sez. V, 02.12.2015, n. 5450). Lo scostamento del costo del lavoro rispetto ai valori ricavabili dalle tabelle ministeriali o dai contratti collettivi, non può comportare, di regola e di per sé, un automatico giudizio di inattendibilità (Cons. St., sez. V, 25.10.2017, n. 4912; id., sez. III, 14.05.2018, n. 2867).
I valori del costo del lavoro risultanti dalle tabelle ministeriali costituiscono un semplice parametro di valutazione della congruità dell'offerta, con la conseguenza che l'eventuale scostamento delle voci di costo da quelle riassunte nelle tabelle ministeriali non legittima di per sé un giudizio di anomalia o di incongruità occorrendo, perché possa dubitarsi della sua congruità, che la discordanza sia considerevole e palesemente ingiustificata (Cons. St., sez. III 27.04.2018 n. 2580; id. 18.09.2018, n. 5444).
Costituisce tuttavia vero e proprio ius receptum l’affermazione secondo la quale il giudizio di anomalia si risolve in un giudizio complessivo e globale sull'offerta presentata, essendo il relativo sub-procedimento finalizzato alla verifica dell'attendibilità e della serietà dell’offerta ed all'accertamento dell'effettiva possibilità dell'impresa di eseguire correttamente l'appalto alle condizioni proposte.
Quanto infine al costo della manodopera, i valori del costo del lavoro, risultanti dalle apposite tabelle ministeriali, costituiscano un semplice parametro di valutazione della congruità dell’offerta, con la conseguenza che l’eventuale scostamento delle voci di costo da essi non legittima, di per sé, un giudizio di anomalia.
L’art. 97, comma 5, d.lgs. n. 50 del 2016 prevede, peraltro, che la stazione appaltante disponga l’esclusione dell’offerta qualora accerti che il costo del personale è “inferiore ai minimi salariali retributivi indicati nelle apposite tabelle di cui all'articolo 23, comma 16” (
TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 12.12.2018 n. 739 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini della legittimazione passiva del soggetto destinatario dell’ordine di demolizione, l’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001 individua quali soggetti passivi della demolizione sia colui o coloro i quali aventi il potere di rimuovere concretamente l’abuso –potere-dovere che grava sul proprietario– sia i soggetti che abbiano realizzato gli abusi, su immobile poi alienato a terzi.
Il presupposto per l’adozione di un’ordinanza di ripristino non è l'accertamento di responsabilità nella commissione dell'illecito, bensì l’esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con quella prevista nella strumentazione urbanistico-edilizia: sicché sia il soggetto che abbia la titolarità a eseguire l’ordine ripristinatorio –ossia in virtù del diritto dominicale il proprietario– che il responsabile dell’abuso sono destinatari della sanzione reale del ripristino dei luoghi e quindi legittimati attivi all’impugnazione della sanzione.
D’altra parte, l’acquirente dell’immobile abusivo o del sedime su cui è stato realizzato succede in tutti i rapporti giuridici attivi e passivi relativi al bene ceduto facenti capo al precedente proprietario, ivi compresa l’abusiva trasformazione, subendo gli effetti sia del diniego di sanatoria, sia dell’ingiunzione di demolizione successivamente impartita, pur essendo l’abuso commesso prima del passaggio di proprietà.
Da cui sortisce il presupposto di fatto –ossia la destinatarietà del provvedimento sanzionatorio– della legittimazione attiva all’impugnazione sia del(l’ex) proprietario alienante, esecutore delle opere che del(l’attuale) proprietario acquirente che subisce gli effetti dell’ordine di ripristino.

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1. È appellata la sentenza del Tar Calabria, sezione staccata di Catanzaro, n. 894/2017 di reiezione del ricorso collettivamente proposto dai sig.ri An.Mi., Sa.Mi., Gi.Mi., Gi.Mi., avverso l’ordinanza di demolizione n. 82 del 28.06.2016 con la quale il Comune di Rende ha ordinato la demolizione delle seguenti opere: “a) tettoia con struttura in tubi innocenti e scatoloni di ferro e copertura con tegole marsigliesi di circa 3,20 mt di larghezza e altezza da m 2,50 a 2,95; b) apertura con opere di consolidamento e puntellamento di circa 14 cm che collega magazzino ad officina; c) tettoia di misure perimetrali di circa 22,80 x 8,10 metri con superficie utile di mq 162,45".
2. Il Tar ha respinto tutti i motivi d’impugnazione, segnatamente: ha ritenuto infondata la violazione degli artt. 7 e 8 legge n. 241/1990; ha considerato irrilevante, ai sensi degli artt. 31 ss. del d.P.R. 380/2001, il fatto che realizzazione della parte più consistente delle opere (tettoia con misure perimetrali di circa 22,80 x 8,10 metri) avesse conseguito in data 30.12.1981 la concessione edilizia condizionata; ed infine ha respinto la censura che, in ragione della vetustà delle opere in loco, rivendicava un obbligo motivazionale rafforzato dell’ordinanza di demolizione impugnata.
...
5.1 L’eccezione è infondata
Ai fini della legittimazione passiva del soggetto destinatario dell’ordine di demolizione, l’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001 individua quali soggetti passivi della demolizione sia colui o coloro i quali aventi il potere di rimuovere concretamente l’abuso –potere-dovere che grava sul proprietario– sia i soggetti che abbiano realizzato gli abusi, su immobile poi alienato a terzi.
Il presupposto per l’adozione di un’ordinanza di ripristino non è l'accertamento di responsabilità nella commissione dell'illecito, bensì l’esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con quella prevista nella strumentazione urbanistico-edilizia: sicché sia il soggetto che abbia la titolarità a eseguire l’ordine ripristinatorio –ossia in virtù del diritto dominicale il proprietario– che il responsabile dell’abuso sono destinatari della sanzione reale del ripristino dei luoghi e quindi legittimati attivi all’impugnazione della sanzione.
5.2 D’altra parte, l’acquirente dell’immobile abusivo o del sedime su cui è stato realizzato succede in tutti i rapporti giuridici attivi e passivi relativi al bene ceduto facenti capo al precedente proprietario, ivi compresa l’abusiva trasformazione, subendo gli effetti sia del diniego di sanatoria, sia dell’ingiunzione di demolizione successivamente impartita, pur essendo l’abuso commesso prima del passaggio di proprietà (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 10.01.2007, n. 40).
5.3 Da cui sortisce il presupposto di fatto –ossia la destinatarietà del provvedimento sanzionatorio– della legittimazione attiva all’impugnazione sia del(l’ex) proprietario alienante, esecutore delle opere che del(l’attuale) proprietario acquirente che subisce gli effetti dell’ordine di ripristino (cfr., da ultimo, Cons. Stato, sez. VI, 3210/2017) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 11.12.2018 n. 6983 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costruzioni abusive, titoli edilizi “atipici” e demolizione.
Quando si abbia una costruzione abusiva risalente nel tempo, e vi sia il legittimo affidamento sulla permanenza della res ingenerato dal comportamento tenuto dall’amministrazione, o dal rilascio di un titolo edilizio ancorché atipico, allora l’ordine di demolizione necessita di una ponderata motivazione valutando gli opposti interessi alla conservazione del bene e alla sua rimozione.
Il rilascio del titolo edilizio condizionato, la cui efficacia sia subordinata al verificarsi di una condizione sospensiva, futura ed incerta, è ipso facto inammissibile.
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Va condiviso in termini generali l’orientamento a mente del quale la risalenza nel tempo dell’opera, di per sé, non incide sul potere di repressione dell’abuso da parte della P.A..
Vale a dire che di norma l’adozione dell’ordinanza di demolizione non richiede “alcuna specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati e neppure una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto”.
Tuttavia, nel caso in cui, oltre alla situazione consolidatasi nel tempo, s’aggiunga –come nel caso di specie– il legittimo affidamento sulla permanenza ed utilizzazione della res abusiva ingenerato dal comportamento tenuto dall’amministrazione o dal rilascio di un titolo edilizio ancorché atipico, deve trovare applicazione il principio dettato da Cons. Stato, ad. plen., 17.10.2017 n. 8.
Indirizzo giurisprudenziale, qui condiviso, in forza del quale l’ordine di demolizione necessita di una ponderata motivazione che dia conto della valutazione degli opposti interessi: quello del titolare del bene alla conservazione ed utilizzazione della res, risalente nel tempo e fatta oggetto di un provvedimento autorizzativo mai rimosso, con quello dell’amministrazione al ripristino illico et immediate dell’assetto del territorio compromesso dalla permanenza in loco dell’abuso.

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1. È appellata la sentenza del Tar Calabria, sezione staccata di Catanzaro, n. 894/2017 di reiezione del ricorso collettivamente proposto dai sig.ri An.Mi., Sa.Mi., Gi.Mi., Gi.Mi., avverso l’ordinanza di demolizione n. 82 del 28.06.2016 con la quale il Comune di Rende ha ordinato la demolizione delle seguenti opere: “a) tettoia con struttura in tubi innocenti e scatoloni di ferro e copertura con tegole marsigliesi di circa 3,20 mt di larghezza e altezza da m 2,50 a 2,95; b) apertura con opere di consolidamento e puntellamento di circa 14 cm che collega magazzino ad officina; c) tettoia di misure perimetrali di circa 22,80 x 8,10 metri con superficie utile di mq 162,45".
2. Il Tar ha respinto tutti i motivi d’impugnazione, segnatamente: ha ritenuto infondata la violazione degli artt. 7 e 8 legge n. 241/1990; ha considerato irrilevante, ai sensi degli artt. 31 ss. del d.P.R. 380/2001, il fatto che realizzazione della parte più consistente delle opere (tettoia con misure perimetrali di circa 22,80 x 8,10 metri) avesse conseguito in data 30.12.1981 la concessione edilizia condizionata; ed infine ha respinto la censura che, in ragione della vetustà delle opere in loco, rivendicava un obbligo motivazionale rafforzato dell’ordinanza di demolizione impugnata.
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6. Lo scrutinio di merito dei motivo d’appello richiede la sintetica ricostruzione del quadro fattuale in cui s’inscrive la vicenda dedotta in giudizio.
La tettoia realizzata con strutture modulari in ferro di misure perimetrali di circa 22,80 x 8,10 metri con superficie utile di mq 162,45 è risalente nel tempo. È indiscusso che l’allora proprietario dell’area di sedime, esecutore dell’opera, ottenne in data 30.12.1981 il nulla-osta edilizio seppure condizionato all’eventuale ordine di rimozione.
6.1 Ad di là del fatto che il rilascio del titolo edilizio condizionato, la cui efficacia sia subordinata al verificarsi di una condizione sospensiva, futura ed incerta, è ipso facto inammissibile (da ultimo Cons. stato, sez. IV, 18.04.2018 n. 2366), non va passato sotto silenzio che la tettoia, strumentale all’attività d’impresa, preesisteva già a fare data dal 1981: tant’è che il Comune rilasciando il titolo edilizio, seppure condizionato, ne ha espressamente riconosciuto l’esistenza legittimandone l’utilizzazione.
6.2 Quantunque vada condiviso in termini generali l’orientamento, fatto proprio dal Tar con la sentenza appellata, a mente del quale la risalenza nel tempo dell’opera, di per sé, non incide sul potere di repressione dell’abuso da parte della P.A..
Vale a dire che di norma l’adozione dell’ordinanza di demolizione non richiede “alcuna specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati e neppure una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto” (così, “ex multis”, Cons. di Stato, sez. VI, nn. 13 del 2015, 5792 del 2014 e 6702 del 2012).
6.3 Nondimeno, nel caso in cui, oltre alla situazione consolidatasi nel tempo, s’aggiunga –come nel caso di specie– il legittimo affidamento sulla permanenza ed utilizzazione della res abusiva ingenerato dal comportamento tenuto dall’amministrazione o dal rilascio di un titolo edilizio ancorché atipico, deve trovare applicazione il principio dettato da Cons. Stato, ad. plen., 17.10.2017 n. 8.
Indirizzo giurisprudenziale, qui condiviso, in forza del quale l’ordine di demolizione necessita di una ponderata motivazione che dia conto della valutazione degli opposti interessi: quello del titolare del bene alla conservazione ed utilizzazione della res, risalente nel tempo e fatta oggetto di un provvedimento autorizzativo mai rimosso, con quello dell’amministrazione al ripristino illico et immediate dell’assetto del territorio compromesso dalla permanenza in loco dell’abuso (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 11.12.2018 n. 6983 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ordine di demolizione impartito con la sentenza di condanna - Sospensione o revoca - Domanda di sanatoria - Potere-dovere di verifica del giudice dell'esecuzione - Controllo sulla legittimità dell'atto concessorio.
In presenza di una domanda di sanatoria, il giudice dell'esecuzione dispone di un ampio potere-dovere di controllo sulla legittimità dell'atto concessorio sotto il duplice profilo della sussistenza dei presupposti per la sua emanazione e dei requisiti di forma e di sostanza richiesti dalla legge per il corretto esercizio del potere di rilascio.
Inoltre, è anche attribuita al giudice dell'esecuzione, con riferimento alla mera pendenza di una richiesta di sanatoria, la verifica dei possibili esiti e dei tempi di definizione della procedura, compresa la rispondenza di quanto autorizzato con le opere destinate alla demolizione, con l'ulteriore precisazione che il rispetto dei principi generali fissati dalla legislazione nazionale richiesto per le disposizioni introdotte dalle leggi regionali riguarda anche eventuali procedure di sanatoria. Nel caso di specie, il giudice dell'esecuzione ha posto in evidenza la insussistenza di elementi di fatto che consentissero di ritenere sanato l'intervento edilizio abusivo.

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Reati edilizi - Disposizioni introdotte da leggi regionali - Rapporti tra la disciplina regionale e la normativa statale - Artt. 36 e 45 del d.PR. n. 380/2001.
In tema di reati edilizi, in ogni caso, le disposizioni introdotte da leggi regionali devono rispettare i principi generali fissati dalla legislazione nazionale e, conseguentemente, devono essere interpretate in modo da non collidere con i detti principi.
Nella specie, in particolare, con riferimento alla "speciale" sanatoria prevista, per taluni interventi, dall'art. 18, comma quarto, della L.Reg. Sicilia 16.04.2003, n. 4 , ritenendola inidonea a produrre l'effetto estintivo del reato edilizio, in quanto questo, ai sensi del combinato disposto degli artt. 36 e 45 del d.PR. 06.06.2001, n. 380, consegue unicamente al rilascio della concessione o permesso di costruire in sanatoria
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.12.2018 n. 55028 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: Cumulo di riti nel processo in materia di gara pubblica – Affidabilità del concorrente con risoluzioni contrattuali.
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Processo amministrativo – Rito appalti - Cumulo di rito ordinario appalti e di rito super accelerato – Applicabilità del rito ordinario.
  
Contratti della Pubblica amministrazione – Bando – Vincolatività anche per la stazione appaltante – Chiarimenti “neutri” – Possibilità.
  
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Risoluzione contrattuale – Omessa esclusione – Motivazione specifica – Necessità.
  
In casi di cumulo di rito ordinario appalti e di rito super accelerato trova applicazione il rito ordinario (1).
  
Se la Stazione appaltante non può discostarsi dalle regole da essa stessa fissate e alle quali si è autovincolata e nemmeno può interpretare le suddette regole in modo palesemente contrario al suo chiaro tenore testuale, tuttavia, può intervenire nei casi in cui il chiarimento rivesta caratteri di “neutralità” rispetto ai contenuti del bando ed alla partecipazione alla gara e costituisca una sorta di interpretazione autentica con cui la stessa Stazione appaltante chiarisce la propria volontà provvedimentale, in un primo momento poco intellegibile, precisando o meglio delucidando le previsioni della lex specialis (2).
  
La stazione appaltante che ammette il concorrente in relazione al quale ci sono state risoluzioni contrattuali e penali deve motivare in ordine alla valutazione compiuta sulla moralità professionale della società (3).
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   (1) Il Tar ha dato atto che allorché vengono introdotte nel giudizio domande soggette asseritamente al rito super-speciale e domande sottoposte all’ordinario rito appalti, è possibile, per ragioni di economia processuale ed anche al fine di evitare decisioni contrastanti, che i relativi motivi di doglianza siano esaminati nell’ambito di un unico e simultaneo giudizio da svolgersi secondo le forme e i termini del rito ordinario, che, in base ai principi processuali di carattere generale desumibili anche dall’art. 32, comma 1, c.p.a., deve trovare sempre prevalente applicazione, essendo quello che assicura maggiori garanzie di difesa (Cons. St., sez. V, 23.03.2018, n. 1854); a suffragio di tale opzione (in senso conforme Tar Bari sez. I, 07.12.2016, n. 1367; id., sez. III, 14.04.2017, n. 394; Cons. St., sez. V, 28.02.2018, n. 1216), occorre considerare che se la ratio legis del nuovo rito “superaccelerato” è quella di consentire la pronta definizione del giudizio prima che si giunga al provvedimento di aggiudicazione e, quindi, definire la platea dei soggetti ammessi alla gara in un momento antecedente anche all’esame delle offerte ed alla conseguente aggiudicazione (Cons. St., parere n. 855/2016 sul codice degli appalti) -da qui l’imposizione di censurare l’altrui partecipazione anche senza averne “interesse”- tale ratio viene meno allorquando, come nel caso di specie, sia sopraggiunta l’aggiudicazione (nel caso a pochi giorni dall’ammissione delle offerte), venendo pertanto meno i presupposti logici dell’operatività del rito superaccelerato e l’eccezionale irrilevanza dell’interesse ai fini dell’azione.
   (2) Ha chiarito il Tar che in tali casi i chiarimenti operano a beneficio di tutti e —laddove trasparenti, tempestivi, ispirati al principio del favor partecipationis e resi pubblici— non comportano, se giustificati da un'oggettiva incertezza della legge di gara, alcun pregiudizio per gli aspiranti offerenti, tale da rendere preferibile, a dispetto del principio di economicità, l'autoannullamento del bando e la sua ripubblicazione (Tar Napoli, sez. IV, 28.08.2018, n. 5292).
   (3) Ha affermato il Tar che fermo restando che i fatti dichiarati di cui si discute (relativi a precedenti risoluzioni contrattuali e penali, alcune delle quali non contestate) non possono comportare un’esclusione con carattere automatico (importando, invece, ai fini di un’eventuale esclusione, specie in caso di contestazioni, un obbligo di motivazione rafforzata per l’amministrazione) e tenuto conto che l’amministrazione non può certo essere tenuta a motivare analiticamente le ragioni per cui non ritenga i singoli fatti dichiarati rilevanti e gravi (o meno) ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. c), del Codice dei contratti l’assoluta mancanza di qualsiasi riferimento nel verbale di ammissione alla compiuta valutazione degli stessi e ad una sia pure sintetica motivazione della loro non rilevanza o comunque del percorso logico che ha consentito alla commissione di concludere per l’ammissione, sia pure a fronte di “10 tra esclusioni e/o risoluzioni contrattuali e/o penali per inadempimento”, nel caso in esame non consentono all’operatore economico che abbia interesse ad impugnare la ammissione e a questo Tribunale di accertare se la doverosa valutazione vi sia stata e se la stessa sia affetta da macroscopica illogicità, impedendone uno scrutinio in sede di giudizio (TAR
Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 10.12.2018 n. 2335 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLa violazione del patto di stabilità non travolge il contratto stipulato se il bando è dell'anno precedente.
La violazione del pareggio di bilancio inibisce le assunzioni nell'anno successivo in mancanza del suo raggiungimento. Tuttavia, in presenza di un bando di concorso che successivamente abbia individuato il vincitore, a quest'ultimo non si applica la sanzione prevista dalla normativa anche se il contratto individuale di lavoro viene stipulato nell'anno successivo.

Queste sono le chiare indicazioni della Corte di Cassazione, Sez. lavoro, ordinanza 07.12.2018 n. 31757.
Il caos sull'assunzione
Un Comune ha indetto una procedura concorsuale nell'anno 2004, individuando successivamente la vincitrice del concorso (nel caso di specie un'assistente sociale) con la quale ha stipulato all'inizio dell'anno 2005 il relativo contratto individuale di lavoro. A seguito del mancato rispetto del patto di stabilità, l'ente ha annullato l'assunzione in quanto, a suo dire, in violazione della norma imperativa che stabilisce il divieto di assunzione previsto dalla regola violata.
Sia il Tribunale sia la Corte d’appello adita dal Comune, hanno confermato l'obbligo dell’ente di procedere all'assunzione della vincitrice del concorso quantificando le differenze retributive dovute dalla data con la quale la donna aveva reclamato l'assunzione e non da quella precedente dell'approvazione della graduatoria.
Il Comune ha proposto ricorso in Cassazione evidenziando la nullità del contratto stipulato in quanto effettuato in violazione di norma imperativa che imponeva all'ente locale, non rispettoso del patto di stabilità, il divieto di assunzioni di personale. In altri termini, secondo l'ente, la Corte d’appello avrebbe dovuto valutare se l'Amministrazione, nell'esercizio dell'autotutela (articolo 21-nonies della legge 241/1990), con l'adozione dell'atto di risoluzione, avesse optato per la soluzione che meglio contemperava la necessità del ripristino della legittimità e la salvezza dei diritti della vincitrice, potendosi al più pervenire non alla ricostituzione del rapporto di lavoro ma a una misura risarcitoria.
La conferma dei giudici di legittimità
I giudici della Cassazione, nel confermare la sentenza, hanno individuato l'errore in cui è incorso l'ente nell'aver pensato che l'apparato sanzionatorio si verificasse nell'anno della stipula del contratto individuale e non nella data di offerta al pubblico dell'indizione del concorso, il cui risultato resta obbligatoriamente ancorato a quella data, mentre la violazione del patto di stabilità blocca tutte le assunzioni decise nel successivo anno di riferimento, inibendo l'ente di emettere ulteriori concorsi in quell’anno.
Pertanto, essendo il concorso indetto precedentemente alla riscontrata violazione del patto di stabilità l'ente non aveva alcun potere di retroagire nell'anno precedente e annullare le assunzioni effettuate.
La Cassazione conferma, inoltre, che le differenze retributive reclamate dalla ricorrente incidentale decorrono dalla sola data di manifestazione di interesse all'assunzione intimata dalla vincitrice, che essendo avvenuta nell'anno 2007 non permettono al giudice di far retroagire la retribuzione alla data di formulazione della graduatoria del concorso (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 13.12.2018).

EDILIZIA PRIVATA: Nella vigenza dell'art. 21-nonies, l. 07.08.1990, n. 241 –introdotto dalla l. 11.02.2005, n. 15– l’annullamento d’ufficio di un titolo edilizio intervenuto (anche) ad una distanza temporale considerevole dal provvedimento annullato «deve essere motivato in relazione alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale all'adozione dell'atto di ritiro anche tenuto conto degli interessi dei privati destinatari del provvedimento sfavorevole.
In tali ipotesi, tuttavia, deve ritenersi:
   a) che il mero decorso del tempo, di per sé solo, non consumi il potere di adozione dell'annullamento d'ufficio e che, in ogni caso, il termine ‘ragionevole' per la sua adozione decorra soltanto dal momento della scoperta, da parte dell'amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell'atto di ritiro;
   b) che l'onere motivazionale gravante sull'amministrazione risulterà attenuato in ragione della rilevanza e autoevidenza degli interessi pubblici tutelati (al punto che, nelle ipotesi di maggior rilievo, esso potrà essere soddisfatto attraverso il richiamo alle pertinenti circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela che risultano in concreto violate, che normalmente possano integrare, ove necessario, le ragioni di interesse pubblico che depongano nel senso dell'esercizio del ius poenitendi);
   c) che la non veritiera prospettazione da parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento dell'atto illegittimo a lui favorevole non consente di configurare in capo a lui una posizione di affidamento legittimo, con la conseguenza per cui l'onere motivazionale gravante sull'amministrazione potrà dirsi soddisfatto attraverso il documentato richiamo alla non veritiera prospettazione di parte».
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1. Gli odierni appellanti impugnavano innanzi al TAR per la Puglia il provvedimento prot. n. 12257 del 30.12.2008, con cui il Comune di Sammichele di Bari aveva annullato in autotutela il permesso di costruire n. 39/06, rilasciato il 18.01.2008 per la realizzazione di un edificio per civile abitazione, in territorio comunale alla via ... (ex S.S. 100), identificata nel Catasto Terreni al Foglio n. 6, p.lle 384, 473, 255 e 366.
Il ritiro in autotutela si fondava su due ordini di ragioni:
   a) la superficie del lotto interessato dichiarata e indicata in atto notarile sarebbe risultata superiore a quella catastale, determinando «[…] una evidente discrasia derivante dalla “non corrispondenza” con la realtà e con la “restituzione” del rilievo catastale […] Ed inoltre vi è una consistente quota di suolo che la ditta sostiene faccia parte del suolo su cui dovrà sorgere l’immobile che, oltre a non possedere alcun identificativo catastale, mal si allinea con i riferimenti circostanti; […]»; nel provvedimento si soggiungeva altresì che il rilascio del permesso di costruire fosse stato determinato dalla «produzione della TAV 1 (varie scale grafiche) che ha indotto in errore l’ufficio nell’istruttoria della pratica edilizia […]»;
   b) il progetto avrebbe realizzato una traslazione della fascia di rispetto stradale rilevante ai fini dell’esatto posizionamento dell’erigendo fabbricato rispetto al ciglio della strada.
...
10.1. Per quanto concerne il corretto governo dell’esercizio del poter di autotutela –in disparte la comprovata illegittimità dell’originario permesso di costruire per effetto del carattere esorbitante delle volumetria originariamente autorizzata- appare sufficiente rinviare ai principi sanciti dalla decisione n. 8 del 2017 di cui all’Adunanza plenaria di questo Consiglio, secondo cui, nella vigenza dell'art. 21-nonies, l. 07.08.1990, n. 241 –introdotto dalla l. 11.02.2005, n. 15– l’annullamento d’ufficio di un titolo edilizio intervenuto (anche) ad una distanza temporale considerevole dal provvedimento annullato «deve essere motivato in relazione alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale all'adozione dell'atto di ritiro anche tenuto conto degli interessi dei privati destinatari del provvedimento sfavorevole. In tali ipotesi, tuttavia, deve ritenersi:
   a) che il mero decorso del tempo, di per sé solo, non consumi il potere di adozione dell'annullamento d'ufficio e che, in ogni caso, il termine ‘ragionevole' per la sua adozione decorra soltanto dal momento della scoperta, da parte dell'amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell'atto di ritiro;
   b) che l'onere motivazionale gravante sull'amministrazione risulterà attenuato in ragione della rilevanza e autoevidenza degli interessi pubblici tutelati (al punto che, nelle ipotesi di maggior rilievo, esso potrà essere soddisfatto attraverso il richiamo alle pertinenti circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela che risultano in concreto violate, che normalmente possano integrare, ove necessario, le ragioni di interesse pubblico che depongano nel senso dell'esercizio del ius poenitendi);
   c) che la non veritiera prospettazione da parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento dell'atto illegittimo a lui favorevole non consente di configurare in capo a lui una posizione di affidamento legittimo, con la conseguenza per cui l'onere motivazionale gravante sull'amministrazione potrà dirsi soddisfatto attraverso il documentato richiamo alla non veritiera prospettazione di parte
».
Nel caso di specie, il “ripensamento” dell’amministrazione è intervenuto pochi mesi dopo l’adozione del rilascio del permesso di costruire, a fronte di una prospettazione di parte che non rappresentava correttamente l’area di intervento, sicché nessun affidamento poteva dirsi consolidato in capo agli istanti.
10.2 Non miglior sorte meritano i rilievi circa le modalità e i tempi con cui il Comune resistente ha proceduto ad esercitare le proprie funzioni in materia di catasto.
Essi, invero, risultano inconferenti ai fini di cui trattasi in quanto, come sopra ricordato -e come messo in luce dagli stessi appellanti- i dati catastali determinano esclusivamente una presunzione che deve essere vinta dai rivendicanti (Cass. civ., Sez. II, 24.04.2018, n. 10062), o comunque da chi agisce per fare accertare un diritto (e/o interesse) «che trovi il proprio fondamento nel diritto di proprietà tutelato erga omnes, del quale occorre quindi che venga data la piena dimostrazione» (Cass. Civ. Sez. II, 18.01.2017, n. 1210) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.12.2018 n. 6922 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il vincolo cimiteriale, di cui all'art. 338 r.d. 27.07.1934, n. 1265, come modificato dall'art. 4 l. 30.03.2001, n. 130 e, poi, dall'art. 28, comma 1, lett. a), l. 01.08.2002, n. 166, è un vincolo di natura assoluta.
Esso si impone, in quanto limite legale, al momento di ogni valutazione di rilascio di titoli edilizi, in relazione alle sue finalità di tutela di preminenti esigenze igienico-sanitarie, a salvaguardia della sacralità dei luoghi di sepoltura, conservazione di adeguata area di espansione della cinta cimiteriale.
Sicché, la sussistenza del vincolo va valutata in ogni caso al momento del rilascio del titolo edilizio, cosa che nel caso di specie è stato correttamente effettuato, e questo a prescindere dall’epoca di realizzazione del manufatto.
Tale vincolo non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale.
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5. Il ricorso va respinto.
Al di là dell’aver impugnato anche gli atti interni alla procedura di assenso dell’istanza, la doglianza della società ha riguardo al mancato assenso rispetto all’istanza di permesso di costruire per il rifacimento del padiglione sito nell’area in questione e risalente, secondo la parte, agli anni ’30 del secolo scorso.
La parte sostiene che esso sia “verosimilmente precedente al R.D. n. 1265 del 27.07.1934 impositivo del vincolo previsto dall'art. 338 ovvero del divieto di costruire nuovi edifici o di ampliare quelli preesistenti entro il raggio di 200 metri interno aree cimiteriali”.
Pertanto, stante la preesistenza, in applicazione dell’art. 28 della l. 166/2002, un intervento di recupero e/o funzionale, avrebbe dovuto essere consentito.
5.1. Il Collegio ritiene che il vincolo cimiteriale, di cui all'art. 338 r.d. 27.07.1934, n. 1265, come modificato dall'art. 4 l. 30.03.2001, n. 130 e, poi, dall'art. 28, comma 1, lett. a), l. 01.08.2002, n. 166, sia un vincolo di natura assoluta e che esso si imponga, in quanto limite legale, al momento di ogni valutazione di rilascio di titoli edilizi, in relazione alle sue finalità di tutela di preminenti esigenze igienico-sanitarie, a salvaguardia della sacralità dei luoghi di sepoltura, conservazione di adeguata area di espansione della cinta cimiteriale.
È quindi corretta la tesi della difesa comunale per cui la sussistenza del vincolo va valutata in ogni caso al momento del rilascio del titolo edilizio, cosa che nel caso di specie è stato correttamente effettuato, e questo a prescindere dall’epoca di realizzazione del manufatto.
In termini, si veda TAR Napoli, (Campania) sez. III, 02/07/2018, n. 4351, che ribadisce che tale vincolo non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale (vedi anche Cass., sez. I, 20.12.2016 n. 26326; Cons. St., sez. IV, 13.12.2017 n. 5873; Cons. St., sez. VI, 09.03.2016 n. 949; TAR Campania, Napoli, sez. III, n. 5036 del 2013) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 06.12.2018 n. 6996 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non necessita il titolo edilizio abilitativo in ordine ad un pergolato se amovibile e quale mero elemento di arredo di uno spazio esterno.
La realizzazione di un pergolato in struttura leggera, con copertura filtrante (costituita da essenze arboree secondo il progetto originario e da una ‘incannucciata’) e facilmente amovibile non è, all’evidenza, riconducibile alle categorie edilizie della nuova costruzione o della ristrutturazione ‘pesante’, esulanti dal regime abilitativo della c.d. d.i.a. (ora s.c.i.a.) semplice (distinta dalla c.d. super d.i.a., ora s.c.i.a.).
In questo senso, è da considerarsi, appunto, a guisa di semplice pergolato, ossia di mero arredo di uno spazio esterno, non comportante aumento di volumetria o superficie utile, e, quindi, non assoggettato al regime abilitativo del permesso di costruire (o della c.d. super d.i.a., ora s.c.i.a.), un simile manufatto realizzato in struttura leggera facilmente amovibile (siccome privo di fondamenta), che funge da sostegno per piante rampicanti, teli o equivalenti coperture filtranti, il cui aspetto caratteristico risiede nella mancanza di pareti e di copertura impermeabile e che realizza una ombreggiatura di superfici di modeste dimensioni, destinate ad uno del tutto momentaneo.
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1. Con ricorso notificato il 03.10.2013 e depositato il 28.10.2013, Ma.An., Ra.Ca. e Al.An. impugnavano, chiedendone l’annullamento:
   - la d.i.a. del 14.12.2010, prot. n. 11448, presentata da Sa.An. al Comune di Amalfi ed avente per oggetto la realizzazione di una struttura metallica amovibile a sostegno di essenze arboree su un terrazzo a livello presso l’immobile ubicato in Amalfi, località S. Antonio, via ..., e censito in catasto al foglio 9, particelle 71/4 e 166/5;
   - il parere favorevole della Commissione paesaggistica del Comune di Amalfi di cui al verbale di seduta n. 6/3 del 24.02.2011;
   - la nota del Responsabile dell’Ufficio Tecnico comunale di Amalfi prot. n. 2438 del 14.03.2011;
   - la variante del 22.01.2013, prot. n. 645, alla d.i.a. del 14.12.2010, prot. n. 11448;
   - il parere favorevole espresso il 07.03.2013 dalla commissione paesaggistica del Comune di Amalfi; - la nota del Responsabile del Servizio Tutela del Paesaggio del Comune di Amalfi prot. n. 2377 del 20.03.2013;
   - il parere favorevole della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici di Salerno e Avellino prot. n. 10617 del 15.04.2013;
   - l’autorizzazione paesaggistica prot. n. 6278 dell’08.08.2013, rilasciata dal Responsabile del Servizio Tutela del Paesaggio del Comune di Amalfi.
...
12. Parimenti a ripudio delle tesi propugnate da parte ricorrente, la realizzazione di un pergolato in struttura leggera, con copertura filtrante (costituita da essenze arboree secondo il progetto originario e da una ‘incannucciata’ secondo la eseguita variante) e facilmente amovibile –quale, appunto, quello controverso, così come riprodotto nella documentazione grafica e fotografica esibita in giudizio, ritraente e comprovante anche la sua rapida rimozione– non è, all’evidenza, riconducibile alle categorie edilizie della nuova costruzione o della ristrutturazione ‘pesante’, esulanti dal regime abilitativo della c.d. d.i.a. (ora s.c.i.a.) semplice (distinta dalla c.d. super d.i.a., ora s.c.i.a.).
In questo senso, è da considerarsi, appunto, a guisa di semplice pergolato, ossia di mero arredo di uno spazio esterno, non comportante aumento di volumetria o superficie utile, e, quindi, non assoggettato al regime abilitativo del permesso di costruire (o della c.d. super d.i.a., ora s.c.i.a.), un simile manufatto realizzato in struttura leggera facilmente amovibile (siccome privo di fondamenta), che funge da sostegno per piante rampicanti, teli o equivalenti coperture filtranti, il cui aspetto caratteristico risiede nella mancanza di pareti e di copertura impermeabile (cfr. TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 17.11.2010, n. 4638) e che realizza una ombreggiatura di superfici di modeste dimensioni, destinate ad uno del tutto momentaneo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 29.09.2011, n. 5409; sez. VI, 27.04.2015, n. 2134; 08.05.2018, n. 2743; TAR Puglia, Bari, sez. III, 06.02.2009, n. 222; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 17.11.2010, n. 4638; 29.08.2012, n. 1481; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 05.02.2015, n. 908) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 06.12.2018 n. 1761 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIEsclusione per l'appaltatore che non «svincola» l’offerta prima dell'aggiudicazione definitiva
Il vincolo sul mantenimento dell'offerta, per 180 giorni dalla scadenza dei termini per la presentazione, salvo diversa disposizione, non è soggetto a decadenza e l'appaltatore che non intendesse stipulare il contratto deve obbligatoriamente comunicarlo alla stazione appaltante prima del perfezionamento dell'aggiudicazione definitiva.

In questo senso si è espresso il TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 06.12.2018 n. 1556.
Il vincolo temporale sull'offerta
Con il caso sottoposto al giudice pugliese, il ricorrente ha impugna il provvedimento di esclusione –di una gara già aggiudicata- per non aver provveduto al deposito della documentazione richiesta dal responsabile unico al fine di procedere alla stipula del contratto.
Secondo la parte ricorrente, la propria offerta non era da ritenersi più vincolante, in quanto «all'atto dell'aggiudicazione definitiva, risultava scaduto il termine» dei 180 giorni previsto dalla norma contenuta nel comma 4 dell'articolo 32 del codice dei contratti (sempre che non sia stato diversamente stabilito dalla stazione appaltate o diversamente concordato tra le parti) «con conseguente possibilità per l'impresa di esercitare la facoltà di svincolo prevista dal comma 8 del predetto art. 32».
Secondo l'appaltatore la decisione di non stipulare il contratto non doveva essere attribuita a una propria negligenza e/o a propri inadempimenti ma imputabile «esclusivamente ai ritardi della stazione appaltante maturati nella fase di approvazione dell'aggiudicazione definitiva».
L'esigenza dell'annullamento del provvedimento di esclusione, sempre secondo parte ricorrente, è stata fondata sull'interesse «alla tutela della “reputazione” dell'impresa».
La decisione
Il giudice non ha condiviso l'impostazione demolitoria della parte ricorrente. In particolare, il dato significativo in tema è proprio quello contenuto nel comma 4 dell'articolo 32 del codice dei contratti. Il comma infatti dispone che «nelle gare d'appalto l'offerta del concorrente è vincolante per il periodo indicato nel bando e, in caso di mancata indicazione, per 180 giorni decorrenti dalla scadenza del termine per la sua presentazione, salvo che la Stazione appaltante chieda ai concorrenti il differimento di tale termine».
La previsione non configura una ipotesi di decadenza ex lege –come ritenuto dal ricorrente- collegata al semplice decorso del termine dei 180 giorni ma esige che l'appaltatore dichiari (e comunichi tempestivamente alla stazione appaltante) la decisione di “svincolarsi” dagli obblighi connessi alla presentazione dell'offerta prima dell'approvazione dell'aggiudicazione definitiva. Con la logica conseguenza che «se l'offerente non dichiara tempestivamente (alla scadenza del predetto termine di 180 giorni, ma prima dell'approvazione dell'aggiudicazione definitiva) di ritenersi sciolto dall'offerta, la stessa non decade».
Nel caso di specie, la comunicazione in argomento risultava effettuata dopo il perfezionamento dell'aggiudicazione di conseguenza, il rifiuto di produrre la documentazione richiesta e di addivenire alla stipula del contratto ha fondato legittimamente il provvedimento di esclusione. Lo stesso bando di gara indicava chiaramente le conseguenze in caso di rifiuto “imputabile” di procedere con la stipula del contratto.
Del resto, ha concluso il giudice, nel caso di specie non è neppure rinvenibile una lesione degli interessi dell'appaltatore considerato che la stazione appaltante ha provveduto alla esclusione senza gli ulteriori corollari quali la comunicazione all'Anac e l'escussione della cauzione provvisoria (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 21.12.2018).

EDILIZIA PRIVATA: In generale, quanto alla natura del vincolo di inedificabilità previsto dal comma 1, dell’art. 338 cit., la giurisprudenza consolidata di questo Consiglio ha affermato che:
   a) il vincolo cimiteriale determina una situazione di inedificabilità ex lege e integra una limitazione legale della proprietà a carattere assoluto, direttamente incidente sul valore del bene e non suscettibile di deroghe di fatto, tale da configurare in maniera obbiettiva e rispetto alla totalità dei soggetti il regime di appartenenza di una pluralità indifferenziata di immobili che si trovino in un particolare rapporto di vicinanza o contiguità con i suddetti beni pubblici;
   b) il vincolo ha carattere assoluto e non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale;
   c) il vincolo, d’indole conformativa, è sganciato dalle esigenze immediate della pianificazione urbanistica, e rileva di per sé, con efficacia diretta, indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro natura, ad incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti; esso si impone alla pianificazione comunale anche modificandola ex lege, qualora non sia stato espressamente recepito nello strumento urbanistico, e, in ragione della sua natura assoluta esso opera come limite legale, anche nei confronti delle eventuali diverse e contrastanti previsioni degli strumenti urbanistici.
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Numerose sono anche le pronunce che hanno individuato la portata e i limiti delle modifiche apportate all’art. 338 cit. dalla novella del 2002, rispetto alle richieste di privati.
Si è condivisibilmente affermato che:
   a) la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni specificate nell'art. 338, quinto comma, essendo norma eccezionale e di stretta interpretazione non posta a presidio di interessi privati; con la conseguenza che la procedura di riduzione della fascia inedificabile resta attivabile nel solo interesse pubblico, come valutato dal legislatore nell’elencazione delle opere ammissibili;
   b) il procedimento attivabile dai singoli proprietari all'interno della zona di rispetto è soltanto quello finalizzato agli interventi di cui al settimo comma dell’art. 338, (recupero o cambio di destinazione d'uso di edificazioni preesistenti);
   c) che l’art. 338, come modificato nel 2002, prevede deroghe ad iniziativa del Consiglio Comunale, e consente la riduzione, a determinate condizioni, della zona di rispetto per scelta dell’amministrazione:
- per la costruzione di nuovi cimiteri o per l’ampliamento di cimiteri esistenti (comma 4);
- per la costruzione di opere pubbliche o per un intervento urbanistico, ai fini di ampliamento di edifici preesistenti (ragionevolmente fuori dalla fascia o dentro la fascia ma non abusivi, per esempio per essere stati costruiti prima del vincolo) o per la costruzione di nuovi edifici (comma 5).
Sono consentiti, all’interno della zona di rispetto, interventi per edifici esistenti, dentro la fascia (ma non abusivi, per esempio per essere stati costruiti prima del vincolo), cambio di destinazione d’uso ecc. (comma 7).
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Dall’assolutezza del principio generale (comma 1) e dal carattere stringente ed eccezionale delle deroghe (commi 4, 5 e 7), discende la necessità di un’interpretazione altrettanto restrittiva dell’espressione “interventi urbanistici……per la costruzione di nuovi edifici” presente nel comma 5. La tutela dei molteplici interessi pubblici che il vincolo generale presidia impone che i possibili interventi urbanistici ai quali il legislatore ha inteso fare riferimento siano solo quelli pubblici o comunque aventi rilevanza almeno pari a quelli posti a base della fascia di rispetto di duecento metri (cfr. da ultimo Cons. Stato, sez. VI, n. 4018 del 2018, che ha riconosciuto la deroga per un parcheggio pubblico al servizio
del cimitero).
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7.1. In generale, quanto alla natura del vincolo di inedificabilità previsto dal comma 1, dell’art. 338 cit., la giurisprudenza consolidata di questo Consiglio (da ultimo riassunta in Cons. Stato sez. VI, n. 4018 e n. 1164 del 2018; sez. IV, n. 5873 del 2017) ha affermato che:
   a) il vincolo cimiteriale determina una situazione di inedificabilità ex lege e integra una limitazione legale della proprietà a carattere assoluto, direttamente incidente sul valore del bene e non suscettibile di deroghe di fatto, tale da configurare in maniera obbiettiva e rispetto alla totalità dei soggetti il regime di appartenenza di una pluralità indifferenziata di immobili che si trovino in un particolare rapporto di vicinanza o contiguità con i suddetti beni pubblici;
   b) il vincolo ha carattere assoluto e non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale;
   c) il vincolo, d’indole conformativa, è sganciato dalle esigenze immediate della pianificazione urbanistica, e rileva di per sé, con efficacia diretta, indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro natura, ad incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti; esso si impone alla pianificazione comunale anche modificandola ex lege, qualora non sia stato espressamente recepito nello strumento urbanistico, e, in ragione della sua natura assoluta esso opera come limite legale, anche nei confronti delle eventuali diverse e contrastanti previsioni degli strumenti urbanistici.
7.2. Numerose sono anche le pronunce che hanno individuato la portata e i limiti delle modifiche apportate all’art. 338 cit. dalla novella del 2002, rispetto alle richieste di privati (Cons. Stato sez. IV, n. 2407 del 2018; sez. VI, n. 4018 del 2018; sez. IV, n. 4656 del 2017; sez. VI, n. 3667 del 2015; nn. 3410 e 1317 del 2014).
Si è condivisibilmente affermato che:
   a) la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni specificate nell'art. 338, quinto comma, essendo norma eccezionale e di stretta interpretazione non posta a presidio di interessi privati; con la conseguenza che la procedura di riduzione della fascia inedificabile resta attivabile nel solo interesse pubblico, come valutato dal legislatore nell’elencazione delle opere ammissibili;
   b) il procedimento attivabile dai singoli proprietari all'interno della zona di rispetto è soltanto quello finalizzato agli interventi di cui al settimo comma dell’art. 338, (recupero o cambio di destinazione d'uso di edificazioni preesistenti);
   c) che l’art. 338, come modificato nel 2002, prevede deroghe ad iniziativa del Consiglio Comunale, e consente la riduzione, a determinate condizioni, della zona di rispetto per scelta dell’amministrazione:
- per la costruzione di nuovi cimiteri o per l’ampliamento di cimiteri esistenti (comma 4);
- per la costruzione di opere pubbliche o per un intervento urbanistico, ai fini di ampliamento di edifici preesistenti (ragionevolmente fuori dalla fascia o dentro la fascia ma non abusivi, per esempio per essere stati costruiti prima del vincolo) o per la costruzione di nuovi edifici (comma 5).
Sono consentiti, all’interno della zona di rispetto, interventi per edifici esistenti, dentro la fascia (ma non abusivi, per esempio per essere stati costruiti prima del vincolo), cambio di destinazione d’uso ecc. (comma 7).
7.3. Dall’assolutezza del principio generale (comma 1) e dal carattere stringente ed eccezionale delle deroghe (commi 4, 5 e 7), discende la necessità di un’interpretazione altrettanto restrittiva dell’espressione “interventi urbanistici……per la costruzione di nuovi edifici” presente nel comma 5. La tutela dei molteplici interessi pubblici che il vincolo generale presidia impone che i possibili interventi urbanistici ai quali il legislatore ha inteso fare riferimento siano solo quelli pubblici o comunque aventi rilevanza almeno pari a quelli posti a base della fascia di rispetto di duecento metri (cfr. da ultimo Cons. Stato, sez. VI, n. 4018 del 2018, che ha riconosciuto la deroga per un parcheggio pubblico al servizio del cimitero).
7.4. In applicazione dei suddetti principi, l’intervento progettato nella fascia di rispetto di 200 metri e consistente nella realizzazione di una struttura turistico-ricettiva, non rientra tra quelli per i quali l’eccezione è consentita.
Né, per addivenire ad una diversa conclusione, rileva la richiamata giurisprudenza –di per sé non pertinente- in tema di rilascio di concessioni edilizie in deroga, richiamata dal giudice di primo grado per sostenere la sussistenza di un interesse pubblico per gli insediamenti produttivi e le strutture turistico-ricettive.
D’altra parte, con una motivazione adeguata e ragionevole dapprima il parere regionale ha rilevato che quanto progettato risulta ‘incompatibile con il culto dei defunti’ e poi si è constatata l’assenza di un preminente interesse pubblico a realizzarlo, per l’interessamento della ‘quasi totalità della fascia di rispetto cimiteriale, riservata ad ampliamenti’.
8. In conclusione, l’appello incidentale va rigettato e l’appello principale va accolto; per l’effetto, in totale riforma della sentenza gravata, va rigettato il ricorso proposto dinanzi al Tar (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.12.2018 n. 6891 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La specialità del procedimento di condono edilizio rispetto all'ordinario procedimento di rilascio della concessione a edificare e l'assenza di una specifica previsione in ordine alla sua necessità rendono, per il rilascio della concessione in sanatoria, il parere della Commissione edilizia non obbligatorio ma, tutt'al più, facoltativo, al fine di acquisire eventuali informazioni e valutazioni con riguardo a particolari e sporadici casi incerti e complessi, in assenza dei quali il rilascio della concessione in sanatoria è subordinato alla semplice verifica dei presupposti e condizioni espressamente e chiaramente fissati dal legislatore.
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Il titolo abilitativo tacito può formarsi, per effetto del silenzio-assenso, soltanto se la domanda di sanatoria presentata possiede i requisiti soggettivi e oggettivi per essere accolta, in quanto la mancanza di taluno di questi impedisce in radice che possa avviarsi il procedimento di sanatoria, in cui il decorso del tempo è mero co-elemento costitutivo della fattispecie autorizzativa.
Affinché si abbia il silenzio-assenso, occorre, cioè, che il procedimento sia stato avviato da un'istanza conforme al modello legale previsto dalla norma che regola il procedimento di condono.
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2. Venendo all’esame dell’ultimo profilo di ricorso, relativo alla mancanza del parere della commissione edilizia comunale sulla domanda di condono, esso è infondato.
Quanto alla censura relativa alla mancanza del parere della Commissione edilizia, va ribadito il consolidato orientamento, secondo il quale, <<La specialità del procedimento di condono edilizio rispetto all'ordinario procedimento di rilascio della concessione a edificare e l'assenza di una specifica previsione in ordine alla sua necessità rendono, per il rilascio della concessione in sanatoria, il parere della Commissione edilizia non obbligatorio ma, tutt'al più, facoltativo, al fine di acquisire eventuali informazioni e valutazioni con riguardo a particolari e sporadici casi incerti e complessi, in assenza dei quali il rilascio della concessione in sanatoria è subordinato alla semplice verifica dei presupposti e condizioni espressamente e chiaramente fissati dal legislatore>> (CdS, IV, n. 5619 del 2012; Cons. Stato, IV, 05/05/2017 n. 2071).
...
6. Il quarto motivo di ricorso è infondato in quanto la giurisprudenza ha chiarito che il titolo abilitativo tacito può formarsi, per effetto del silenzio-assenso, soltanto se la domanda di sanatoria presentata possiede i requisiti soggettivi e oggettivi per essere accolta, in quanto la mancanza di taluno di questi impedisce in radice che possa avviarsi il procedimento di sanatoria, in cui il decorso del tempo è mero co-elemento costitutivo della fattispecie autorizzativa: affinché si abbia il silenzio-assenso, occorre, cioè, che il procedimento sia stato avviato da un'istanza conforme al modello legale previsto dalla norma che regola il procedimento di condono (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 01.09.2018 n. 9115).
Nel caso in questione, poiché non è stata data piena prova da parte dei ricorrenti dell’esistenza della tettoia alla data utile per ottenere il condono, non si è formato il silenzio-assenso (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 05.12.2018 n. 2735 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo l’orientamento consolidato, in presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi ulteriori ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla quale ineriscono strutturalmente, con conseguente obbligo del Comune di ordinarne la demolizione.
Non è possibile quindi desumere dalla presunta attività di manutenzione, evidentemente illecita, la preesistenza delle opere nella stessa consistenza e funzionalità. Né a tale risultato può giungersi valutando parti accessorie di tali opere in quanto il bene oggetto di condono deve sussistere nella sua completezza.
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La mancanza dell’opera al momento del rilascio del condono non può essere sostituita con dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà le quali, se possono costituire elementi di prova necessariamente concorrenti con altri al fine di stabilire la data di realizzazione delle opere, non possono evidentemente supplire all’esistenza stessa delle opere, senza le quali il condono non può essere rilasciato.
Per costante giurisprudenza, in ogni caso, l’onere della prova circa l’ultimazione dei lavori entro la data utile per ottenere il condono grava sul richiedente la sanatoria, dal momento che solo l’interessato può fornire inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione di un manufatto e, in difetto di tali prove, resta integro il potere dell’Amministrazione di negare la sanatoria dell’abuso; sicché la circostanza che non sia stata data compiuta dimostrazione delle caratteristiche della tettoia prima del suo (asserito) temporaneo smontaggio
rivela un ulteriore profilo ostativo al condono.
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4. Il quinto profilo di ricorso è infondato in quanto non è necessario un nuovo preavviso di rigetto del ricorso quando l’amministrazione, valutando le memorie presentate dai partecipanti al procedimento, abbia emanato un provvedimento finale che si distacchi in tutto o in parte dai motivi del preavviso di rigetto, salvo il caso di fatti del tutto nuovi.
Nel caso di specie infatti il Comune ha sempre sostenuto che non esiste prova certa dell’esistenza delle opere al momento del condono. Rispetto a tale fatto la specificazione del preavviso di rigetto secondo la quale "la tettoia... non esisteva" al momento del sopralluogo e quella del provvedimento finale, secondo il quale la tettoia sarebbe stata realizzata dopo il 31.03.2003, non cambia la natura dell’accertamento e cioè che non c’era prova certa che l’opera esistesse alla data a tal fine prescritta dalla legge sul condono.
5. Prima di analizzare il quarto profilo di ricorso, relativo alla formazione del silenzio assenso, occorre analizzare i profili precedenti, relativi alla prova dell’esistenza della tettoia.
In merito all’inesistenza della tettoia al momento degli accertamenti non sussiste dubbio alcuno in quanto i ricorrenti sostengono che essa era stata smontata per lavori di manutenzione.
In merito occorre rammentare l’orientamento consolidato secondo il quale, in presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi ulteriori ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla quale ineriscono strutturalmente, con conseguente obbligo del Comune di ordinarne la demolizione (ex multis Tar Bari, (Puglia), sez. III, 03/04/2018, n. 496; Tar Napoli, (Campania), sez. VI, 05/03/2018, n. 1407).
Non è possibile quindi desumere dalla presunta attività di manutenzione, evidentemente illecita, la preesistenza delle opere nella stessa consistenza e funzionalità. Né a tale risultato può giungersi valutando parti accessorie di tali opere in quanto il bene oggetto di condono deve sussistere nella sua completezza.
La mancanza dell’opera al momento del rilascio del condono non può a sua volta essere sostituita con dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà le quali, se possono costituire elementi di prova necessariamente concorrenti con altri al fine di stabilire la data di realizzazione delle opere, non possono evidentemente supplire all’esistenza stessa delle opere, senza le quali il condono non può essere rilasciato.
Per costante giurisprudenza, in ogni caso, l’onere della prova circa l’ultimazione dei lavori entro la data utile per ottenere il condono grava sul richiedente la sanatoria, dal momento che solo l’interessato può fornire inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione di un manufatto e, in difetto di tali prove, resta integro il potere dell’Amministrazione di negare la sanatoria dell’abuso (v., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 22.03.2018 n. 1837); sicché la circostanza che non sia stata data compiuta dimostrazione delle caratteristiche della tettoia prima del suo (asserito) temporaneo smontaggio rivela un ulteriore profilo ostativo al condono.
A ciò si aggiunge che non era stata depositata la documentazione fotografica richiesta dall'art. 32, comma 35, lettera a), del D.L. 30.09.2003, n. 269, convertito con modificazioni dalla legge 30.09.2003, n. 326 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 05.12.2018 n. 2735 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGONiente rimborso delle spese legali al dipendente se non ha condiviso con l’Ente la nomina dell'avvocato.
Nel rapporto di lavoro alle dipendenze di un'amministrazione pubblica, l'ente datore di lavoro non è tenuto a rimborsare le spese legali sostenute dal dipendente per la difesa nel processo penale per addebiti relativi alla attività svolta, se non vi è stata alcuna condivisione nella scelta del legale. La norma sul patrocinio legale opera, infatti, previa valutazione da parte dell'ente dell'assenza di possibili conflitti di interessi con il dipendente.
Ad affermarlo è la Sez. lavoro della Corte di Cassazione con la sentenza 04.12.2018 n. 31324, che rimarca così la necessità di concordare la nomina di un avvocato che sia di comune gradimento.
Il caso
Protagonista della vicenda è un uomo, all'epoca dei fatti dirigente di un Comune siciliano, il quale veniva tratto a giudizio per rispondere di alcune violazioni della normativa in tema di adozione di misure di sicurezza relative all'impianto elettrico di una scuola, procedimento penale poi concluso con l'estinzione per prescrizione dei reati omissivi contravvenzionali contestati. In seguito, poiché si trattava di fatti connessi all'espletamento del proprio incarico, il dipendente pubblico chiedeva all'ente locale il rimborso delle spese legali sostenute per il giudizio penale.
Tuttavia, il Comune rispondeva negativamente in quanto il dirigente aveva omesso di comunicare all'amministrazione il procedimento a suo carico e non aveva coinvolto l'ente nella scelta del difensore, come invece previsto dall'articolo 28 del contratto 14.09.2000 applicabile al comparto Regioni e Autonomie locali.
La decisione
Dopo un doppio verdetto di merito sfavorevole al dipendente pubblico, la questione è arrivata in Cassazione dove l'attenzione dei giudici di legittimità si concentra sulla corretta interpretazione dell'articolo 28 del contratto del 2000, relativo al patrocinio legale, in base al quale l'ente assume la difesa del dipendente nei procedimenti per fatti o atti direttamente connessi all'espletamento del servizio e all'adempimento dei compiti d'ufficio. Ciò avviene però «a condizione che non sussista conflitto di interessi» e «facendo assistere il dipendente da un legale di comune gradimento».
La Corte ha ricordato come da questa disposizione non derivi un «diritto incondizionato ed assoluto al rimborso, da parte dell'amministrazione pubblica, delle spese necessarie per assicurare la difesa legale». L'obbligo dell'ente datore di lavoro non può cioè ritenersi sussistente nel caso in cui il dipendente «abbia unilateralmente provveduto alla scelta e alla nomina del legale di fiducia, senza la previa comunicazione all'amministrazione stessa», o quando si sia soltanto limitato a comunicare la scelta.
Difatti, la ratio della disposizione, chiosa il Collegio, è da rinvenirsi nell'esigenza «di consentire all'ente pubblico di valutare preventivamente l'assenza di un possibile conflitto d'interesse con il dipendente sottoposto a giudizio, la cui presenza determina, in re ipsa, un impedimento all'assunzione di un difensore di comune gradimento» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.12.2018).
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MASSIMA
Il terzo motivo è altresì infondato.
In materia di oneri di assistenza legale in conseguenza di fatti commessi in ragione dell'espletamento del servizio e dell'adempimento di obblighi di ufficio da parte del pubblico dipendente, questa Corte (Cass. n. 25976 del 2017), ha formulato il principio di diritto secondo cui
deve essere escluso che in capo al dipendente sussista un diritto incondizionato ed assoluto al rimborso, da parte dell'amministrazione pubblica, delle spese necessarie per assicurare la difesa legale, ciò in ragione della specificità e della diversità delle normative del settore del lavoro pubblico.
Venendo, dunque, alla disciplina prevista dall'art. 28 del c.c.n.l. 14.09.2000 per i dipendenti del comparto delle Regioni e delle Autonomie locali, la stessa va interpretata nel senso che
l'obbligo del datore di lavoro avente a oggetto l'assunzione diretta degli oneri di difesa fin dall'inizio del procedimento, con la nomina di un difensore di comune gradimento, non può ritenersi sussistente qualora il dipendente abbia unilateralmente provveduto alla scelta e alla nomina del legale di fiducia, senza la previa comunicazione all'amministrazione stessa, o qualora, si sia limitato a comunicare all'ente la nomina già effettuata.
La Corte territoriale ha accertato in fatto che nel giudizio di merito era rimasto incontestato che il Ma. non avesse rivolto alcuna richiesta di autorizzazione al Comune, e aveva pertanto correttamente ritenuto irrilevante la circostanza che l'Ente fosse a conoscenza della contravvenzione, per aver disposto il pagamento della relativa ammenda.
La Corte territoriale ha attuato fedelmente l'orientamento di questa Corte, rispetto al quale l'odierno ricorrente non aggiunge alcun elemento che debba indurre a discostarsene. Di esso va, in definitiva confermata in questa sede la ratio ispiratrice, mossa dall'esigenza di consentire all'Ente pubblico di valutare preventivamente l'assenza di un possibile conflitto d'interesse con il dipendente sottoposto a giudizio, la cui presenza determina, in re ipsa, un impedimento all'assunzione di un difensore di comune gradimento.

PUBBLICO IMPIEGO: In materia di oneri di assistenza legale in conseguenza di fatti commessi in ragione dell'espletamento del servizio e dell'adempimento di obblighi di ufficio da parte del pubblico dipendente, questa Corte, ha formulato il principio di diritto secondo cui deve essere escluso che in capo al dipendente sussista un diritto incondizionato ed assoluto al rimborso, da parte dell'amministrazione pubblica, delle spese necessarie per assicurare la difesa legale, ciò in ragione della specificità e della diversità delle normative del settore del lavoro pubblico.
Venendo alla disciplina prevista dall'art. 28 del c.c.n.l. 14.09.2000 per i dipendenti del comparto delle Regioni e delle Autonomie locali, la stessa va interpretata nel senso che l'obbligo del datore di lavoro avente a oggetto l'assunzione diretta degli oneri di difesa fin dall'inizio del procedimento, con la nomina di un difensore di comune gradimento, non può ritenersi sussistente qualora il dipendente abbia unilateralmente provveduto alla scelta e alla nomina del legale di fiducia, senza la previa comunicazione all'amministrazione stessa, o qualora, si sia limitato a comunicare all'ente la nomina già effettuata.
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Il terzo motivo è altresì infondato.
In materia di oneri di assistenza legale in conseguenza di fatti commessi in ragione dell'espletamento del servizio e dell'adempimento di obblighi di ufficio da parte del pubblico dipendente, questa Corte (Cass. n. 25976 del 2017), ha formulato il principio di diritto secondo cui deve essere escluso che in capo al dipendente sussista un diritto incondizionato ed assoluto al rimborso, da parte dell'amministrazione pubblica, delle spese necessarie per assicurare la difesa legale, ciò in ragione della specificità e della diversità delle normative del settore del lavoro pubblico.
Venendo, dunque, alla disciplina prevista dall'art. 28 del c.c.n.l. 14.09.2000 per i dipendenti del comparto delle Regioni e delle Autonomie locali, la stessa va interpretata nel senso che l'obbligo del datore di lavoro avente a oggetto l'assunzione diretta degli oneri di difesa fin dall'inizio del procedimento, con la nomina di un difensore di comune gradimento, non può ritenersi sussistente qualora il dipendente abbia unilateralmente provveduto alla scelta e alla nomina del legale di fiducia, senza la previa comunicazione all'amministrazione stessa, o qualora, si sia limitato a comunicare all'ente la nomina già effettuata.
La Corte territoriale ha accertato in fatto che nel giudizio di merito era rimasto incontestato che il Ma. non avesse rivolto alcuna richiesta di autorizzazione al Comune, e aveva pertanto correttamente ritenuto irrilevante la circostanza che l'Ente fosse a conoscenza della contravvenzione, per aver disposto il pagamento della relativa ammenda.
La Corte territoriale ha attuato fedelmente l'orientamento di questa Corte, rispetto al quale l'odierno ricorrente non aggiunge alcun elemento che debba indurre a discostarsene.
Di esso va, in definitiva confermata in questa sede la ratio ispiratrice, mossa dall'esigenza di consentire all'Ente pubblico di valutare preventivamente l'assenza di un possibile conflitto d'interesse con il dipendente sottoposto a giudizio, la cui presenza determina, in re ipsa, un impedimento all'assunzione di un difensore di comune gradimento (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 04.12.2018 n. 31324).

APPALTI: Differenza tra sub-appalto e sub-fornitura.
Mentre il sub-appaltatore assume di eseguire in tutto o in parte una prestazione dell'appaltatore a diretto beneficio del committente, il sub-fornitore si impegna a porre nella disponibilità dell'appaltatore un certo bene da inserire nella produzione dell’appaltatore.
Si deve ricordare che:
   - con il sub-appalto di cui all'art. 105, comma 2, del D.Lgs. 18.04.2016 n. 50 (sulla scia della fattispecie di cui all'art. 1676 e segg. c.c.), l’appaltatore trasferisce a terzi l'esecuzione direttamente a favore della stazione appaltante di una parte delle prestazioni negoziali, configurando così un vero e proprio contratto–derivato di carattere trilaterale;
   - al contrario, il contratto di sub-fornitura è una forma non paritetica di cooperazione imprenditoriale nella quale il ruolo del sub-fornitore (es. componentistica di beni complessi) si palesa solo sul piano interno del rapporto commerciale e di mercato tre le due imprese. In tale fattispecie il requisito della “conformità a progetti esecutivi, conoscenze tecniche e tecnologiche, dell'impresa committente", di cui all'art. 1 della legge 18.06.1998, n. 192, comporta l'inserimento del subfornitore nel processo produttivo proprio del committente.
In sostanza, mentre il sub-appaltatore assume di eseguire in tutto o in parte una prestazione dell'appaltatore (art. 1655 e ss. c.c.) a diretto beneficio del committente, il sub-fornitore si impegna a porre nella disponibilità dell'appaltatore un certo bene da inserire nella produzione dell’appaltatore, per cui il relativo rapporto rileva esclusivamente sotto il profilo privatistico dei rapporti bilaterali di carattere commerciale fra le aziende.
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1.§.3. L’assunto complessivo va respinto.
In primo luogo, certamente l’oggetto dell’appalto può essere ricostruito in termini di contratto misto, in quanto è costituito da una componente di fornitura di beni (i cd. kit e i cosiddetti test)), e da una certa componente di servizi (es. i trasporti dei campioni).
Tuttavia, da tale premessa non scaturisce la conclusione per cui nel caso dovrebbe essere prevalente la normativa sui servizi, come vorrebbe l’appellante.
Sotto un primo profilo, relativo al principio di “prevalenza economica” di cui all’art. 28, primo comma, secondo periodo del d.lgs. n. 50/2016, si osserva che l’IT. appellante indica le voci complessive che, a suo dire, farebbero parte della componente servizi, ma non dimostra che le prestazioni dei predetti servizi del contratto in esame superassero realmente il valore relativo dei beni ricompresi nella fornitura.
L’appellante infatti valuta unitariamente il costo dei test previsti dalle righe 3, 4, 9 e 10 degli allegati 3 (Modello offerta economica senza prezzi) e 4 (Modello offerta economica) alla lettera di invito (doc. 4) (Lal test, Steritest e test di sterilità), senza tener conto della presenza indubbia della rilevanza della componente dei “materiali di consumo” (contenitori, provette, flaconi, siringhe, soluzioni fisiologiche e altro (cfr. doc. n. 8 offerta B.S.N.).
In tale direzione manca la prova che il valore dei test -depurato della componente fornitura (che andava cioè a remunerare i materiali) e la parte di servizi eseguita direttamente dall’aggiudicataria- superasse sicuramente il ricordato limite del 30%.
In secondo luogo è risolvente la considerazione per cui, in base al principio di “prevalenza funzionale” di cui all’art. 28, primo comma, primo periodo del d.lgs. n. 50/2016, ai fini della “
fornitura di quanto necessario al controllo lavorazioni in asepsi”, l’eventuale componente servizi connessa ai cd. test di verifica assumeva una caratterizzazione del tutto strumentale ed accessoria del contratto, che costituiva il reale fine della fornitura (come esattamente ricordato dall’Azienda ULSS 3 Serenissima). Per questo non vi sono dubbi che il regime giuridico del contratto fosse in ogni caso attratto dalla disciplina delle forniture.
Sotto altro profilo non si trattava affatto di un subappalto necessario, perché l’It.Te. s.r.l. possedeva tale accreditamento AIFA che era richiesto dal bando il quale, come confermato dall’ULSS 3 nei chiarimenti, era equipollente allo svolgimento delle prove microbiologiche (ma sul punto vedi anche infra).
Dunque ha ragione il Tar quando afferma che “...la procedura negoziata aveva per oggetto prevalentemente la fornitura di beni (cd. Kit): anche i cd. test erano considerati dalla lex specialis alla stregua di un bene, attesa la prevalenza della componente materiale (provette, flaconi, siringhe, soluzioni fisiologiche e altri materiali di consumo) rispetto alla componente diagnostica".
E che in sostanza “… la prestazione prevalente era la fornitura di beni, sicché l’appalto va qualificato come avente ad oggetto la fornitura di beni. …”.
In tale direzione, in base al contenuto del contratto di fornitura deve escludersi che possa comunque configurarsi un subappalto di servizi o di forniture, essendo evidente la presenza di un rapporto di sub-fornitura. In tale prospettiva si deve infatti ricordare che:
   - con il subappalto di cui all'art. 105, comma 2, del D.Lgs. 18.04.2016 n. 50 (sulla scia della fattispecie di cui all'art. 1676 e segg. c.c.), l’appaltatore trasferisce a terzi l'esecuzione direttamente a favore della stazione appaltante di una parte delle prestazioni negoziali, configurando così un vero e proprio contratto–derivato di carattere trilaterale;
   - al contrario, il contratto di sub-fornitura è una forma non paritetica di cooperazione imprenditoriale nella quale il ruolo del sub-fornitore (es. componentistica di beni complessi) si palesa solo sul piano interno del rapporto commerciale e di mercato tre le due imprese. In tale fattispecie il requisito della “conformità a progetti esecutivi, conoscenze tecniche e tecnologiche, dell'impresa committente", di cui all'art. 1 della legge 18.06.1998, n. 192, comporta l'inserimento del sub-fornitore nel processo produttivo proprio del committente (cfr. Cassazione civile, sez. III, 25/08/2014, n. 18186).
In sostanza, mentre il sub-appaltatore assume di eseguire in tutto o in parte una prestazione dell'appaltatore (art. 1655 e ss. c.c.) a diretto beneficio del committente, il sub-fornitore si impegna a porre nella disponibilità dell'appaltatore un certo bene da inserire nella produzione dell’appaltatore, per cui il relativo rapporto rileva esclusivamente sotto il profilo privatistico dei rapporti bilaterali di carattere commerciale fra le aziende (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 30.11.2018 n. 6822 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Il piano particolareggiato, al quale deve assimilarsi il Piano Insediamenti Produttivi, una volta decaduto per scadenza dei termini, diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione e residua, a tempo indeterminato, il solo obbligo di osservare nelle nuove costruzioni gli allineamenti e le prescrizioni di zona dello stesso, sicché alla cessata efficacia delle norme del piano attuativo consegue la decadenza dei vincoli espropriativi di zona, con riespansione dello “ius aedificandi” secondo le previsioni dettate dal vigente strumento urbanistico, rimanendo fermi a tempo indeterminato soltanto gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso.
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Stante l’incontestata decadenza, nella specie, delle previsioni del P.I.P. precedentemente adottato, riprende quindi pienamente vigore la disciplina urbanistica di zona, dettata dallo strumento urbanistico generale, che nella specie per l’appunto prevede come necessario il piano esecutivo (non venendo evidentemente in discussione una mera questione di osservanza degli allineamenti o delle prescrizioni di zona, vale a dire gli unici parametri, fatti salvi dalla normativa in materia).
In sostanza, non può essere condivisa la pretesa, di parte ricorrente, di bypassare la norma delle N.T.A. del P.R.G. vigente, che prevede la necessità dello strumento attuativo, con la connessa impossibilità di rilascio diretto del permesso di costruire; né è condivisibile che “le previsioni di uno strumento attuativo (anche se non più eseguibile, per il decorso del tempo)”, avrebbero “comunque stabilmente determinato l’assetto definitivo e di dettaglio della parte del territorio interessato”, con la conseguenza che su tale assetto non potrebbero “incidere le previsioni di carattere programmatorio” (sc. delle N.T.A. del P.R.G.).
Il Tribunale ritiene cioè che non possa, nella specie, prescindersi dal piano indirizzo giurisprudenziale, secondo il quale: “Ai sensi dell’art. 27, commi 3–5, l. 22.10.1971 n. 865, nel caso di scadenza dell’efficacia del piano per gli insediamenti produttivi vengono meno le relative previsioni urbanistiche e sorge per l’Amministrazione l’obbligo di ripianificazione dell’area, sicché le opere, previste dal medesimo piano e non più attuabili, non possono essere realizzate ad iniziativa del proprietario dell’area ovvero con l’accoglimento di una proposta di lottizzazione”.
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Il quarto profilo della prima doglianza, sopra riportato sub D), è smentito dall’orientamento giurisprudenziale prevalente, compendiato, da ultimo, nella seguente decisione della Sezione: “Il piano particolareggiato, al quale deve assimilarsi il Piano Insediamenti Produttivi, una volta decaduto per scadenza dei termini, diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione e residua, a tempo indeterminato, il solo obbligo di osservare nelle nuove costruzioni gli allineamenti e le prescrizioni di zona dello stesso, sicché alla cessata efficacia delle norme del piano attuativo consegue la decadenza dei vincoli espropriativi di zona, con riespansione dello “ius aedificandi” secondo le previsioni dettate dal vigente strumento urbanistico, rimanendo fermi a tempo indeterminato soltanto gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso” (TAR Campania–Salerno, Sez. II, 19/02/2014, n. 410).
Stante l’incontestata decadenza, nella specie, delle previsioni del P.I.P. precedentemente adottato, riprende quindi pienamente vigore la disciplina urbanistica di zona, dettata dallo strumento urbanistico generale, che nella specie per l’appunto prevede come necessario il piano esecutivo (non venendo evidentemente in discussione una mera questione di osservanza degli allineamenti o delle prescrizioni di zona, vale a dire gli unici parametri, fatti salvi dalla normativa in materia).
In sostanza, non può essere condivisa la pretesa, di parte ricorrente, di bypassare la norma delle N.T.A. del P.R.G. vigente, che prevede la necessità dello strumento attuativo, con la connessa impossibilità di rilascio diretto del permesso di costruire; né è condivisibile che “le previsioni di uno strumento attuativo (anche se non più eseguibile, per il decorso del tempo)”, avrebbero “comunque stabilmente determinato l’assetto definitivo e di dettaglio della parte del territorio interessato”, con la conseguenza che su tale assetto non potrebbero “incidere le previsioni di carattere programmatorio” (sc. delle N.T.A. del P.R.G.).
Il Tribunale, melius re perpensa (rispetto alla decisione, assunta in sede cautelare nell’assenza della non ancora costituita Amministrazione resistente), ritiene cioè che non possa, nella specie, prescindersi dal piano indirizzo giurisprudenziale, secondo il quale: “Ai sensi dell’art. 27, commi 3–5, l. 22.10.1971 n. 865, nel caso di scadenza dell’efficacia del piano per gli insediamenti produttivi vengono meno le relative previsioni urbanistiche e sorge per l’Amministrazione l’obbligo di ripianificazione dell’area, sicché le opere, previste dal medesimo piano e non più attuabili, non possono essere realizzate ad iniziativa del proprietario dell’area ovvero con l’accoglimento di una proposta di lottizzazione” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 18/12/2008, n. 6377).
Ne consegue che, come osservato anche dalla difesa dell’Amministrazione, nella specie la motivazione a fondamento dell’impugnato diniego è sufficientemente, sia pur sinteticamente, espressa, mediante il riferimento alla vigente norma attuativa del P.R.G. che richiede la previa approvazione di uno strumento di dettaglio, nella forma di un (nuovo) piano per gli insediamenti produttivi (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 30.11.2018 n. 1747 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Commercio ambulante - Svolgimento non autorizzato di attività di trasporto di rifiuti - Applicabilità del regime derogatorio ex art. 266 T.U.A. - Limiti - Fattispecie - Artt. 189, 190, 193, 212, 256, 266 d.lgs. n. 152/2006 - Giurisprudenza.
In tema di rifiuti, per l'applicabilità della deroga di cui all'art. 266, comma 5, del D.Lgs. n. 152/2006, occorre non solo che l'agente sia in possesso del titolo abilitativo previsto per il commercio ambulante dal D.Lgs. 31.03.1998, n. 114, ma anche che si tratti di rifiuti che formano oggetto del suo commercio ma non riconducibili, per le loro peculiarità, a categorie autonomamente disciplinate (Sez. 3, n. 34917 del 09/07/2015 - dep. 17/08/2015, Pmt in proc. Caccamo; Sez. 3, n. 269 del 10/12/2014 - dep. 08/01/2015, P.M. in proc. Seferovic).
Nella specie, è stata esclusa la configurabilità dell'invocato regime derogatorio di cui all'art. 266, comma 1, n. 5, d.lgs. n. 152 del 2006, a tenore del quale "le disposizioni di cui agli articoli 189, 190, 193 e 212 non si applicano alle attività di raccolta e trasporto di rifiuti effettuate dai soggetti abilitati allo svolgimento delle attività medesime in forma ambulante, limitatamente ai rifiuti che formano oggetto del loro commercio
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.11.2018 n. 53683 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Insediamento produttivo di recupero di rifiuti - Sequestro preventivo dell'area adibita a deposito - Terreno attiguo censito quale "seminativo arboreo" - Art. 256 d.lgs. n. 152/2006.
Sussiste il presupposto del fumus in relazione all'incolpazione provvisoria di cui all'art. 256, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 152 del 2006 (capo 2), con riferimento al deposito su terreno sterrato, privo di pavimentazione e separazione delle acque, attiguo all'insediamento produttivo di recupero di rifiuti, terreno censito quale "seminativo arboreo", non pericolosi codice CER 170405 (ferro e acciaio) e altri rifiuti codice CER 160214 (motori elettrici, apparecchiature fuori uso) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.11.2018 n. 53670 - link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGONessuna mansione superiore al comandante della Polizia locale non dirigente.
In un ente che abbia istituito la dirigenza, coincidente con il ruolo di massima dimensione dell'ente, è legittimo il regolamento degli uffici e servizi che “individui” il comandante della polizia locale quale funzionario con attribuzione della posizione organizzativa. In questa struttura organizzativa, le attività amministrative svolte dal comandante, pur potendo coincidere con quanto previsto dall'articolo 107 del testo unico e pur rispondendo in via diretta al sindaco, non lo abilitano a richiedere eventuali differenze retributive per le mansioni superiori svolte.

Sono le conclusioni alle quali è pervenuta la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, ordinanza 28.11.2018 n. 30809.
L'organizzazione del corpo di polizia locale
Il regolamento di organizzazione di un ente locale aveva costituito il corpo della polizia municipale non come area funzionale, al vertice della quale sono stati preposti i dirigenti, ma come settore comprendente servizi non affidati ai dirigenti, con l'istituzione di un'apposita posizione organizzativa. Al comandante, pertanto, l'amministrazione ha riconosciuto, per valorizzare il ruolo rivestito, la posizione organizzativa con retribuzione di posizione e di risultato.
Le rivendicazioni economiche del comandante
In considerazione della differenza riconosciuta nel regolamento comunale, rispetto alle identiche e sovrapponibili funzioni amministrative svolte dal comandante della polizia locale con quelle degli altri dirigenti dell'ente, il comandante ha chiesto al giudice del lavoro il riconoscimento delle mansioni superiori secondo l'articolo 52 del Dlgs 165/2001.
La richiesta si basa su due considerazioni e cioè, le attività amministrative svolte rientrano a pieno titolo nelle indicazioni previste dall'articolo 107 del Dlgs 165/2001 al pari degli altri dirigenti, le mansioni superiori vengono riconosciute in astratto a chiunque abbia svolto mansioni anche di poco superiori, nell'ambito dello stesso livello contrattuale, non potendole negare a chi ha avuto compiti di maggiore rilievo pur avendo un altro profilo professionale oltre a rispondere in via diretta al sindaco.
La decisione della Cassazione
In via preliminare, precisano i giudici di Piazza Cavour, il fatto che il corpo della polizia municipale, al quale era preposto il ricorrente con funzioni di comandante, sia stato posto alle dirette dipendenze del sindaco non muta la natura delle funzioni e non vale a qualificarle come dirigenziali.
Quanto stabilito dal regolamento del Comune, che ha costituito il corpo della polizia locale non come area funzionale, al vertice della quale erano preposti dirigenti, ma come settore comprendente servizi non affidati ai dirigenti, risulta coerente con l'attribuzione di una specifica posizione organizzativa alla quale erano correlate le indennità economiche previste dalla contrattazione collettiva. Il fatto che siano state corrisposte dette indennità esclude la violazione del principio di giusta retribuzione (articolo 36 della costituzione).
In altri termini, la corte di appello non ha negato, le mansioni di natura dirigenziale svolte dal ricorrente, ma ha stabilito che queste mansioni erano proprie del livello di inquadramento del comandante, come normalmente accade negli enti privi di dirigenza (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.12.2018).

EDILIZIA PRIVATA: La diversa distribuzione degli ambienti interni mediante eliminazione e spostamenti di tramezzature, purché non interessi le parti strutturali dell'edificio, costituisce attività di manutenzione straordinaria soggetta al semplice regime della comunicazione di inizio lavori, originariamente in forza dell'art. 6, comma 2, ed ora dell'art. 6-bis del d.p.r. n. 380/2001, che disciplina gli interventi subordinati a c.i.l.a.
In tali ipotesi, pertanto, l'omessa comunicazione non può giustificare l'irrogazione della sanzione demolitoria che presuppone il dato formale della realizzazione dell'opera senza il prescritto titolo abilitativo.
Quando invece questo stesso intervento interessi parti strutturali del fabbricato, ai sensi dell'art. 22, comma 1, lett. a), del d.p.r. n. 380/2001, la disciplina applicabile è quella della segnalazione certificata di inizio attività, la cui mancanza comporta, parimenti, l'irrogazione della sola sanzione pecuniaria;
  
Sono pienamente riconducibili alla tipologia di opere proprie della manutenzione straordinaria, quelle opere che senza modificare la destinazione d'uso già in corso e senza intaccare la struttura portante dell'edificio, abbiano comportato semplicemente una parziale differente distribuzione degli spazi interni relativi ai singoli locali in vista di una loro parziale rinnovazione anche di tipo tecnologico.

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Nella fattispecie, considerata la natura degli interventi dei quali con il provvedimento impugnato se ne contesta la realizzazione, appare quanto mai evidente che non era applicabile l’applicabile la normativa di cui all’art. 31 del d.P.R. 380/2001 con il connesso apparato sanzionatorio.
L’impostazione privilegiata dal Collegio trova il conforto della giurisprudenza, in proposito rilevandosi che:
  
<<La diversa distribuzione degli ambienti interni mediante eliminazione e spostamenti di tramezzature, purché non interessi le parti strutturali dell'edificio, costituisce attività di manutenzione straordinaria soggetta al semplice regime della comunicazione di inizio lavori, originariamente in forza dell'art. 6, comma 2, ed ora dell'art. 6-bis del d.p.r. n. 380/2001, che disciplina gli interventi subordinati a c.i.l.a. In tali ipotesi, pertanto, l'omessa comunicazione non può giustificare l'irrogazione della sanzione demolitoria che presuppone il dato formale della realizzazione dell'opera senza il prescritto titolo abilitativo. Quando invece questo stesso intervento interessi parti strutturali del fabbricato, ai sensi dell'art. 22, comma 1, lett. a), del d.p.r. n. 380/2001, la disciplina applicabile è quella della segnalazione certificata di inizio attività, la cui mancanza comporta, parimenti, l'irrogazione della sola sanzione pecuniaria>> TAR Napoli, (Campania), sez. II, 22/08/2017, n. 4098), ovvero, ancora:
  
<<Sono pienamente riconducibili alla tipologia di opere proprie della manutenzione straordinaria, quelle opere che senza modificare la destinazione d'uso già in corso e senza intaccare la struttura portante dell'edificio, abbiano comportato semplicemente una parziale differente distribuzione degli spazi interni relativi ai singoli locali in vista di una loro parziale rinnovazione anche di tipo tecnologico>> (Consiglio di Stato sez. V, 19/07/2005, n. 3827 ed, in generale, sulla nozione di manutenzione straordinaria, (cfr., ex multis, TAR Campania, Napoli, Sez. VII, 10.10.2016 n. 4650; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 04.08.2016 n. 1561, ivi; Cons. Stato, Sez. V, 14.04.2016 n. 1510, ivi; Id., Sez. V, 05.09.2014 n. 4523) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 28.11.2018 n. 6898 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTINiente soccorso istruttorio se manca la documentazione amministrativa dell'offerente.
Il TAR Veneto, Sez. III, con la sentenza 28.11.2018 n. 1092, ha chiarito che l'appaltatore che non ha allegato la propria domanda di partecipazione (né i documenti amministrativi correlati) deve essere escluso dalla procedura di gara non potendo la stazione appaltante legittimamente azionare il soccorso istruttorio integrativo (comma 9 dell'articolo 83 del codice) a pena dell'alterazione della par condicio tra i competitori.
Il fatto
Il giudice è stato chiamato ad affrontare una situazione particolare di una gara da aggiudicarsi in 5 lotti relativa alla procedura aperta telematica, «per l'affidamento del servizio di lavanolo biancheria, materasserie, capi di vestiario per le aziende sanitarie della regione Veneto». La particolarità è stata determinata dalla circostanza che il ricorrente ha partecipato a 4 dei 5 lotti singolarmente mentre a uno dei lotti, il n. 3, ha voluto partecipare in associazione temporanea d'impresa.
Nel caricare sulla piattaforma telematica la domanda di partecipazione al lotto n. 3, il ricorrente ha inserito la stessa documentazione (in questo caso parziale e carente) già caricata per le partecipazioni singole. In sostanza non era stata caricata la domanda relativa alla partecipazione in Ati e la documentazione amministrativa della mandante.
Di conseguenza la stazione appaltante ha escluso il raggruppamento dalla gara per il lotto n. 3. Esclusione alla quale il ricorrente si è opposto formulando una specifica censura di illegittimità dovendo, a suo dire, la stazione appaltante avviare il soccorso istruttorio integrativo e non procedere con una diretta estromissione.
La decisione
In primo luogo, in sentenza, il tribunale ha chiarito che secondo la giurisprudenza prevalente, nel caso in cui la lex specialis di una gara preveda la possibilità di aggiudicare autonomamente i singoli lotti, «non si è in presenza di una gara unitaria, ma di una gara plurima, poiché in questo caso le singole procedure di aggiudicazione sono dirette a tanti contratti di appalto quanti sono i lotti». Si è in presenza, quindi, di un bando di gara a oggetto plurimo che si sostanzia nell'indizione e realizzazione di tante gare contestuali quanti sono i lotti cui sono connessi i contratti da aggiudicare.
Pertanto, «gli atti di gara relativi al contenuto dei contratti da aggiudicare devono essere necessariamente differenziati per ciascun lotto e devono essere tanti quanti sono i contratti da aggiudicare (Cons. St., Sez. V, sentenza 12.01.2017 n. 52; Cons. Stato, Sez. V, 26.06.2015 n. 3241)».
Chiarito ciò, il giudice ha affrontato i rapporti rispetto alla eventuale applicazione del soccorso istruttorio integrativo nel caso manchi totalmente la documentazione amministrativa da allegare per poter partecipare al procedimento di affidamento. La carenza totale della documentazione integra, a ben vedere, una «irregolarità essenziale non sanabile mediante il ricorso al soccorso istruttorio» posto che le carenze della documentazione prodotta non consentono l'individuazione del contenuto e del soggetto responsabile.
In questa situazione (ovvero di radicale assenza di una busta amministrativa riferibile alla partecipazione del raggruppamento temporaneo di imprese) il soccorso istruttorio non poteva essere attivato dalla stazione appaltante, infatti, «non si trattava di sanare irregolarità o mancanze riguardanti singoli elementi della domanda, bensì di ovviare alla totale carenza della documentazione amministrativa richiesta per la partecipazione alla gara da parte di un soggetto plurimo».
Diversamente, conclude il giudice, si consentirebbe al concorrente che non ha presentato la domanda di partecipazione nei termini decadenziali prescritti dal bando, di presentare una nuova domanda di partecipazione, in violazione della par condicio, con conseguente alterazione delle «condizioni in cui versano i concorrenti al momento della scadenza del termine per la partecipazione alla gara» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.12.2018).

APPALTI: Nel caso in cui la lex specialis di una gara di appalto preveda la possibilità di aggiudicare autonomamente i singoli lotti, non si è in presenza di una gara unitaria, ma di una gara plurima, poiché in tal caso le singole procedure di aggiudicazione sono dirette a tanti contratti di appalto quanti sono i lotti.
Il carattere non unitario della gara suddivisa in più lotti comporta che il bando di gara si configura quale “atto ad oggetto plurimo“, nel senso che contiene le disposizioni per lo svolgimento non di un’unica gara finalizzata all’affidamento di un unico contratto, bensì quelle per l’indizione e la realizzazione di tante gare contestuali quanti sono i lotti cui sono connessi i contratti da aggiudicare e che gli atti di gara relativi al contenuto dei contratti da aggiudicare devono essere necessariamente differenziati per ciascun lotto e devono essere tanti quanti sono i contratti da aggiudicare.
Invero, “un bando di gara, suddiviso in lotti, costituisce un atto ad oggetto plurimo e determina l'indizione non di un'unica gara, ma di tante gare, per ognuna delle quali vi è un’autonoma procedura di gara che si conclude con un'aggiudicazione”.

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Il
ricorso è infondato.
Giova premettere che, secondo la prevalente giurisprudenza, nel caso in cui la lex specialis di una gara di appalto preveda la possibilità di aggiudicare autonomamente i singoli lotti, non si è in presenza di una gara unitaria, ma di una gara plurima, poiché in tal caso le singole procedure di aggiudicazione sono dirette a tanti contratti di appalto quanti sono i lotti.
Il carattere non unitario della gara suddivisa in più lotti comporta che il bando di gara si configura quale “atto ad oggetto plurimo“, nel senso che contiene le disposizioni per lo svolgimento non di un’unica gara finalizzata all’affidamento di un unico contratto, bensì quelle per l’indizione e la realizzazione di tante gare contestuali quanti sono i lotti cui sono connessi i contratti da aggiudicare e che gli atti di gara relativi al contenuto dei contratti da aggiudicare devono essere necessariamente differenziati per ciascun lotto e devono essere tanti quanti sono i contratti da aggiudicare (Cons. St., Sez. V – sentenza 12.01.2017 n. 52; Cons. Stato, Sez. V, 26.06.2015 n. 3241 secondo cui “un bando di gara, suddiviso in lotti, costituisce un atto ad oggetto plurimo e determina l'indizione non di un'unica gara, ma di tante gare, per ognuna delle quali vi è un’autonoma procedura di gara che si conclude con un'aggiudicazione”) (
TAR Veneto, Sez. III, con la sentenza 28.11.2018 n. 1092 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il concetto di pertinenza ai fini urbanistico edilizi è molto più ristretto di quello civilistico di cui all’art. 817 c.c..
Gli elementi che caratterizzano le pertinenze sono, da un lato, l'esiguità quantitativa del manufatto, nel senso che il medesimo deve essere di entità tale da non alterare in modo rilevante l'assetto del territorio; dall'altro, l'esistenza di un collegamento funzionale tra tali opere e la cosa principale, con la conseguente incapacità per le medesime di essere utilizzate separatamente ed autonomamente.
Pertanto un'opera può definirsi accessoria rispetto a un'altra, da considerarsi principale, solo quando la prima sia parte integrante della seconda, in modo da non potersi le due cose separare senza che ne derivi l'alterazione dell'essenza e della funzione dell'insieme.

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... per l'annullamento:
   1) dell'ordinanza rif. prot. n. 24273 del 19.02.2018 del Comune di Terni -notificata il 28.03.2018- nella quale veniva ordinata la demolizione e ripristino dello stato dei luoghi per la realizzazione di una struttura in metallo presso la propria abitazione ubicata in Terni, via ... n. 17, su un'area pertinenziale comune alle due unità immobiliari censite al catasto al fg. 128, p.lla 476, sub 1 e sub 2;
...
1. I sig.ri ricorrenti Pa.Ar.Lo Fa. e Lu.Od. hanno proposto ricorso chiedendo l’annullamento, previa sospensione:
   - dell’ordinanza rif. prot. n. 24273 del 19.02.2018 del Comune di Terni -notificata il 28.03.2018- nella quale veniva ordinata la demolizione e ripristino dello stato dei luoghi per la realizzazione di una struttura in metallo realizzata presso la propria abitazione ubicata in Terni, via ... n. 17, su un’area pertinenziale comune alle due unità immobiliari censite in catasto al fg. 128, p.lla 476, sub 1 e sub 2;
   - dei provvedimenti connessi e conseguenti a quelli che precedono nonché dei provvedimenti antecedenti.
Con un unico e articolato motivo di ricorso si lamenta l’eccesso di potere per travisamento dei fatti e la violazione di legge per erronea interpretazione.
Riferiscono i ricorrenti che l’intervento in oggetto consiste in una struttura in metallo con copertura retrattile in plastica, istallata in sostituzione del pergolato preesistente, che gli stessi qualificano come “pergotenda”, affermando che tale struttura non necessita di titolo abilitativo in quanto opera pertinenziale ai sensi dell’art. 21, comma 3, lett. l), r.r. n. 2 del 2015, richiamando anche il recente d.m. 02.03.2018 “Approvazione del glossario contenente l’elenco non esaustivo delle principali opere edilizie realizzabili in regime di attività edilizia libera”, ai sensi dell’articolo 1, comma 2 del d.lgs. n. 222 del 2016, che nomina al n. 50 le pergotende.
Ad avviso dei ricorrenti, pertanto, l’opera principale non dovrebbe essere considerata la struttura in sé, ma la tenda, quale elemento di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dello spazio esterno dall’unità abitativa, con la conseguenza che la struttura di sostegno si qualificherebbe in termini di mero elemento accessorio.
...
Il ricorso è infondato per i motivi di seguito esposti.
Giova preliminarmente richiamare il quadro normativo regionale.
L’art. 118, comma 1, l.r. n. 1 del 2015, Testo unico governo del territorio e materie correlate, nel disciplinare le opere realizzabili sine titulo –nel rispetto delle disposizioni del regolamento comunale per l’attività edilizia e dello strumento urbanistico sulle tipologie e sui materiali utilizzabili nonché nel rispetto delle normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia– alla lett. d) include le opere pertinenziali degli edifici rinviando alla normativa regolamentare la loro corretta individuazione.
L’art. 21, comma 3, r.r. n. 2 del 2015, lett. l), riconduce alle opere pertinenziali realizzabili senza titolo “i pergolati e i gazebo con struttura leggera, in ferro o legno, purché collocati a terra senza opere fondali o a protezione di logge o balconi e privi di qualsiasi copertura, destinati esclusivamente a sorreggere specie vegetali o teli”.
La giurisprudenza amministrativa, condivisa anche dall’adito Tribunale, ha avuto modo di chiarire che “il concetto di pertinenza ai fini urbanistico edilizi è molto più ristretto di quello civilistico di cui all’art. 817 c.c.; gli elementi che caratterizzano le pertinenze sono, da un lato, l'esiguità quantitativa del manufatto, nel senso che il medesimo deve essere di entità tale da non alterare in modo rilevante l'assetto del territorio; dall'altro, l'esistenza di un collegamento funzionale tra tali opere e la cosa principale, con la conseguente incapacità per le medesime di essere utilizzate separatamente ed autonomamente.
Pertanto un'opera può definirsi accessoria rispetto a un'altra, da considerarsi principale, solo quando la prima sia parte integrante della seconda, in modo da non potersi le due cose separare senza che ne derivi l'alterazione dell'essenza e della funzione dell'insieme (ex multis Consiglio di Stato, sez. VI, 04.01.2016, n. 19, TAR Campania Napoli, sez. IV, 16.05.2014, n. 2719)
” (TAR Umbria, 28.11.2016, n. 730) (TAR Umbria, sentenza 28.11.2018 n. 629 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le strutture definite “pergotende” pongono particolari problemi di individuazione e classificazione.
E’ stato affermato che la pergotenda:
   1) è una struttura destinata a rendere meglio vivibili gli spazi esterni delle unità abitative (terrazzi o giardini) e installabile al fine, quindi, di soddisfare esigenze non precarie non connotandosi, pertanto, per la temporaneità della loro utilizzazione, ma costituiscono un elemento di migliore fruizione dello spazio esterno, stabile e duraturo;
   2) sotto il profilo normativo la realizzazione di tale costruzione, tenuto conto della sua consistenza, delle caratteristiche costruttive e della suindicata funzione che la caratterizza, non costituisce un'opera edilizia soggetta al previo rilascio del titolo abilitativo atteso che, ai sensi del combinato disposto degli articoli 3 e 10 del DPR n. 380/2001, sono soggetti al rilascio del permesso di costruire gli "interventi di nuova costruzione", che determinano una "trasformazione edilizia e urbanistica del territorio", mentre una struttura leggera, secondo la configurazione standard che caratterizza tali manufatti nella loro generalità, destinata ad ospitare tende retrattili in materiale plastico non integra tali caratteristiche;
   3) per aversi una costruzione definibile come tale (c.d. pergotenda) occorre che l'opera principale sia costituita non dalla struttura in sé, ma dalla tenda, quale elemento di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dello spazio esterno dell'unità abitativa, con la conseguenza che la struttura (per aversi realmente una pergotenda e non una costruzione edilizia necessitante di titolo abilitativo) deve qualificarsi in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all'estensione della tenda;
   4) la tenda poi, che costituisce la caratteristica fondamentale per effetto della quale un manufatto può definirsi “pergotenda” e non considerarsi una "nuova costruzione", deve essere in materiale plastico e retrattile, onde non presentare caratteristiche tali da costituire un organismo edilizio rilevante, comportante trasformazione del territorio.
Un’opera siffatta per la sua consistenza e le caratteristiche costruttive, non è un’opera edilizia soggetta al previo rilascio del titolo abilitativo, in quanto, in base agli artt. 3 e 10 del d.P.R. n. 380 del 2001 sono soggetti al rilascio del permesso di costruire gli interventi di nuova costruzione che determinano una trasformazione edilizia e urbanistica del territorio, mentre una struttura leggera, destinata ad ospitare tende retrattili in materiale plastico, non assume queste caratteristiche.
Deve, pertanto, trattarsi di una struttura leggera, tanto da far assumere carattere preminente alla tenda che costituisce elemento di protezione dagli agenti atmosferici. Al contrario, quando la struttura per le sue caratteristiche tecniche alteri la sagoma dell’edificio, abbia una dimensione considerevole e presenti un ancoraggio massiccio al suolo, va classificata come nuova costruzione e per la sua realizzazione è richiesto il permesso di costruire.
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Recentemente il Consiglio di Stato ha assimilato le pergotende alle tettoie, evidenziando che la relativa disciplina non è definita in modo univoco né nella normativa né in giurisprudenza, anche seguito dell’introduzione del d.m. 02.03.2018, “Approvazione del glossario contenente l’elenco non esaustivo delle principali opere edilizie realizzabili in regime di attività edilizia libera”, ai sensi dell’articolo 1, comma 2, del citato d.lgs. n. 222 del 2016, che richiama al n. 50 le pergotende.
Tali sarebbero «per comune esperienza, strutture di copertura di terrazzi e lastrici solari, di superficie anche non modesta, formate da montanti ed elementi orizzontali di raccordo e sormontate da una copertura fissa o ripiegabile formata da tessuto o altro materiale impermeabile, che ripara dal sole, ma anche dalla pioggia, aumentando la fruibilità della struttura.
Si tratta quindi di un manufatto molto simile alla tettoia, che se ne distingue secondo logica solo per presentare una struttura più leggera. (…) Al polo opposto, v’è l’art. 10, comma 1, lettera a), del T.U. 380/2001, che assoggetta invece al titolo edilizio maggiore, ovvero al permesso di costruire, “gli interventi di nuova costruzione”.
Come subito si vedrà, la giurisprudenza si fonda su tale norma per richiedere appunto il permesso di costruire nel caso di tettoie di particolari dimensioni e caratteristiche. Si afferma infatti in via generale che tale struttura costituisce intervento di nuova costruzione e richiede il permesso di costruire nel momento in cui difetta dei requisiti richiesti per le pertinenze e gli interventi precari, ovvero quando modifica la sagoma dell’edificio.
Da tutto ciò, emerge chiara una conseguenza: non è possibile affermare in assoluto che la tettoia richiede, o non richiede, il titolo edilizio maggiore e assoggettarla, o non assoggettarla, alla relativa sanzione senza considerare nello specifico come essa è realizzata. In proposito, quindi, l’amministrazione ha l’onere di motivare in modo esaustivo, attraverso una corretta e completa istruttoria che rilevi esattamente le opere compiute e spieghi per quale ragione esse superano i limiti entro i quali si può trattare di una copertura realizzabile in regime di edilizia libera».
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... per l'annullamento:
   1) dell'ordinanza rif. prot. n. 24273 del 19.02.2018 del Comune di Terni -notificata il 28.03.2018- nella quale veniva ordinata la demolizione e ripristino dello stato dei luoghi per la realizzazione di una struttura in metallo presso la propria abitazione ubicata in Terni, via ... n. 17, su un'area pertinenziale comune alle due unità immobiliari censite al catasto al fg. 128, p.lla 476, sub 1 e sub 2;
...
1. I sig.ri ricorrenti Pa.Ar.Lo Fa. e Lu.Od. hanno proposto ricorso chiedendo l’annullamento, previa sospensione:
   - dell’ordinanza rif. prot. n. 24273 del 19.02.2018 del Comune di Terni -notificata il 28.03.2018- nella quale veniva ordinata la demolizione e ripristino dello stato dei luoghi per la realizzazione di una struttura in metallo realizzata presso la propria abitazione ubicata in Terni, via ... n. 17, su un’area pertinenziale comune alle due unità immobiliari censite in catasto al fg. 128, p.lla 476, sub 1 e sub 2;
   - dei provvedimenti connessi e conseguenti a quelli che precedono nonché dei provvedimenti antecedenti.
Con un unico e articolato motivo di ricorso si lamenta l’eccesso di potere per travisamento dei fatti e la violazione di legge per erronea interpretazione.
Riferiscono i ricorrenti che l’intervento in oggetto consiste in una struttura in metallo con copertura retrattile in plastica, istallata in sostituzione del pergolato preesistente, che gli stessi qualificano come “pergotenda”, affermando che tale struttura non necessita di titolo abilitativo in quanto opera pertinenziale ai sensi dell’art. 21, comma 3, lett. l), r.r. n. 2 del 2015, richiamando anche il recente d.m. 02.03.2018 “Approvazione del glossario contenente l’elenco non esaustivo delle principali opere edilizie realizzabili in regime di attività edilizia libera”, ai sensi dell’articolo 1, comma 2 del d.lgs. n. 222 del 2016, che nomina al n. 50 le pergotende.
Ad avviso dei ricorrenti, pertanto, l’opera principale non dovrebbe essere considerata la struttura in sé, ma la tenda, quale elemento di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dello spazio esterno dall’unità abitativa, con la conseguenza che la struttura di sostegno si qualificherebbe in termini di mero elemento accessorio.
...
Il ricorso è infondato per i motivi di seguito esposti.
Giova preliminarmente richiamare il quadro normativo regionale.
L’art. 118, comma 1, l.r. n. 1 del 2015, Testo unico governo del territorio e materie correlate, nel disciplinare le opere realizzabili sine titulo –nel rispetto delle disposizioni del regolamento comunale per l’attività edilizia e dello strumento urbanistico sulle tipologie e sui materiali utilizzabili nonché nel rispetto delle normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia– alla lett. d) include le opere pertinenziali degli edifici rinviando alla normativa regolamentare la loro corretta individuazione.
L’art. 21, comma 3, r.r. n. 2 del 2015, lett. l), riconduce alle opere pertinenziali realizzabili senza titolo “i pergolati e i gazebo con struttura leggera, in ferro o legno, purché collocati a terra senza opere fondali o a protezione di logge o balconi e privi di qualsiasi copertura, destinati esclusivamente a sorreggere specie vegetali o teli”.
La giurisprudenza amministrativa, condivisa anche dall’adito Tribunale, ha avuto modo di chiarire che “il concetto di pertinenza ai fini urbanistico edilizi è molto più ristretto di quello civilistico di cui all’art. 817 c.c.; gli elementi che caratterizzano le pertinenze sono, da un lato, l'esiguità quantitativa del manufatto, nel senso che il medesimo deve essere di entità tale da non alterare in modo rilevante l'assetto del territorio; dall'altro, l'esistenza di un collegamento funzionale tra tali opere e la cosa principale, con la conseguente incapacità per le medesime di essere utilizzate separatamente ed autonomamente.
Pertanto un'opera può definirsi accessoria rispetto a un'altra, da considerarsi principale, solo quando la prima sia parte integrante della seconda, in modo da non potersi le due cose separare senza che ne derivi l'alterazione dell'essenza e della funzione dell'insieme (ex multis Consiglio di Stato, sez. VI, 04.01.2016, n. 19, TAR Campania Napoli, sez. IV, 16.05.2014, n. 2719)
” (TAR Umbria, 28.11.2016, n. 730).
Ciò posto, va evidenziato, come rilevato dalla giurisprudenza amministrativa, che le strutture definite “pergotende” pongono particolari problemi di individuazione e classificazione.
E’ stato affermato che la pergotenda «1) è una struttura destinata a rendere meglio vivibili gli spazi esterni delle unità abitative (terrazzi o giardini) e installabile al fine, quindi, di soddisfare esigenze non precarie non connotandosi, pertanto, per la temporaneità della loro utilizzazione, ma costituiscono un elemento di migliore fruizione dello spazio esterno, stabile e duraturo;
2) sotto il profilo normativo la realizzazione di tale costruzione, tenuto conto della sua consistenza, delle caratteristiche costruttive e della suindicata funzione che la caratterizza, non costituisce un'opera edilizia soggetta al previo rilascio del titolo abilitativo atteso che, ai sensi del combinato disposto degli articoli 3 e 10 del DPR n. 380/2001, sono soggetti al rilascio del permesso di costruire gli "interventi di nuova costruzione", che determinano una "trasformazione edilizia e urbanistica del territorio", mentre una struttura leggera, secondo la configurazione standard che caratterizza tali manufatti nella loro generalità, destinata ad ospitare tende retrattili in materiale plastico non integra tali caratteristiche;
3) per aversi una costruzione definibile come tale (c.d. pergotenda) occorre che l'opera principale sia costituita non dalla struttura in sé, ma dalla tenda, quale elemento di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dello spazio esterno dell'unità abitativa, con la conseguenza che la struttura (per aversi realmente una pergotenda e non una costruzione edilizia necessitante di titolo abilitativo) deve qualificarsi in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all'estensione della tenda;
4) la tenda poi, che costituisce la caratteristica fondamentale per effetto della quale un manufatto può definirsi “pergotenda” e non considerarsi una "nuova costruzione", deve essere in materiale plastico e retrattile, onde non presentare caratteristiche tali da costituire un organismo edilizio rilevante, comportante trasformazione del territorio
» (TAR Lazio, sez. II-quater, 22.12.2017 n. 12632).
Un’opera siffatta per la sua consistenza e le caratteristiche costruttive, non è un’opera edilizia soggetta al previo rilascio del titolo abilitativo, in quanto, in base agli artt. 3 e 10 del d.P.R. n. 380 del 2001 sono soggetti al rilascio del permesso di costruire gli interventi di nuova costruzione che determinano una trasformazione edilizia e urbanistica del territorio, mentre una struttura leggera, destinata ad ospitare tende retrattili in materiale plastico, non assume queste caratteristiche.
Deve, pertanto, trattarsi di una struttura leggera, tanto da far assumere carattere preminente alla tenda che costituisce elemento di protezione dagli agenti atmosferici. Al contrario, quando la struttura per le sue caratteristiche tecniche alteri la sagoma dell’edificio, abbia una dimensione considerevole e presenti un ancoraggio massiccio al suolo, va classificata come nuova costruzione e per la sua realizzazione è richiesto il permesso di costruire.
Recentemente il Consiglio di Stato ha assimilato le pergotende alle tettoie, evidenziando che la relativa disciplina non è definita in modo univoco né nella normativa né in giurisprudenza, anche seguito dell’introduzione del d.m. 02.03.2018, “Approvazione del glossario contenente l’elenco non esaustivo delle principali opere edilizie realizzabili in regime di attività edilizia libera”, ai sensi dell’articolo 1, comma 2 del citato d.lgs. n. 222 del 2016, che richiama al n. 50 le pergotende.
Tali sarebbero «per comune esperienza, strutture di copertura di terrazzi e lastrici solari, di superficie anche non modesta, formate da montanti ed elementi orizzontali di raccordo e sormontate da una copertura fissa o ripiegabile formata da tessuto o altro materiale impermeabile, che ripara dal sole, ma anche dalla pioggia, aumentando la fruibilità della struttura.
Si tratta quindi di un manufatto molto simile alla tettoia, che se ne distingue secondo logica solo per presentare una struttura più leggera. (…) Al polo opposto, v’è l’art. 10, comma 1, lettera a), del T.U. 380/2001, che assoggetta invece al titolo edilizio maggiore, ovvero al permesso di costruire, “gli interventi di nuova costruzione”.
Come subito si vedrà, la giurisprudenza si fonda su tale norma per richiedere appunto il permesso di costruire nel caso di tettoie di particolari dimensioni e caratteristiche. Si afferma infatti in via generale che tale struttura costituisce intervento di nuova costruzione e richiede il permesso di costruire nel momento in cui difetta dei requisiti richiesti per le pertinenze e gli interventi precari, ovvero quando modifica la sagoma dell’edificio: fra le molte, C.d.S. sez. IV 08.01.2018 n. 12 e sez. VI 16.02.2017 n. 694.
3. Da tutto ciò, emerge chiara una conseguenza: non è possibile affermare in assoluto che la tettoia richiede, o non richiede, il titolo edilizio maggiore e assoggettarla, o non assoggettarla, alla relativa sanzione senza considerare nello specifico come essa è realizzata. In proposito, quindi, l’amministrazione ha l’onere di motivare in modo esaustivo, attraverso una corretta e completa istruttoria che rilevi esattamente le opere compiute e spieghi per quale ragione esse superano i limiti entro i quali si può trattare di una copertura realizzabile in regime di edilizia libera
» (C.d.S., sez. VI, 07.05.2018, n. 2715).
Nel caso in esame, l’Amministrazione ha adempiuto al suddetto onere istruttorio e motivazionale; la motivazione del provvedimento appare, infatti, esaustiva, illustrando compiutamente le caratteristiche dell’intervento realizzato.
Viene in particolare in rilievo il fatto che la struttura ha una dimensione rilevante, pari a 64 mq, e non è classificabile come struttura leggera, sia per le dimensioni degli elementi costruttivi e dei materiali utilizzati (profilati in ferro con sezione di ingombro 0,20x0,20) sia per le modalità di fissaggio al suolo (a pag. 3 dell’ordinanza si legge: “il tirafondo che emerge dalla staffa in questione è quello classico di un tassello chimico immerso all’interno di un blocco di calcestruzzo. L’intervento in tal senso è parificato ad un’opera fondale”).
Pertanto, l’opera in oggetto non poteva essere realizzata in assenza di titolo abilitativo edilizio.
8. Per quanto esposto, il ricorso deve essere respinto (TAR Umbria, sentenza 28.11.2018 n. 629 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTICorte di giustizia, solo chi partecipa può impugnare gli atti di una gara.
La legittimazione a impugnare gli atti di gara spetta soltanto alle imprese che partecipano al bando. Le eccezioni a questo principio sono poche e, comunque, non allargano in maniera indefinita le possibilità di tutela.

È quanto ha deciso ieri la Corte di giustizia dell’Unione europea (sentenza 28.11.2018 - causa C-328/17), confermando così la linea interpretativa dei giudici amministrativi italiani. E, soprattutto, chiudendo una controversia sul punto che andava avanti da anni e che nel 2016 (sentenza n. 245) aveva visto coinvolta anche la Corte costituzionale.
La vicenda
Il caso riguarda una gara avviata dall’Agenzia regionale per il trasporto pubblico locale della Liguria del 2015. La stazione appaltante aveva indetto una gara per l’affidamento del servizio di trasporto pubblico, contro il quale era stato proposto ricorso al Tar. Il motivo era l’affidamento del servizio in un lotto unico: nessuna delle società ricorrenti, infatti, aveva potuto partecipare alla gara, non avendo a disposizione la struttura necessaria a garantire il servizio.
Il Tar Liguria, sebbene il bando di gara sia poi stato revocato, chiede alla Corte di giustizia «se il diritto dell’Unione in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori sia contrario o meno ad una normativa nazionale che riconosca la possibilità di impugnare gli atti di una procedura di gara ai soli operatori economici che abbiano presentato domanda di partecipazione alla gara stessa, anche qualora la domanda giudiziale sia volta a sindacare in radice la procedura».
La decisione
La Corte, con la sentenza di ieri, ha ricordato che la partecipazione a un procedimento di aggiudicazione di un appalto può, in linea di principio, «validamente costituire una condizione» che deve essere soddisfatta per dimostrare che il soggetto coinvolto ha interesse a ricorrere contro la procedura. Difficile dimostrare l’interesse a opporsi in assenza di un’offerta.
Ci sono, per la verità, delle eccezioni. L’operatore economico potrà, cioè, fare ricorso «nelle ipotesi in cui tale offerta era oggettivamente impossibile», per esempio, per la presenza nel bando «di clausole immediatamente escludenti o di clausole che impongono oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati o che rendono impossibile la stessa formulazione dell’offerta».
Il sistema italiano, consolidatosi con questo assetto attraverso diverse pronunce, viene allora giudicato compatibile con le norme europee. Tenendo fermi questi principi, affermati sia dal Consiglio di Stato che dalla Corte costituzionale, bisognerà solo verificare che «il diritto a una tutela giurisdizionale effettiva» dell’impresa ricorrente sia concretamente garantito (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 29.11.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIncarichi a contratto, la Cassazione conferma l’obbligo di pubblicazione in Gazzetta.
Obbligo di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale delle assunzioni del personale in base all’articolo 110 del Tuel, sia se la competenza è devoluta al giudice amministrativo, qualora la selezione dovesse rispettare le regole del concorso pubblico, ad esempio in presenza della nomina di una commissione, nell'attribuzione di punteggi o nella formazione di una graduatoria (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 21 settembre), sia qualora la stessa dovesse essere devoluta al giudice ordinario, in quanto non rispettosa delle regole del concorso pubblico.

Queste ultime conclusioni sono contenute nella sentenza 27.11.2018 n. 53180 della Corte di Cassazione, Sez. feriale penale.
La posizione dei giudici e quella della difesa
Sia il tribunale di primo grado sia successivamente la Corte d’appello hanno condannato, per abuso di ufficio (articolo 323 del codice penale), il dirigente finanziario e alcuni membri della giunta comunale per l'assunzione di un funzionario apicale in base all’articolo 110 del Tuel.
Secondo i giudici penali si sarebbe in presenza di una violazione dell'articolo 4, comma 1-bis, del Dpr 487/1994, per mancata pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale dell'avviso contenente gli estremi del bando, oltre che violazione dell'articolo 124, comma 1, del Dlgs 267/2000 per mancata affissione dell'avviso nell'albo pretorio per un periodo non inferiore ai prescritti 15 giorni.
Di diverso avviso i ricorrenti che hanno impugnato in Cassazione la sentenza dei giudici di appello. A loro dire, vi sarebbe un errore di fondo nella motivazioni della sentenza, in quanto la giurisprudenza amministrativa ha escluso la riferibilità agli enti locali territoriali della disciplina del Dpr 487/1994, applicabile soltanto ai concorsi pubblici, sicché nessun obbligo di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale sussisteva nel caso di specie, la cui omissione, pertanto, non integra la fattispecie di reato ascritta, mentre la sanzionata pubblicazione nell'albo pretorio, perché inferiore nella durata a quanto prescritto dall'articolo 124 del Dlgs 267/2000, è essenzialmente dovuta alla scadenza della presentazione delle domande da parte dei candidati. D'altra parte lo stesso Dl 90/2014 prescrive esclusivamente una selezione che nulla ha a che vedere con il concorso pubblico.
Le indicazioni della Cassazione
In merito alle assunzioni effettuate secondo l’articolo 110 del Tuel, il Dl 90/2014 ha inserito la selezione pubblica quale medesimo adempimento previsto dall'articolo 35, comma 1, del Dlgs 165/2001. Ora precisa la Suprema corte, l'attività selettiva non è assimilabile a un concorso pubblico, funzionale all'assunzione di pubblici dipendenti, in quanto diretta soltanto a reperire il candidato più rispondente alle caratteristiche e alle esigenze dell'ente e alle mansioni da assegnare, senza la formazione di una graduatoria all'esito dell'attribuzione di un punteggio, in base ai titoli o ad altri criteri valutativi.
Comunque non è stato seguito il procedimento mediante adozione di adempimenti sequenziali, diretti a garantire la pubblicità dell'avviso, la partecipazione di tutti i possibili aspiranti e lo scrutinio dei candidati fino a un giudizio finale di individuazione di quello ritenuto più idoneo. Pertanto, è da ritenersi corretta la sentenza che ha evidenziato il mancato rispetto sia delle prescrizioni sulla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dell'avviso di selezione pubblica sia sul tempo minimo obbligatorio di pubblicazione all'albo pretorio per quindici giorni.
Per i giudici di Piazza Cavour, tuttavia, la semplice violazione di legge non conduce all'abuso di ufficio, non avendo la Corte di appello adeguatamente motivato l'intenzionalità della condotta del funzionario pubblico di voler procurare il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto richiesto dalla norma penale. La mancanza della motivazioni induce, in conclusione, la Cassazione ad annullare la sentenza e rinviare ad altra sezione della Corte di appello per il nuovo esame (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 07.12.2018).
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MASSIMA
2.3 L'assunto difensivo non ha pregio e considera in modo incompleto il quadro normativo di riferimento.
Come già osservato dalla Corte di merito, l'art. 110 del Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, D.Lgs. n. 267/2000, sotto la rubrica "incarichi a contratto", nella parte rilevante ai fini del presente processo, stabilisce al comma 1: "Lo statuto può prevedere che la copertura dei posti di responsabili dei servizi o degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione, possa avvenire mediante contratto a tempo determinato di diritto pubblico o, eccezionalmente e con deliberazione motivata, di diritto privato, fermi restando i requisiti richiesti dalla qualifica da ricoprire" (comma 1).
Al comma 2 prevede "Il regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, negli enti in cui è prevista la dirigenza, stabilisce i limiti, i criteri e le modalità con cui possono essere stipulati, al di fuori della dotazione organica, contratti a tempo determinato per i dirigenti e le alte specializzazioni, fermi restando i requisiti richiesti per la qualifica da ricoprire. Tali contratti sono stipulati in misura complessivamente non superiore al 5 per cento del totale della dotazione organica della dirigenza e dell'area direttiva e comunque per almeno una unità. Negli altri enti, il regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi stabilisce i limiti, i criteri e le modalità con cui possono essere stipulati, al di fuori della dotazione organica, solo in assenza di professionalità analoghe presenti all'interno dell'ente, contratti a tempo determinato di dirigenti, alte specializzazioni o funzionari dell'area direttiva, fermi restando i requisiti richiesti per la qualifica da ricoprire. Tali contratti sono stipulati in misura complessivamente non superiore al 5 per cento della dotazione organica dell'ente, o ad una unità negli enti con una dotazione organica inferiore alle 20 unità".
Le due disposizioni citate differiscono tra loro, perché, seppur riferite entrambe al conferimento di incarichi a contratto a tempo determinato, soltanto la prima riguarda mansioni corrispondenti a quelle di un posto presente in pianta organica di responsabile dei servizi o degli uffici, di dirigente o di alta specializzazione, mentre la seconda prevede incarichi per tali figure professionali "al di fuori della dotazione organica" a fronte di esigenze straordinarie, non affrontabili con le risorse umane già disponibili. In entrambe le situazioni disciplinate, secondo esplicita previsione normativa, spetta allo statuto dell'ente prevedere la copertura dei posti in pianta organica con contratti a tempo determinato.
Ebbene, tali rilievi convincono della necessità, anche sulla base della stessa linea difensiva degli imputati, di valutare la fattispecie concreta in base alle previsioni statutarie del Comune interessato; rispetto all'addebito come descritto al capo A), ritenuto fondato dal Tribunale, non si rinviene in sentenza nessuna argomentazione per sostenere o per escludere questo aspetto di contestata violazione di legge, ossia la contrarietà del procedimento che aveva riguardato l'arch. St. all'art. 66 dello statuto comunale per l'assenza di un previo atto di indirizzo della Giunta comunale, al quale non vi è nessun riferimento nella motivazione senza che al contempo sia intervenuta una pronuncia di assoluzione, né che i ricorsi abbiano mosso una specifica contestazione al riguardo.
Per contro, nella sentenza di primo grado è ben evidenziato che, non soltanto la determina non era stata preceduta da un atto d'indirizzo della Giunta comunale, ma era illegittimo e pretestuoso a tale fine il richiamo alla delibera di Giunta n. 40 del 2010, che era stata revocata in autotutela e quindi non poteva esplicare nessun effetto giuridico.
Più in generale va condivisa l'opinione, espressa in sentenza, per la quale
le disposizioni del D.Lgs. n. 165 del 2001, introduttivo delle "Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche", devono essere osservate anche nell'ambito delle amministrazioni locali, per tali intendendosi "le Regioni, le Province e i Comuni" (art. 1, comma 2), a ragione della loro natura, riconosciuta espressamente dal comma 3 dello stesso art. 1, di principi fondamentali ai sensi dell'art. 117 Cost.. In coerenza con tale premessa sono rinvenibili nel D.Lgs. n. 267 del 2000, contenente il Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, plurimi richiami alla disciplina sul pubblico impiego.
In tal senso rilevano:
   - l'art. 7 del D.Lgs. n. 165/2001, il quale, nell'ambito dei principi generali, dopo avere disposto al comma 6 che le amministrazioni pubbliche, per esigenze cui non possono provvedere con personale già in servizio, conferiscono ad esperti incarichi individuali con contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa, stabilisce che "I regolamenti di cui all'art. 110, comma 6, del T.U. di cui al D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 si adeguano ai principi di cui al comma 6";
   - l'art. 88 del D.Lgs. n. 267/2000 per il quale "all'ordinamento degli uffici e del personale degli enti locali, ivi compresi i dirigenti ed i segretari comunali e provinciali, si applicano le disposizioni del D.Lgs. 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni ed integrazioni, e le altre disposizioni di legge in materia di organizzazione e lavoro nelle pubbliche amministrazioni";
   - l'art. 111 dello stesso D.Lgs. n. 267/2000, il quale stabilisce che gli "Enti locali, tenendo conto delle proprie peculiarietà nell'esercizio della propria potestà statutaria e regolamentare, adeguano lo statuto ed il regolamento ai principi del presente capo e del capo 2 del D.Lgs. 03.02.1929, n. 29, e successive modificazioni ed integrazioni".
   - l'art. 19 del D.Lgs. n. 165 del 2001 sulla durata degli incarichi dirigenziali a termine, reso applicabile anche agli enti locali, compresi Regioni, Province e Comuni, dal D.Lgs. 27.10.2009, n. 150, art. 40, comma 1, lett. f), introduttivo dei commi 6-bis e 6-ter.
Come già affermato dalla giurisprudenza di legittimità civile, occupatasi del tema in riferimento alla durata del rapporti scaturiti da contratti di affidamento di incarichi dirigenziali a tempo determinato presso enti locali territoriali, con conclusioni che mantengono validità anche per la presente vicenda e qui condivise e ribadite, la normativa contenuta nel testo unico del pubblico impiego appronta la disciplina fondamentale anche per i dipendenti degli enti locali e per i destinatari degli incarichi temporanei corrispondenti a mansioni di pubblici dipendenti (Cass. civ., sez. L., n. 478 del 23/10/2013, rv. 620670; sez. L, n. 849 del 28/10/2014, rv. 634201).
La disciplina di cui all'art. 110 del D.lgs. n. 267/2000 non detta indicazioni particolari per gli incarichi a termine, se non per la costituzione e per la cessazione del rapporto, che sono diversamente regolate rispetto a quanto previsto per il rapporto di pubblico impiego a tempo indeterminato con assegnazione di incarichi dirigenziali.
Si conviene con le difese che l'ente conferente non si trovava a dover perfezionare un'assunzione di un pubblico dipendente per instaurare un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e che in concreto tanto non si è verificato nella vicenda in esame; ciò nonostante, non può nemmeno sostenersi che la materia, pur implicando l'instaurazione di un rapporto fiduciario con il soggetto prescelto, non fosse regolamentata e lasciasse piena libertà di azione ai suoi funzionari ed amministratori, in quanto per diretta previsione contenuta, dapprima nella delibera di Giunta Comunale n. 40 del 2010, poi revocata, quindi nella determina adottata dal Pe., era stata indetta una selezione pubblica.
All'epoca dei fatti l'adozione di tale procedura non era ancora imposta per disposizione di legge, poiché sarebbe stata introdotta nel testo dell'art. 110 del D.Lgs., nel solo comma 1, n. 267/2000 soltanto nel 2014 dall'art. 11, comma 1, lett. a), del D.L. 24/06/2014, n. 90, conv. dalla L. 11/08/2014, n. 114, con la previsione dello stesso adempimento di cui all'art. 35, comma 1, D.Lgs. n. 165/2001 e nel suo testo antecedente tale modifica non era contenuta una esplicita norma a regolamentare il procedimento prodromico alla conclusione del contratto.
E sebbene in linea generale l'attività selettiva non sia assimilabile ad un concorso pubblico, funzionale all'assunzione di pubblici dipendenti, in quanto diretta soltanto a reperire il candidato più rispondente alle caratteristiche ed alle esigenze dell'ente ed alle mansioni da assegnare senza la formazione di una graduatoria all'esito dell'attribuzione di un punteggio in base ai titoli o ad altri criteri valutativi, ciò nonostante nel caso specifico ne era stata prevista la procedimentalizzazione mediante l'adozione di adempimenti sequenziali, diretti a garantire la pubblicità dell'avviso, la partecipazione di tutti i possibili aspiranti e lo scrutinio dei candidati fino ad un giudizio finale di individuazione di quello ritenuto più idoneo, il che deve ritenersi avesse volontariamente vincolato il Comune al rispetto delle prescrizioni normative in materia di procedure concorsuali.
Pertanto, non giova richiamare i poteri attribuiti al Sindaco dall'art. 50, comma 10, del D.Lgs. n. 267/2000, per il quale "Il sindaco e il presidente della provincia nominano i responsabili degli uffici e dei servizi, attribuiscono e definiscono gli incarichi dirigenziali e quelli di collaborazione esterna secondo le modalità ed i criteri stabiliti dagli articoli 109 e 110, nonché dai rispettivi statuti e regolamenti comunali e provinciali", perché con gli atti adottati si era autolimitata la libertà dell'ente di agire privatisticamente nella scelta del personale cui conferire l'incarico e comunque non si erano rispettate le prescrizioni statutarie di cui al già citato art. 66. Inoltre, al momento dell'indizione della selezione pubblica il Pe. non aveva ancora rivestito la carica di Sindaco, essendo il responsabile del servizio finanziario del Comune, circostanza che, come contestato, ha dato luogo alla violazione delle disposizioni di cui agli artt. 48 e 107 del D.Lgs. n. 267/2000.
Considerata la vicenda in base a tale presupposto, è dunque corretto ritenere che nel caso specifico non fossero state rispettate le attribuzioni spettanti al Sindaco quanto all'avvio della procedura, le prescrizioni sulla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dell'avviso della selezione pubblica, sul tempo minimo obbligatorio di pubblicazione per quindici giorni e sul divieto per gli organi politici, in questo caso per il Pe. in quanto Sindaco del Comune, di prendere parte alle commissioni esaminatrici a garanzia della trasparenza, della legalità ed imparzialità del relativo operato secondo i principi generali previsti dall'art. 35, comma 3, del D.Lgs. n. 165/2001 cui si devono conformare le procedure per il reclutamento nelle pubbliche amministrazioni.

EDILIZIA PRIVATA: Il vano scala, se volumetricamente consistente, è equiparabile ad una costruzione sicché da dover rispettare le distanze legali fra edifici.
Risulta consolidato il principio per il quale, in tema di distanze legali fra edifici, non sono computabili le sporgenze esterne del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, mentre costituiscono corpo di fabbrica le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, ove siano di apprezzabile profondità e ampiezza, giacché, pur non corrispondendo a volumi abitativi coperti, rientrano nel concetto civilistico di costruzione, in quanto destinati ad estendere ed ampliare la consistenza dei fabbricati.
Pertanto, mentre rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione di rifinitura od accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili), costituiscono, invece, corpi di fabbrica, computabili ai predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni.
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Integra, dunque, la nozione di "volume tecnico", non computabile nella volumetria della costruzione, solo l'opera edilizia priva di alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinata a contenere impianti serventi -quali quelli connessi alla condotta idrica, termica- di una costruzione principale per esigenze tecnico funzionali dell'abitazione e che non possono essere ubicati nella stessa, e non anche quella che costituisce -come appunto il vano scale- parte integrante del fabbricato, ossia corpo di fabbrica.
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2.1. - IL motivo non è fondato.
2.2. - La Corte di merito ha, correttamente, escluso che (ferma restando la riserva alla legge dello Stato della definizione delle "costruzioni" al fine della applicazione dell'art. 873 c.c.), il vano scale dell'immobile in questione non possa non essere considerato a tutti gli effetti una "costruzione", come tale non rientrante nel concetto di sporto.
Trattasi di un accertamento di fatto sorretto da adeguata e logica motivazione -fondata sui richiamati esiti peritali, secondo i quali "trattasi di due rampe in muratura, di larghezza di mt. 2,51 e lunghezza di mt. 3,17 con all'interno la stanza di alloggiamento dell'impianto di riscaldamento; il tutto infisso, in modo stabile e permanente, al suolo e realizzante una superficie complessiva di mq. 9,98 ed un volume di metri cubi 15,02" (sentenza impugnata, pag. 12)- come tale immune dalle censure sollevate dai ricorrenti (Cass. n. 1916 del 2011), che sostanzialmente si limitano a contestare la qualificazione data dai giudici del merito al manufatto in esame.
2.3. - Va rilevato che risulta consolidato il principio per il quale, in tema di distanze legali fra edifici, non sono computabili le sporgenze esterne del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, mentre costituiscono corpo di fabbrica le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, ove siano di apprezzabile profondità e ampiezza, giacché, pur non corrispondendo a volumi abitativi coperti, rientrano nel concetto civilistico di costruzione, in quanto destinati ad estendere ed ampliare la consistenza dei fabbricati (Cass. n. 12964 del 2006).
Pertanto, mentre rientrano nella categoria degli sporti, non computabili ai fini delle distanze, soltanto quegli elementi con funzione di rifinitura od accessoria (come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili), costituiscono, invece, corpi di fabbrica, computabili ai predetti fini, le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni (Cass. n. 17242 del 2010; Cass. n. 18282 del 2016).
Integra, dunque, la nozione di "volume tecnico", non computabile nella volumetria della costruzione, solo l'opera edilizia priva di alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinata a contenere impianti serventi -quali quelli connessi alla condotta idrica, termica- di una costruzione principale per esigenze tecnico funzionali dell'abitazione e che non possono essere ubicati nella stessa, e non anche quella che costituisce -come appunto il vano scale- parte integrante del fabbricato, ossia corpo di fabbrica (Cass. n. 2566 del 2011; v. altresì Cass. n. 20886 del 2012) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 27.11.2018 n. 30708).

APPALTIAffidamento con gara per la gestione degli spazi pubblicitari.
Legittimo il regolamento comunale sulla pubblicità nella parte in cui prevede l'affidamento con gara pubblica della gestione degli spazi pubblicitari.

Lo ha stabilito il TAR Puglia-Bari, Sez. III, con la sentenza 26.11.2018 n. 1526 decidendo sul caso che vedeva coinvolto il Comune di Bari.
Il Tar ha tirato in ballo quanto già stabilito dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato che, con la decisione n. 5/2013, dopo aver precisato che «...è una concessione di area pubblica il provvedimento iniziale che conforma il rapporto» aveva chiarito che è «...corretto allocare l'uso degli spazi pubblici contingentati con gara, dovendosi altrimenti ricorrere all'unico criterio alternativo dell'ordine cronologico di presentazione delle domande accoglibili, che è di certo meno idoneo ad assicurare l'interesse pubblico all'uso più efficiente del suolo pubblico e quello dei privati al confronto concorrenziale».
Ne deriva che il procedimento di gara non contrasta con la libera espressione dell'attività imprenditoriale di cui si tratta, considerato, in linea generale, che la procedura ad evidenza pubblica è istituto tipico di garanzia della concorrenza nell'esercizio dell'attività economica privata sull'uso di risorse pubbliche e che, in particolare, la concessione tramite gara dell'uso di beni pubblici per l'esercizio di attività economiche private è istituto previsto dall'ordinamento. Perciò, è fondata la qualificazione della gara come strumento per assicurare il principio costituzionale della libera iniziativa economica anche nell'accesso al mercato degli spazi per la pubblicità.
Dunque, ciò che conta è che, attraverso questo sistema si regolamenta la concessione dell'uso di un'area pubblica, ossia una risorsa limitata, non già la concessione di servizio; il che significa che l'attività di installazione di impianti pubblicitari non perde affatto le sue connotazioni di libera attività imprenditoriale ma assume, semmai, fisionomia di attività economica suscettibile di essere conformata per fini di utilità sociale, secondo quanto esplicitato dall'articolo 41 della Costituzione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 29.11.2018).

EDILIZIA PRIVATA: Mutamento d'uso urbanisticamente rilevante - Configurabilità del reato - Opere in assenza del permesso di costruire in zona sismica e sottoposta a vincolo paesaggistico - Artt. 23-ter, 29, 44, 93, 94, 95, d.PR. n. 380/2001 - Art. 181, d.lgs. n. 42/2004.
In materia edilizia, ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001, nel caso di interventi eseguiti in difetto o in difformità del permesso di costruire, costituisce "mutamento d'uso urbanisticamente rilevante" ogni forma di utilizzo di un immobile o di una singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata da opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità ad una diversa categoria funzionale fra quelle elencate dall'art. 23-ter, comma primo, del d.PR. n. 380/2001 (Cass. Sez. 3, n. 12904 del 03/12/2015, dep. 2016, Postiglione).
...
Mutamento rilevante della destinazione d'uso - Esecuzione di opere edilizie - Diversa categoria funzionale - Potestà legislativa regionale.
Salva la potestà legislativa regionale, costituisce mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale, va interpretato nel senso che è fatto sempre salvo il caso in cui l'autorizzazione, relativa al mutamento della destinazione d'uso tra categorie omogenee (e, a maggior ragione, tra diverse categorie funzionali), si riferisca ad interventi per i quali siano necessari altri titoli di legittimazione, i quali, in tal caso, vanno comunque preventivamente acquisiti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.11.2018 n. 52398 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Direttore dei lavori - Responsabilità - Posizione di garanzia - Recesso tempestivo dalla direzione dei lavori - Illecito edilizio evidenziato in modo obiettivo o conoscenza che le direttive impartite erano disattese o violate.
In tema di reati edilizi, il direttore dei lavori riveste una posizione di garanzia circa la regolare esecuzione delle opere, con la conseguente responsabilità per le ipotesi di reato configurate, dalla quale può andare esente solo ottemperando agli obblighi di comunicazione e rinuncia all'incarico previsti dall'art. 29, comma secondo, D.P.R. n. 380/2001, sempre che il recesso dalla direzione dei lavori sia stato tempestivo, ossia sia intervenuto non appena l'illecito edilizio si sia evidenziato in modo obiettivo, ovvero non appena abbia avuto conoscenza che le direttive impartite erano disattese o violate (Sez. 3, n. 34376 del 10/05/2005, Scimone, Rv. 232475) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.11.2018 n. 52398 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Attività edilizia libera - Vasche di raccolta delle acque - Segnalazione certificata dì inizio di attività (SCIA) - Limiti - Opere urbanisticamente rilevanti.
Le vasche di raccolta delle acque rientrano normalmente nell'attività edilizia libera (escluso il caso della realizzazione, come nel caso di specie, di cisterne interrate ossia di un volume tecnico di rilevante ingombro destinato ad incidere oggettivamente in modo significativo sui luoghi esterni, Cass. Sez. 3, n. 7217 del 17/11/2010, dep. 2011, La Terra) e tale approdo è confermato dal decreto legislativo 25.11.2016, n. 222 di individuazione di procedimenti oggetto di autorizzazione, segnalazione certificata dì inizio di attività (SCIA), silenzio assenso e comunicazione e di definizione dei regimi amministrativi applicabili a determinate attività e procedimenti, ai sensi dell'articolo 5 della legge 07.08.2015, n. 124 (v. Sezione II, 1.27.), il quale, tuttavia, ovviamente prevede che, se per la realizzazione dell'intervento siano necessari altri titoli di legittimazione, questi vanno acquisiti preventivamente.
Tale regime vale anche per il deposito merci, comunque sottratto, in ogni caso, dall'attività edilizia libera. Indipendentemente dal mutamento della destinazione d'uso di un immobile, quando si realizzano, come nel caso di specie, opere urbanisticamente rilevanti, queste ultime, se soggette al titolo abilitativo edilizio, devono essere realizzate solo previo possesso del titolo previsto in relazione alla loro importanza e natura
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.11.2018 n. 52398 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla modifica dell'immobile da cisterna (vasca deputata alla raccolta delle acque) a magazzino per il deposito merci.
E' pacifico che, in materia edilizia, ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001, nel caso di interventi eseguiti in difetto o in difformità del permesso di costruire, costituisce "mutamento d'uso urbanisticamente rilevante" ogni forma di utilizzo di un immobile o di una singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata da opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità ad una diversa categoria funzionale fra quelle elencate dall'art. 23-ter, comma primo, del decreto citato.
La regola generale è che, in presenza di opere che implichino una stabile (benché non irreversibile) trasformazione del territorio, preordinata a soddisfare esigenze non precarie, è necessario il rilascio di un idoneo titolo edilizio.
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La trasformazione di un vano cisterna interrato, deputato alla raccolta delle acque, in magazzino per il deposito merci con conseguente creazione di superfici commerciali configura modifiche della destinazione d'uso rilevanti, intervenendo tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, con effetti incidenti sul carico urbanistico.
La realizzazione di un magazzino destinato a deposito merci svolge, infatti, una funzione diretta a raccogliere e a conservare merci destinate al commercio, all'artigianato, all'attività industriale e, secondo i casi, non può essere escluso anche l'espletamento di una funzione volta anche al perseguimento di connessi bisogni di natura residenziale.
In un'accezione più ristretta, ma ugualmente rilevante dal punto di vista urbanistico, la realizzazione di un magazzino-deposito svolge una funzione finalizzata a conservare "cose", registrandosi la permanenza umana, sia pure in via accessoria, nelle fasi di carico e scarico delle merci.
L'articolo 23-ter TUA, introdotto nel Testo Unico per l'Edilizia ex d.P.R. n. 380 del 2001 dal cd. decreto "Sblocca Italia" ex decreto-legge 12.09.2014, n. 133, convertito in legge 11.11.2014, n. 164, ha disciplinato il mutamento di destinazione d'uso rilevante, cioè quello che comporta il passaggio tra categorie funzionali urbanisticamente rilevanti, stabilendo che, salva la potestà previsionale in materia alle regioni, costituisce mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale.
Escluso, all'evidenza, che la destinazione d'uso di un magazzino-deposito merci possa rientrare nelle "macro" categorie residenziali, turistico ricettive, rurale, residuano le categorie con destinazioni d'uso commerciale, produttiva e direzionale, dove nella prima (commerciale) il magazzino per deposito merci normalmente deve essere inserito.
La vasche di raccolta delle acque sono, all'evidenza, escluse da tali ultime categorie funzionali.
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Va anche aggiunto che le vasche di raccolta delle acque rientrano normalmente nell'attività edilizia libera (escluso il caso della realizzazione, come nel caso di specie, di cisterne interrate ossia di un volume tecnico di rilevante ingombro destinato ad incidere oggettivamente in modo significativo sui luoghi esterni) e tale approdo è confermato dal decreto legislativo 25.11.2016, n. 222 di individuazione di procedimenti oggetto di autorizzazione, segnalazione certificata di inizio di attività (SCIA), silenzio assenso e comunicazione e di definizione dei regimi amministrativi applicabili a determinate attività e procedimenti, ai sensi dell'articolo 5 della legge 07.08.2015, n. 124, il quale, tuttavia, ovviamente prevede che, se per la realizzazione dell'intervento siano necessari altri titoli di legittimazione, questi vanno acquisiti preventivamente.
Tale regime vale anche per il deposito merci, comunque sottratto, in ogni caso, dall'attività edilizia libera.
Va allora considerato che, indipendentemente dal mutamento della destinazione d'uso di un immobile, quando si realizzano, come nel caso di specie, opere urbanisticamente rilevanti, queste ultime, se soggette al titolo abilitativo edilizio, devono essere realizzate solo previo possesso del titolo previsto in relazione alla loro importanza e natura.
Infatti, quanto al regime amministrativo degli interventi edilizi, la tabella A), allegata al d.lgs. n. 222 del 2017, precisa, nelle sottosezioni che riguardano le varie attività edilizie ed i regimi cui esse sono sottoposte, che, nel caso in cui per la realizzazione dell'intervento siano necessari altri titoli di legittimazione, questi vanno acquisiti preventivamente.
La stessa regula iuris è replicata con riferimento alla modifica dell'originaria destinazione d'uso, nel senso che, nel caso in cui l'autorizzazione (cui comunque è soggetto anche il mutamento d'uso tra categorie omogenee) si riferisca ad interventi per i quali sono necessari altri titoli di legittimazione, questi vanno acquisiti preventivamente.
Ne consegue che il principio secondo il quale, salva la potestà legislativa regionale, costituisce mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale, va interpretato nel senso che è fatto sempre salvo il caso in cui l'autorizzazione, relativa al mutamento della destinazione d'uso tra categorie omogenee (e, a maggior ragione, tra diverse categorie funzionali), si riferisca ad interventi per i quali siano necessari altri titoli di legittimazione, i quali, in tal caso, vanno comunque preventivamente acquisiti.
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3. Da tutto ciò consegue la manifesta infondatezza del primo motivo dei ricorsi.
Il fatto che la modifica dell'immobile da cisterna (vasca deputata alla raccolta delle acque) a magazzino per il deposito merci rientri nella medesima categoria funzionale, non richiedendo il permesso di costruire, è affermato su basi meramente assertive, secondo una qualificazione giuridica del fatto storico accertato, e neppure in proposito contestato, profondamente errata.
E' pacifico, ed anche i ricorrenti mostrano di concordare in proposito, che, in materia edilizia, ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001, nel caso di interventi eseguiti in difetto o in difformità del permesso di costruire, costituisce "mutamento d'uso urbanisticamente rilevante" ogni forma di utilizzo di un immobile o di una singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata da opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità ad una diversa categoria funzionale fra quelle elencate dall'art. 23-ter, comma primo, del decreto citato (Sez. 3, n. 12904 del 03/12/2015, dep. 2016, Postiglione, Rv. 266483). La regola generale è che, in presenza di opere che implichino una stabile (benché non irreversibile) trasformazione del territorio, preordinata a soddisfare esigenze non precarie, è necessario il rilascio di un idoneo titolo edilizio.
Siccome nel caso di specie, sulla base dell'accertamento di fatto compiuto, con logica ed adeguata motivazione, dai giudici del merito, l'entità del deposito dei materiali e la stabilità dell'utilizzazione dell'area emergono con evidenza, è da ritenersi realizzata una trasformazione permanente dell'assetto edilizio del territorio, necessitante di permesso a costruire.
La trasformazione di un vano cisterna interrato, deputato alla raccolta delle acque, in magazzino per il deposito merci con conseguente creazione di superfici commerciali configura modifiche della destinazione d'uso rilevanti, intervenendo tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, con effetti incidenti sul carico urbanistico.
La realizzazione di un magazzino destinato a deposito merci svolge, infatti, una funzione diretta a raccogliere e a conservare merci destinate al commercio, all'artigianato, all'attività industriale e, secondo i casi, non può essere escluso anche l'espletamento di una funzione volta anche al perseguimento di connessi bisogni di natura residenziale.
In un'accezione più ristretta, ma ugualmente rilevante dal punto di vista urbanistico, la realizzazione di un magazzino-deposito svolge una funzione finalizzata a conservare "cose", registrandosi la permanenza umana, sia pure in via accessoria, nelle fasi di carico e scarico delle merci.
L'articolo 23-ter TUA, introdotto nel Testo Unico per l'Edilizia ex d.P.R. n. 380 del 2001 dal cd. decreto "Sblocca Italia" ex decreto-legge 12.09.2014, n. 133, convertito in legge 11.11.2014, n. 164, ha disciplinato il mutamento di destinazione d'uso rilevante, cioè quello che comporta il passaggio tra categorie funzionali urbanisticamente rilevanti, stabilendo che, salva la potestà previsionale in materia alle regioni, costituisce mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale.
Escluso, all'evidenza, che la destinazione d'uso di un magazzino-deposito merci possa rientrare nelle "macro" categorie residenziali, turistico ricettive, rurale, residuano le categorie con destinazioni d'uso commerciale, produttiva e direzionale, dove nella prima (commerciale) il magazzino per deposito merci normalmente deve essere inserito.
La vasche di raccolta delle acque sono, all'evidenza, escluse da tali ultime categorie funzionali.
Da ciò già consegue la manifesta infondatezza del motivo di ricorso.
Va anche aggiunto che le vasche di raccolta delle acque rientrano normalmente nell'attività edilizia libera (escluso il caso della realizzazione, come nel caso di specie, di cisterne interrate ossia di un volume tecnico di rilevante ingombro destinato ad incidere oggettivamente in modo significativo sui luoghi esterni: Sez. 3, n. 7217 del 17/11/2010, dep. 2011, La Terra, Rv. 249529) e tale approdo è confermato dal decreto legislativo 25.11.2016, n. 222 di individuazione di procedimenti oggetto di autorizzazione, segnalazione certificata di inizio di attività (SCIA), silenzio assenso e comunicazione e di definizione dei regimi amministrativi applicabili a determinate attività e procedimenti, ai sensi dell'articolo 5 della legge 07.08.2015, n. 124 (v. Sezione II, 1.27.), il quale, tuttavia, ovviamente prevede che, se per la realizzazione dell'intervento siano necessari altri titoli di legittimazione, questi vanno acquisiti preventivamente.
Tale regime vale anche per il deposito merci, comunque sottratto, in ogni caso, dall'attività edilizia libera.
Va allora considerato che, indipendentemente dal mutamento della destinazione d'uso di un immobile, quando si realizzano, come nel caso di specie, opere urbanisticamente rilevanti, queste ultime, se soggette al titolo abilitativo edilizio, devono essere realizzate solo previo possesso del titolo previsto in relazione alla loro importanza e natura.
Infatti, quanto al regime amministrativo degli interventi edilizi, la tabella A), allegata al d.lgs. n. 222 del 2017, precisa, nelle sottosezioni che riguardano le varie attività edilizie ed i regimi cui esse sono sottoposte, che, nel caso in cui per la realizzazione dell'intervento siano necessari altri titoli di legittimazione, questi vanno acquisiti preventivamente.
La stessa regula iuris è replicata con riferimento alla modifica dell'originaria destinazione d'uso, nel senso che (v. Sezione II, punto 39, colonna "concentrazione dei regimi amministrativi"), nel caso in cui l'autorizzazione (cui comunque è soggetto anche il mutamento d'uso tra categorie omogenee) si riferisca ad interventi per i quali sono necessari altri titoli di legittimazione, questi vanno acquisiti preventivamente (v. sottosezione 1.1.).
Ne consegue che il principio secondo il quale, salva la potestà legislativa regionale, costituisce mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale, va interpretato nel senso che è fatto sempre salvo il caso in cui l'autorizzazione, relativa al mutamento della destinazione d'uso tra categorie omogenee (e, a maggior ragione, tra diverse categorie funzionali), si riferisca ad interventi per i quali siano necessari altri titoli di legittimazione, i quali, in tal caso, vanno comunque preventivamente acquisiti.
Anche per tale ragione, quindi, il motivo di ricorso è manifestamente infondato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.11.2018 n. 52398).

EDILIZIA PRIVATA: In tema di reati edilizi, il direttore dei lavori riveste una posizione di garanzia circa la regolare esecuzione delle opere, con la conseguente responsabilità per le ipotesi di reato configurate, dalla quale può andare esente solo ottemperando agli obblighi di comunicazione e rinuncia all'incarico previsti dall'art. 29, comma secondo, D.P.R. n. 380/2001, sempre che il recesso dalla direzione dei lavori sia stato tempestivo, ossia sia intervenuto non appena l'illecito edilizio si sia evidenziato in modo obiettivo, ovvero non appena abbia avuto conoscenza che le direttive impartite erano disattese o violate.
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4. E' inammissibile anche il secondo motivo del ricorso Fe..
La Corte territoriale ha affermato come, alla luce del quadro probatorio acquisito ed avuto particolare riguardo alla deposizione del Marino, sia emerso che il Fe., quanto dalla missiva a sua firma depositata in udienza e datata 20.12.2012, abbia comunicato le proprie dimissioni soltanto dopo l'esecuzione del sopralluogo e l'accertamento della violazione.
Da ciò la Corte d'appello ha tratto il logico convincimento come la comunicazione intempestiva delle proprie dimissioni, escluda che il ricorrente, in qualità di direttore dei lavori, possa andare esente da responsabilità ai sensi dell'articolo 29 d.P.R. n. 380 del 2001.
Nel pervenire a tale conclusione la Corte distrettuale si è attenuta al principio di diritto affermato dalla giurisprudenza di legittimità secondo il quale, in tema di reati edilizi, il direttore dei lavori riveste una posizione di garanzia circa la regolare esecuzione delle opere, con la conseguente responsabilità per le ipotesi di reato configurate, dalla quale può andare esente solo ottemperando agli obblighi di comunicazione e rinuncia all'incarico previsti dall'art. 29, comma secondo, D.P.R. n. 380/2001, sempre che il recesso dalla direzione dei lavori sia stato tempestivo, ossia sia intervenuto non appena l'illecito edilizio si sia evidenziato in modo obiettivo, ovvero non appena abbia avuto conoscenza che le direttive impartite erano disattese o violate (Sez. 3, n. 34376 del 10/05/2005, Scimone, Rv. 232475)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.11.2018 n. 52398).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGORevocabili le dimissioni del dipendente comunale «stressato» dal lavoro.
Con la sentenza 21.11.2018 n. 30126 la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, ha affermato, contro un Comune-datore di lavoro, che sono annullabili le dimissioni date dal dipendente pubblico -afflitto da stress lavorativo e da conseguenti malattie accertate- in un momento in cui, tra l'altro, era privo di alternative prospettive di lavoro e aveva una famiglia da mantenere.
La mancanza di volontà
Una vera e propria incapacità di intendere e volere, anche se temporanea, che dà al lavoratore la possibilità di revocare le dimissioni date per l'insostenibilità dell'ambiente lavorativo e anche in assenza di azioni per mobbing contro il datore di lavoro, che aveva tra l'altro sempre respinto la richiesta di un cambiamento del posto di lavoro. Inoltre, le dimissioni non risultavano accettate dal Comune che, come nel settore privato, avrebbe dovuto convalidare la genuinità dell'atto unilaterale del lavoratore.
Sul punto specifico i giudici di merito non avevano dato rilievo al fatto che la mancata previsione legislativa espressa della doverosa accettazione delle dimissioni unilaterali, da parte del datore di lavoro pubblico, non la esclude anzi al contrario. Infatti, in più passaggi la sentenza fa notare che nell’ambito del pubblico impiego contrattualizzato, dove questo non è espressamente parificato al rapporto privato di lavoro, non si può propendere per l’applicazione di minori garanzie, tenuto conto che la «ritrosia ad accomunare le diverse discipline muove dall’opposto presupposto». Ovviamente si allude alla ritrosia del Legislatore.
Nel caso specifico, le dimissioni risultavano gestite dall’Unione di Comuni cui era affidato, appunto, il servizio di gestione del personale. E, il Comune risultava averne solo preso atto, senza alcuna verifica diretta della loro genuinità e volontarietà. Ma il momento del recesso dal contratto di lavoro è momento delicato che non può essere privato delle dovute cautele. A maggior ragione nel pubblico impiego.
La sentenza
Per la Cassazione il caso posto alla sua attenzione rientra a pieno titolo nella previsione dell’articolo 428 del Codice civile sull’annullabilità del negozio giuridico concluso in stato di incapacità di intendere e volere. Dando così validità all’atto di revoca delle dimissioni da parte di chi -in tale stato- le ha rassegnate.
Al contrario i giudici di merito hanno escluso l’esistenza dell’incapacità psichica in cui versava il lavoratore dimissionario, basandosi sulla relazione dle Ctu che, pur riconoscendo una serie di patologie dipendenti dallo stress lavorativo, aveva negato la totale perdita della capacità di intendere e volere. Ma la Cassazione ha respinto questa adesione supina delle sentenza di merito ai rilievi del Ctu che possono solo fornire una valutazione specialistica dei fatti, ma non trarne conclusioni in relazione alla vicenda sub iudice.
La Cassazione così chiarisce -anche al giudice a cui ha rinviato la causa- che l’incapacità che determina l’annullabilità di un atto giuridico può ben essere momentanea e non esclusa dalla riviviscenza dello stato di lucidità (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 22.11.2018).
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MASSIMA
3. Il primo motivo di ricorso è da accogliere, per le ragioni e nei limiti di seguito indicati.
4. La fattispecie prevista dall'art. 428 cod. civ. è stata più volte presa in considerazione da questa Corte che ha elaborato, fra l'altro, i seguenti principi utilmente richiamabili come quadro di riferimento dello stato della giurisprudenza in materia:
   a) ai fini della sussistenza di una situazione di incapacità di intendere e di volere (quale prevista dall'art. 428 cod. civ.) costituente causa di annullamento del negozio (nella specie, dimissioni), non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente un turbamento psichico tale da impedire la formazione di una volontà cosciente, facendo così venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la consapevolezza in ordine all'importanza dell'atto che sta per compiere (Cass. 22.05.1969 n. 1797; Cass. 15.01.2004, n. 515; Cass. 28.03.2002 n. 4539; Cass. 01.09.2011, n. 17977);
   b) l'incapacità naturale consiste in ogni stato psichico abnorme, pur se improvviso e transitorio e non dovuto a una tipica infermità mentale o a un vero e proprio processo patologico, che -con riguardo al momento in cui il negozio è posto in essere- abolisca o scemi notevolmente le facoltà intellettive o volitive, in modo da impedire od ostacolare una seria valutazione degli atti che si compiono o la formazione di una volontà cosciente (Cass. 12.07.1991 n. 7784; Cass. 14.05.2003 n. 7485);
   c) la prova dell'incapacità naturale può essere data con ogni mezzo o in base a indizi e presunzioni, che anche da soli, se del caso, possono essere decisivi ai fini della sua configurabilità (Cass. 07.04.2000 n. 4344; si è, infatti, affermato (Cass. 28.03.2002 n. 4539);
   d) nel caso di incapacità dovuta a malattia non si può prescindere da una valutazione delle possibilità di regresso della malattia manifestatasi anteriormente o posteriormente, per stabilirne la sua sussistenza nel momento dell'atto (Cass. 15.06.1995 n. 6756);
   e) ma in presenza di una malattia psichica, se sia stato accertata la totale incapacità di un soggetto in due determinati periodi, prossimi nel tempo, per il periodo intermedio la sussistenza dell'incapacità è assistita da presunzione "iuris tantum", sicché, in concreto, si verifica l'inversione dell'onere della prova nel senso che, in siffatta ipotesi, deve essere dimostrato, da chi vi abbia interesse, che il soggetto abbia agito in una fase di lucido intervallo (Cass. 28.03.2002 n. 4539; Cass. 09.08.2011, n. 17130; Cass. 04.03.2016, n. 4316);
   f) analoga presunzione è stata ritenuta sussistente nell'ipotesi di una situazione di malattia mentale di carattere permanente, affermandosi che ricade su chi sostiene la validità dell'atto l'onere di dimostrare l'esistenza di un eventuale lucido intervallo, tale da ridare al soggetto l'attitudine a rendersi conto della natura e dell'importanza dell'atto (Cass. 26.11.1997 n. 11833;
   g) nella stessa ottica, si è precisato che quando esista una situazione di malattia mentale di carattere tendenzialmente permanente, o protraentesi per un rilevante periodo, è onere del soggetto che sostiene la validità dell'atto dare prova che esso fu posto in essere, in quel periodo, durante una fase di remissione della patologia, aggiungendosi che ove la malattia abbia caratteristiche "bipolari", sia cioè caratterizzata dalla alternanza di fasi depressive e di fasi di eccitamento, nel quadro di un disturbo psico-affettivo, può non essere di per sé decisiva la circostanza che l'atto sia stato posto in essere nell'una o nell'altra fase, giacché in entrambe le ipotesi potrebbe essere esistita incapacità di intendere oppure di volere (Cass. 12.03.2004, n. 5159).
5. I su riportati principi trovano applicazione anche in caso di domanda di annullamento dell'atto di dimissione del lavoratore dal rapporto di lavoro (vedi: Cass. 14.05.2003 n. 7485, cit.), con alcune puntualizzazioni quanto alle peculiari caratteristiche dell'atto e alle conseguenze del suo possibile annullamento.
5.1. In particolare, in base a consolidati e condivisi orientamenti di questa Corte, è stato affermato quanto segue:
   a) nel giudizio promosso dal lavoratore in cui si controverta sulle modalità di risoluzione del rapporto di lavoro l'indagine circa la sussistenza di dimissioni del lavoratore deve essere rigorosa, essendo in discussione beni giuridici primari, oggetto di particolare tutela da parte dell'ordinamento -attesa la natura di negozio giuridico unilaterale delle dimissioni, che è diretto alla rinunzia del posto di lavoro, bene protetto dagli artt. 4 e 36 Cost.- sicché occorre accertare che da parte del lavoratore sia stata manifestata in modo univoco l'incondizionata volontà di porre fine al rapporto stesso (vedi, per tutte: Cass. 09.04.2014, n. 8361; Cass. 03.03.2015, 4241; Cass. 11.11.2010, n. 22901; Cass. 27.08.2003, n. 12549);
   b) in caso di dimissioni date dal lavoratore in stato di incapacità naturale, il diritto a riprendere il lavoro nasce con la sentenza di annullamento ex art. 428 cod. civ., i cui effetti retroagiscono al momento della domanda, stante il principio secondo cui la durata del processo non deve andare a detrimento della parte vincitrice; solo da quel momento nasce il diritto alla retribuzione, in quanto l'efficacia totalmente ripristinatoria dell'annullamento del negozio unilaterale risolutivo del rapporto di lavoro non si estende al diritto alla retribuzione, la quale di regola, salvo espressa eccezione di legge, non è dovuta in caso di mancanza di attività lavorativa (Cass. 14.04.2010, n. 8886);
   c) poiché il lavoro pubblico contrattualizzato è regolato dalle norme del codice civile e dalle leggi civili sul lavoro, nonché dalle norme sul pubblico impiego, solo in quanto non espressamente abrogate e non incompatibili, le dimissioni del lavoratore pubblico costituiscono un negozio unilaterale recettizio, idoneo a determinare la risoluzione del rapporto di lavoro dal momento in cui vengano a conoscenza del datore di lavoro e indipendentemente dalla volontà di quest'ultimo di accettarle, sicché non necessitano più, per divenire efficaci, di un provvedimento di accettazione da parte della Pubblica Amministrazione, anche se tale principio va contemperato con le esigenze di natura organizzativa collegate al buon andamento dell'attività della Pubblica Amministrazione di cui si tratta (Cass. 07.01.2009, n. 57; Cass. 05.03.2013, n. 5413; Cass. 12.02.2015, n. 2795);
   d) peraltro nel rapporto di lavoro alle dipendenze della PA, al dipendente dimissionario si applica l'istituto della riammissione in servizio, che non dà luogo alla reviviscenza del precedente rapporto di lavoro, ma alla costituzione di un nuovo rapporto, anche se disposizioni di legge (quale l'art. 132 del d.P.R. n. 3 del 1957) o di contratto collettivo prevedono la riammissione nel ruolo precedentemente ricoperto o l'attribuzione dell'anzianità pregressa; pertanto, ai fini della progressione economica maturata dopo le dimissioni, va considerato come termine iniziale la data del provvedimento di riammissione in servizio, da cui decorre l'anzianità nella qualifica del dipendente riammesso agli effetti sia giuridici che economici (Cass. 18.12.2017, n. 30342; Cass. SU 21.12.2009, n. 26827).
6. Ne consegue che la disciplina che regola le dimissioni nel lavoro pubblico non coincide del tutto con quella prevista per il lavoro privato, però anche ad essa va comunque applicato il principio generale della piena genuinità e dell'autenticità delle dimissioni, perché non estendere tale principio ai dipendenti pubblici equivarrebbe ad indebolirne la posizione rispetto ai dipendenti privati, mentre la ritrosia ad accomunare le discipline muove dall'opposto presupposto.
Del resto, proprio nel lavoro pubblico perché l'eventuale annullamento delle dimissioni non comporta l'automatico rientro del dipendente nel posto precedentemente occupato, è evidente che il rispetto del suddetto principio assume valore centrale.
7. Ciò posto in generale, come quadro di riferimento della giurisprudenza rilevante in materia, per quel che riguarda il caso di specie deve rimarcarsi che la Corte d'appello ha dato atto di un incontestato accertamento dei fatti caratterizzato da:
   a) la relazione del CTU nominato in appello attestante che il Padovani pure nel momento delle dimissioni aveva mostrato un "notevole turbamento psichico" anche se non era in condizioni di "totale" esclusione della capacità psichica e volitiva;
   b) la riconosciuta necessità di valutare la decisione di rassegnare le dimissioni nell'ambito del contesto lavorativo dell'epoca, fonte di stress e insoddisfazione per l'interessato e tenendo conto delle conseguenti patologie contratte e diagnosticate dai medici curanti nonché dei molteplici tentativi di cambiare l'ambiente lavorativo effettuati invano dal Padovani;
   c) la sussistenza di un serio pregiudizio sicuramente arrecato dalle dimissioni al Pa., visto che egli all'epoca era privo di un'alternativa di lavoro e con una famiglia da mantenere.
8. Su questa base la Corte territoriale è pervenuta alla conclusione di escludere, per non meglio precisati "criteri di maggiore probabilità logica", la configurabilità delle dimissioni del Padovani come il frutto di un momento di inconsapevolezza dell'agire, pur considerandole l'epilogo di una condizione di malessere lavorativo, che si era tradotto di conclamate patologie.
È del tutto evidente che una simile conclusione si pone in contrasto con i principi dianzi riportati in primo luogo perché, come risulta dalla complessiva lettura della sentenza, in essa si muove dall'erronea premessa secondo cui il "notevole turbamento psichico", oltretutto inserito in un quadro patologico diagnosticato, non è sufficiente ai fini della sussistenza di una situazione di incapacità di intendere e di volere (quale prevista dall'art. 428 cod. civ.), essendo necessaria una totale esclusione della capacità psichica e volitiva.
Questa tesi è, di per sé, il frutto di una interpretazione dell'art. 428 cod. civ. non conforme a quella offerta dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte.
8.1. Né può essere giustificata dal tenore delle conclusioni del CTU secondo cui anche se il Pa. mostrava un notevole turbamento psichico pure nel momento delle dimissioni tuttavia egli non si trovava in quel momento in condizioni di totale esclusione della capacità psichica e volitiva "e quindi in condizioni di incapacità naturale".
Infatti, in base ad un consolidato e condiviso indirizzo di questa Corte, la consulenza tecnica ha un limite intrinseco consistente nella sua funzionalità alla risoluzione di questioni di fatto presupponenti cognizioni di ordine tecnico e non giuridico, sicché così come i consulenti tecnici non possono essere incaricati di accertamenti e valutazioni circa la qualificazione giuridica di fatti e la conformità al diritto di comportamenti, analogamente se per ipotesi il consulente effettua simili valutazioni, in linea di massima, non se ne deve tenere conto (Cass. 29.08.2011, n. 17720; Cass. SU 06.05.2008, n. 11037; Cass. 04.02.1999, n. 996).
8.2. A ciò va aggiunto che la Corte d'appello, pur riconoscendo la sussistenza di patologie contratte dal Padovani e diagnosticate dai medici, come originate dallo stress e dall'insoddisfazione nel lavoro, non ha ritenuto tale complessivo quadro clinico rilevante per la qualificazione della situazione del lavoratore al momento delle dimissioni come di incapacità naturale, anche se, secondo la menzionata relazione del CTU, il lavoratore in quel momento mostrava un notevole turbamento psichico.
Né la Corte territoriale ha, a tal fine, considerato la natura di negozio giuridico unilaterale delle dimissioni, posto in essere dal lavoratore e avente come conseguenza la rinunzia del posto di lavoro, bene protetto dagli artt. 4 e 36 Cost., che oltretutto nel caso concreto era foriero di un accertato sicuro pregiudizio per l'interessato e la sua famiglia.
III — Conclusioni
9. Per le indicate ragioni -ed in questi limiti- deve essere accolto il primo motivo di ricorso e ciò porta all'assorbimento degli altri motivi.
La sentenza impugnata deve essere, quindi, cassata, in relazione alle censure accolte, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d'appello di Bologna, in diversa composizione, che si atterrà, nell'ulteriore esame del merito della controversia, a tutti i principi su affermati e, quindi, anche ai seguenti:
   1) "
ai fini della sussistenza di una situazione di incapacità di intendere e di volere (quale prevista dall'art. 428 cod. civ.) costituente causa di annullamento del negozio, non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente un turbamento psichico tale da impedire la formazione di una volontà cosciente, facendo così venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la consapevolezza in ordine all'importanza dell'atto che sta per compiere.
Peraltro, laddove si controverta della sussistenza di una simile situazione in riferimento alle dimissioni del lavoratore subordinato il relativo accertamento deve essere particolarmente rigoroso, in quanto le dimissioni, comportano la rinunzia del posto di lavoro -bene protetto dagli artt. 4 e 36 Cost.- sicché occorre accertare che da parte del lavoratore sia stata manifestata in modo univoco l'incondizionata e genuina volontà di porre fine al rapporto stesso
".
   2) "
la consulenza tecnica ha un limite intrinseco consistente nella sua funzionalità alla risoluzione di questioni di fatto presupponenti cognizioni di ordine tecnico e non giuridico, sicché così come i consulenti tecnici non possono essere incaricati di accertamenti e valutazioni circa la qualificazione giuridica di fatti e la conformità al diritto di comportamenti, analogamente se per ipotesi il consulente effettua, di propria iniziativa, simili valutazioni non se ne deve tenere conto, a meno che esse vengano vagliate criticamente e sottoposte al dibattito processuale delle parti".

PUBBLICO IMPIEGOAnche il dirigente risponde per la falsa timbratura ma non per truffa.
Secondo il contratto collettivo, il dirigente pubblico può essere sottoposto all'obbligo di timbratura finalizzato al calcolo di ferie, missioni e buoni pasto, ma non certo alla determinazione delle ore di presenza negli uffici, essendo la sua retribuzione parametrata al solo raggiungimento degli obiettivi.
Tuttavia, nel caso in cui il dirigente pubblico dovesse violare il sistema di rilevazione delle presenze, per qualsiasi motivo, allo stesso non sarebbe applicabile il reato di truffa aggravata, previsto esclusivamente in presenza di un danno erariale economicamente apprezzabile, ma potrebbe incorrere nel reato inserito all'articolo 55-quinques del Dlgs 165/2001 secondo cui «… il lavoratore dipendente di una pubblica amministrazione che attesta falsamente la propria presenza in servizio, mediante l'alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente … é punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da euro 400 ad euro 1.600».
Inoltre, quest'ultima ipotesi di reato risulta compatibile con una eventuale richiesta di applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari o, in subordine, della sospensione dall'esercizio della funzione.

Queste sono le conclusioni della Corte di Cassazione, Sez. VI penale, con la sentenza 20.11.2018 n. 52207.
Il caso
Ha fatto ricorso alla Cassazione il Procuratore della Repubblica, a seguito del rigetto, sia da parte del Gip che del tribunale, della richiesta di misure cautelari nei confronti del dirigente comandante della polizia locale che é stato imputato per truffa aggravata per aver falsamente certificato le propria presenza in ufficio.
Inoltre, non sono state ascoltate le indicazioni fornite dalla difesa secondo la quale la timbratura dei dirigenti è finalizzata al calcolo di ferie, missioni e buoni pasto, ma non certo alla determinazione delle ore di presenza in uffici, essendo la retribuzione parametrata al raggiungimento degli obiettivi, tra l'altro raggiunti, come da attestazione scritta dell'amministrazione.
Le indicazioni della Suprema corte
I giudici di Piazza Cavour hanno escluso che nel caso di specie possa rilevarsi, come sostenuto dal Procuratore, il reato di truffa aggravata, in assenza di un danno economicamente apprezzabile, in quanto le assenze del dirigente, a differenza degli altri dipendenti, non comportano decurtazioni stipendiali conseguenti alla mancata realizzazione della prestazione quale danno subito dalla Pa.
Tuttavia, sia il Gip che il Tribunale non hanno correttamente valutato, come sarebbe stato doveroso, il profilo della falsa attestazione dell'indagato in ordine alla propria presenza in ufficio, pur puntualmente riferita nell'imputazione provvisoria alla fattispecie disciplinata dall'articolo 55-quinquies, comma 1, del Dlgs 165/2001.
Infatti, sia il Tribunale che il Gip hanno dato conto della falsa attestazione, da parte dell'indagato, della propria presenza in ufficio, rilevando che il mendacio è avvenuto «nella fattispecie mediante l'alterazione dei sistemi di rilevamento, ovvero mediante altre attività fraudolente funzionali a giustificare l'assenza».
In questo caso, secondo la Cassazione, le condotte rientrano a pieno titolo in quelle previste dall'articolo 55-quinquies, comma 1, del Dlgs n. 165, dove per il perfezionamento del reato è irrilevante l'accertamento del danno erariale, posto che la disposizione normativa non fa alcun riferimento a quel profilo.
Sulla questione, infatti, la giurisprudenza di legittimità ha già ritenuto ammissibile il concorso tra il reato disciplinato dall'articolo 640, secondo comma, n. 1, del codice penale e quello dell'articolo 55-quinquies, proprio osservando come «la predetta fattispecie, a differenza della truffa, si consuma con la mera falsa attestazione della presenza in servizio attraverso un'alterazione dei sistemi di rilevamento delle presenze (tra le tante, Cass. Sez. 3, n. 47043 del 27/10/2015; Cass. Sez. 3, n. 45696 del 27/10/2015)» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 29.11.2018).
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MASSIMA
5. Il terzo ordine di censure formulate nel ricorso deduce la configurabilità del delitto di truffa aggravata ai danni del Comune di Rovigo mediante falsa attestazione della propria presenza con i sistemi di rilevamento previsti.
5.1. L'ordinanza impugnata ha escluso la configurabilità del delitto di truffa aggravata, richiamando puntualmente le valutazioni del G.i.p. ed osservando che, ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 640, secondo comma, n. 1, cod. pen., è necessario l'accertamento del danno erariale, e che, però, nella specie, la presenza in ufficio era ininfluente in relazione a tale profilo, in quanto la retribuzione dell'indagato non era collegata ad orari di lavoro.
Sia l'ordinanza impugnata, sia, più ampiamente, quella del G.i.p., tuttavia, danno conto della falsa attestazione della propria presenza in ufficio da parte dell'indagato siccome avvenuta «nella fattispecie mediante l'alterazione dei sistemi di rilevamento, ovvero mediante altre attività fraudolente funzionali a giustificare l'assenza».
La memoria della difesa, nel contestare la configurabilità del reato di truffa, osserva, tra l'altro, che «molte contestazioni appaiono del tutto erronee»; partendo da questa notazione, però, è ragionevole desumere, a contrario, e per quello che rileva in questa sede, che non vengono, allo stato, poste in discussione le conclusioni dell'ordinanza impugnata in ordine alla sussistenza di "tutte" le condotte di falsa attestazione.
5.2. Questa essendo la ricostruzione dei fatti oggetto di accusa, indubbiamente corretta risulta l'esclusione dei gravi indizi di colpevolezza in ordine al reato di truffa aggravata.
In effetti,
secondo un principio assolutamente consolidato in giurisprudenza, in tema di truffa aggravata in danno dello Stato, nel caso in cui la condotta consista in ripetute assenze ingiustificate dell'impiegato pubblico dal luogo di lavoro, occorre che queste determinino un danno economicamente apprezzabile, sicché è onere del giudice di merito considerare a tal fine anche l'eventuale ricorrenza di decurtazioni stipendiali conseguenti proprio alla mancata realizzazione della prestazione (così, per tutte, Sez. 2, n. 14975 del 16/03/2018, Tropea, Rv. 272543, e Sez. 2, n. 52007 del 24/11/2016, Sembira Nahum, Rv. 268435).
5.3. La condotta contestata, tuttavia, non è stata valutata, come sarebbe stato doveroso, con specifico riferimento al profilo della falsa attestazione dell'indagato in ordine alla propria presenza in ufficio, pur puntualmente riferita nell'imputazione provvisoria alla fattispecie di cui all'art. 55-quinquies, comma 1, d.lgs. n. 165 del 2001.
Si è osservato che sia l'ordinanza impugnata, sia, più ampiamente, quella del G.i.p. danno conto della falsa attestazione, da parte dell'indagato, della propria presenza in ufficio, precisandosi che il mendacio è avvenuto «nella fattispecie mediante l'alterazione dei sistemi di rilevamento, ovvero mediante altre attività fraudolente funzionali a giustificare l'assenza».
Tali condotte, siccome ricostruite in questi termini, risultano corrispondere esattamente ad alcune di quelle descritte dall'art. 55- uinquies, comma 1, d.lgs. n. 165 del 2001. Del resto,
per il perfezionamento della figura di reato appena indicata è irrilevante l'accertamento del danno erariale, posto che la disposizione normativa non fa alcun riferimento a tale profilo, ed in questo senso è stata letta dalla giurisprudenza di legittimità, la quale, in particolare, ha ritenuto ammissibile il concorso tra il reato di cui all'art. 640, secondo comma, n. 1, cod. pen., e quello di cui all'art. 55-quinquies cit., proprio osservando come «la predetta fattispecie, a differenza della truffa, si consuma con la mera falsa attestazione della presenza in servizio attraverso un'alterazione dei sistemi di rilevamento delle presenze» (così Sez. 3, n. 47043 del 27/10/2015, Mozzillo, Rv. 265223, e Sez. 3, n. 45696 del 27/10/2015, Chianese, Rv. 265400).
Ne consegue che il giudice del merito cautelare avrebbe dovuto esaminare se le condotte in questione siano sussumibili nel tipo delittuoso di cui all'art. 55-quinquies, comma 1, d.lgs. n. 165 del 2001. In relazione a tale figura di reato, infatti, è prevista una pena da uno a cinque anni, che consente l'applicazione di una misura cautelare personale, coercitiva o interdittiva, ovviamente all'esito di una positiva verifica, in concreto, della sussistenza delle esigenze cautelari.
6. In conclusione, l'ordinanza impugnata deve essere annullata per nuovo esame.
Secondo quanto precedentemente precisato,
il nuovo esame dovrà avere ad oggetto l'accertamento della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari nei confronti dell'indagato esclusivamente con riferimento al reato di cui all'art. 55-quinquies, comma 1, d.lgs. n. 165 del 2001, e, in caso positivo, l'individuazione della misura che risulti idonea, adeguata e proporzionata.

PUBBLICO IMPIEGO: Sulla questione se l'uso, da parte di un pubblico ufficiale, di una autovettura di servizio per recarsi dall'ufficio alla propria abitazione, restando sempre all'interno del territorio di un comune, ed effettuando percorsi limitati, dalle due alle sei volte al mese nell'arco di sette mesi, integri il delitto di peculato o il delitto di peculato d'uso.
Deve farsi applicazione della disciplina del peculato d'uso, eventualmente ritenendo sussistenti più condotte legate dal vincolo della continuazione, in linea con l'insegnamento giurisprudenziale secondo cui ricorre la figura giuridica di cui all'art. 314, secondo comma, cod. pen. quando vi è la preordinazione dell'appropriazione ad un uso, secondo il dettato normativo, «momentaneo», e quindi "temporaneo", ma perciò non meramente "istantaneo", della cosa, e alla immediata restituzione della stessa dopo il breve utilizzo.
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Le Sezioni Unite hanno precisato che non integra il delitto di falso ideologico in atto pubblico la falsa attestazione del pubblico dipendente circa la sua presenza in ufficio riportata nei cartellini marcatempo e nei fogli di presenza, ma anche nell'ambito di dichiarazioni relative a «"missioni" fuori sede», in quanto si tratta di documenti che hanno natura di mera attestazione del dipendente inerente al rapporto di lavoro, soggetto a disciplina privatistica, e che «in ciò esauriscono in via immediata i loro effetti, non involgendo affatto manifestazioni dichiarative, attestative o di volontà riferibili alla pubblica amministrazione»
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In effetti,
anche quando si è affermata la configurabilità del reato di falso ideologico in atto pubblico con riferimento al contenuto mendace di attestazioni concernenti la propria attività di servizio, si è sempre sottolineata la necessità, per poter ritenere integrata la fattispecie, che la falsa attestazione dispieghi un oggettivo rilievo e un interesse eccedente l'area del mero rapporto di impiego tra ente pubblico e dipendente, per il contenuto relativo anche a manifestazione esterna della volontà e dell'azione della P.A..
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In considerazione della complessiva evoluzione giurisprudenziale e legislativa,
appare corretto escludere la riconducibilità alla categoria dell'atto pubblico di tutte le attestazioni del dipendente pubblico inerenti al rapporto di lavoro e non involgenti manifestazioni dichiarative, attestative o di volontà riferibili alla pubblica amministrazione.
Ed infatti, se non sono riconducibili alla categoria dell'atto pubblico le attestazioni relative alla presenza in servizio, ossia le più significative attestazioni del pubblico dipendente nell'ambito ed ai fini del rapporto di lavoro, e proprio perché inerenti al rapporto di lavoro, in quanto rapporto regolato da disciplina privatistica, non sembra ragionevole qualificare come atti pubblici altre attestazioni comunque inerenti al medesimo rapporto di lavoro.

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Costituisce principio più volte affermato in giurisprudenza quello secondo cui, in materia di falso, per poter qualificare come certificato amministrativo un atto proveniente da un pubblico ufficiale, devono concorrere due condizioni:
   a) che l'atto non attesti i risultati di un accertamento compiuto dal pubblico ufficiale redigente, ma riproduca attestazioni già documentate;
   b) che l'atto, pur quando riproduca informazioni desunte da altri atti già documentati, non abbia una propria distinta e autonoma efficacia giuridica, ma si limiti a riprodurre anche gli effetti dell'atto preesistente
.
Si può rilevare, inoltre, che, significativamente, le Sezioni Unite, quando hanno escluso la configurabilità del reato di falso ideologico in atto pubblico con riferimento alla falsa attestazione del pubblico dipendente circa la sua presenza in ufficio riportata nei cartellini marcatempo e nei fogli di presenza, ovvero nell'ambito di dichiarazioni relative a «"missioni" fuori sede», hanno pronunciato sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste, senza procedere ad alcuna riqualificazione giuridica del fatto in contestazione.
In sintesi, allora,
può ritenersi che eventuali mendaci annotazioni sui "registri macchina", se ed in quanto questi
siano destinati esclusivamente a controlli interni della Pubblica amministrazione nonché strettamente inerenti al rapporto di lavoro tra il dipendente e l'ente pubblico, non sono sussumibili né nella fattispecie della falsità ideologica del pubblico ufficiale in atto pubblico, né nella fattispecie della falsità ideologica del pubblico ufficiale in certificati o autorizzazioni amministrative.
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3.2. In considerazione dei fatti come ricostruiti nell'ordinanza impugnata, la questione da esaminare, quindi, è se l'uso, da parte di un pubblico ufficiale, di una autovettura di servizio per recarsi dall'ufficio alla propria abitazione, restando sempre all'interno del territorio di un comune, ed effettuando percorsi limitati, dalle due alle sei volte al mese nell'arco di sette mesi, integri il delitto di peculato o il delitto di peculato d'uso.
Il Pubblico ministero ricorrente richiama due precedenti della giurisprudenza di legittimità che ritengono la configurabilità del reato di peculato con riferimento a condotte di utilizzazione prolungata di beni mobili per finalità extra-istituzionali (Sez. 6, n. 53974 del 15/11/2016, Freda, Rv. 268588, e Sez. 6, n. 13038 del 10/03/2016, Bertin, Rv. 266191).
Tuttavia, la decisione più risalente, se rappresenta che «non è necessaria la perdita definitiva del bene da parte dell'ente pubblico», ritiene comunque che debba essere accertato «l'esercizio da parte dell'agente sul medesimo bene dei poteri uti dominus, tale da sottrarre il bene stesso alla disponibilità dell'ente».
La decisione più recente, poi, premette che l'orientamento seguito, al quale va ascritta anche Sez. 6, Bertin, cit., «più che contrastare, opera un distinguo rispetto all'orientamento secondo cui la reiterazione delle condotte di utilizzo indebito dell'autovettura di servizio configura il delitto di peculato d'uso continuato (in tal senso v. Sez. 6 n. 14040 del 29/01/2015, Soardi, Rv.262974, e Sez. 6, n. 39770 del 27/05/2014, Giordano, Rv. 260458)»; precisa, quindi, che ricorre il peculato, e non il peculato d'uso, «quando il bene di proprietà pubblica è gestito con criteri personalistici, per un periodo prolungato ed al di fuori di ogni controllo, fino al punto che non è più possibile stabilire se, e in che misura, la cosa rimanga ancora destinata a finalità pubblicistiche».
Entrambe queste decisioni, inoltre, avevano ad oggetto condotte relative a beni trasferiti e poi custoditi lungamente in luoghi privati e del tutto estranei all'esercizio di funzioni pubblicistiche.
Nella vicenda in esame, il fatto, per come ricostruito dai giudici di merito, non è costituito dalla completa sottrazione dell'autovettura di proprietà del Comune di Rovigo alla finalità pubblicistica per un periodo di tempo prolungato, bensì, diversamente, da un ripetuto, ma episodico, uso indebito della stessa, e per tragitti limitati.
Deve, quindi, farsi applicazione della disciplina del peculato d'uso, eventualmente ritenendo sussistenti più condotte legate dal vincolo della continuazione, in linea con l'insegnamento giurisprudenziale secondo cui ricorre la figura giuridica di cui all'art. 314, secondo comma, cod. pen. quando vi è la preordinazione dell'appropriazione ad un uso, secondo il dettato normativo, «momentaneo», e quindi "temporaneo", ma perciò non meramente "istantaneo", della cosa, e alla immediata restituzione della stessa dopo il breve utilizzo (Sez. 6 n. 14040 del 29/01/2015, Soardi, Rv. 262974, e Sez. 6, n. 39770 del 27/05/2014, Giordano, Rv. 260458).
4. Il secondo ordine di censure formulate nel ricorso deduce, infondatamente, la configurabilità del delitto di falso ideologico in atto pubblico, con riferimento alle annotazioni sui "registri macchina" concernenti i tragitti dell'autovettura Fiat Punto sopra precisata.
4.1. I "registri macchina", secondo quanto ricostruito sia dal G.i.p., sia dal Tribunale del riesame, sono atti che riportano la data e l'orario dell'utilizzo dei veicoli cui si riferiscono, i km. in entrata ed in uscita, nonché la firma dell'utente utilizzatore, e sono destinati a controlli interni dell'amministrazione. Si può rilevare, inoltre, che la natura di atti interni dei "registri macchina" non è stata contestata nemmeno nel ricorso del Pubblico ministero.
4.2. La ricostruzione in punto di fatto appena indicata costituisce premessa fondamentale per la qualificazione della condotta relativa alla falsificazione di tali atti.
4.2.1. Deve escludersi, innanzitutto, la configurabilità del reato di falso ideologico in atto pubblico.
Le Sezioni Unite hanno precisato che non integra il delitto di falso ideologico in atto pubblico la falsa attestazione del pubblico dipendente circa la sua presenza in ufficio riportata nei cartellini marcatempo e nei fogli di presenza, ma anche nell'ambito di dichiarazioni relative a «"missioni" fuori sede», in quanto si tratta di documenti che hanno natura di mera attestazione del dipendente inerente al rapporto di lavoro, soggetto a disciplina privatistica, e che «in ciò esauriscono in via immediata i loro effetti, non involgendo affatto manifestazioni dichiarative, attestative o di volontà riferibili alla pubblica amministrazione» (così, in motivazione, Sez. U, n. 15983 del 11/04/2006, Sepe, Rv. 233423).
La successiva giurisprudenza ha mantenuto fermo il rispetto di questo principio.
In effetti, anche quando si è affermata la configurabilità del reato di falso ideologico in atto pubblico con riferimento al contenuto mendace di attestazioni concernenti la propria attività di servizio, si è sempre sottolineata la necessità, per poter ritenere integrata la fattispecie, che la falsa attestazione dispieghi un oggettivo rilievo e un interesse eccedente l'area del mero rapporto di impiego tra ente pubblico e dipendente, per il contenuto relativo anche a manifestazione esterna della volontà e dell'azione della P.A. (cfr. in particolare, Sez. 6, n. 8934 del 10/12/2014, dep. 2015, Franzosi, Rv. 262649, e Sez. 5, n. 19 del 13/11/2009, dep. 2010, Rovelli, Rv. 245732).
Del resto, poco dopo la sentenza delle Sezioni Unite, l'art. 69, comma 1, d.lgs. 27.10.2009, n. 150, ha inserito nel d.lgs. 30.03.2001, n. 165, l'art. 55-quinquies, rubricato «False attestazioni o certificazioni», nel quale è dettata una specifica disciplina, anche penalistica, per la falsa attestazione della propria presenza in servizio da parte del lavoratore dipendente di una pubblica amministrazione.
In particolare, l'art. 55-quinquies, comma 1, d.lgs. n. 165 del 2001, come introdotto dall'art. 69, comma 1, d.lgs. n. 150 del 2009, recita: «Fermo quanto previsto dal codice penale, il lavoratore dipendente di una pubblica amministrazione che attesta falsamente la propria presenza in servizio, mediante l'alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente, ovvero giustifica l'assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa o falsamente attestante uno stato di malattia è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da euro 400 ad euro 1.600. La medesima pena si applica al medico e a chiunque altro concorre nella commissione del delitto.».
La previsione appena riportata sembra chiaramente confermare la soluzione giurisprudenziale della inapplicabilità della disciplina penalistica della falsità in atto pubblico con riferimento alle attestazioni di presenza in servizio: invero, se si postulasse l'operatività delle fattispecie di cui agli artt. 476 e 479 cod. pen., la figura delittuosa di cui all'art. 55-quinquies, comma 1, d.lgs. n. 165 del 2001 costituirebbe rispetto a quelle un mero doppione.
Ciò posto, in considerazione della complessiva evoluzione giurisprudenziale e legislativa precedentemente descritta, appare corretto escludere la riconducibilità alla categoria dell'atto pubblico di tutte le attestazioni del dipendente pubblico inerenti al rapporto di lavoro e non involgenti manifestazioni dichiarative, attestative o di volontà riferibili alla pubblica amministrazione.
Ed infatti, se non sono riconducibili alla categoria dell'atto pubblico le attestazioni relative alla presenza in servizio, ossia le più significative attestazioni del pubblico dipendente nell'ambito ed ai fini del rapporto di lavoro, e proprio perché inerenti al rapporto di lavoro, in quanto rapporto regolato da disciplina privatistica, non sembra ragionevole qualificare come atti pubblici altre attestazioni comunque inerenti al medesimo rapporto di lavoro.
4.2.2. Per completezza, deve escludersi anche la configurabilità della fattispecie di falsità in certificazioni amministrative, pure ipotizzata dai giudici del merito cautelare.
Costituisce infatti principio più volte affermato in giurisprudenza quello secondo cui, in materia di falso, per poter qualificare come certificato amministrativo un atto proveniente da un pubblico ufficiale, devono concorrere due condizioni:
   a) che l'atto non attesti i risultati di un accertamento compiuto dal pubblico ufficiale redigente, ma riproduca attestazioni già documentate;
   b) che l'atto, pur quando riproduca informazioni desunte da altri atti già documentati, non abbia una propria distinta e autonoma efficacia giuridica, ma si limiti a riprodurre anche gli effetti dell'atto preesistente (così, in particolare, Sez. 2, n. 46273 del 15/11/2011, Battaglia, Rv. 251549, e Sez. 5, n. 5105 del 14/03/2000, De Marco, Rv. 216057).
Si può rilevare, inoltre, che, significativamente, le Sezioni Unite, quando hanno escluso la configurabilità del reato di falso ideologico in atto pubblico con riferimento alla falsa attestazione del pubblico dipendente circa la sua presenza in ufficio riportata nei cartellini marcatempo e nei fogli di presenza, ovvero nell'ambito di dichiarazioni relative a «"missioni" fuori sede», hanno pronunciato sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste, senza procedere ad alcuna riqualificazione giuridica del fatto in contestazione.
4.3. In sintesi, allora, può ritenersi che eventuali mendaci annotazioni sui "registri macchina", se ed in quanto questi, come risulta allo stato accertato nel caso di specie, siano destinati esclusivamente a controlli interni della Pubblica amministrazione nonché strettamente inerenti al rapporto di lavoro tra il dipendente e l'ente pubblico, non sono sussumibili né nella fattispecie della falsità ideologica del pubblico ufficiale in atto pubblico, né nella fattispecie della falsità ideologica del pubblico ufficiale in certificati o autorizzazioni amministrative.
Di conseguenza, (anche) con riferimento a questa contestazione, deve escludersi la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza di un reato che legittimi l'applicazione di misure cautelari personali, coercitive o interdittive (Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 20.11.2018 n. 52207).

EDILIZIA PRIVATA: Costruzione in zona agricola - Destinazione del manufatto alle opere dell'agricoltura - Possesso dei requisiti soggettivi di imprenditore agricolo - Valutazione di conformità ai fini del rilascio della sanatoria - Fattispecie: edificazione ex novo di una villetta con piscina - Artt. 30, 44, d.P.R. n. 380/2001 e 181, d.lgs. n. 42 del 2004.
In tema di reati urbanistici, nel caso di costruzione in zona agricola, la destinazione del manufatto alle opere dell'agricoltura ed il possesso dei requisiti soggettivi di imprenditore agricolo in capo a chi lo realizza ­tanto al momento della richiesta e del rilascio del permesso di costruire, quanto al tempo della eventuale voltura del titolo abilitativo in favore di terzi­ sono elementi rilevanti nella valutazione della rispondenza dell'opera alle prescrizioni dello strumento urbanistico e, di conseguenza, anche per l'eventuale valutazione di conformità ai fini del rilascio della sanatoria (Sez. 3, n. 7681 del 13/01/2017 ­ dep. 17/02/2017, Innamorati e altri).
...
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Costruzione in zona agricola - BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Sequestro preventivo per reati paesaggistici - Realizzazione di una dimora turistica - Totale snaturamento della pianificazione urbanistica di zona - Valutazione dell'incidenza degli abusi sulle diverse matrici ambientali - Presupposto del "
periculum in mora" - Necessità.
In tema di sequestro preventivo per reati paesaggistici, il presupposto del "periculum in mora" non può essere desunto solo dalla esistenza delle opere ultimate, ma è necessario dimostrare che l'effettiva disponibilità materiale o giuridica del bene, da parte del soggetto indagato o di terzi, possa ulteriormente deteriorare l'ecosistema protetto dal vincolo paesaggistico, dovendo valutarsi l'incidenza degli abusi sulle diverse matrici ambientali ovvero il loro impatto sulle zone oggetto di particolare tutela (tra le tante: Sez. 3, n. 2001 del 24/11/2017 ­ dep. 18/01/2018, P.M. in proc. Dessi e altri).
Nella specie è emerso, il rilevante impatto paesaggistico che l'intervento edilizio ha sull'area in questione in quanto si assiste al totale snaturamento della pianificazione urbanistica di zona ed al definitivo stravolgimento della sua vocazione agricola­ambientale in turistica­residenziale, ciò a sostegno della sussistenza del periculum anche per il reato lottizzatorio.

...
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Ignoranza da parte dell'agente sulla normativa di settore e sull'illiceità della propria condotta - Elemento psicologico del reato - Presupposti per l'esclusione della colpa - Limiti.
In tema di elemento psicologico del reato, l'ignoranza da parte dell'agente sulla normativa di settore e sull'illiceità della propria condotta è idonea ad escludere la sussistenza della colpa, se indotta da un fattore positivo esterno ricollegabile ad un comportamento della pubblica amministrazione (Cass. Sez. 3, n. 35314 del 20/05/2016 ­ dep. 23/08/2016, P.M. in proc. Oggero), dunque non certo confidando sul proprio tecnico privato. Nella specie, la mancanza della qualifica soggettiva richiesta dalla norma, era circostanza ben nota alla ricorrente che, peraltro, non poteva nemmeno difendersi sostenendo di essersi fidata dei propri tecnici che avevano seguito la pratica edilizia (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.11.2018 n. 52149 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVIPotere di autotutela, PA tenuta a osservare principi costituzionali e garanzie partecipative.
La revoca di un provvedimento amministrativo, in ossequio ai principi di legalità, efficacia, imparzialità e buon andamento, deve essere assistita dalle garanzie partecipative, da quelle formali e procedurali scaturenti dal canone del contrarius actus e dalla necessità di esplicitare le ragioni giustificanti la nuova determinazione. Ne deriva che essa, da un lato, non può assumere la forma implicita e dall’altro, deve estrinsecarsi in un procedimento corrispondente a quello a suo tempo seguito per l’adozione dell’atto revocando.

È quanto afferma il TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, con sentenza 20.11.2018 n. 1978.
Il fatto
Si trattava di un concorso pubblico ai fini della nomina a revisore unico del Consorzio regionale per lo sviluppo delle attività produttive della Regione Calabria in relazione al quale, il secondo classificato, dopo aver avuto accesso agli atti di gara, invitava l’Amministrazione regionale a rivedere la propria determinazione ed eventualmente ad agire in autotutela, avendo ravvisato l’insufficienza della documentazione prodotta dal vincitore ad attestare il possesso dei requisiti professionali richiesti.
Accogliendo le censure mosse, la Regione revocava l’incarico e avverso tale provvedimento veniva proposta impugnazione.
Tra le varie censure, rilevano, in particolare, la violazione del principio del contrarius actus, in quanto l’Amministrazione resistente avrebbe esercitato il potere di autotutela senza avvalersi della medesima procedura utilizzata per lo svolgimento della selezione pubblica; la violazione dell’articolo 97 Cost., dell’articolo 7 legge 241 del 1990 e dell’articolo 51 c.p.c., in quanto la Pa avrebbe eluso gli obblighi, derivanti dall’applicazione del principio di buona fede, relativi alle garanzie partecipative.
La decisione
Il Giudice accoglie il ricorso, precisando che «il potere di ritiro in autotutela è essenzialmente caratterizzato dalla discrezionalità di cui gode la pubblica amministrazione, la quale, pertanto, richiede un onere motivazionale circa le concrete ragioni di pubblico interesse che inducono all’esercizio del relativo potere», e che nel caso di specie risultano del tutto assenti sia la partecipazione del ricorrente al procedimento di autotutela, sia una motivazione sull’interesse pubblico all’annullamento, sia lo svolgimento dello stesso procedimento prescritto per la nomina.
Sul punto, infatti, sussiste consolidato orientamento giurisprudenziale per il quale la revoca di un provvedimento amministrativo, in ossequio ai principi costituzionali di legalità, efficacia, imparzialità e buon andamento, deve essere assistito dalle garanzie partecipative, da quelle formali e procedurali scaturenti dal canone del contrarius actus e dalla necessità di esplicitare le ragioni giustificanti la nuova determinazione.
La conseguenza è che il provvedimento, da un lato, non può assumere la forma implicita e, dall’altro, deve estrinsecarsi in un procedimento corrispondente a quello a suo tempo seguito per l’adozione dell’atto revocando (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. V, 09.07.2015, n. 3458) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.12.2018).
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MASSIMA
8. – Il ricorso deve trovare accoglimento in ragione della fondatezza, già ritenuta in sede cautelare, dei primi tre motivi del ricorso principale.
9. – Va premesso che il decreto del Presidente della Giunta regionale della Calabria impugnato, che invero rappresenta l’atto in concreto lesivo dell’interesse del ricorrente, è qualificabile come atto di annullamento in autotutela ex art. 21-nonies l. n. 241 del 1990.
In effetti, l’amministrazione, in sede di “riesame” e su sollecitazione di un terzo partecipante alla selezione, ha ravvisato un vizio di illegittimità del precedente atto di conferimento dell’incarico costituito dalla mancanza di uno requisiti richiesti per la partecipazione alla “selezione” e al “sorteggio” per la nomina a revisore unico dei conti e revisore supplente del CO.R.A.P.
Il potere di ritiro in autotutela è essenzialmente caratterizzato dalla discrezionalità di cui gode la pubblica amministrazione, la quale, pertanto, richiede un onere motivazionale circa le concrete ragioni di pubblico interesse che inducono all’esercizio del relativo potere.
Sul punto, la giurisprudenza amministrativa è ormai uniforme, statuendo a più riprese che
“in linea generale, la revoca di un provvedimento amministrativo costituisce esercizio del potere di autotutela della pubblica amministrazione, che, in ossequio ai principi di legalità, efficacia, imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa, deve essere assistito dalle garanzie partecipative (salvo i motivati casi di urgenza), da quelle formali e procedurali scaturenti dal canone del contrarius actus e dalla necessità di esplicitare le ragioni giustificanti la nuova determinazione, con la conseguenza che essa, da un lato, non può assumere la forma implicita (pena la violazione dell’art. 3, l. n. 241 del 1990, che ha sancito l’obbligo di motivazione per tutti i provvedimenti amministrativi, a meno che le ragioni della stessa non siano chiaramente intuibili sulla base del contenuto del provvedimento impugnato); dall’altro, deve estrinsecarsi in un procedimento corrispondente a quello a suo tempo seguito per l’adozione dell’atto revocando” (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 09.07.2015, n. 3458; Cons. Stato, Sez. VI, 04.07.2011, n. 3963; Cons. Stato, Sez. V, 28.06.2011, n. 3875; Cons. Stato, Sez. V, 13.02.2009).
10. – Ebbene, nel caso di specie risultano del tutto assenti sia la partecipazione del ricorrente al procedimento di autotutela, sia una motivazione sull’interesse pubblico all’annullamento della nomina del ricorrente a revisore dei conti del CO.R.A.P., che era resa ancor più necessaria per la delicatezza delle funzioni svolte e in ragione dei plurimi atti adottati dal ricorrente nell’esercizio delle sue funzioni.
11. – Inoltre, deve ribadirsi quanto già affermato in sede cautelare, e cioè che non risulta seguito, in sede di autotutela, lo stesso procedimento prescritto per la nomina del revisore dei conti.
12. – Per tali, assorbenti vizi e in tali termini, il ricorso deve trovare accoglimento, con annullamento del decreto del Presidente della Giunta regionale della Calabria del 22.12.2017, n. 141, e conseguenziale reintegrazione del ricorrente nelle funzioni di revisore dei conti.
Il sollecito intervento cautelare del Tribunale Amministrativo Regionale rende superfluo l’esame delle ulteriori domande proposte dal ricorrente, il cui interesse risulta comunque pienamente soddisfatto.

URBANISTICA: Confisca di terreni abusivamente lottizzati - Natura reale e non personale della confisca - Carattere sanzionatorio della misura ablativa - Evoluzione giurisprudenziale - Poteri del giudice dell'esecuzione.
Nel caso della lottizzazione abusiva la confisca non ha natura di misura di sicurezza patrimoniale, bensì di sanzione amministrativa applicata dal giudice penale in via di supplenza rispetto al meccanismo amministrativo di acquisizione dei terreni lottizzati al patrimonio disponibile del comune, di cui all'art. 30 d.P.R. 380/2001, del tutto differente dall'analogo istituto disciplinato dall'articolo 240 cod. pen..
Rilevando, inoltre, il carattere sanzionatorio ai sensi dell'art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, secondo il principio enunciato in relazione alla decisione "Sud Fondi" della Corte EDU), avente natura reale e non personale ed applicabile anche in caso di sentenza di proscioglimento per prescrizione del reato
(Sez. 3, n. 16803 del 08/04/2015, Boezi e altri 5; Sez. 3, n. 15888 del 08/04/2015 (dep. 2016), Sannella e altro; Sez. 4, n. 31239 del 23/06/2015, Giallombardo), come avvenuto nel caso di specie.
La decisione sul punto, tuttavia, ha comunque violato il divieto di reformatio in pejus, dovendosi ritenere applicabile pure nella fattispecie il principio dianzi richiamato, anche in ragione del riconosciuto carattere sanzionatorio della misura ablativa di cui si è appena detto e, comunque, secondo una lettura costituzionalmente e convenzionalmente orientata della disciplina, che tenga conto della complessa evoluzione giurisprudenziale della materia (della quale viene dato conto in Sez. 3, n. 32363 del 24/05/2017, Mantione).
Ciò ovviamente, non preclude la possibilità di una successiva applicazione del provvedimento ablativo, poiché può senz'altro provvedervi il giudice dell'esecuzione ai sensi dell'art. 676 cod. proc. pen. come peraltro già riconosciuto con specifico riferimento proprio alla confisca di terreni abusivamente lottizzati
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.11.2018 n. 51820 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nuove costruzioni - Assenza di titolo abilitativo - Aggravio del carico urbanistico - Sequestro preventivo - Sussistenza del fumus del reato urbanistico - Destinazione d’uso e destinazione urbanistica - Incidenza sulle esigenze urbanistiche di zona - Committente dei lavori e incolpazione cautelare - Art. 44, lett. b), d.PR. n. 380/2001.
In materia urbanistica, la realizzazione di nuove costruzioni in totale assenza di qualsivoglia titolo abilitativo evidenzia, inequivocabilmente, la sussistenza del fumus del reato urbanistico, sicché la mera indicazione di tale evenienza, anche attraverso il richiamo alla incolpazione cautelare, deve ritenersi del tutto sufficiente.
Nel caso di abusiva costruzione di un manufatto su area non edificata, l'aggravio del carico urbanistico può essere desunto sulla base della mera consistenza delle opere, della loro destinazione d'uso e della destinazione urbanistica dell'area ove esse insistono, trattandosi di elementi idonei a fornire una oggettiva indicazione dell'incidenza dell'intervento sulle esigenze urbanistiche di zona. Fattispecie: manufatto in tendostruttura e altri manufatti.

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Nozione di carico urbanistico - Elemento secondario di servizio proporzionato all'insediamento primario - Manufatto in tendostruttura - Aspetto strutturale e funzionale dell'opera - Riferimento agli standard fissati.
La nozione di carico urbanistico "deriva dall'osservazione che ogni insediamento umano è costituito da un elemento c.d. primario (abitazioni, uffici, opifici, negozi) e da uno secondario di servizio (opere pubbliche in genere, uffici pubblici, parchi, strade, fognature, elettrificazione, servizio idrico, condutture di erogazione del gas) che deve essere proporzionato all'insediamento primario ossia al numero degli abitanti insediati ed alle caratteristiche dell'attività da costoro svolte.
Quindi, il carico urbanistico è l'effetto che viene prodotto dall'insediamento primario come domanda di strutture ed opere collettive, in dipendenza del numero delle persone insediate su di un determinato territorio".
Inoltre, l'incidenza di un intervento edilizio sul carico urbanistico dev'essere considerata con riferimento all'aspetto strutturale e funzionale dell'opera, ed è rilevabile anche nel caso di una concreta alterazione dell'originaria consistenza sostanziale di un manufatto in relazione alla volumetria, alla destinazione o all'effettiva utilizzazione, tale da determinare un mutamento dell'insieme delle esigenze urbanistiche valutate in sede di pianificazione, con particolare riferimento agli standard fissati dal D.M. 02.04.1968, n. 1444
(Sez. 3, n. 36104 del 22/09/2011, PM. in proc. Armelani; Conforme, Sez. 3, n. 6599 del 24/11/2011 (dep. 2012), Susinno).
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Immobile abusivo ultimato - Sequestro preventivo - Incidenza negativa concretamente individuabile sul carico urbanistico - Effetti pregiudizievoli del reato - Adeguata motivazione - Distinzione tra effetto lesivo del reato sul bene giuridico protetto e libera disponibilità del bene.
Il sequestro preventivo di un immobile abusivo ultimato è stato, inoltre, ritenuto possibile anche nel caso di utilizzo dell'opera in conformità alle destinazioni di zona, allorquando il manufatto presenti una consistenza volumetrica tale da determinare comunque un'incidenza negativa concretamente individuabile sul carico urbanistico, sotto il profilo dell'aumentata esigenza di infrastrutture e di opere collettive correlate.
A corredo di tali principi, il pericolo degli effetti pregiudizievoli del reato, anche relativamente al carico urbanistico, deve presentare il requisito della concretezza, in ordine alla sussistenza del quale deve essere fornita dal giudice adeguata motivazione.
In sintesi, prevale, la distinzione tra l'effetto lesivo del reato sul bene giuridico protetto, che permane nel tempo ma è comune a tutti i reati, anche istantanei e le conseguenze necessariamente antigiuridiche ed ipotizzabili anche a consumazione del reato avvenuta, che potrebbero derivare dalla libera disponibilità del bene
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.11.2018 n. 51604 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO ACUSTICO - Abuso di strumenti sonori - Reato di disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone - Inquinamento acustico e particolare tenuità del fatto - Applicazione della causa di non punibilità - Giudizio fattuale riservato al giudice di merito - Art. 659, c. 1, cod. pen. - Art. 131-bis cod. pen..
Con riguardo al reato di disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone, punito dall'art. 659, comma 1, cod. pen., che rientra nella categoria dei reati eventualmente permanenti, ai fini dell'applicazione della causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis cod. pen. il giudice deve valutare la durata e il grado di intensità del disturbo, ciò che rileva con riferimento non già al requisito della non abitualità della condotta, che è unica, quanto alla qualificazione del fatto come di "lieve entità", rispetto alla quale assumono rilevanza la protrazione nel tempo della condotta illecita e l'intensità degli effetti dalla stessa provocati.
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INQUINAMENTO ACUSTICO - Rumore - Verifica del superamento della soglia della normale tollerabilità - Fenomeno idoneo ad arrecare oggettivamente disturbo della pubblica quiete - Perizia o consulenza tecnica non necessarie - Elementi probatori di diversa natura - Valutazione del fatto - Giudice di merito.
La verifica del superamento della soglia della normale tollerabilità non deve essere necessariamente effettuato mediante perizia o consulenza tecnica, ben potendo il giudice fondare il suo convincimento in ordine alla sussistenza di un fenomeno in grado di arrecare oggettivamente disturbo della pubblica quiete su elementi probatori di diversa natura, quali le dichiarazioni di coloro che sono in grado di riferire le caratteristiche e gli effetti dei rumori percepiti, occorrendo, ciò nondimeno accertare la diffusa capacità offensiva del rumore in relazione al caso concreto.
Nella specie, la prova del superamento della soglia della normale tollerabilità delle fonti sonore è stata desunta dal Tribunale da serie di deposizioni testimoniali, secondo cui la musica diffusa ad alto volume, nel cuore della notte in un orario notturno non (più) autorizzato, dal locale dell'imputato era percepibile a notevole distanza e aveva disturbato il riposo di un numero indeterminato di persone che abitavano nei paraggi.

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DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Causa di non punibilità - Inquinamento acustico e reiterazione della condotta - Annullamento con rinvio da parte della Corte di Cassazione - Estinzione del reato per intervenuta prescrizione, maturata successivamente alla sentenza di annullamento parziale - Esclusione.
In linea generale, una causa di non punibilità non può essere dichiarata rispetto al reato di disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone in caso di reiterazione della condotta, in quanto si configura un'ipotesi di "comportamento abituale", ostativa al riconoscimento del beneficio (Sez. 3, n. 48315 del 11/10/2016 - dep. 16/11/2016, Quaranta).
Tuttavia, il giudizio sulla tenuità del fatto richiede una valutazione complessa che prenda in esame tutte le peculiarità della fattispecie concreta riferite alla condotta in termini di possibile disvalore e non solo di quelle che attengono all'entità dell'aggressione del bene giuridico protetto che comunque ricorre senza distinzione tra reati di danni e reati di pericolo.
Per quanto concerne il requisito della non abitualità della condotta, la causa di esclusione della punibilità non trova applicazione, ai sensi del terzo comma dell'art. 131-bis cod. pen., qualora l'imputato abbia commesso più reati della stessa indole ovvero plurime violazioni della stessa o di diverse disposizioni penali sorrette dalla medesima ratio punendi.
Va peraltro ricordato il principio, secondo cui nel caso di annullamento con rinvio da parte della Corte di Cassazione, limitatamente alla verifica della sussistenza dei presupposti per l'applicazione della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, il giudice di rinvio non può dichiarare l'estinzione del reato per intervenuta prescrizione, maturata successivamente alla sentenza di annullamento parziale
(Sez. 3, n. 50215 del 08/10/2015 - dep. 22/12/2015, Sarli; Sez. 3, n. 30383 del 30/03/2016 - dep. 18/07/2016, Mazzoccoli e altro), stante la formazione del giudicato progressivo in punto di accertamento del reato e affermazione di responsabilità dell'imputato (Sez. 3, n. 38380 del 15/07/2015 - dep. 22/09/2015, Ferraiuolo e altro)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.11.2018 n. 51584 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Tutela dei beni culturali - Danneggiamento al patrimonio archeologico, storico o artistico nazionale - Obbligo in capo a chi ha la disponibilità dei beni della buona conservazione - Violazione dell'art. 733 cod. pen. - Natura di reato di danno a forma libera e permanente.
In tema di tutela dei beni culturali, l'art. 733 cod. pen. prevede nella parte precettiva l'obbligo in capo a chi ha la disponibilità dei beni sia di prevenire ed evitare ogni forma di danneggiamento degli stessi, sia di fare tutto ciò che è opportuno per la buona conservazione del bene.
La violazione di tale obbligo integra -sotto il profilo oggettivo- un reato di danno a forma libera e permanente. L'evento lesivo dell'oggetto materiale, infatti, può verificarsi sia attraverso un solo atto, istantaneamente, sia attraverso un comportamento continuo e prolungato, attivo o inerte, come per esempio il persistente stato di abbandono, tale da lasciare il bene materiale privo di ogni cautela da aggressioni umane (cosiddetto vandalismo), dai fattori naturali (insetti o agenti atmosferici) o da elementi chimico-fisici (i fattori inquinanti)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.11.2018 n. 51581 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI: RIFIUTI - Attività di gestione illecita di rifiuti - Art. 256, d.lgs. n. 152/2006 - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Responsabilità e posizione del sindaco - Limiti alla separazione delle funzioni tra sindaco e dirigenza - Organo politico e organo tecnico amministrativo - Attività di controllo - Dovere di attivazione - Pericolo la salute delle persone o l'integrità dell'ambiente non derivanti da contingenti ed occasionali emergenze tecnico-operative - Art. 107, d.lgs. n. 267/2000.
In tema di rifiuti, nonostante la disposizione, ex art. 107 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267 «Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali», distingua tra i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo, demandati agli organi di governo degli enti locali e compiti di gestione amministrativa, finanziaria e tecnica, attribuiti ai dirigenti, cui sono conferiti autonomi poteri di organizzazione delle risorse, strumentali e di controllo, è evidente che il sindaco, una volta esercitati i poteri attribuitigli dalla legge, non può semplicemente disinteressarsi degli esiti di tale sua attività, essendo necessario, da parte sua, anche il successivo controllo sulla concreta attuazione delle scelte programmatiche effettuate.
Egli ha, inoltre, il dovere di attivarsi quando gli siano note situazioni, non derivanti da contingenti ed occasionali emergenze tecnico-operative, che pongano in pericolo la salute delle persone o l'integrità dell'ambiente
(Sez. 3. n. 37544 del 27/06/2013, Fasulo; V. anche, in tema di prevenzione infortuni, Sez. 4, n. 30557 del 07/06/2016, P.C. e altri in proc. Carfi' e altri).

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RIFIUTI - Gestione illecita di rifiuti - Piattaforma ecologica - Concetto di «ecopiazzola» o «isola ecologica» - Responsabilità del sindaco - Art. 256, d.lgs. n. 152/2006.
Va escluso, al di fuori dell'ipotesi contemplata dal legislatore, che la predisposizione di aree attrezzate per il conferimento di rifiuti astrattamente riconducibili ad un generico concetto di «ecopiazzola» o «isola ecologica» possa ritenersi sottratta alla disciplina generale sui rifiuti, poiché l'intervento del legislatore ha ormai definitivamente delimitato tale nozione prevedendo, peraltro, un regime autorizzatorio e gestionale che consente il conferimento ai centri di raccolta di un'ampia gamma di rifiuti in maniera controllata.
Si è quindi stabilito che, in tutti i casi in cui non vi sia corrispondenza con quanto indicato dal legislatore, deve procedersi ad una valutazione dell'attività posta in essere secondo i principi generali in materia di rifiuti.
Nella specie, è stato configurato il reato di cui all'articolo 256, comma 1, lett. a) e b), d.lgs. 152/2006, perché, quale sindaco del comune di Roncola, gestendo un centro di raccolta rifiuti differenziati in modo difforme da quanto prescritto dal d.m. 08.04.2008 (modificato dal Decreto Ministeriale 13.05.2009) ometteva di predisporre una pavimentazione di calcestruzzo per l'impermeabilizzazione del fondo, una copertura per i rifiuti pericolosi, contenitori in tenuta stagna, cartelli ed etichette per distinguere le diverse tipologie di rifiuti, sistemi per garantire la separazione dei rifiuti fino al conferimento all'impianto di smaltimento, nonché sistemi antincendio, effettuando, di fatto, in mancanza della prescritta autorizzazione, lo stoccaggio di rifiuti speciali pericolosi (quali batterie, frigoriferi, bombole di gas, motoveicoli fuori uso) e non pericolosi (quali plastica, metallo, cartone, materassi, cucine, pneumatici fuori uso)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.11.2018 n. 51576 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTIRup compatibile con le funzioni di presidente e ok all'apertura dell'offerta tecnica in seduta riservata.
Anche nella situazione transitoria trova applicazione il principio secondo cui non esiste incompatibilità della funzione di Rup con quella di presidente della commissione giudicatrice. Nelle procedure telematiche, le buste tecniche possono essere aperte in seduta riservata.

Sono le conclusioni cui approda il TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, con la sentenza 15.11.2018 n. 863.
Le questioni
Con il ricorso sono stati impugnati gli atti relativi alla aggiudicazione definitiva della gara per l'affidamento di un servizio, per una serie di motivi tra i quali la presunta incompatibilità del presidente della commissione giudicatrice e la circostanza che la seduta di apertura delle offerte tecniche sia avvenuta in seduta riservata e non pubblica.
Il Tar di Bologna ha trattato insieme i due motivi per connessione oggettiva e li ha dichiarati entrambi infondati.
Ancora sull'incompatibilità
Circa l’incompatibilità, i giudici hanno affermato che l'articolo 77 del codice dei contratti è destinato a valere solo a regime, ovvero dopo che sarà stato creato l'albo dei commissari, che ancora non esiste. Fino alla sua istituzione, valorizzando quanto contenuto nell'articolo 216, comma 12, la commissione continua a essere nominata dall'organo della stazione appaltante competente secondo regole di competenza e trasparenza preventivamente individuate.
Il cumulo delle funzioni di Rup e di presidente della commissione di gara dunque non lede le regole di imparzialità, principio che secondo il Tar Emilia Romagna sarebbe applicabile anche dopo l'entrata in vigore del correttivo (Dlgs 56/2017) che ha abrogato il comma 12 dell'articolo 77.
A detta dei giudici emiliani, rimane applicabile l'articolo 84 del vecchio codice che non enuncia l'incompatibilità dell'incarico di Rup con le funzioni di presidente ma riguarda solo gli altri commissari, i quali «non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta» (comma 4).
Viene infine evocata nella sentenza quella parte di giurisprudenza che ha sostenuto questa tesi appellandosi alla responsabilità dei funzionari degli enti locali come delineata dall'articolo 107 del Tuel il quale riconosce in via generale ai dirigenti la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica (comma 1) e in via particolare la presidenza delle commissioni di gara (comma 3, lettera a), la responsabilità delle procedure d'appalto (lettera b) e la stipulazione dei contratti (lettera c). Attribuzioni che, per espressa previsione del coma 4, «possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative».
La seduta riservata
Per quanto concerne la seduta riservata, nella sentenza si afferma che nelle procedure telematiche, le buste tecniche possono essere aperte in seduta riservata, per due ragioni sostanziali:
   1) l'utilizzo di tali procedure comporta la “tracciabilità” di tutte le operazioni messe in opera dalla commissione;
   2) la correttezza e l'intangibilità risulta garantita dal sistema, con esclusione di ogni rischio di alterazione nello svolgimento delle operazioni, anche in assenza dei concorrenti (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 29.11.2018).
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MASSIMA
3). Con il terzo motivo l’interessata sostiene il procedimento di valutazione della anomalia dell’offerta è stato compiuto dal solo RUP senza l’ausilio della commissione giudicatrice; dunque è illegittimo.
In. replica sul punto precisando che :
   a). l’offerta dell’aggiudicatario non è a rischio di anomalia e nessuna analisi doveva essere effettuata per legge;
   b). il procedimento di verifica di congruità dell’offerta è stato aperto dalla stazione appaltante esclusivamente perché il ribasso praticato dall’impresa appariva più basso rispetto a quello praticato dagli altri concorrenti del lotto 1;
   c). quando è attivata una verifica di anomalia atipica non è obbligatorio analizzare ogni singola voce.
Il Collegio condivide integralmente le repliche.
4). Con il quarto motivo la ricorrente lamenta che tra i componenti della commissione vi sia la dottoressa Ca.Go., che ha rivestito anche il ruolo di presidente del seggio di gara e dunque non poteva essere presidente della commissione.
5). Infine con l’ultimo motivo sostiene che la seduta di apertura delle offerte tecniche è avvenuta in seduta riservata e non pubblica.
I due motivi possono essere trattati insieme per connessione oggettiva e sono entrambi destituiti di fondamento.
Il Collegio condivide le precisazioni svolte da In. circa il fatto che nella specie è applicabile solo l’art. 84 Cod. Appalti.
Come noto,
la giurisprudenza più recente (cfr., Tar Sardegna, Cagliari, n. 32/2018) ha affermato i seguenti principi:
   a). la norma dell’art. 77 prima parte del d.lgs. 50/2016, invocata, sarebbe destinata a valere solo “a regime”, ovvero dopo che sarà stato creato l’Albo dei commissari, che ancora non esiste fino alla sua istituzione, ai sensi del comma 12, “la commissione continua ad essere nominata dall'organo della stazione appaltante competente ad effettuare la scelta del soggetto affidatario del contratto, secondo regole di competenza e trasparenza preventivamente individuate da ciascuna stazione appaltante”.
In tal senso, il <cumulo delle funzioni di RUP e di Presidente della commissione di gara> non lederebbe le regole di imparzialità, come ritenuto da costante giurisprudenza, che argomenta in termini di principio, e non con riguardo ad una specifica disciplina delle gare, e quindi si deve ritener condivisibile anche nel vigore della nuova normativa
(si vedano C.d.S. sez. V 20.11.2015 n. 5299 e 26.09.2002 n. 4938).
L’art. 84 del Codice non enuncia l’incompatibilità dell’incarico di R.U.P. con l’investitura della presidenza delle Commissioni di gara, ma è solo per i commissari diversi dal Presidente che prevede, con il proprio comma 4, un’ampia incompatibilità: “I commissari diversi dal Presidente non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta”.
D’altra parte, la giurisprudenza ha avuto già modo di osservare che non costituisce violazione dei principi di imparzialità e buona amministrazione il cumulo, nella stessa persona, delle funzioni di Presidente della Commissione valutatrice e di responsabile del procedimento, nonché di soggetto aggiudicatore, risultando ciò conforme ai principi sulla responsabilità dei funzionari degli enti locali, come delineati dall’art. 107 del d.lgs. n. 267/2000
(V, 12.11.2012, n. 5703; 22.06.2010, n. 3890).
Tutti questi precedenti sarebbero applicabili anche dopo l’entrata in vigore del “correttivo” (D.L.vo 19.04.2017 n. 56 in vigore dal 20.05.2017) che ha abrogato l’art. 77, comma 12 (solo in quanto inutile duplicato dell’art. 216, comma 12, D.L.vo 50/2016 avente il medesimo contenuto).
In conclusione,
anche nella situazione transitoria di cui all’art. 77, comma 12 (e art. 216 comma 12) del D.L.vo 50/2016, deve trovare applicazione il principio affermato dalla prevalente giurisprudenza, avente portata generale, della cumulabilità/compatibilità della funzione di RUP e di Presidente della Commissione giudicatrice.
Infine,
in relazione alla seduta riservata, è corretto affermare che –nelle procedure telematiche– le buste tecniche possono essere aperte in seduta riservata.
Come noto, il Consiglio di Stato (cfr., Consiglio di Stato, sez. V, 21.11.2017, n. 5388) ha affermato i seguenti principi:
   a). l’utilizzo di gare interamente telematiche comporta la “tracciabilità” di tutte le operazioni modifica anche l’approccio e la soluzione di eventuali commissioni formali-procedimentali;
   b). la correttezza e l’intangibilità risulta, in questo caso, garantita dal sistema, con esclusione di ogni rischio di alterazione nello svolgimento delle operazioni, anche in assenza dei concorrenti;
   c). dunque, l’operato della PA appare complessivamente legittimo.

Il ricorso è dunque da respingere nel merito.

EDILIZIA PRIVATA: Reati edilizi - Responsabilità di un coniuge per il fatto materialmente commesso dall'altro - Individuazione della compartecipazione di un coniuge nel reato materialmente commesso dall'altro - Elementi indizianti - Art. 44, lett. e) d.PR. 380/2001 e 181 d.lgs. 42/2004.
In tema di reati edilizi la responsabilità di un coniuge per il fatto materialmente commesso dall'altro può essere rilevata sulla base di oggettivi elementi di valutazione quali il comune interesse all'edificazione, il regime di comunione dei beni, l'acquiescenza all'esecuzione dell'intervento, la presenza sul luogo di esecuzione dei lavori, l'espletamento di attività di controllo sull'esecuzione dei lavori, la presentazione di istanze o richieste concernenti l'immobile o l'esecuzione di attività indicative di una partecipazione all'attività illecita.
Tuttavia, con specifico riferimento al rapporto di coniugio, si è osservato che la compartecipazione di un coniuge nel reato materialmente commesso dall'altro non può essere desunta dalla mera qualità di comproprietario.
Sono stati pertanto successivamente individuati, quali elementi indizianti: il fatto che entrambi i coniugi siano proprietari del suolo su cui è stato realizzato l'edificio abusivo e che entrambi abbiano interesse alla violazione dei sigilli per completare l'opera al fine di trasferire la loro residenza; l'abitare nel luogo ove si è svolta l'attività illecita di costruzione, l'assenza di manifestazioni di dissenso, il comune interesse alla realizzazione dell'opera (fattispecie relativa ad imputata la quale, benché formalmente residente in altro comune, conviveva con il marito, era con il predetto in regime di comunione di beni e ne condivideva anche le iniziative patrimoniali, tanto da rimanere coinvolta, in un precedente giudizio, unitamente al coniuge, in altri illeciti edilizi)
(Sez. 3 n. 23074 del 16/04/2008, Di Meglio); il regime patrimoniale dei coniugi (comunione dei beni), lo svolgimento di attività di vigilanza dell'esecuzione dei lavori, la richiesta di provvedimenti abilitativi in sanatoria, la presenza in loco all'atto dell'accertamento (Sez. 3 n. 40014 del 18/09/2008, Mangione).

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Abuso edilizio - Responsabilità del proprietario (o comproprietario) dell'area non formalmente committente - Principio del "cui prodest" - Compartecipazione, anche morale, all'esecuzione delle opere - Onere della prova - Giurisprudenza.
In tema di individuazione della responsabilità per abuso edilizio del proprietario (o comproprietario) dell'area non formalmente committente si richiede la presenza di alcuni elementi, quali la disponibilità di indizi e presunzioni gravi, precise e concordanti che sono stati individuati, ad esempio,
   - nella piena disponibilità, giuridica e di fatto, della superficie edificata e dell'interesse specifico ad effettuare la nuova costruzione (principio del "cui prodest");
   - nei rapporti di parentela o di affinità tra l'esecutore dell'opera abusiva ed il proprietario, nell'eventuale presenza "in loco" del proprietario dell'area durante l'effettuazione dei lavori; nello svolgimento di attività di materiale vigilanza sull'esecuzione dei lavori;
   - nella richiesta di provvedimenti abilitativi anche in sanatoria;
   - nel particolare regime patrimoniale fra coniugi o comproprietari;
   - nella fruizione dell'opera secondo le norme civilistiche dell'accessione ed in tutte quelle situazioni e quei comportamenti, positivi o negativi, da cui possano trarsi elementi integrativi della colpa e prove circa la compartecipazione, anche morale, all'esecuzione delle opere, tenendo presente pure la destinazione finale della stessa.
Grava inoltre sull'interessato l'onere di allegare circostanze utili a convalidare la tesi che, nella specie, si tratti di opere realizzate da terzi a sua insaputa e senza la sua volontà
(così Sez. 3 n. 35907 del 29/05/2008, Calicchia, non massimata, che riporta anche gran parte degli esempi sopra indicati e ampi richiami a precedenti pronunce. Conf. Sez. 3, n. 38492 del 19/05/2016, Avanzato, Rv. 268014; Sez. 3, n. 52040 del 11/11/2014, Langella e altro, Rv. 261522; Sez. 3, n. 44202 del 10/10/2013, Menditto, Rv. 257625; Sez. 3, n. 25669 del 30/05/2012, Zeno, Rv. 253065)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.11.2018 n. 51489 - link a www.ambientediritto.it).

URBANISTICA: Lottizzazione abusiva - Configurabilità del reato - Art. 30 d.PR. 380/2001.
L'attività lottizzatoria illegittima si configura non soltanto nel caso in cui l'intervento edilizio non potrebbe essere in nessuna circostanza realizzato per essere le sue connotazioni oggettive in contrasto con previsioni di zonizzazione e/o localizzazione dello strumento generale di pianificazione, non suscettibili di essere modificati da piani urbanistici attuativi, ma anche attraverso qualsiasi utilizzazione del suolo che, indipendentemente dalla entità del frazionamento fondiario e dal numero dei proprietari, preveda la realizzazione contemporanea o successiva di una pluralità di edifici a scopo residenziale, turistico o industriale, che postulino l'attuazione di opere di urbanizzazione primaria o secondaria, occorrenti per le necessità dell'insediamento, oppure in presenza di un intervento sul territorio tale da comportare una nuova definizione dell'assetto preesistente in zona non urbanizzata o non sufficientemente urbanizzata, per cui esiste la necessità di attuare le previsioni dello strumento urbanistico generale attraverso la redazione e la stipula di una convenzione lottizzatoria adeguata alle caratteristiche dell'intervento di nuova realizzazione.
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DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto - Contestuale violazione di più disposizioni quale conseguenza dell'intervento abusivo - Ipotesi di violazioni urbanistiche e paesaggistiche - Art. 131-bis cod. pen..
Ai fini della applicabilità dell'art. 131-bis cod. pen. nelle ipotesi di violazioni urbanistiche e paesaggistiche, la consistenza dell'intervento abusivo -data da tipologia, dimensioni e caratteristiche costruttive- costituisce solo uno dei parametri di valutazione, assumendo rilievo anche altri elementi quali, ad esempio, la destinazione dell'immobile, l'incidenza sul carico urbanistico, l'eventuale contrasto con gli strumenti urbanistici e l'impossibilità di sanatoria, il mancato rispetto di vincoli (idrogeologici, paesaggistici, ambientali, etc.), l'eventuale collegamento dell'opera abusiva con interventi preesistenti, il rispetto o meno di provvedimenti autoritativi emessi dall'amministrazione competente (ad es. l'ordinanza di demolizione), la totale assenza di titolo abilitativo o il grado di difformità dallo stesso, le modalità di esecuzione dell'intervento.
Inoltre, è indice sintomatico della non particolare tenuità del fatto la contestuale violazione di più disposizioni quale conseguenza dell'intervento abusivo, come nel caso in cui siano contestualmente violate, mediante la realizzazione dell'opera, anche altre disposizioni finalizzate alla tutela di interessi diversi (si pensi alle norme in materia di costruzioni in zone sismiche, di opere in cemento armato, di tutela del paesaggio e dell'ambiente, a quelle relative alla fruizione delle aree demaniali)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.11.2018 n. 51489 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: DANNO AMBIENTALE - Nozione di danno ambientale e risorse naturali - INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Inquinamento dell'aria e danno ambientale - Termovalorizzatore o impianto di coincenerimento - Miscelazione di lolla di riso con altri rifiuti - Attività organizzata per il traffico abusivo di rifiuti - Falsificazione dei certificati di analisi provenienti dal laboratorio - Artt. 184-bis, 185, 258, 260, 300, 311 d.lgs. n. 152/2006 - Art. 483 cod. pen.
Il comma 1 dell'art. 300 del d.lgs. 152/2006 qualifica testualmente come danno ambientale "qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell'utilità assicurata da quest'ultima".
Pertanto, l'inquinamento dell'aria costituisce nel nostro ordinamento un danno ambientale, non essendovi dubbio sul fatto che l'aria costituisce una "risorsa naturale", essendone anzi una delle più importanti, se non la più importante, per ogni essere animale e vegetale
(Corte di Cassazione, Sez. III penae, sentenza 14.11.2018 n. 51475 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Gestione di rifiuti - Accertamento della pericolosità di un rifiuto - Rispetto delle metodiche di campionamento e di analisi fissate dalla norma tecnica UNI 10802 - Esclusione.
In tema di gestione di rifiuti, l'accertamento della pericolosità di un rifiuto non richiede necessariamente il rispetto delle metodiche di campionamento e di analisi fissate dalla norma tecnica UNI 10802 (richiamata dall'art. 8 del D.M. 05.02.1998), trattandosi di un insieme di disposizioni prive di portata generale vincolante, dirette unicamente allo scopo di disciplinare le analisi effettuate a cura del titolare dell'impianto di produzione dei rifiuti.
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RIFIUTI - Miscelazione della lolla di riso con rifiuti di ogni genere - Esclusione della lolla di riso dalla categoria dei sottoprodotti - Sussistenza delle condizioni di legge - Onere della prova.
L'indiscriminata miscelazione della lolla di riso con rifiuti di ogni genere ne altera la matrice originaria, trasformandola in rifiuto, pericoloso o non pericoloso a seconda della natura del rifiuto con cui viene ogni volta mischiata.
Nella specie, alla luce degli accertamenti fattuali compiuti dai giudici di merito, non suscettibili di essere messi in discussione in sede di legittimità, in assenza, peraltro, di specifiche contestazioni difensive, deve ritenersi senz'altro legittima l'esclusione della lolla di riso dalla categoria dei sottoprodotti, tanto più ove si consideri che tale regime normativo presenta natura eccezionale e derogatoria rispetto alla disciplina ordinaria in tema di rifiuti, con la conseguenza che l'onere della prova circa la sussistenza delle condizioni di legge deve essere assolto da colui che ne richiede l'applicazione, il che nel caso di specie non può certo ritenersi avvenuto.

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RIFIUTI - Nozione di sottoprodotti - Evoluzione normativa.
In materia di rifiuti, la categoria dei sottoprodotti, originariamente non contemplata dalla disciplina di settore, lo è poi diventata con l'art. 184-bis del d.lgs. n. 152 del 2006 (introdotto dal d.lgs. n. 205 del 03.12.2010) ed è definita dall'art. 183, lettera qq), del medesimo d.lgs., il quale si riferisce a "qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa le condizioni di cui all'art. 184-bis, comma 1, o che rispetta i criteri stabiliti in base all'art. 184-bis, comma 2".
L'art. 184-bis, a sua volta, stabilisce che è sottoprodotto e non rifiuto ai sensi dell'art. 183, comma 1, lett. a), qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfi tutte le seguenti condizioni:
   1) la sostanza o l'oggetto devono trarre origine da un processo di produzione, di cui costituiscono parte integrante, e il cui scopo primario non è la loro produzione;
   2) deve essere certo che la sostanza o l'oggetto saranno utilizzati, nel corso dello stesso e/o di un successivo processo di produzione e/o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi;
   3) la sostanza o l'oggetto possono essere utilizzati direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale;
   4) l'ulteriore utilizzo deve essere legale, ossia la sostanza o l'oggetto deve soddisfare, per l'utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell'ambiente e non deve portare a impatti complessivi negativi sull'ambiente o sulla salute umana. In seguito è poi intervenuto il D.M. 13.10.2016, n. 264 ("regolamento recante criteri indicativi per agevolare la dimostrazione della sussistenza dei requisiti per la qualifica dei residui di produzione come sottoprodotti e non come rifiuti"), il quale ha precisato (art. 2), in coerenza con il dettato normativo prima richiamato, che per sottoprodotto deve intendersi un residuo di produzione che non costituisce un rifiuto ai sensi dell'art. 184-bis del d.lgs. 152/2006, laddove per residuo di produzione a sua volta deve intendersi ogni materiale o sostanza che non è deliberatamente prodotto in un processo di produzione e che può essere o non essere un rifiuto; l'art. 4 del citato decreto ministeriale ha poi ribadito che i residui di produzione sono sottoprodotti e non rifiuti, quando il produttore dimostra che, non essendo stati prodotti volontariamente e come obiettivo primario del ciclo produttivo, sono destinati a essere utilizzati nello stesso o in un successivo processo, dal produttore medesimo o da parte di terzi.
A tal fine, in ogni fase della gestione del residuo, è necessario fornire la dimostrazione che sono soddisfatte tutte le condizioni prima menzionate
(Corte di Cassazione, Sez. III penae, sentenza 14.11.2018 n. 51475 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Mutamento destinazione d'uso e rideterminazione contributo di costruzione. Sul mutamento -o meno- della destinazione d'uso di un magazzino a servizio di un'attività di commercio all'ingrosso anziché a servizio di un'attività artigianale.
La semplificazione delle attività edilizie voluta dal legislatore non si è spinta al punto di rendere tra loro omogenee tutte le categorie funzionali, le quali rimangono non assimilabili.
Circa il mutamento di destinazione d'uso urbanisticamente rilevante, il Collegio, richiamando i principi giurisprudenziali consolidatisi nella materia, premette che:
   a) ai sensi dell' art. 23-ter, d.P.R. n. 380 del 2001, inserito dall' art. 17, comma 1, lett. n), d.l. n. 133 del 2014, il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante è quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico e che influisce, di conseguenza, sul c.d. carico urbanistico poiché la semplificazione delle attività edilizie voluta dal legislatore non si è spinta al punto di rendere tra loro omogenee tutte le categorie funzionali, le quali rimangono non assimilabili, a conferma della scelta già operata con il d.m. n. 1444 del 1968;
   b) l'aumento del carico urbanistico non si verifica solo in caso di modifica della destinazione funzionale dell'immobile, ma anche nel caso in cui, come nella fattispecie, sebbene la destinazione non venga mutata, le opere si prestino a rendere la struttura un polo di attrazione per un maggior numero di persone con conseguente necessità di più intenso utilizzo delle urbanizzazioni esistenti.
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In ordine alla specifica questione oggetto della controversia, il Collegio, in primo luogo, ritiene che, ai fini della determinazione dell'importo del contributo di urbanizzazione dovuto per la realizzazione di un magazzino, non può non esser attribuita rilevanza alla destinazione funzionale ad esso impressa e, in particolare, alla destinazione degli ulteriori immobili con i quali il primo si pone in collegamento strutturale e quindi in posizione servente. Il medesimo magazzino, pertanto, non può determinare identico carico urbanistico laddove sia utilizzato per servire un immobile ad uso industriale ovvero sia funzionale all’esercizio di attività commerciale.
Il Collegio, peraltro, ritiene di doversi distaccare da quelle isolate pronunce che, ai fini della determinazione del carico urbanistico connesso ad un immobile e, pertanto, della destinazione d’uso di esso, hanno tentato di distinguere l’ipotesi in cui l’accesso sia generalizzato da quello in cui venga limitato esclusivamente ad una specifica categoria di utenti.
Con riferimento al deposito di merci, infatti, si è ritenuto rilevante, ai fini dell’aumento del carico urbanistico, il solo caso dell’accesso di pubblico per l'acquisto di beni all'ingrosso e al dettaglio, non anche la diversa ipotesi in cui l’afflusso sia limitato ai trasportatori, circostanza che porterebbe, secondo questa tesi, a considerare l’immobile come magazzino di stoccaggio, ossia quale luogo finale del processo produttivo.
Ad avviso del Collegio, tale linea ermeneutica, invero, farebbe ricadere sull’amministrazione un gravoso onere probatorio e presupporrebbe, a monte, un continuativo controllo pubblico degli accessi all’immobile, in concreto non esigibile.
Per converso, in adesione alla giurisprudenza prevalente, il Collegio ritiene che, ai fini della individuazione del mutamento di destinazione d’uso che causerebbe, in ragione del passaggio ad una diversa categoria funzionale, l’aumento del contributo di costruzione (oneri di urbanizzazione e costo di costruzione), non possa prescindersi dalla valutazione dell’utilizzo in concreto dell’immobile e, nel caso in cui questo svolga una funzione servente per un diverso immobile, della natura e della destinazione d’uso di quest’ultimo.
Il medesimo magazzino può determinare, pertanto, un differente carico urbanistico se è funzionale all’esercizio di attività produttiva, venendo utilizzato per la gestione di materiali derivanti da un fabbricato industriale, ovvero se è strumentale all’esercizio di attività commerciale, fungendo da deposito di prodotti finiti pronti per essere immessi nel mercato.
In quest’ultima ipotesi, invero, la gestione del magazzino si inserisce, come fase autonoma, nel ciclo della commercializzazione, svolgendo esso un ruolo di intermediazione commerciale, in quanto, mediante il deposito, viene di fatto regolato il flusso ed il deflusso delle scorte.
In tale ottica, la realizzazione del decentramento di una fase, quale quella della gestione dei magazzini dei prodotti finiti prima della loro immissione nella rete di vendita, presso un diverso immobile, piuttosto che esercitare la stessa all’interno del medesimo fabbricato in cui viene svolta l’attività di commercio all’ingrosso, non assume alcuna rilevanza ai fini della ponderazione dei relativi carichi urbanistici. Ciò, a fortiori, se, come nel caso di specie, i due immobili sono di proprietà della medesima società, ponendosi pertanto le due fasi all'interno del ciclo industriale di un unico soggetto.
Invero, la circolazione delle merci prodotte crea carichi urbanistici diversi da quelli collegabili alla produzione delle stesse nell'ambito ed all'interno della stessa struttura, con immediate ricadute sulla destinazione d'uso dell’immobile.

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5. Sulla scorta di un unico motivo le società appellanti hanno contestato la sussistenza, nel caso di specie, di un mutamento di destinazione d'uso urbanisticamente rilevante, tenuto conto che l'immobile in questione, assentito dall'amministrazione comunale con una destinazione a "magazzino", viene effettivamente utilizzato come magazzino, restando irrilevante la circostanza che il magazzino sia a servizio di un'attività di commercio all'ingrosso, peraltro svolta in altra sede, anziché a servizio di un'attività artigianale.
Secondo le società ricorrenti, la destinazione "a magazzino" sarebbe funzionalmente "autonoma" e "indifferente e/o insensibile rispetto alla destinazione d'uso dei locali a servizio dei quali viene di fatto utilizzato", richiamando a sostegno di tale assunto la sentenza del Consiglio di Stato n. 4355/2012.
Le appellanti, in particolare, hanno sostenuto che il discrimen tra la destinazione industriale e quella commerciale è data dall’accesso al pubblico, unico elemento determinante ai fini dell’incremento dell’impatto urbanistico, che assume rilievo quando genera un afflusso indistinto, non anche quando l’accesso è limitato ai soli trasportatori.
5.1. Le censure non sono meritevoli di accoglimento.
5.2. Il Collegio, al riguardo, richiamando i principi giurisprudenziali consolidatisi nella materia, intende premettere che:
   a) ai sensi dell' art. 23-ter, d.P.R. n. 380 del 2001, inserito dall' art. 17, comma 1, lett. n), d.l. n. 133 del 2014, il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante è quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico e che influisce, di conseguenza, sul c.d. carico urbanistico poiché la semplificazione delle attività edilizie voluta dal legislatore non si è spinta al punto di rendere tra loro omogenee tutte le categorie funzionali, le quali rimangono non assimilabili, a conferma della scelta già operata con il d.m. n. 1444 del 1968;
   b) l'aumento del carico urbanistico non si verifica solo in caso di modifica della destinazione funzionale dell'immobile, ma anche nel caso in cui, come nella fattispecie, sebbene la destinazione non venga mutata, le opere si prestino a rendere la struttura un polo di attrazione per un maggior numero di persone con conseguente necessità di più intenso utilizzo delle urbanizzazioni esistenti.
5.3. In ordine alla specifica questione oggetto della controversia, il Collegio, in primo luogo, ritiene che, ai fini della determinazione dell'importo del contributo di urbanizzazione dovuto per la realizzazione di un magazzino, non può non esser attribuita rilevanza alla destinazione funzionale ad esso impressa e, in particolare, alla destinazione degli ulteriori immobili con i quali il primo si pone in collegamento strutturale e quindi in posizione servente. Il medesimo magazzino, pertanto, non può determinare identico carico urbanistico laddove sia utilizzato per servire un immobile ad uso industriale ovvero sia funzionale all’esercizio di attività commerciale.
5.3.1. Il Collegio, peraltro, ritiene di doversi distaccare da quelle isolate pronunce che, ai fini della determinazione del carico urbanistico connesso ad un immobile e, pertanto, della destinazione d’uso di esso, hanno tentato di distinguere l’ipotesi in cui l’accesso sia generalizzato da quello in cui venga limitato esclusivamente ad una specifica categoria di utenti.
Con riferimento al deposito di merci, infatti, si è ritenuto rilevante, ai fini dell’aumento del carico urbanistico, il solo caso dell’accesso di pubblico per l'acquisto di beni all'ingrosso e al dettaglio, non anche la diversa ipotesi in cui l’afflusso sia limitato ai trasportatori, circostanza che porterebbe, secondo questa tesi, a considerare l’immobile come magazzino di stoccaggio, ossia quale luogo finale del processo produttivo (Cons. Stato, sez. V, 27.01.2016, n. 263; id., sez. V, 09.02.2001, n. 583).
Ad avviso del Collegio, tale linea ermeneutica, invero, farebbe ricadere sull’amministrazione un gravoso onere probatorio e presupporrebbe, a monte, un continuativo controllo pubblico degli accessi all’immobile, in concreto non esigibile.
5.3.2. Per converso, in adesione alla giurisprudenza prevalente già citata nella pronuncia impugnata (ex multis, Cons. Stato, sez. V, 27.12.2001, n. 6411), il Collegio ritiene che, ai fini della individuazione del mutamento di destinazione d’uso che causerebbe, in ragione del passaggio ad una diversa categoria funzionale, l’aumento del contributo di costruzione (oneri di urbanizzazione e costo di costruzione), non possa prescindersi dalla valutazione dell’utilizzo in concreto dell’immobile e, nel caso in cui questo svolga una funzione servente per un diverso immobile, della natura e della destinazione d’uso di quest’ultimo.
Il medesimo magazzino può determinare, pertanto, un differente carico urbanistico se è funzionale all’esercizio di attività produttiva, venendo utilizzato per la gestione di materiali derivanti da un fabbricato industriale, ovvero se è strumentale all’esercizio di attività commerciale, fungendo da deposito di prodotti finiti pronti per essere immessi nel mercato.
In quest’ultima ipotesi, invero, la gestione del magazzino si inserisce, come fase autonoma, nel ciclo della commercializzazione, svolgendo esso un ruolo di intermediazione commerciale, in quanto, mediante il deposito, viene di fatto regolato il flusso ed il deflusso delle scorte.
In tale ottica, la realizzazione del decentramento di una fase, quale quella della gestione dei magazzini dei prodotti finiti prima della loro immissione nella rete di vendita, presso un diverso immobile, piuttosto che esercitare la stessa all’interno del medesimo fabbricato in cui viene svolta l’attività di commercio all’ingrosso, non assume alcuna rilevanza ai fini della ponderazione dei relativi carichi urbanistici. Ciò, a fortiori, se, come nel caso di specie, i due immobili sono di proprietà della medesima società, ponendosi pertanto le due fasi all'interno del ciclo industriale di un unico soggetto.
Invero, la circolazione delle merci prodotte crea carichi urbanistici diversi da quelli collegabili alla produzione delle stesse nell'ambito ed all'interno della stessa struttura, con immediate ricadute sulla destinazione d'uso dell’immobile.
5.4. In conclusione, questo Collegio, conformemente a quanto espresso dal giudice di primo grado, ritiene che, alla luce della funzionalizzazione del magazzino all’attività commerciale, nella fattispecie in esame si sia verificato un mutamento di destinazione d’uso da “artigianale” a “commerciale”, assumendo a tal fine valore determinante i seguenti elementi di fatto emersi nel corso del giudizio:
   a) il rapido cambio di intestazione dell’immobile, testimoniato dalla circostanza che, neanche sei mesi dopo il rilascio del permesso n. 69 del 20.09.2010, l’immobile, con atto notarile del 04.03.2011, veniva ceduto dalla Tr.Co. s.p.a. alla UBI Leasing s.p.a., che, a sua volta, lo concedeva in locazione finanziaria alla Sa.Sv.Im. s.r.l., la quale, a sua volta, in data 19.05.2011 concedeva l’immobile in locazione (“ad uso magazzino per materiale vario finalizzato a complemento di arredi per la casa e suppellettili”) alla Me. s.r.l. (cfr. documentazione in atti, in particolare, la lettera della Tr.Co. s.p.a. del 26.11.2012);
   b) il mutamento di destinazione d’uso, dato dal fatto che la Me. s.r.l. destinava il nuovo capannone a servizio della propria attività di commercio all’ingrosso, in tal modo distogliendolo dalla originaria destinazione artigianale (deposito di materiale ceramico), alla quale fa riferimento il permesso di costruire n. 69/2010 (“edificio a destinazione artigianale da adibire a magazzino per materiale ceramico nel comparto “C” del P.E.C., in area industriale “12” lotto “C.I.A.”), nonché il rogito notarile del 04.03.2011 (che descrive lo stesso come “fabbricato a destinazione artigianale da adibire a magazzino per materiale ceramico”);
   c) lo svolgimento di attività commerciale all’ingrosso da parte della Me. s.r.l., come risultante nell’oggetto sociale dalla visura camerale in atti del 21.06.2012.
6. In conclusione, in ragione di quanto esposto, l’appello deve essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 13.11.2018 n. 6388 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOÈ diritto del dipendente conoscere i titoli del capo.
Non è sanzionabile il dipendente pubblico che richiede informazioni sui requisiti e sul percorso professionale del proprio dirigente. Sapere se il proprio diretto superiore gerarchico si trovi a ricoprire quel ruolo in conseguenza di eventuali atti illeciti, corrisponde a un interesse concreto, diretto e attuale del lavoratore ed è espressione dei generali doveri di cura del pubblico interesse, cui dovrebbero conformarsi tutti i pubblici funzionari a vantaggio della collettività.

Con la sentenza 12.11.2018 n. 28923, la Sez. lavoro della Corte di Cassazione ha confermato le motivazioni della Corte d'appello di Catanzaro che aveva dichiarato inefficace la sanzione disciplinare inflitta dall'Inps a una propria funzionaria, che aveva avuto l’ardire di formulare la richiesta d'informazioni.
La vicenda
L'impiegata aveva prodotto un’istanza d'accesso agli atti, indirizzata alla direzione centrale risorse umane dell'Inps, per conoscere i titoli e le esperienze professionali della propria dirigente. La sua curiosità nasceva dal fatto che dal curriculum pubblicato sul sito dell'Istituto, si desumeva che la dirigente aveva ricoperto incarichi sia presso il ministero delle Finanze, sia presso l'Inps, in seguito a una procedura di mobilità come dirigente di un consorzio ente pubblico economico, cui si accede senza concorso pubblico.
Non avendo ricevuto alcuna risposta, la dipendente aveva provveduto a inviare una copia dell'istanza alla segreteria tecnica del collegio dei sindaci dell'Inps e alla segreteria del magistrato della Corte dei conti, delegato al controllo sulla gestione dell'Istituto.
Il risultato era stato tuttavia, un provvedimento di rigetto dell'istanza, motivato dalla ritenuta inesistenza di un interesse diretto, concreto e attuale, idoneo a giustificare l'accesso ai dati richiesto. Un mese dopo, come se non bastasse, le era pervenuta una formale contestazione disciplinare, per una presunta violazione del principio di correttezza verso l'amministrazione, proprio a causa della richiesta di informazioni.
Le conclusioni della Cassazione
Investita del ricorso dell'Inps, la Corte di cassazione ha letteralmente “smontato” tutte le undici censure depositate dall'Istituto. A giudizio della Cassazione, l'obbligo di fedeltà e quelli, collegati, di correttezza e buona fede, cui è tenuto il pubblico dipendente nell'esecuzione del contratto di lavoro, devono essere riferiti esclusivamente ad attività lecite (da tutti i punti di vista: penale, civile, amministrativo, tanto più nel lavoro pubblico) del datore di lavoro, non potendosi richiedere al lavoratore l'osservanza di questi obblighi, anche quando il datore di lavoro intenda perseguire interessi che non siano limpidamente legittimi.
Nella vicenda la dipendente aveva chiaramente manifestato ai propri superiori, il dubbio che la dirigente non avesse mai superato un pubblico concorso per accedere ai ruoli dirigenziali pubblici.
A seguito delle istanze della lavoratrice, piuttosto che punirla, l'Istituto avrebbe dovuto attivarsi per stabilire se l'ipotizzata irregolarità della procedura di mobilità, con la quale la dirigente è passata dal consorzio al ministero e da quest'ultimo all'Inps, fosse o meno rispondente al vero.
Il testo unico sul pubblico impiego è chiarissimo in merito: il passaggio diretto è ammesso tra pubbliche amministrazioni, ma il consorzio non è una pubblica amministrazione. I pubblici dipendenti devono adempiere alle funzioni loro affidate «con disciplina e onore», recita la Costituzione (e ciò è richiamato anche dal codice di comportamento dei pubblici dipendenti), per cui il rispetto degli obblighi di correttezza, non può essere apprezzato con riferimento a meri interessi del datore di lavoro, dovendo in ogni caso essere commisurato al superiore interesse pubblico (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 21.11.2018).

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO ACUSTICO - Immissioni acustiche - Vaglio di tollerabilità ex art. 844 c.c. - Tutela della salute - Superamento del livello massimo di immissioni rumorose ex art. 844 c.c. - Accertamento - art. 844 c.c. e 2043 c.c.; artt. 3, comma 1, lett. l), art. 10, comma 5, e art. 11 della L. n. 447/1995; artt. 1, 2, 5, 6 D.P.R. n. 142/2004; artt. 3, 4 e 8 D.Lgs. n. 194/2005; art. 5 D.M. Ambiente 29.11.2000; art. 8 D.P.C.M. 14.11.1997; D.P.C.M. 01.03.1991; art. 44 del D.P.R. n. 327/2001.
In materia di immissioni, mentre è senz'altro illecito il superamento dei livelli di accettabilità stabiliti dalle leggi e dai regolamenti che, disciplinando le attività produttive, fissano nell'interesse della collettività le modalità di rilevamento dei rumori e i limiti massimi di tollerabilità, l'eventuale rispetto degli stessi non può fare considerare senz'altro lecite le immissioni, dovendo il giudizio sulla loro tollerabilità formularsi alla stregua dei principi di cui all'art. 844 c.c., tenendo presente, fra l'altro, la vicinanza dei luoghi e i possibili effetti dannosi per la salute delle immissioni.
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INQUINAMENTO ACUSTICO - Immissioni rumorose - Differenziazione tra tutela civilistica e tutela amministrativa - Superamento del limite della normale tollerabilità - Normale qualità della vita rispetto alle esigenze della produzione - RISARCIMENTO DEL DANNO - Azione risarcitoria extracontrattuale, ex artt. 2043 e 844 c.c. - Inquadramento normativo e giurisprudenziale.
In tema di immissioni acustiche, la differenziazione tra tutela civilistica e tutela amministrativa mantiene la sua attualità anche a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 6-ter del d.l. n. 208 del 2008, convertito con modificazioni in L. n. 13 del 2009, al quale [anche] non può aprioristicamente attribuirsi una portata derogatoria e limitativa dell'art. 844 c.c., con l'effetto di escludere l'accertamento in concreto del superamento del limite della normale tollerabilità, dovendo comunque ritenersi prevalente, alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata, il soddisfacimento dell'interesse ad una normale qualità della vita rispetto alle esigenze della produzione (Cass. n. 20927/2015; Cass. n. 20198/2016).
Pertanto, il D.P.R. n. 142/2004 non è suscettibile di elidere la valenza precettiva dell'art. 2043 c.c. e della tutela del diritto di proprietà prevista dall'art. 844 c.c. (Cass. n. 16074/2016)
(Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 12.11.2018 n. 28893 - link a www.ambientediritto.it).

PATRIMONIO: PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Gestione dei propri beni - Regole tecniche o dei canoni di diligenza e prudenza - Inosservanza da parte della P.A. - Condanna al risarcimento dei danni - Principio del neminem laedere - Giurisprudenza - Fattispecie: inquinamento acustico.
L'inosservanza da parte della P.A. delle regole tecniche o dei canoni di diligenza e prudenza nella gestione dei propri beni può essere denunciata dal privato davanti al giudice ordinario non solo per conseguire la condanna della P.A. stessa al risarcimento dei danni, ma anche per ottenerne la condanna ad un tacere, tale domanda non investendo scelte ed atti autoritativi, ma un'attività soggetta al principio del neminem laedere (Cass. sez. un. n. 22116 del 2014; nella specie, applicando l'enunciato principio, la S.C. ha dichiarato appartenere al giudice ordinario la cognizione sulla domanda per la condanna di Rete Ferroviaria Italiana alla riduzione nei limiti di tollerabilità delle immissioni rumorose prodotte dai convogli ferroviari, oltre che al risarcimento dei danni da inquinamento acustico).
Il principio è stato di recente confermato (con specifico riferimento a fattispecie in cui la S.C., confermando la sentenza di merito, ha dichiarato la giurisdizione del giudice ordinario sulla domanda di condanna della Autostrada del Brennero s.p.a. alla realizzazione di una barriera antirumore) da Cass. n. 14180 del 2016; nonché da Cass. n. 2338 del 2018, che ha riaffermato che, in tema di immissioni acustiche provenienti da autostrada, appartiene alla giurisdizione ordinaria la controversia avente ad oggetto la domanda di risarcimento proposta dai proprietari dominicali limitrofi nei confronti del concessionario della gestione della rete autostradale. Fattispecie: pessime condizioni della barriera antirumore per colpa o negligenza nella costruzione e manutenzione del manufatto
(Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 12.11.2018 n. 28893 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Attività di lavorazione pelli - Impianto con emissioni in atmosfera - Macchinario per lo spruzzo - Autorizzazione distinte per singolo macchinario - Esclusione - Artt. 183, 256, 269, 272, 279, d.lgs. n. 152/2006.
In tema di inquinamento atmosferico, l'autorizzazione è rilasciata con riferimento allo stabilimento. I singoli impianti e le singole attività presenti nello stabilimento non sono oggetto di distinte autorizzazioni." Dal dettato normativo, ex art. 269 d.lgs. n. 152 del 2006, si evince che l'autorizzazione sia rilasciata "con riferimento allo stabilimento" e non già al singolo macchinario.
Come poi emerge dall'incipt, la norma fa salvo quanto stabilito, tra l'altro, dall'art. 272, comma 1, che così recita: "Non sono sottoposti ad autorizzazione di cui al presente titolo gli stabilimenti in cui sono presenti esclusivamente impianti e attività elencati nella parte I dell'Allegato IV alla parte quinta del presente decreto. L'elenco si riferisce a impianti e ad attività le cui emissioni sono scarsamente rilevanti agli effetti dell'inquinamento atmosferico."
Nella parte I dell'Allegato IV - impianti e attività in deroga della Parte Quinta, che individua gli "impianti ed attività di cui all'articolo 272, comma 1", alla lett. q) sono indicati i "macchinari a ciclo chiuso di concerie e pelliccerie"
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.11.2018 n. 51033 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Gestione illecita dei rifiuti - Nozione di deposito temporaneo - Presupposti - Giurisprudenza.
In tema di gestione illecita dei rifiuti, per luogo di produzione rilevante ai fini della nozione di deposito temporaneo ai sensi dell'art. 183 d.lgs. 03.04.2006, n. 152 deve intendersi quello in cui i rifiuti sono prodotti ovvero che si trovi nella disponibilità dell'impresa produttrice e nel quale gli stessi sono depositati, purché funzionalmente collegato al luogo di produzione e dotato dei necessari presidi di sicurezza (Sez. 7, n. 17333 del 18/03/2016, dep. 27/04/2016, Passarelli) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.11.2018 n. 51033 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Raccolta e trasporto in difetto di autorizzazione - Natura di reato istantaneo - Sufficiente un unico episodio ad integrare l’illecito - Giurisprudenza - Art. 256 del D.L.vo 152/2006.
La raccolta ed il trasporto di rifiuti in difetto di autorizzazione ha, di regola, natura di reato istantaneo e solo eventualmente abituale, in quanto si perfeziona nel momento in cui sì realizza la singola condotta tipica, essendo sufficiente un unico trasporto ad integrare la fattispecie incriminatrice, salvo il caso in cui, stante la ripetitività della condotta, si configuri quale reato eventualmente abituale (Sez. 3, n. 13456 del 30/11/2006, dep. 02/04/2007, Gritti e altro; Sez. 3, n 21655 del 13/04/2010, conf., anche con riferimento alla disciplina emergenziale, Sez. 3, n. 45306 del 17/10/2013, Carlino).
Nella specie, trattandosi di sei condotte nell'arco temporale limitato di tre mesi, il reato si configurava quale abituale ed assumeva struttura unitaria, con la conseguenza che risultava illegale il disposto aumento per la continuazione
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.11.2018 n. 51003 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Serre mobili stagionali sprovviste di strutture in muratura - Attività edilizia libera - Avanserra ancorata su piattaforma in cemento - Requisiti di stabilità, consistenza e non precarietà - Necessita del permesso di costruire - Artt. 3, 6, 44, lett. b), 93, 94 e 95 d.PR. 380/2001.
Le serre mobili stagionali, sprovviste di strutture in muratura, funzionali allo svolgimento dell'attività agricola rientrano, ai sensi dell'articolo 6, comma 1, lettera e), d.P.R. 380/2001, tra le ipotesi di attività edilizia libera, mentre per quelle di diversa consistenza e destinazione necessita del permesso di costruire, assumendo rilevanza decisiva la presenza di requisiti di stabilità o di rilevante consistenza, tale da alterare in modo duraturo l'assetto urbanistico-ambientale (Cass. Sez. 3, n. 37139 del 10/04/2013, Di Benedetto; Sez. 3, n. 36594 del 17/05/2012, Giuffrida; Sez. 3, n. 46767 del 16/11/2005, Mulé; Sez. 3, n. 33158 del 29/05/2002, P.M. in proc. Bianchini ed altre prec. conf.).
Fattispecie: realizzazione di una struttura portante metallica bullonata su piastre ancorate su piattaforma in cemento assimilabile ad "avanserra", in zona sismica, in assenza di permesso di costruire, senza darne preavviso scritto allo sportello unico, senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico regionale e senza direzione lavori da parte di professionista abilitato.
...
Strutture di servizio e supporto ad impianti serricoli - Realizzazione della "avanserra" - Platea in cemento - Esecuzione in zona sismica- Rilievo ai fini urbanistici - Permesso di costruire - Necessità.
La sola realizzazione della platea in cemento assume rilievo ai fini urbanistici ed è soggetta a permesso di costruire, sulla base di quanto disposto dal T.U. dell'edilizia, tutti gli interventi che, indipendentemente dalla realizzazione di volumi, incidono sul tessuto urbanistico del territorio, determinando una trasformazione in via permanente del suolo inedificato (cfr. Sez. 3, n. 1308 del 15/11/2016 (dep. 2017), Palma; Sez. 3, n. 4916 del 13/11/2014 (dep. 2015), Agostini; Sez. 3, n. 8064 del 02/12/2008 (dep. 2009), P.G. in proc. Dominelli), comprendendo, tra questi, la realizzazione di una piattaforma con struttura intelaiata in cemento armato (Sez. 3, n. 31399 del 11/05/2018, Spica).
E' appena il caso di rilevare, infine, che nessun rilievo ha il fatto che l'opera fosse una "avanserra" e non una serra, atteso che tali manufatti, per definizione, sono sostanzialmente strutture di servizio e supporto ad impianti serricoli ed, in ogni caso, ciò che qui rileva è la trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, che la stessa determina rendendo necessario il permesso di costruire
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.11.2018 n. 50649 - link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGOPeculato al responsabile finanziario comunale che dispensa incentivi non dovuti.
Commette il reato di peculato il responsabile finanziario di un Comune che approfitta per sé e per altri dipendenti comunali degli incentivi previsti per la riscossione Ici, in totale spregio delle modalità di calcolo previste dalla normativa amministrativo-contabile di riferimento.

È quanto emerge dalla sentenza 02.11.2018 n. 49922 della Corte di Cassazione, Sez. VI penale.
Il caso
Più che per le motivazioni, la pronuncia della Suprema corte si distingue per la particolarità della vicenda. Protagonista ne è il responsabile finanziario di un Comune sardo, il quale era accusato dell'appropriazione del danaro di cassa dell'ente locale attraverso la liquidazione a sé e ad altri dipendenti comunali di compensi incentivanti non dovuti, per attività finalizzate al recupero dell'Ici.
In particolare, si contestava al dirigente di aver determinato gli incentivi con modalità di calcolo difformi rispetto a quelle previste nel regolamento comunale e in difetto delle autorizzazioni e dei pareri di conformità. Nello specifico, l'elargizione del denaro pubblico era intervenuta «non sulle somme incassate dell'imposta evasa, e quindi in applicazione del criterio di cassa, ma con riferimento alle somme accertate negli avvisi di pagamento e non contestate dai contribuenti, con conseguente liquidazione per importi virtuali ovverosia per acconti posti a carico delle annualità precedenti di bilancio, con utilizzo dei residui del conto di esercizi precedenti».
Peraltro, la stessa attività di accertamento e riscossione della vecchia imposta comunale era stata affidata a società esterne e, pertanto, mancava lo stesso presupposto per dar luogo all'incentivo, ovvero l'incremento della prestazione lavorativa o dei risultati conseguiti dai dipendenti comunali.
Per queste condotte il responsabile finanziario dell'ente locale era stato condannato, sia dalla Corte dei conti per danno erariale, sia dai giudici di merito per il reato di peculato, per la violazione delle norme di settore che vietano ogni automatismo nella corresponsione degli elementi accessori della retribuzione ai dipendenti dell'amministrazione territoriale. In particolare, secondo la Corte d'appello di Cagliari gli incentivi censurati avrebbero dovuto conseguire al «consolidamento dell'imposta evasa per relativo accertamento», oltre che essere preceduti da un controllo dell'organo politico.
La decisione
La questione è finita in Cassazione, dove l'imputato ha cercato di far leva sulla complessità della normativa contabile, la cui violazione ha determinato la commissione del reato previsto dall’articolo 314 del codice penale.
Tuttavia, la Suprema corte con una articolata sentenza ha confermato nella sostanza il verdetto sfavorevole. Secondo i giudici di legittimità «le norme di natura amministrativo-contabile devono intendersi richiamate da quella penale di definizione del delitto di peculato provvedendo esse ad assolvere alla finalità di determinare la destinazione del pubblico denaro», qualificando in termini appropriativi la condotta del dipendente pubblico che provveda a «dare del denaro pubblico un utilizzo in macroscopica violazione del procedimento amministrativo», in assenza di qualsiasi finalità pubblica.
In sostanza, chiosa il Collegio, nella fattispecie si è verificata una rilevante illiceità nella gestione del denaro pubblico, in totale spregio della normativa di riferimento che vieta ogni automatismo nella corresponsione dei compensi incentivanti per i dipendenti (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.11.2018).
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SENTENZA
4. La Corte territoriale di Cagliari ha condannato per il reato di peculato Egidio Usai, responsabile dell'ufficio finanza e tributi del Comune di Pula, per essersi egli appropriato, avendone per ragioni del suo ufficio la disponibilità, del denaro di cassa dell'amministrazione comunale, provvedendo a liquidare a se stesso e ad altri dipendenti, compensi incentivanti per la riscossione dell'I.C.I. non dovuti per le modalità di calcolo osservate, difformi da quelle previste dalla disciplina di settore, e trattandosi di attività esternalizzata a terzi.
Per le raggiunte conclusioni, i giudici di appello, preliminarmente chiamati a darne ricostruzione, hanno fornito dell'insieme di norme che disciplinano il fondo per l'incentivazione dei compensi ai dipendenti comunali impegnati nel servizio di riscossione dell'Ici evasa, una corretta interpretazione provvedendo poi, nel confronto con gli adempimenti di legge richiesti dall'indicato sistema, a segnalare delle condotte osservate dall'imputato, nella registrata loro rilevante deviazione dal modello legale, l'integrazione del reato di peculato per i necessari estremi obiettivi e soggettivi.
Nell'indicata cornice, le norme di natura amministrativo-contabile devono intendersi richiamate da quella penale di definizione del delitto di peculato provvedendo esse ad assolvere alla finalità di determinare la destinazione del pubblico danaro ed in tal modo concorrendo a qualificare in termini appropriativi ex art. 314 cod. pen. la condotta del pubblico funzionario o dell'incaricato di un pubblico servizio là dove questi provveda a dare del denaro pubblico un utilizzo in macroscopica violazione del procedimento amministrativo e segnatamente per una finalità che, insussistente, registri l'abbandono di ogni rapporto dell'utilizzo stesso con la p.A. (tra le altre: Sez. 6, n. 23066 del 14/05/2009, Provenzano, Rv. 244061, sul richiamo all'abbandono delle finalità istituzionali per ritenere integrato il reato di peculato).
Il complesso di norme plurifonte destinato a venire in considerazione nella disciplina dell'indicata materia —in cui trovano composizione disposizioni normative primarie e secondarie e previsioni di stretta derivazione privatistica— affida ai Comuni, nell'esercizio della potestà regolamentare loro riconosciuta, la scelta di destinare una percentuale del gettito al fine di potenziare gli uffici tributari, stabilendo l'attribuzione di compensi incentivanti al personale addetto (art. 3, comma 57, legge contenente «Misure di razionalizzazione della finanza pubblica» n. 662 del 1996; art. 59, lett. p), d.lgs. n. 446 del 1997 contente l'«Istituzione dell'imposta regionale sulle attività produttive, revisione degli scaglioni, delle aliquote e delle detrazioni dell'Irpef e istituzione di una addizionale regionale a tale imposta, nonché riordino della disciplina dei tributi locali»).
I Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro (CCNL 01.04.1999 e succ. nnodif., applicabile al personale, escluso quello con qualifica dirigenziale, dipendente dagli enti del comparto delle Regioni e delle Autonomie Locali), entrano a comporre il quadro normativo di riferimento.
Essi individuano il salario accessorio per il personale non dirigente composto da risorse in cui rientrano quelle destinate all'incentivazione di prestazioni che confluiscono in un apposito fondo il cui utilizzo, finalizzato al miglioramento dei livelli di efficienza delle amministrazioni e della qualità dei servizi, avviene per erogazione di compensi correlata al merito ed ai risultati conseguiti.
I compensi incentivanti il miglioramento del servizio entrano a far parte di un «Progetto» all'interno del quale vengono determinati, insieme all'ammontare dell'incentivo stabilito in misura percentuale dell'I.C.I. accertata, gli obiettivi e gli indicatori di produttività.
Il «Progetto» deve essere approvato dall'amministrazione con atto di indirizzo (artt. 15, comma 1, lett. k) e 17, comma 2, lett. g) del CCNL 01.04.1999 sulla previsione di un fondo dedicato e delle modalità di distribuzione delle relative risorse) all'interno della cd. contrattazione integrativa, decentrata o di secondo livello.
All'operatività dell'indicato meccanismo resta affidata, come evidenziato nell'impugnata sentenza, la verificabilità del maggiore impegno del personale nella sottolineata finalità di modulare l'incentivo all'effettivo incremento di produttività «in coerenza con gli obiettivi annualmente predeterminati» dell'amministrazione e con sottrazione dello stesso ad ogni automatismo (art. 18 CCNL), per un processo di progressiva razionalizzazione e riduzione del costo del lavoro pubblico.
Segnatamente l'amministrazione locale è chiamata a concludere il contratto collettivo decentrato integrativo (CDI) nell'osservanza della forma scritta richiesta ad substantiam per il necessario principio di certezza, trasparenza e correttezza che deve guidare la p.A. anche quando agisca iure privatorum (ex multis: Sez. 2, n. 20033 del 06/10/2016 (Rv. 641700 - 01) e l'accordo deve prevedere la fissazione di criteri e piani di attività, anche pluriennali, e di progetti strumentali e di risultato (art. 17 CCNL 01.04.1999 cit.).
Agli accordi decentrati deve seguire la definizione degli obiettivi da parte degli organi di governo dell'ente a tanto chiamati anche avvalendosi delle proposte dei dirigenti, all'inizio di ciascun anno ex d.lgs. n. 29 del 1993 e succ. modif. (art. 18 CCNL cit.).
5. L'amministrazione comunale di Pula ha esercitato la potestà regolamentare in materia di compensi incentivanti I.C.I. adottando il Regolamento per Delibera del Commissario straordinario n. 19 del 2004 in cui è inserita la previsione del fondo per gli incentivi I.C.I. (art. 14).
A fronte dell'articolata disciplina di settore, è mancata, nelle convergenti conclusioni dei giudici di merito di primo e secondo grado —destinate ad integrarsi a vicenda confluendo in un risultato organico ed inscindibile che non si lascia censurare per erroneità o divisata interpretazione delle norme in applicazione— l'istituzione del fondo e l'approvazione del correlato programma con definizione degli obiettivi di risultato rispetto ai quali valutare l'attività dei dipendenti addetti al settore.
In risposta alle deduzioni difensive, la capacità delle condotte in concreto adottate dall'imputato di integrare comunque il modello normativamente fissato è stata oggetto di ineccepibile valutazione da parte della Corte territoriale per un giudizio ai cui esiti non è rimasta estranea, in modo concludente, la condanna per danno erariale pronunciata dalla Corte dei conti nei confronti di Usai nel parallelo giudizio amministrativo-contabile (sentenza n. 193 del 2012).
Individuata disciplina e ratio dei compensi incentivanti del personale addetto alla riscossione dell'I.C.I., la sentenza della Corte di appello di Cagliari esclude, correttamente ed in modo congruo, che le manifestazioni di volontà dell'amministrazione comunque individuate nella scrutinata vicenda e la condotta osservata dell'imputato possano dirsi integrative del complesso modulo dispositivo per legge richiesto.
5.1. Restano sul punto ferme le conclusioni raggiunte circa la mancata fissazione da parte dell'organo di governo del Comune di Pula di obiettivi programmatici annuali sul cui raggiungimento valorizzare, previa loro verificabilità, per il binomio produttività ed incentivi (art. 18 CCNL cit.), l'attività dei dipendenti dell'amministrazione comunale e la mancata adozione in sede di contrattazione collettiva decentrata di criteri di determinazione e di attribuzione delle forme di incentivazione.
In siffatta prospettiva si è escluso, con valutazione che sfugge a sindacato in questa sede, che le relazioni previsionali e di programma adottate dalla Giunta del Comune per le annualità 2002-2006 avessero la capacità di assolvere al compito di approvazione del richiesto «Progetto», nella scrutinata assenza di ogni riferimento agli obiettivi in concreto perseguibili rispetto a prefissati standard di produttività ed ai criteri di valutazione da applicarsi.
5.2. Il dato della esternalizzazione del servizio per affidamento a terzi concessionari ed agenti della riscossione (Equitalia Sardegna S.p.A. già B.P.S. Riscossioni S.p.A., e Pu.Se. ed Am. S.r.l.) viene correttamente valorizzato nell'impugnata sentenza quale presupposto della necessità di una progettazione più rigorosa degli obiettivi dell'ufficio comunale, con individuazione dei criteri di valutazione dei singoli addetti.
Perspicuamente l'impugnata sentenza rileva che gli incentivi in un sistema misto in cui alla esternalizzazione o gestione a mezzo terzi si accompagnava anche una gestione in economia degli uffici comunali vennero comunque calcolati sui risultati raggiunti dal concessionario e non sulle attività, meramente ancillari, del personale, in ogni caso non quantificabili in mancanza di progetti ed obiettivi.
5.3. In assenza di un apposito «Progetto» diretto a fissare gli obiettivi da perseguirsi, la Corte di merito ha qualificato, in modo concludente ed espressivo di corretta valutazione della normativa, l'attività di Usai quale erogazione atipica di emolumenti economici in favore dei dipendenti del Comune, declinata in modo incontrollato secondo il cd. metodo «a pioggia».
Si lascia quindi apprezzare come di piena e salda interpretazione del sistema la stima operata nell'impugnata sentenza sulla illegittimità della condotta del prevenuto per adozione di modelli praeter legem in quanto non preordinati all'attivazione di controlli nel riparto tra la responsabilità di indirizzo, propria dell'organo politico o di governo dell'ente territoriale, e responsabilità di gestione rimessa al dirigente chiamato a dare attuazione al piano.
Valga in tal senso l'esclusione di ogni rilievo alle modalità di liquidazione osservate dall'imputato che, in adesione, si deduce in ricorso, ai principi di contabilità generale dettati in materia di bilancio di previsione e consuntivo, avrebbe appostato in un capitolo titolato «compensi incentivanti», sia in previsione di entrata che a consuntivo, gli emolumenti in questione consentendo di siffatta posta ogni controllo agli organi politici e tecnici dell'amministrazione, attraverso la delibera di approvazione del bilancio previa relazione di accompagno dei revisori contabili.
La critica sul punto portata, che vorrebbe soddisfatto per l'osservato ordinario procedimento di approvazione del bilancio ogni onere derivante dalla speciale disciplina di settore, rimane fuori fuoco non confrontandosi con la motivazione impugnata e con il ben più articolato sistema ivi definito, in cui modalità di verifica dell'azione dell'amministrazione in relazione a prefissati obiettivi, termini tra loro intimamente connessi nel settore dei compensi sussidiari, restano inosservate per la condotta contestata.
Il sistema adottato dal prevenuto di liquidazione degli incentivi in acconto, sugli avvisi di imposta inviati ai contribuenti e non contestati e con incidenza sui residui degli anni precedenti di bilancio è indice, come debitamente rilevato dai giudici di merito della mancanza di un realizzo in termini di cassa, o di effettivo introito delle somme da destinarsi all'incentivo, e pertanto di un etero- inanziamento del «Progetto» sui compensi incentivanti che contrasta con le finalità dell'istituto di incentivazione di dotazioni umane e materiali neppure incentivate dalla valorizzata, in sentenza, distribuzione a personale estraneo finanche all'ufficio tributi (art. 3, comma 57, legge n. 662 del 1996 e art. 59, comma 1, lett. p), d.lgs. n. 446 del 1997).
5.4. L'ulteriore profilo di censura con cui si contesta la sussistenza della pure ritenuta, in sentenza, violazione dell'art. 24, commi 3 e 8, d.lgs. n. 165 del 2001 in ragione di posizioni dirigenziali apicali in realtà non appartenenti all'imputato, funzionario non laureato con incarico di posizione organizzativa, resta superato dal rilievo contenuto nell'impugnata sentenza e rispondente alla disciplina di settore che il fondo incentivante è presupposto della erogazione degli emolumenti aggiuntivi in favore di tutti i dipendenti degli enti locali.
6. La deviazione essenziale dai modelli tipici definiti dal sistema di riferimento sostiene debitamente il formulato giudizio sulla sussistenza, insieme alla condotta contestata, del dolo appropriativo proprio della fattispecie di peculato.
In modo non fondato il ricorso richiamando come non superato nel formulato giudizio di penale responsabilità il ragionevole dubbio (art. 533 cod. proc. pen.) fa valere la mancanza dell'elemento soggettivo del reato, contestando l'assunto che l'illiceità della condotta del prevenuto e quindi il suo discostarsi dalla disciplina di legge sia integrativa del reato di peculato e del correlato dolo.
L'invocata configurabilità di altre ipotesi di illecito —disciplinare, amministrativo e contabile— anche per un operato richiamo a sentenze dei giudici contabili sosterrebbe al più, si deduce dalla difesa, nella condotta dell'imputato l'esistenza di una colpa grave e non del dolo, con esclusione, quindi, del ritenuto reato.
La deduzione è stata in modo congruo apprezzata dai giudici di merito come non fondata.
6.1. Valga innanzitutto sul punto il rilievo che la giurisdizione contabile e quella ordinaria sono reciprocamente indipendenti nei loro profili istituzionali anche quando investono il medesimo fatto materiale e che l'eventuale interferenza tra i giudizi è destinata a porre un problema di proponibilità dell'azione dinanzi alla Corte dei conti.
Al principio, pacifico nelle conclusioni delle Sezioni Unite della cassazione civile chiamate a pronunciarsi in sede di regolamento di giurisdizione (tra le altre: Sez. U, Ordinanza n. 25495 del 04/12/2009 (Rv. 610465 - 01), si accompagna il rilievo che il rapporto tra i due giudizi non è quello di reciproco vincolo.
La circostanza pertanto che le condotte ascritte in rubrica e scrutinate dal giudice contabile in sede di giudizio sul danno erariale siano state ritenute connotate da colpa grave non vale a vincolare ad identico giudizio il giudice ordinario in sede di cognizione penale.
Ciò posto, il canone che risulta aver invece guidato i giudici di merito —una volta ricostruito il complesso di norme amministrativo- contabili di disciplina dei compensi accessori la cui violazione è entrata a comporre l'ascritta fattispecie di reato— è stato quello della macroscopica illiceità degli atti capace, come tale, di disvelare insieme alla condotta di appropriazione del denaro pubblico attribuita al prevenuto, il carattere doloso della stessa.
6.2. Nel delitto di peculato all'appropriazione del denaro pubblico si correla un necessario coefficiente di volontà in difetto del quale non sussiste neppure l'appropriazione.
Il dolo del peculato ex art. 314, primo comma, cod. pen. ha natura generica ed è dato dalla volontà del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio di fare propria la cosa con la consapevolezza di averne il possesso o la disponibilità per ragione dell'ufficio o del servizio e che pertanto sulla stessa insiste un diritto altrui.
La condotta tenuta dall'imputato con deviazione dal modello legale per mancata costituzione di un «Progetto» di gestione obbediente a criteri di predeterminazione e verificabilità degli obiettivi coinvolti e con commisurazione sugli stessi dell'incentivi erogati al fine di incrementare gli standard quantitativo-qualitativi del servizio, all'interno di un procedimento in cui è chiamato a partecipare l'organo politico dell'ente locale per correlarsi all'azione del pubblico funzionario nella gestione del servizio integra, nelle articolate e corrette conclusioni dei giudici di merito che sfuggono a censura nel giudizio di legittimità, il dolo del reato.
6.3. Il tema dell'affidamento e quindi della buona fede dell'imputato, dedotto dalla difesa ad esclusione del contestata consapevolezza appropriativa, è stato escluso nella sua rilevanza, nella convergente valutazione dei giudici di merito, proprio in ragione delle contestate inosservanze di legge e, tra queste, della mancanza di una puntuale e documentata certificazione dei compiti svolti da ciascun dipendente in relazione all'accresciuto impegno lavorativo in ragione di un buon governo degli esiti di prova.
6.3.1. Arricchita nei suoi contenuti dai rilievi sul punto operati dai giudici di primo grado, la valutazione in ordine alla prova raccolta contenuta nell'impugnata sentenza ha evidenziato, in modo concludente, la capacità sintomatica anche delle modalità di pagamento dei compensi incentivanti, avvenuti tramite bonifici e sui conti correnti dei dipendenti, alcuni dei quali erano «addirittura all'oscuro di tutto» (p. 26 sentenza primo grado con riferimento alla testimonianza dell'addetto all'elaborazione delle buste paga; p. 27 sentenza di appello che riporta la «meraviglia» di altro dipendente) di denunciare la sussistenza dell'elemento soggettivo del delitto di peculato.
6.3.2. L'ulteriore profilo relativo all'incidenza che i pareri espressi da organi tecnici sull'operato dell'imputato avrebbero avuto sulla sua dolosa volontà resta debitamente confinato, nell'univoco quadro definito dalla doppia conforme decisione dei giudici di merito, nella area della irrilevanza.
Tanto è destinato a valere in ragione della stimata epoca in cui i pareri intervennero, successiva all'adozione delle determinazioni di pagamento contestate che pertanto non possono dirsi in nessun modo sostenute dai primi, e dai loro contenuti, di limitata previsione: così per la ivi espressa compatibilità tra l'incentivo in questione e l'esternalizzazione del servizio.
Nell'indicata cornice la dedotta mancanza in capo al prevenuto della qualifica di dirigente (art. 24, commi 3 e 8, d.lgs. n. 161 del 2001) è solo evidenza genericamente, ed in modo non concludente, fatta valere a sostegno della insussistenza dell'elemento soggettivo del reato.
Per gli indicati profili il tema destinato a venire in considerazione è quello della scusabilità dell'ignoranza della legge penale ex art. 5 cod. pen., come in via additiva definito dalla sentenza n. 364 del 1988 del giudice delle leggi.
In un settore che è contraddistinto da norme amministrativo-contabili integrative del precetto penale (Sez. 6, n. 10020 del 03/10/1996, Pravisani, Rv. 206365) l'errore di diritto destinato a scusare l'autore del reato resta invero circoscritto a quello inevitabile di cui all'art. 5 cit. che come tale è stato non solo debitamente valutato dai giudici di merito per le scrutinate condotte dell'imputato, ma neppure direttamente e puntualmente contrastato in ricorso (Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 02.11.2018 n. 49922).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini della applicabilità dell'art. 131-bis cod. pen. nelle ipotesi di violazioni urbanistiche e paesaggistiche, la consistenza dell'intervento abusivo -data da tipologia, dimensioni e caratteristiche costruttive- costituisce solo uno dei parametri di valutazione, assumendo rilievo anche altri elementi quali, ad esempio, la destinazione dell'immobile, l'incidenza sul carico urbanistico, l'eventuale contrasto con gli strumenti urbanistici e l'impossibilità di sanatoria, il mancato rispetto di vincoli e la conseguente violazione di più disposizioni, l'eventuale collegamento dell'opera abusiva con interventi preesistenti, la totale assenza di titolo abilitativo o il grado di difformità dallo stesso, il rispetto o meno di provvedimenti autoritativi emessi dall'amministrazione competente, le modalità di esecuzione dell'intervento.
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L'effettiva pericolosità della costruzione realizzata senza l'autorizzazione del genio civile e senza le prescritte comunicazioni è del tutto irrilevante ai fini della sussistenza del reato e la verifica postuma dell'assenza del pericolo ed il rilascio del provvedimento abilitativo non incidono sulla illiceità della condotta, poiché gli illeciti sussistono in relazione al momento di inizio dell'attività.
Invero, in tema di reati concernenti l'attività edificatoria in zone sismiche, l'eventuale rilascio postumo del parere favorevole da parte dell'Ufficio del Genio Civile competente, che attesta la rispondenza alla normativa antisismica delle opere realizzate, non elide l'antigiuridicità penale della condotta consistita nell'aver iniziato i relativi lavori senza preventiva autorizzazione scritta dal competente ufficio tecnico regionale.
Altresì, in tema di costruzioni in zone sismiche, ai fini della configurabilità delle contravvenzioni previste dalla normativa antisismica (art. 95 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380) è irrilevante che le costruzioni realizzate siano effettivamente pericolose, in quanto la normativa è finalizzata a garantire l'esercizio del controllo preventivo della P.A. sulle attività edificatorie in dette zone.
Dunque, l'argomento della verifica postuma della assenza di pericolosità sismica dell'intervento edilizio (e dunque della sua sostanziale non abusività, come sostengono i ricorrenti), non è tale da sminuire la rilevanza decisiva della dimensione dell'intervento che esclude in radice, nel caso di specie, la natura esigua del pericolo e la possibilità di applicare la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto.
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1. I sigg.ri DO.RI., PR.LI., PA.GI. e PA.GI. ricorrono per l'annullamento della sentenza del 29/09/2017 del Tribunale di Macerata che li ha dichiarati penalmente responsabili del reato di cui agli artt. 81, cpv., 110 cod. pen., 93, 94, 95 d.P.R. n. 380 del 2001, commesso in Poggio San Vicino il 05/02/2013, e li ha condannati alla pena di 1.000 euro di ammenda ciascuno.
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3. I ricorsi sono inammissibili perché manifestamente infondati.
4. Si imputa ai ricorrenti di aver realizzato in zona sismica i seguenti lavori di miglioramento sismico e di riparazione dei danni dal terremoto in difformità rispetto a quelli già autorizzati: a) le demolizione totale dell'edificio; b) la sua ricostruzione parziale per un'altezza media di circa mt. 1,70 con blocchi di laterizio; c) la posa in opera di un solaio in latero-cemento collocato tra il piano terra e quello seminterrato; d) la realizzazione di un piano seminterrato con pareti in cemento armato.
4.1. Il Tribunale ha escluso l'applicazione della speciale causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto in considerazione: a) della consistenza delle opere realizzate; b) della presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione.
...
4.5. Come già affermato da questa Corte, ai fini della applicabilità dell'art. 131-bis cod. pen. nelle ipotesi di violazioni urbanistiche e paesaggistiche, la consistenza dell'intervento abusivo -data da tipologia, dimensioni e caratteristiche costruttive- costituisce solo uno dei parametri di valutazione, assumendo rilievo anche altri elementi quali, ad esempio, la destinazione dell'immobile, l'incidenza sul carico urbanistico, l'eventuale contrasto con gli strumenti urbanistici e l'impossibilità di sanatoria, il mancato rispetto di vincoli e la conseguente violazione di più disposizioni, l'eventuale collegamento dell'opera abusiva con interventi preesistenti, la totale assenza di titolo abilitativo o il grado di difformità dallo stesso, il rispetto o meno di provvedimenti autoritativi emessi dall'amministrazione competente, le modalità di esecuzione dell'intervento (Sez. 3, n. 19111 del 10/03/2016, Mancuso, Rv. 266586; Sez. 3, n. 47039 del 08/10/2015, Derossi, Rv. 265450).
4.6. Si badi: tale principio è stato affermato nei casi in cui la ridotta consistenza dell'opera era stata dedotta a giustificazione della invocata applicabilità dell'istituto, con quanto ne consegue in termini di sua inapplicabilità nel caso contrario. Solo quando la consistenza dell'intervento è modesta, infatti, è necessario prendere in considerazione tutti gli altri indici indicati da questa Corte.
4.7. I ricorrenti però deducono, a sostegno dell'applicazione della causa di non punibilità, il deposito a sanatoria del progetto e la mancanza di violazioni sostanziali delle norme tecniche che disciplinano l'edificazione nelle zone sismiche.
4.8. La deduzione è suggestiva ma platealmente infondata perché, a voler seguire fino in fondo la tesi difensiva, non si comprende perché il legislatore, pur avendo introdotto la speciale causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis cod. pen., abbia continuato a tenere indenni i reati in materia antisismica dagli effetti estintivi di sanatorie postume, pur previsti in caso di reati urbanistici.
4.9. La ragione deve essere rinvenuta nella radicale diversità dei beni tutelati dalle due normative, non colta dai ricorrenti.
4.10. Lo ha ben spiegato la Corte costituzionale allorquando, nel dichiarare la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale del Rallora) art. 22, terzo comma, della legge 28.02.1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie), sollevata, in riferimento all'art. 3, primo comma, della Costituzione, affermò che «appare sicuramente non arbitraria e non assolutamente irragionevole la scelta del legislatore di limitare la particolare ipotesi di estinzione dei reati, a seguito della sanatoria mediante accertamento di conformità, ai soli reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti (...) tale scelta è stata condizionata dalle particolari esigenze di sicurezza generale, volte ad evitare che, in via permanente anche per: il futuro, si possa fare a meno delle specifiche procedure (e relativa tutela penale) attinenti alla idoneità statica per le opere in cemento armato o a struttura metallica e alle opere in zona sismica, semplicemente ricorrendo all'accertamento di conformità avente valenza esclusivamente urbanistica (...) del resto, nel sistema penale non resta in radice esclusa la possibilità per i soggetti interessati di avvalersi dei generali strumenti di composizione dell'azione penale, ricorrendo per le contravvenzioni concorrenti -ove ne sussistano gli estremi e a seconda delle diverse ipotesi- alla separata oblazione (articoli 162 e 162-bis del codice penale), previa eliminazione degli eventuali elementi impeditivi (conseguenze dannose o pericolose del reato eliminabili da parte del contravventore)» (Ordinanza n. 149 del 1999).
4.11. Il ragionamento del Giudice delle leggi, prende le mosse dalla pacifica natura omissiva formale dei reati contestati agli imputati, essendo noto che le contravvenzioni previste dalla normativa antisismica puniscono inosservanze formali, volte a presidiare il controllo preventivo della pubblica amministrazione.
Ne deriva che l'effettiva pericolosità della costruzione realizzata senza l'autorizzazione del genio civile e senza le prescritte comunicazioni è del tutto irrilevante ai fini della sussistenza del reato e la verifica postuma dell'assenza del pericolo ed il rilascio del provvedimento abilitativo non incidono sulla illiceità della condotta, poiché gli illeciti sussistono in relazione al momento di inizio dell'attività (Sez. 3, n. 5738 del 13/05/1997, Petrone, Rv. 208299; cfr., più recentemente, Sez. 3, n. 27876 del 16/06/2015, Pro, Rv. 264201, secondo cui in tema di reati concernenti l'attività edificatoria in zone sismiche, l'eventuale rilascio postumo del parere favorevole da parte dell'Ufficio del Genio Civile competente, che attesta la rispondenza alla normativa antisismica delle opere realizzate, non elide l'antigiuridicità penale della condotta consistita nell'aver iniziato i relativi lavori senza preventiva autorizzazione scritta dal competente ufficio tecnico regionale; nello stesso senso, Sez. 3, n. 41617 del 02/10/2007, Iovine, Rv. 238007, secondo cui in tema di costruzioni in zone sismiche, ai fini della configurabilità delle contravvenzioni previste dalla normativa antisismica (art. 95 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380) è irrilevante che le costruzioni realizzate siano effettivamente pericolose, in quanto la normativa è finalizzata a garantire l'esercizio del controllo preventivo della P.A. sulle attività edificatorie in dette zone).
4.12. Dunque, l'argomento della verifica postuma della assenza di pericolosità sismica dell'intervento edilizio (e dunque della sua sostanziale non abusività, come sostengono i ricorrenti), non è tale da sminuire la rilevanza decisiva della dimensione dell'intervento che esclude in radice, nel caso di specie, la natura esigua del pericolo e la possibilità di applicare la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 30.10.2018 n. 49679).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGORitorno al tempo pieno su richiesta dopo due anni dall’inizio del part-time.
Il Comune non può dire di no alla dipendente che, trascorso il biennio in part time, chieda di tornare al tempo pieno. Sono le stesse disposizioni del contratto collettivo a stabilire, infatti, che «i dipendenti...hanno diritto di ottenere il ritorno al tempo pieno alla scadenza di un biennio dalla trasformazione, nonché alle successive scadenze previste dai contratti collettivi. La trasformazione del rapporto a tempo pieno avviene anche in sovrannumero, riassorbibile con le successive vacanze».

La Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la ordinanza 29.10.2018 n. 27389 ha confermato così la decisione di secondo grado.
La vicenda
Il caso riguarda una dipendente giunta di un Comune per comando da un altro ente dove era stata assunta a tempo pieno nel 1995; il comando si era trasformato in definitivo trasferimento nel 2000; la dipendente aveva chiesto di essere impiegata a tempo parziale, prima al 50% e in seguito al 66% e, in base al contratto collettivo applicabile aveva maturato il diritto, trascorsi due anni dal passaggio al part-time, a ritornare al regime orario a tempo pieno.
La decisione
La Cassazione ha stabilito che il passaggio al tempo pieno avrebbe potuto essere inibito soltanto nei primi due anni dalla trasformazione a tempo parziale, stante l'esigenza di assicurare un minimo di stabilità all'assetto concordato dalle parti. Ma, oltre questo termine, il ritorno al full time è ammesso in qualunque momento, purché rapportato alle esigenze organizzative del Comune e un rifiuto da parte dell'ente è irragionevole e illegittimo.
La Corte ha aggiunto, poi, che condizioni limitative avrebbero potuto essere trovare fondamento in caso di contratti nati in regime a tempo parziale, per i quali un passaggio al regime di tempo pieno sarebbe equivalso a una nuova assunzione, soggetta a tutti i vincoli posti dalle leggi di bilancio (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 30.10.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLa mancata azione disciplinare dell’Ente non legittima la condotta inadempiente del dipendente.
Nel pubblico impiego il datore di lavoro è tenuto a esercitare l'azione disciplinare nei confronti del dipendente che rifiuti di adempiere la propria prestazione lavorativa. A ogni modo, il mancato esercizio di questo potere non rende legittimo il comportamento dello stesso dipendente.
Ad affermarlo è la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, nella sentenza 29.10.2018 n. 27387 in relazione a una intricata vicenda che ha dato luogo a un potenziale demansionamento.
La vicenda
Al centro della controversia ci sono i rapporti conflittuali tra il Comune di Verona e una dipendente che rivestiva la qualifica di coordinatrice del settore musicale di tutte le scuole materne del Comune. L'insegnante, che aveva alle spalle quasi trenta anni di esperienza nel settore, si lamentava del fatto che, a seguito di alcune incomprensioni con diversi colleghi, era stata messa ai margini dalla dirigenza dell'ente locale, fino al completo inutilizzo della sua professionalità e addirittura relegata in una «stanza senza telefono né collegamento col mondo esterno».
Il Comune, dal canto suo, sosteneva che vi era sì stata una limitazione temporanea dell'attività lavorativa dell'insegnante, ma ciò era la conseguenza del tentativo da parte dell'ente datore di lavoro di porre fine a situazioni di conflittualità tra i dipendenti, e soprattutto conseguenza del rifiuto da parte della stessa lavoratrice di svolgere le funzioni che le venivano via via assegnate.
La questione era finita così nelle aule di giustizia dove i giudici ritenevano che il comportamento non rispettoso della volontà dell'ente da parte della dipendente, ovvero l'inadempimento della prestazione lavorativa, non fosse imputabile alla donna, in quanto il Comune avrebbe dovuto, per renderlo tale, intervenire sul piano disciplinare; circostanza invece non verificatasi.
Su questo presupposto, la Corte d'appello ha riconosciuto per i diversi periodi contestati un demansionamento, prima parziale e poi totale, dell'insegnante, con obbligo per il Comune di corrispondere in suo favore una somma pari rispettivamente al 30 e 50 per cento della retribuzione percepita, a ristoro della «perdita di alcuni tratti qualificanti della professionalità» della dipendente medesima.
La decisione
Il Comune a questo punto ricorre in Cassazione sottolineando l'erroneità della tesi dei giudici di merito che sottolineavano il mancato esercizio dei poteri disciplinari dell'ente nei confronti della lavoratrice. Per la difesa del Comune, infatti, il mancato esercizio del potere disciplinare «non trasforma in legittime le condotte tenute dal dipendente in violazione dei suoi obblighi di lavoro». L’argomento coglie nel segno e porta i giudici di legittimità ad annullare con rinvio la decisione.
Per la Suprema corte il ragionamento dei giudici di merito è fallace: il mancato esercizio del potere disciplinare da parte dell'ente datore di lavoro non può rendere legittimo l'eventuale comportamento inadempiente del lavoratore. L'esistenza di condotte datoriali ritenute illegittime non autorizza cioè il lavoratore a «rifiutarsi aprioristicamente, e senza un eventuale avallo giudiziario» di eseguire la prestazione lavorativa richiesta. L'insegnante avrebbe dovuto, invece, invocare l'eccezione di inadempimento secondo l’articolo 1460 del codice civile.
Nel caso di specie, questo aspetto della vicenda non è stato adeguatamente considerato, dovendo la Corte d'appello quindi nuovamente esprimersi sul punto, oltre a riconsiderare, ai fini di una corretta applicazione delle regole sulla dequalificazione professionale, gli elementi di fatto relativi alla «qualità e quantità delle esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento» e a tutti gli altri aspetti concreti della vicenda (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 30.10.2018).

PUBBLICO IMPIEGONiente extra al dirigente per attività collegate ai compiti istituzionali.
Per il dirigente pubblico che espleta un’attività rientrante nel contesto dei compiti istituzionali, in quanto connessa in maniera più o meno diretta al rapporto organico tra il dirigente medesimo e l’amministrazione della quale lo stesso cura l'interesse, è vietata la percezione di un eventuale compenso aggiuntivo rispetto alla retribuzione ordinaria.

Così ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 29.10.2018 n. 6142.
I fatti di causa
Un Avvocato, dirigente presso il Comune, chiedeva l’accertamento del suo diritto a percepire indennità dirigenziali arretrate relative all’espletato ulteriore incarico dirigenziale di Dirigente del servizio Polizia Amministrativa e Divisione Affari generali e Vice-Segretario generale, conferito con provvedimento del Commissario Straordinario del Comune.
In virtù di tale ulteriore incarico dirigenziale, l’indennità doveva, a suo dire, essere incrementata nella misura prevista del 62% del massimo, come previsto dalle disposizioni comunali.
L’onnicomprensività della retribuzione
Per i pubblici dipendenti vale il principio di onnicomprensività della retribuzione, di cui all’articolo 24, Dlgs 165/2001, in ragione del quale non è dato remunerare il dipendente con compensi extra ordinem per compiti rientranti nelle mansioni ricoperte.
Il principio opera sul duplice presupposto che il soggetto incaricato di tali compiti esplichi funzioni istituzionali e che il conseguente esercizio trovi riscontro nella carica ricoperta, sia quanto alla qualifica (o al grado), sia quanto all'ufficio, cui il soggetto è preposto.
Del resto, il principio di onnicomprensività, concernente tutti gli incarichi conferiti ai dirigenti pubblici per ragione dell'ufficio o su designazione dell'amministrazione di appartenenza, trattandosi di attività comunque connesse al rapporto organico tra dipendente ed amministrazione, il cui svolgimento può riflettersi direttamente sul raggiungimento degli obiettivi assegnati al medesimo dirigente, non esclude che i dipendenti possano espletare incarichi retribuiti a titolo professionale dall'amministrazione, ove ne ricorrano i presupposti legali e sempre che non costituiscano espletamento di compiti di istituto.
Tali principi prevalgono su ogni altra disposizione che preveda, al contrario, la corresponsione di compensi di qualsivoglia natura in ragione della partecipazione a commissioni o incarichi di qualunque tipo.
Invero, la norma è cogente a tal punto che, anche in relazione alle prestazioni rese dal personale non dirigenziale, la prestazione stessa può essere considerata aggiuntiva solo qualora la mansione assegnata esuli dal profilo professionale, non già nella diversa ipotesi in cui il datore di lavoro, nell'ambito del normale orario, eserciti il suo potere di determinare il compito da espletare.
La responsabilità per violazione dell’articolo 24 del Dlgs 165/2001
Per i dirigenti pubblici che incassano compensi in violazione del principio di onnicomprensività sussiste un’evidente responsabilità amministrativa: la presenza di disposizioni legislative che ammettono l’erogazione di tali compensi non azzera la responsabilità degli stessi dirigenti, dato che le uniche eccezioni sono quelle previste dai contratti collettivi nazionali di lavoro.
La ratio restrittiva della norma è di immediata percezione, ed altrettanto chiara si presenta la valenza interpretativo/applicativa della stessa, rispetto ad altre disposizioni previgenti o successive che rechino indicazioni con essa contrastanti: queste ultime devono essere lette o rilette in modo conforme al nuovo canone posto.
In effetti, l’impegno del dirigente pubblico è un impegno di carattere esclusivo, nell’espletamento del quale lo stesso deve prestare tutta la sua opera.
Da queste considerazioni scaturisce pertanto il principio di onnicomprensività della retribuzione, con ciò intendendo che il trattamento economico, nelle sue componenti "fondamentali" ed "accessorie", remunera tutte le funzioni ed i compiti dei dirigenti (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 21.11.2018).
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MASSIMA
Vale ricordare che, per consolidata giurisprudenza dalla quale non v’è motivo di discostarsi,
per i pubblici dipendenti vale il principio di onnicomprensività della retribuzione: in ragione del quale non è dato remunerare il dipendente con compensi extra ordinem per compiti rientranti nelle mansioni ricoperte.
Il principio opera sul duplice presupposto (che qui ricorre) che il soggetto incaricato di tali compiti esplichi funzioni istituzionali e che il conseguente esercizio trovi riscontro nella carica ricoperta, sia quanto alla qualifica (o al grado), sia quanto all'ufficio, cui il soggetto è prepost
o (Cons. Stato, IV, 06.09.1993, n. 769V, 09.09.2009, n. 1027).
Del resto, è stato anche sottolineato che
il principio di onnicomprensività, concernente tutti gli incarichi conferiti ai dirigenti pubblici per ragione dell'ufficio o su designazione dell'amministrazione di appartenenza, trattandosi di attività comunque connesse al rapporto organico tra dipendente ed amministrazione, il cui svolgimento può riflettersi direttamente sul raggiungimento degli obiettivi assegnati al medesimo dirigente (Cons. Stato, Comm. spec., 04.05.2005, n. 173), non esclude che i dipendenti possano espletare incarichi retribuiti a titolo professionale dall'amministrazione, ove ne ricorrano i presupposti legali e sempre che non costituiscano espletamento di compiti di istituto (Cons. Stato, V, 21.03.2011 n. 1733; id., 02.10.2002, n. 5163).

URBANISTICA: Quando in un campeggio si configura il reato di lottizzazione abusiva.
La Corte si pronuncia, in sede cautelare, su un caso verificatosi nella Regione Marche.

Il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Fermo aveva ordinato il sequestro preventivo di un'area, con manufatti ed opere, in cui, secondo l'ipotesi di accusa, sarebbe stata realizzata una lottizzazione illecita riconducibile al reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. c), del D.P.R. 06.06.2001 n. 380.
Il sequestrato proponeva ricorso al Tribunale del riesame che, escludendo il fumus del reato ipotizzato, ha accolto la richiesta. Avverso detta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica deducendo, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b), Codice procedura penale la violazione dell'art. 3, comma 1, lett. e.5), del medesimo TE sto Unico n. 380 del 2001, sul rilievo che le opere oggetto di provvisoria contestazione –vale a dire dieci piazzole con basamento in legno e sovrastrutture non amovibili denominate "tende di lusso", vialetti percorribili con autovetture e piazzole di parcheggio– non potevano ritenersi dirette a soddisfare esigenze meramente temporanee e non erano mai state autorizzate sotto il profilo urbanistico ed edilizio e tanto meno paesaggistico, essendo peraltro state realizzate in violazione della disciplina regionale di settore (in particolare dell'art. 11 L.reg. Marche n. 9 del 2006).
Dette opere –la cui realizzazione aveva comportato la necessità di effettuare significativi lavori di sbancamento sul pendio del versante– avevano determinato una stabile e permanente alterazione dell'assetto del territorio trasformando un’area a destinazione agricola in un insediamento residenziale.
La Suprema Corte, Sez. III penale, con sentenza 25.10.2018 n. 48845, ha dichiarato il ricorso inammissibile, in parte perché proposto per motivi non consentiti ed in parte perché generico.
In particolare la doglianza relativa alla ritenuta precarietà delle strutture, è stata qualificata come critica alla logicità della motivazione, inammissibile nei procedimenti cautelari reali in forza dell'art. 325 Cod. proc. pen., che in tali casi limita il ricorso per cassazione soltanto alla violazione di legge, sicché è deducibile soltanto l'inesistenza o la mera apparenza della motivazione, ma non anche la sua illogicità manifesta, ai sensi dell'art. 606, comma primo, lett. e), Codice proceduta penale. Il giudice di legittimità, infatti, non può procedere, in fattispecie come quella qui dedotta, ad un penetrante vaglio sulla motivazione del provvedimento impugnato.
In ogni caso, l'art. 3, comma 1, lett. e.5), del D.P.R. 380/2001 esclude che possano ritenersi nuove costruzioni le strutture leggere ivi indicate che siano “dirette a soddisfare esigenze meramente temporanee” o -e la congiunzione rivela come si tratti di ipotesi tra loro alternative– “siano ricompresi in strutture ricettive all'aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti, previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, in conformità alle normative regionali di settore”.
Secondo i giudici di Piazza Cavour, l'ordinanza impugnata –oltre ad argomentare sulla natura precaria dei manufatti (con motivazione la cui logicità non può essere sindacata in sede di legittimità)– richiama il fatto che la società dell'imputato, esercente attività di agriturismo, era stata autorizzata con s.c.i.a. del 2014 all'installazione delle piazzole e con s.c.i.a. del 2016 all'installazione delle tende e ciò, come argomentato dal tribunale, in base alla leg. Reg. n. 21 del 2011, secondo cui rientrano tra le attività agrituristiche, oltre alla fornitura di alloggi in appositi locali dell'azienda, anche l'ospitalità in spazi aperti opportunamente attrezzati per la sosta. Tale argomentazione -di per sé sufficiente a sorreggere la decisione- non viene fatta oggetto di alcuna censura nel ricorso ed è indubbiamente esatta.
Con la predetta legge -rubricata “Disposizioni regionali in materia di multifunzionalità dell'azienda agricola e diversificazione in agricoltura”- il legislatore regionale, disciplinando all'art. 3 le attività agrituristiche, ha espressamente previsto che vi rientrino, tra l'altro, “l'ospitalità in spazi aperti opportunamente attrezzati per la sosta” (art. 3, comma 2, lett. b, L.reg. n. 21 del 2011), prevedendo poi che la capacità ricettiva non possa essere superiore a “venticinque piazzole per la sosta in spazi aperti di cui all'art. 3, comma 2, lettera b), purché l'azienda agricola abbia una superficie agricola utilizzabile di almeno 3 ettari. Per questa tipologia di ospitalità non è consentito l'utilizzo di unità abitative fisse; possono essere installate, comunque, strutture amovibili, anche di proprietà dell'imprenditore agricolo, come case mobili, autocaravan, camper e simili a condizione che siano di facile rimozione” (art. 5, comma 1, lett. b, legge citata).
Del resto, quanto all'ipotizzato reato di lottizzazione abusiva, la Corte ha osservato che certo esso non si risolve nella mera realizzazione di strutture prive del (ritenuto necessario) permesso di costruire. La chiara e costante giurisprudenza di legittimità sul punto, invero, è nel senso che, anche a seguito della L. 28.12.2015 n. 221, la stabile collocazione, in un'area destinata a campeggio, di più manufatti di pernottamento, astrattamente mobili, può risolversi nella realizzazione, ad opera del gestore dell'area, di uno stabile insediamento abitativo, che comporta il sostanziale stravolgimento dell'originario assetto definito mediante pianificazione, e, dunque, una forma di lottizzazione abusiva ma soltanto se la struttura ricettiva presenti le caratteristiche di uno stabile insediamento residenziale.
Il reato di lottizzazione abusiva può, cioè, essere integrato anche dalla realizzazione di un campeggio, pur se autorizzato, qualora l'area destinata ad esso venga radicalmente mutata per la presenza di opere stabili, strutture abitative e servizi in grado di snaturarne le caratteristiche originarie con rilevante impatto negativo sull'assetto territoriale.
Nel caso di specie il ricorrente non ha affatto allegato come le dieci piazzole sormontate da tende oggetto di contestazione -che il provvedimento impugnato riferisce essere state prese a noleggio e, al momento del sopralluogo della Polizia giudiziaria, essere state trovate chiuse, inutilizzate e con forniture elettriche e idriche disattivate, sì da escludere uno stabile insediament - possano integrare gli estremi dell'elemento costitutivo del reato di lottizzazione abusiva, per la cui sussistenza, diversamente dal mero abuso edilizio, è necessaria una illegittima trasformazione urbanistica od edilizia del territorio, di consistenza tale da incidere in modo rilevante sull'assetto urbanistico della zona (commento tratto da www.ilquotidianodellapa.it).
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MASSIMA
4.2. In ogni caso, l'art. 3, comma 1, lett. e.5), d.P.R. 380/2001 esclude che possano ritenersi nuove costruzioni le strutture leggere ivi indicate che siano «dirette a soddisfare esigenze meramente temporanee» o -e la congiunzione rivela come si tratti di ipotesi tra loro alternative- «siano ricompresi in strutture ricettive all'aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti, previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, in conformità alle normative regionali di settore».
A quest'ultimo proposito è del tutto generica l'allegazione secondo cui nella specie sussisterebbe contrasto con la normativa regionale e in particolare con l'art. 11 del Testo unico delle norme regionali in materia di turismo (l.reg. 11.07.2006, n. 9) che, rubricato "Strutture ricettive all'aria aperta", disciplina i villaggi turistici e i campeggi. Se, poi, il rilievo sottintendesse che gli agriturismi, in quanto non menzionati da tale disposizione, non possano essere qualificate come strutture ricettiva all'aria aperta con conseguente inapplicabilità dell'art. 3, comma 1, lett. e.5), d.P.R. 380 del 2001, esso sarebbe manifestamente infondato.
Ed invero, l'ordinanza impugnata -oltre ad argomentare sulla natura precaria dei manufatti (con motivazione la cui logicità non può essere qui sindacata)- richiama il fatto che la società dell'imputato, esercente attività di agriturismo, era stata autorizzata con s.c.i.a. del 2014 all'installazione delle piazzole e con s.c.i.a. del 2016 all'installazione delle tende e ciò, argomenta il tribunale, in base alla leg. Reg. n. 21 del 2011, secondo cui rientrano tra le attività agrituristiche, oltre alla fornitura di alloggio in appositi locali dell'azienda, anche l'ospitalità in spazi aperti opportunamente attrezzati per la sosta.
Tale argomentazione -di per sé sufficiente a sorreggere la decisione- non viene fatta oggetto di alcuna censura nel ricorso ed è indubbiamente esatta.
Con la predetta legge -rubricata Disposizioni regionali in materia di multifunzionalità dell'azienda agricola e diversificazione in agricoltura- il legislatore regionale, disciplinando all'art. 3 le attività agrituristiche, ha espressamente previsto che vi rientrino, tra l'altro, «l'ospitalità in spazi aperti opportunamente attrezzati per la sosta» (art. 3, comma 2, lett. b, l.reg. 21/2011), prevedendo poi che la capacità ricettiva non possa essere superiore a «venticinque piazzole per la sosta in spazi aperti di cui all'articolo 3, comma 2, lettera b), purché l'azienda agricola abbia una superficie agricola utilizzabile di almeno 3 ettari. Per questa tipologia di ospitalità non è consentito l'utilizzo di unità abitative fisse; possono essere installate, comunque, strutture amovibili, anche di proprietà dell'imprenditore agricolo, come case mobili, autocaravan, camper e simili a condizione che siano di facile rimozione» (art. 5, comma 1, lett. b, l.reg. 21/2011).
4.3. Sotto altro profilo, è da rilevarsi che il ricorrente non si sofferma adeguatamente sul fumus dell'ipotizzato reato di lottizzazione abusiva, che certo non si risolve nella mera realizzazione di strutture prive del (ritenuto necessario) permesso di costruire.
La chiara e costante giurisprudenza di questa Corte sul punto, invero, è bensì nel senso che,
anche a seguito della legge 28.12.2015, n. 221, la stabile collocazione, in un'area destinata a campeggio, di più manufatti di pernottamento, astrattamente mobili, può risolversi nella realizzazione, ad opera del gestore dell'area, di uno stabile insediamento abitativo, che comporta il sostanziale stravolgimento dell'originario assetto definito mediante pianificazione, e, dunque, una forma di lottizzazione abusiva (Sez. 4, n. 13496 del 15/02/2017, Chiesa, Rv. 269399), ma soltanto se la struttura ricettiva presenti le caratteristiche di uno stabile insediamento residenziale (Sez. 3, n. 41479 del 24/09/2013, Valle, Rv. 257734, che ha ritenuto penalmente rilevante la realizzazione di 270 piazzole delimitate da recinzioni, pavimentazioni ed altre opere permanenti in grado di formare con le roulottes singole unità abitative).
Il reato di lottizzazione abusiva può cioè essere integrato anche dalla realizzazione di un campeggio, pur se autorizzato, qualora l'area destinata ad esso venga radicalmente mutata per la presenza di opere stabili, strutture abitative e servizi in grado di snaturarne le caratteristiche originarie (Sez. 3, n. 29731 del 04/06/2013, Soldera e a., Rv. 256824) con rilevante impatto negativo sull'assetto territoriale (Sez. F, n. 31921 del 24/07/2012, Spaccialbelli, Rv. 253420, relativa a fattispecie concernente la realizzazione di novanta piazzole di sosta e quarantatre strutture abitative in ferro e plastica ancorate stabilmente al terreno e servite da rete idrica).

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALIDa annullare la delibera di approvazione del bilancio di previsione se manca il piano degli indicatori
Il «Piano degli indicatori e dei risultati attesi di bilancio», non allegato al bilancio di previsione, travolge la deliberazione consiliare di approvazione in quanto adottata in violazione delle norme imperative e in particolare dell'articolo 18-bis del Dlgs 118/2011.

Sono queste le conclusioni del TAR Campania-Napoli, Sez. I, che, con la sentenza 21.10.2018 n. 6128, ha annullato la delibera del consiglio comunale che aveva approvato il bilancio e i suoi allegati nonostante l'assenza del documento obbligatorio del piano degli indicatori.
I motivi di impugnazione
Alcuni consiglieri di minoranza hanno impugnato la delibera del consiglio comunale di approvazione del bilancio di previsione e di tutti gli allegati in quanto priva di un allegato fondamentale quale il «Piano degli indicatori e dei risultati attesi di bilancio» prescritto come documento obbligatorio dalla normativa.
In particolare i consiglieri hanno lamentato di non aver potuto prendere visione del piano in questione almeno 10 giorni prima della data stabilita per l'approvazione del bilancio, a nulla rilevando il parere di regolarità tecnica e contabile rilasciato dal responsabile finanziario e del parere positivo espresso dal revisore dei conti.
I consiglieri, infine, hanno sottolineato che, nonostante le loro rimostranze sulla mancanza del documento fondamentale previsto dalla normativa, il consiglio comunale ha in ogni caso approvato il bilancio di previsione.
L'accoglimento del ricorso
Il Tar ha giudicato fondate le motivazioni dei ricorrenti in considerazione della violazione dei principi della contabilità armonizzata. In particolare è stato evidenziato che l'articolo 18-bis del Dlgs 118/2011 impone agli enti locali di allegare il piano degli indicatori e dei risultati attesi di bilancio al bilancio di previsione e al bilancio consuntivo.
In misura non dissimile le disposizioni sono contenute nel decreto del ministero dell'Interno 22.12.2015, il quale ha fornito gli schemi unitari per la redazione del piano, precisando come a partire dall'esercizio 2016, gli enti locali e i loro enti e organismi strumentali allegano il piano al bilancio di previsione e al bilancio consuntivo.
Rilevano, quindi, i giudici amministrativi che se il piano deve essere allegato al bilancio di previsione e al bilancio consuntivo, ne deve seguire tutto l'iter, dal deposito del progetto sino all'approvazione. D'altra parte lo stesso principio contabile della programmazione finanziaria stabilisce, al punto 4.2., lettera d) dell'allegato 4/1 al Dlgs n. 118, come il piano degli indicatori di bilancio, presentato al consiglio unitamente al bilancio di previsione e al rendiconto, rappresenta uno strumento della programmazione degli enti locali. Di conseguenza, la delibera (e solo essa) di approvazione del bilancio deve essere annullata (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 29.10.2018).
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MASSIMA
Con il primo motivo i consiglieri esponenti eccepiscono l’illegittimità della delibera perché assunta senza aver prima consentito ai votanti di prendere cognizione del DUP completo di tutti gli allegati tra cui il ridetto Piano degli indicatori e dei risultati attesi di bilancio.
Il motivo, avente carattere assorbente, è fondato alla stregua delle seguenti considerazioni.
L’art. 18-bis d.lgs. 23.06.2011, n. 118, stabilisce che gli enti locali allegano il Piano degli indicatori e dei risultati attesi di bilancio al bilancio di previsione e al bilancio consuntivo.
Il d.m. Interno 22.12.2015, emanato allo scopo di fornire gli schemi unitari per la redazione del piano, specifica che, a partire dall’esercizio 2016 gli enti locali ed i loro enti e organismi strumentali allegano il Piano al bilancio di previsione e al bilancio consuntivo.
Tale disposizione dispone in particolare che: <<“…1. Gli enti locali adottano il «Piano degli indicatori e dei risultati attesi di bilancio» di cui all’art. 18-bis del decreto legislativo 23.06.2011, n. 118, secondo gli schemi di cui all’allegato 1, con riferimento ai bilanci di previsione, e secondo gli schemi di cui all’allegato 2, con riferimento al rendiconto della gestione. (…) 3. Gli enti locali e i loro enti e organismi strumentali allegano il Piano al bilancio di previsione e al bilancio consuntivo. 4. Il Piano è pubblicato sul sito internet istituzionale dell’amministrazione nella sezione «Trasparenza, valutazione e merito», accessibile dalla pagina principale. 5. Gli enti locali ed i loro organismi ed enti strumentali adottano il Piano a decorrere dall’esercizio 2016…>>.
Dunque,
se il piano deve essere allegato al bilancio di previsione e al bilancio consuntivo, ne deve seguire tutto l’iter, dal deposito del progetto sino all’approvazione.
Peraltro il punto 4.2., lett. d) dell’allegato 4/1 al d.lgs. 23.06.2011, n. 118, reca il principio contabile secondo cui il Piano degli indicatori di bilancio, presentato al Consiglio unitamente al bilancio di previsione e al rendiconto, rappresenta uno strumento della programmazione degli Enti locali.
Ne consegue che
se il piano degli indicatori è uno strumento per rendere comparabili, agli occhi della generalità dei consociati, i bilanci degli Enti locali, mercé la sua pubblicazione sul sito Internet istituzionale dell’Ente, a maggior ragione tale strumento deve essere messo a disposizione dei consiglieri comunali, chiamati a dare o negare approvazione al bilancio reso comparabile proprio dal piano degli indicatori.
Pertanto, il Piano di cui si discute avrebbe dovuto essere depositato insieme al progetto di bilancio preventivo.
Né, al contrario, può sostenersi che tale Piano debba essere allegato solo dopo l’approvazione del bilancio cui è accessorio, allo scopo di tener conto di eventuali emendamenti. Al contrario, gli emendamenti al bilancio eventualmente approvati s riverbereranno anche in una modifica del Piano (cfr. TAR Calabria, sez. I, 20.07.2017, n. 1156).
In mancanza, la delibera (e solo essa) di approvazione del bilancio deve essere annullata.

EDILIZIA PRIVATA: S.c.i.a. e D.i.a. vanno controllate.
La Suprema Corte si pronuncia su un grave episodio di mancato esercizio dei controlli, fonte di plurimi reati.
In occasione della "Sagra del pesce e del cinghiale", organizzata dalla Pro Loco di un Comune piemontese, si verificò l'esplosione di una bombola, posizionata nei pressi della zona di cottura degli alimenti da somministrare nel corso dell’evento, in seguito alla quale morirono cinque persone ed altre sei rimasero ferite.
L'esplosione, secondo la tesi accusatoria, si verificò perché la bombola esplosa (che doveva essere ritirata dalla circolazione fin dal 2008) era in cattive condizioni d'uso, al pari di altre presenti in loco, essendo stata più volte riempita in modo abusivo, eccessivo e comunque non controllato e presentando un difetto di laminazione (o "cricca"); l'innesco dell'esplosione, che produsse uno squarcio sulla bombola, fu dovuto a un aumento di pressione del GPL contenuto nel contenitore, dovuto all'esposizione a una fonte di calore di cui però non é stata accertata la natura.
Il responsabile dell'abusivo riempimento delle bombole (fra cui quella esplosa) é stato individuato dall'accusa nel titolare di un distributore di benzina: il quale, secondo le prove dichiarative raccolte e sulla base di attività di osservazione a cura della Polizia giudiziaria, é stato indicato come il soggetto presso il quale la Pro Loco si era approvvigionata delle bombole da utilizzare per la preparazione dei pasti, e che a tal fine effettuava la ricarica delle bombole senza la prevista autorizzazione e con modalità che finivano per danneggiare le bombole stesse. Costui pertanto era chiamato a rispondere dei reati di omicidio colposo plurimo e di lesioni colpose plurime: reati in relazione ai quali egli é stato condannato sia in primo, sia in secondo grado.
Ad un agente di polizia municipale, sulla base del percorso argomentativo seguito dai giudici di merito, é stato invece addebitato non già di avere omesso il controllo circa l'adempimento delle prescrizioni impartite dall'ASL relativamente al posizionamento delle bombole (prescrizioni in realtà non riferite alla bombola che poi esplose), quanto piuttosto di avere cooperato colposamente con gli altri imputati in quanto, nella sua qualità di soggetto titolare di funzioni istruttorie nelle pratiche di polizia amministrativa (fra cui quella in esame, ai sensi dell'art. 10, comma 4, legge regionale Piemonte n. 38/2006), avrebbe dovuto segnalare le anomalie presenti in loco -con riguardo, in particolare, all'impiego di bombole in evidente stato di deterioramento e, come tali, pericolose- al soggetto titolare del potere deliberativo (relativo al rilascio della prevista licenza temporanea).
Il fatto che, per la somministrazione temporanea di alimenti, fosse prevista una D.I.A. (oggi S.C.I.A.) differita, consentiva tuttavia al personale dell'ASL di effettuare un sopralluogo di verifica, di comunicare le eventuali difformità al Comune ed eventualmente di adottare un provvedimento motivato di diniego inizio attività.
Oltre all'omessa segnalazione di cui sopra, al vigile si imputava di avere falsificato la licenza temporanea di pubblico esercizio: licenza che secondo l'accusa, in un primo momento, era stata da lui predisposta senza l'indicazione di alcuna prescrizione (con la firma apocrifa del Comandante della polizia municipale); e che, in seguito al sopralluogo dell'ASL (che aveva impartito disposizioni sul posizionamento delle bombole) e subito dopo il verificarsi dell'esplosione era stata da lui nuovamente formata (anche stavolta con l'apparente firma del Comandante, poi risultata falsa) sul suo computer d'ufficio, con l'inserimento delle prescrizioni dell'ASL; ciò, sempre secondo l'accusa, allo scopo di stornare da sé il sospetto di non avere curato il rispetto delle prescrizioni suddette, nell'erroneo convincimento che la mancata osservanza di tali prescrizioni (che egli avrebbe dovuto verificare) fosse la causa dell'evento.
Perciò, oltre che dei reati di omicidio e di lesioni colpose plurime l’agente era chiamato a rispondere del delitto di falso (art. 476 Cod. pen.); per tali capi d'imputazione egli ha riportato condanna sia in primo grado che in appello.
Avverso la sentenza di appello hanno proposto ricorso entrambi i condannati.
La Corte di Cassazione (IV Sez. penale) si è pronunciata con sentenza 19.10.2018 n. 47794 dichiarando inammissibile il ricorso dell’imprenditore perché manifestamente infondato.
La Corte di merito, secondo i Giudici di Piazza Cavour, ha argomentato in modo ampio ed approfondito in ordine ai numerosi riscontri alle dichiarazioni di un coimputato (il quale fece esplicito riferimento alla circostanza che le bombole vennero da lui procurate presso la stazione di servizio dell’imprenditore, come sempre dal 2007), dalle testimonianze escusse, ma anche e soprattutto dagli accertamenti operati dalla Polizia giudiziaria e, in specie, dalle attività di osservazione dalle quali emergeva che vi era, presso la stazione di servizio del ricorrente, un via-vai di persone che portavano bombole vuote e uscivano con bombole piene: attività seguite da un sopralluogo dal quale risultava non solo che egli era sprovvisto dell'autorizzazione per effettuare le ricariche, ma anche che presso il suo distributore erano stoccate ben 54 bombole, che presentavano segni di deterioramento analoghi a quelli accertati sulle bombole fornite per la sagra.
Per quanto riguarda, invece, il ricorso proposto dall’Agente della Polizia Locale la Corte, dopo aver considerato inammissibili tutte le doglianze che hanno attaccato la persuasività, l'inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, della sentenza di appello, è pervenuta a diversa conclusione sull'unico motivo non affetto da inammissibilità, ossia quello riguardante i delitti di omicidio e lesioni colpose.
Per quest'ultimo il reato è risultato estinto per maturata prescrizione, di tal che limitatamente a detto reato la sentenza di appello è stata annullata senza rinvio.
Non così per ciò che concerne il delitto relativo ai plurimi omicidi colposi per i quali risultava contestata in fatto l'aggravante, ad effetto speciale, di cui all'art. 589, comma 4, Cod. pen. (nel testo vigente all'epoca), la cui pena massima edittale, alla luce del disposto dell'art. 157, comma 2, Cod. pen., é tale da escludere che per detto reato fosse intervenuta la prescrizione.
La tesi difensiva dell’agente non stata accolta dai giudici di legittimità. Egli ha infatti sostenuto che la pratica accesa dalla Pro loco come denuncia d'inizio attività sarebbe stata in realtà già disciplinata come S.C.I.A. (segnalazione certificata d'inizio attività) in base all'art. 19 L. 241/1990 come modificato dal D.L. n. 78/2010 (e quindi non sarebbe stata necessaria alcuna autorizzazione, né conseguentemente alcun intervento dell'Autorità comunale).
Invero, va innanzitutto chiarito che -diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, e come invece correttamente osservato dalla Corte di merito- la trasformazione dal D.I.A. in S.C.I.A. della pratica in esame entra in vigore solo con l'art. 49, comma 4-bis della legge n. 122 del 30.07.2010 (legge di conversione del D.L. n. 78/2010), ossia dopo i fatti di causa.
Ma anche a prescindere da ciò, e come ancora una volta correttamente chiarito nella sentenza impugnata, l'argomento speso dal ricorrente non é decisivo, perché la procedura di denuncia (o di segnalazione certificata) d'inizio attività ha in tutti i casi una finalità semplificatoria, ma non esime dall'esercizio di controlli da parte dell'Autorità amministrativa competente in ordine al contenuto.
Sotto altro profilo, il ricorrente non ha mancato di ribadire quanto già lamentato in sede d'appello, ossia che il dato testuale dell'imputazione (che sia in primo grado, sia in appello é stato effettivamente interpretato con una certa latitudine) fa riferimento non già a un generico potere di vigilanza e di segnalazione delle violazioni di cui alla legge regionale n. 38/2006, ma all'aver omesso il controllo circa l'adempimento delle prescrizioni di cui al verbale dell'ASL. Al riguardo i giudici di legittimità hanno osservato che in effetti non é dato ravvisare, nel perimetro tracciato dall'editto imputativo, alcun riferimento alla più ampia contestazione di "cooperazione colposa" che i giudici di merito hanno ritenuto di scorgere nel suddetto enunciato.
E si é visto -ed é la stessa sentenza impugnata a riconoscerlo- che non può riferirsi al caso di specie l'accusa mossa all’imputato di non avere controllato l'osservanza delle prescrizioni dell'ASL (di cui al verbale di sopralluogo menzionato), atteso che esse disponevano unicamente lo spostamento di altre due bombole, diverse da quella poi esplosa, dalla zona dei fuochi della cucina.
Perciò il ricorrente sostiene che l'accusa da cui egli doveva difendersi riguardava una violazione oggettivamente diversa, anzi eterogenea rispetto a quella che, secondo la Corte di merito, fonderebbe la sua responsabilità.
Ma é innegabile, e la Corte di merito lo ha chiarisce, che il vigile si sia potuto difendere in giudizio anche dall'accusa poi ritenuta provata, ossia quella di avere omesso di esercitare il suo potere di vigilanza sul rispetto della normativa in materia igienico-sanitaria e di prevenzione degli incendi.
A tale riguardo, si è ritenuto pertinente il richiamo alla giurisprudenza apicale di legittimità secondo la quale l'attribuzione all'esito del giudizio di appello, pur in assenza di una richiesta del pubblico ministero, al fatto contestato di una qualificazione giuridica diversa da quella enunciata nell'imputazione non determina la violazione dell'art. 521 Cod. proc. pen., neanche per effetto di una lettura della disposizione alla luce dell'art. 111, secondo comma, Cost., e dell'art. 6 della Convenzione EDU come interpretato dalla Corte europea, qualora la nuova definizione del reato fosse nota o comunque prevedibile per l'imputato e non determini in concreto una lesione dei diritti della difesa derivante dai profili di novità che da quel mutamento scaturiscono.
Pertanto, rispetto alla pena inflitta al vigile in primo grado (e confermata in appello), pari a due anni e due mesi di reclusione, si è proceduto allo scorporo dell'aumento di pena per il reato in questione. Ed a tanto ha provveduto direttamente la Corte, ai sensi dell'art. 620, lett. L, Cod. proc. pen., atteso che detto aumento era stato espressamente determinato dal Tribunale di nella misura di tre mesi di reclusione (commento tratto da www.ilquotidianodellapa.it).

APPALTINo all’accesso generalizzato dell’appaltatore che cerca informazioni per la nuova gara.
L'accesso civico generalizzato, inteso come prerogativa per esercitare un controllo sociale sull'attività amministrativa della pubblica amministrazione e sulle modalità di spendita delle risorse pubbliche non può essere invece utilizzato per «acquisire informazioni utili con riguardo all'esecuzione del precedente appalto» finalizzate alla partecipazione al nuovo appalto.

In questo senso si è espresso il TAR Marche con la sentenza 18.10.2018 n. 677.
La questione
Il giudice marchigiano, come già avvenuto con la sentenza del Tar Emilia Romagna, Parma, n. 197/2018, esclude che l'accesso civico generalizzato, ovvero l'accesso ai dati/documenti comunque detenuti dalla pubblica amministrazione relativa alla propria attività, possa esercitarsi anche nei confronti degli atti dell'appalto, ivi compresi mandati di pagamento e provvedimenti relativi all'esecuzione del contratto.
La sentenza aderisce all'orientamento restrittivo del giudice emiliano evidenziando che la disciplina specifica del procedimento di accesso agli atti della gara costituisce uno dei casi di esclusione dall'accesso civico generalizzato in base all'articolo 5-bis, comma 3, del decreto legislativo 33/2013.
Per il comma citato, infatti, tra gli altri la fattispecie dell'accesso generalizzato è esclusa nei casi in cui l'accesso risulti «subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti». E l'articolo 53 del codice dei contratti deve essere considerata, appunto, disciplina specifica.
Le motivazioni dell'accesso civico generalizzato
Oltre alla conferma di quanto già evidenziato dal giudice emiliano, il giudice marchigiano però puntualizza importanti considerazioni sulla motivazione che comunque deve sorreggere l'istanza di accesso civico generalizzato. Pur non essendo tenuto, il ricorrente nell'istanza ha precisato che la richiesta di accesso agli atti era da intendersi come finalizzata al reperimento di informazioni utili per la partecipazione ad una nuova gara bandita dalla stessa stazione appaltante.
La legittimazione, secondo il ricorrente, doveva ritenersi fondata dal «fatto di essere un operatore del settore, invitato fra l'altro alla nuova gara indetta dallo stesso» Comune.
È proprio questa motivazione che secondo quanto si legge in sentenza non può essere accettata in quanto diretta a “distorcere” le finalità dell'accesso civico generalizzato.
Il giudice, infatti, ha rilevato che l'istanza del ricorrente è stata proposta «in stretta correlazione con la nuova gara indetta dal Comune (…)» risultando «finalizzata, non ad un controllo sul perseguimento di funzioni istituzionali o sull'utilizzo di risorse pubbliche» che costituisce l'autentica finalità di controllo sociale dell'accesso civico generalizzato. In concreto, si è cercato di azionare la fattispecie per «acquisire informazioni utili con riguardo all'esecuzione del precedente appalto (per esempio, al fine di verificare se la ditta controinteressata -che quasi certamente parteciperà alla nuova selezione- abbia commesso errori professionali gravi, tali da determinarne l'esclusione dalla nuova procedura)».
La richiesta, evidentemente, viene respinta e ricondotta all'ambito naturale della legge 241/1990 la cui legittimazione –in questo caso imprescindibile- e fondamento devono essere attentamente valutate dal Rup dell'appalto (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 14.11.2018).

EDILIZIA PRIVATA: La consolidata giurisprudenza di questo Consiglio è nel senso che:
   - il vincolo cimiteriale determina una situazione di inedificabilità ex lege e integra una limitazione legale della proprietà a carattere assoluto, direttamente incidente sul valore del bene e non suscettibile di deroghe di fatto, tale da configurare in maniera obbiettiva e rispetto alla totalità dei soggetti il regime di appartenenza di una pluralità indifferenziata di immobili che si trovino in un particolare rapporto di vicinanza o contiguità con i suddetti beni pubblici;
   - il vincolo ha carattere assoluto e non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un’area di possibile espansione della cinta cimiteriale;
   - il vincolo, d’indole conformativa, è sganciato dalle esigenze immediate della pianificazione urbanistica, nel senso che esso si impone di per sé, con efficacia diretta, indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro natura, ad incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti;
   - la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni specificate nell'art. 338, quinto comma;
   - l’art. 338, quinto comma, non presidia interessi privati e non può legittimare interventi edilizi futuri su un'area indisponibile per ragioni di ordine igienico-sanitario, nonché per la sacralità dei luoghi di sepoltura;
   - il procedimento attivabile dai singoli proprietari all’interno della zona di rispetto è soltanto quello finalizzato agli interventi di cui al settimo comma dell’art. 338, settimo comma (recupero o cambio di destinazione d’uso di edificazioni preesistenti); mentre resta attivabile nel solo interesse pubblico, come valutato dal legislatore nell’elencazione, al quinto comma, delle opere ammissibili ai fini della riduzione, la procedura di riduzione della fascia inedificabile.
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1.‒ L’appello è infondato.
2.‒ Va innanzitutto considerato che l’ordine demolitorio trova autonomo fondamento giuridico nella norma speciale che prescrive il vincolo c.d. “cimiteriale”.
Come è noto, nel caso in cui il provvedimento impugnato si fondi su una pluralità di ragioni autonome, il giudice, qualora registri l’infondatezza delle censure indirizzate verso uno dei motivi assunti a base dell’atto controverso, idoneo, di per sé, a comprovarne la legittimità e a sostenerne il dispositivo, ha la potestà di respingere il ricorso sulla sola base di tale rilievo, con assorbimento delle censure dedotte avverso altri capi del provvedimento, in quanto la conservazione dell’atto implica la perdita di interesse del ricorrente all’esame delle altre doglianze.
3.– L’art. 338 del regio-decreto 27.07.1934, n. 1265 (Approvazione del testo unico delle leggi sanitarie), prevede che: «I cimiteri devono essere collocati alla distanza di almeno 200 metri dal centro abitato. È vietato costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal perimetro dell'impianto cimiteriale, quale risultante dagli strumenti urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di essi, comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed eccezioni previste dalla legge.
Le disposizioni di cui al comma precedente non si applicano ai cimiteri militari di guerra quando siano trascorsi 10 anni dal seppellimento dell'ultima salma.
Il contravventore è punito con la sanzione amministrativa fino a lire 200.000 e deve inoltre, a sue spese, demolire l'edificio o la parte di nuova costruzione, salvi i provvedimenti di ufficio in caso di inadempienza.
Il consiglio comunale può approvare, previo parere favorevole della competente azienda sanitaria locale, la costruzione di nuovi cimiteri o l’ampliamento di quelli già esistenti ad una distanza inferiore a 200 metri dal centro abitato, purché non oltre il limite di 50 metri, quando ricorrano, anche alternativamente, le seguenti condizioni:
   a) risulti accertato dal medesimo consiglio comunale che, per particolari condizioni locali, non sia possibile provvedere altrimenti;
   b) l’impianto cimiteriale sia separato dal centro urbano da strade pubbliche almeno di livello comunale, sulla base della classificazione prevista ai sensi della legislazione vigente, o da fiumi, laghi o dislivelli naturali rilevanti, ovvero da ponti o da impianti ferroviari.
Per dare esecuzione ad un’opera pubblica o all'attuazione di un intervento urbanistico, purché non vi ostino ragioni igienico-sanitarie, il consiglio comunale può consentire, previo parere favorevole della competente azienda sanitaria locale, la riduzione della zona di rispetto tenendo conto degli elementi ambientali di pregio dell'area, autorizzando l'ampliamento di edifici preesistenti o la costruzione di nuovi edifici. La riduzione di cui al periodo precedente si applica con identica procedura anche per la realizzazione di parchi, giardini e annessi, parcheggi pubblici e privati, attrezzature sportive, locali tecnici e serre.
Al fine dell’acquisizione del parere della competente azienda sanitaria locale, previsto dal presente articolo, decorsi inutilmente due mesi dalla richiesta, il parere si ritiene espresso favorevolmente.
All’interno della zona di rispetto per gli edifici esistenti sono consentiti interventi di recupero ovvero interventi funzionali all’utilizzo dell’edificio stesso, tra cui l’ampliamento nella percentuale massima del 10 per cento e i cambi di destinazione d’uso, oltre a quelli previsti dalle lettere a), b), c) e d) del primo comma dell’articolo 31 della legge 05.08.1978, n. 45
7» (comma quest’ultimo così sostituito dall’articolo 28, comma 1, lettera b), della legge 01.08.2002, n. 166).
3.1.– La consolidata giurisprudenza di questo Consiglio è nel senso che:
   - il vincolo cimiteriale determina una situazione di inedificabilità ex lege e integra una limitazione legale della proprietà a carattere assoluto, direttamente incidente sul valore del bene e non suscettibile di deroghe di fatto, tale da configurare in maniera obbiettiva e rispetto alla totalità dei soggetti il regime di appartenenza di una pluralità indifferenziata di immobili che si trovino in un particolare rapporto di vicinanza o contiguità con i suddetti beni pubblici;
   - il vincolo ha carattere assoluto e non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un’area di possibile espansione della cinta cimiteriale (Cons. Stato, sez. VI, 09.03.2016, n. 949);
   - il vincolo, d’indole conformativa, è sganciato dalle esigenze immediate della pianificazione urbanistica, nel senso che esso si impone di per sé, con efficacia diretta, indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro natura, ad incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti (Cons. Stato, sez. IV, 22.11.2013, n. 5544);
   - la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni specificate nell'art. 338, quinto comma;
   - l’art. 338, quinto comma, non presidia interessi privati e non può legittimare interventi edilizi futuri su un'area indisponibile per ragioni di ordine igienico-sanitario, nonché per la sacralità dei luoghi di sepoltura;
   - il procedimento attivabile dai singoli proprietari all’interno della zona di rispetto è soltanto quello finalizzato agli interventi di cui al settimo comma dell’art. 338, settimo comma (recupero o cambio di destinazione d’uso di edificazioni preesistenti); mentre resta attivabile nel solo interesse pubblico, come valutato dal legislatore nell’elencazione, al quinto comma, delle opere ammissibili ai fini della riduzione, la procedura di riduzione della fascia inedificabile (cfr. da ultimo Cons. Stato, sez. VI, 04.07.2014, n. 3410; sez. VI, 27.07.2015, n. 3667; ivi riferimenti ulteriori).
4.– Su questa premessa ricostruttiva, la doglianza del ricorrente, secondo cui il limite della percentuale di ampliamento (prescritta dall’ultimo comma dell’art. 338 del t.u.l.s.) dovrebbe essere riferita all’intero edifico e non già alla singola unità abitativa, non può essere accolta, sia pure con le seguenti precisazioni rispetto a quanto affermato dal giudice di prime cure.
La disposizione invocata ricollega il limite percentuale della facoltà di ampliamento all’edificio nel suo complesso.
Tuttavia, per evitare facili elusioni della suddetta prescrizione –segnatamente: in caso di proprietà divisa, ove fosse consentito a ciascun proprietario di realizzare sulla singola unità abitativa l’incremento percentuale assoluto, si otterrebbe il risultato o di ammettere, in relazione all’edificio, complessivamente considerato, un ampliamento eccedente la percentuale ammessa, ovvero di privare gli altri proprietari di analoga facoltà– deve ritenersi che il singolo condomino sia legittimato a chiedere l’ampliamento volumetrico nei soli limiti percentuali calcolati in relazione alle dimensioni della propria unità immobiliare.
Restano, tuttavia, salve le ipotesi (nessuna delle quali ricorrenti nel caso in esame) in cui: l’istanza sia proposta congiuntamente da tutti i proprietari, con progetto relativo all’intero immobile; ovvero, il singolo condomino corredi la propria istanza con un atto d’obbligo degli altri comproprietari (si osserva che l’atto d’obbligo, tradizionalmente qualificato in termini di servitù obbligatoria, dovrebbe oggi integrare la fattispecie, ora prevista dall’art. 2643, n. 2-bis, c.c., di contratto che trasferisce o modifica i «diritti edificatori comunque denominati, previsti da normative statali o regionali, ovvero da strumenti di pianificazione territoriale»).
5.– Con altro motivo, l’appellante lamenta che l’Amministrazione non avrebbe assolto l’onere di provare il superamento del limite volumetrico percentuale.
Anche questa censura va respinta (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 15.10.2018 n. 5911 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTIChi perde paga le spese di lite. La prassi di compensarle può vanificare lo scopo di aver agito in giudizio.
La compensazione delle spese di lite potrebbe tradursi in una violazione del diritto di difesa del contribuente: l’incidenza delle stesse, infatti potrebbe vanificare lo scopo di aver agito in giudizio per evitare un ingiusto pagamento.

Ad affermare questi principi è la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con l’ordinanza 12.10.2018 n. 25594.
Un contribuente impugnava un avviso di mora per il quale non era stata notificata la prodromica cartella di pagamento. Il giudice di primo grado disponeva la compensazione delle spese e sul punto il contribuente proponeva appello, lamentando un vizio di motivazione della sentenza.
Anche il collegio di seconde cure confermava la compensazione, precisando però che data la natura e il valore della controversia, non c’era la necessità di una esplicitazione delle ragioni giustificatrici, in quanto comunque desumibili dal contenuto stesso della decisione.
Il contribuente ricorreva così in Cassazione.
La Suprema Corte ha rilevato che al momento della decisione vigeva l’articolo 15 del Dlgs 546/1992 che rinviava all’articolo 92, Codice di procedura civile, secondo il quale il potere discrezionale di disporre la compensazione parziale o totale delle spese di lite era subordinato o alla sussistenza della soccombenza reciproca o alla concorrenza di altri giusti motivi esplicitati nella motivazione. Nella specie, il contenuto della sentenza di appello non consentiva il controllo sulla congruità delle ragioni.
La Cassazione ha precisato che soprattutto nelle liti di modesto valore, l’incidenza delle spese potrebbe vanificare ciò che il ricorrente con la propria impugnazione voleva evitare, ossia il pagamento di somme non dovute. Secondo i giudici di legittimità, quindi, un’immotivata compensazione delle spese, si sostanzia con un pregiudizio concreto dell’esercizio del diritto di difesa costituzionalmente garantito (articolo 24, Costituzione).
La decisione è particolarmente importante, atteso che contrasta una prassi ormai costante di molte commissioni tributarie. La Suprema Corte ha chiaramente evidenziato che in caso di soccombenza integrale dell’Ufficio, la compensazione delle spese di lite si traduce in una violazione della legge costituzionale (il diritto di difesa) poiché, di fatto, esclude un giusto ristoro al contribuente che è stato costretto ad adire in giudizio per evitare un indebito pagamento di somme all’erario (articolo Il Sole 24 Ore del 13.10.2018).

TRIBUTIImpianti sottoterra, «sì» alla maggiorazione della TOSAP per le spese di manutenzione stradale.
In caso di posizionamento di impianti nel sottosuolo da parte dei gestori dei servizi a rete, il Comune può prevedere, oltre al pagamento della tassa o del canone per l'occupazione di aree stradali, un contributo aggiuntivo per coprire gli oneri per il ripristino del manto stradale che gravano sul bilancio municipale.

Secondo quanto emerge dalla sentenza 11.10.2018 n. 5862 del Consiglio di Stato, Sez. V, in presenza di oneri di manutenzione derivanti dall'occupazione temporanea del suolo e del sottosuolo, la possibilità di adottare una maggiorazione è prevista espressamente dal comma 3 dell'articolo 63 del Dlgs 446/1999.
I fatti
La controversia è sorta in seguito alla deliberazione consiliare con cui un Comune, dopo aver preso atto che i lavori di scavo per l'interramento di linee elettriche a opera di un gestore di servizi a rete comportavano la manomissione del manto stradale e, di conseguenza, la necessità di compiere interventi periodici per risagomare le strade oggetto dell'intervento, ha stabilito un contributo aggiuntivo al pagamento della Tosap per l'occupazione temporanea delle aree stradali.
Il gestore ha contestato la delibera sostenendo che la possibilità di imporre ai soggetti che chiedono di occupare aree e spazi pubblici un contributo per eventuali oneri di manutenzione sarebbe consentita solo nel caso in cui l'ente avesse deciso di sostituire la “tassa” di occupazione prevista dal Dlgs 507/1993 con il “canone” disciplinato d all'articolo 63 del Dlgs 446/1997.
Gli oneri contestati avrebbero costituito una sostanziale duplicazione degli obblighi tesi al ripristino del manto stradale e, al fine di evitare una doppia imposizione fiscale, non avrebbero potuto comunque essere cumulati con la Tosap o con la Cosap, ma al più portati in deduzione di queste, come previsto sia dall'articolo 17, comma 63, della legge 127/1997 sia, in analogia, dall'ultima parte del comma 3 dell'articolo 63 del Dlgs 446/1997.
La decisione
Per dirimere la controversia il Collegio si rifà al principio consolidato, elaborato in relazione al canone concessorio non ricognitorio disciplinato dall'articolo 27, commi 7 e 8, del Dlgs 285/1992 (Nuovo codice della strada), secondo cui è possibile per l'amministrazione comunale pretendere un canone di concessione per l'uso o l'occupazione delle strade, anche nell'ipotesi in cui per la stessa occupazione sia già corrisposta la Tosap o la Cosap, laddove l’entrata patrimoniale sia fondata su una specifica disposizione di legge.
Nella fattispecie il canone concessorio non ricognitorio non ha natura di prestazione patrimoniale imposta ma di corrispettivo dovuto all'amministrazione come controprestazione per l'uso particolare del suolo pubblico.
Inoltre la base normativa su cui si fonda il canone è il comma 3 dell'articolo 63 del Dlgs 446/1997, nel quale viene espressamente prevista la possibilità di adottare una maggiorazione di quanto già ordinariamente dovuto a titolo di Tosap o Cosap, in presenza «di eventuali oneri di manutenzione derivanti dall'occupazione del suolo e del sottosuolo».
La maggiorazione non va portata in detrazione da quanto già corrisposto a titolo di Cosap o Tosap, dal momento che è la stessa norma a qualificarla espressamente come aggiuntiva a questi ultimi (in quanto giustificato da maggiori oneri a carico dell'amministrazione per effetto dell'uso o dell'occupazione del suolo pubblico). Secondo l'organo giudicante la detrazione richiamata nella disposizione normativa si riferisce –per coerenza logica– ad altri ipotetici canoni previsti da disposizioni di legge, ovviamente diversi dalla maggiorazione prevista dall’articolo 63, comma 3.
Il principio si fonda sulla considerazione della diversa natura del canone di concessione rispetto alla tassa di occupazione di spazi e aree pubbliche. Mentre il primo trova la sua giustificazione nella necessità per l'ente pubblico di trarre un corrispettivo per l'uso esclusivo e per l'occupazione dello spazio concessi a soggetti terzi, la tassa di occupazione di spazi e aree pubbliche è istituto di diritto tributario, dovuta al verificarsi di determinati presupposti.
La decisione dei giudici pare prescindere dal regime di imposizione adottato, anche se il comma 3 dell'articolo 63 del Dlgs n. 446, nel prevedere la maggiorazione, fa riferimento esclusivamente al canone e non anche alla tassa per l'occupazione di spazi e aree pubbliche (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 24.10.2018).

APPALTIIl Mepa non esonera la stazione appaltante dall’indagine di mercato.
Non è esonerata dall'obbligo di esperire una indagine di mercato per l'individuazione degli operatori economici da invitare a una successiva procedura negoziata, la stazione appaltante tenuta a fare ricorso allo strumento del mercato elettronico, in quanto la selezione deve essere sempre non discriminatoria.

Così si è espresso il Consiglio di Stato, Sez. III, con la sentenza 10.10.2018 n. 5833 riformulando il disposto del Tar Puglia sulla legittimità di una procedura di gara gestita da un Ente beneficiario di un finanziamento ministeriale, poi negato, per non avere rispettato gli adempimenti prodromici alla corretta individuazione degli operatori economici con cui negoziare.
Il caso
Nello specifico, la stazione appaltante ha indetto una procedura elettronica tramite richiesta di offerta sul Mepa attingendo, a propria discrezione, senza predeterminazione di specifici criteri, dall'elenco di fornitori presenti e abilitati sulla piattaforma telematica.
I giudici di primo grado, partendo dall'assunto che il mercato elettronico della pubblica amministrazione è informato a obiettivi di semplificazione e celerità, in un'ottica di superamento di tutti i profili formali che caratterizzano, viceversa, le procedure concorsuali tradizionali, hanno ritenuto non necessaria l'indagine di mercato.
In questo modo, difatti, la procedura risulta essere articolata in due fasi, con aggravamento del procedimento e in contrasto con la previsione stessa del mercato elettronico quale sistema di scelta del contraente interamente gestito per via telematica, ai sensi dell'articolo 36, comma 6, del codice degli appalti.
La decisione
Palazzo Spada non ha condiviso questa interpretazione. Il ricorso al Meda non esonera la stazione appaltante, alla luce del quadro normativo di riferimento, dall'obbligo di esperire una indagine esplorativa per la formazione di un elenco di fornitori o, almeno, di predeterminare i criteri di selezione degli operatori economici, ai fini del rispetto dei principi stabiliti d all'articolo 30 del Dlgs 50/2016.
L' utilizzo del mercato elettronico della pubblica amministrazione, facoltativo o meno, non deve prestarsi a una lettura fuorviante che porti a eludere i principi di imparzialità, trasparenza e par condicio alla base delle procedure di gara. L'avviso pubblico è preordinato, difatti, a conoscere i potenziali fornitori interessati alla procedura di selezione per lo specifico affidamento e risponde, così, all'esigenza di garantire la massima partecipazione e concorrenzialità.
In mancanza di questa apertura al mercato, o, per lo meno, in assenza di criteri predeterminati per l'individuazione degli operatori economici, non vi è garanzia di imparzialità dell'azione amministrativa, dato che la stazione appaltante può discrezionalmente invitare alcuni soggetti piuttosto che altri.
Anche le linee guida Anac n. 4 hanno precisato l'opportunità, per le stazioni appaltanti, di dotarsi, nell'ambito della propria autonomia, di un regolamento per definire i criteri di scelta dei soggetti da invitare siano essi individuati a seguito di indagine di mercato, o attingendo da elenchi propri, o da quelli del mercato elettronico.
Nella determina a contrarre, o altro atto equivalente dell'ente, si deve dare conto, con formulazioni non generiche, delle regole predisposte per la selezione, in modo non discriminatorio, dei soggetti da invitare, tenuto conto che il ricorso al Mepa non presta il «fianco all'aggiramento dei principi atti ad assicurare imparzialità, trasparenza e par condicio» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 22.10.2018).

APPALTILa gara troppo lenta non è illegittima.
Non può ritenersi automaticamente illegittima una gara di appalto per il solo fatto che le operazioni si siano svolte in un lungo lasso di tempo.

Lo sostiene il TAR Toscana, Sez. III, con la sentenza 09.10.2018 n. 1272.
Il fattore tempo
Una cooperativa sociale ha presentato ricorso contro una azienda pubblica di servizi alla persona per l'annullamento della determinazione di aggiudicazione definitiva della procedura aperta per l'affidamento dei servizi socio-assistenziali, sanitari e generali a favore di persone anziane.
La procedura e stata contestata per il fatto che la verbalizzazione delle sedute riservate sia avvenuta dopo un lungo lasso di tempo e che siano stati violati i principi di concentrazione e continuità delle operazioni di gara, iniziate il 31.07.2017 e terminate il 25 maggio dell'anno successivo.
I giudici toscani non hanno accolto le censure argomentando che il prolungarsi delle operazioni di gara per lungo tempo non rende di per sé illegittima la procedura di gara, in quanto il principio di continuità e di concentrazione delle operazioni non è di questa assolutezza e rigidità da determinare sempre e comunque, laddove vulnerato, l'illegittimità degli atti di gara, soprattutto quando la procedura, per la complessità delle operazioni valutative e il numero dei partecipanti alla gara, si protragga per numerose sedute.
Il giudizio
La ricorrente ha anche dedotto la violazione del disciplinare nella parte che impone a ciascun commissario di gara l'attribuzione di un giudizio da tradurre nel rispettivo coefficiente individuale, sostenendo che l'omessa esplicitazione dei giudizi individuali di ciascun commissario rende impossibile la ricostruzione dell'iter logico in base al quale è stato attribuito il punteggio relativo all'offerta tecnica.
Il Tar Toscana non è dello stesso avviso, ha ritenuto che i commissari hanno deciso all'unanimità di indicare una motivazione unica nella griglia di attribuzione dei punteggi, con coefficiente e punteggio promananti da una decisione unanime. Il calcolo della media dei coefficienti attribuiti da ciascun commissario è invece previsto nel solo caso non vi sia unanimità, quindi è legittima l'elaborazione di un giudizio collegiale riferito a ciascun criterio di valutazione di ciascuna offerta tecnica (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 22.10.2018).
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MASSIMA
4. Con ulteriore censura l’esponente lamenta la violazione dei principi di concentrazione e continuità delle operazioni di gara (iniziate il 31.07.2017 e terminate il 25.05.2018).
Il rilievo non è condivisibile.
Il protrarsi delle operazioni di gara per lungo tempo non rende di per sé illegittima la procedura di gara, in quanto il principio di continuità e di concentrazione delle operazioni non è di tale assolutezza e rigidità da determinare sempre e comunque, laddove vulnerato, l'illegittimità degli atti di gara, soprattutto allorquando, come nel caso di specie, la procedura, per la complessità delle operazioni valutative ed il numero dei partecipanti alla gara, si protragga per numerose sedute (Cons. Stato, III, 11.10.2016, n. 4199).

APPALTILa pubblicazione sul sito degli atti di gara vale come pubblicità legale.
La pubblicazione sul profilo del committente e nella sezione «Amministrazione trasparente» degli atti concernenti una procedura di gara è idonea a determinarne la conoscenza legale, con ogni conseguenza anche rispetto all'osservanza dei termini di impugnazione.

Lo afferma la III Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 08.10.2018 n. 5766.
Il fatto
La vicenda ha per protagonista un operatore economico non invitato alla gara per l'affidamento di un servizio che lamentava l'omessa attuazione degli specifici oneri pubblicitari prescritti dall'articolo 32, comma 7, della legge 69/2009, che mantiene la pubblicità sulla Gazzetta dell'Ue e in quella italiana nonché nel sito informatico del Mit e dell'Osservatorio dei contratti pubblici, e dall'articolo 3 del decreto del Mit 02.12.2016 che tratta della pubblicazione sui quotidiani.
La sola pubblicazione sul profilo del committente e nella sezione «Amministrazione trasparente» non sarebbe stata idonea a determinare la conoscenza legale dell'atto pubblicato, con ogni conseguenza anche rispetto all'osservanza dei termini di impugnazione. Sull'articolo 32, inoltre rileva, prevale l'articolo 120 del codice del processo amministrativo nella parte in cui disciplina i termini di impugnazione degli atti delle procedure negoziate senza pubblicazione di bando.
Il requisito della pubblicità
Il Tar Lazio ha giudicato il ricorso manifestamente irricevibile, ritenendo che la pubblicità sull'albo pretorio on-line, in assenza di un obbligo di notificazione individuale, soddisfa il requisito di pubblicità legale posto dall'articolo 32, comma 1, della legge 69/2009. Tesi condivisa dai giudici di Palazzo Spada, che respingono l'appello facendo leva proprio sull'articolo 32, secondo cui gli obblighi di pubblicazione aventi effetto di pubblicità legale si intendono assolti con la pubblicazione nei siti informatici, non più con la forma cartacea, salvo la possibilità per le amministrazioni di effettuare quest'ultima in via integrativa a scopo di maggiore diffusione.
Le modalità di pubblicazione sono state definite dal Dpcm 26.04.2011, che obbliga alla pubblicazione sul profilo del committente in una apposita sezione dedicata, denominata «Bandi di gara», direttamente raggiungibile dalla home page. Quindi questo tipo di pubblicità è finalizzato ad assicurare presunzione di conoscenza degli atti pubblicati e a produrre gli effetti giuridici cui è preordinata; esso comporta, di conseguenza, il decorrere dei termini per la partecipazione alla gara ovvero per l'impugnazione degli atti della procedura.
I termini di impugnazione
Nemmeno si può ritenere che la più recente versione dell'articolo 29 del Dlgs 33/2017, nella parte in cui prevede la pubblicazione degli atti nella sezione «Amministrazione trasparente» quale momento di decorrenza dei «termini cui sono collegati gli effetti giuridici della pubblicazione», contraddica l'effetto di conoscenza legale già derivante dall'applicazione dell'articolo 32 e del Dpcm.
Né vale il richiamo all'ultimo periodo del comma 2 dell'articolo 120 del codice del processo amministrativo il quale, nel fissare un termine più ampio entro il quale può essere contestato un affidamento di cui sia mancata la pubblicità del bando, è destinato a operare in presenza di situazioni caratterizzate dalla totale omissione delle regole di pubblicità, riconducibili ad un affidamento diretto senza alcuna selezione comparativa.
Si tratta, dunque, di una disposizione di chiusura per i casi in cui sia mancata una qualsivoglia forma di pubblicità della selezione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 07.11.2018).

ENTI LOCALIVietato al revisore il terzo incarico nello stesso Comune anche con il nuovo sistema di estrazione.
L'articolo 235, comma 1, del Tuel vieta al revisore dei conti la possibilità di svolgere nello stesso Comune più di due incarichi, anche se il terzo incarico sia stato ottenuto mediante il nuovo sistema di estrazione a sorte dei candidati mentre gli altri due incarichi siano lontani nel tempo, essendo la norma volta a garantire il ricambio dei soggetti in aderenza ai principi di trasparenza e buon andamento, sanciti dall'articolo 97 della Costituzione.
A questa conclusione è giunto il TAR Puglia-Bari, Sez. II, nella sentenza 05.10.2018 n. 1273, a nulla rilevando le rimostranze del revisore estromesso circa il superamento del vincolo a fronte della causale estrazione effettuata dalla Prefettura e del decorso di un considerevole lasso di tempo rispetto ai precedenti incarichi ricevuti.
La vicenda
Un revisore dei conti è stato sorteggiato dalla Prefettura ma in un Comune nel quale lo stesso, nella sua vita lavorativa, aveva già svolto due altri precedenti incarichi conferiti in via fiduciaria su nomina del consiglio comunale.
Il dirigente comunale, tuttavia, tenuto conto del vincolo previsto dall'articolo 235 del Tuel secondo cui «… i suoi componenti non possono svolgere l'incarico per più di due volte nello stesso ente locale», ha dapprima decretato e poi ribadito l'inconferibilità dell'incarico, ritenendo sussistente una preclusione assoluta all'attribuzione di un terzo incarico.
Il revisore estromesso ha impugnato il provvedimento dirigenziale, adducendo una diversa interpretazione del quadro normativo di riferimento, fondata sulla valorizzazione dei principi costituzionali di proporzionalità e di ragionevolezza, evidenziando un diverso orientamento giurisprudenziale che vieta il terzo incarico esclusivamente qualora consecutivo. In particolare, nel caso di specie, il divieto sarebbe inapplicabile, essendo trascorso un arco temporale di 12 anni, tra i primi due mandati e il terzo essendo inoltre l'ultimo incarico avvenuto mediante sorteggio.
Le indicazioni del collegio amministrativo
I giudici amministrativi pugliesi valorizzano il più recente orientamento giurisprudenziale (tra i tanti Consiglio di Stato, sentenza n. 5796/2014) secondo il quale la motivazione va ricercata nell'esigenza di favorire e garantire il ricambio dei soggetti chiamati a svolgere le delicate funzioni attribuite all'organo di revisione contabile, in aderenza ai principi di trasparenza e buon andamento predicato dall'articolo 97 della Costituzione.
La precedenza giurisprudenza, invece, aveva sostenuto, con un'interpretazione letterale restrittiva del comma 1 dell'articolo 235 del Dlgs 267/2000, un'inammissibile e irrazionale forma di ineleggibilità a carattere perpetuo che inciderebbe sulla stessa sfera lavorativa dei soggetti interessati allo svolgimento dell'incarico, tanto più che la limitazione riguarda soltanto gli incarichi svolti presso lo stesso ente.
In conclusione il collegio amministrativo conferma il nuovo orientamento giurisprudenziale per cui i componenti dell'organo di revisione contabile non possono svolgere l'incarico per più di due volte nello stesso ente locale; ciò a salvaguardia di un principio di rotazione, certamente in grado di contemperare tutte le esigenze in gioco (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 12.10.2018).

PUBBLICO IMPIEGO: Costituisce principio consolidato in giurisprudenza quello secondo cui, ai fini della configurabilità dell'elemento psicologico del delitto di rifiuto di atti d'ufficio, è necessario che il pubblico ufficiale abbia consapevolezza del proprio contegno omissivo, dovendo egli rappresentarsi e volere la realizzazione di un evento contra ius, senza che il diniego di adempimento trovi alcuna plausibile giustificazione alla stregua delle norme che disciplinano il dovere di azione.
Vi è anche qualche decisione, la quale, muovendosi nell'ambito di questo orientamento, ha espressamente precisato che non è necessario il fine specifico di violare i doveri imposti dal proprio ufficio.
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Secondo l'orientamento assolutamente consolidato della giurisprudenza, il reato di rifiuto di atti di ufficio è configurabile anche in caso di inerzia omissiva che, protraendo il compimento dell'atto oltre i termini prescritti dalla legge, si risolve in un rifiuto implicito, non essendo necessaria una manifestazione di volontà solenne o formale.
E' poi principio generale ripetutannente ribadito quello in forza del quale il reato di cui all'art. 328, primo comma, cod. pen. è un reato istantaneo, il cui momento consumativo si realizza con il rifiuto o con l'omissione.
Una di queste decisioni, in particolare, rileva che il reato di rifiuto di atti di ufficio -anche nella formulazione introdotta dall'art. 16 della l. 26.04.1990, n. 86- consiste nel mancato adempimento di un'attività doverosa, per il compimento della quale è fissato un termine unico finale e non soltanto iniziale, essendo il soggetto obbligato all'adempimento appena possibile, sicché la consumazione del reato si verifica nel momento stesso in cui si è verificata l'omissione o è stato opposto il rifiuto e, quindi, l'agente è punibile per reato istantaneo senza che abbia nessun rilievo l'ininterrotta protrazione dell'inattività individuale, giacché la legge non riconosce alcuna efficacia giuridica a detta persistenza e nemmeno all'eventuale desistenza.
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2. Infondate sono le censure esposte nel primo motivo di ricorso, che contestano l'affermazione della sussistenza dell'elemento soggettivo del reato.
Costituisce principio consolidato in giurisprudenza, e che il Collegio condivide, quello secondo cui, ai fini della configurabilità dell'elemento psicologico del delitto di rifiuto di atti d'ufficio, è necessario che il pubblico ufficiale abbia consapevolezza del proprio contegno omissivo, dovendo egli rappresentarsi e volere la realizzazione di un evento contra ius, senza che il diniego di adempimento trovi alcuna plausibile giustificazione alla stregua delle norme che disciplinano il dovere di azione (cfr., tra le tante, Sez. 6, n. 36674 del 22/07/2015, Martin, Rv. 264668, e Sez. 6, n. 51149 del 09/04/2014, Scopelliti, Rv. 261415).
Vi è anche qualche decisione, la quale, muovendosi nell'ambito di questo orientamento, ha espressamente precisato che non è necessario il fine specifico di violare i doveri imposti dal proprio ufficio (Sez. 6, n. 8996 del 11/02/2010, Notarpietro, Rv. 246410).
...
4.1. E' utile premettere che, secondo l'orientamento assolutamente consolidato della giurisprudenza, il reato di rifiuto di atti di ufficio è configurabile anche in caso di inerzia omissiva che, protraendo il compimento dell'atto oltre i termini prescritti dalla legge, si risolve in un rifiuto implicito, non essendo necessaria una manifestazione di volontà solenne o formale (così, tra le tante, Sez. 6, n. 10051 del 20/11/2012, dep. 2013, Nolé, Rv. 255717).
E' poi principio generale ripetutannente ribadito quello in forza del quale il reato di cui all'art. 328, primo comma, cod. pen. è un reato istantaneo, il cui momento consumativo si realizza con il rifiuto o con l'omissione (così, specificamente: Sez. 6, n. 12238 del 27/01/2004, Bruno, Rv. 228277; Sez. 4, n. 9086 del 28/03/2000, Caputo, Rv. 217125; Sez. 6, n. 10137 del 24/06/1998, Fusco, Rv. 211569; Sez. 1, n. 1107 del 10/03/1992, Frasca, Rv. 190189).
Una di queste decisioni, in particolare, rileva che il reato di rifiuto di atti di ufficio -anche nella formulazione introdotta dall'art. 16 della l. 26.04.1990, n. 86- consiste nel mancato adempimento di un'attività doverosa, per il compimento della quale è fissato un termine unico finale e non soltanto iniziale, essendo il soggetto obbligato all'adempimento appena possibile, sicché la consumazione del reato si verifica nel momento stesso in cui si è verificata l'omissione o è stato opposto il rifiuto e, quindi, l'agente è punibile per reato istantaneo senza che abbia nessun rilievo l'ininterrotta protrazione dell'inattività individuale, giacché la legge non riconosce alcuna efficacia giuridica a detta persistenza e nemmeno all'eventuale desistenza (Sez. 6, n. 10137 del 24/06/1998, cit.)
(Corte di cassazione, Sez. VI penale, sentenza 03.10.2018 n. 43903).

APPALTIL’appalto sul Mepa non legittima la deroga alla rotazione.
L'invito a presentare offerta ai soli appaltatori iscritti al Mepa non sostanzia una procedura aperta di tipo concorrenziale - come richiesto dalle linee guida Anac n. 4 per poter derogare al principio della rotazione - ma una «procedura ristretta» che non consente alcune deroga al criterio dell'alternanza tra imprese.

Così si esprime la I Sez. del TAR Puglia-Lecce, Sez. I, con la recente sentenza 02.10.2018 n. 1412.
La vicenda
La ricorrente ha impugnato gli atti di gara e l'aggiudicazione contestando alla stazione appaltante la violazione del principio di rotazione, considerato che al procedimento informale è stata invitata anche la pregressa affidataria, che si è nuovamente aggiudicato l’appalto.
Il procedimento è stato strutturato dalla stazione appaltante in due fasi essenziali. Un primo avviso, per favorire la presentazione delle manifestazioni di interesse alla gara, che limitava la partecipazione ai soli iscritti al Mepa. La seconda fase si è sostanziata negli inviti (anche del pregresso affidatario) con quattro esclusioni motivate dalla mancata iscrizione al mercato elettronico.
Questo modus operandi secondo il giudice (che ha già avuto modo di pronunciarsi su questioni analoghe con la sentenza n. 1322/2018) non costituisce un’autentica procedura aperta e concorrenziale, la sola in grado di legittimare la deroga al principio di rotazione. In particolare, il procedimento seguito non può che essere qualificato –si legge in sentenza- come una procedura ristretta, tutt'altro che concorrenziale, limitata ai soli iscritti al mercato elettronico.
Se il procedimento di gara non è realmente aperto e concorrenziale, quindi,la stazione appaltante ha l'obbligo di applicare il principio di rotazione e non può invitare il pregresso affidatario (salvo stringenti e adeguate motivazioni).
La decisione
Il giudice pugliese, in sintesi, ribadisce che il procedimento semplificato a inviti previsto dall'articolo 36 del codice –per poter essere considerato come procedimento aperto/concorrenziale- va strutturato in tre differenti fasi: una prima esige un avviso pubblico agli interessati all'appalto, di «iscriversi» al mercato elettronico; un secondo avviso pubblico per le manifestazioni di interesse a essere invitati al procedimento e infine una terza fase che si sostanzia negli inviti veri e propri.
Diversamente operando, ovvero espletando solo due fasi del procedimento con possibilità di partecipazione alla competizione limitata ai soli iscritti al mercato elettronico, il responsabile unico non effettua una procedura sostanzialmente aperta, la sola con la classica procedura a evidenza pubblica (e quindi un procedimento aperto anche sotto il profilo formale) che -in base alle linee guida n. 4- legittima la deroga alla rotazione e, pertanto, anche il re-invito (o la libera partecipazione nel caso di evidenza pubblica) al pregresso affidatario e agli stessi appaltatori già invitati.
In sentenza si legge che «l’amministrazione ha formalmente -e sostanzialmente- seguito una procedura ristretta in economia (articolo 36 del Dlgs 50/2016): invero, sin dalla prima fase della procedura ha limitato la possibilità di far pervenire la manifestazione d’interesse a partecipare ai soli operatori che fossero iscritti al portale denominato Acquisti in rete Pa».
Di fatto, i non iscritti al portale «non hanno potuto partecipare alla procedura in esame» e in questo modo non possono ritenersi realizzati «i presupposti per la configurabilità della concorrenzialità pura, tutelata anche a livello comunitario».
Tant' è che sono state esclusi 4 dei 10 operatori economici che avevano manifestato il proprio interesse a partecipare, nonostante non iscritti nell'elenco del mercato elettronico.
In tale contesto, la decisione del responsabile unico del procedimento di invitare anche il precedente aggiudicatario si è palesata come una decisione illogica e contraddittoria considerato che la stessa stazione appaltante ha deliberatamente ridotto il numero delle offerte ammesse a partecipare alla competizione «imponendo il requisito di partecipazione dell’iscrizione al Portale» e argomentando l'invito al precedente affidatario in virtù del limitato numero di manifestazioni di interesse pervenute (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.10.2018).
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MASSIMA
3. Nel merito, il ricorso deve essere accolto.
L’esponente deduce l’illegittimità dell’operato dell’Amministrazione che, avendo esperito una procedura ristretta in economia ex art. 36, comma 2, lett. b), del D.Lgs. 50/2016, non avrebbe dovuto invitare alla gara in esame la Ec.So.Wo. perché gestore uscente del medesimo servizio medio tempore eseguito in favore della stessa Stazione Appaltante, in applicazione del principio della “rotazione” nella aggiudicazione delle forniture sotto soglia di cui agli artt. 30 e 36 del D.Lgs. 50/2016.
Controdeducono le resistenti che “il principio di rotazione, sulla scorta di quanto espressamente precisato dall’ANAC, non si applica laddove il nuovo affidamento avvenga tramite procedure ordinarie o comunque aperte al mercato, nelle quali la stazione appaltante, in virtù di regole prestabilite dal Codice dei contratti pubblici ovvero dalla stessa in caso di indagini di mercato o consultazione di elenchi, non operi alcuna limitazione in ordine al numero di operatori economici tra i quali effettuare la selezione”.
In particolare, l’espletamento della procedura negoziata sarebbe stata preceduta da “una fase di evidenza pubblica” attraverso la quale la Stazione appaltante avrebbe chiesto l’invio di manifestazioni di interesse.
4. Le censure di parte ricorrente sono fondate per le ragioni che si vengono ad illustrare.
Per i contratti sotto soglia, l’art. 36, comma 1 e comma 2, lett. b), del d.lgs. n. 50 del 2016, prevede che l’affidamento debba avvenire nel rispetto del principio di rotazione degli inviti e degli affidamenti e in modo da assicurare l’effettiva possibilità di partecipazione delle piccole e medie imprese.
Secondo orientamento consolidato, cui non sussistono ragioni per discostarsi, sussiste l’esigenza di evitare il consolidamento di rendite di posizione in capo al gestore uscente (la cui posizione di vantaggio deriva soprattutto dalle informazioni acquisite durante il pregresso affidamento), conseguentemente l’invito all’affidatario uscente riveste carattere eccezionale e deve essere adeguatamente motivato, avuto riguardo al numero ridotto di operatori presenti sul mercato, al grado di soddisfazione maturato a conclusione del precedente rapporto contrattuale ovvero all’oggetto e alle caratteristiche del mercato di riferimento (ex multis: TAR Roma n. 1115/2018; TAR Venezia n. 320/2018; TAR Catanzaro n. 1007/2018).
In proposito, ha precisato la giurisprudenza del Consiglio di Stato, che
il principio di rotazione deve essere inteso in termini di obbligo per le stazioni appaltanti di non invitare il gestore uscente, nelle gare di lavori, servizi e forniture negli appalti cd. “sotto soglia”, al fine di tutelare le esigenze della concorrenza in un settore, quello degli appalti "sotto soglia", nel quale è maggiore il rischio del consolidarsi, ancor più a livello locale, di posizioni di rendita anticoncorrenziale da parte di singoli operatori del settore risultati in precedenza aggiudicatari della fornitura o del servizio (C. di St. 2079/2018; C. di St. 5854/2017).
Recependo il convincimento dei giudici di Palazzo Spada,
l’Anac, con le Linee Guida n. 4 del 2016, aggiornate al correttivo del 2017, ha confermato l'obbligo di applicazione del principio in esame e la possibilità di reinvito del gestore uscente solo con una motivazione in grado di dimostrare le particolari condizioni di mercato che giustificano la deroga, sostenute dall' esecuzione senza criticità del lavoro, servizio o fornitura gestiti in precedenza e dalla dimostrazione della competitività in termini di prezzo dell'operatore economico.
L'Anac ha ammesso, comunque, che la rotazione possa non essere applicata quando il nuovo affidamento avvenga tramite procedure ordinarie o comunque aperte al mercato, nelle quali la stazione appaltante non operi alcuna limitazione in ordine al numero di operatori economici tra i quali effettuare la selezione.

Dal quadro normativo e giurisprudenziale esposto, deriva che, per evitare la contaminazione e l’elusione del principio di rotazione, la partecipazione del gestore uscente deve essere strettamente avvinta alla concorrenzialità pura.
Orbene, nella fattispecie in esame, l’Amministrazione ha formalmente –e sostanzialmente- esperito una procedura ristretta in economia ex art. 36 del D.Lgs. 50/2016: invero, ha limitato, sin dalla prima fase della procedura, la possibilità di far pervenire la manifestazione di interesse a partecipare ai soli operatori che fossero iscritti al portale denominato “Acquisti in rete P.A.”.
Di fatto, i non iscritti a detto portale non hanno potuto partecipare alla procedura in esame. Non si sono realizzati, dunque, i presupposti per la configurabilità della concorrenzialità pura, tutelata anche a livello comunitario.
Tanto è vero che sono state esclusi 4 dei 10 operatori economici che avevano manifestato il proprio interesse a partecipare, nonostante non iscritti nell’elenco de quo.
Peraltro, la motivazione resa dalla Stazione appaltante in ordine alla scelta di invitare il gestore uscente si palesa come illogica e contraddittoria: invero l’Amministrazione da un lato ha voluto ridurre il numero delle ditte ammesse a partecipare imponendo il requisito di partecipazione dell’iscrizione al Portale, dall’altro ha ritenuto di ammettere la Ec.So.Wo. “in virtù del numero limitato di manifestazioni di interesse pervenute”.

PUBBLICO IMPIEGOIl cartellino delle presenze non è atto pubblico.
Il «cartellino» delle presenze negli uffici della pubblica amministrazione non è un atto pubblico.

Così la Corte di Cassazione, Sez. V penale, con la sentenza 25.09.2018 n. 41426, ha annullato a due dipendenti comunali “infedeli” la condanna per il reato di falso ideologico commesso da privato in atto pubblico (articolo 483 del Codice penale).
I dipendenti timbravano il cartellino, con modalità tali da attestare falsamente la loro presenza negli uffici comunali. Ma se è vero che così commettevano il reato di truffa aggravata ai danni dell'ente locale non è vero che realizzassero un falso in atto pubblico. Cartellini o badge rilevano, infatti solo nel rapporto con il datore di lavoro, rapporto che nella Pa è ormai di diritto privato. Cioè sono privi di rilevanza esterna non essendo manifestazione dichiarativa o di volontà attribuibile alla pubblica amministrazione.
La Corte di cassazione, confermando che l'alterazione delle presenze è un raggiro o un artifizio in grado di trarre in inganno il datore di lavoro, ha riconosciuto la legittimità della condanna per truffa aggravata, peraltro non impugnata dai ricorrenti in Cassazione. Ma ha escluso -smentendo il giudice di merito e un minoritario orientamento in Cassazione- che sia ravvisabile qualsiasi ipotesi di falso in atto pubblico compresa quella aggravata prevista dall'articolo 479 del Codice penale quando l'autore è un pubblico ufficiale.
Infatti, è la stessa natura privatistica del cartellino «marcatempo» a rendere ininfluente la verifica se il dipendente rivesta o meno il ruolo di pubblico ufficiale. Mentre nella truffa commessa dai ricorrenti contro il datore di lavoro rileva sicuramente la natura pubblica di quest'ultimo e delle risorse con cui paga i dipendenti, facendo scattare l'aggravante prevista dall'articolo 640, comma 2, del Codice penale (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 26.09.2018).
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MASSIMA
1. I ricorsi sono fondati.
2. Secondo l'insegnamento delle Sezioni Unite
i cartellini marcatempo o i fogli di presenza non hanno natura di atto pubblico, trattandosi di documenti di mera attestazione del dipendente inerente al rapporto di lavoro, soggetto a disciplina privatistica, documenti che, peraltro, non contengono manifestazioni dichiarative o di volontà riferibili alla Pubblica Amministrazione (Sez. U, n.  15983 del11/04/2006, Sepe).
Nel solco di tale decisione si è collocata, in modo unanime, la giurisprudenza successiva, compresa la pronuncia "Cass. 19299/2012" (Sez. 5, n. 19299 del 16/04/2012, Santonico) che la Corte di appello cita, erroneamente, a sostegno della tesi contraria (cfr. pagina 6 sentenza impugnata).
Venendo meno l'oggetto materiale, non residua spazio per alcuna figura criminosa ricadente nel novero dei delitti di falso.
Invero non solo non è configurabile il reato di cui all'art. 479 cod. pen. (Sez. U, n. 15983 del 11/04/2006, Sepe, Rv. 233423), ma —in difformità da quanto ritenuto dai giudici di merito e da una pronuncia della Corte di legittimità anteriore alle Sezioni Unite Sepe (Sez. 5, n. 44689 del 03/06/2005, Flavio, Rv. 232433)— neppure quello, qui in contestazione, di cui all'art. 483 cod. pen., posto che il problema non è la qualità dell'agente —pubblico ufficiale o privato— ma la natura del cartellino marcatempo, che, si ripete, non è atto pubblico.
3.
La falsa attestazione del pubblico dipendente, circa la presenza in ufficio riportata sui cartellini marcatempo, è condotta fraudolenta, idonea oggettivamente ad indurre in errore l'amministrazione di appartenenza in merito alla presenza sul luogo di lavoro, ed è dunque suscettibile di integrare il reato di truffa aggravata (tra le ultime Sez. 5, n. 8426 del 17/12/2013, dep. 2014, Rapicano, Rv. 258987), reato per il quale i ricorrenti hanno riportato condanna, non impugnata in questa sede.
4. Consegue l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, limitatamente alla condanna per tutti i reati di cui all'art. 483 cod. pen., addebitati agli imputati —il capo di imputazione trascritto in sentenza non li identifica con lettere o numeri— perché il fatto non sussiste.
La sentenza va annullata con rinvio per la rideternninazione della pena in ordine ai restanti delitti di truffa, rideterminazione non effettuabile in questa sede ex art. 620, lett. I), cod. proc. pen., in assenza di statuizioni del giudice di merito utili a tal fine.

PUBBLICO IMPIEGOLicenziabile il dipendente pubblico che non si «astiene» in caso di conflitto di interessi anche potenziale.
In presenza di una situazione di conflitto di interessi, il codice di comportamento dei dipendenti pubblici impone ai responsabili del procedimento l'obbligo di segnalazione e rilevazione ma soprattutto il dovere di astensione dal procedimento.
La stessa legge 241/1990 prevede espressamente che: «Il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale devono astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale».
Il responsabile del procedimento che viola ripetutamente la normativa, anche in presenza di un conflitto di interesse solo potenziale, può essere soggetto a licenziamento rientrando la violazione nelle stesse disposizioni contrattuali previste per gli enti locali e corrispondenti alla violazione di doveri di comportamento di gravità tale da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro.

Queste conclusioni sono state confermate dalla Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la sentenza 25.09.2018 n. 22683.
La vicenda
Un'amministrazione aveva rilevato che il funzionario tecnico, in quanto responsabile del procedimento amministrativo e come tale tenuto a esaminare e a controllare la correttezza dell'attività procedimentale e sostanziale e a formulare valutazioni discrezionali con assunzione della responsabilità dell'istruttoria, aveva violato reiteratamente i doveri di trasparenza e di imparzialità non avendo mai rilevato e segnalato una situazione di conflitto di interessi essendo socio unico e titolare del 50% delle quote rispettivamente di due società coinvolte nei procedimenti amministrativi di cui era responsabile.
Trattandosi di onere obbligatorio che avrebbe dovuto imporre al responsabile il dovere di astensione, l'ufficio dei procedimenti disciplinari aveva irrogato la sanzione del licenziamento senza preavviso, riscontrando la violazione della legge sul procedimento amministrativo (articolo 6-bis della legge 241/1990) nonché del codice di comportamento dei dipendenti pubblici che impongono l'astensione del dipendente dal procedimento amministrativo condotto su società di cui è socio o possessore di quote rilevanti.
Secondo la Corte d’appello, cui si era rivolto il dipendente licenziato, la condotta contestata e posta a base del licenziamento era disciplinarmente rilevante e la sanzione proporzionata e legittima, in base all'articolo 3, comma 7, lettera i), del contratto collettivo, avuto riguardo alla pluralità delle condotte poste in essere in situazioni di conflitto di interessi, alla mancata percezione della gravità del comportamento e della sua incidenza sulla trasparenza dell'azione amministrativa, al ruolo di responsabile del procedimento rivestita, alla qualità di comproprietario della società destinataria degli atti amministrativi, alla avvenuta sovrapposizione tra interessi privati e pubblici.
Le indicazioni della Cassazione
Prima delle disposizioni introdotte dal Dpr 62/2013 (Codice di comportamento), la legge sul procedimento amministrativo (articolo 6-bis della legge 241/1990) risultava chiara nell'indicare la doverosità dell'astensione da parte del dipendente dall'esaminare pratiche che, solo potenzialmente, potessero creare un conflitto di interesse.
Nel caso di specie, proprio per l'interesse, anche potenziale, del dipendente sulle pratiche che lo vedevano coinvolto, quale responsabile del procedimento, in via indiretta con interessi privati, il licenziamento si giustifica per l'immediata mancata segnalazione del coinvolgimento verso l'ente. Secondo i giudici di Piazza Cavour, le ripetute violazioni nelle pratiche trattate, rientrano nelle ipotesi di violazioni talmente gravi da giustificare il licenziamento.
Risulta, pertanto, corretta l'affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo cui ciò che rileva è il conflitto che in astratto (potenziale) può verificarsi e che è, di contro, ininfluente che esso si sia nel concreto realizzato, ove si consideri che gli obblighi imposti al pubblico dipendente mirano a garantire la trasparenza e l'imparzialità dell'azione amministrativa e, ad un tempo, a prevenire fenomeni di corruzione.
Infine, da un punto di vista contrattuale essa trova puntuale affermazione anche nel contratto collettivo (all'articolo 3, comma 7, lettera i) del contratto collettivo del comparto Regioni ed Autonomie Locali) tenuto conto che si è in presenza di violazioni dei doveri di comportamento di gravità tale da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro. La sentenza dei giudici di appello è stata, pertanto, confermata (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 04.10.2018).

APPALTIIl Rup non può sostituirsi alla commissione di gara nella valutazione dell'offerta tecnica.
Nell'appalto da aggiudicare con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, la valutazione dell'offerta tecnica compete alla commissione di gara e il responsabile unico del procedimento, qualora ravvisasse un errore sui requisiti tecnici di ammissione dell'offerta, non può adottare provvedimenti autonomi senza un nuovo coinvolgimento dell'organo competente.

In questo senso la
sentenza 25.09.2018 n. 906 del TAR Lombardia-Brescia, Sez. II.
Il caso
Il ricorrente ha posto al giudice una rilevante questione sulla competenza del responsabile unico nel procedimento di aggiudicazione dell'appalto secondo il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa. Nel caso trattato, effettuata la valutazione da parte della commissione di gara con conseguente proposta di aggiudicazione dell'appalto, il Rup ha rilevato un errore sull'organo collegiale.
In sintesi, l'offerta tecnica risultava carente di un requisito minimo indispensabile per l'ammissione, non evidenziato dalla commissione di gara. Il responsabile unico procedeva, per il tramite di un terzo esperto, a verificare l'adeguatezza dell'offerta tecnica richiedendo chiarimenti all'aggiudicatario sostituendosi alla commissione.
Dall'esame ulteriore l'offerta non risultava rispettare gli standard minimi richiesti negli atti di gara e il Rup si determinava per l'esclusione e la revoca dell'aggiudicazione. Una serie di operazioni compiute in “perfetta” solitudine dal responsabile che ha ritenuto di non dover coinvolgere la commissione di gara. Il ricorrente ha contestato proprio questo fatto ritenendo che il responsabile unico non è l'organo deputato a fare valutazioni tecniche e che eventuali rilievi avrebbero dovuto essere rimessi alla stessa commissione di gara quale unico organo a ciò deputato.
La sentenza
Per il giudice è essenziale stabilire se il Rup sia o meno titolare non tanto del potere di adottare la revoca impugnata, quanto di ravvisare i presupposti per l'implicita esclusione dalla gara della ricorrente e la sua aggiudicazione alla controinteressata. La revoca dell'aggiudicazione, nel caso di specie, non potendo essere qualificata come atto dovuto, in quanto non era stata dimostrata la carenza di un requisito ritenuto essenziale per l'ammissibilità dell'offerta, non poteva essere adottata dal Rup autonomamente.
Nel caso trattato il difetto/vizio rilevato, e di conseguenza il suo riesame, era relativo a un requisito minimo dell'offerta di competenza della commissione di gara deputata alla valutazione tecnica dell'offerta. Praticamente la commissione di gara ha proceduto ritenendo che il prodotto offerto possedesse tutti i requisiti essenziali richiesti e, in particolare, un sistema automatico di aspirazione dei vapori (si trattava di fornitura di un processatore per tessuti biologici), mentre il Rup ha affermato il contrario. A fronte del dubbio emerso dopo l'aggiudicazione, «il Rup, anziché chiedere un parere terzo per confutare l'affermazione della commissione tecnica, avrebbe dovuto riconvocare quest'ultima per il rinnovo dell'attività».
Se il giudizio è «nella fisiologia del procedimento di gara, demandato alla Commissione, che deve accertare il possesso del requisito e attribuire il relativo punteggio», sottolinea il giudice, il «contrarius actus non può che essere demandato alla Commissione stessa, che deve procedere al rinnovo della valutazione».
Il responsabile unico, a fronte di possibili errori della commissione di gara nella valutazione dell'offerta, non può arrogarsi alcun potere ed adottare autonomamente atti come l'esclusione ed una nuova aggiudicazione dell'appalto.
Diversamente, prosegue la sentenza, “quel giudizio che ha condotto a ritenere ammissibile l'offerta da parte della Commissione tecnica, a tal fine appositamente costituita, finirebbe per essere sostituito da un giudizio personale del RUP, che avrebbe così superato la discrezionalità tecnica esercitata dalla Commissione".
La revoca dell'aggiudicazione avrebbe potuto essere disposta ma solo dopo un riesame compiuto dalla commissione di gara che avrebbe dovuto essere riconvocata «sì da consentire alla stessa la valutazione dell'ammissibilità dell'offerta alla luce di quanto successivamente emerso».
Pertanto, nel caso in cui il Rup si avveda di un errore “tecnico” della commissione di gara –nella fase di redazione della proposta per l'aggiudicazione– dovrà necessariamente riconvocare l'organo valutatore affinché verifichi, in sede di autotutela, se l'offerta sia «stata legittimamente ammessa o avrebbe dovuto essere esclusa e solo in quest'ultimo caso» potrebbe disporre l'esclusione dalla gara della ricorrente e l'aggiudicazione alla controinteressata (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 04.10.2018).

APPALTINomina delle commissioni di gara senza regole.
Nella nomina delle commissioni di gara, in attesa della predisposizione dell'albo dei commissari a gestione Anac, la stazione appaltante non ha vincoli normativi specifici da seguire potendo ispirarsi anche alla disposizione, pur abrogata, contenuta nell'articolo 84 del vecchio codice dei contratti.

In questo senso si è pronunciato il TAR Basilicata, sentenza 18.09.2018 n. 635.
Il ricorso
Il ricorrente ha impugnato gli atti di aggiudicazione della concessione della gestione di una casa di riposo per anziani focalizzando le proprie censure sull'illegittima nomina e composizione della commissione di gara ritenuta «carente, nel suo complesso, della qualificazione professionale richiesta ex art. 77 d.lgs. 50/2016».
L'altra illegittimità, secondo il ricorrente, ha riguardato la nomina del collegio che non sarebbe stata preceduta dalla «predeterminazione di criteri di competenza e trasparenza». Infine, veniva rilevata anche l'esistenza di una relazione gerarchica tra due componenti della commissione, «l'uno a capo dell'ufficio comunale cui l'altro è assegnato, avrebbe inficiato l'autonomia di giudizio di quest'ultimo».
Effettivamente la questione della legittimità della nomina della commissione di gara rappresenta una delle maggiori problematiche che affronta il responsabile unico a causa della carenza di riferimenti normativi applicabili e non sono mancate situazioni in cui gli atti sono stati annullati per errori commessi nell’individuazione/nomina del collegio.
In questo caso, però, il giudice ha espresso un diverso ragionamento palesando che nell'attuale impossibilità di utilizzare il meccanismo delineato dal legislatore ovvero l'albo dei commissari, un riferimento sostanziale sta nell'articolo 77, comma 1 del codice dei contratti che si limita a ribadire che «nelle procedure di aggiudicazione di contratti di appalti o di concessioni, limitatamente ai casi di aggiudicazione con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, la valutazione delle offerte dal punto di vista tecnico ed economico è affidata ad una commissione giudicatrice, composta da esperti nello specifico settore cui afferisce l'oggetto del contratto».
La decisione
Secondo quanto si legge nella sentenza, in attesa dell'istituzione dell'albo dei commissari, l'attuale norma del codice (articolo 77, comma 1) si limita a onerare «l'amministrazione aggiudicatrice della scelta dei commissari di gara con l'unico vincolo dell'esperienza nello specifico settore cui afferisce l'oggetto del contratto, fatte salve le cause di incompatibilità o di inconferibilità stabilite nei successivi commi della medesima disposizione».
Per quanto concerne l'esperienza, il collegio costituito nel caso di specie è risultato assolutamente adeguato visto il concetto “esteso” di esperienza che deve coinvolgere la commissione nel suo complesso. Nel senso, precisa il giudice, che «la Commissione di gara deve essere composta da esperti nell'area di attività in cui ricade l'oggetto del contratto, ma non necessariamente in tutte e ciascuna delle materie tecniche e scientifiche o addirittura nelle tematiche alle quali attengono i singoli e specifici aspetti presi in considerazione dalla lex specialis ai fini valutativi (Consiglio di Stato, sez. IV, 15.09.2014, n. 4316; TAR Lazio Roma, sez. III, 05.02.2014, n. 1411)».
Da notare, inoltre, che la concessione da aggiudicare non rappresentava particolari complessità tali da richiedere specifiche professionalità tecniche nei commissari.
Molto importante è poi la precisazione –a differenza di quanto sostenuto anche dall'Anac e da quanto disposto nell'articolo 216, comma 12 del codice dei contratti– per cui la nomina della commissione di gara non deve essere preceduta dalla «predeterminazione di criteri di competenza e trasparenza». E, al riguardo, è sufficiente rilevare secondo questo giudice «che detto adempimento non è prescritto da alcuna previsione normativa, né appare rispondente ad alcun principio di carattere generale, considerato che la scelta dei componenti il seggio di gara è tipica espressione dell'autonoma discrezionalità della stazione appaltante, con il solo vincolo procedurale derivante dalla previa acquisizione dei curricula dei componenti al fine di valutarne la competenza tecnica».
Affermazioni che non appaiono perfettamente aderenti, invece, alla disposizione richiamata e alle indicazioni dell'Anac. Il giudice, infine, esclude anche la rilevanza del rapporto gerarchico tra componenti della commissione di gara evidenziando che nessuna delle fattispecie codicistiche in tema di incompatibilità (articoli 77, commi 4, 5, 6 e 9) «si attaglia all'ipotesi prospettata dalla ricorrente». Né, d'altra parte, si può ritenere «autorizzata alcuna interpretazione estensiva o per principi considerato che la questione coinvolge profili di libertà, rispetto ai quali è necessario un approccio rigoroso» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.10.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIncarichi dirigenziali, il Consiglio di Stato «forza» sugli obblighi di pubblicazione del bando.
L'esperienza evolutiva degli ultimi anni e le interpretazioni fornite dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato e delle Sezioni Unite della Cassazione consentono di fornire delle interpretazioni rispetto all'obbligo di pubblicazione dell'avviso per la nomina di un dirigente secondo l'articolo 110 del Tuel rispetto a quelle basate sulla sentenza 10.09.2018 n. 5298 del Consiglio di Stato, Sez. V (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 21 settembre) che secondo alcune letture date avrebbe, invece, imposto un obbligo di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale basato su una diversa valutazione della natura del procedimento in questione: concorsuale e non solo comparativo seppur entrambi nell'ambito delle procedure selettive.
Secondo alcune letture interpretative, la procedura in questione sarebbe «una procedura selettiva come tale affidata alla cognizione del giudice amministrativo», con le conseguenti «indefettibili modalità pubblicitarie», tesi che in effetti sembra provare troppo, non solo rispetto alla stessa recente decisione dalla quale sono tratte ma in contrasto con il costante orientamento dello stesso Consiglio di Stato (tra le tante Sezione V del 29.05.2017) che, giudicando su una controversia relativa a una procedura bandita dopo le recenti modifiche all'articolo 110, comma 1, del Dlgs n. 267 del 2000, ha confermato il consolidato orientamento giurisprudenziale che esclude la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo nella materia (conforme Consiglio di Stato, Sezione V, n. 1549/2017) ma soprattutto con le indicazioni della Cassazione a Sezioni unite (da ultimo ordinanza n. 21600/2018).
La giurisdizione del giudice ordinario
Il filone giurisprudenziale ricordato ritiene che le controversie relative al conferimento degli incarichi dirigenziali, anche se implicano l'assunzione a termine di soggetti esterni, esulano dalla nozione di «procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni» e pertanto sono soggette alla giurisdizione del giudice ordinario.
Solo laddove la selezione si manifesti nelle forme tipiche del concorso vengono in rilievo posizioni di interesse legittimo contrapposte alle superiori scelte di interesse pubblico dell'amministrazione, espresse attraverso forme procedimentalizzate e una motivazione finale desumibile dai criteri di valutazione dei titoli e delle prove e dalla relativa graduatoria.
Quando invece la selezione seppur adeguatamente pubblicizzata e aperta, non si esprima nelle forme tipiche di un concorso, conserva i connotati della scelta fiduciaria e attiene al potere privatistico dell'amministrazione pubblica in materia di personale dipendente.
La natura fiduciaria
Dunque, anche dopo le modifiche del Dl 90/2014, le procedure selettive disciplinate dall'articolo 110, comma 1, del Tuel, conservano caratteristiche fiduciarie che non consentono di configurarle come veri e propri concorsi pubblici e su questo presupposto è stata esclusa a più riprese (in tal senso vari specifici pareri dell'Anci) la necessità di pubblicare il bando di selezione in Gazzetta Ufficiale trattandosi di una selezione che non ha lo scopo di formare una graduatoria che vincola a contrattualizzare il concorrente arrivato per primo, sulla base delle prove di valutazione delle competenze e capacità (come avviene nei concorsi pubblici).
La norma si limita a prescrivere che sia accertato in capo a coloro che presentano la candidatura il possesso dei requisiti per essere assunti (un'esperienza pluriennale comprovata e una specifica professionalità).
Sul tema è utile ricordare come nella stesura finale del Dl 90/2014 siano state a suo tempo eliminate due previsioni inizialmente inserite nelle bozze. La prima avrebbe dovuto indurre a definire preventivamente il profilo professionale dell'incarico. La seconda, avrebbe imposto di affidare la selezione a commissioni composte da soggetti dotati di particolare competenza, da scegliere tra dirigenti, docenti e professionisti esterni.
Considerazioni conclusive
Tirando le fila delle considerazioni fatte occorre precisare come a diverse conclusioni non pare giungere neanche la lettura della decisione del Consiglio di Stato, ricordata all'inizio del presente contributo: la sentenza pur considerando l'alveo del concorso pubblico quale alveo nel quale far confluire le procedure idoneative e quelle selettive, ne distingue ampiamente i contenuti e gli effetti, soprattutto con riferimento al caso concreto e alle conseguenze sulla giurisdizione che sostanzialmente ne orientano la decisione.
In altri termini il Consiglio di Stato valorizza l'auto qualificazione in termini di concorso operato dalla stessa amministrazione oltre che il puntuale richiamo alla disciplina del Dpr 487/1994 e la sussistenza di tutti gli indici rilevatori della natura concorsuale della procedura assunzionale avuto riguardo non solo alla presenza di una commissione esaminatrice tecnica ma soprattutto alla compilazione di una graduatoria. Una diversa interpretazione avrebbe compromesso tutti i principi affermati dalla Cassazione a Sezioni Unite in tema di giurisdizione.
Le due fattispecie sono nettamente distinte: quella concorsuale, laddove per concorso si intende la procedura di valutazione sulla base dei criteri e delle prove fissate in un bando, da parte di una commissione esaminatrice con poteri decisori e destinata alla formazione di una graduatoria finale di merito dei candidati, distinta da quella meramente valutativa nella quale l'individuazione del soggetto cui conferire l'incarico costituisce l'esito di una valutazione di carattere discrezionale, che rimette all'amministrazione la scelta, del tutto fiduciaria, del candidato da collocare in posizione di vertice, ancorché ciò avvenga mediante un giudizio comparativo tra curricula diversi (in questo senso gli orientamenti della Cassazione paiono recentemente univoci).
In definitiva nel caso specifico trattato dal Consiglio di Stato, l'agire dell'amministrazione era finalizzato a una graduatoria con indici tali da classificare l'azione quale procedura concorsuale, non altrettanto avviene nei casi in cui la procedura sia meramente comparativa, procedura ammessa e giudicata conforme all'attuale disciplina dell'articolo 110 del Tuel, con la conseguenza che soltanto nel primo caso è possibile intravedere non solo un obbligo di pubblicazione simile a quello dei concorsi (sulla Gazzetta Ufficiale) oltre che una giurisdizione del giudice amministrativo.
Il chiarimento pare utile per eliminare dubbi interpretativi che avevano indotto alcune amministrazioni a valutare eventuali azioni demolitorie (revoca e/o annullamento) degli atti inerenti procedure comparative azionate nell'ambito nel primo o secondo comma dell'articolo 110 del Tuel (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.11.2018).

EDILIZIA PRIVATA: Va ricordato che la qualificazione dell’intervento ha rilevanza, in quanto non possono realizzarsi opere di ristrutturazione o di manutenzione straordinaria su un manufatto abusivo, per il quale non sia stata ancora definita la procedura di sanatoria o di condono edilizio.
Infatti, secondo l’orientamento consolidato, in presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria del restauro e/o del risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche), ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla quale ineriscono strutturalmente, con conseguente obbligo del Comune di ordinarne la demolizione.

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3.3 Il motivo di censura di cui al punto 3) verte sulla qualificazione giuridica dell’intervento: si tratterebbe di un intervento di manutenzione e risanamento, ai fini anche di un adeguamento alle normative vigenti e sopravvenute, che prevede un accorpamento e un contestuale frazionamento, con adeguamento dei servizi igienici, senza aumento di volume o s.l.p. e senza modifica della destinazione d’uso. Al più, secondo la ricorrente, l’intervento può essere classificato come intervento di risanamento conservativo, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera c), del DPR 380/2001, come recentemente modificato dall'art. 65-bis della legge n. 96 del 2017.
Contra, l’Amministrazione ha applicato la diversa categoria della “ristrutturazione edilizia”, considerando l’intervento in modo unitario.
Va ricordato che la qualificazione dell’intervento ha rilevanza, in quanto non possono realizzarsi opere di ristrutturazione o di manutenzione straordinaria su un manufatto abusivo, per il quale non sia stata ancora definita la procedura di sanatoria o di condono edilizio. Infatti, secondo l’orientamento consolidato, in presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria del restauro e/o del risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche), ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla quale ineriscono strutturalmente, con conseguente obbligo del Comune di ordinarne la demolizione (ex multis Tar Bari, (Puglia), sez. III, 03/04/2018, n. 496; Tar Napoli, (Campania), sez. VI, 05/03/2018, n. 1407) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 05.09.2018 n. 2046 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Correttamente l’Amministrazione effettua una valutazione globale delle opere, non dei singoli interventi: artificiose frammentazioni, in luogo di una corretta qualificazione unitaria dell'intervento, comportano una scomposizione virtuale delle opere finalizzata a “declassare” l’intervento, che deve invece essere complessivamente considerato.
E’ infatti sempre necessaria una visione globale e non atomistica dell'intervento edilizio, dal momento che la sua qualificazione deriva non dalla singola opera, ma dall’insieme delle variazioni apportate all’assetto del territorio.
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Nel caso in esame le singole opere sono state puntualmente descritte nella relazione del tecnico comunale: all’esterno vengono eliminati “importanti e consistenti tratti di muratura perimetrale dell’originario fabbricato, (fronte interno) volti a consentire la fusione di questo con gli spazi dell’immobile antistante, anch’esso oggetto di significative opere di sostituzione degli elementi di tamponamento”; vengono poi create due unità, dotate di nuovi servizi igienici, con un nuovo sistema di reti di scarico; oltre alle nuove opere per il contenimento del consumo energetico, vengono sostituite le esistenti luci con nuove finestre, quindi con una modifica anche delle facciate.
L’intervento, creando due nuove unità, rese indipendenti tra di loro dalla costruzione di una nuova parete trasversale di separazione realizzata in muratura piena, comporta l’alterazione sostanziale dell'originario manufatto.
Risulta quindi corretta la qualificazione dell’intervento come ristrutturazione edilizia, stante la differente distribuzione della superficie interna e dei volumi, il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio ed una alterazione dell'originaria fisionomia e consistenza fisica dell'immobile.
Non possono qualificarsi come strettamente manutentivi di una costruzione preesistente, ovvero diretti al suo consolidamento o restauro conservativo, i lavori che determinano la creazione di un organismo nuovo che veda alterata la sua struttura; infatti, gli interventi edilizi che alterino l'originaria consistenza fisica di un immobile e comportino l'inserimento di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi, non possono configurarsi né come manutenzione straordinaria né come restauro o risanamento conservativo, ma rientrano nell'ambito della ristrutturazione edilizia.
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Il Collegio non ritiene vi siano elementi per discostarsi da quanto affermato in sede cautelare, circa la qualificazione dell’intervento come ristrutturazione edilizia.
Va premesso che correttamente l’Amministrazione ha effettuato una valutazione globale delle opere, non dei singoli interventi: artificiose frammentazioni, in luogo di una corretta qualificazione unitaria dell'intervento, comportano una scomposizione virtuale delle opere finalizzata a “declassare” l’intervento, che deve invece essere complessivamente considerato.
E’ infatti sempre necessaria una visione globale e non atomistica dell'intervento edilizio, dal momento che la sua qualificazione deriva non dalla singola opera, ma dall’insieme delle variazioni apportate all’assetto del territorio.
Nel caso in esame le singole opere sono state puntualmente descritte nella relazione del tecnico comunale: all’esterno vengono eliminati “importanti e consistenti tratti di muratura perimetrale dell’originario fabbricato, (fronte interno) volti a consentire la fusione di questo con gli spazi dell’immobile antistante, anch’esso oggetto di significative opere di sostituzione degli elementi di tamponamento”; vengono poi create due unità, dotate di nuovi servizi igienici, con un nuovo sistema di reti di scarico; oltre alle nuove opere per il contenimento del consumo energetico, vengono sostituite le esistenti luci con nuove finestre, quindi con una modifica anche delle facciate.
L’intervento, creando due nuove unità, rese indipendenti tra di loro dalla costruzione di una nuova parete trasversale di separazione realizzata in muratura piena, comporta l’alterazione sostanziale dell'originario manufatto.
Risulta quindi corretta la qualificazione dell’intervento come ristrutturazione edilizia, stante la differente distribuzione della superficie interna e dei volumi, il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio ed una alterazione dell'originaria fisionomia e consistenza fisica dell'immobile. Non possono qualificarsi come strettamente manutentivi di una costruzione preesistente, ovvero diretti al suo consolidamento o restauro conservativo, i lavori che determinano la creazione di un organismo nuovo che veda alterata la sua struttura; infatti, gli interventi edilizi che alterino l'originaria consistenza fisica di un immobile e comportino l'inserimento di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi, non possono configurarsi né come manutenzione straordinaria né come restauro o risanamento conservativo, ma rientrano nell'ambito della ristrutturazione edilizia (Tar Lecce, (Puglia), sez. I, 05/04/2018, n. 554).
Già la sola indicazione di voler procedere a demolizione, prevista per un ampio tratto di muratura perimetrale, mette in evidenza come l’intervento nel suo complesso sia tutt’altro che esiguo (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 05.09.2018 n. 2046 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’abuso edilizio danneggia l’immagine del Comune perché ne compromette le funzioni di controllo.
In caso di abuso edilizio, non v'è dubbio che ricorra in capo al comune, ente deputato al controllo del territorio e alla corretta edificazione sullo stesso, un danno all'immagine come aspetto non patrimoniale collegato alla menomazione del rilievo istituzionale dell'ente e, in particolare, con riferimento alla funzione di controllo del rispetto della normativa per le costruzioni in zona sismica, in funzione di tutela dell'incolumità pubblica derivante dalla realizzazione di opere che, non rispettando la normativa antisismica, possono cagionare danni alla collettività.
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1.- La Corte d'appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza di condanna del Tribunale di Trapani, ha assolto Be.Sa. e Bi.Fr.Ro. dal reato di cui all'art. 181 d.lvo n. 42 del 2004 e dal reato di cui all'art. 734 cod. pen. perché il fatto non sussiste ed ha rideterminato la pena per i reati di cui agli artt. 110 cod. pen. e 93-94 e 95 d.P.R. n. 380 del 2001.
Con la medesima sentenza, ferma la statuizione di condanna al risarcimento del danno in favore della parte civile costituita Comune di Favignana, la Corte d'appello di Palermo ha ridotto in via equitativa l'ammontare di esso in favore della parte civile nella misura di € 1.000,00.
2. - Avverso la sentenza gli imputati hanno proposto, tramite il loro difensore, ricorsi per cassazione, deducendo con un unico motivo, comune ad entrambi, la violazione di legge in relazione agli artt. 185 cod.pen., 74 e 538 cod. proc. pen. e mancanza di motivazione sui presupposti per la condanna della parte civile in assenza di prova dell'esistenza del danno cagionato alla medesima parte civile e del suo ammontare.
...
4.- I ricorsi, con cui si deduce il vizio di motivazione della sentenza in relazione alla prova della quantificazione del danno liquidato in favore della parte civile, non sono fondati.
I ricorrenti non operano alcun riferimento concreto, neanche a fini di critica, alla sentenza impugnata, limitandosi ad asserire che non vi sarebbe alcuna motivazione sulla quantificazione del danno liquidato alla parte civile Comune di Favignana.
Si tratta di un assunto che non si confronta con la decisione impugnata che, in continuità con quella del Tribunale, ha ritenuto sussistente il "danno di immagine cagionato al Comune di Favignana", "oltre al rischio sismico derivante dalla realizzazione in zona sismica di un'opera non preventivamente controllata dall'ufficio competente", ed ha espressamente ridotto in via equitativa il danno, per effetto della pronuncia di assoluzione dai reati edilizi, sicché il difetto di motivazione non appare sussistente.
Non v'è dubbio che ricorra, nel caso di specie, in capo al Comune, ente deputato al controllo del territorio e alla corretta edificazione sullo stesso, un danno all'immagine come aspetto non patrimoniale collegato alla menomazione del rilievo istituzionale dell'ente (Sez. 3, n. 1145 del 30/10/2001, Cucchiara, Rv. 221010) e, in particolare, con riferimento alla funzione di controllo del rispetto della normativa per le costruzioni in zona sismica, in funzione di tutela dell'incolumità pubblica derivante dalla realizzazione di opere che, non rispettando la normativa antisismica, possono cagionare danni alla collettività.
La motivazione è non solo presente ma anche congrua e corretta in diritto.
In relazione al dedotto difetto di motivazione in relazione alla sua quantificazione, la Corte d'appello ha ritenuto di liquidarlo in via equitativa e la relativa valutazione del giudice, in quanto affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equitativi, costituisce valutazione di fatto sottratta al sindacato di legittimità se sorretta da congrua motivazione (Sez. 6, n. 48461 del 28/11/2013, Fontana, Rv. 258170) e in assenza, peraltro, di contestazione sul quantum da parte dei ricorrenti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.08.2018 n. 39035).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordine di demolizione è un atto vincolato ancorato esclusivamente alla sussistenza di opere abusive e non richiede una specifica motivazione circa la ricorrenza del concreto interesse pubblico alla rimozione dell’abuso.
In sostanza, verificata la sussistenza dei manufatti abusivi, l’Amministrazione ha il dovere di adottarlo, essendo la relativa ponderazione tra l'interesse pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore. In ragione della natura vincolata dell’ordine di demolizione, non è pertanto necessaria la preventiva comunicazione di avvio del procedimento.
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Gli ordini di demolizione di costruzioni abusive, avendo carattere reale, prescindono dalla responsabilità del proprietario o dell'occupante l'immobile, applicandosi anche a carico di chi non abbia commesso la violazione, ma si trovi al momento dell'irrogazione in un rapporto con la res tale da assicurare la restaurazione dell'ordine giuridico violato.
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8. L’appello non merita accoglimento.
8.1. Osserva preliminarmente il Collegio che sono inammissibili le censure nuove articolate, addirittura in memoria, nel corso del giudizio d’appello nonché i documenti nuovi (nella specie depositati il 10.05.2018), siccome in violazione del divieto sancito dall’art. 104, commi 1 e 2, c.p.a.
8.2. Il primo motivo d’appello, col quale si lamenta la sopravvenuta inefficacia dell’ordine demolitorio, si palesa inammissibile proprio perché, non essendo stato articolato in primo grado, risulta proposto in violazione del divieto dei nova in appello.
8.3. Infondato è il secondo motivo articolato dall’appellante, col quale si deducono i vizi del difetto di motivazione e della obliterazione delle garanzie procedimentali.
Come infatti ha avuto modo di rilevare la giurisprudenza di questo Consiglio (in particolare la recente Adunanza plenaria 17.10.2017, n. 9; successivamente si veda la prima applicazione fattane da Cons. Stato, sez. IV, 29.11.2017, n. 5595 nonché Cons. Stato n. 2799 del 2018), “l’ordine di demolizione è un atto vincolato ancorato esclusivamente alla sussistenza di opere abusive e non richiede una specifica motivazione circa la ricorrenza del concreto interesse pubblico alla rimozione dell’abuso. In sostanza, verificata la sussistenza dei manufatti abusivi, l’Amministrazione ha il dovere di adottarlo, essendo la relativa ponderazione tra l'interesse pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore. In ragione della natura vincolata dell’ordine di demolizione, non è pertanto necessaria la preventiva comunicazione di avvio del procedimento (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 12.12.2016, n. 5198), né un'ampia motivazione”.
8.4. Infondato è anche il terzo motivo d’appello, col quale si lamentano il difetto di legittimazione e la irrilevanza urbanistica dell’opera.

8.4.1. Per il primo versante della critica sollevata dall’appellante, vale ancora una volta l’insegnamento giurisprudenziale -confermato di recente dalla menzionata Plenaria 17.10.2017, n. 9- nel senso che “Gli ordini di demolizione di costruzioni abusive, avendo carattere reale, prescindono dalla responsabilità del proprietario o dell'occupante l'immobile, applicandosi anche a carico di chi non abbia commesso la violazione, ma si trovi al momento dell'irrogazione in un rapporto con la res tale da assicurare la restaurazione dell'ordine giuridico violato” (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.08.2018 n. 5008 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, tettoie e pensiline, specie se realizzate su terrazzi, rientrano nell’alveo applicativo del regime concessorio.
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Con riferimento specifico al pergolato, questo Consiglio ha avuto già modo di affermare che lo stesso è una struttura realizzata al fine di adornare e ombreggiare giardini o terrazze, costituita da un'impalcatura formata da montanti verticali ed elementi orizzontali che li connettono ad una altezza tale da consentire il passaggio delle persone.
Di norma quindi il pergolato, come struttura aperta su tre lati e nella parte superiore, non richiede alcun titolo edilizio.
Di contro, il pergolato stesso, quando sia coperto superiormente, anche in parte, con una struttura non facilmente amovibile, diventa una tettoia, ed è soggetto alla disciplina relativa.
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La “
pergotenda” “è qualificabile come mero arredo esterno quando è di modeste dimensioni, non modifica la destinazione d'uso degli spazi esterni ed è facilmente ed immediatamente rimovibile, con la conseguenza che la sua installazione si va ad inscrivere all'interno della categoria delle attività di edilizia libera e non necessita quindi di alcun permesso”.
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8.4.2. Per il secondo profilo della critica in esame, che impinge nella rilevanza urbanistica dell’intervento, sovviene ancora una volta il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui tettoie e pensiline, specie se realizzate su terrazzi, rientrano nell’alveo applicativo del regime concessorio (sez. IV, 28.06.2016, n. 2864; 12.12.2016, n. 5108).
Con riferimento specifico al pergolato, questo Consiglio (sentenza sez. VI, 07.05.2018, n. 2701; sez. VI, 25.01.2017, n. 306) ha avuto già modo di affermare che lo stesso è una struttura realizzata al fine di adornare e ombreggiare giardini o terrazze, costituita da un'impalcatura formata da montanti verticali ed elementi orizzontali che li connettono ad una altezza tale da consentire il passaggio delle persone. Di norma quindi il pergolato, come struttura aperta su tre lati e nella parte superiore, non richiede alcun titolo edilizio. Di contro, il pergolato stesso, quando sia coperto superiormente, anche in parte, con una struttura non facilmente amovibile, diventa una tettoia, ed è soggetto alla disciplina relativa.
Dalla documentazione di causa ed in particolare dai reperti fotografici presenti in atti è dato rilevare che la struttura in questione presenta appunto una copertura che non assume carattere precario e transitorio di tal che trattasi di un intervento senz’altro asservito a permesso di costruire.
Né la fattispecie costruttiva può essere ricondotta alla nozione di “pergotenda” atteso che questa “è qualificabile come mero arredo esterno quando è di modeste dimensioni, non modifica la destinazione d'uso degli spazi esterni ed è facilmente ed immediatamente rimovibile, con la conseguenza che la sua installazione si va ad inscrivere all'interno della categoria delle attività di edilizia libera e non necessita quindi di alcun permesso” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 11.04.2014, n. 1777).
Ebbene, il manufatto in questione proprio per le sue caratteristiche dimensionali, sfugge al perimetro applicativo della pergotenda e deve pertanto, anche sotto tal profilo, ritenersi asservito al regime del permesso di costruire (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.08.2018 n. 5008 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il concetto di "pertinenza", ai sensi e per i fini di cui all’art. 7 D.L. 23.01.1982, n. 9, conv. dalla L. 25.03.1982, n. 94, tale da richiedere non già la concessione edilizia, bensì la mera "autorizzazione", si differenzia, da un lato, da quello di cui all'art. 817 c.c., che è caratterizzato da un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra cosa accessoria e principale, (cioè da un nesso che non consenta, per natura e struttura dell'accessorio, altro uso rispetto alla cosa cui esso inserisce) e, dall'altro, per potersi avere pertinenza è indispensabile che il manufatto destinato ad un uso pertinenziale durevole sia dalle dimensioni ridotte e modeste, per cui soggiace a concessione edilizia la realizzazione di un'opera di rilevanti dimensioni, che modifica l'assetto del territorio e che occupa aree e volumi diversi rispetto alla res principalis, indipendentemente dal vincolo di servizio o d'ornamento nei riguardi di essa.
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8.5. Nemmeno può configurarsi il divisato vincolo pertinenziale che possa giustificare l’alleggerimento del regime edilizio, in modo da rendere l’intervento estraneo all’alveo applicativo della sanzione demolitoria, in quanto, come evidenziato da questo Consiglio (sez. V, 28.04.2014, n. 2196; n. 2864 del 2016 cit.), il concetto di "pertinenza", ai sensi e per i fini di cui all’art. 7 D.L. 23.01.1982, n. 9, conv. dalla L. 25.03.1982, n. 94, tale da richiedere non già la concessione edilizia, bensì la mera "autorizzazione", si differenzia, da un lato, da quello di cui all'art. 817 c.c., che è caratterizzato da un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra cosa accessoria e principale, (cioè da un nesso che non consenta, per natura e struttura dell'accessorio, altro uso rispetto alla cosa cui esso inserisce) e, dall'altro, per potersi avere pertinenza è indispensabile che il manufatto destinato ad un uso pertinenziale durevole sia dalle dimensioni ridotte e modeste, per cui soggiace a concessione edilizia la realizzazione di un'opera di rilevanti dimensioni, che modifica l'assetto del territorio e che occupa aree e volumi diversi rispetto alla res principalis, indipendentemente dal vincolo di servizio o d'ornamento nei riguardi di essa (circostanza questa che non si verifica nel caso di specie) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.08.2018 n. 5008 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini dell'applicazione della normativa codicistica e regolamentare in materia di distanze tra edifici, per nuova costruzione deve intendere non solo la realizzazione a fundamentis di un fabbricato ma anche qualsiasi modificazione nella volumetria di un fabbricato precedente che ne comporti l'aumento della sagoma d'ingombro, in tal guisa direttamente incidendo sulla situazione degli spazi tra gli edifici esistenti, e ciò anche indipendentemente dalla realizzazione o meno d'una maggior volumetria e/o dall'utilizzabilità della stessa a fini abitativi.
Per il che si è ripetutamente ritenuto che la sopraelevazione, appunto, costituisca, a tutti gli effetti, nuova costruzione, così come anche il solo rifacimento di un tetto quando comporti l'aumento delle superfici esterne e dei volumi interni, pur se dei piani sottostanti.
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Questa Corte ha in più occasioni evidenziato come, ai fini dell'applicazione della normativa codicistica e regolamentare in materia di distanze tra edifici, per nuova costruzione debbasi intendere non solo la realizzazione a fundamentis di un fabbricato ma anche qualsiasi modificazione nella volumetria di un fabbricato precedente che ne comporti l'aumento della sagoma d'ingombro, in tal guisa direttamente incidendo sulla situazione degli spazi tra gli edifici esistenti, e ciò anche indipendentemente dalla realizzazione o meno d'una maggior volumetria e/o dall'utilizzabilità della stessa a fini abitativi; per il che si è ripetutamente ritenuto che la sopraelevazione, appunto, costituisca, a tutti gli effetti, nuova costruzione (Cass. 18.05.2011 n. 10909; Cass. 11.06.1997 n. 5246; Cass. 15.06.1996 n. 5517), così come anche il solo rifacimento di un tetto quando comporti l'aumento delle superfici esterne e dei volumi interni, pur se dei piani sottostanti (Cass. 06.12.1995 n. 12582) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 13.08.2018 n. 20718).

ATTI AMMINISTRATIVIIllegittima l'istanza unica di accesso ordinario e civico.
Con le sentenze gemelle 23.07.2018 n. 8302 e 23.07.2018 n. 8303, il TAR Lazio-Roma, Sez. I, ha respinto due ricorsi in materia di accesso ai documenti riguardanti le tornate assunzionali di assistenti giudiziari presso il ministero della Giustizia, esponendo che, con riguardo alla medesima documentazione, non è possibile presentare unica istanza di accesso ordinario e civico.
L’inconciliabilità
L'accesso ordinario agli atti disciplinato dalla legge 241/1990, resta senz'altro praticabile parallelamente al più recente accesso civico istituito dal Dlgs 33/2013. Tuttavia, i due istituti agiscono sulla base di norme e presupposti molto diversi. Tenere distinte le fattispecie è essenziale per calibrare i differenti valori in gioco. Il bilanciamento degli interessi è ben diverso tra accesso ordinario, dove è consentito un accesso più in profondità ai documenti, e accesso civico, dove le esigenze di controllo diffuso dei cittadini devono consentire un accesso meno profondo del primo, ma più dilatato.
L'accesso in questo secondo caso, comporta una larga conoscibilità e diffusione di dati, documenti e informazioni. Qualora l'accesso ordinario previsto dalla legge 241/1990 non sia consentito, ad esempio per genericità della documentazione indicata o per non aver specificato il proprio interesse personale alla ostensione, non può essere riconosciuto meccanicamente, in via subordinata, quello civico.
La valenza pubblica
L'accesso civico è concedibile nell'ipotesi in cui la documentazione richiesta sia orientata al soddisfacimento di un interesse che presenti una evidente «valenza pubblica» e non resti confinato a un bisogno conoscitivo privato o individuale.
L'accesso ordinario ha a oggetto documenti amministrativi, dovendosi pertanto escludere che attraverso questo istituto possano trovare ingresso richieste finalizzate a un controllo generalizzato sull'operato della Pa, tanto più quando, non risultino specificamente indicati, né in qualche modo resi identificabili, i documenti richiesti.
Devono dunque essere valorizzate in chiave selettiva e delimitativa, le finalità per le quali l'accesso civico è stato previsto dai legislatori del Dlgs 33/2013 e del Dlgs 97/2016: favorire forme estese di controllo pubblico sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse comuni, promuovendo la massima partecipazione dei cittadini al dibattito sociale. Conseguentemente, per quanto il testo normativo non richieda l'inserimento di una motivazione nella richiesta di accesso civico, deve intendersi implicita la rispondenza dell'istanza stessa al soddisfacimento di un interesse di rilievo pubblico e non di un bisogno conoscitivo personale.
In altre parole, una istanza d'accesso anfibia, lungi dal rappresentare partecipazione consapevole del cittadino alla dialettica pubblica, rischia di compromettere lo spirito stesso dell'istituto dell'accesso civico, menomandolo a una sorta di duplicato o supplente, di quello ordinario (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 30.10.2018).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza afferma da tempo il principio secondo cui il verbale di accertamento dell’inottemperanza alla demolizione “è manifestamente inidoneo a ledere situazioni giuridiche”.
L’orientamento del giudice amministrativo è pacifico nell’enunciare tale avviso sancendo che “Non è ammissibile il ricorso concernente il verbale di accertamento dell' inottemperanza alla precedente ingiunzione di demolizione di opere edilizie abusive, redatto dal personale della Polizia Municipale, in quanto il suddetto atto ha chiaramente valore endoprocedimentale ed efficacia meramente dichiarativa delle operazioni effettuate dai vigili urbani, ai quali non è attribuita la competenza all'adozione di atti di amministrazione attiva, a tal uopo occorrendo che la competente autorità amministrativa ne faccia proprio l'esito attraverso un formale atto di accertamento”.
Invero, benché il modello legale dell’atto di accertamento dell’inottemperanza alla demolizione costituisca titolo per l’immissione in possesso e per la correlativa trascrizione nei registri immobiliari connotandosi dunque per una sua intrinseca provvedimentale lesività, viceversa un mero verbale constatazione dell’inadempienza alla demolizione redatto dalla Polizia municipale si presenta orfano dei delineati attributi per le carenze contenutistiche appena tratteggiate.
Il mero verbale di accertamento dell’inottemperanza alla demolizione non ha valore e contenuto provvedimentale e non si presentata dunque idoneo a ledere la sfera giuridica del destinatario risolvendosi in un semplice accertamento di un fatto, ossia la mancata ottemperanza all’ordine di demolizione, come del resto la stessa giurisprudenza riportata dal ricorrente afferma.
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E' inammissibile il ricorso proposto avverso un atto non caratterizzato da valenza provvedimentale, essendo il verbale di accertamento di inottemperanza all'ordinanza di demolizione privo di contenuto dispositivo nuovo, limitandosi a constatare l'inadempimento all'ordine demolitorio.
L’opzione è espressa anche dal Giudice d’appello, secondo il quale “Il verbale di inottemperanza non ha di per sé natura lesiva, altro non essendo che la constatazione della mancata esecuzione di un ordine impartito nell'esercizio del potere sanzionatorio e, di conseguenza, la sua mancata impugnazione non determina l'inammissibilità del ricorso avverso l'ingiunzione di demolizione”.
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3. Ciò precisato, il Collegio deve dichiarare inammissibile il presente ricorso considerato che il mero verbale di accertamento redatto dalla Polizia municipale di S. Giuseppe Vesuviano il 20.12.2012 a carico del ricorrente, attestante l’inottemperanza alla demolizione ingiunta con la ridetta ordinanza n. 296 del 30.11.2009, è privo di natura e contenuto provvedimentale e non profila perciò idoneo a ledere la sfera giuridica del destinatario, risolvendosi in un mero accertamento di un fatto, ossia la mancata ottemperanza all’ordine di demolizione.
3.1. La giurisprudenza afferma da tempo il principio secondo cui il verbale di accertamento dell’inottemperanza alla demolizione “è manifestamente inidoneo a ledere situazioni giuridiche” (TAR Campania–Napoli, Sez. II, 07.03.2008, n. 1175).
L’orientamento del giudice amministrativo è invero pacifico nell’enunciare tale avviso sancendo che “Non è ammissibile il ricorso concernente il verbale di accertamento dell' inottemperanza alla precedente ingiunzione di demolizione di opere edilizie abusive, redatto dal personale della Polizia Municipale, in quanto il suddetto atto ha chiaramente valore endoprocedimentale ed efficacia meramente dichiarativa delle operazioni effettuate dai vigili urbani, ai quali non è attribuita la competenza all'adozione di atti di amministrazione attiva, a tal uopo occorrendo che la competente autorità amministrativa ne faccia proprio l'esito attraverso un formale atto di accertamento (cfr. TAR Lazio sez. II, 02.02.1988)” (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, 30.04.2008, n. 3064; in terminis anche TAR Valle d'Aosta, 24.07.2012, n. 74; TAR Campania Napoli, Sez. III, 01.02.2011, n. 633; TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, 14.05.2010 n. 1730; TAR Campania–Napoli, Sez. II, 27.08.2010 n. 17245).
Rammenta al riguardo il Collegio che questa Sezione ha ribadito in argomento che “Invero, benché il modello legale dell’atto di accertamento dell’inottemperanza alla demolizione costituisca titolo per l’immissione in possesso e per la correlativa trascrizione nei registri immobiliari connotandosi dunque per una sua intrinseca provvedimentale lesività, viceversa un mero verbale constatazione dell’inadempienza alla demolizione redatto dalla Polizia municipale –come quello al vaglio della Sezione- si presenta orfano dei delineati attributi per le carenze contenutistiche appena tratteggiate” (TAR Campania–Napoli, Sez. III, 15.07.2014, n. 3942), poi riaffermando che “il mero verbale di accertamento dell’inottemperanza alla demolizione non ha valore e contenuto provvedimentale e non si presentata dunque idoneo a ledere la sfera giuridica del destinatario risolvendosi in un semplice accertamento di un fatto, ossia la mancata ottemperanza all’ordine di demolizione, come del resto la stessa giurisprudenza riportata dal ricorrente afferma” (TAR Campania–Napoli, Sez. III, 16.11.2017, n. 5412).
3.2. Merita di essere osservato che l’avviso che il Collegio ritiene di dover confermare in questa sede è pacifico in giurisprudenza ed è espresso anche dal TAR Lazio, secondo il quale “E' inammissibile il ricorso proposto avverso un atto non caratterizzato da valenza provvedimentale, essendo il verbale di accertamento di inottemperanza all'ordinanza di demolizione privo di contenuto dispositivo nuovo, limitandosi a constatare l'inadempimento all'ordine demolitorio” (TAR Lazio-Roma, Sez. I, 04.05.2016, n. 5123).
L’opzione è espressa anche dal Giudice d’appello, secondo il quale “Il verbale di inottemperanza non ha di per sé natura lesiva, altro non essendo che la constatazione della mancata esecuzione di un ordine impartito nell'esercizio del potere sanzionatorio e, di conseguenza, la sua mancata impugnazione non determina l'inammissibilità del ricorso avverso l'ingiunzione di demolizione” (Cons. Giust. amm. Sicilia, Sez. giurisd., 12.11.2008, n. 930)
Per le ragioni appena esposte il ricorso si prospetta inammissibile dunque e tale va dichiarato (TAR Campania-Napoli, Sez, III, sentenza 14.03.2018 n. 1617 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale, il Comune, prima di rilasciare un titolo edilizio, ha sempre l'onere di verificare la legittimazione del richiedente, accertando che questi sia il proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività edificatoria.
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L’intervento edilizio in questione incide –oltre che su un sottotetto di cui è controversa la proprietà– sul tetto dell’edificio.
Tale porzione dell’edificio, così come previsto dall’art. 1117 c.c., si presume essere parte comune; né la sig.ra Di Mi. dispone di un titolo da cui risulti diversamente e che provi in modo certo la sua proprietà esclusiva del tetto del fabbricato.
Ad una tale conclusione è, invero, pervenuta la stessa amministrazione comunale la quale, nel corso dell’istruttoria tecnica, ha rilevato che “l’intervento riguarda parti comuni”, in quanto “l’aspetto esterno dell’edificio sarà modificato con la creazione del terrazzo”.
La demolizione di una falda del tetto e la creazione del terrazzo va indubbiamente a modificare l’architettura generale e l’aspetto estetico dell’edificio ed è pertanto subordinata, per pacifica giurisprudenza, all’assenso dei comproprietari.
È, quindi, necessaria, ai sensi dell'art. 1120 del codice civile, una apposita deliberazione dell'assemblea condominiale, assunta con le maggioranze stabilite dall'art. 1136 dello stesso codice.
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8. Con il primo motivo, i ricorrenti contestano la legittimità del titolo edilizio rilasciato alla sig.ra Ma.Ri. Di Mi. per violazione dell’art. 11, d.P.R. n. 380/2001, degli artt. 1102 e 1117 e ss., c.c. per carenza assoluta di istruttoria e di motivazione: le opere oggetto del permesso di costruire riguarderebbero un sottotetto ed un tetto di proprietà comune dei condomini e non esclusiva della controinteressata.
9. La censura è fondata.
9.1 Secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale, il Comune, prima di rilasciare un titolo edilizio, ha sempre l'onere di verificare la legittimazione del richiedente, accertando che questi sia il proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività edificatoria (cfr., fra le tante, Consiglio di Stato, sez. V, 04.04.2012 n. 1990).
L’intervento edilizio in questione incide –oltre che su un sottotetto di cui è controversa la proprietà– sul tetto dell’edificio.
Tale porzione dell’edificio, così come previsto dall’art. 1117 c.c., si presume essere parte comune; né la sig.ra Di Mi. dispone di un titolo da cui risulti diversamente e che provi in modo certo la sua proprietà esclusiva del tetto del fabbricato.
Ad una tale conclusione è, invero, pervenuta la stessa amministrazione comunale la quale, nel corso dell’istruttoria tecnica, ha rilevato che “l’intervento riguarda parti comuni”, in quanto “l’aspetto esterno dell’edificio sarà modificato con la creazione del terrazzo” (doc. n. 3 dell’amministrazione).
La demolizione di una falda del tetto e la creazione del terrazzo va indubbiamente a modificare l’architettura generale e l’aspetto estetico dell’edificio ed è pertanto subordinata, per pacifica giurisprudenza, all’assenso dei comproprietari (cfr. Cons. Stato, sez. V, 21.10.2003, n. 6529; TAR Trentino Alto Adige Bolzano, 27.02.2006, n. 81; TAR Campania Napoli, sez. II, 27.05.2005, n. 7295).
È, quindi, necessaria, ai sensi dell'art. 1120 del codice civile, una apposita deliberazione dell'assemblea condominiale, assunta con le maggioranze stabilite dall'art. 1136 dello stesso codice (Tar Lombardia, Milano, sez. II, 11/07/2013, n. 1820).
9.2 Non può ritenersi che, nel caso di specie, tale consenso sia stato prestato.
Dalla lettura del verbale dell’assemblea di condominio del 02.07.2012 si evince che l’intervento edilizio sottoposto all’esame dell’assemblea, e dalla stessa approvato, era un intervento di recupero di sottotetto. Il titolo abilitativo successivamente richiesto, rilasciato nel dicembre 2013, ha un oggetto differente e cioè la realizzazione di un terrazzo.
Non si può ritenere che quest’ultimo intervento sia stato assentito in quanto parte del più ampio intervento che prevedeva il recupero del sottotetto, su cui si è espressa l’assemblea: il verbale non fa, difatti, parola di un intervento edilizio volto alla realizzazione, oltre che di un sottotetto, anche di un terrazzo; né dal verbale risulta che nel corso dell’assemblea sia stato sottoposto all’esame dei condomini alcun progetto, e in particolare un progetto che prevedesse la realizzazione di un terrazzo.
A tale conclusione è giunta la stessa amministrazione la quale nel provvedimento del 05.11.2013 ha affermato come dalla relazione proposta al condominio non emergesse esplicitamente l’intenzione di realizzare un terrazzo.
L’assenso dei condomini è stato dunque espresso unicamente con riferimento ad un generico intervento di recupero del sottotetto ma non con riferimento al terrazzo oggetto del permesso di costruire impugnato.
La necessità di un nuovo assenso da parte dei condomini è stata, d’altro canto, rilevata dagli stessi uffici dell’amministrazione comunale, proprio per la ragione che il progetto in questione non coincideva con quello assentito dall’assemblea condominiale (v. doc. n. 24 della controinteressata).
Ciò rende ancor più palese il difetto di istruttoria che vizia il permesso di costruire impugnato, per avere l’amministrazione ritenuto sufficiente un mera trasmissione del progetto all’amministratore del condominio ed avere, quindi, rilasciato il titolo abilitativo in mancanza di una manifestazione dell’assenso dei condomini e nonostante il dissenso espressamente manifestato da alcuni di essi (doc. nn. 5 e 11 dell’amministrazione) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.12.2014 n. 3062 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 06.12.2018

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Debiti fuori bilancio:
azione di indebito arricchimento (sempre) nei confronti dell'ente locale oppure (solamente) del soggetto fisico che ha ordinato la prestazione??

APPALTISenza impegno di spesa paga personalmente il funzionario pubblico. I debiti fuori bilancio e l'azione di arricchimento senza causa nei principi espressi dalla Cassazione.
La Corte di Cassazione, Sez. I civile, con ordinanza 20.11.2018 n. 29911 ha ribadito l’indirizzo giurisprudenziale a tenore del quale il funzionario pubblico che abbia attivato un impegno di spesa per l'ente locale senza l'osservanza dei controlli contabili relativi alla gestione risponde degli effetti di tale attività di spesa verso il terzo contraente, il quale è, pertanto, tenuto ad agire direttamente e personalmente nei suoi confronti e non già in danno dell'ente, essendo preclusa anche l'azione di ingiustificato arricchimento per carenza del necessario requisito della sussidiarietà, che è esclusa quando esista altra azione esperibile non solo contro l'arricchito, ma anche verso persona diversa.
Per quanto attiene al procedimento di riconoscimento di un debito fuori bilancio (previsto all’art. 194, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 267 del 2000, n. 267), secondo la Corte non può valere ad introdurre una sanatoria per i contratti nulli o, comunque, invalidi -come quelli conclusi senza il rispetto della forma scritta ad substantiam- ovvero a derogare al regime di inammissibilità dell'azione di indebito arricchimento di cui all’art. 23 del decreto-legge n. 66 del 1989.
Sul punto, peraltro, la Suprema Corte -nell'altra ordinanza 21.11.2018 n. 30109 della I Sez. civile- ha precisato quando può avvenire il riconoscimento dei debiti fuori bilancio affermando “che resta esclusa l'azione di indebito arricchimento nei confronti dell'ente, il quale può soltanto riconoscere a posteriori il debito fuori bilancio, ai sensi dell'art. 194 del d.lgs. n. 267 del 2000 (cd. T.u.e.l.), nei limiti dell'utilità e dell'arricchimento per l'ente stesso puntualmente dedotti e dimostrati”.
Tale riconoscimento può avvenire solo espressamente, con apposita deliberazione dell'organo competente, e non può essere desunto anche dal mero comportamento tenuto dagli organi rappresentativi, essendo esso insufficiente a esprimere un apprezzamento di carattere generale in ordine alla conciliabilità dei relativi oneri con gli indirizzi di fondo della gestione economico-finanziaria dell'ente e con le scelte amministrative compiute.
Se ne ricava -conclude la Corte- che il funzionario pubblico non può attivare un impegno di spesa per l'ente locale senza un previo contratto e senza l'osservanza dei controlli contabili relativi alla gestione dello stesso, ossia al di fuori dello schema procedimentale previsto dalle norme cosiddette di evidenza pubblica (commento tratto da www.ilquotidianodellapa.it).

APPALTI: E' inammissibile la domanda di indebito arricchimento formulata contro il comune in difetto di un'obbligazione derivante da un atto contrattualmente vincolante per l'amministrazione.
Il contratto si rende necessario in quanto il funzionario responsabile del servizio non può altrimenti impegnare il comune sul piano delle obbligazioni contrattuali.
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In tema di assunzione di obbligazioni da parte degli enti locali, qualora le obbligazioni contratte non rientrino nello schema procedimentale di spesa, insorge un rapporto obbligatorio direttamente con l'amministratore o il funzionario che abbia consentito la prestazione, per difetto del requisito della sussidiarietà, sicché resta esclusa l'azione di indebito arricchimento nei confronti dell'ente, il quale può soltanto riconoscere a posteriori il debito fuori bilancio, ai sensi dell'art. 194 del d.lgs. n. 267 del 2000 (cd. T.u.e.l.), nei limiti dell'utilità e dell'arricchimento per l'ente stesso puntualmente dedotti e dimostrati.
Peraltro,
tale riconoscimento può avvenire solo espressamente, con apposita deliberazione dell'organo competente, e non può essere desunto anche dal mero comportamento tenuto dagli organi rappresentativi, essendo esso insufficiente a esprimere un apprezzamento di carattere generale in ordine alla conciliabilità dei relativi oneri con gli indirizzi di fondo della gestione economico-finanziaria dell'ente e con le scelte amministrative compiute.
Se ne ricava che
il funzionario pubblico non può attivare un impegno di spesa per l'ente locale senza un previo contratto e senza l'osservanza dei controlli contabili relativi alla gestione dello stesso, ossia al di fuori dello schema procedimentale previsto dalle norme cosiddette di evidenza pubblica.
In simile eventualità, degli effetti di tale attività di spesa verso il terzo risponde proprio e soltanto il funzionario inadempiente, nei confronti del quale, pertanto, è tenuto ad agire il terzo interessato.
L'azione di ingiustificato arricchimento dell'ente locale è preclusa dalla carenza del necessario requisito della sussidiarietà, notoriamente inesistente quando vi sia un'altra azione esperibile non solo contro l'arricchito ma anche verso un distinto soggetto.
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Rilevato che:
   - l'arch. Ge.Ma. ricorre per cassazione, con unico motivo, avverso la sentenza della corte d'appello di Roma depositata il 30.04.2013, non notificata, che ha rigettato il gravame del medesimo nei confronti della decisione con la quale il tribunale di Tivoli, per quanto ancora rileva, aveva dichiarato inammissibile la domanda di indebito arricchimento formulata contro il comune di Mentana, relativamente alle prestazioni eseguite per il collaudo di alcuni lavori di ristrutturazione della locale piazza C.A. Dalla Chiesa;
   - il comune ha replicato con controricorso;
   - il ricorrente ha depositato una memoria.
Considerato che:
   - con l'unico motivo il ricorrente denunzia la violazione o falsa applicazione dell'art. 191, primo e quarto comma, del T.u.e.l. e degli artt. 2041 e 2042 cod. civ., per avere la corte d'appello affermato che la sussistenza dell'impegno contabile assunto con la determinazione dirigenziale di affidamento dell'incarico, recante l'indicazione del capitolo di bilancio cui imputare la spesa con visto di regolarità contabile, non integrava i presupposti per l'applicazione della norma;
   - nello specifico addebita alla Corte d'appello di essersi avviluppata in una contraddizione, avendo dapprima stabilito che il responsabile del servizio, conseguita l'esecutività del provvedimento di spesa, doveva comunicare al terzo l'impegno di copertura finanziaria e poi, invece, affermato che, in mancanza di un atto contrattuale giuridicamente vincolante per l'amministrazione, il funzionario operante non poteva ordinare la prestazione;
   - in termini concreti sostiene che l'avvenuta comunicazione dell'impegno di spesa era ricavabile dalla fattura n. 2 del 2005, emessa dal ricorrente medesimo e recante i riferimenti previamente comunicati;
   - il motivo è in parte inammissibile, poiché non coglie la ratio dell'impugnata sentenza, e in parte comunque infondato;
   - occorre premettere che la corte d'appello ha accertato che la prestazione era stata ordinata dal funzionario responsabile del comune di Mentana in difetto di un'obbligazione derivante da un atto contrattualmente vincolante per l'amministrazione, mediante convocazione (risultante da apposito verbale) della visita periodica di collaudo del 28.12.2004;
   - la circostanza non è smentita dal ricorso e rende irrilevante la questione dell'impegno contabile di spesa, visto che l'impegno di spesa deve pur sempre conseguire a un atto contrattuale giuridicamente vincolante per il comune;
   - da questo punto di vista deve essere puntualizzato che
il contratto si rende necessario in quanto il funzionario responsabile del servizio non può altrimenti impegnare il comune sul piano delle obbligazioni contrattuali;
   - ora la ratio dell'impugnata sentenza si rinviene nella negazione in tal guisa della possibilità di proporre l'azione di indebito arricchimento contro l'ente locale, e tanto è conforme alla giurisprudenza di questa Corte;
   - infatti, i
n tema di assunzione di obbligazioni da parte degli enti locali, qualora le obbligazioni contratte non rientrino nello schema procedimentale di spesa, insorge un rapporto obbligatorio direttamente con l'amministratore o il funzionario che abbia consentito la prestazione, per difetto del requisito della sussidiarietà, sicché resta esclusa l'azione di indebito arricchimento nei confronti dell'ente, il quale può soltanto riconoscere a posteriori il debito fuori bilancio, ai sensi dell'art. 194 del d.lgs. n. 267 del 2000 (cd. T.u.e.l.), nei limiti dell'utilità e dell'arricchimento per l'ente stesso puntualmente dedotti e dimostrati (cfr. per tutte Cass. n. 24860/2015, Cass. n. 12608/2017);
   - peraltro,
tale riconoscimento può avvenire solo espressamente, con apposita deliberazione dell'organo competente, e non può essere desunto anche dal mero comportamento tenuto dagli organi rappresentativi (oltre tutto nella specie neppure dedotto), essendo esso insufficiente a esprimere un apprezzamento di carattere generale in ordine alla conciliabilità dei relativi oneri con gli indirizzi di fondo della gestione economico-finanziaria dell'ente e con le scelte amministrative compiute;
   - se ne ricava che
il funzionario pubblico non può attivare un impegno di spesa per l'ente locale senza un previo contratto e senza l'osservanza dei controlli contabili relativi alla gestione dello stesso, ossia al di fuori dello schema procedimentale previsto dalle norme cosiddette di evidenza pubblica; e proprio questo nella specie è stato accertato dal giudice del merito;
   -
in simile eventualità, degli effetti di tale attività di spesa verso il terzo risponde proprio e soltanto il funzionario inadempiente, nei confronti del quale, pertanto, è tenuto ad agire il terzo interessato;
   -
l'azione di ingiustificato arricchimento dell'ente locale è preclusa dalla carenza del necessario requisito della sussidiarietà, notoriamente inesistente quando vi sia un'altra azione esperibile non solo contro l'arricchito ma anche verso un distinto soggetto (cfr. Cass. n. 80/2017); (Corte di Cassazione, Sez. I civile, ordinanza 21.11.2018 n. 30109).

APPALTI: Chi ordina la prestazione, senza il preventivo impegno di spesa, paga di tasca propria.
Il funzionario pubblico che abbia attivato un impegno di spesa per l'ente locale senza l'osservanza dei controlli contabili relativi alla gestione dello stesso (ossia al di fuori dello schema procedimentale previsto dalle norme ccdd. di evidenza pubblica), risponde, ai sensi dell'art. 23, comma 4, del d.l. n. 66 del 1989, conv., con modif., dalla l. n. 144 del 1989, degli effetti di tale attività di spesa verso il terzo contraente, il quale è, pertanto, tenuto ad agire direttamente e personalmente nei suoi confronti e non già in danno dell'ente, essendo preclusa anche l'azione di ingiustificato arricchimento per carenza del necessario requisito della sussidiarietà, che è esclusa quando esista altra azione esperibile non solo contro l'arricchito, ma anche verso persona diversa.
Né può ipotizzarsi una responsabilità dell'ente ex art. 28 Cost., in quanto tale norma presuppone che l'attività del funzionario sia riferibile all'ente medesimo, mentre la violazione delle regole contabili determina una frattura del rapporto di immedesimazione organica con la pubblica amministrazione
.
Le ragioni fondanti l'indirizzo summenzionato e, ancor prima, le disposizioni di legge oggetto della censura in esame sono di tutta evidenza: l'assunzione di impegni di spesa da parte degli enti locali postula l'inderogabilità delle modalità procedimentali imposte dall'art. 23 del decreto-legge n. 66 del 1989 (norma del resto inserita nel titolo IV dedicato al risanamento finanziario delle gestioni locali),
desumibile sia dalla ratio (intesa alla consapevole assunzione da parte degli enti locali degli impegni di spesa), sia dalla rilevanza di ordine pubblico della norma (diretta a garantire la correttezza nella gestione amministrativa, il contenimento della spesa pubblica e l'equilibrio economico-finanziario degli enti locali), con la logica conseguenza che, in mancanza, il rapporto obbligatorio non è riferibile all'ente, ma intercorre, ai fini della controprestazione, tra il privato e l'amministratore o funzionario che abbia assunto l'impegno; tale inderogabilità non conosce eccezioni, né il procedimento di riconoscimento di un debito fuori bilancio, ex art. 5 del d.lgs. 15.09.1997, n. 342, poi trasfuso nell'art. 194, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 267 del 2000, n. 267, può valere ad introdurre una sanatoria per i contratti nulli o, comunque, invalidi -come quelli conclusi senza il rispetto della forma scritta ad substantiam- ovvero a derogare al regime di inammissibilità dell'azione di indebito arricchimento di cui al citato art. 23 del decreto-legge n. 66 del 1989.
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Il terzo contraente, nell'accettare di eseguire lavori di somma urgenza, non può ignorare che, ove successivamente non intervenga l'autorizzazione da parte dell'ente, il rapporto contrattuale deve intendersi intercorso direttamente con il funzionario (o l'amministratore) ed assume, quindi, volontariamente il rischio conseguente alla definitiva individuazione della parte contraente (e patrimonialmente responsabile).
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Ritenuto che:
   4. con l'unico motivo di ricorso si deduce, in relazione agli artt. 3, 24, 41, 42 e 97 Cost., l'illegittimità costituzionale dell'art. 23, commi 3 e 4, del d.l. n. 66 del 1989, conv. con modif. dalla legge n. 144 del 1989, come riprodotto nell'art. 191, commi 3 e 4, del d.lgs. 18.08.2000, n. 267, con riferimento alle spese disposte in situazioni di somma urgenza: con varie argomentazioni parte ricorrente sostiene, tra l'altro, che svincolare per legge l'amministrazione dal rapporto obbligatorio «significa rendere responsabile della spesa unicamente la persona fisica di chi l'ha ordinata. Questo equivale sottrarre alla garanzia patrimoniale del creditore il soggetto maggiormente solvente -per l'oggettiva maggior consistenza della risorse che, secondo l'id quod plerumque accidit, sono di titolarità dell'ente, rispetto a quelle di uno stipendiato- e dunque ridurre le possibilità di realizzo che normalmente l'ordinamento assegna al creditore (art. 2740 c.c.). Ciò è tanto più grave, in quanto la prestazione, se ricorrono le condizioni dell'art. 2041 cod. civ., è resa oggettivamente nell'interesse dell'Amministrazione, che però se ne avvantaggerebbe a danno del fornitore, perché questi non potrebbe agire più nei suoi confronti bensì unicamente nei confronti del dipendente, con probabilistica incapienza e comunque con un ingiustificato, rilevante aggravamento nel realizzo» (p. 6 del ricorso); secondo il ricorrente, le disposizioni in questione parificherebbero irragionevolmente situazioni diverse sul piano della meritevolezza quali, da un lato, quella del «fornitore che, senza alcuna giustificazione, offre la propria prestazione in violazione delle norme che disciplinano il procedimento di spesa» e, dall'altro, quella del «fornitore che -in ragione dello stato di necessità, fonte di legittimazione prevista e tipizzata dalla legge- si rende disponibile a prestazioni, peraltro da realizzarsi normalmente in condizioni non particolarmente favorevoli», laddove invece, in ragione della disponibilità manifestata alla P.A., il comportamento del fornitore "solidale" (tale l'espressione usata in ricorso) «andrebbe non solo riconosciuto ma addirittura incentivato», sicché tanto l'appaltatore che ha operato secondo la normativa ordinario quanto quello che ha operato secondo la normativa emergenziale avrebbero «pari legittimità» (pp. 6-7); sempre secondo il ricorrente, la disciplina censurata avrebbe inoltre un effetto disincentivante degli interventi di somma urgenza (ciò che inciderebbe anche sui principi di buona amministrazione) introducendo, in sostanza, un'esenzione di responsabilità per le obbligazioni assunte dall'ente, laddove più opportuna soluzione normativa sarebbe quella di prevedere la responsabilità del funzionario direttamente nei confronti dell'amministrazione (pp. 8-9);
   5. la doglianza, veicolata con la proposizione di una questione di legittimità costituzionale manifestamente infondata, non ha pregio;
   5.1. è consolidato l'indirizzo di legittimità -che in questa sede non può non essere senz'altro confermato- secondo il quale «Il funzionario pubblico che abbia attivato un impegno di spesa per l'ente locale senza l'osservanza dei controlli contabili relativi alla gestione dello stesso (ossia al di fuori dello schema procedimentale previsto dalle norme ccdd. di evidenza pubblica), risponde, ai sensi dell'art. 23, comma 4, del d.l. n. 66 del 1989, conv., con modif., dalla l. n. 144 del 1989, degli effetti di tale attività di spesa verso il terzo contraente, il quale è, pertanto, tenuto ad agire direttamente e personalmente nei suoi confronti e non già in danno dell'ente, essendo preclusa anche l'azione di ingiustificato arricchimento per carenza del necessario requisito della sussidiarietà, che è esclusa quando esista altra azione esperibile non solo contro l'arricchito, ma anche verso persona diversa. Né può ipotizzarsi una responsabilità dell'ente ex art. 28 Cost., in quanto tale norma presuppone che l'attività del funzionario sia riferibile all'ente medesimo, mentre la violazione delle regole contabili determina una frattura del rapporto di immedesimazione organica con la pubblica amministrazione» (per tutte, Sez. 1, 04.01.2017, n. 80);
   5.2. le ragioni fondanti l'indirizzo summenzionato e, ancor prima, le disposizioni di legge oggetto della censura in esame sono di tutta evidenza: l'assunzione di impegni di spesa da parte degli enti locali postula l'inderogabilità delle modalità procedimentali imposte dall'art. 23 del decreto-legge n. 66 del 1989 (norma del resto inserita nel titolo IV dedicato al risanamento finanziario delle gestioni locali), desumibile sia dalla ratio (intesa alla consapevole assunzione da parte degli enti locali degli impegni di spesa), sia dalla rilevanza di ordine pubblico della norma (diretta a garantire la correttezza nella gestione amministrativa, il contenimento della spesa pubblica e l'equilibrio economico-finanziario degli enti locali), con la logica conseguenza che, in mancanza, il rapporto obbligatorio non è riferibile all'ente, ma intercorre, ai fini della controprestazione, tra il privato e l'amministratore o funzionario che abbia assunto l'impegno; tale inderogabilità non conosce eccezioni (come chiarito da Sez. U, 18.12.2014, n. 26657 in fattispecie di spesa interamente finanziata da altro ente pubblico), né il procedimento di riconoscimento di un debito fuori bilancio, ex art. 5 del d.lgs. 15.09.1997, n. 342, poi trasfuso nell'art. 194, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 267 del 2000, n. 267, può valere ad introdurre una sanatoria per i contratti nulli o, comunque, invalidi -come quelli conclusi senza il rispetto della forma scritta ad substantiam- ovvero a derogare al regime di inammissibilità dell'azione di indebito arricchimento di cui al citato art. 23 del decreto-legge n. 66 del 1989 (in tal senso Sez. 1, 27.01.2015, n. 1510);
   5.3. a fronte di ciò, le argomentazioni, sopra riassunte, svolte da parte ricorrente a supporto della pretesa illegittimità costituzionale della norma obliterano del tutto sia la dimensione pubblicistica degli interessi dalla stessa presidiati, sia i principi in tema di corretta riferibilità dell'attività degli agenti amministrativi all'ente pubblico secondo lo schema dell'immedesimazione organica; per altro verso, parte ricorrente offre una ricostruzione affatto monca della fattispecie normativa trascurando tanto la prevista regolarizzazione dell'ordine dei lavori di somma urgenza a posteriori entro il termine stabilito (che costituisce per la P.A. un preciso obbligo, la cui eventuale violazione può essere fatta valere anche dal terzo contraente in via di responsabilità precontrattuale: Corte cost., ord. 06.02.2001, n. 26) quanto il dato dell'effettività della tutela comunque riconosciuta -nella cornice del bilanciamento degli interessi in gioco- al privato contraente, pervenendo infine ad attingere inammissibilmente il merito delle scelte legislative;
   5.4. non può poi mancarsi di rilevare, da ultimo, che la Corte costituzionale ha in più occasioni (sent. 24.10.1995, n. 446; sent. 30.07.1997, n. 295; ord. n. 26/2001 cit.) dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 23 cit. proposta dal ricorrente proprio con riferimento al profilo della disparità di trattamento nell'esecuzione dei lavori di somma urgenza, significativamente osservando, tra l'altro, che «il terzo contraente, nell'accettare di eseguire lavori di somma urgenza, non può ignorare che, ove successivamente non intervenga l'autorizzazione da parte dell'ente, il rapporto contrattuale deve intendersi intercorso direttamente con il funzionario (o l'amministratore) ed assume, quindi, volontariamente il rischio conseguente alla definitiva individuazione della parte contraente (e patrimonialmente responsabile)» (cfr. Corte cost., nn. 295/1997 e 446/1995) (Corte di Cassazione, Sez. I civile, ordinanza 20.11.2018 n. 29911).

INCARICHI PROGETTUALI: Va esclusa l'esperibilità dell'azione d'ingiustificato arricchimento nei confronti dell'ente in considerazione della mancanza di una delibera comunale di riconoscimento del debito fuori bilancio.
A norma del D.L. n. 66 del 1989, art. 23 (convertito in L. n. 144 del 1989, riprodotto senza sostanziali modifiche dal D.Lgs. n. 77 del 1995, art. 35, ed ora rifluito nel D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 191), qualora la richiesta di prestazioni e servizi proveniente da un amministratore o un funzionario dell'ente locale non rientri nello schema procedimentale di spesa tipizzato dal terzo comma di tale disposizione, non sorgono obbligazioni a carico dell'ente, bensì dell'amministratore o del funzionario, i quali ne rispondono con il proprio patrimonio, con la conseguente esclusione della proponibilità dell'azione di indebito arricchimento nei confronti dell'ente.
E' stato peraltro precisato che,
ai sensi del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 194, comma 1, lett. e), il predetto principio non esclude la facoltà dell'ente di riconoscere a posteriori il debito fuori bilancio, con apposita deliberazione consiliare, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l'ente stesso, nell'ambito dell'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza, fermo restando che, in caso di mancato riconoscimento, il rapporto contrattuale intercorre unicamente tra il terzo contraente e il funzionario o l'amministratore che ha autorizzato la prestazione, i quali restano comunque soggetti all'azione diretta e rispondono delle obbligazioni irregolarmente assunte nei limiti della parte non riconosciuta mediante la procedura relativa alla contabilizzazione dei debiti fuori bilancio.
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In tema di assunzione di obbligazioni da parte degli enti locali, agli effetti di quanto disposto dall'art. 23, comma 4, del d.l. n. 66 del 1989 (convertito, con modificazioni nella 1. n. 144 del 1989), qualora le obbligazioni contratte non rientrino nello schema procedimentale di spesa, insorge un rapporto obbligatorio direttamente con l'amministratore o il funzionario che abbia consentito la prestazione, per difetto del requisito della sussidiarietà, sicché resta esclusa l'azione di indebito arricchimento nei confronti dell'ente, il quale può, comunque, riconoscere "a posteriori" il debito fuori bilancio, ai sensi dell'art. 194 del d.lgs. n. 267 del 2000, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l'ente stesso.

Peraltro,
tale riconoscimento può avvenire solo espressamente, con apposita deliberazione dell'organo competente, e non può essere desunto anche dal mero comportamento tenuto dagli organi rappresentativi, insufficiente ad esprimere un apprezzamento di carattere generale in ordine alla conciliabilità dei relativi oneri con gli indirizzi di fondo della gestione economico-finanziaria dell'ente e con le scelte amministrative compiute.
Invero,
il riconoscimento del debito fuori bilancio richiede, ai sensi dell'art. 194, D.Lgs. n. 267 del 2000 "un'apposita deliberazione dell'organo competente a formare la volontà dell'ente, da allegarsi al bilancio di esercizio, con cui quest'ultimo non deve limitarsi a dare atto del vantaggio arrecato dalla prestazione, in relazione all'espletamento di funzioni e servizi di competenza dell'ente, ma deve procedere alla verifica dell'incidenza del corrispettivo sugli equilibri generali di bilancio, e adottare, in caso di alterazione degli stessi, le misure necessarie a ripristinare il pareggio ed a ripianare il debito, in tal modo compiendo una valutazione globale che investe la compatibilità della prestazione ricevuta con la situazione economico-finanziaria dell'ente e con gli impegni già assunti sulla base delle risorse disponibili, nonché la reperibilità dei fondi necessari per far fronte ad ulteriori obblighi. A differenza di quella riguardante l'utilità della prestazione, che può emergere anche dall'appropriazione del relativo risultato da parte dell'Amministrazione, tale valutazione non può evidentemente essere desunta dal mero comportamento degli organi rappresentativi, che, in quanto riferibile al singolo rapporto, risulta di per sé insufficiente ad esprimere un apprezzamento di carattere generale in ordine alla conciliabilità dei relativi oneri con gl'indirizzi di fondo della gestione economico- inanziaria dell'ente e con le scelte amministrative già compiute".
Pertanto,
la mancanza di una formale deliberazione, adottata nelle forme prescritte del cit. D.Lgs. n. 267, art. 193, comma 2, e art. 191, comma 4, esclude "la stessa imputabilità dell'obbligazione all'Amministrazione, prevedendo che il rapporto s'instauri direttamente tra il privato fornitore e l'amministratore, il funzionario o il dipendente che hanno consentito la fornitura, i quali rispondono con il loro patrimonio, con la conseguente esclusione dell'esperibilità dell'azione d'ingiustificato arricchimento, per difetto del requisito della sussidiarietà prescritto dall'art. 2042 c.c., il quale presuppone che nessun'altra azione sia proponibile non solo nei confronti dell'arricchito, ma anche nei confronti di terzi"
.
Quindi, "
la questione riguardante l'accertamento dell'utilità della prestazione è destinata a porsi soltanto nel caso in cui l'Amministrazione abbia espressamente provveduto al riconoscimento del debito fuori bilancio, assumendo a suo carico l'obbligazione nei limiti consentiti dalle preminenti esigenze di salvaguardia degli equilibri di bilancio, ovvero nel caso in cui il funzionario, l'amministratore o il dipendente, responsabili nei confronti dell'autore della prestazione, propongano a loro volta l'azione di cui all'art. 2041 c.c., nei confronti dell'Amministrazione".
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1. Nel 2004, Ma.Si. convenne in giudizio il Comune di Vische e Il.Ac., sindaco del predetto Comune nel periodo 1999- 2003, al fine di sentirli condannare, ai sensi dell'art. 2041 c.c., al pagamento dell'indennizzo a lui dovuto per i servizi professionali svolti in favore del Comune di Vische, per un importo di € 14.798,40.
Si costituì il Comune di Vische, il quale contestò la domanda, assumendo che i lavori erano stati svolti dall'attore quale responsabile dell'ufficio tecnico e che comunque non vi era stato alcun conferimento di incarico, con la conseguenza che la domanda era improponibile nei confronti del Comune.
Si costituì anche Il.Ac., eccependo il proprio difetto di legittimazione passiva e chiedendo, nel merito, il rigetto della domanda.
Il Tribunale di Ivrea, con la sentenza n. 429/2010, condannò il Comune di Vische al pagamento dell'importo richiesto, rilevando che era stato dimostrato che lavori erano stati svolti a titolo di incarico professionale, che l'esecuzione dei lavori era stata approvata e comunque non era contestata, che il quantum richiesto non era stato contestato e che il Comune aveva tratto utilità dell'attività professionale dell'attore.
Il Tribunale respinse invece la domanda proposta dall'attore nei confronti di Il.Ac., non essendovi prova che quest'ultimo avesse tratto vantaggio dall'opera professionale dell'attore.
2. La decisione è stata riformata dalla Corte d'Appello di Torino, con la sentenza n. 408 del 27.02.2014.
La Corte di Appello ha evidenziato che l'azione di arricchimento senza causa nei confronti della pubblica amministrazione presuppone non solo il fatto materiale dell'esecuzione dell'opera o della prestazione vantaggiosa per l'ente pubblico, ma anche il riconoscimento da parte di questo dell'utilità dell'opera realizzata o del servizio prestato, riconoscimento che, benché possa essere implicitamente desumibile dall'utilizzazione dell'opera o della prestazione consapevolmente attuata dai suoi organi rappresentativi, non può essere compiuto, in sostituzione dell'amministrazione, dal giudice.
Nel caso di specie, non essendovi mai stata, da parte del Comune di Vischi, una formale delibera avente ad oggetto il riconoscimento della legittimità del debito fuori bilancio, il rapporto contrattuale sarebbe intercorso unicamente tra il terzo contraente e il funzionario che ha autorizzato la prestazione.
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4.1. Con l'unico motivo di ricorso, il ricorrente lamenta la "violazione e falsa applicazione dell'art. 2041 c.c. anche in relazione agli artt. 191, comma 4, e 194, comma 1, lett. e), del D.Lgs. 267/2000".
La decisione della Corte di appello contrasterebbe con la consolidata giurisprudenza di legittimità secondo cui, ai fini dell'ammissibilità dell'azione di arricchimento senza causa nei confronti della P.A., il riconoscimento dell'utilità conseguita a mezzo della prestazione di un privato si realizzerebbe con la mera utilizzazione della prestazione stessa.
Quando è pacifica l'utilizzazione da parte dell'ente pubblico della prestazione del privato, l'utilità e conseguentemente il vantaggio e l'arricchimento della P.A. sarebbe provato ed evidente e non vi sarebbe necessità del riconoscimento del debito fuori bilancio, richiesto solo nel caso in cui l'utilità e il vantaggio non siano palesi.
Nel caso di specie sarebbe stata pacificamente provata l'utilità che il Comune di Vische ha tratto dalle prestazioni del geom. Si., grazie alle quali sarebbero stati eseguiti interventi di interesse pubblico.
Tali ultime circostanze non sarebbero state smentite dal Comune di Vische il quale, pertanto, avrebbe ammesso i fatti.
Il motivo è infondato.
In tema di assunzione d'impegni ed effettuazione di spese da parte degli enti locali, la giurisprudenza di legittimità ha da tempo affinato che, a norma del D.L. n. 66 del 1989, art. 23 (convertito in L. n. 144 del 1989, riprodotto senza sostanziali modifiche dal D.Lgs. n. 77 del 1995, art. 35, ed ora rifluito nel D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 191), qualora la richiesta di prestazioni e servizi proveniente da un amministratore o un funzionario dell'ente locale non rientri nello schema procedimentale di spesa tipizzato dal terzo comma di tale disposizione, non sorgono obbligazioni a carico dell'ente, bensì dell'amministratore o del funzionario, i quali ne rispondono con il proprio patrimonio, con la conseguente esclusione della proponibilità dell'azione di indebito arricchimento nei confronti dell'ente (cfr. tra le più recenti, Cass., Sez. 1, 30.10.2013, n. 24478; 26.05.2010, n. 12880; 22.05.2007, n. 11854).
E' stato peraltro precisato che, ai sensi del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 194, comma 1, lett. e), il predetto principio non esclude la facoltà dell'ente di riconoscere a posteriori il debito fuori bilancio, con apposita deliberazione consiliare, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l'ente stesso, nell'ambito dell'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza, fermo restando che, in caso di mancato riconoscimento, il rapporto contrattuale intercorre unicamente tra il terzo contraente e il funzionario o l'amministratore che ha autorizzato la prestazione, i quali restano comunque soggetti all'azione diretta e rispondono delle obbligazioni irregolarmente assunte nei limiti della parte non riconosciuta mediante la procedura relativa alla contabilizzazione dei debiti fuori bilancio (cfr. Cass., Sez. 3, 18.04.2006, n. 8950; 31.05.2005, n. 11597).
Circa la possibilità che il riconoscimento del debito possa essere anche desunto dalla condotta tenuta dall'Amministrazione, si segnala un primo orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui il riconoscimento dell'utilità della prestazione non richiede necessariamente un'espressa deliberazione dell'organo competente a formare la volontà dell'ente, ma può essere desunto anche per implicito da fatti concludenti, e segnatamente dalla consapevole utilizzazione della prestazione, purché la stessa risulti ascrivibile agli organi rappresentativi dell'ente, e quindi tale da rivelare un positivo apprezzamento in ordine alla rispondenza dell'opera all'interesse pubblico, nella cui valutazione, avente carattere discrezionale, il giudice non può sostituirsi alla Pubblica Amministrazione (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. 1, 07.03.2014, n. 5397; 18.04.2013, n. 9486; Cass., Sez. 3, 06.09.2012, n. 14939).
Recentemente, una pronuncia di questa Corte (Cass. civ. Sez. I, 09/12/2015, n. 24860) ha disatteso il suddetto ragionamento, affermando che in tema di assunzione di obbligazioni da parte degli enti locali, agli effetti di quanto disposto dall'art. 23, comma 4, del d.l. n. 66 del 1989 (convertito, con modificazioni nella 1. n. 144 del 1989), qualora le obbligazioni contratte non rientrino nello schema procedimentale di spesa, insorge un rapporto obbligatorio direttamente con l'amministratore o il funzionario che abbia consentito la prestazione, per difetto del requisito della sussidiarietà, sicché resta esclusa l'azione di indebito arricchimento nei confronti dell'ente, il quale può, comunque, riconoscere "a posteriori" il debito fuori bilancio, ai sensi dell'art. 194 del d.lgs. n. 267 del 2000, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l'ente stesso.
Peraltro, tale riconoscimento può avvenire solo espressamente, con apposita deliberazione dell'organo competente, e non può essere desunto anche dal mero comportamento tenuto dagli organi rappresentativi, insufficiente ad esprimere un apprezzamento di carattere generale in ordine alla conciliabilità dei relativi oneri con gli indirizzi di fondo della gestione economico-finanziaria dell'ente e con le scelte amministrative compiute.
Secondo tale pronuncia, il riconoscimento del debito fuori bilancio richiede, ai sensi dell'art. 194, D.Lgs. n. 267 del 2000 "un'apposita deliberazione dell'organo competente a formare la volontà dell'ente, da allegarsi al bilancio di esercizio, con cui quest'ultimo non deve limitarsi a dare atto del vantaggio arrecato dalla prestazione, in relazione all'espletamento di funzioni e servizi di competenza dell'ente, ma deve procedere alla verifica dell'incidenza del corrispettivo sugli equilibri generali di bilancio, e adottare, in caso di alterazione degli stessi, le misure necessarie a ripristinare il pareggio ed a ripianare il debito, in tal modo compiendo una valutazione globale che investe la compatibilità della prestazione ricevuta con la situazione economico-finanziaria dell'ente e con gli impegni già assunti sulla base delle risorse disponibili, nonché la reperibilità dei fondi necessari per far fronte ad ulteriori obblighi. A differenza di quella riguardante l'utilità della prestazione, che può emergere anche dall'appropriazione del relativo risultato da parte dell'Amministrazione, tale valutazione non può evidentemente essere desunta dal mero comportamento degli organi rappresentativi, che, in quanto riferibile al singolo rapporto, risulta di per sé insufficiente ad esprimere un apprezzamento di carattere generale in ordine alla conciliabilità dei relativi oneri con gl'indirizzi di fondo della gestione economico- inanziaria dell'ente e con le scelte amministrative già compiute".
Pertanto la Corte ha affermato che la mancanza di una formale deliberazione, adottata nelle forme prescritte del cit. D.Lgs. n. 267, art. 193, comma 2, e art. 191, comma 4, esclude "
la stessa imputabilità dell'obbligazione all'Amministrazione, prevedendo che il rapporto s'instauri direttamente tra il privato fornitore e l'amministratore, il funzionario o il dipendente che hanno consentito la fornitura, i quali rispondono con il loro patrimonio, con la conseguente esclusione dell'esperibilità dell'azione d'ingiustificato arricchimento, per difetto del requisito della sussidiarietà prescritto dall'art. 2042 c.c., il quale presuppone che nessun'altra azione sia proponibile non solo nei confronti dell'arricchito, ma anche nei confronti di terzi (cfr. Cass., Sez. 1, 30.10.2013, n. 24478; Cass. 14.10.2010, Cass. n. 21242; 22.05.2007, n. 11854)".
Secondo quest'ultimo orientamento cui si intende dare seguito, quindi, "l
a questione riguardante l'accertamento dell'utilità della prestazione è destinata a porsi soltanto nel caso in cui l'Amministrazione abbia espressamente provveduto al riconoscimento del debito fuori bilancio, assumendo a suo carico l'obbligazione nei limiti consentiti dalle preminenti esigenze di salvaguardia degli equilibri di bilancio, ovvero nel caso in cui il funzionario, l'amministratore o il dipendente, responsabili nei confronti dell'autore della prestazione, propongano a loro volta l'azione di cui all'art. 2041 c.c., nei confronti dell'Amministrazione (cfr. Cass., Sez. 6, 23.01.2014, n. 1391)".
In quest'ottica, non assumerebbe rilievo la pronuncia delle Sezioni Unite di questa Corte n. 10798 del 26.05.2015, nella quale si osserva, in via generale, che il riconoscimento dell'utilità della prestazione da parte dell'arricchito non costituisce requisito dell'azione di cui all'art. 2041, e si afferma pertanto che l'esercizio di tale azione nei confronti di un ente pubblico pone a carico dell'attore l'onere di provare soltanto il fatto oggettivo dell'arricchimento, senza che il convenuto possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso.
In tale occasione, infatti, le Sezioni Unite hanno precisato che nel caso sottoposto al loro esame non era in discussione la sussistenza del requisito della sussidiarietà dell'azione, non essendo applicabile ratione temporis la disciplina dettata dal D.L. n. 66 del 1989, art. 23, che, in quanto non avente efficacia retroattiva, non è riferibile a prestazioni e servizi resi in epoca anteriore alla sua entrata in vigore.
Nel caso di specie, è invece pacifico che l'incarico professionale posto a fondamento della domanda è assoggettabile alla disciplina dettata dagli artt. 191 e segg. del D.Lgs. n. 267 del 2000, che, riproducendo quella introdotta dal D.L. n. 66 del 1989, impone di accertare, ancor prima del vantaggio arrecato dalla prestazione al Comune, l'eventuale adozione di una delibera di riconoscimento del debito fuori bilancio da parte del Consiglio comunale.
Pertanto, la sentenza della Corte di Appello di Torino, che ha escluso l'esperibilità dell'azione d'ingiustificato arricchimento nei confronti dell'ente, in considerazione della mancanza di una delibera comunale di riconoscimento del debito di bilancio, è scevra da  qualsiasi vizio logico-giuridico (Corte di Cassazione, Sez. I civile, ordinanza 19.05.2017 n. 12608).

INCARICHI PROGETTUALI: Sul pagamento, o meno, dell'indennizzo dovuto per l'ingiustificato arricchimento (da parte del comune) derivante da prestazioni professionali rese, diverse ed ulteriori rispetto a quelle precedentemente e legittimamente affidate, non costituenti oggetto di un valido contratto essendo state conferite con lettera firmata da un assessore e non recante la determinazione dell'attività commissionata e del relativo compenso.
In tema di assunzione d'impegni ed effettuazione di spese da parte degli enti locali, la giurisprudenza di legittimità ha da tempo affermato che, a norma dell'art. 23 del decreto-legge n. 66 del 1989 (convertito in legge n. 144 del 1989, riprodotto senza sostanziali modifiche dall'art. 35 del d.lgs. n. 77 del 1995 ed ora rifluito nell'art. 191 del d.lgs. n. 267 del 2000), qualora la richiesta di prestazioni e servizi proveniente da un amministratore o un funzionario dell'ente locale non rientri nello schema procedimentale di spesa tipizzato dal terzo comma di tale disposizione, non sorgono obbligazioni a carico dell'ente, bensì dell'amministratore o del funzionario, i quali ne rispondono con il proprio patrimonio, con la conseguente esclusione della proponibilità dell'azione di indebito arricchimento nei confronti dell'ente.
E' stato peraltro precisato che,
ai sensi dell'art. 194, primo comma, lett. e), del d.lgs. n. 267 del 2000, il predetto principio non esclude la facoltà dell'ente di riconoscere a posteriori il debito fuori bilancio, con apposita deliberazione consiliare, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l'ente stesso, nell'ambito dell'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza, fermo restando che, in caso di mancato riconoscimento, il rapporto contrattuale intercorre unicamente tra il terzo contraente e il funzionario o l'amministratore che ha autorizzato la prestazione, i quali restano comunque soggetti all'azione diretta e rispondono delle obbligazioni irregolarmente assunte nei limiti della parte non riconosciuta mediante la procedura relativa alla contabilizzazione dei debiti fuori bilancio.
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La sentenza impugnata ha richiamato il principio, fino ad oggi costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità in tema di indebito arricchimento, secondo cui l'esercizio della relativa azione nei confronti di una Pubblica Amministrazione postula l'avvenuto riconoscimento dell'utilità della prestazione da parte di quest'ultima, il quale non richiede necessariamente un'espressa deliberazione dell'organo competente a formare la volontà dell'ente, ma può essere desunto anche per implicito da fatti concludenti, e segnatamente dalla consapevole utilizzazione della prestazione, purché la stessa risulti ascrivibile agli organi rappresentativi dell'ente, e quindi tale da rivelare un positivo apprezzamento in ordine alla rispondenza dell'opera all'interesse pubblico, nella cui valutazione, avente carattere discrezionale, il giudice non può sostituirsi alla Pubblica Amministrazione.
Il predetto ragionamento non può essere tuttavia condiviso, presupponendo un'evidente sovrapposizione tra l'accertamento del beneficio tratto dalla prestazione ricevuta, quale presupposto necessario per il riconoscimento del diritto dell'attore all'indennizzo per il sacrificio indebitamente sopportato dall'attore a vantaggio dell'ente pubblico, ed il riconoscimento del debito fuori bilancio, cui la legge subordina l'instaurazione del rapporto obbligatorio con l'ente pubblico.
Ai sensi dell'art. 194 del d.lgs. n. 267 del 2000,
tale riconoscimento richiede un'apposita deliberazione dell'organo competente a formare la volontà dell'ente, da allegarsi al bilancio di esercizio, con cui quest'ultimo non deve limitarsi a dare atto del vantaggio arrecato dalla prestazione, in relazione all'espletamento di funzioni e servizi di competenza dell'ente, ma deve procedere alla verifica dell'incidenza del corrispettivo sugli equilibri generali di bilancio, e adottare, in caso di alterazione degli stessi, le misure necessarie a ripristinare il pareggio ed a ripianare il debito, in tal modo compiendo una valutazione globale che investe la compatibilità della prestazione ricevuta con la situazione economico-finanziaria dell'ente e con gl'impegni già assunti sulla base delle risorse disponibili, nonché la reperibilità dei fondi necessari per far fronte ad ulteriori obblighi.
A differenza di quella riguardante l'utilità della prestazione, che può emergere anche dall'appropriazione del relativo risultato da parte dell'Amministrazione, tale valutazione non può evidentemente essere desunta dal mero comportamento degli organi rappresentativi, che, in quanto riferibile al singolo rapporto, risulta di per sé insufficiente ad esprimere un apprezzamento di carattere generale in ordine alla conciliabilità dei relativi oneri con gl'indirizzi di fondo della gestione economico-finanziaria dell'ente e con le scelte amministrative già compiute.
In mancanza di una formale deliberazione, adottata nelle forme prescritte dall'art. 193, secondo comma, del d.lgs. n. 267 cit., l'art. 191, quarto comma, esclude d'altronde la stessa imputabilità dell'obbligazione all'Amministrazione, prevedendo che il rapporto s'instaura direttamente tra il privato fornitore e l'amministratore, il funzionario o il dipendente che hanno consentito la fornitura, i quali rispondono con il loro patrimonio, con la conseguente esclusione dell'esperibilità dell'azione d'ingiustificato arricchimento, per difetto del requisito della sussidiarietà prescritto dall'art. 2042 cod. civ., il quale presuppone che nessun'altra azione sia proponibile non solo nei confronti dell'arricchito, ma anche nei confronti di terzi.
Per effetto di tale disciplina,
la questione riguardante l'accertamento dell'utilità della prestazione è destinata a porsi soltanto nel caso in cui l'Amministrazione abbia espressamente provveduto al riconoscimento del debito fuori bilancio, assumendo a suo carico l'obbligazione nei limiti consentiti dalle preminenti esigenze di salvaguardia degli equilibri di bilancio, ovvero nel caso in cui il funzionario, l'amministratore o il dipendente, responsabili nei confronti dell'autore della prestazione, propongano a loro volta l'azione di cui all'art. 2041 cod. civ. nei confronti dell'Amministrazione.
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1. — Gli arch. Vi.No. ed An.Ma.Ra. convennero in giudizio il Comune di Grugliasco, per sentirlo condannare al pagamento dell'indennizzo dovuto per l'ingiustificato arricchimento derivante dalle prestazioni professionali da loro rese ai fini della predisposizione del progetto di massima da allegarsi alla richiesta di un finanziamento CEE per la riqualificazione di un'area di proprietà del Comune di Torino concessa in comodato all'Amministrazione convenuta.
Premesso che la riqualificazione dell'area aveva costituito precedentemente oggetto di uno studio di fattibilità a loro stesse commissionato dalla Giunta Municipale con delibera del 27.05.1993 e regolarmente pagato, esposero che con sentenza n. 495/1992, passata in giudicato, il Tribunale di Torino aveva accertato che la redazione del progetto di massima aveva formato oggetto di un distinto incarico, conferito dall'Assessore ai lavori pubblici con lettera del 20.02.1995, ma aveva dichiarato nullo il contratto per difetto di forma scritta, rigettando la domanda di pagamento del compenso professionale.
1.1. — Con sentenza del 02.07.2004, il Tribunale di Torino accolse la domanda, condannando il Comune al pagamento della somma di Euro 36.798,01, oltre rivalutazione monetaria, interessi al tasso annuo del 2% sull'importo via via rivalutato ed interessi legali dalla data della sentenza.
2. — L'impugnazione proposta dal Comune di Grugliasco è stata rigettata dalla Corte d'Appello di Torino con sentenza del 21.03.2008.
Ha premesso la Corte che, come accertato dalla precedente sentenza, l'incarico professionale posto a fondamento della domanda, riguardante attività diverse ed ulteriori rispetto a quelle affidate con la precedente delibera della Giunta municipale, non aveva costituito oggetto di un valido contratto, essendo stato conferito con lettera firmata da un assessore e non recante la determinazione dell'attività commissionata e del relativo compenso, ma era stato regolarmente eseguito, essendo risultato che gli elaborati progettuali consegnati dalle attrici non erano affetti dai vizi lamentati dal Comune.
Ciò posto, ha osservato che l'art. 191 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267, così come il precedente art. 35 del d.lgs. 25.02.1995, n. 77 e l'art. 23 del decreto-legge 02.03.1989, convertito in legge 24.04.1989, n. 144, pur subordinando l'effettuazione di spese da parte degli enti territoriali alla deliberazione dell'impegno contabile da parte dell'organo competente con attestazione della copertura finanziaria, e prevedendo che in mancanza di tali presupposti il rapporto obbligatorio intercorra esclusivamente con la persona fisica che ha consentito la fornitura, non esclude in ogni caso la responsabilità dell'ente: l'art. 194, primo comma, lett. e), consente infatti a quest'ultimo di sanare la frattura del rapporto organico derivante dall'inosservanza della procedura prescritta attraverso la formale acquisizione del rapporto obbligatorio al proprio patrimonio, previa valutazione dell'interesse pubblico e nei limiti dell'utilità conseguita, con la conseguente legittimazione del privato all'esercizio dell'azione d'ingiustificato arricchimento, restando limitata l'azione contrattuale nei confronti del pubblico funzionario alla sola ipotesi in cui non vi sia stato il predetto riconoscimento.
Precisato inoltre che quest'ultimo può risultare anche da fatti concludenti, purché imputabili agli organi rappresentativi dell'ente, la Corte, per quanto ancora interessa in questa sede, ha rilevato che nella specie l'attività svolta dalle attrici era stata compiuta con l'assistenza del personale tecnico del Comune, il quale, oltre ad essersene avvalso per ottenere un finanziamento comunitario, si era mostrato consapevole di aver recepito il relativo risultato, essendosi limitato a contestare l'autonomia dell'incarico rispetto a quello precedentemente conferito, ed avendo comunque provveduto all'acquisizione dell'elaborato con delibera dell'08.06.1995, con cui la Giunta aveva approvato il progetto di riqualificazione dell'area.
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1. — Con l'unico motivo d'impugnazione, il Comune denuncia la violazione e la falsa applicazione dell'art. 35 del d.lgs. n. 77 del 1995, degli artt. 191, comma quarto, lett. e), e 194 del d.lgs. n. 267 del 2000 e dell'art. 2042 cod. civ., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto configurabile la responsabilità dell'Amministrazione pur in assenza di una specifica deliberazione di riconoscimento del debito fuori bilancio adottata dal Consiglio comunale.
Premesso infatti che le norme invocate, volte ad assicurare che l'attività negoziale degli enti territoriali costituisca espressione della volontà degli organi istituzionalmente competenti, anche in funzione del contenimento della spesa pubblica e della prevenzione della formazione di disavanzi, hanno inciso profondamente sul rapporto tra l'ente, il funzionario o l'amministratore ed il privato fornitore, escludendo la riferibilità al primo delle obbligazioni contratte al di fuori dello schema procedimentale previsto, afferma che ai fini dell'ammissibilità dell'azione d'ingiustificato arricchimento nei confronti dell'Amministrazione non è sufficiente una generica dichiarazione di utilità della prestazione, ma è necessaria una delibera specificamente adottata ai sensi dell'art. 194 cit. Tale disposizione, individuando nel Consiglio comunale l'unico organo competente a riconoscere il debito e ad impegnare l'ente al pagamento, escludeva nella specie la possibilità di ravvisare un implicito riconoscimento nella delibera di approvazione del progetto adottata dalla Giunta municipale, sprovvista di competenza al riguardo.
1.1. — Il motivo è fondato.
In tema di assunzione d'impegni ed effettuazione di spese da parte degli enti locali, la giurisprudenza di legittimità ha da tempo affermato che, a norma dell'art. 23 del decreto-legge n. 66 del 1989 (convertito in legge n. 144 del 1989, riprodotto senza sostanziali modifiche dall'art. 35 del d.lgs. n. 77 del 1995 ed ora rifluito nell'art. 191 del d.lgs. n. 267 del 2000), qualora la richiesta di prestazioni e servizi proveniente da un amministratore o un funzionario dell'ente locale non rientri nello schema procedimentale di spesa tipizzato dal terzo comma di tale disposizione, non sorgono obbligazioni a carico dell'ente, bensì dell'amministratore o del funzionario, i quali ne rispondono con il proprio patrimonio, con la conseguente esclusione della proponibilità dell'azione di indebito arricchimento nei confronti dell'ente (cfr. tra le più recenti, Cass., Sez. I, 30.10.2013, n. 24478; 26.05.2010, n. 12880; 22.05.2007, n. 11854).
E' stato peraltro precisato che, ai sensi dell'art. 194, primo comma, lett. e), del d.lgs. n. 267 del 2000, il predetto principio non esclude la facoltà dell'ente di riconoscere a posteriori il debito fuori bilancio, con apposita deliberazione consiliare, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l'ente stesso, nell'ambito dell'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza, fermo restando che, in caso di mancato riconoscimento, il rapporto contrattuale intercorre unicamente tra il terzo contraente e il funzionario o l'amministratore che ha autorizzato la prestazione, i quali restano comunque soggetti all'azione diretta e rispondono delle obbligazioni irregolarmente assunte nei limiti della parte non riconosciuta mediante la procedura relativa alla contabilizzazione dei debiti fuori bilancio (cfr. Cass., Sez. III, 18.04.2006, n. 8950; 31.05.2005, n. 11597).
Nel porre a fondamento della decisione il citato orientamento, la Corte di merito ha ritenuto che il riconoscimento del debito potesse essere desunto anche dalla condotta tenuta dall'Amministrazione comunale: ha infatti rilevato che quest'ultima aveva consapevolmente recepito i risultati dell'incarico professionale conferito alle attrici, sia attraverso l'ausilio e l'assistenza prestata alle attrici dal suo personale tecnico, sia mediante l'utilizzazione del progetto di massima per il conseguimento di un finanziamento comunitario, ritenendo a tal fine decisiva la delibera adottata l'08.06.1995, con cui la Giunta municipale aveva espressamente approvato l'elaborato, disponendone la trasmissione alla Regione Piemonte a corredo della richiesta del contributo.
A sostegno di tali conclusioni, la sentenza impugnata ha richiamato il principio, fino ad oggi costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità in tema di indebito arricchimento, secondo cui l'esercizio della relativa azione nei confronti di una Pubblica Amministrazione postula l'avvenuto riconoscimento dell'utilità della prestazione da parte di quest'ultima, il quale non richiede necessariamente un'espressa deliberazione dell'organo competente a formare la volontà dell'ente, ma può essere desunto anche per implicito da fatti concludenti, e segnatamente dalla consapevole utilizzazione della prestazione, purché la stessa risulti ascrivibile agli organi rappresentativi dell'ente, e quindi tale da rivelare un positivo apprezzamento in ordine alla rispondenza dell'opera all'interesse pubblico, nella cui valutazione, avente carattere discrezionale, il giudice non può sostituirsi alla Pubblica Amministrazione (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. I, 07.03.2014, n. 5397; 18.04.2013, n. 9486; Cass., Sez. III, 06.09.2012, n. 14939).
Il predetto ragionamento non può essere tuttavia condiviso, presupponendo un'evidente sovrapposizione tra l'accertamento del beneficio tratto dalla prestazione ricevuta, quale presupposto necessario per il riconoscimento del diritto dell'attore all'indennizzo per il sacrificio indebitamente sopportato dall'attore a vantaggio dell'ente pubblico, ed il riconoscimento del debito fuori bilancio, cui la legge subordina l'instaurazione del rapporto obbligatorio con l'ente pubblico.
Ai sensi dell'art. 194 del d.lgs. n. 267 del 2000, tale riconoscimento richiede un'apposita deliberazione dell'organo competente a formare la volontà dell'ente, da allegarsi al bilancio di esercizio, con cui quest'ultimo non deve limitarsi a dare atto del vantaggio arrecato dalla prestazione, in relazione all'espletamento di funzioni e servizi di competenza dell'ente, ma deve procedere alla verifica dell'incidenza del corrispettivo sugli equilibri generali di bilancio, e adottare, in caso di alterazione degli stessi, le misure necessarie a ripristinare il pareggio ed a ripianare il debito, in tal modo compiendo una valutazione globale che investe la compatibilità della prestazione ricevuta con la situazione economico-finanziaria dell'ente e con gl'impegni già assunti sulla base delle risorse disponibili, nonché la reperibilità dei fondi necessari per far fronte ad ulteriori obblighi.
A differenza di quella riguardante l'utilità della prestazione, che può emergere anche dall'appropriazione del relativo risultato da parte dell'Amministrazione, tale valutazione non può evidentemente essere desunta dal mero comportamento degli organi rappresentativi, che, in quanto riferibile al singolo rapporto, risulta di per sé insufficiente ad esprimere un apprezzamento di carattere generale in ordine alla conciliabilità dei relativi oneri con gl'indirizzi di fondo della gestione economico-finanziaria dell'ente e con le scelte amministrative già compiute.
In mancanza di una formale deliberazione, adottata nelle forme prescritte dall'art. 193, secondo comma, del d.lgs. n. 267 cit., l'art. 191, quarto comma, esclude d'altronde la stessa imputabilità dell'obbligazione all'Amministrazione, prevedendo che il rapporto s'instaura direttamente tra il privato fornitore e l'amministratore, il funzionario o il dipendente che hanno consentito la fornitura, i quali rispondono con il loro patrimonio, con la conseguente esclusione dell'esperibilità dell'azione d'ingiustificato arricchimento, per difetto del requisito della sussidiarietà prescritto dall'art. 2042 cod. civ., il quale presuppone che nessun'altra azione sia proponibile non solo nei confronti dell'arricchito, ma anche nei confronti di terzi (cfr. Cass., Sez. I, 30.10.2013, n. 24478; 14.10.2010, n. 21242; 22.05.2007, n. 11854).
Per effetto di tale disciplina, la questione riguardante l'accertamento dell'utilità della prestazione è destinata a porsi soltanto nel caso in cui l'Amministrazione abbia espressamente provveduto al riconoscimento del debito fuori bilancio, assumendo a suo carico l'obbligazione nei limiti consentiti dalle preminenti esigenze di salvaguardia degli equilibri di bilancio, ovvero nel caso in cui il funzionario, l'amministratore o il dipendente, responsabili nei confronti dell'autore della prestazione, propongano a loro volta l'azione di cui all'art. 2041 cod. civ. nei confronti dell'Amministrazione (cfr. Cass., Sez. VI, 23.01.2014, n. 1391).
In quest'ottica, nessun rilievo può assumere neppure la recente pronuncia con cui le Sezioni Unite di questa Corte, componendo un contrasto di giurisprudenza insorto tra le Sezioni semplici in tema d'ingiustificato arricchimento della Pubblica Amministrazione, hanno sottoposto a revisione l'orientamento in precedenza richiamato, osservando in via generale che il riconoscimento dell'utilità della prestazione da parte dell'arricchito non costituisce requisito dell'azione di cui all'art. 2041, ed affermando pertanto che l'esercizio di tale azione nei confronti di un ente pubblico pone a carico dell'attore l'onere di provare soltanto il fatto oggettivo dell'arricchimento, senza che il convenuto possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso, ferma restando la possibilità di eccepire e provare che, in quanto non voluto o non consapevole, la fattispecie è configurabile come arricchimento imposto (cfr. Cass., Sez. Un., 26.05.2015, n. 10798).
Nell'affermare tale principio, le Sezioni Unite hanno d'altronde avvertito l'esigenza di precisare che nel caso sottoposto al loro esame non era in discussione la sussistenza del requisito della sussidiarietà dell'azione, non essendo applicabile ratione temporis la disciplina dettata dall'art. 23 del decreto-legge n. 66 del 1989, che, in quanto non avente efficacia retroattiva, non è riferibile a prestazioni e servizi resi in epoca anteriore alla sua entrata in vigore.
Nella specie, è invece pacifico che l'incarico professionale posto a fondamento della domanda fu conferito ed eseguito dopo l'entrata in vigore del d.lgs. n. 267 del 2000, con la conseguente assoggettabilità alla disciplina dettata dagli artt. 191 e ss. di tale decreto, che, riproducendo quella introdotta dal decreto-legge n. 66 del 1989, avrebbe imposto alla Corte di merito di accertare, ancor prima del vantaggio arrecato dalla prestazione al Comune, l'eventuale adozione di una delibera di riconoscimento del debito fuori bilancio da parte del Consiglio comunale (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 09.12.2015 n. 24860).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 49 del 06.12.2018, "Legge di revisione normativa e di semplificazione 2018" (L.R. 04.12.2018 n. 17).
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Di particolare interesse si leggano:

Titolo I – Ambito istituzionale
   ● Art. 6 - Proroga dei termini per l’aggiornamento dell’individuazione e classificazione dei piccoli comuni e della classificazione del territorio montano della Lombardia

Titolo III – Ambito territoriale
   ● Art. 19 - Modifica dell’articolo 5 della l.r. 10/2009
1. All’articolo 5 della legge regionale 29.06.2009, n. 10 (Disposizioni in materia di ambiente e servizi di interesse economico generale – collegato ordinamentale) sono apportate le seguenti modifiche: ...

   ● Art. 20 - Modifiche alla l.r. 4/2016
1. Alla legge regionale 15.03.2016, n. 4 (Revisione della normativa regionale in materia di difesa del suolo, di prevenzione e mitigazione del rischio idrogeologico e di gestione dei corsi d'acqua) sono apportate le seguenti modifiche: ...

   ● Art. 22 - Disposizioni in materia di valutazione di impatto ambientale. Modifica degli articoli 3, 6, 11 e inserimento del nuovo articolo 5-bis della l.r. 5/2010
1. Alla legge regionale 02.02.2010, n. 5 (Norme in materia di valutazione di impatto ambientale) sono apportate le seguenti modifiche: ...

   ● Art. 25 - Adeguamento dei regolamenti edilizi comunali

   ● Art. 26 - Modifica alla l.r. 31/2014
1. Alla legge regionale 28.11.2014, n. 31 (Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato) è apportata la seguente modifica: ...

   ● Art. 27 - Modifica alla l.r. 12/2005
1. Alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) è apportata la seguente modifica: ...

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 49 del 06.12.2018, "Nomina della commissione regionale in materia di opere o di costruzioni e relativa vigilanza in zone sismiche (l.r. 33/2015 e ss.mm.ii., art. 4, comma 2 – D.g.r. 5001/2016, all. L)" (deliberazione G.R. 03.12.2018 n. 943).

LAVORI PUBBLICI: G.U. 03.12.2018 n. 281 "Testo del decreto-legge 04.10.2018, n. 113, coordinato con la legge di conversione 01.12.2018, n. 132, recante: «Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata»".
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Di particolare interesse, si leggano:
  
Articolo 25 - Sanzioni in materia di subappalti illeciti
   ● Articolo 26 - Monitoraggio dei cantieri

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 03.12.2018 n. 281 "Approvazione di norme tecniche di prevenzione incendi per le attività commerciali, ove sia prevista la vendita e l’esposizione di beni, con superficie lorda superiore a 400 mq, comprensiva di servizi, depositi e spazi comuni coperti, ai sensi dell’articolo 15, del decreto legislativo 08.03.2006, n. 139 - modifiche al decreto 03.08.2015" (Ministero dell'Interno, decreto 23.11.2018).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

ATTI AMMINISTRATIVI: Oggetto: Chiarimenti in materia di attuazione della conferenza di servizi (circolare 03.12.2018 n. 4/2018).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: V. Salamone, Le misure di mitigazione degli effetti delle interdittive antimafia (art. 32, comma 10, del decreto legge 24.06.2014 n. 90 ed art. 34-bis del Codice antimafia (04.12.2018 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it). 
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Sommario: 1 - Informativa antimafia ed effetti sui contratti e sui rapporti in corso nel codice antimafia; 2 - La disciplina degli effetti nei due codici dei contratti; 3 - Interdittive antimafia e raggruppamenti temporanei di imprese; 4 - L'articolo 32 del decreto legge 24.06.2014 n. 90 in tema di commissariamento delle imprese; 5 - I presupposti per le misure straordinarie; 6 - Competenza territoriale del Prefetto e procedimento; 7 - La tipologia dei provvedimenti adottabili; 8 - La cessazione degli effetti delle misure straordinarie; 9 - I rapporti con la disciplina del decreto legislativo 08.06.2001, n. 231; 10 - La casistica giurisprudenziale; 11 - L’amministrazione ed il controllo giudiziario (artt. 34 e 34-bis codice antimafia). Le ragioni della disciplina innovativa della legge del 17.10.2017, n. 161; 12 - L’amministrazione giudiziaria; 13 - Il controllo giudiziario; 14 - La prima giurisprudenza applicativa; 15 - Il rapporto tra il controllo giudiziario e l’efficacia dell‘interdittiva antimafia.

QUESITI & PARERI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOFondo risorse decentrate e accantonamento 0.20%.
Domanda
Questo Ente non ha mai integrato il fondo per la quota dell’0,20 monte salari 2001 ai sensi dell’art. 32, comma 7, CCNL 22/01/2004. Come deve agire a questo punto?
Risposta
Proprio in questi giorni, l’ARAN con parere CFL7/2018 ha suggerito la via da seguire agli Enti che non avevano né stanziato né accantonato lo 0,20% del MS 2001.
Se le risorse di cui all’art. 32, comma 7, del CCNL del Comparto Regioni-Autonomie Locali del 22.01.2004 non erano già state stanziate dall’Ente negli anni precedenti, come pure disposto dalla richiamata disciplina contrattuale e ribadito dalla dichiarazione congiunta n. 1, allegata al CCNL del 09.05.2006, allora le stesse non possono in alcun modo essere inserite nella parte stabile del Fondo di cui all’art. 67, comma 1, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018.
In proposito, tuttavia, si ritiene opportuno rilevare che, come già evidenziato in precedenti orientamenti applicativi predisposti in materia, qualora l’ente dovesse riconoscere un proprio errore nel procedimento di calcolo e di quantificazione delle singole voci di alimentazione delle risorse decentrate, potrebbe eventualmente, procedere, secondo criteri di correttezza e buona fede, ad un eventuale intervento correttivo, nel rispetto evidentemente delle clausole negoziali che le prevedono e disciplinano.
In materia, interverranno i medesimi soggetti che ordinariamente provvedono e sovrintendono alla quantificazione delle risorse destinate alla contrattazione integrativa: i competenti uffici dell’ente nonché i revisori dei conti.
L’ente deve anche procedere ad un ulteriore adempimento in quanto deve comunicare alla Ragioneria Generale dello Stato del Ministero dell’Economia e delle Finanze le modifiche intervenute, per effetto del ricalcolo, nell’ammontare delle risorse decentrate al fine della necessaria variazione dei dati del Conto annuale, eventualmente evidenziando anche le ragioni giustificative dello stesso.
Data la rilevanza di tale fattispecie di ricalcolo con effetto retroattivo delle risorse decentrate, anche ai fini del rispetto dei vincoli legislativi di finanza pubblica intervenuti anche in passato in materia e venendo in considerazione una problematica concernente comunque le modalità applicative di specifiche disposizioni di legge, ulteriori indicazioni possono essere utilmente acquisite anche dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, istituzionalmente competente per l’interpretazione delle norme di legge concernenti il rapporto di lavoro pubblico.
Per il rispetto dei vincoli normativi relativi al salario accessorio, introdotti già dall’art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78/2010, a nostro avviso probabilmente occorrerà anche operare un ricalcolo dei fondi dall’anno 2010 in poi (06.12.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI: Iscrizione interna dei commissari.
Domanda
Quali sono le modalità per l’iscrizione presso l’Albo nazionale dei componenti delle commissioni giudicatrici dei commissari interni al comune?
Risposta
La risposta al quesito consiste in una guida scaricabile in formato PDF cliccando qui (05.12.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Pantouflage e incarichi art. 110.
Domanda
Nel nostro comune abbiamo assunto un dirigente a contratto, ex art. 110 TUEL, il cui incarico scadrà nella primavera del 2019.
L’istituto del “pantouflage” si applica anche in questa ipotesi o solo ai dipendenti a tempo indeterminato che cessano dal servizio?
Risposta
Il “pantouflage” o ”revolving doors” (traduzione: porte girevoli) è un istituto introdotto nel nostro ordinamento dalla legge 06.11.2012, n. 190, ed è disciplinato all’art. 53, comma 16-ter, del Testo Unico sul pubblico impiego, d.lgs. 30.03.2001, n. 165.
In virtù della disposizione de quoi dipendenti dell’Ente che nel corso degli ultimi tre anni di servizio hanno esercitato poteri autoritativi o negoziali per conto dell’amministrazione, non possono svolgere nei tre anni successivi alla cessazione del rapporto di pubblico impiego, attività lavorativa o professionale presso i soggetti privati destinatari dell’attività dell’Ente svolta attraverso i medesimi poteri”; pena, la nullità dei contratti di lavoro conclusi e degli incarichi conferiti in violazione della norma, oltre che il divieto, per i soggetti privati che hanno concluso illegittimamente i contratti o conferiti incarichi, di contrattare con l’amministrazione pubblica nei tre anni successivi.
Esso costituisce, per il legislatore e l’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC), misura di prevenzione della corruzione essendo finalizzato ad evitare –o quantomeno, a ridurre il rischio– che un dipendente pubblico, nello svolgimento della propria attività istituzionale, possa precostituirsi una situazione favorevole per essere successivamente destinatario di incarichi dirigenziali e/o di consulenza. Viene, pertanto, limitata la libertà negoziale del dipendente per un determinato periodo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro pubblico, al fine di eliminare la “convenienza” di accordi fraudolenti.
Ad integrare il disposto normativo, sicuramente non esaustivo, ci ha pensato in questi anni l’Autorità Nazionale Anticorruzione con interpretazioni e direttive in materia. Già l’allora Civit (Commissione indipendente per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche), invero, con il primo Piano Nazionale Anticorruzione, approvato con deliberazione n. 72/2013, aveva fornito chiarimenti sui confini e l’ambito di applicazione della norma specificando che i dipendenti interessati “sono coloro che per il ruolo e la posizione ricoperti nell’amministrazione hanno avuto il potere di incidere in maniera determinante sulla decisione oggetto dell’atto e, quindi coloro che hanno esercitato la potestà o il potere negoziale con riguardo allo specifico procedimento o procedura”; ed ancora, sempre in riferimento all’applicabilità dell’istituto, che non rilevava tanto la causa di cessazione del dipendente (comprendendosi anche il collocamento dello stesso in quiescenza per raggiungimento dei requisiti di accesso alla pensione), quanto la forma contrattuale del nuovo impiego, non essendo ammesso né il rapporto di lavoro autonomo, né quello subordinato.
Nulla era stato specificato, invece, in sede di prima attuazione, sulla questione oggetto del quesito sottoposto: e cioè se il vincolo imposto dalla norma valesse per tutti i dipendenti o solo per quelli incardinati in maniera stabile all’interno dell’amministrazione.
Sul punto è di recente ritornata l’ANAC con l’ultimo aggiornamento al PNA, tuttora in consultazione, stabilendo che “una limitazione ai soli dipendenti con contratto a tempo indeterminato sarebbe in contrasto con la ratio della norma, volta a evitare condizionamenti nell’esercizio di funzioni pubbliche e sono pertanto da ricomprendersi anche i soggetti legati alla pubblica amministrazione da un rapporto di lavoro a tempo determinato o autonomo”.
Nello stabilire ciò l’Autorità ha inoltre richiamato un suo precedente parere (n. 2 del 04.02.2015), con il quale aveva chiarito la portata dell’art. 53, comma 16-ter, d.lgs. 30.03.2001, n. 165, affermando che un’interpretazione della norma limitata esclusivamente ai dipendenti a tempo indeterminato non fosse in linea con il disposto dell’art. 21, del d.lgs. 08.04.2013, n. 39 (recante «disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, a norma dell’art. 1, commi 49 e 50, della legge n. 190/2012»), a tenore del quale «ai soli fini dell’applicazione dei divieti di cui al comma 16-ter dell’articolo 53 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni, sono considerati dipendenti delle pubbliche amministrazioni anche i soggetti titolari di uno degli incarichi di cui al presente decreto, ivi compresi i soggetti esterni con i quali l’amministrazione, l’ente pubblico o l’ente di diritto privato in controllo pubblico stabilisce un rapporto di lavoro, subordinato o autonomo. Tali divieti si applicano a far data dalla cessazione dell’incarico».
Alla luce di tutto quanto sin qui esposto, rientrando l’incarico dirigenziale, ex art. 110 TUEL 267/2000, nell’alveo degli incarichi a tempo determinato di tipo subordinato, si risponde in modo affermativo al quesito posto. Da ciò discende, infine, l’obbligo per l’ente, di specificare tale situazione sin dall’emanazione dell’avviso pubblico necessario allo svolgimento della selezione propedeutica all’instaurazione del rapporto di lavoro (04.12.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

CORTE DEI CONTI

PUBBLICO IMPIEGODanno erariale al dipendente che altera le timbrature del cartellino.
Il dipendente pubblico che attesta falsamente la presenza in ufficio con la reiterata manipolazione delle rilevazioni registrate dal sistema informatico viola un fondamentale obbligo di servizio, rappresentato dal dovere di fornire la prestazione di lavoro secondo le condizioni previste dal rapporto di impiego con la Pa, cagionando alle pubbliche finanze un danno pari alla retribuzione indebitamente erogata.

Con la sentenza 06.09.2018 n. 110, la Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per l'Abruzzo, riporta in primo piano il tema dei «furbetti del cartellino», che tempo fa ha visto una stretta di rigore con il Dlgs 116/2016, il quale ha introdotto maggiori responsabilità per i dirigenti tenuti a vigilare sull'operato dei loro collaboratori, nonché tempi più celeri per il procedimento disciplinare e la possibilità di condannare il pubblico dipendente al risarcimento del danno all'immagine della Pa.
La vicenda
Nel caso in esame, la Procura regionale ha chiamato in giudizio un dipendente dell'Inps rispetto al quale la direzione dell'istituto di previdenza aveva segnalato, nell'ambito di verifiche dei sistemi di gestione del personale, una serie di anomalie riscontrate nella rilevazione delle presenze in ufficio. Anomalie che, secondo la relazione dell'istituto, non potevano che essere frutto di manomissioni sul sistema da parte dell'interessato, al preciso fine di alterare gli orari di ingresso e uscita risultanti dall'orologio marcatempo. La circostanza aggravante di questa condotta illecita era il lungo arco di tempo poiché le irregolarità si sono protratte per anni (dal 2004 al 2015).
A fronte delle deboli eccezioni opposte dalla difesa dell'imputato –prescrizione parziale del danno erariale, ipotizzato malfunzionamento degli orologi marcatempo, asserite «prove tecniche» di timbratura per verificare il corretto ripristino dell'apparecchiatura)– il collegio non ravvisa i presupposti per attenuare la responsabilità del convenuto, al quale viene ascritto un illecito di singolare gravità per il fatto che, come si legge nella sentenza, «le alterazioni del sistema di registrazione delle presenze apparivano, all'evidenza, maliziosamente e scientificamente effettuate» per di trarre un indebito vantaggio personale.
La condanna
Di qui la mano pesante dei giudici, con la condanna al risarcimento di un danno pari a 42mila euro oltre agli interessi legali, determinato da vari fattori: l'inutile pagamento della retribuzione a fronte di prestazioni lavorative non rese dall'interessato e falsamente attestate dal medesimo, la fruizione di buoni pasto, pur in mancanza dei requisiti contrattuali previsti e la necessità di dedicare risorse umane all'individuazione ed all'elaborazione delle alterazioni perpetrate dal dipendente.
La pronuncia, come ben si vede, punta il dito contro il diffuso malcostume dei «furbetti del cartellino», ed evidenzia ancora una volta come l'avversione a questo fenomeno sia fortemente avvertita (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 17.09.2018).
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MASSIMA
1. L’azione di responsabilità è fondata: sussistono, infatti, tutti gli elementi costitutivi della responsabilità amministrativo-contabile.
1.1. Il convenuto era, all’epoca dei fatti, in rapporto di servizio con una pubblica amministrazione, nella sua qualità di dipendente dell’INPS.
1.2. Sussistono, all’evidenza (né il convenuto le ha integralmente negate), le indebite manipolazioni della rilevazione delle presenze orarie. Ora, se solo si scorre, per chi ne abbia la pazienza, il tabulato sinottico elaborato dall’INPS e versato in giudizio, che pone a confronto le timbrature effettive, rispetto a quelle manualmente inserite o modificate dal convenuto, emerge ictu oculi il carattere non episodico delle alterazioni e la loro dolosa preordinazione al vantaggio personale del dipendente: questi era solito entrare in ritardo, uscire in anticipo, assentarsi in pausa anche per la durata di ore, aggiustando poi le rilevazioni delle presenze a suo piacimento.
La reiterazione e le caratteristiche degli interventi di modifica o di inserimento ex novo degli orari di ingresso e uscita, a fronte di timbrature omesse o effettuate in momenti diversi, per i tempi e i modi in cui detti interventi sono configurati, e in particolare per la stupefacente coincidenza degli orari “ritoccati” in favore del dipendente, rendono del tutto inconsistenti le difese dell’interessato medesimo, difese incentrate sulla inverosimile e non seriamente credibile necessità di testare, continuamente, la funzionalità del sistema, effettuando plurime timbrature con il proprio badge.
La testimonianza citata dal convenuto depone, a ben vedere, in senso esattamente opposto rispetto a quello auspicato: il fatto che, saltuariamente (il teste indica una frequenza di “ogni due/tre mesi”), l’interessato potesse utilizzare il proprio badge per effettuare delle prove di funzionamento del sistema, a seguito del malfunzionamento o del riavvio di esso, non giustifica le alterazioni pressoché quotidiane delle timbrature che, per loro stessa natura (inserimento ex novo di una timbratura, anticipazione dell’entrata, posticipo dell’uscita) non potevano avere altro scopo che quello, evidente oltre ogni ragionevole dubbio, di frodare l’amministrazione a vantaggio del dipendente, attribuendogli plus-orari inesistenti.
A fronte del carattere marchiano e oltremodo evidente delle alterazioni non occorre dilungarsi ulteriormente sul punto.
1.3.
La reiterazione e la callidità delle manipolazioni sulle rilevazioni orarie rendono palese la natura dolosa delle stesse, perpetrate dal convenuto con premeditata e pressoché quotidiana regolarità, a suo personale vantaggio e in danno dell’amministrazione di appartenenza.
Dalla natura dolosa del danno e dal relativo manifesto occultamento doloso discende anche l’infondatezza dell’eccezione di prescrizione, la quale non può che decorrere dalla data del disvelamento dell’illecito, ampiamente ricadente nel quinquennio.

1.4.
Il nesso causale è insito nella diretta consequenzialità tra le alterazioni delle presenze registrate dal sistema e l’effettuazione, da parte del dipendente, di una prestazione lavorativa oraria sistematicamente inferiore rispetto a quella dovuta o comunque rispetto a quella artificiosamente fatta risultare nel sistema di rilevazione delle presenze.
Inoltre, la necessità di ricostruire l’effettiva presenza in servizio del dipendente infedele discende, direttamente, dall’illecito da questi commesso e dalle modalità particolarmente insidiose e diuturne con cui l’illecito stesso è stato posto in essere: anche il danno da disservizio costituisce, pertanto, diretta ed inevitabile conseguenza dell’illecito perpetrato dal convenuto.

1.5.
Il danno è costituito:
   - dall’inutile pagamento della retribuzione a fronte di prestazioni lavorative non rese dall’interessato e falsamente attestate dal medesimo;
   - dalla fruizione di buoni pasto, pur in mancanza dei requisiti contrattuali all’uopo previsti;
   - dalla necessità di dedicare risorse umane alla individuazione ed alla elaborazione delle alterazioni perpetrate dal dipendente.
Ai fini della liquidazione del danno, devono essere senz’altro utilizzati i tabulati prodotti in giudizio dalla Procura, come rettificati (nella colorazione di alcune celle e nel calcolo finale) a seguito dell’ordinanza istruttoria di questa Corte. Essi ricostruiscono, al centesimo, in maniera ineccepibile, la retribuzione indebitamente pagata al dipendente per effetto delle dolose alterazioni delle presenze. La validità del prospetto e la congruità del calcolo proposto da parte attrice, a seguito dei chiarimenti forniti dall’INPS, non è scalfita neppure in parte dalle difese di parte convenuta.

Congrua è anche la liquidazione del danno da “disservizio”, tenuto conto della dimensione dell’illecito (perpetrato, per di più, in orario di servizio) e dell’enorme mole di dati da verificare e rielaborare. Né può condividersi la tesi difensiva della corresponsabilità dell’amministrazione, alla quale non può addebitarsi alcun concorso di colpa nella sua qualità di vittima del reato.
Giova ricordare che la risarcibilità della voce di danno in parola è ammessa dalla ormai consolidata giurisprudenza della Corte dei conti (ex multis, cfr. Sez. Prima, sent. 421 del 26.07.2012; Sez. Seconda, sent. 295 dell'11.05.2012; Sez. Terza, sent. 545 del 14.09.2010), cui ha aderito da ultimo anche questa Sezione (sentenze nn. 370/2012, 377/2012 e successive; da ultimo, cfr. ad esempio n. 47/2017).
Al riguardo, si è precisato che questa particolare figura di nocumento, ormai ampiamente elaborata dalla giurisprudenza contabile, <<si risolve nel pregiudizio –ulteriore rispetto al “danno patrimoniale diretto”- recato dalla condotta illecita del dipendente al corretto funzionamento dell’apparato pubblico, concretandosi, ad esempio, in una o più delle seguenti fattispecie: mancato conseguimento della legalità, della efficienza, della efficacia, della economicità e della produttività dell’azione e della attività di una Pubblica Amministrazione (Sez. giur. reg. Umbria, sent. n. 346 del 28.09.2005); dispendio di energie per la ricostruzione di contabilità mancanti o contraffatte (Sez. giur. reg. Marche, sent. n. 18 dell’11.01.2005); costo sostenuto dall’amministrazione per accertare e contrastare gli effetti negativi sull’organizzazione delle strutture e degli uffici in conseguenza di comportamenti dolosi di un dipendente (Sez. giur. reg. Marche, sent. n. 195 del 10.03.2003); costi sostenuti per il ripristino della funzionalità dell’ufficio (Sez. giur. reg. Sicilia, sent. n. 881 del 20.05.2002); mancato conseguimento del buon andamento dell’azione pubblica (Sez. giur. reg. Umbria, sent. n. 511 del 29.11.2001); dispendio di risorse umane e di mezzi strumentali pubblici (Sezione II centrale di appello, sent. n. 125 del 10.04.2000)>> (così, da ultimo, Sez. Emilia Romagna, sent. 210 del 06.09.2012; v. anche Sez. Piemonte, sent. 11 del 13.01.2011; Id., sent. 77 dell'11.05.2011).
Ancora,
si è ammessa la risarcibilità della spesa specificamente affrontata dall’amministrazione per ricostruire, revisionare e rielaborare le pratiche oggetto di procedimento penale, o comunque per riparare alle disfunzioni amministrative conseguenti alla condotta illecita del dipendente (tra cui, ad esempio: spese di missione e di trattamento salariale del personale auditing; spese di missione dei funzionari inviati in sostituzione e supporto; spese relative alla quota di stipendio destinata alla trattazione della pratica; spese postali e di cancelleria; cfr. Sez. Prima Appello, sent. 641 del 09.05.2014, richiamata in Sez. Abruzzo, sent. 90 del 09.10.2015).
Ciò posto, ai fini della liquidazione del “disservizio”, nella concreta fattispecie assume rilievo il comprovato dispendio di risorse pubbliche cagionato dalle successive attività di individuazione e repressione dell’illecito, come documentate in atti, per tacere dell’attività lavorativa dedicata dal convenuto allo svolgimento di attività illecite anziché per l’espletamento dei propri compiti d’ufficio.
Sulla base dei parametri appena indicati, la stima di euro 4.962,24 indicata in citazione appare, come già osservato, ampiamente congrua ed equa. Per praticità di calcolo, nella suddetta somma, equitativamente determinata, può darsi per ricompresa la rivalutazione monetaria fino alla data della presente sentenza, arrotondando l’importo in euro 5.100,00.
1.6. Può, tuttavia, riconoscersi una limitata riduzione dell’addebito, in accoglimento delle istanze difensive, in relazione ai vantaggi comunque conseguiti dall’amministrazione per quelle ore di servizio effettivamente prestate dal dipendente (come attestato dal sistema di rilevazione delle presenze) ma non computate in quanto verosimilmente inferiori rispetto alla soglia minima giornaliera di 3 ore e 36 minuti o ricadenti al di fuori della fascia oraria prevista contrattualmente (come esaustivamente chiarito dall’INPS nei documenti versati in giudizio).
Un margine di arrotondamento prudenziale può essere eccezionalmente riconosciuto anche a fronte di quelle giornate (interamente addebitate al dipendente in quanto ritenute invalide) per le quali consta solo l’entrata o solo l’uscita, ma non la correlata uscita o entrata, non potendosi quindi ricostruire con certezza l’effettivo orario di lavoro osservato dal dipendente e dovendosi procedere in via equitativa ex art. 1226 del codice civile. Ugualmente è a dirsi per le interruzioni della pausa pranzo, alcune delle quali recanti la sola timbratura iniziale o finale (computate perciò dall’INPS tutte indistintamente nella misura massima di due ore, a prescindere dalla reale durata, non più ricostruibile in via analitica).
Al riguardo, ritiene la Sezione che le prestazioni lavorative interessate, benché invalide ai fini del rapporto di lavoro e comportanti la perdita del correlato diritto alla retribuzione, con rilievo agli effetti disciplinari o del computo delle ferie, possano essere comunque valutate ai fini della liquidazione del danno, in quanto sostanziano comunque una prestazione lavorativa resa a vantaggio dell’amministrazione; prestazione che, come tale, in questa sede, appare eccezionalmente scomputabile dal calcolo del “danno” patito dall’amministrazione stessa.
Analogo discorso può farsi rispetto ai buoni pasto che, in applicazione di apposita previsione contrattuale vigente all’epoca dei fatti, sono stati recuperati in danno del dipendente per le giornate in cui questi, pur avendo abbondantemente superato il debito orario a tal fine giornalmente previsto, non aveva fatto constare la pausa pranzo con le timbrature di inizio e di fine della pausa. Motivi di equità suggeriscono, a fronte di tali peculiari circostanze, di poter scomputare dalla liquidazione del danno i buoni in parola, anche in considerazione delle favorevoli testimonianze raccolte nel coesistente processo dinanzi al giudice del lavoro.
In conclusione, alla luce delle predette circostanze e dopo attenta analisi dei tabulati versati in giudizio, possono essere portati a defalco del danno circa 200 buoni pasto (a fronte di giornate per le quali il debito orario era stato comunque integralmente assolto, al lordo della pausa, per il periodo complessivamente intercorrente dal 2004 al 2015), da valorizzarsi rispettivamente per l’importo di euro 10,28 e di euro 7 ciascuno, ratione temporis, per un totale complessivo arrotondato stimabile in euro 1.780,00.
Analogo discorso, per le ragioni dinanzi esposte, può farsi rispetto alle giornate invalide, riconoscendo in favore del dipendente un abbattimento prudenziale del 10% circa (valorizzabile, forfetariamente, in complessivi euro 600,00), nonché con riguardo al rimanente debito orario, a fronte di pause non ricostruibili con certezza, per un ulteriore importo complessivo di euro 1.120,00 determinato equitativamente.
L’insieme delle predette somme può essere portato a defalco dell’addebito, per una diminuzione totale di euro 3.500,00
2. Il convenuto va quindi condannato al pagamento, in favore dell’INPS, della somma di euro 34.785,50 (38.285,50-3.500,00) a titolo di danno patrimoniale; detto importo, comprensivo di componenti liquidate anche in via equitativa, può essere equitativamente elevato e arrotondato in euro 36.900,00 considerandolo già comprensivo della rivalutazione monetaria fino alla data della presente sentenza, per semplicità di calcolo.
Esso va poi aumentato della somma su indicata di euro 5.100,00 a titolo di danno da disservizio, per un totale conclusivo di euro 42.000,00 (quarantaduemila/00).
3. La somma di condanna, da intendersi già comprensiva di rivalutazione monetaria, va maggiorata degli interessi legali, dalla data della presente sentenza e fino al soddisfo, secondo legge.

SEGRETARI COMUNALIDanno erariale ridotto al segretario che sbaglia per «troppo lavoro».
L'ingiustificato aumento delle fatture di lavori di somma urgenza liquidati, senza la necessaria procedura prevista per i debiti fuori bilancio, rappresenta danno erariale da addebitare al responsabile del servizio.

La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regionale Abruzzo, con la sentenza 06.09.2018 n. 109 ha, tuttavia, mostrato clemenza nei confronti del segretario comunale in quanto oberato da troppi incarichi.
La vicenda
Un segretario comunale a scavalco di un Comune, cui erano state affidate anche le funzioni di responsabile dei lavori pubblici, è stato rinviato a giudizio contabile per aver liquidato fatture, a seguito di lavori affidati in somma urgenza per il rifacimento della rete idrica, senza procedere al riconoscimento del debito fuori bilancio, in assenza di impegni nell'anno di riferimento e per importi superiori a quelli affidati.
In particolare, ha osservato la Procura contabile, la violazione dell'articolo 191, comma 4, del Tuel sul riconoscimento del debito fuori bilancio non ha consentito al consiglio comunale di valutare l'utilità ricevuta, violando il principio contabile dell'impegno di spesa. Inoltre, le maggiori spese liquidate e richieste dalla società appaltatrice risultavano superiori agli importi dei lavori affidati all'inizio, senza alcuna verifica sulla correttezza degli importi maggiori successivamente richiesti.
La Procura, dall'importo complessivo ha, tuttavia, scomputato un valore pari al 40% in compresenza del parere del responsabile finanziario che aveva espresso il proprio parere positivo, per un importo di danno quantificato, a seguito della riduzione, in circa 6.577 euro. Secondo il convenuto, tuttavia, il suo comportamento è stato indirizzato al perseguimento dell'interesse pubblico; i pagamenti effettuati hanno permesso, in ogni caso, di evitare la richiesta dei danni che la rete idrica fatiscente e la strada dissestata e franata avrebbero causato.
La conferma del danno
Secondo i giudici contabili è indubbio che le spese sopportate dall'ente locale fossero maggiori di quelle inizialmente affidate alla ditta, ma la colpa grave è consistita anche nella violazione delle cogenti norme di carattere amministrativo-contabile e sulle somme pagate praticamente «sulla fiducia», in difetto di una rituale constatazione della effettiva natura e della regolare esecuzione delle prestazioni fatturate.
In altri termini, non può non essere addebitato al segretario comunale la corretta procedura che avrebbe dovuto essere effettuata per i mancati impegni di spesa e, soprattutto, del riconoscimento del debito fuori bilancio e dell'accertamento di effettiva utilità da parte del consiglio comunale dei lavori effettuati.
La riduzione disposta dal collegio contabile
Accertato il danno erariale, per oggettiva responsabilità del segretario comunale, tuttavia, il danno quantificato dalla Procura deve essere sostanzialmente ridotto, con massima ampiezza del potere attribuito alla Corte dei conti.
Nel caso di specie, precisa il Collegio contabile abruzzese, oltre all'abbattimento già disposto dalla Procura in merito alla compartecipazione del danno da parte del responsabile finanziario, militano per altre riduzioni anche la condizione lavorativa del segretario comunale impegnato «a scavalco» in più enti locali contemporaneamente e onerato della responsabilità del servizio Lavori Pubblici presso il Comune cui il danno è stato recato.
Queste condizioni impongono una riduzione pari a circa il 70% del danno lui attribuito, mediante un importo addebitabile di 2.000 euro rispetto ai 6.577 del danno complessivo attribuito (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 13.09.2018).
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MASSIMA
L’azione di responsabilità è fondata, nei termini di seguito indicati.
Sostanzialmente incontestati i fatti di causa, per la parte che assume rilievo ai fini del decidere,
sussistono tutti gli elementi costitutivi della responsabilità amministrativo-contabile.
Il convenuto era, all’epoca dei fatti, in rapporto di servizio con una pubblica amministrazione, nella sua qualità di Segretario Comunale e responsabile del servizio Lavori Pubblici del Comune di Bomba (CH).
Il danno è costituito dall’aggravio di spesa sopportato dall’ente locale in relazione alla liquidazione e al pagamento di fatture in violazione delle cogenti norme di carattere amministrativo-contabile richiamate in citazione ed indicate in narrativa; si tratta, in buona sostanza, di somme pagate praticamente “sulla fiducia”, in difetto di una rituale constatazione della effettiva natura e della regolare esecuzione delle prestazioni fatturate, divergenti in aumento rispetto ai preventivi originariamente assentiti, nonché in mancanza non solo dei correlati impegni di spesa, ma anche del riconoscimento del debito fuori bilancio e dell’accertamento di effettiva utilità per l’ente dei lavori stessi.
Né vale per il convenuto eccepire la mancata prova della “disutilità” delle opere realizzate o dell’assenza di causa dei pagamenti; a fronte delle contestate violazioni e dell’assenza dei formali provvedimenti di riconoscimento del debito e di accertamento dell’utilità, nonché in mancanza dei verbali di regolare esecuzione dei lavori eseguiti, cioè in difetto delle documentate procedure di legge, grava su di lui l’onere di dare adeguata dimostrazione del fatto che le irregolarità in parola non hanno prodotto alcun danno in concreto, cioè che i pagamenti possano essere giustificati sul piano sostanziale.
A fronte di pagamenti non giustificati secondo le procedure di legge, grava sulla Procura l’onere di provare l’esecuzione del pagamento in assenza dei presupposti di legge, mentre il convenuto dovrà dimostrare, in via d’eccezione, il sostanziale buon esito della spesa, non potendosi pretendere dalla Procura la prova negativa della assenza di utilità della spesa stessa.
L’elemento soggettivo della colpa grave, in capo al convenuto, è reso evidente dalla violazione di elementari norme in materia di assunzione degli impegni di spesa e di esecuzione dei lavori pubblici, come puntualmente ricostruito nell’atto di citazione; al riguardo, la Sezione condivide ed intende far integralmente proprie le considerazioni svolte dal Pubblico Ministero.
Il nesso causale è insito nella diretta consequenzialità tra la negligente condotta del convenuto (che, nella sua duplice veste di Segretario e di responsabile del servizio Lavori Pubblici avrebbe dovuto sovrintendere ai lavori in questione e non avrebbe dovuto liquidare le fatture in mancanza dei presupposti di legge) e l’esborso sostenuto.
Sussistono, peraltro, nella fattispecie i presupposti per concedere una cospicua riduzione dell’addebito, esercitando con la massima ampiezza il potere in tal senso intestato alla Corte dei conti.
Invero, nel caso in questione, per quanto gravemente rimproverabile appaia il comportamento del convenuto, deve tenersi conto anche del fatto che si è trattato di una vicenda problematica, efficacemente descritta nella memoria di costituzione, connotata dalla indifferibilità, urgenza e difficoltà dei lavori, nonché dalla sussistenza di una previa ordinanza sindacale che ne disponeva l’immediata esecuzione con oneri a carico del bilancio successivo; v’era, in più, il parere favorevole della responsabile dei servizi finanziari (per cui il Pubblico Ministero ha già riconosciuto lo scomputo di una quota del 40% dell’addebito).
E’ altresì verosimile che, in mancanza di evidenze specifiche ed incontrovertibili sul punto, le spese eseguite possano essere andate almeno in parte a vantaggio della collettività amministrata.
Va considerata, ancora, la peculiare situazione del convenuto Segretario comunale (della cui buona fede peraltro non si è mai dubitato) impegnato “a scavalco” in più enti locali contemporaneamente e onerato della responsabilità del servizio Lavori Pubblici presso il Comune di Bomba all’epoca dei fatti.
Da ultimo, rilevano ragioni di equità.
La stessa Procura Regionale, in citazione, ha espresso parere favorevole all’accesso al rito monitorio ed ha indicato, in via subordinata, un danno di circa 2.300 euro, nell’eventualità che fosse accertata l’utilità per l’ente dei lavori eseguiti.
Tutto ciò premesso e considerato, si ritiene di poter determinare in complessivi euro 2.000,00 (da intendersi già comprensiva di accessori fino alla data della sentenza) l’importo del danno da porre concretamente a carico del convenuto. Spettano interessi legali dalla sentenza al saldo.

PUBBLICO IMPIEGONiente danno erariale se l’avvocato civico devolve parte dell’onorario al personale amministrativo.
L'avvocatura civica «dribbla» i rilievi della Procura contabile e del ministero dell’Economia e delle Finanze sul danno erariale per illegittimità di un regolamento di un ente locale che aveva previsto la devoluzioni di parte dei compensi dei propri avvocati interni al personale amministrativo, nonché per il pagamento di un compenso per lo svolgimento di arbitro in un procedimento secondo quanto stabilito dall’articolo 814 del codice di procedura civile.
In un primo momento, il Mef aveva giudicato illegittime le erogazioni disposte e, successivamente, la Procura contabile aveva rinviato a giudizio di conto il coordinatore dell'avvocatura (insieme al segretario generale) per la prima posta di danno, e gli avvocati civici sia per la liquidazione degli importi al personale amministrativo sia per la liquidazione del compenso all'avvocato nominato arbitro.
La Corte dei conti, Sezione giurisdizionale della Puglia, con la sentenza 03.09.2018 n. 615, ha giudicato destituiti di fondamento i rilievi della Procura.
Sui compensi al personale amministrativo
Il regolamento, a firma del responsabile dell'avvocatura interna e del segretario generale, disciplina la possibilità che fino al 20% dell'onorario previsto per l'avvocato possa essere devoluto, su espressa richiesta del professionista stesso, a un collaboratore amministrativo per l'espletamento di incombenze per le quali non era richiesta espressamente l'opera di un professionista.
La relazione sulla verifica amministrativo-contabile, effettuata dal dirigente dei servizi ispettivi di finanza pubblica, ha giudicato illegittima la liquidazione disposta dagli avvocati, a valere sui loro compensi professionali, al personale amministrativo. Questi rilievi erano risultati sufficienti alla Procura contabile per il rinvio a giudizio sia dei dipendenti che avevano stilato il regolamento sia per gli avvocati che ne avevano liquidato i compensi.
Secondo al Procura contabile, infatti, l'erogazione al di fuori del perimetro contrattuale avrebbe sottratto compensi dovuti in via esclusiva al professionista avvocato, in palese violazione delle disposizioni che prevedono l'inderogabilità dei diritti che derivano dal rapporto di lavoro. Infatti, le rinunzie e le transazioni sui diritti del prestatore di lavoro sono nulle in base all’articolo 2113 del codice civile se non sono rese nell'ambito dei procedimenti previsti dallo stesso articolo 2113 e, a ogni buon conto, non possono essere soggetti a rinuncia gli obblighi previdenziali e assistenziali.
Di diverso avviso il collegio contabile secondo cui, nel caso di specie, mancherebbe l'attualità del danno. Infatti, posto che l'ente avrebbe dovuto comunque erogare a favore degli avvocati interni, la circostanza che una parte dell’importo sia stato liquidato a un diverso dipendente del settore dell’avvocatura non determina alcun danno finanziario concreto e attuale per l'Amministrazione stessa, di qui l'inammissibilità della domanda della Procura.
Sui compensi per gli arbitri
Sull'altra posta di danno erariale, avendo restituito gli importi percepiti, gli avvocati convenuti hanno chiesto la dichiarazione di mancanza dell'interesse da parte della Procura. Il collegio contabile, pur prendendo atto della restituzione delle somme, evidenzia che la nomina di un arbitro esterno avrebbe in ogni caso determinato un esborso più elevato per l'ente.
Nel caso di specie, l'ordinanza dell'ente che decide sul ricorso degli arbitri, in ordine al compenso loro spettante, ha infatti natura giurisdizionale ed è pertanto idonea a far ritenere che spettino ai legali dell'ente i compensi erogati per l'attività prestata nell'ambito del procedimento disciplinato dall’articolo 814 del codice di procedura civile.
Sulla natura giurisdizionale del provvedimento di liquidazione dei compensi si è già espressa la Suprema Corte a Sezioni unite nella sentenza n. 25045/2016dove ha affermato che «il procedimento speciale previsto dall'art. 814 c.p.c., quale via alternativa al processo ordinario, necessariamente effettua un accertamento che coinvolge diritti avendone la medesima natura giurisdizionale. Tale natura del resto non potrebbe essere negata in ragione delle forme semplificate che lo contraddistinguono, poiché l'utilizzo di procedimenti sommari non esclude la loro funzione di risolvere una controversia tra parti contrapposte» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 14.09.2018).

PUBBLICO IMPIEGO: Il patteggiamento basta per il danno erariale.
Con la sentenza 03.09.2018 n. 138 la Corte dei conti per il Veneto ha esaminato il caso di un pubblico impiegato che in occasione di verifiche fiscali, avrebbe posto in essere condotte tali da indurre i soggetti verificati a corrispondergli somme di denaro in cambio di un «alleggerimento» dei reports delle verifiche.
La Corte dei Conti veneta, acquisiti gli atti del procedimento penale, ha ritenuto che la sentenza di «patteggiamento», divenuta irrevocabile, costituisca adeguato presupposto per l'esercizio dell'azione per il risarcimento del danno erariale: ai sensi del comma 1-bis dell'art. 445 cpp, la sentenza prevista dall'art. 444 cpp è equiparata a sentenza di condanna. In sostanza, pur non essendo precluso al giudice contabile l'accertamento e la valutazione dei fatti in modo difforme da quello contenuto nella sentenza pronunciata ai sensi dell'art. 444 cpp, nondimeno questa assume valore qualificato di prova.
La Corte di cassazione con sentenza Sez. III, n. 2695 del 2017 ha chiaramente esposto che la sentenza penale di applicazione della pena ai sensi degli artt. 444 e 445 cpp pur non implicando un accertamento capace di fare stato nel giudizio (civile), contiene pur sempre una ipotesi di responsabilità di cui il giudice di merito non può scartare le risultanze senza appropriata e analitica motivazione.
Segnatamente, a giudizio della Corte di cassazione sent. n. 3980/2016, la sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 cpp pur non configurando una sentenza di condanna, presuppone in sostanza una ammissione di colpevolezza, sicché esonera la controparte dall'onere della prova e costituisce un fondamentale elemento di prova per il giudice di merito, il quale, ove intenda discostarsene, ha il dovere di esporre le ragioni per cui l'imputato avrebbe (sorprendentemente) ammesso una propria insussistente responsabilità, e d'altra parte, il giudice penale abbia prestato fede a una tale ammissione, pur destituita di valido e incontrovertibile fondamento.
Di talché, nell'ambito del giudizio di responsabilità erariale, la prova della condotta e del danno che ne consegue, ben può essere desunta anche da sentenza di «patteggiamento» concessa nei termini e limiti di cui all'art. 444 cpp su richiesta dell'imputato e del pubblico ministero. Piuttosto essa assume speciale valore probatorio, valicabile esclusivamente attraverso prove significativamente qualificate e pertinenti (articolo ItaliaOggi del 21.09.2018).

PUBBLICO IMPIEGOCorruzione, danno all'immagine. Corte dei Conti.
Con sentenza 13.07.2018 n. 148 la Corte dei conti Lombardia condanna un ex dipendente di un comune alle porte di Milano, macchiatosi del reato di corruzione, al risarcimento del danno all'immagine, quantificato in 20.000 €.
La vicenda inizia nel febbraio 2010 quando la Direzione investigativa antimafia arrestava politici, funzionari pubblici ed esponenti della criminalità organizzata calabrese che avevano dato vita a un sistema corruttivo consolidato, funzionale all'ottenimento da parte delle imprese edili in odore di 'ndrangheta di favori, autorizzazioni, concessioni, fino a incarichi di consulenza alla stessa pubblica amministrazione.
Nella sentenza penale di condanna era stato accertato che l'ex dipendente otteneva da una società facente capo ai corrotti la ristrutturazione di un immobile di sua proprietà, consapevole di non aver la possibilità di sostenerne le spese, ma offrendo in cambio al corruttore la modifica delle conclusioni di una relazione idrogeologica di un piano di lottizzazione.
Il procuratore contabile chiedeva l'applicazione del comma 62 della legge 190/2012 (cd: Anticorruzione), che quantifica l'entità del danno all'immagine causato alla pubblica amministrazione dall'attività corruttiva nel doppio della provvista percepita dal corrotto pubblico ufficiale. La Corte non accettava la richiesta, valutando insormontabile il principio di irretroattività delle leggi penali sfavorevoli.
Tuttavia il giudice considerava provato il pretium sceleris dell'attività corruttiva, concretizzatosi nell'utilità della ristrutturazione dell'unità immobiliare di proprietà del corrotto. Aggiungeva però che la circostanza che gli fosse stata confiscata una somma addirittura superiore e che il convenuto avesse restituito all'impresa parte del corrispettivo dei lavori, consentiva di quantificare il danno all'immagine arrecato al comune in 20.000 euro (articolo ItaliaOggi del 14.09.2018).

APPALTI: Debiti fuori bilancio: il danno erariale per omesso impegno di spesa.
Il debito fuori bilancio è un’obbligazione verso terzi per il pagamento di una determinata somma di danaro che grava sull’ente pubblico, assunta in violazione delle norme giuscontabili che regolano i procedimenti di spesa degli enti interessati: esso consiste, dunque, in un’obbligazione perfezionatasi nell'ordinamento civilistico indipendentemente da una specifica previsione di bilancio, in violazione pertanto delle norme che disciplinano il procedimento di spesa, e che sussiste pur in assenza di specifico impegno contabile.

Sulla base di tale premessa la Corte dei Conti, Sez. I giurisdizionale centrale, nella sentenza del 18.01.2016 n. 22 ha ritento priva di pregio la pretesa sollevata da un dirigente di un Consiglio Regionale -condannato in primo grado al risarcimento dei maggiori oneri (interessi e spese di giudizio) connessi con l’assunzione di due obbligazioni contrattuali con altrettante ditte private in assenza di impegno di spesa, con successiva necessità di riconoscimento dei relativi debiti fuori bilancio- di far ritenere superfluo il predetto adempimento contabile (assunzione dell’impegno di spesa, successiva liquidazione del dovuto, ordinazione e pagamento al terzo debitore).
"L’esistenza di una contabilità sia pure “elastica” (com’è stata definita) per le spese del Consiglio regionale, certo non rende meno doverosi i vari passaggi procedurali giuscontabili, per quanto semplificati li si voglia ritenere, pena l’impossibilità per gli amministratori di conoscere con esattezza, di volta in volta, l’entità delle risorse a disposizione. Anzi, è proprio una tale basilare, quasi banale, considerazione che ha a suo tempo dato origine a tutte le norme in materia di divieto di gestioni fuori-bilancio e connessa necessità di far rientrare nell’alveo dell’ordinaria contabilità tutte le risorse gestite dagli enti pubblici, specie quelli territoriali".
Ad avviso della Corte, quindi, alcuna norma avrebbe potuto consentire l’assunzione di spese in difetto di previa assunzione del relativo impegno e della successiva, esatta liquidazione della stessa.
Aggiunge la Corte che neppure è sostenibile che anche se le spese liquidate avevano comunque la loro capienza in bilancio via sia l’irrilevanza dell’impegno di spesa, in quanto adempimento meramente formale. Sul punto la Corte richiama la pacifica giurisprudenza contabile, la quale ha costantemente sanzionato simili irregolarità nella gestione delle spese pubbliche in quanto “L'ordinazione irregolare di spese non deliberate nei modi di legge e prive altresì di impegno contabile … costituisce una violazione di elementari doveri di servizio, connotata altresì da colpa di rilevante gravità … ne consegue l'emersione, a seguito di vittorioso giudizio avviato dal creditore insoddisfatto, di danni pubblici corrispondenti alle spese aggiuntive per oneri accessori del credito e per la rifusione delle spese legali e che non possono, quindi, non fare carico all'irregolare ordinatore della spesa”.
Nel caso è stata proprio la carenza del regolare impegno di spesa a comportare incertezze, ritardi nei pagamenti, contenzioso con i privati e infine le maggiori, indebite spese per l’amministrazione regionale. Di qui il rigetto dell'appello con conferma della condanna inflitta in primo grado (commento tratto da www.ilquotidianodellapa.it).
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MASSIMA
1. Il dr. Mu. è stato condannato in primo grado al risarcimento dei maggiori oneri (interessi e spese di giudizio) connessi con l’assunzione di due obbligazioni contrattuali con altrettante ditte private in assenza di impegno di spesa, con successiva necessità di riconoscimento dei relativi debiti fuori bilancio.
Lamenta ora parte appellante l’erroneità della sentenza impugnata, la quale non avrebbe valutato: che l’assunzione di spese in carenza di atti di impegno era stata determinata dalle peculiari ed autonome modalità di gestione dell’amministrazione del consiglio regionale campano; che il danno non era stato determinato dalla carenza di impegno contabile ma dal mancato tempestivo utilizzo delle risorse disponibili per la copertura del debito; che alla realizzazione del danno avevano concorso altri soggetti non evocati in giudizio.
Tutti i su detti profili di gravame si appalesano infondati e devono, perciò, essere disattesi.
2. Per quel che riguarda il primo profilo di doglianza, occorre sia pur brevemente ricordare che
il debito fuori bilancio è un’obbligazione verso terzi per il pagamento di una determinata somma di danaro che grava sull’ente pubblico, assunta in violazione delle norme giuscontabili che regolano i procedimenti di spesa degli enti interessati (v., in proposito, la corretta definizione offerta dalla circolare del Ministero dell’Interno 20.09.1993, n. F.L.21/1993): esso consiste, dunque, in un’obbligazione perfezionatasi nell'ordinamento civilistico indipendentemente da una specifica previsione di bilancio, in violazione pertanto delle norme che disciplinano il procedimento di spesa, e che sussiste pur in assenza di specifico impegno contabile.
Ciò posto, si appalesa priva di pregio la pretesa di parte attrice di far ritenere superfluo il predetto adempimento contabile (assunzione dell’impegno di spesa, successiva liquidazione del dovuto, ordinazione e pagamento al terzo debitore): l’esistenza di una contabilità sia pure “elastica” (com’è stata definita) per le spese del Consiglio regionale della Campania, certo non rende meno doverosi i vari passaggi procedurali giuscontabili, per quanto semplificati li si voglia ritenere, pena l’impossibilità per gli amministratori di conoscere con esattezza, di volta in volta, l’entità delle risorse a disposizione.
Anzi, è proprio una tale basilare, quasi banale, considerazione che ha a suo tempo dato origine a tutte le norme in materia di divieto di gestioni fuori-bilancio e connessa necessità di far rientrare nell’alveo dell’ordinaria contabilità tutte le risorse gestite dagli enti pubblici, specie quelli territoriali.
E dunque, alcuna norma avrebbe potuto consentire l’assunzione di spese in difetto di previa assunzione del relativo impegno e della successiva, esatta liquidazione della stessa.
3.
Né, più in generale –per occuparsi dell’altro profilo di doglianza- potrebbe in alcun modo convenirsi con l’appellante, laddove egli (nell’evidenziare che le spese da lui liquidate avevano comunque la loro capienza in bilancio) sembra quasi sostenere l’irrilevanza dell’impegno di spesa, in quanto adempimento meramente formale: è sufficiente richiamare, in proposito, la pacifica giurisprudenza contabile, la quale ha costantemente sanzionato simili irregolarità nella gestione delle spese pubbliche: v., ex multis, oltre ai precedenti ricordati dal PM, Sezione II app., 15.04.2002, n. 127 (“L'ordinazione irregolare di spese non deliberate nei modi di legge e prive altresì di impegno contabile … costituisce una violazione di elementari doveri di servizio, connotata altresì da colpa di rilevante gravità … ne consegue l'emersione, a seguito di vittorioso giudizio avviato dal creditore insoddisfatto, di danni pubblici corrispondenti alle spese aggiuntive per oneri accessori del credito e per la rifusione delle spese legali e che non possono, quindi, non fare carico all'irregolare ordinatore della spesa”: proprio la fattispecie all’odierno esame del Collegio); id., 05.04.2002, n. 114; id., 18.03.2002, n. 85; Sezione giurisdizionale TTA-Trento, 02.07.2008, n. 34; id., 31.05.2006, n. 41; id., 05.04.2006, n. 24.
Nel caso, occorre ribadire, è stata proprio la carenza del regolare impegno di spesa (e non i fatti successivi) a comportare incertezze, ritardi nei pagamenti, contenzioso con i privati e infine le maggiori, indebite spese per l’amministrazione regionale.

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini del rilascio di un titolo abitativo edilizio, il Comune è obbligato a verificare il rispetto dei limiti privatistici solo a condizione che essi siano agevolmente conoscibili ovvero effettivamente conosciuti e non contestati.
In altre parole, in conformità all’interpretazione maggioritaria dell’art. 11 DPR 380/2001, la verifica del comune in ordine al rispetto della disciplina privatistica deve essere circoscritta a quei limiti “agevolmente conoscibili ovvero effettivamente conosciuti e non contestati”.
Infatti, non è concretamente esigibile un approfondimento da parte del comune di ogni singolo aspetto privatistico relativo ai rapporti tra condomini e di vicinato astrattamente idoneo a riflettersi sulla legittimazione del richiedente il titolo edilizio.
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7 - La censura è infondata.
Deve infatti osservarsi che l’appellante concentra l’appello su uno specifico passaggio della sentenza impugnata, inducendo a supporre che il TAR avrebbe rigettato il ricorso non perché le ricorrenti non avevano ottenuto il consenso del terzo confinante –su cui si basava il provvedimento sanzionatorio– ma perché “all’esito di apposito sopralluogo” era emerso che “le opere assoggettate a demolizione sono state eseguite a distanza inferiore a quella minima di metri cinque dalla proprietà della sig.ra Sa., ossia di un limite legale destinato ad investire anche il rapporto pubblicistico immediatamente conoscibile e sanzionabile da parte dell’ente locale”.
Tale prospettazione non è per nulla condivisibile, trascurando di considerare il significato complessivo della sentenza impugnata, la quale ha correttamente risposto al motivo di ricorso originariamente proposto dalle appellanti, senza alcuna violazione del principio tra il chiesto ed il pronunciato.
7.1 - Al riguardo, giova ricordare, come dedotto anche da parte appellante, che il provvedimento impugnato in prime cure è fondato sull’accertamento della mancata presentazione da parte delle ricorrenti del nulla osta del confinante.
In assoluta coerenza con la motivazione che giustifica il provvedimento impugnato, e con i motivi del ricorso, il TAR ha statuito che (testualmente): la legittimità del provvedimento adottato dall’Amministrazione trae fondamento normativo direttamente dalla previsione di cui all’art. 11 del d.p.r. n. 380/2001.
La sentenza prosegue precisando che: “ai fini del rilascio di un titolo abitativo edilizio, il Comune è dunque obbligato a verificare il rispetto dei limiti privatistici solo a condizione che essi siano agevolmente conoscibili ovvero effettivamente conosciuti e non contestati”.
In altre parole, il TAR, in conformità all’interpretazione maggioritaria dell’art. 11 cit., ha precisato che la verifica del comune in ordine al rispetto della disciplina privatistica deve essere circoscritta a quei limiti “agevolmente conoscibili ovvero effettivamente conosciuti e non contestati”. Infatti, non è concretamente esigibile un approfondimento da parte del comune di ogni singolo aspetto privatistico relativo ai rapporti tra condomini e di vicinato astrattamente idoneo a riflettersi sulla legittimazione del richiedente il titolo edilizio (Cfr. Cons. St., Sez IV, 30.12.2006 n. 8262; Cons. St. Sez VI, 20.12.2011 n. 6731; Cons. St. 26.01.2015 n. 316).
E’ in conseguenza di tale affermazione che il TAR ha poi rilevato che il mancato rispetto della distanza dalla proprietà confinante ledeva anche un limite legale, da ritenersi, pertanto, un limite “agevolemente conoscibile”, e dunque verificabile anche in sede amministrativa, da cui la legittimità del rilievo concernente il mancato assenso della proprietà confinante.
Il tenore della sentenza conferma appieno l’assunto che precede: “l’omessa acquisizione (del consenso) risulta essere stata accertata dall’Amministrazione comunale all’esito di sopralluogo da cui è emerso che le opere assoggettate a demolizione sono state eseguite a distanza inferiore a quella minima di metri cinque dalla proprietà della sig.ra Salvatori, ossia di un limite legale destinato ad investire anche il rapporto pubblicistico immediatamente conoscibile e sanzionabile da parte dell’ente locale”.
In definitiva, l’evidenziata circostanza che il mancato rispetto del limite legale potesse di per sé giustificare l’intervento comunale, non introduce affatto una considerazione ultronea rispetto all’oggetto della causa, così come delimitato dai motivi di ricorso; bensì, come detto, vale unicamente a sottolineare come, nel caso di specie, fosse necessario il consenso del proprietario confinante e che, tale limite di natura privatistica doveva essere indagato anche dal comune, in quanto “agevolmente conoscibile”, trattandosi per l’appunto di limiti derivanti direttamente da fonti pubblicistiche e non da accordi privatistici intercorsi tra le parti.
8 – Alla luce delle considerazioni che precedono, l’appello non deve trovare accoglimento; ne consegue la condanna di parte appellante alla refusione delle spese di lite, liquidate come in dispositivo (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 03.12.2018 n. 6860 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Prescrizione dell'ordine di demolizione del manufatto abusivo - Esclusione - Natura di sanzione amministrativa a carattere ripristinatorio - Giurisprudenza della Corte EDU - Art. 31 del d.P.R. n. 380/2001.
In materia di reati concernenti violazioni edilizie, l'ordine di demolizione del manufatto abusivo non è sottoposto alla disciplina della prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen. per le sanzioni penali, avendo natura di sanzione amministrativa a carattere ripristinatorio, priva di finalità punitive e con effetti che ricadono sul soggetto che è in rapporto col bene, indipendentemente dal fatto che questi sia l'autore dell'abuso.
...
Reati edilizi - Ordine di demolizione - Eventuale «disapplicazione» dell'atto amministrativo - Potere-dovere di verifica del giudice penale - Fattispecie: Sentenza passata in giudicato.
In tema di reati edilizi, il giudice penale ha il potere-dovere di verificare in via incidentale la legittimità del permesso di costruire in sanatoria e la conformità delle opere agli strumenti urbanistici, ai regolamenti edilizi ed alla disciplina legislativa in materia urbanistico-edilizia, senza che ciò comporti l'eventuale «disapplicazione» dell'atto amministrativo ai sensi dell'art. 5 della legge 20.03.1865 n. 2248, allegato E, atteso che viene operata una identificazione in concreto della fattispecie con riferimento all'oggetto della tutela, da identificarsi nella salvaguardia degli usi pubblici e sociali del territorio regolati dagli strumenti urbanistici.
Nella specie, il richiamo all'art. 5 dell'all. e) della legge 2248 del 1865 è del tutto inconferente, posto che l'ordine di demolizione deriva dalla sentenza passata in giudicato.
Peraltro, il diniego del condono edilizio non risultava neanche essere stato impugnato
(Cass. Sez. 3, n. 46477 del 13/07/2017, Menga)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.11.2018 n. 53661 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: Suddivisione dell’appalto pubblico in lotti.
La scelta della stazione appaltante circa la suddivisione in lotti di un appalto pubblico costituisce una decisione normalmente ancorata, nei limiti previsti dall’ordinamento, a valutazioni di carattere tecnico-economico.
In tali ambiti, il concreto esercizio del potere discrezionale dell’Amministrazione circa la ripartizione dei lotti da conferire mediante gara pubblica deve essere funzionalmente coerente con il bilanciato complesso degli interessi pubblici e privati coinvolti dal procedimento di appalto e resta delimitato, oltre che dalle specifiche norme del codice dei contratti, anche dai principi di proporzionalità e di ragionevolezza.
In definitiva, la scelta della stazione appaltante se suddividere o meno l’appalto in più lotti e, a maggior ragione, la scelta di cosa inserire nel singolo lotto non è suscettibile di essere censurata per ragioni di mera opportunità, ma solamente per vizi sintomatici di eccesso di potere, nelle forme della carenza dell’istruttoria, della irragionevolezza e non proporzionalità
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 29.11.2018 n. 2688 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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In linea generale, va ricordato che «la scelta della stazione appaltante circa la suddivisione in lotti di un appalto pubblico, costituisce […] una decisione normalmente ancorata, nei limiti previsti dall’ordinamento, a valutazioni di carattere tecnico-economico.
In tali ambiti, il concreto esercizio del potere discrezionale dell’Amministrazione circa la ripartizione dei lotti da conferire mediante gara pubblica deve essere funzionalmente coerente con il bilanciato complesso degli interessi pubblici e privati coinvolti dal procedimento di appalto e resta delimitato, oltre che dalle specifiche norme […] del codice dei contratti, anche dai principi di proporzionalità e di ragionevolezza
» (così, C.d.S., Sez. III, sentenza n. 5224/2017).
In definitiva, la scelta della stazione appaltante se suddividere o meno l’appalto in più lotti e, a maggior ragione, la scelta di cosa inserire nel singolo lotto non è suscettibile di essere censurata per ragioni di mera opportunità, ma solamente per vizi sintomatici di eccesso di potere, nelle forme della carenza dell’istruttoria, della irragionevolezza e non proporzionalità (cfr., C.d.S., Sez. V, sentenza n. 2044/2018).

COMPETENZE PROGETTUALI: Gli architetti non hanno non hanno competenze riconosciute in materia di opere idrauliche, la quali sono riservate ai soli ingegneri.
E' ancora attuale la giurisprudenza di questo Consiglio che ha ritenuto che la progettazione delle opere viarie, idrauliche ed igieniche, che non siano strettamente connesse con i singoli fabbricati, sia di pertinenza degli ingegneri, in base all'interpretazione letterale, sistematica e teleologica degli artt. 51, 52 e 54 del R.D..
In particolare, sono ancora attuali le considerazioni già svolte -a proposito delle opere idrauliche- secondo cui nell’ampia e comprensiva formulazione dell'art. 51 del R.D. 23.10.1925 n. 2537 (“sono di spettanza della professione d’ingegnere il progetto, la condotta e la stima dei lavori per estrarre trasformare ed utilizzare i materiali direttamente od indirettamente occorrenti per le costruzioni e per le industrie, dei lavori relativi alle vie ed ai mezzi di trasporto di deflusso e di comunicazione, alle costruzioni di ogni specie, alle macchine ed agli impianti industriali, nonché, in generale, alle applicazioni della fisica, i rilievi geometrici e le operazioni di estimo") “sono ricomprese le costruzioni stradali, le opere igienico-sanitarie (acquedotti, fognature ed impianti di depurazione), gli impianti elettrici, le opere idrauliche e, di certo, anche le opere di edilizia civile (nella espressione "costruzioni di ogni specie”)”
Con la precisazione che -tenuto conto di quanto previsto dall’art. 52, comma 1 (“Formano oggetto tanto della professione di ingegnere quanto di quella di architetto le opere di edilizia civile, nonché i rilievi geometrici e le operazioni di estimo ad esse relative”) dello stesso Regio Decreto- “non sembra corretto sostenere, su tali basi normative, che la regola da valere, salvo eccezione espressamente individuata, sia quella della equivalenza delle competenze professionali di ingegneri ed architetti”.
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Pur dovendosi riconoscere che la delimitazione di competenze risultante dalla normativa secondaria è basata su concetti di carattere descrittivo che consentono di adeguare la disciplina all’evoluzione della tecnica e delle qualificazioni professionali, il discrimine tra le due professioni è rimasto segnato anche nelle sopravvenute disposizioni del d.P.R. n. del 2001.
Pertanto, se adeguamenti sono certamente possibili in riferimento al concetto di “edilizia civile”, interpretabile estensivamente, restano di appannaggio della professione di ingegnere le opere che richiedono una competenza tecnica specifica e che esulano dall’edilizia civile rientrante nella comune competenza.
In particolare, le opere idrauliche, in specie interferenti con fiumi e corsi d’acqua, quali quelle oggetto dell’appalto de quo, richiedono capacità professionali per l’analisi dei fenomeni idrologici ed idraulici e presuppongono l’applicazione di specifici metodi di calcolo (statistico, idrologico e idraulico).
Le nozioni relative vengono impartite nei corsi di laurea universitari della classe della Ingegneria civile e ambientale, nei cui piani di studio sono inseriti –come esposto anche nella relazione del verificatore- gli insegnamenti riguardanti i settori scientifico disciplinari ICAR/01 “Idraulica” e ICAR/02 “Costruzioni idrauliche e Marittime e Idrologia” (D.M. Miur 04.10.2000).
Pertanto, fatte salve eventuali competenze di altri professionisti (come ad esempio i geologi o i dottori agronomi e forestali), per quanto qui rileva, gli ingegneri sono i professionisti abilitati alla progettazione di opere idrauliche fluviali e di corsi d’acqua, o comunque di opere a questa progettazione assimilate o collegate, tanto da richiedere l’applicazione di calcoli idraulici; per contro, gli architetti non possono essere compresi tra i soggetti abilitati alla progettazione di opere idrauliche in quanto, sia ai sensi degli artt. 51 e 52 del R.D. 23.10.1925, n. 2537 sia ai sensi dell’art. 16 del d.P.R. 05.06.2001, n. 328, non hanno competenze riconosciute in materia.
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6. In risposta al secondo quesito –che è stato formulato tenendo conto di quanto dedotto col terzo motivo di gravame a proposito del superamento, per gli attuali percorsi formativi universitari, della ripartizione di competenze di cui agli artt. 51 e 52 del R.D. n. 2537 del 1925- il verificatore ha dato atto che “i curricula di studio dei laureati in architettura non contengono alcun insegnamento delle discipline idrauliche, settori ICAR/01 e ICAR/02” ed ha aggiunto che tra i due corsi di laurea vi è diversità di “approccio metodologico generale”, pur riconoscendo che l’autonomia degli atenei “permetta differenziazioni anche significative nello stesso corso di laurea tra atenei diversi”.
Quindi, in riferimento all’ateneo presso il quale ha conseguito la laurea magistrale il tecnico sottoscrittore dell’offerta tecnica dell’aggiudicataria, ha concluso nel senso che -anche tenuto conto della “zona di confine ambiguo” rappresentata dalla c.d. ingegneria naturalistica- essendo comunque previsti nel caso di specie interventi attinenti “l’idraulica fluviale”, il laureato in architettura era privo delle necessarie competenze, anche se in possesso di laurea specialistica della classe 4S (Architettura e Ingegneria Edile) di cui all’allegato 1 del D.M. 28.11.2000.
6.1. Le conclusioni raggiunte dal verificatore sono coerenti con la normativa di riferimento.
Considerate le deduzioni dell’appellante, è opportuno prendere le mosse dal D.P.R. 05.06.2001, n. 328 (Modifiche ed integrazioni della disciplina dei requisiti per l’ammissione all’esame di Stato e delle relative prove per l’esercizio di talune professioni, nonché della disciplina dei relativi ordinamenti), che è stato emanato proprio al fine di tenere conto dei nuovi percorsi formativi di accesso (lauree e lauree specialistiche) alla diverse professioni e di differenziare, in base a tali percorsi, sia le attività professionali consentite a ciascuna categoria professionale che i requisiti di ammissione agli esami di Stato (cfr. Cons. Stato, V. n. 776/2016 cit.).
L’impianto normativo sopravvenuto -pur lasciando fermo l’ambito stabilito dalla previgente normativa in ordine alle attività attribuite o riservate, in via esclusiva o meno, a ciascuna professione (art. 1, comma 2)- prevede, quanto alle attività professionali (art. 9):
   - per la professione di architetto (art. 16), in possesso di laurea specialistica (sezione A dell’Albo) – settore architettura (unico rilevante nella specie), che “formano oggetto dell’attività professionale … ai sensi e per gli effetti dell’art. 1, comma 2, restando immutate le riserve e attribuzioni già stabilite dalla vigente normativa, le attività già stabilite dalle disposizioni vigenti nazionali ed europee per la professione di architetto, ed in particolare quelle che implicano l’uso di metodologie avanzate, innovative o sperimentali”;
   - per la professione di ingegnere (artt. 45-46), in possesso di laurea specialistica (sezione A dell’Albo) –iscritti al settore a (sezione degli ingegneri- settore civile e ambientale), che le attività professionali che formano oggetto della professione sono: “la pianificazione, la progettazione, lo sviluppo, la direzione lavori, la stima, il collaudo, la gestione, la valutazione di impatto ambientale di opere edili e strutture, infrastrutture, territoriali e di trasporto, di opere per la difesa del suolo e per il disinquinamento e la depurazione, di opere geotecniche, di sistemi e impianti civili e per l’ambiente e il territorio”.
6.2. Orbene, tale normativa sull’assetto degli ordinamenti professionali, in relazione ai percorsi formativi di nuova istituzione, conclusi rispettivamente con laurea triennale o con laurea magistrale, conserva la ripartizione delle competenze tra architetti e ingegneri risultante dagli artt. 51 e 52 del R.D. 23.10.1925, n. 2537 (Regolamento per le professioni d’ingegnere e di architetto) e succ. mod..
Si tratta infatti di normativa secondaria (peraltro, nell’insieme, ripetutamente modificata e integrata da leggi e decreti successivi), non solo espressamente mantenuta in vigore dal menzionato art. 1 del d.P.R. n. 328 del 2001, oltre che dagli artt. 16 (per gli architetti) e 46, comma 2 (per gli ingegneri iscritti alla sezione A), ma compatibile col nuovo assetto degli studi, perciò tuttora applicabile (come, d’altronde, riconosciuto anche da diversi precedenti giurisprudenziali, tra cui Cons. Stato, IV, 05.06.2009, n. 4866 e id., VI, 15.03.2013, n. 1550).
6.3. Allora, è ancora attuale la giurisprudenza di questo Consiglio, richiamata nella sentenza appellata, che ha ritenuto che la progettazione delle opere viarie, idrauliche ed igieniche, che non siano strettamente connesse con i singoli fabbricati, sia di pertinenza degli ingegneri, in base all'interpretazione letterale, sistematica e teleologica degli artt. 51, 52 e 54 del R.D. (cfr. sez. V, 06.04.1998, n. 416; sez. IV, 19.02.1990, n. 92; sez. III, 11.12.1984, n. 1538; sez. IV, 22.05.2000, n. 2938).
In particolare, sono ancora attuali le considerazioni svolte a proposito delle opere idrauliche nella sentenza della Sezione IV, 06.04.1998, n. 416 che –richiamando la sentenza della sez. IV, n. 92 del 17.02.1990 ed il parere della sez. III, n. 1538 dell’11.12.1984- ha reputato che nell’ampia e comprensiva formulazione dell'art. 51 del R.D. 23.10.1925 n. 2537 (“sono di spettanza della professione d’ingegnere il progetto, la condotta e la stima dei lavori per estrarre trasformare ed utilizzare i materiali direttamente od indirettamente occorrenti per le costruzioni e per le industrie, dei lavori relativi alle vie ed ai mezzi di trasporto di deflusso e di comunicazione, alle costruzioni di ogni specie, alle macchine ed agli impianti industriali, nonché, in generale, alle applicazioni della fisica, i rilievi geometrici e le operazioni di estimo") “sono ricomprese le costruzioni stradali, le opere igienico-sanitarie (acquedotti, fognature ed impianti di depurazione), gli impianti elettrici, le opere idrauliche e, di certo, anche le opere di edilizia civile (nella espressione "costruzioni di ogni specie”)”
Con la precisazione che -tenuto conto di quanto previsto dall’art. 52, comma 1 (“Formano oggetto tanto della professione di ingegnere quanto di quella di architetto le opere di edilizia civile, nonché i rilievi geometrici e le operazioni di estimo ad esse relative”) dello stesso Regio Decreto- “non sembra corretto sostenere, su tali basi normative, che la regola da valere, salvo eccezione espressamente individuata, sia quella della equivalenza delle competenze professionali di ingegneri ed architetti”.
6.4. Pur dovendosi riconoscere che la delimitazione di competenze risultante dalla normativa secondaria è basata su concetti di carattere descrittivo che consentono di adeguare la disciplina all’evoluzione della tecnica e delle qualificazioni professionali (come osservato da Cons. Stato, IV, n. 4866/2009 e id., VI, n. 1550/2013 cit.), il discrimine tra le due professioni è rimasto segnato anche nelle sopravvenute disposizioni del d.P.R. n. del 2001.
Pertanto, se adeguamenti sono certamente possibili in riferimento al concetto di “edilizia civile”, interpretabile estensivamente (cfr. Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 21.01.2005, n. 9), restano di appannaggio della professione di ingegnere le opere che richiedono una competenza tecnica specifica e che esulano dall’edilizia civile rientrante nella comune competenza.
In particolare, le opere idrauliche, in specie interferenti con fiumi e corsi d’acqua, quali quelle oggetto dell’appalto de quo, richiedono capacità professionali per l’analisi dei fenomeni idrologici ed idraulici e presuppongono l’applicazione di specifici metodi di calcolo (statistico, idrologico e idraulico).
Le nozioni relative vengono impartite nei corsi di laurea universitari della classe della Ingegneria civile e ambientale, nei cui piani di studio sono inseriti –come esposto anche nella relazione del verificatore- gli insegnamenti riguardanti i settori scientifico disciplinari ICAR/01 “Idraulica” e ICAR/02 “Costruzioni idrauliche e Marittime e Idrologia” (D.M. Miur 04.10.2000).
Pertanto, fatte salve eventuali competenze di altri professionisti (come ad esempio i geologi o i dottori agronomi e forestali), per quanto qui rileva, gli ingegneri sono i professionisti abilitati alla progettazione di opere idrauliche fluviali e di corsi d’acqua, o comunque di opere a questa progettazione assimilate o collegate, tanto da richiedere l’applicazione di calcoli idraulici; per contro, gli architetti non possono essere compresi tra i soggetti abilitati alla progettazione di opere idrauliche in quanto, sia ai sensi degli artt. 51 e 52 del R.D. 23.10.1925, n. 2537 sia ai sensi dell’art. 16 del d.P.R. 05.06.2001, n. 328, non hanno competenze riconosciute in materia.
6.5. Giova aggiungere alla disamina normativa fin qui svolta che, a seguito della verificazione, si è anche accertato in concreto il piano di studi prescritto per il conferimento della laurea specialistica della classe 4S (Architettura e Ingegneria Edile) conseguita presso l’Università degli Studi di Napoli dall’architetto incaricato da Co.Ge.Par. s.r.l. e si è constatata la mancanza di specifici insegnamenti di discipline idrauliche.
7. In conclusione, è corretta la sentenza impugnata laddove, ritenendo violato da parte dell’aggiudicataria il punto XI.3 del bando, che imponeva, a pena di esclusione, la sottoscrizione degli elaborati da parte di un tecnico abilitato, ha concluso per l’illegittimità dell’aggiudicazione in favore di Co.Ge.Par. s.r.l., in quanto l’offerta tecnica di quest’ultima era sottoscritta da un architetto, mentre -per il contenuto delle proposte migliorative- avrebbe dovuto essere sottoscritta da un ingegnere.
Tale profilo di illegittimità avrebbe dovuto imporre alla stazione appaltante l’esclusione della concorrente poi divenuta aggiudicataria, tra l’altro, senza alcuna possibilità di soccorso istruttorio, trattandosi di criticità direttamente inerenti all’offerta.
L’appello va respinto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 21.11.2018 n. 6593 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Interesse a impugnare un PGT che classifica agricola un’area che il PTCP inserisce in un ambito agricolo di interesse strategico.
E' inammissibile per difetto di interesse a ricorrere un ricorso avverso la classificazione ad area agricola impressa da un PGT in quanto, stante l’inserimento di detta area in un più ampio ambito destinato all’attività agricola di interesse strategico secondo le Norme Tecniche del PTCP, deve escludersi che il Comune avesse la potestà di assegnare al fondo della ricorrente una destinazione urbanistica diversa da quella assegnata dal PTCP e, di conseguenza, la ricorrente non potrebbe ottenere alcun vantaggio dall’accoglimento del ricorso (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 21.11.2018 n. 2622 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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1. Il ricorso è inammissibile per carenza di interesse a ricorrere.
Il ricorrente contesta infatti la qualificazione agricola dell’area di sua proprietà imputando tale scelta ad errori di tipo sostanziale e procedurale compiuti dal Comune nella redazione della variante al PGT impugnata.
Dall’esame degli atti risulta invece che il compendio per cui è causa, secondo il PGT impugnato, ricade in una zona E non urbanizzata, Area per attività agricole disciplinata dall’art. 22 del PdR ed inserita in un più ampio ambito destinato all’Attività Agricola di Interesse Strategico secondo l’art. 6 delle Norme Tecniche del PTCP della Provincia di Monza e Brianza. Il PTCP è stato approvato con deliberazione del Consiglio Provinciale n. 16 del 10.07.2013, che non risulta impugnato nei termini con il presente ricorso.
In merito occorre rammentare che secondo l’art. 15, c. 4 e 5, della L.R. 12/2005 “Il PTCP, acquisite le proposte dei comuni, definisce, in conformità ai criteri deliberati dalla Giunta regionale, gli ambiti destinati all’attività agricola di interesse strategico, analizzando le caratteristiche, le risorse naturali e le funzioni e dettando i criteri e le modalità per individuare a scala comunale le aree agricole, nonché specifiche norme di valorizzazione, di uso e di tutela, in rapporto con strumenti di pianificazione e programmazione regionali, ove esistenti. 5. Tale individuazione ha efficacia prevalente ai sensi dell’articolo 18, nei limiti della facoltà dei comuni di apportarvi, in sede di redazione del piano delle regole, rettifiche, precisazioni e miglioramenti derivanti da oggettive risultanze riferite alla scala comunale. In tal caso per l’approvazione di detto piano si applicano anche i commi 5 e 7 dell’articolo 13”.
A sua volta l’art. 13 della L.R. 12/2005 stabilisce che il Comune, in sede di controdeduzione alle osservazioni dei privati e di approvazione definitiva del PGT, “contestualmente, a pena di inefficacia degli atti assunti, provvede all’adeguamento del documento di piano adottato, nel caso in cui la provincia abbia ravvisato elementi di incompatibilità con le previsioni prevalenti del proprio piano territoriale di coordinamento, o con i limiti di cui all’articolo 15, comma 5”.
Risulta chiaro quindi che il Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale ha, con riferimento all’individuazione delle aree agricole strategiche, una funzione non solo di indirizzo della programmazione urbanistica comunale, ma anche una funzione direttamente conformativa del territorio.
Né d’altro canto è possibile ritenere, come fa la ricorrente, che “… non corrisponde al vero quindi l’affermazione per cui si tratterebbe di “prescrizioni vincolanti per i Comuni” …”. In realtà il Comune ha la facoltà di cui all’art. 7, comma 6, delle norme del PTCP di apportare all’individuazione degli ambiti destinati all’attività agricola d’interesse strategico rettifiche ossia correzioni di errori evidenziati da oggettive risultanze riferite alla scala comunale, precisazioni ovvero integrazioni.
Infatti il potere comunale consiste solo nella facoltà di specificare gli esatti limiti del vincolo riportandolo alla scala comunale più ridotta. Si tratta quindi di una facoltà di carattere meramente esecutivo che conferma il carattere prevalente e direttamente conformativo del territorio assegnato alla previsione di PTCP con riferimento alle aree agricole di interesse strategico. Questa Sezione, del resto, si è già pronunciata nel senso che simili previsioni del PTCP assumono carattere prescrittivo e prevalente rispetto agli strumenti urbanistici comunali (v. sent. n. 2423 dell’08.10.2014) e che, pertanto, il potere pianificatorio comunale in subiecta materia risulta finalizzato ad una mera attività di specificazione e puntualizzazione delle scelte operate a livello provinciale (v. sent. n. 2452 del 02.10.2012).
A ciò si aggiunge che non risulta che il ricorrente abbia richiesto o comunque ottenuto l’esclusione dell’area di sua proprietà dal suddetto vincolo con l’approvazione della variante al PGT.
In definitiva quindi il ricorso va dichiarato inammissibile per difetto di interesse a ricorrere in quanto deve escludersi che il Comune avesse la potestà di assegnare al fondo della ricorrente una destinazione urbanistica diversa da quella assegnata dal PTCP e, di conseguenza, la ricorrente non potrebbe ottenere alcun vantaggio dall’accoglimento del presente ricorso.

APPALTI: Anomalia dell’offerta e ulteriori elementi di giustificazione resi in sede giudiziale
Se in sede giurisdizionale il concorrente classificatosi al secondo posto deduce l’inattendibilità dell’offerta anomala per aspetti non specificatamente presi in considerazione dalla stazione appaltante, legittimamente l’aggiudicataria può difendersi in giudizio provvedendo a giustificare tali voci in sede processuale e, di conseguenza, il giudice è tenuto a pronunciare anche su tali aspetti in base al principio dell’art. 112 c.p.c..
In pratica, l’introduzione di ulteriori elementi di giustificazione dell’offerta, rispetto a quelli oggetto della richiesta di chiarimenti della stazione appaltante –della quale l’appellante lamenta l’inammissibilità– discende proprio dalla tecnica difensiva utilizzata dalla ricorrente nel presente giudizio
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 14.11.2018 n. 6430 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
11. - I primi due motivi di appello possono essere esaminati congiuntamente essendo tra loro connessi.
Occorre innanzitutto rilevare che, nel caso di specie, la stazione appaltante ha ritenuto congrua l’offerta della controinteressata (cfr. relazione di valutazione dell’offerta anomala versata in atti).
Secondo il costante orientamento della giurisprudenza,
il giudizio favorevole di non anomalia dell'offerta in una gara d'appalto non richiede una motivazione puntuale ed analitica, essendo sufficiente anche una motivazione espressa per relationem alle giustificazioni rese dall'impresa offerente, sempre che queste ultime siano a loro volta congrue ed adeguate (Cons. Stato, sez. V, 17/05/2018, n. 2951); solo in caso di giudizio negativo sussiste, infatti, l’obbligo di una puntuale motivazione.
Inoltre,
la stazione appaltante non è tenuta a chiedere chiarimenti su tutti gli elementi dell’offerta e su tutti i costi, ma può legittimamente limitarsi a verificare se, nel complesso, quest’ultima sia remunerativa e come tale assicuri il corretto svolgimento del servizio: può limitarsi, quindi, a chiedere le giustificazioni con riferimento alle sole di voci di costo più rilevanti, le quali –da sole– potrebbero incidere in modo determinante sull’attendibilità dell’offerta complessiva, evitando di chiedere i giustificativi in relazione ad elementi marginali dell’offerta non in grado di incidere sulla complessiva congruità di essa.
Occorre, infatti, ricordare che:
   - la valutazione di congruità deve essere globale e sintetica, senza concentrarsi esclusivamente ed in modo parcellizzato sulle singole voci, dal momento che l'obiettivo dell'indagine è l'accertamento dell'affidabilità dell’offerta nel suo complesso e non già delle singole voci che la compongono
(Cons. Stato A.P. n. 36/2012 ; Cons. Stato, Sez. V, 14.06.2013, n. 3314; 01.10.2010, n. 7262; 11.03.2010 n. 1414; IV, 22.03.2013, n. 1633; III, 14.02.2012, n. 710);
   - ciò che interessa al fine dello svolgimento del giudizio successivo alla valutazione dell’anomalia dell’offerta è rappresentato dall’accertamento della serietà dell’offerta desumibile dalle giustificazioni fornite dalla concorrente e dunque la sua complessiva attendibilità.
La stazione appaltante, nel caso di specie, si è attenuta a tale principio ed ha chiesto chiarimenti sul costo del lavoro che, tenuto conto della natura dell’appalto oggetto di gara, rappresenta la voce preponderante dei costi.
Le giustificazioni fornite dalla cooperativa aggiudicataria riguardavano, ovviamente, i profili per i quali erano stati chiesti i chiarimenti e le giustificazioni.
Il provvedimento della stazione appaltante che ha accolto le giustificazioni e ha ritenuto congrua l’offerta non contiene una motivazione dettagliata su tutti i costi, ma può ben rinviare alle giustificazioni fornite dalla concorrente (come è accaduto, per i dettagli, anche nel caso di specie).
Se in sede giurisdizionale il concorrente classificatosi al secondo posto deduce l’inattendibilità dell’offerta per aspetti non specificatamente presi in considerazione dalla stazione appaltante, legittimamente l’aggiudicataria può difendersi in giudizio provvedendo a giustificare tali voci in sede processuale e, di conseguenza, il giudice è tenuto a pronunciare anche su tali aspetti in base al principio dell’art. 112 c.p.c.
In pratica, l’introduzione di ulteriori elementi di giustificazione dell’offerta, rispetto a quelli oggetto della richiesta di chiarimenti della stazione appaltante –della quale l’appellante lamenta l’inammissibilità– discende proprio dalla tecnica difensiva utilizzata dalla ricorrente nel presente giudizio
: ne consegue l’infondatezza della proposta doglianza.
12. - Altrettanto infondato è il secondo motivo di appello: nella sentenza di primo grado il TAR, dopo aver richiamato i principi costantemente affermati dalla giurisprudenza in ordine alla funzione della verifica dell’anomalia dell’offerta, diretta ad accertare la sua sostenibilità complessiva e non a verificare specifiche eventuali inesattezze, ha rilevato che “parte ricorrente si limita a dedurre pretese carenze informative nelle giustificazioni fornite dall’aggiudicataria all’amministrazione, sostenendo così che l’offerta avrebbe dovuto essere esclusa solo per tale ragione” ed ha poi sottolineato che, invece, avrebbe dovuto “fornire il quadro economico generale e pluriennale delle relative ripercussioni sull’offerta complessiva e sulla sua pretesa insostenibilità”.
In pratica, il primo giudice, ha semplicemente rilevato che per poter contestare il giudizio complessivo di congruità dell’offerta reso dalla stazione appaltante la ricorrente avrebbe dovuto dimostrare non soltanto la mancata giustificazione di talune voci, ma l’insostenibilità complessiva dell’offerta.
Con tale affermazione il TAR ha, in pratica, richiamato il costante orientamento della giurisprudenza secondo cui
l’esclusione dalla gara necessita la prova dell'inattendibilità complessiva dell’offerta (Cons. Stato A.P., 29.11.2012, n. 36; Sez. V, 26.09.2013, n. 4761; 18.08.2010, n. 5848; 23.11.2010, n. 8148)
Ne consegue che la decisione del primo giudice, non presenta alcuno dei vizi dedotti con i primi due motivi di appello, ma semmai richiama principi affermati dalla giurisprudenza consolidata del giudice amministrativo.

EDILIZIA PRIVATA: Demolizione di opere abusive - Individuazione della corrispondenza tra l'immobile da demolire e quello descritto in sentenza - Verifica di tutti gli elementi disponibili - Limiti della verifica - Casi di aggiunte, modifiche e superfetazioni successive alla condanna definitiva - Completa restitutio in integrum dello stato dei luoghi - Giurisprudenza.
In tema di demolizione di opere abusive, ai fini della individuazione della corrispondenza tra l'immobile da demolire e quello descritto nella sentenza di condanna, è l'identità tra le opere oggetto di imputazione e quelle da abbattere, desumibile non soltanto dalla volumetria, soggetta a diversi criteri di computo, ma dalla sostanziale coincidenza ricavabile in base a tutti gli elementi disponibili.
Peraltro, la necessità di una simile verifica va esclusa in tutti i casi di aggiunte, modifiche e superfetazioni successive alla realizzazione delle opere per le quali vi è stata condanna definitiva, in quanto, la demolizione ordinata dal giudice non riguarda soltanto l'immobile oggetto del procedimento che ha dato vita al titolo esecutivo, ma anche ogni altro intervento eseguito successivamente che, per la sua accessorietà all'opera abusiva, renda ineseguibile l'ordine medesimo, non potendo consentirsi che un qualunque intervento additivo, abusivamente realizzato, possa in qualche modo ostacolare l'integrale attuazione dell'ordine giudiziale di demolizione dell'opera cui accede e, quindi, impedire la completa restitutio in integrum dello stato dei luoghi disposta dal giudice con sentenza definitiva, poiché, se così non fosse, si finirebbe per incentivare le più diverse forme di abusivismo, funzionali ad impedire o a ritardare a tempo indefinito la demolizione di opere in precedenza illegalmente realizzate
(Sez. 3, n. 6049 del 27/09/2016 (dep. 2017), Molinari; Sez. 3, n. 38947 del 09/07/2013, Amore; Sez. 3, n. 21797 del 27/04/2011, Apuzzo; Sez. 3, n. 2872 del 11/12/2008 (dep. 2009), P.M. in proc. Corimbi; Sez. 3, n. 13649 del 20/02/2002, Corbi; Sez. 3, n. 10248 del 18/1/2001, Vitrani)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.11.2018 n. 51058 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Nozione di acque reflue industriali - Individuazione dell'attività di produzione industriale - Insediamenti di attività artigianali e di prestazioni di servizi - Caratteristiche di quantità e qualità delle acque - Fattispecie: lavaggio di capannoni adibiti all'allevamento di tacchini - Artt. 74, 137 e 256, 2° c. d.lgs. n. 152/2006 - Giurisprudenza.
In tema di inquinamento idrico, rientrano nella nozione di acque reflue industriali definita dal D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, art. 74, comma 1, lett. h), (come modificato dal D.Lgs. 16.01.2008, n. 4) tutti i tipi di acque derivanti dallo svolgimento di attività produttive, in tale accezione dovendosi ricomprendere tutti i reflui che non attengono prevalentemente al metabolismo umano ed alle attività domestiche, cioè non collegati alla presenza umana, alla coabitazione ed alla convivenza di persone, né si configurano come acque meteoriche di dilavamento, intendendosi per tali quelle piovane, anche se venute in contatto con sostanze o con materiali (Sez. 3^, n. 12865 del 05/02/2009, Bonaffini).
Da ciò discende che sono da considerare scarichi industriali, oltre ai reflui provenienti da attività di produzione industriale vera e propria, anche quelli provenienti da insediamenti ove si svolgono attività artigianali e di prestazioni di servizi, quando le caratteristiche qualitative degli stessi siano diverse da quelle delle acque domestiche (Sez. 3, n. 3199 del 02/10/2014 - dep. 23/01/2015, Verbicaro).
Sicché, rientrano nella nozione di acque reflue industriali quelle provenienti e scaricate, come nella specie, dalle operazioni di lavaggio di capannoni adibiti in forma stabile ad allevamento di animali (tacchini).

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ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Stabile sistema di collettamento che unisca il ciclo di produzione del refluo con il suolo - Art. 137 d.lgs. n. 152/2006, natura di reato di pericolo - Episodicità delle immissioni - Ininfluenza - INQUINAMENTO DEL SUOLO - Potenzialità inquinante dell'ambiente, anche nel suolo o nel sottosuolo.
Ai fini della sua configurabilità del reato di cui all'art. 137 d.lgs. n. 152/2006, attesa la sua natura di reato di pericolo, rileva la semplice esistenza di uno stabile sistema di collettamento che unisca il ciclo di produzione del refluo con il suolo, costituito nella specie dalla tubatura interrata confluente nella fossa di raccolta, non essendo richiesto che lo sversamento avvenga nel sistema fognario posto che la norma punisce ogni indebita immissione di acque reflue, in ragione della potenzialità inquinante dell'ambiente, anche nel suolo o nel sottosuolo.
Pertanto, non è certo l'episodicità delle immissioni verificatesi in concreto ad escludere la contravvenzione
(Sez. 3, n. 45634 del 22/10/2015 - dep. 17/11/2015, Mora Fulgido).

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RIFIUTI - Attività di stoccaggio e smaltimento di rifiuti - Reato di deposito incontrollato di rifiuti - Presupposti per la configurabilità del reato - Possesso di fatto dell'area ovvero di detenzione qualificata da un sottostante rapporto negoziale.
Ai fini della configurabilità del reato di deposito incontrollato di rifiuti, quello che rileva è l'attività di stoccaggio e smaltimento di rifiuti, dovendosi considerare tali i materiali ammassati alla rinfusa, senza autorizzazione alcuna, sull'area di cui l'imputato abbia la disponibilità, senza che rilevi, in relazione al rapporto sussistente tra l'imputato e l'area adibita a deposito incontrollato, allorquando non si proceda a confisca della stessa, che si tratti di un possesso di fatto ovvero di una detenzione qualificata da un sottostante rapporto negoziale.
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DANNO AMBIENTALE - Offensività della condotta in ragione dei danni ambientali - DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Diniego delle causa di non punibilità - Pluralità dei reati - Reati ambientali - Art. 131-bis c.p. - Apprezzamento di merito non sindacabile in sede di legittimità - Fattispecie.
La causa di non punibilità prevista dall'art. 131-bis c.p., si configura come un apprezzamento di merito non sindacabile in sede di legittimità se non in presenza di motivazione incongrua o contraddittoria.
Nella specie, deve escludersi che le plurime ragioni evidenziate a fondamento del diniego, costituite dalla natura pericolosa dei rifiuti, dal contemporaneo sversamento delle acque reflue nel terreno in assenza di autorizzazione e degli specifici precedenti penali dall'imputato siano inficiate da qualsivoglia vizio motivazionale, che la stessa difesa non riesce neppure a configurare.
Con la suddetta motivazione viene infatti dato conto tanto della offensività della condotta in ragione dei danni ambientali con essa provocati, quanto dell'abitualità della condotta del prevenuto sotto il duplice profilo sia diacronico, avuto riguardo alle precedenti condanne per reati afferenti anch'essi alla normativa ambientale, sia sincronico, stante la pluralità dei reati ascrittigli
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.11.2018 n. 51006 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: Utile esiguo e anomalia dell’offerta.
Al di fuori dei casi in cui il margine positivo risulti pari a zero, non è possibile stabilire una soglia minima di utile al di sotto della quale l'offerta deve essere considerata anomala, poiché anche un utile apparentemente modesto può comportare un vantaggio significativo, sia per la prosecuzione in sé dell’attività lavorativa, sia per la qualificazione, la pubblicità, il curriculum derivanti per l’impresa dall’essere aggiudicataria e aver portato a termine un appalto pubblico (nella fattispecie si trattava di un utile annuo, dichiarato in sede di giustificazioni rese nel procedimento di verifica dell’anomalia, pari a euro 774,51) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 24.10.2018 n. 2394 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
La censura è in parte inammissibile e in parte infondata.
E’ inammissibile -come già rilevato in precedenza– nella parte in cui censura la verifica di congruità dell’offerta del RTI controinteressato per vizi diversi da quelli per i quali questo Tribunale aveva già annullata la precedente verifica di congruità e con essa la consequenziale aggiudicazione dell’appalto.
Si tratta, per la precisione, della parte della doglianza concernente una serie di costi asseritamente non presi in considerazione dalla stazione appaltante, ovverosia la tassa fissa di registrazione e le spese di segreteria, il costo derivante dall’esatto numero di addetti da inquadrare nel IV livello, il premio INAIL insuscettibile della riduzione prospettata dal RTI Sa., il costo variabile degli automezzi impiegati nel servizio, la spesa per la produzione e la distribuzione dei calendari per la raccolta differenziata, la spesa per la sostituzione dei vari contenitori, le spese per le emergenze, il costo dei sacchetti.
La censura è, invece, infondata per la parte che riguarda il costo del lavoro, il costo dei bidoni, l’utile d’impresa.
Con riferimento al primo aspetto, va considerato che il RTI Sa. dichiara un aumento del costo del lavoro pari a Euro 950,49 all’anno, quale conseguenza dell’inquadramento nel IV livello, anziché nel III, degli addetti che in sede di offerta possedevano quella qualifica.
Tale aumento non può sicuramente che essere fatto rifluire nelle spese generali (come pretenderebbe l’odierno controinteressato), ma va sottratto all’utile annuo, prefigurato dall’aggiudicatario nelle proprie giustificazioni in Euro 1.725,00 annui.
Peraltro, il fatto che il consulente esterno incaricato dal Comune sostenga che i conteggi effettuati dal RTI Sangalli eccedano i minimi salariali, e che dunque il costo del lavoro sarebbe inferiore, lungi dal smentire le dichiarazioni dell’aggiudicatario, ne dimostra semmai l’attendibilità. Resta fermo che è ai conteggi dell’offerente (e non a quelli del consulente) che occorre fare riferimento, perché la verifica di congruità riguarda quella specifica offerta (comprensiva di livelli salariali maggiori di quelli minimi) e non un’offerta astratta.
Per quanto riguarda il costo dei bidoni, il consulente incaricato dal Comune ha stimato un costo compreso tra 1,10 e 1,70 Euro + IVA a bidone per quelli da 10 litri, e un costo compreso tra 20,00 e 25,00 Euro + IVA a bidone per quelli da 120 litri.
Il RTI Sa.i nelle proprie giustificazioni indica un costo d’acquisto di 0,50 Euro l’uno per quelli da 10 litri e di 12,00 Euro l’uno per quelli da 120 litri. Sennonché, a comprova di questi prezzi, che il consulente dell’Amministrazione ritiene fuori mercato, l’aggiudicatario ha presentato un preordine presso un importante operatore del settore. Detto operatore economico, poi, su espressa richiesta del Comune, ha confermato per iscritto le particolari condizioni economiche riconosciute con riguardo al quell’ordine al RTI Sa..
Un tanto è sufficiente per ritenere giustificato la voce di costo per i bidoni.
All’esito delle giustificazioni, al RTI Sa. residua, dunque, un utile annuo di Euro 774,51: si tratta di un utile esiguo, ma non del tutto azzerato.
E, secondo il consolidato, orientamento giurisprudenziale «al di fuori dei casi in cui il margine positivo risulti pari a zero, non è possibile stabilire una soglia minima di utile al di sotto della quale l'offerta deve essere considerata anomala, poiché anche un utile apparentemente modesto può comportare un vantaggio significativo, sia per la prosecuzione in sé dell’attività lavorativa, sia per la qualificazione, la pubblicità, il curriculum derivanti per l’impresa dall’essere aggiudicataria e aver portato a termine un appalto pubblico» (così, C.d.S., Sez. III, sentenza n. 3861/2018).
In conclusione, il ricorso è infondato e per questo viene respinto.

AGGIORNAMENTO AL 03.12.2018

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R.U.P. ed incentivo funzioni tecniche:
in assenza dell'atto formale di nomina, di volta in volta per singolo progetto, il compenso incentivante non può essere erogato!!

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Responsabile unico del procedimento (RUP) - Conferimento della funzione - Formale atto di nomina - Necessità - Compenso incentivante - Dirigente del settore lavori pubblici - Disciplina applicabile - L. n. 241/1990 e ss.mm. - L. n. 109/1994 ess.mm.- D.L.vo n. 50/2016.
La funzione di responsabile unico del procedimento (R.U.P.) nel settore dei lavori pubblici, deve essere conferita attraverso un formale atto di nomina in assenza del quale il compenso incentivante, previsto dalla normativa in materia, non spetta al dirigente dell'ufficio tecnico di un ente pubblico locale per il solo fatto che l'art. 5 della L. 241/1990 consideri responsabile del procedimento il funzionario preposto a ciascuna unità organizzativa. Il principio di diritto, in applicazione ratione temporis dell'art. 7 della L. 109/1994, può essere riportato anche nella vigenza delle successive norme che hanno previsto e prevedono la nomina del RUP per ciascuna specifica procedura di affidamento di contratti pubblici, vale a dire l'art. 10 del D.Leg.vo 163/2006, ed in seguito l'art. 31 del D.Leg.vo 50/2016.
Pertanto, il riferimento è agli incentivi attribuiti al RUP nonché ad altri soggetti interni alla pubblica amministrazione ed esercenti funzioni tecniche in relazione a ciascuna specifica procedura di aggiudicazione, ai sensi, prima dell'art. 18 della L. 109/1994, poi, dell'art. 92 del D.L.vo n. 163/2006, in seguito (dopo le modifiche introdotte ad opera del D.L. 90/2014, convertito in legge dalla L. 114/2014), dai commi da 7-bis a 7-quater dell’art. 93 del D.L.vo n. 163/2006, poi ancora dell'art. 113 del c. 3, D.L.vo 50/2016
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro, ordinanza 11.07.2018 n. 18274 - link a www.ambientediritto.it).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Nel settore dei lavori pubblici, il conferimento della funzione di R.U.P. deve essere formale, come si evince chiaramente dal dato testuale del primo comma dell'art. 7 legge n. 109 del 1994, a seguito delle modifiche apportate dalla legge n. 415 del 1998, secondo cui occorre che le Pubbliche Amministrazioni e gli Ente pubblici di cui all'art. 2, comma 2, lett. a), provvedano alla "nomina" di "un responsabile unico del procedimento di attuazione di ogni singolo intervento previsto dal programma triennale dei lavori pubblici, per le fasi della progettazione, dell'affidamento e dell'esecuzione".
Il rilievo è decisivo, in quanto per il periodo anteriore al formale conferimento delle funzioni di R.U.P. non può essere riconosciuto il compenso di cui all'art. 18 legge n. 109 del 1994.

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1. La Corte di appello di Palermo ha confermato la sentenza emessa dal Giudice del lavoro del Tribunale di Trapani, che aveva respinto la domanda proposta dall'ing. An.Ca. nei confronti del Comune di Mazara del Vallo diretta a ottenere la condanna dell'Ente convenuto al pagamento del compenso di cui all'art. 18 L. 109 del 1994, spettante al dirigente che abbia svolto le funzioni di Responsabile unico del procedimento.
2. Il Ca., dipendente del Comune di Mazara del Vallo dal 18.09.1990 al 31.12.2005, dapprima quale dirigente del settore lavori pubblici (fino al 20.09.2004) e poi quale dirigente del settore servizi alla città (fino al 01.01.2005), aveva adito il Giudice del lavoro sostenendo che, con determinazioni del Sindaco n. 38 e n. 39 del 17.02.2004, era stato nominato Responsabile unico del procedimento per la progettazione, affidamento ed esecuzione di alcuni lavori pubblici, ma che pure nel periodo anteriore a tale nomina formale di R.U.P., aveva svolto le medesime mansioni di responsabile unico del procedimento, strettamente connesse alla funzione di dirigente dell'Ufficio tecnico LL.PP. del Comune di Mazara del Vallo; che per tale periodo anteriore al 2004 non aveva percepito il compenso di cui all'art. 18 L. n. 109 del 1994, seppure l'art. 5, comma 2, L. n. 241/1990, come recepito dalla legge regionale n. 10/1991 art. 5, prevedesse che il dirigente è autonomamente responsabile di tutti i procedimenti assegnati al settore di competenza, a meno che non provveda egli stesso ad assegnare ad altro funzionario la relativa pratica o progetto.
Aveva prospettato inoltre che il compenso spetta al preposto pur nell'ipotesi in cui l'attività di progettazione sia stata affidata ad un progettista esterno anziché agli uffici tecnici interni.
3. La Corte territoriale, nel confermare la sentenza di rigetto della domanda, ha osservato:
   - che, a norma dell'art. 7 L. n. 109 del 1994, i soggetti di cui all'art. 2, comma 2, lett. a), nominano, ai sensi della legge n. 241/1990 e succ. mod., un Responsabile unico del procedimento di attuazione di ogni singolo intervento previsto dal programma triennale dei lavori pubblici per le fasi della progettazione, dell'affidamento e dell'esecuzione;
   - che la specificità di tale funzione esclude, contrariamente a quanto ritenuto dall'appellante, che possa trovare applicazione l'art. 5 L. n. 241/1990, disposizione che riguarda gli ordinari procedimenti amministrativi e non regola la diversa ipotesi della figura del responsabile unico del procedimento in materia di lavori pubblici, le cui competenze, caratterizzate da elevata complessità e richiedenti cognizioni tecniche di particolare rilievo, non sono surrogabili dall'intervento del funzionario preposto all'unità organizzativa, che potrebbe anche non essere un tecnico, con evidente violazione dell'art. 7, comma 5, l. n. 109/1994;
   - che, dunque, presupposto indefettibile per esercizio delle funzioni di responsabile unico del procedimento in materia di lavori pubblici è l'investitura formale, attraverso il provvedimento di nomina e ogni eventuale attività svolta anteriormente all'adozione di tale provvedimento non può dar luogo al riconoscimento del compenso di cui all'articolo 18, comma 1, l. n. 109/1994.
3.1. La Corte di appello ha altresì richiamato la giurisprudenza della Corte dei Conti, sez. reg. Sardegna (sentenza n. 395 del 2011) secondo cui il compenso di cui all'articolo 18 ha carattere premiale ed è destinato al personale che abbia redatto direttamente il progetto esecutivo; tale compenso non può essere corrisposto ai dipendenti dell'ufficio tecnico a titolo di incentivi per la progettazione nelle ipotesi in cui questa sia stata affidata a soggetti esterni all'amministrazione e, ove tale erogazione sia avvenuta in difetto dei presupposti, la stessa integra un danno erariale.
3.2. Infine, ha osservato che la prova espletata in primo grado non aveva evidenziato alcun intervento del Candela nell'attività dei progettisti esterni, ma solo attività riconducibili ai compiti propri di dirigente preposto al settore dei lavori pubblici.
4. Per la cassazione di tale sentenza l'ing. An.Ca. ha proposto ricorso affidato ad un unico motivo, seguito da memoria. Il Comune di Mazara del Vallo è rimasto intimato.
...
1. Con unico motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 7 e 18 l. n. 109 del 1994 e successive modificazioni.
Il ricorrente premette che "ancor prima della formale nomina a R.U.P. per la progettazione, affidamento ed esecuzione dei lavori (nomina avvenuta il 17.02.2004)...ha svolto ugualmente le mansioni suddette (di R.U.P.) in quanto strettamente connesse alla funzione di dirigente dell'Ufficio Tecnico LL.PP. del Comune di Mazara del Vallo" e richiama il testo dell'art. 5 della legge 241 del 1990, evidenziando che la chiarezza del testo normativo non lascia spazio alcuno ad una diversa interpretazione e applicazione, poiché tale legge -e i successivi regolamenti attuativi dell'art. 18- non prevedono, quale presupposto necessario per il diritto al compenso, l'emanazione da parte dell'ente di un atto formale di nomina del responsabile unico del procedimento.
2. Il ricorso è infondato.
3. L'odierno ricorrente ritiene che, in quanto preposto a dirigere l'Ufficio tecnico LL.PP. del Comune di Mazara del Vallo, sia da considerare R.U.P. in forza dell'art. 5 legge n. 241 del 1990 (responsabile del procedimento), poiché tale norma dispone, al primo comma, che "il dirigente di ciascuna unità organizzativa provvede ad assegnare a sé o ad altro dipendente addetto all'unità la responsabilità dell'istruttoria e di ogni altro adempimento inerente il singolo procedimento nonché, eventualmente, dell'adozione del provvedimento finale"; al secondo comma, che "fino a quando non sia effettuata l'assegnazione di cui al comma primo, è considerato responsabile del singolo procedimento il funzionario preposto alla unità organizzativa determinata a norma del comma primo dell'articolo 4".
4. Tale tesi non può essere accolta.
Come esattamente ritenuto dalla Corte di appello, la fattispecie è regolata da una disciplina speciale, che esclude l'applicabilità della disciplina generale dei procedimenti amministrativi di cui all'art. 5 citato; essa è precisamente regolata dalla legge n. 109 del 1994, art. 7 (misure per l'adeguamento della funzionalità della pubblica amministrazione).
Tale disposizione, nel testo vigente ratione temporis all'epoca dei fatti dedotti in giudizio,
  
al primo comma, dispone che "I soggetti di cui all'articolo 2, comma 2, lettera a)", ossia le Amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, gli enti pubblici, compresi quelli economici, gli enti e le amministrazioni locali, le loro associazioni e consorzi nonché gli altri organismi di diritto pubblico, "nominano un responsabile unico del procedimento di attuazione di ogni singolo intervento previsto dal programma triennale dei lavori pubblici, per le fasi della progettazione, dell'affidamento e dell'esecuzione";
  
al terzo comma, che il R.U.P. "formula proposte e fornisce dati e informazioni ai fini della predisposizione del programma triennale dei lavori pubblici e dei relativi aggiornamenti annuali; assicura, in ciascuna fase di attuazione degli interventi, il controllo sui livelli di prestazione, di qualità e di prezzo determinati in coerenza alla copertura finanziaria ed ai tempi di realizzazione del programma oltre che al corretto e razionale svolgimento delle procedure; segnala altresì eventuali disfunzioni, impedimenti o ritardi nell'attuazione degli interventi e accerta la libera disponibilità delle aree e degli immobili necessari, fornisce all'amministrazione i dati e le informazioni relativi alle principali fasi di svolgimento del processo attuativo necessari per l'attività di coordinamento, di indirizzo e di controllo di sua competenza" (...);
  
al quarto comma, che il regolamento "disciplina le ulteriori funzioni del responsabile del procedimento, coordinando con esse i compiti, le funzioni e le responsabilità del direttore dei lavori e dei coordinatori in materia di salute e di sicurezza durante la progettazione e durante l'esecuzione dei lavori, previsti dal decreto legislativo 14.08.1996, n. 494, e successive modificazioni....".
5. Alla stregua di tale disciplina, nel settore dei lavori pubblici, il conferimento della funzione di R.U.P. deve essere formale, come si evince chiaramente dal dato testuale del primo comma dell'art. 7 legge n. 109 del 1994, a seguito delle modifiche apportate dalla legge n. 415 del 1998, secondo cui occorre che le Pubbliche Amministrazioni e gli Ente pubblici di cui all'art. 2, comma 2, lett. a), provvedano alla "nomina" di "un responsabile unico del procedimento di attuazione di ogni singolo intervento previsto dal programma triennale dei lavori pubblici, per le fasi della progettazione, dell'affidamento e dell'esecuzione".
Il rilievo è decisivo, in quanto per il periodo anteriore al formale conferimento delle funzioni di R.U.P. non può essere riconosciuto al ricorrente il compenso di cui all'art. 18 legge n. 109 del 1994, nel testo modificato dalla legge n. 144 del 1999 (modifiche alla disciplina del Fondo per la progettazione istituito presso il Ministero dei lavori pubblici) (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, ordinanza 11.07.2018 n. 18274).

... ed altro ancora in materia di incentivo:

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Concessione di servizi e spettanza, o meno, dell'incentivo.
Sulla base della normativa attualmente vigente è possibile corrispondere gli incentivi per funzioni tecniche, oltre che per i contratti di appalto, anche per i contratti di concessione e di partenariato.
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Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, il valore della concessione non può essere ancorato al canone concessorio ma deve essere calcolato dall’amministrazione sulla base del presumibile fatturato totale generato dalla concessione, tenendo conto dei ricavi ipotizzabili in relazione alla sua futura gestione.
Il calcolo del valore della concessione costituisce adempimento imposto alle stazioni appaltanti dall’articolo 167 del d.lgs. 50/2016 (e prima dall’articolo 29 del d.lgs. 163/2006), il quale impone di riferirsi al fatturato presunto derivante dalla gestione del servizio.
Tale valore deve essere specificato all’interno del bando, al fine di garantire una corretta informazione al mercato di riferimento sulle complessive e reali condizioni di gara, nonché di consentire ai soggetti concorrenti alla procedura di gara la possibilità di formulare la propria offerta nella più completa conoscenza dei dati economici del servizio da svolgere.
Pertanto, in una concessione di servizi, ai fini dell’incentivazione per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti, il 2% deve essere calcolato sul fatturato totale che si prevede possa derivare dalla fornitura dei servizi a favore dall’insieme degli utenti (e non sul canone di concessione).
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Il regolamento comunale non può prevedere una disciplina contra legem che determini la possibilità di prevedere quale base di calcolo per la ripartizione degli incentivi per funzioni tecniche di cui all'art. 113 del D.Lgs. 50/2016 l’importo del canone concessorio sostituendolo al valore del fatturato totale.
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Il Sindaco del Comune di Sarcedo (VI) ha trasmesso una richiesta di parere ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131, inerente gli incentivi per funzioni tecniche ex articolo 113, comma 2, del decreto legislativo 50/2016 recante il “Codice degli appaltial fine di veder chiarito, alla luce, tra l'altro, del recente parere 21.06.2018 n. 198 di questa Sezione:
   1. se in una concessione di servizi, qualora sia previsto un canone in favore del Comune, l'importo da considerarsi quale entità su cui parametrare l'incentivo massimo del 2% di cui al richiamato articolo 113 del decreto legislativo nr. 50/2016 debba essere il valore della concessione o l'importo del canone. (…);
   2. se nel regolamento da adottarsi da ciascuna amministrazione per la ripartizione degli incentivi per funzioni tecniche si possa prevedere autonomamente la possibilità di considerare o il valore della concessione o l'importo del canone ai fini del calcolo dell'incentivo.
...
VI. Nel merito, l’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016, rubricato “Incentivi per funzioni tecniche" prevede che "1. Gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori ovvero al direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche di conformità, al collaudo statico, agli studi e alle ricerche connessi, alla progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento e al coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione quando previsti ai sensi del decreto legislativo 09.04.2008 n. 81, alle prestazioni professionali e specialistiche necessari per la redazione di un progetto esecutivo completo in ogni dettaglio fanno carico agli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti.
2. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 1, le amministrazioni aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle stesse esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti. Tale fondo non è previsto da parte di quelle amministrazioni aggiudicatrici per le quali sono in essere contratti o convenzioni che prevedono modalità diverse per la retribuzione delle funzioni tecniche svolte dai propri dipendenti. Gli enti che costituiscono o si avvalgono di una centrale di committenza possono destinare il fondo o parte di esso ai dipendenti di tale centrale. La disposizione di cui al presente comma si applica agli appalti relativi a servizi o forniture nel caso in cui è nominato il direttore dell'esecuzione.

In ordine alle modalità di applicazione dei precetti delineati dal sopra citato articolo, si riportano i principi derivanti dal consolidato orientamento giurisprudenziale formatosi in materia, che questa Sezione condivide.
Gli incentivi per funzioni tecniche possono essere riconosciuti esclusivamente per le attività riferibili a contratti di lavori, servizi o forniture che, secondo la legge (comprese le direttive ANAC dalla stessa richiamate) o il regolamento dell’ente, siano stati affidati previo espletamento di una procedura comparativa (cfr. parere 09.06.2017 n. 190 della Sezione regionale di controllo per la Lombardia).
In mancanza di una gara l’art. 113, comma 2, del decreto legislativo n. 50 del 2016 e successive modificazioni non prevede l’accantonamento delle risorse e, conseguentemente, la relativa distribuzione (cfr. parere 09.06.2017 n. 185 della Sezione regionale di controllo per la Lombardia).
Va quindi evidenziato che “La ratio legis è quella di stabilire una diretta corrispondenza tra incentivo ed attività compensate in termini di prestazioni sinallagmatiche, nell’ambito dello svolgimento di attività tecniche e amministrative analiticamente indicate e rivolte alla realizzazione di specifiche procedure. L’avere correlato normativamente la provvista delle risorse ad ogni singola opera con riferimento all’importo a base di gara commisurato al costo preventivato dell’opera, àncora la contabilizzazione di tali risorse ad un modello predeterminato per la loro allocazione e determinazione, al di fuori dei capitoli destinati a spesa di personale” (Sez. Autonomie deliberazione 26.04.2018 n. 6).
VII. Ciò premesso,
quanto al primo punto della richiesta del comune di Sarcedo, diretta a verificare se il parametro del 2% di cui all’art. 113 del D.lgs. n. 50/2016, nell’ambito di una concessione di servizi con previsione di un canone in favore del Comune, debba essere calcolato sul “valore della concessione” o “sull’importo del canone”, occorre porre in risalto quanto segue, rinviando -in via preliminare- a quanto già espresso da questa Sezione con parere 21.06.2018 n. 198 sull’applicabilità dell’articolo 113 del D.lgs. n. 50/2016 ai contratti di concessione.
In particolare, si è sottolineato, nella citata deliberazione, il fatto che, in tema di concessioni, viene favorita “(…) una lettura logico-sistematica che valorizzi la nozione di concessione trasfusa nel Codice (art. 3, comma 1, lett. uu e vv) basata sull’assimilazione di detto istituto al contratto di appalto con la fondamentale differenza del c.d. rischio operativo insito nella concessione, in recepimento delle definizioni di cui alla Direttiva Unica Appalti che indica l’elemento distintivo tra i due contratti (contratti secondo l’orientamento ormai prevalente) nel diritto del concessionario di gestione l’opera o il servizio accompagnato da un prezzo.
Per quanto di interesse in questa sede, occorre evidenziare, altresì, che la modalità di calcolo dell’importo posto a base di gara nelle concessioni, la giurisprudenza amministrativa si è costantemente espressa (anche in vigenza del D.lgs. 163/2006) nel senso che ai fini di una concessione di servizi, il valore da porre a base di gara dovesse essere parametrato al fatturato complessivo che si prevedeva potesse derivare dalla fornitura dei servizi a favore della massa degli utenti. L’indicazione di una chiara quantificazione del fatturato generato dalla concessione costituisce, invero, un onere della Stazione appaltante la quale è tenuta a compiere attendibili previsioni di stima, secondo un metodo oggettivo specificato nei documenti della concessione stessa.
In altri termini, non si è ritenuta legittima la determinazione del valore posto a base di gara che prendesse come riferimento il canone dovuto dal concessionario, il quale rappresentava, peraltro, un elemento eventuale del rapporto concessorio.
La predetta modalità, infatti, non era ritenuta coerente con la natura della concessione di servizi, il cui tratto essenziale era (ed è) la controprestazione a favore del concessionario, costituita principalmente dal provento della gestione del servizio (fatturato), che a sua volta rappresenta il nucleo centrale dell'istituto (in questo senso vedasi Consiglio di Stato n. 4343/2016, 2411/2017; 748/2017; ANAC delibera 245/2017).
A tal proposito, la citata Autorità di Vigilanza ha affermato che nonostante la difficoltà per le stazioni appaltanti di stimare i proventi dei contratti di concessione di servizi, poiché provengono interamente dagli utenti e non da chi bandisce la gara, l’esatta determinazione del valore dell’affidamento assume rilievo sotto molteplici aspetti: è infatti essenziale per poter fornire una corretta informazione agli operatori economici potenzialmente interessati a prestare il servizio, serve ad individuare con esattezza la forma di pubblicità idonea ed è necessaria per determinare l’entità delle cauzioni e del contributo dovuto all’Autorità.
La difficoltà di individuazione dell’importo a base di gara non può essere qualificata, inoltre, quale impossibilità assoluta, bensì quale mera difficoltà operativa dell’amministrazione originata per lo più dai rapporti instaurati con il precedente gestore (in questo senso Consiglio Stato sez. V n. 748/2017).
Inoltre, il Consiglio di Stato con recente sent. n. 4343/2016, ha affermato che “per le concessioni nella nozione di “importo totale pagabile” è sicuramente da ricomprendere il flusso dei corrispettivi pagati dagli utenti per i servizi in concessione. Infatti, così come nella stessa nozione è ricompreso il corrispettivo pagato dalla stazione appaltante nel caso di appalto, qualora si tratti di una concessione, non essendovi un prezzo pagato dalla stazione appaltante, ma solo quello versato dagli utenti, sarà quest’ultimo a costituire parte integrante dell’“importo totale pagabile” di cui è fatta menzione nella norma sopra citata; il canone a carico del concessionario potrà, altresì, essere computato ove previsto, ma certamente proprio in quanto solo eventuale non può considerarsi l’unica voce indicativa del valore della concessione”.
Il computo corretto del valore del contratto assume, invero, rilevanza anche per garantire condizioni di trasparenza, parità di trattamento e non discriminazione, e garantisce una corretta informazione al mercato di riferimento sulle complessive e reali condizioni di gara (AVCP del. 40 del 19/12/2013)
Ne discende, quale logica conseguenza, che il valore della concessione non possa essere computato con riferimento al cd “ristorno” che rappresenta un costo della concessione, ed è elemento del tutto eventuale, ma deve essere calcolato sulla base del fatturato generato dal consumo dei prodotti da parte degli utenti del servizio. (cfr. Cons. Stato sez. V, n. 748/2017, id. sez. III n. 4343/2016)
Tale consolidato orientamento nella giurisprudenza amministrativa ha avuto, del resto, piena consacrazione nel diritto comunitario, il quale è stato recepito successivamente dall'ordinamento nazionale tramite l’art. 167 del nuovo codice degli appalti (D.lgs. 50/2016).
Il citato art. 167 del codice degli appalti, infatti, prevede espressamente che “Il valore di una concessione, ai fini di cui all'articolo 35, è costituito dal fatturato totale del concessionario generato per tutta la durata del contratto, al netto dell'IVA, stimato dall'amministrazione aggiudicatrice o dall'ente aggiudicatore, quale corrispettivo dei lavori e dei servizi oggetto della concessione, nonché per le forniture accessorie a tali lavori e servizi.”.
I successivi commi, inoltre, stabiliscono che “2. Il valore stimato è calcolato al momento dell'invio del bando di concessione o, nei casi in cui non sia previsto un bando, al momento in cui l'amministrazione aggiudicatrice o l'ente aggiudicatore avvia la procedura di aggiudicazione della concessione.
3. Se il valore della concessione al momento dell'aggiudicazione è superiore di più del 20 per cento rispetto al valore stimato, la stima rilevante è costituita dal valore della concessione al momento dell'aggiudicazione.
4. Il valore stimato della concessione è calcolato secondo un metodo oggettivo specificato nei documenti della concessione. Nel calcolo del valore stimato della concessione, le amministrazioni aggiudicatrici e gli enti aggiudicatori tengono conto, se del caso, in particolare dei seguenti elementi: a) il valore di eventuali forme di opzione ovvero di altre forme comunque denominate di protrazione nel tempo dei relativi effetti; b) gli introiti derivanti dal pagamento, da parte degli utenti dei lavori e dei servizi, di tariffe e multe diverse da quelle riscosse per conto dell'amministrazione aggiudicatrice o dell'ente aggiudicatore; c) i pagamenti o qualsiasi vantaggio finanziario conferito al concessionario, in qualsivoglia forma, dall'amministrazione aggiudicatrice o dall'ente aggiudicatore o da altre amministrazioni pubbliche, incluse le compensazioni per l'assolvimento di un obbligo di servizio pubblico e le sovvenzioni pubbliche di investimento; d) il valore delle sovvenzioni o di qualsiasi altro vantaggio finanziario in qualsivoglia forma conferiti da terzi per l'esecuzione della concessione; e) le entrate derivanti dalla vendita di elementi dell'attivo facenti parte della concessione; f) il valore dell'insieme delle forniture e dei servizi messi a disposizione del concessionario dalle amministrazioni aggiudicatrici o dagli enti aggiudicatori, purché siano necessari per l'esecuzione dei lavori o la prestazione dei servizi; g) ogni premio o pagamento o diverso vantaggio economico comunque denominato ai ((candidati o agli offerenti.)).
5. Nel calcolo del valore stimato della concessione le amministrazioni aggiudicatrici o gli enti aggiudicatori tengono conto degli atti di regolazione delle Autorità indipendenti.
6. La scelta del metodo per il calcolo del valore stimato della concessione non può essere fatta con l'intenzione di escludere tale concessione dall'ambito di applicazione del presente codice. Una concessione non può essere frazionata al fine di escluderla dall'osservanza delle norme del presente codice, tranne nel caso in cui ragioni oggettive lo giustifichino, valutate al momento della predisposizione del bando dalla amministrazione aggiudicatrice o dall'ente aggiudicatore.
7. Quando un'opera o un servizio proposti possono dar luogo all'aggiudicazione di una concessione per lotti distinti, è computato il valore complessivo stimato della totalità di tali lotti.
8. Quando il valore complessivo dei lotti è pari o superiore alla soglia di cui all'articolo 35 il presente codice si applica all'aggiudicazione di ciascun lotto
.”.
La disposizione di cui sopra, in quanto norma di rango primario, è vincolante e costituisce, come sopra accennato, recepimento, nell’ordinamento italiano dell’art. 8 della direttiva n. 2014/23/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014, sull'aggiudicazione dei contratti di concessione; il citato art. 167 prescinde, inoltre -a differenza della direttiva comunitaria- da soglie minime di applicabilità o esenzioni per concessioni di minore valore economico (in questo senso TAR Napoli sezione VIII, n. 5596/2017).
La norma comunitaria ha stabilito che il valore di una concessione è costituito dal fatturato totale del concessionario generato per tutta la durata del contratto, al netto dell’IVA, stimato dall’amministrazione aggiudicatrice o dall’ente aggiudicatore, quale corrispettivo dei lavori e dei servizi oggetto della concessione, nonché per le forniture accessorie a tali lavori e servizi.
Del resto, non si può non evidenziare che l’indicazione del valore della concessione all'interno del bando è essenziale ed obbligatoria per garantire ai soggetti concorrenti alla procedura di gara la possibilità di formulare la propria offerta nella più completa conoscenza dei dati economici del servizio da svolgere (TAR Toscana Firenze Sez. II, 14.02.2017, n. 239); l'eventuale omissione di questo dato, inoltre, non può essere superata dalla semplice indicazione del canone di concessione (in questo senso Consiglio di Stato sez. III n. 2926/2017).
Da quanto esposto appare chiaro, pertanto,
che ai fini dell’incentivazione per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti, il 2% sull'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara, si debba calcolare sul fatturato totale che si prevede possa derivare dalla fornitura dei servizi a favore dall’insieme degli utenti e non sul canone di concessione, secondo il principio interpretativo in claris non fit interpretatio.
Tanto premesso, condividendo la tesi maggioritaria e consolidata dei giudici amministrativi da un lato, e dell’Autorità di vigilanza dall’altro,
si ribadisce che il valore della concessione non possa essere determinato sulla scorta di un elemento del tutto eventuale e non indicativo degli effettivi valori economici originati dal rapporto concessorio.
La ratio legis perseguita dalla norma, infatti, consiste nel garantire che il valore della concessione sia correlato al complesso degli introiti che possono essere ricavati, sotto qualsiasi forma, dal concessionario (comprensivi quindi sia di quelli rinvenibili dal mercato che di quelli ricevuti direttamente dall'ente concedente o da altri soggetti, comunque in relazione all'oggetto della concessione, ovvero alla gestione del servizio). Nell’intenzione del legislatore la corretta determinazione del valore del contratto, del resto, è rilevante non solo ai fini della disciplina applicabile, ma altresì è atta a consentire agli operatori economici la possibilità di formulare un’offerta economica più consapevole (ex multis, ANAC delibera n. 245/2017, parere 104/2015).
In questa logica,
non vi è spazio per parametrare tale valore al canone corrisposto dal concessionario, che evidentemente non rappresenta per quest'ultimo un introito quanto un esborso peraltro -lo si ribadisce– eventuale, cui lo stesso concessionario deve far fronte nell'ambito del rapporto concessorio.
Quanto al secondo punto della richiesta di parere formulata dal Sindaco del Comune di Sarcedo, ovvero, “se nel regolamento da adottarsi da ciascuna amministrazione per la ripartizione degli incentivi per funzioni tecniche si possa prevedere autonomamente la possibilità di considerare o il valore della concessione o l'importo del canone ai fini del calcolo dell'incentivo”, questa Sezione non può che richiamare i principi fondamentali che reggono la disciplina delle fonti.
Nella gerarchia delle fonti del diritto, i regolamenti rappresentano delle fonti secondarie e dunque, per tale ragione non possono derogare o contrastare con la Costituzione, né con i principi in essa contenuti, non possono derogare o contrastare con le leggi ordinarie, salvo che sia una legge ad attribuire loro il potere -in un determinato settore e per un determinato caso- di innovare anche nell’ordine legislativo (delegificando la materia); non possono regolamentare le materie riservate dalla Costituzione alla legge ordinaria o costituzionale (riserva assoluta di legge), né derogare al principio di irretroattività della legge (art. 11 preleggi).
Ne consegue evidentemente che
il regolamento comunale non può prevedere una disciplina contra legem che determini la possibilità di prevedere quale base di calcolo per la ripartizione degli incentivi per funzioni tecniche di cui all'art. 113 del D.Lgs. 50/2016 l’importo del canone concessorio sostituendolo al valore del fatturato totale (Corte dei Conti, Sez. controllo, Veneto, parere 27.11.2018 n. 455).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEFuori dai limiti del salario accessorio gli incentivi tecnici per gare aggiudicate dopo il 2018.
Il regolamento sugli incentivi tecnici adottato dopo il 01.01.2018 salva dai limiti del salario accessorio le attività tecniche effettuate precedentemente.

Al principio enunciato la scorsa estate (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 01.08.2018), la Corte dei conti del Veneto, con il parere 14.11.2018 n. 429, aggiunge un corollario precisando che questa condizione è necessaria ma non sufficiente in quanto per maturare il diritto, l'ente deve aver proceduto sia all’accantonamento nei quadri economici dell'opera pubblica, servizio o fornitura e, inoltre, l'aggiudicazione della gara non deve essersi conclusa prima dell'entrata in vigore della legge di bilancio 2018.
Il caso
Un sindaco ha posto la questione alla Corte richiamando due delibere (parere 25.07.2018 n. 264 e parere 25.07.2018 n. 265) con le quali il collegio contabile del Veneto avrebbe precisato da un lato che, l'avvenuto accantonamento, prima del 01.01.2018, delle somme relative agli incentivi per le funzioni tecniche nei capitoli di spesa previsti per i lavori e le forniture consente di escluderle dalla spesa per il personale e pure dalla spesa per il trattamento accessorio (e ai suoi limiti di legge).
Dall'altro lato, nel caso in cui l'ente non abbia operato l'accantonamento, gli incentivi per funzioni tecniche relativi alle attività svolte prima del 2018, stante l'irretroattività della legge di bilancio 2018, continuano a rientrare nel tetto della spesa per il personale e nel tetto di spesa per il fondo produttività. Tuttavia, il solo accantonamento non sembrerebbe sufficiente, in quanto per evitare la retroattività è fondamentale che l'ente non abbia già approvato il relativo regolamento unico a stabilire il diritto soggettivo nei confronti dei dipendenti.
Le precisazioni dei giudici contabili
In merito alle due delibere richiamate dal sindaco, il collegio contabile ha evidenziato come nella prima deliberazione (parere 25.07.2018 n. 264) si è preso atto del fatto che fosse possibile ripartire le somme accantonate, per le finalità stabilite dall'articolo 113 del Dlgs 50/2016, prima della adozione del regolamento previsto dalla norma, allo scopo di remunerare prestazioni rese in precedenza dai dipendenti dell'ente.
Nella seconda delibera, invece, si precisava che per le attività svolte e concluse con l'aggiudicazione della gara, prima dell'entrata in vigore del comma 5-bis dell'articolo 113 del Dlgs 50/2016, gli incentivi debbano essere invece inclusi nel calcolo della spesa del personale e del trattamento accessorio erogato dall'ente e dai relativi limiti di spesa stabiliti dalla vigente normativa, non avendo la legge disposto una interpretazione autentica e quindi retroattiva.
In altri termini, non sarebbe consentito remunerare attività concluse con l'aggiudicazione della gara prima del 01.01.2018, data di efficacia dell'intervento normativo, modificando il riparto degli incentivi una seconda volta.
In risposta alla domanda posta il collegio contabile ritiene, pertanto, che l'intervenuto accantonamento degli incentivi, secondo l’articolo 113 del Dlgs 50/2016, anche se anteriore al 01.01.2018, sia da considerarsi escluso dal computo della spesa per il personale e dai limiti del fondo produttività (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 21.11.2018).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEL'intervenuto accantonamento degli incentivi di cui all'art. 113 D.lgs. 50/2016, anche se anteriori al 01/01/2018, è da considerarsi escluso dal computo della spesa per il personale e dai limiti del fondo produttività.
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Il Sindaco del Comune di Gaiarine (TV), richiamate le deliberazioni di questa Sezione parere 25.07.2018 n. 264 e parere 25.07.2018 n. 265, ha posto un quesito di interpretazione di quanto affermato nelle suddette deliberazioni, in materia di contabilizzazione degli incentivi di cui all’art. 113 del D. Lgs. 18.04.2016, n. 50.
In particolare, il Sindaco ha formulato il seguente quesito:
   - “il parere 25.07.2018 n. 264 sembra aver stabilito che l'avvenuto accantonamento, prima del 01.01.2018, delle somme relative agli incentivi per le funzioni tecniche nei capitoli di spesa previsti per i lavori e le forniture consente di escludere tali somme dalla spesa per il personale e pure dalla spesa per il trattamento accessorio (e ai suoi limiti di legge).
L’allocazione in bilancio degli incentivi, operata con l’accantonamento, ha quindi conformato in modo giuridico tale posta ricomprendendola nel costo dell’opera e non nella spesa di personale.
Quindi il Regolamento comunale, una volta adottato, può consentire la distribuzione degli incentivi tecnici, accantonati in precedenza, al di fuori della spesa del personale e del fondo produttività, anche se gli incentivi risalgono al periodo 2014-2018.
   - Il
parere 25.07.2018 n. 265 sembra invece stabilire, nel caso in cui non ha operato l'accantonamento, che gli incentivi per funzioni tecniche per attività svolte prima del 2018, stante l'irretroattività della legge 205/2017, continuano a rientrare nel tetto della spesa per il personale e nel tetto di spesa per il fondo produttività. Mancherebbe in questo caso l'effetto "conformativo" dato dall'accantonamento degli incentivi.
Può quindi correttamente sostenersi che: l'intervenuto accantonamento (in passato) esclude oggi gli incentivi per le funzioni tecniche maturati prima del 01.01.2018 dalla spesa per il personale e dai limiti del fondo produttività.
In ciò consiste il quesito interpretativo del
parere 25.07.2018 n. 264 e parere 25.07.2018 n. 265”.
...
Sulla questione questa Sezione si è pronunciata in più occasioni, come, del resto, il Sindaco del Comune di Gaiarine dimostra di conoscere.
In particolare, nella prima deliberazione di questa Sezione richiamata dal richiedente, veniva affrontata la questione della possibilità di ripartire le somme accantonate, per le finalità di cui all’art. 113 D.Lgs. 50/2016, prima della adozione del regolamento previsto dalla norma, allo scopo di remunerare prestazioni rese in precedenza dai dipendenti dell’ente.
Nella deliberazione spora richiamata, così come anche in quella successiva, veniva esposta l’articolata evoluzione normativa che ha segnato la disciplina di questo istituto, a partire da quella contenuta nel D.lgs. 12.04.2006, n. 163 fino a quella attuale di cui al già citato art. 113 D.Lgs. 50/2016, e dei relativi orientamenti interpretativi elaborati dalla Corte dei conti, culminati nelle decisioni della Sezione delle Autonomie che hanno ritenuto, in un primo momento, che la spesa degli incentivi in argomento fosse da qualificarsi non più come spesa per investimenti ma come spesa corrente del personale (cfr. Sez. Aut. deliberazione 06.04.2017 n. 7 e deliberazione 10.10.2017 n. 24).
Nella medesima deliberazione si dà atto dell’innovazione introdotta con la novella di cui alla legge di stabilità 2018 (legge 27.12.2017, n. 205) che ha aggiunto, all’articolo 113, il comma 5-bis (entrato in vigore il 01/01/2018), stabilendo che: “Gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture.”
Questa novella ha successivamente portato la Sezione della Autonomie, con la deliberazione 26.04.2018 n. 6, a stabilire che “Gli incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 nel testo modificato dall’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017, erogati su risorse finanziarie individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e forniture, non sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017”.
Nella citata deliberazione veniva altresì stabilito che l’incentivo essendo previsto da una disposizione di legge speciale (art. 113 del D.Lgs. 50/2016), valevole per i dipendenti di tutte le amministrazioni pubbliche, non è assoggettabile al vincolo del trattamento accessorio che, invece, trova la sua fonte nei contratti collettivi di comparto.
Nella seconda deliberazione di questa Sezione, richiamata nella richiesta di parere, invece, veniva esaminata la questione se i trattamenti accessori di cui all’art. 113 del D.lgs. 50/2016, per l’attività svolta e conclusasi con l'aggiudicazione della gara prima dell'entrata in vigore del sopra citato comma 5-bis, debbano essere o meno esclusi dal calcolo della spesa del personale e del trattamento accessorio erogato dall'ente e dai relativi limiti di spesa stabiliti dalla vigente normativa.
Anche in questa sede, dopo aver richiamato il recente approdo giurisprudenziale della Sezione delle Autonomie e, in particolare, che la ratio legis degli incentivi in questione sia “quella di stabilire una diretta corrispondenza tra incentivo ed attività compensate in termini di prestazioni sinallagmatiche, nell’ambito dello svolgimento di attività tecniche e amministrative analiticamente indicate e rivolte alla realizzazione di specifiche procedure” in ordine al fatto se le prestazioni per gli incentivi vadano o meno considerate quale spesa del personale, è giunta a ritenere chiaramente che “L’avere correlato normativamente la provvista delle risorse ad ogni singola opera con riferimento all’importo a base di gara commisurato al costo preventivato dell’opera, àncora la contabilizzazione di tali risorse ad un modello predeterminato per la loro allocazione e determinazione, al di fuori dei capitoli destinati a spesa di personale”.
Con ciò confermando che l’onere relativo non transita nell’ambito dei capitoli dedicati alla spesa del personale e, quindi non può essere soggetto ai vincoli posti, nel caso in specie agli enti territoriali, alla relativa spesa.
Tenuto conto che la medesima Sezione della Autonomie, nella sopra citata deliberazione 26.04.2018 n. 6 afferma che “va considerato che, sul piano logico, l’ultimo intervento normativo, pur mancando delle caratteristiche proprie delle norme di interpretazione autentica (tra cui la retroattività), non può che trovare la propria ratio nell’intento di dirimere definitivamente la questione della sottoposizione ai limiti relativi alla spesa di personale delle erogazioni a titolo di incentivi tecnici”,
questa Sezione ritiene che l’intervenuto accantonamento degli incentivi di cui al citato art. 113 D.lgs. 50/2016, anche se anteriori al 01/01/2018, sia da considerarsi escluso dal computo della spesa per il personale e dai limiti del fondo produttività (Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto, parere 14.11.2018 n. 429).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEIn relazione “...alla questione se gli incentivi per attività svolta e conclusasi con l'aggiudicazione della gara prima dell'entrata in vigore del comma 5-bis dell'art. 113 dlgs 50/2016, ……debbano essere o meno esclusi dal calcolo della spesa del personale e del trattamento accessorio erogato dall'ente e dai relativi limiti di spesa stabiliti dalla vigente normativa” la soluzione non può che essere ricondotta all’effetto innovativo prodotto dal medesimo comma 5-bis a far data dall’entrata in vigore della disposizione normativa in relazione sia al principio del tempus regit actum che a quello dell’irretroattività della legge (art. 11, comma 1, delle Preleggi, secondo il quale la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo).
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Il Sindaco del Comune di Cornedo Vicentino (VI) ha inviato la richiesta di parere ex art. 7, comma 8, della Legge n. 131/2003 esponendo quanto segue.
L’Ente, preliminarmente, richiama la più recente giurisprudenza della Corte dei conti in materia di remunerazione delle funzioni tecniche svolte all’interno dell’Ente, ed in particolare la deliberazione 26.04.2018 n. 6 della Sezione Autonomie con la quale è stato stabilito che “Gli incentivi disciplinati dall’art. 113 del D.Lgs. n. 50 del 2016 nel testo modificato dall’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017, erogati su risorse finanziarie individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli sui quali gravano gli oneri per singoli lavori, servizi e forniture, non sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del D.Lgs. n. 75 del 2017” indicando, al contempo, di aver adottato, con deliberazione della Giunta comunale n. 40 del 20.03.2018, un Regolamento comunale per la costituzione e la ripartizione del fondo incentivi per le funzioni tecniche.
Il Sindaco inoltre dichiara di ritenere che, pur essendovi una parte della dottrina che ritiene che “gli emolumenti siano esclusi dal Fondo per il trattamento accessorio solo a decorrere dal 2018, ovverosia dopo l’integrazione dell’art. 113 con il comma 5-bis approvata con L. 205/2017 (entrata in vigore il 01.01.2018) e non anche per il periodo pregresso che va dal 19.04.2016 ..omissis…al 31.12.2017, affermando che la liquidazione delle prestazioni tecniche rese in detto arco temporale sono soggette al limite di spesa del fondo del trattamento accessorio”, la Corte dei conti, con la summenzionata deliberazione 26.04.2018 n. 6, abbia inteso stabilire fin dall’origine il principio che gli incentivi non sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento accessorio dei dipendenti degli Enti pubblici posto che “la novella normativa non possa avere natura interpretativa alla luce dei principi già stabiliti dal D.Lgs. n. 50/2016 all’art. 113 commi 1 e 2”.
L’ente ritiene che, alla luce delle disposizioni di legge, il Legislatore abbia voluto sin dall'origine mantenere la destinazione delle somme da liquidarsi come incentivi per funzioni tecniche interne nelle somme facenti parte del quadro economico dell'opera e “...solo qualora programmate ed eseguite procedere alla liquidazione dei compensi ai dipendenti per le funzioni tecniche effettivamente compiute”.
Secondo il comune di Cornedo Vicentino la programmazione e la realizzazione delle opere, servizi e forniture dipendono dalla programmazione amministrativa dell'Ente, pertanto si sostiene che “...ragionando per assurdo, lavori pubblici, servizi e forniture potrebbero anche non essere annualmente previsti dall'Ente. Ecco perché detti incentivi non possono rientrare nel fondo salario accessorio, che invece va a remunerare istituti contrattuali relativi ad attività ordinarie dell'Ente come ribadito e precisato dalla Sezione Autonomie”.
Alla luce di dette considerazioni, il Sindaco del Comune di Cornedo Vicentino conclude quindi chiedendo un parere in merito “alla legittimità dell’erogazione degli incentivi di cui all’art. 113 del nuovo Codice dei contratti pubblici D.Lgs. n. 50 del 18/04/2016, imputando la spesa ai competenti capitoli afferenti alla realizzazione di lavori, servizi o forniture effettivamente realizzati nel periodo temporale che va dal 19.04.2016 fino al 31.12.2017.
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Tanto premesso, il quesito formulato dal Comune di Cornedo Vicentino si sostanzia nell’acquisire un parere della Sezione da un lato, in ordine alla legittimità di erogazione degli incentivi imputando la relativa spesa ai capitoli afferenti la realizzazione di lavori servizi e forniture nel periodo temporale che va dall’entrata in vigore dell’art. 113 del Codice Appalti fino al giorno anteriore all’entrata in vigore del comma 5-bis di detto articolo (introdotta far data dal 01.01.2018). Dall’altro, la richiesta necessita di chiarire se sia possibile che le modalità di costituzione e ripartizione del fondo incentivi tecnici contenute in un regolamento approvato nel marzo 2018 possano essere utilizzate per liquidare gli incentivi riferibili al periodo temporale sopra indicato ovvero quello anteriore all’entrata in vigore della novella normativa che riconduce gli oneri per gli incentivi “…al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”.
Venendo al merito, preliminarmente, si evidenzia come la ratio sottesa alla previsione normativa di incentivi per il personale delle pubbliche amministrazioni impegnato nelle attività di progettazione interna agli enti pubblici oltre che nelle attività di esecuzione dei lavori pubblici era finalizzata a valorizzare le professionalità interne esistenti: ciò anche con lo scopo di originare risparmi sulla spesa corrente delle pubbliche amministrazioni che in tal modo, avrebbero potuto evitare di ricorrere, per l’acquisizione di tali prestazioni, all’esternalizzazione con una probabile levitazione degli oneri.
Non va poi sottaciuto che il quadro normativo di riferimento è stato caratterizzato da numerose integrazioni delle disposizioni in materia succedutesi nel tempo in modo non sempre organico. In particolare, l’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 (Codice dei contratti pubblici), rubricato “incentivi per funzioni tecniche”, ha riproposto, in materia di incentivi tecnici, norme previgenti (quali l’art. 18 della legge n. 109 del 1994, e successive modifiche ed integrazioni, e l’art. 92, commi 5 e 6, del d.lgs. n. 163 del 2006, confluito in seguito nell’art. 93, commi 7-bis e seguenti, del medesimo decreto legislativo).
Detta norma consente, previa adozione di un regolamento interno e della stipula di un accordo di contrattazione decentrata, di erogare emolumenti economici accessori a favore del personale interno alle Pubbliche amministrazioni per attività, tecniche e amministrative, nelle procedure di programmazione, aggiudicazione, esecuzione e collaudo (o verifica di conformità) degli appalti di lavori, servizi o forniture.
Successivamente, l’art. 76 del d.lgs. n. 56 del 2017, ha innovato la disciplina prevedendo che l’imputazione degli oneri per le attività tecniche ai pertinenti stanziamenti degli stati di previsione della spesa, vada effettuato non solo con riferimento agli appalti di lavori (nella formulazione originaria della norma), ma anche a quelli di fornitura di beni e di servizi.
In particolare, il comma 2 dell’art. 113 in esame consente alle amministrazioni aggiudicatrici di destinare, a valere sugli stanziamenti di cui al precedente comma 1, “ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara”. L’importo del fondo è destinato a remunerare una serie di funzioni, amministrative e tecniche, svolte dai dipendenti interni ben individuate quali: “attività di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico”.
Il successivo comma 3 della medesima disposizione non solo estende la possibilità di erogare gli incentivi anche ai rispettivi “collaboratori” ma stabilisce che l’80% delle risorse allocate sul detto fondo possa ripartirsi, per ciascun lavoro, servizio, fornitura, “con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti”, ai destinatari indicati al comma 2. Il restante 20%, invece, va destinato secondo quanto prescritto dal successivo comma 4 (acquisto di strumentazioni e tecnologie funzionali all’uso di metodi elettronici di modellazione per l'edilizia e le infrastrutture; attivazione di tirocini formativi; svolgimento di dottorati di ricerca; etc.).
Successivamente, all’articolo 113 del Codice Appalti di cui trattasi è stato aggiunto il comma 5-bis che dispone “Gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”.
In seguito all’entrata in vigore di detta disposizione la Sezione delle Autonomie chiamata a pronunciarsi in merito alla questione interpretativa prospettata dalla Sezione di controllo per la Lombardia in ordine alla circostanza “se i compensi erogati a carico del predetto fondo per gli incentivi tecnici debbano essere computati ai fini del rispetto dei limiti al trattamento accessorio disposti dal soprarichiamato articolo 23, comma 2, d.lgs. n. 75/2017”, ha affermato, sul punto, il seguente principio di diritto “Gli incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 nel testo modificato dall’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017, erogati su risorse finanziarie individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e forniture, non sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017” (Sezione delle Autonomie deliberazione 26.04.2018 n. 6).
Inoltre, proprio in ordine agli incentivi di cui trattasi questa Sezione ha già avuto modo di affermare, altresì, che gli stessi, “diversamente da quanto accade per il trattamento retributivo (principale o accessorio) dei pubblici dipendenti, di competenza della contrattazione collettiva nazionale, sono previsti dalla legge –attualmente, art. 113 del D.lgs. n. 50/2016– che definisce le prestazioni (espletamento di funzioni tecniche, appunto, analiticamente individuate) che danno luogo alla corresponsione degli stessi; lo speciale trattamento retributivo in questione, dunque, trova la propria fonte in una norma, la quale prevede, ai fini della corresponsione –rectius ripartizione del fondo all’uopo accantonato– la fissazione dei criteri e della modalità di distribuzione delle risorse ad esso specificamente “destinate” in sede di contrattazione collettiva decentrata e l’adozione di “apposito regolamento” Quest’ultimo costituisce un “passaggio fondamentale per la regolazione interna della materia” (deliberazione 13.05.2016 n. 18), strumento di adattamento della disciplina normativa alle specifiche esigenze dell’ente, legate alle singole procedure di appalto, ma, nell’ottica che qui interessa, è soprattutto l’atto che, recependo i criteri e le modalità individuati dalla contrattazione decentrata, consente il riparto delle risorse accantonate e rende determinabile il quantum dell’incentivo spettante ai singoli dipendenti, con ciò sancendo il sorgere della pretesa patrimoniale (ovvero del diritto) alla corresponsione del trattamento accessorio.” (questa Sezione parere 25.07.2018 n. 264).
Non solo quindi la norma contempla il ricorso allo strumento regolamentare ma, come questa Sezione ha già avuto modo di osservare, lo stesso va ritenuto quale “…condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse accantonate sul fondo. Ciò, evidentemente, perché esso è destinato ad individuare le modalità ed i criteri della ripartizione, oltre alla percentuale, che comunque non può superare il tetto massimo fissato dalla legge (questa Sezione parere 07.09.2016 n. 353).
Invero, il Collegio ha già affermato in precedenza come “…con riferimento ad una fattispecie sorta nella vigenza della disciplina anteriore al Codice degli appalti, la Corte di Cassazione ha chiarito il proprio orientamento, precisando che i principi affermati nella sentenza del 2004 non avallano affatto la possibilità di riconoscere il diritto all’incentivo in assenza del regolamento (allora prescritto dall’art. 18 della L. n. 109/1994, a seguito delle modifiche introdotte prima dall’art. 16 della L. n. 127/2007 e poi dall’art. 13 della L. n. 144 del 1999) e che, in ogni caso, “l’incentivo può essere attribuito se previsto dalla contrattazione collettiva decentrata e se sia stato adottato l’atto regolamentare della Amministrazione aggiudicatrice volto alla precisazione dei criteri di dettaglio per la ripartizione delle risorse finanziarie confluite nel Fondo” (Cass. civ. sez. lav.,
sentenza 05.06.2017 n. 13937).
Sulla base del tenore, assolutamente analogo, sotto il profilo considerato, delle disposizioni sin qui menzionate ed alla luce delle condivisibili conclusioni alle quali è giunto anche il Giudice del lavoro,
non può configurarsi un diritto soggettivo alla erogazione dell’incentivo (per la progettazione o per funzioni tecniche) prima della adozione del regolamento. In altri termini, secondo il chiaro disposto tanto del previgente art. 93 del D.lgs. n. 163/2016 –ancora applicabile alle fattispecie afferenti alle procedure bandite prima della entrata in vigore del nuovo Codice degli appalti– quanto dell’art. 113 del D.lgs. n. 50/2016, lo svolgimento delle attività tecniche (ed amministrative) non costituisce, in sé, un fatto compiuto generatore della pretesa patrimoniale (essendo, a tal fine, necessario il regolamento e la fissazione dei criteri di riparto del fondo, la cui assenza, sempre secondo la Suprema Corte, non può essere ovviata attraverso l’esercizio della potestà di cui all’art. 2099 c.c.) o, comunque, determinante l’acquisizione definitiva di una utilità da parte dei soggetti interessati
.” (questa Sezione parere 25.07.2018 n. 264 già richiamata).
Con riferimento, invece, alla sottoposizione degli incentivi di cui trattasi maturati prima della novella normativa di cui al richiamato comma 5-bis questa Sezione ha già avuto modo di affermare che
in relazione “...alla questione se gli incentivi per attività svolta e conclusasi con l'aggiudicazione della gara prima dell'entrata in vigore del comma 5-bis del medesimo decreto, ……debbano essere o meno esclusi dal calcolo della spesa del personale e del trattamento accessorio erogato dall'ente e dai relativi limiti di spesa stabiliti dalla vigente normativa” la soluzione non può che essere ricondotta all’effetto innovativo prodotto dal comma 5-bis dell’articolo 113 a far data dall’entrata in vigore della disposizione normativa in relazione sia al principio del tempus regit actum che a quello dell’irretroattività della legge (art. 11, comma 1, delle Preleggi, secondo il quale la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo).
La stessa Sezione delle Autonomie, d’altronde afferma che “… va considerato che, sul piano logico, l’ultimo intervento normativo, pur mancando delle caratteristiche proprie delle norme di interpretazione autentica (tra cui la retroattività), non può che trovare la propria ratio nell’intento di dirimere definitivamente la questione della sottoposizione ai limiti relativi alla spesa di personale delle erogazioni a titolo di incentivi tecnici …”.
Per altro verso la richiamata deliberazione 26.04.2018 n. 6 della sezione delle Autonomie dopo aver affermato che “la ratio legis è quella di stabilire una diretta corrispondenza tra incentivo ed attività compensate in termini di prestazioni sinallagmatiche, nell’ambito dello svolgimento di attività tecniche e amministrative analiticamente indicate e rivolte alla realizzazione di specifiche procedure” in ordine al fatto se le prestazioni per gli incentivi vadano o meno considerate quale spesa del personale, è giunta a ritenere chiaramente che “L’avere correlato normativamente la provvista delle risorse ad ogni singola opera con riferimento all’importo a base di gara commisurato al costo preventivato dell’opera, àncora la contabilizzazione di tali risorse ad un modello predeterminato per la loro allocazione e determinazione, al di fuori dei capitoli destinati a spesa di personale”.
Con ciò confermando che “l’onere relativo non transita nell’ambito dei capitoli dedicati alla spesa del personale e, quindi, non può essere soggetto ai vincoli posti, nel caso in specie agli enti territoriali, alla relativa spesa.” (questa Sezione parere 25.07.2018 n. 265) (Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto, parere 13.11.2018 n. 405).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHELa fonte di copertura inizia a variare per tutte le procedure la cui programmazione della spesa è approvata dopo il 01.01.2018, stante la intima compenetrazione sussistente tra tale programmazione ed i relativi stanziamenti con accantonamento di risorse nel Fondo costituito ai fini della successiva ripartizione e liquidazione dei compensi incentivanti.
Per cui la nuova forma di copertura del Fondo introdotta dal comma 5-bis inizierà ad applicarsi ai contratti pubblici il cui progetto dell'opera o del lavoro sono stati approvati ed inseriti nei documenti di programmazione dopo il 01.01.2018 o, per le altre tipologie di appalti, in cui l’affidamento del contratto è stato deliberato dopo tale data
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Ciò che rileva ai fini della corresponsione dell'incentivo è:
   - da un lato, l’effettivo svolgimento di una delle attività elencate dalla norma di riferimento. Nell’art. 113 citato, infatti, “... l’avverbio “esclusivamente” esprime con chiarezza l’intenzione del legislatore di riconoscere il compenso incentivante limitatamente alle attività espressamente previste, ove effettivamente svolte dal dipendente pubblico, sicché l’elencazione contenuta nella norma deve considerarsi tassativa”
;
   -
dall’altro, che le suddette attività incentivabili siano riferibili a contratti affidati mediante procedura di “gara”, seppur in forma semplificata. L’art. 113, infatti, dispone l’accantonamento in un apposito fondo di risorse finanziarie “... in misura non superiore al 2 per cento modulate sull’importo dei lavori posti a base di gara”, con ciò, quindi, presupponendo esplicitamente lo svolgimento di una gara o, comunque, di una procedura comparativa.
A questo fine inoltre occorre ricordare che
gli incentivi di cui trattasi, in virtù del principio di onnicomprensività del trattamento economico, possono essere corrisposti solo al ricorrere di tutti i requisiti fissati dalla legge.
Il punto dirimente diviene dunque non tanto quello del meccanismo di approvvigionamento, adottato dall’ente, quale presupposto per l’erogazione dell’incentivo
–nella specie il ricorso a Centrali di committenza, Consip o Mepa (che comunque rappresentano meccanismi di gara seppur semplificati tramite e-procurement), autonomamente di per sé considerato–, ma quello dell’effettiva occorrenza, secondo la specifica disciplina della procedura di e-procurement concretamente applicata, di una delle attività incentivate, nel caso di specie concretamente accertata come svolta (vale a dire attività di programmazione della spesa per investimenti, di verifica preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero di direzione dell’esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico). Spetta all’ente tale valutazione, in concreto, nelle diverse possibili evenienze.
Al riguardo,
l’ente, nel valutare concretamente le attività incentivate e le modalità di rimodulazione dell’incentivo nelle diverse evenienze, deve altresì considerare correttamente il quadro normativo, sistematicamente considerato, che prevede che per i compiti svolti dal personale di una centrale unica di committenza, nell'espletamento di procedure di acquisizione di lavori, servizi e forniture per conto di altri enti, possa essere riconosciuta, su richiesta della centrale unica di committenza, una quota parte, non superiore ad un quarto, dell'incentivo (art. 113, comma 5).
Ciò posto,
spetta dunque all’ente la valutazione nelle specifiche evenienze dell’occorrenza, in concreto, di attività effettivamente incentivate in forza della ricordata disposizione normativa.
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E' preclusa alle amministrazioni la possibilità di liquidare incentivi non previsti nei quadri economici dei singoli appalti, in ragione del chiaro quadro normativo e anche per quanto già più volte ribadito dalla giurisprudenza contabile.
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Con la nota sopra citata il Sindaco del Comune di Pioltello (MI) pone tre quesiti concernenti l’erogazione degli “incentivi per funzioni tecniche” di cui all’art. 113, del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 (codice dei contratti pubblici).
In primo luogo, l’Ente dichiara di aver impegnato nel corso dell’anno 2017 somme a titolo di incentivo per le funzioni tecniche (art. 113 del D.Lgs. 50/2016 e ss.mm. e ii.) per le attività previste nel relativo regolamento, sugli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture del bilancio per l’esercizio 2017 e che parte delle attività sono state svolte nel corso del 2017 e parte sono svolte nel corso del 2018 come le attività di aggiudicazione delle gare, direzione dell’esecuzione, collaudo tecnico amministrativo.
Ciò premesso, il Comune di Pioltello, atteso che l’incentivo per le prestazioni relativo a funzioni tecniche, svolte fino al 31.12.2017 rientra nei limiti di cui all’art. 23, comma 2, del decreto legislativo n. 75 del 2017, chiede se, a seguito della deliberazione 26.04.2018 n. 6 della Sezione autonomie della Corte dei Conti, l’incentivo per le prestazioni rese allo stesso titolo nel corso del 2018 e relativo ai sopra detti impegni, non sia soggetto al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti previsto dall’art. 23 citato.
In secondo luogo si chiede conferma che la locuzione prevista all’art. 113 del D.Lgs. 50/2016 “posti a base di gara” escluda dal perimetro di applicazione della norma tutti gli acquisti di beni e servizi effettuati tramite adesione a una convenzione presente in una centrale pubblica d’acquisto sul presupposto del mancato svolgimento della procedura di gara e se sia legittimo riconoscere incentivi tecnici per la parte di attività di controllo connessi all’attuazione di investimenti affidati tramite il ricorso a una convenzione Consip.
Da ultimo si chiede di conoscere se è preclusa la possibilità di liquidare incentivi non previsti nei quadri economici dei singoli appalti per difetto di copertura dei singoli appalti in ragione del chiaro dato normativo.
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La questione degli incentivi per funzioni tecniche è stata ampiamente dibattuta e sul tema si sono pronunciate più volte, sia diverse Sezioni regionali della Corte dei Conti (Sez. Controllo Lombardia parere 07.11.2017 n. 307, Sez. Controllo Lazio parere 06.07.2018 n. 57, Sez. Controllo Friuli Venezia Giulia parere 02.02.2018 n. 6, Sez. Controllo Veneto parere 25.07.2018 n. 264), sia la Sezione Autonomie nella veste di organo nella propria funzione nomofilattica.
Così anche la ricostruzione del quadro giuridico generale e della sua evoluzione nel tempo è stata ampiamente ripresa da questa stessa sezione regionale e anche più recentemente dalla Sezione del Lazio.
Questa stessa sezione si è poi espressa da ultimo (parere 27.09.2018 n. 258), sulla questione relativa alla successione temporale delle norme riferite alla questione della imputabilità degli incentivi tra le spese del personale, ricordando quanto già chiarito dalla Sezione autonomie (deliberazione 26.04.2018 n. 6) circa la efficacia novativa della norma prevista dall’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017 e l’esclusione degli incentivi previsti dall’art. 103 del D.Lgs. 50 del 2016 dalle spese di personale a partire dal 2018, e assumendo a proposito del problema posto la stessa posizione già espressa dalla Sezione Lazio (parere 06.07.2018 n. 57) che afferma sul punto “la fonte di copertura inizia a variare per tutte le procedure la cui programmazione della spesa è approvata dopo il 01.01.2018, stante la intima compenetrazione sussistente tra tale programmazione ed i relativi stanziamenti con accantonamento di risorse nel Fondo costituito ai fini della successiva ripartizione e liquidazione dei compensi incentivanti. Per cui la nuova forma di copertura del Fondo introdotta dal comma 5-bis inizierà ad applicarsi ai contratti pubblici il cui progetto dell'opera o del lavoro sono stati approvati ed inseriti nei documenti di programmazione dopo il 01.01.2018 o, per le altre tipologie di appalti, in cui l’affidamento del contratto è stato deliberato dopo tale data”.
Per quanto concerne il secondo quesito sollevato dalla richiesta di parere del Comune di Pioltello, si chiede conferma che la locuzione prevista all’art. 113 del D.Lgs. 50/2016 “posti a base di gara” escluda dal perimetro di applicazione della norma tutti gli acquisti di beni e servizi effettuati tramite adesione a una convenzione presente in una centrale pubblica d’acquisto sul presupposto del mancato svolgimento della procedura di gara e se sia legittimo riconoscere incentivi tecnici per la parte di attività di controllo connessi all’attuazione di investimenti affidati tramite il ricorso a una convenzione Consip.
A tale fine occorre richiamare quanto già sottolineato da questa stessa sezione (parere 09.06.2017 n. 185) e più recentemente dalla Sezione Toscana (parere 27.03.2018 n. 19).
Al riguardo, la giurisprudenza contabile infatti ha da tempo chiarito come ciò che rileva ai fini della corresponsione di detti incentivi sia:
   - da un lato, l’effettivo svolgimento di una delle attività elencate dalla norma di riferimento. Nell’art. 113 citato, infatti, “... l’avverbio “esclusivamente” esprime con chiarezza l’intenzione del legislatore di riconoscere il compenso incentivante limitatamente alle attività espressamente previste, ove effettivamente svolte dal dipendente pubblico, sicché l’elencazione contenuta nella norma deve considerarsi tassativa” (Sezione regionale di controllo per la Lombardia, parere 09.06.2017 n. 185);
   - dall’altro, che le suddette attività incentivabili siano riferibili a contratti affidati mediante procedura di “gara”, seppur in forma semplificata. L’art. 113, infatti, dispone l’accantonamento in un apposito fondo di risorse finanziarie “... in misura non superiore al 2 per cento modulate sull’importo dei lavori posti a base di gara”, con ciò, quindi, presupponendo esplicitamente lo svolgimento di una gara o, comunque, di una procedura comparativa (Sezione regionale di controllo per la Toscana, parere 14.12.2017 n. 186).
A questo fine inoltre occorre ricordare che gli incentivi di cui trattasi, in virtù del principio di onnicomprensività del trattamento economico, possono essere corrisposti solo al ricorrere di tutti i requisiti fissati dalla legge.
Il punto dirimente diviene dunque non tanto quello del meccanismo di approvvigionamento, adottato dall’ente, quale presupposto per l’erogazione dell’incentivo –nella specie il ricorso a Centrali di committenza, Consip o Mepa (che comunque rappresentano meccanismi di gara seppur semplificati tramite e-procurement), autonomamente di per sé considerato–, ma quello dell’effettiva occorrenza, secondo la specifica disciplina della procedura di e-procurement concretamente applicata, di una delle attività incentivate, nel caso di specie concretamente accertata come svolta (vale a dire attività di programmazione della spesa per investimenti, di verifica preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero di direzione dell’esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico). Spetta all’ente tale valutazione, in concreto, nelle diverse possibili evenienze.
Al riguardo, l’ente, nel valutare concretamente le attività incentivate e le modalità di rimodulazione dell’incentivo nelle diverse evenienze, deve altresì considerare correttamente il quadro normativo, sistematicamente considerato, che prevede che per i compiti svolti dal personale di una centrale unica di committenza, nell'espletamento di procedure di acquisizione di lavori, servizi e forniture per conto di altri enti, possa essere riconosciuta, su richiesta della centrale unica di committenza, una quota parte, non superiore ad un quarto, dell'incentivo (art. 113, comma 5) (Sez. Lombardia parere 09.06.2017 n. 185).
Ciò posto, spetta dunque all’ente la valutazione nelle specifiche evenienze dell’occorrenza, in concreto, di attività effettivamente incentivate in forza della ricordata disposizione normativa.
Con riferimento infine al terzo quesito infine il Comune chiede se sia preclusa la possibilità di liquidare incentivi non previsti nei quadri economici dei singoli appalti per difetto di copertura in ragione del chiaro dato normativo.
Al riguardo questa sezione non può che condividere che sia preclusa alle amministrazioni la possibilità di liquidare incentivi non previsti nei quadri economici dei singoli appalti, in ragione appunto del chiaro quadro normativo e anche per quanto già più volte ribadito dalla giurisprudenza contabile (es. Sez. Liguria deliberazione 29.06.2017 n. 58 e Sezione Toscana parere 14.12.2017 n. 186) (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 06.11.2018 n. 304).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEIl legislatore, con norma innovativa contenuta nella legge di bilancio per il 2018, ha stabilito che gli incentivi gravano su risorse autonome e predeterminate del bilancio (indicate proprio dal comma 5-bis dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016) diverse dalle risorse ordinariamente rivolte all’erogazione di compensi accessori al personale.
Gli incentivi per le funzioni tecniche, quindi, devono ritenersi non soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017.
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Il Sindaco del Comune di BRA (CN), con nota dell’08.02.2018, chiede, all’adita Sezione, l’espressione di un parere ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131.
La Sezione regionale di Controllo per il Piemonte, nell’adunanza del 20.02.2018, ha deliberato di rinviare la discussione del parere posto dal sindaco di Bra. Tale decisione, ha riguardato anche il parere, richiesto successivamente, dal Comune di Trecate, ed è stata motivata dal fatto che su analogo problema, sollevato dalle Sezioni di Controllo per la Regione Puglia e per la Regione Lombardia, doveva esprimersi, nel breve tempo, la sezione delle Autonomie. Tale decisione è stata assunta con deliberazione 26.04.2018 n. 6.
Nella nota in epigrafe il Sindaco, prima della formulazione del quesito specifico, richiama l’attenzione su alcuni principi normativi. In particolare si fa riferimento all' articolo 113, comma 2, del D.Lgs. 18/04/2016 n. 50, recante il nuovo "Codice dei contratti pubblici (così come modificato ad Opera dell'articolo 76 del successivo D.lgs. 19/04/2017, n. 56), in parte innovando rispetto alla disciplina previgente in materia di incentivi per i tecnici dipendenti di amministrazioni pubbliche in caso di appalti di lavori”.
Nella stessa si sottolinea che: “Tale fondo non è previsto da parte di quelle amministrazioni aggiudicatrici per le quali sono in essere contratti o convenzioni che prevedono modalità diverse per la retribuzione delle funzioni tecniche svolte dai propri dipendenti. Gli enti che costituiscono o si avvalgono di una centrale di committenza possono destinare il fondo o parte di esso ai dipendenti dì tale centrale”. “La disposizione di cui al testé citato comma 2 si applica agli appalti relativi a servizi o forniture solo nel caso in cui è nominato il direttore dell'esecuzione”.
Il successivo comma 3 del medesimo articolo di legge”, scrive il Sindaco di BRA nella richiesta di parere, “in analogia a quanto in precedenza disposto dalla richiamata previgente normativa in terna di appalti di opere e lavori pubblici, ha stabilito che l'ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi del comma 2 è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i criteri previsti in sede di Contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche indicate, al comma 2 nonché tra i loro Collaborati”.
Nella stessa nota si fa espresso riferimento all'articolo 1, comma 236, della legge n. 20/2015 (legge dì stabilità 2016) che dispone: “Nelle more dell'adozione dei decreti legislativi attuativi degli articoli 11 e 17 della legge 07.08.2015, n. 124, con particolare riferimento all'omogeneizzazione del trattamento economico fondamentale e accessorio della dirigenza, tenuto conto delle esigenze di finanza pubblica, a decorrere dal 01.01.2016 l'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni, non può superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2015 ed è, comunque, automaticamente ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio, tenendo conto del personale assumibile ai sensi della normativa vigente”.
Inoltre, nella nota in oggetto ci si riferisce alla deliberazione 06.04.2017 n. 7 della sezione delle Autonomie, relativa ad una pronuncia su una questione di massima sollevata dalla sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna, ed in particolare all’enunciazione di diritto in essa contenuta: ”gli incentivi per funzioni tecniche di cui all’art. 113, comma 2, dlgs. n. 50/2016 sono da includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui all’articolo 1, comma 236, l. n. 208/2015 (legge di stabilità 2016)” sottolineando nella medesima deliberazione che “gli stessi si configurino, in maniera inequivocabile, come spese di funzionamento e, dunque, come spese correnti e quindi di personale”.
La nota del Sindaco fa un ulteriore riferimento all’articolo 23, comma 2, del d.lgs. 25.05.2017 n. 75, che ha abrogato il citato articolo 1, comma 236, della legge 208/2015, riformulando la materia di cui trattasi, dal 01.01.2017, nel seguente modo: “omissis.., al fine di assicurare la semplificazione amministrativa, la valorizzazione del merito, la qualità dei servizi e garantire adeguati livelli di efficienza ed economicità dell’azione amministrativa, assicurando al contempo l'invarianza della spesa, a decorrere dal 01.01.2017, l’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 non può superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2016. A decorrere dalla predetta data l'articolo 1, comma 236, della legge 28.12.2015, n. 208 è abrogato. Per gli enti locali che non hanno potuto destinare nell'anno 2016 risorse aggiuntive alla contrattazione integrativa a causa del mancalo rispetto del patto di stabilità interno del 2015, l'ammontare complessivo delle risorse di cui al primo periodo del presente comma non può superare. il corrispondente importo determinato per l’anno 2015, ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio nell'anno 2014”.
Si sottolinea altresì, nella predetta richiesta di parere, che la Sezione delle Autonomie, con successiva deliberazione 10.10.2017 n. 24 si è pronunciata, su una questione di massima, posta dalla Sezione regionale di controllo per la Liguria. Ritenendo la stessa richiesta simile a quella posta dalla sezione di controllo per l’Emilia Romagna, ha dichiarato la questione inammissibile e ha confermato, in modo pieno, il principio di diritto già enunciato, ai sensi dell'art. 6, comma 4, del d.l. 10.10.2012, n. 174, convertito dalla legge 07.12.2012, n. 213, con la deliberazione 06.04.2017 n. 7.
Inoltre il Sindaco di BRA fa espresso riferimento al parere 09.06.2017 n. 113, dalla Sezione di regionale di controllo per il Piemonte in cui si conferma che gli incentivi di cui all’articolo 113, comma 3, del D.lgs. n. 50/2016, rientrano a pieno titolo, nel limite di cui all’articolo 1, comma 236, della legge n. 208/2015.
Infine la legge di bilancio 2018 è intervenuta con l’articolo 1, comma 526, della legge 27.12.2017, aggiungendo all’articolo 113 del D.lgs. n. 50/2016 il comma 5-bis: “Gli incentivi di cui al presente articola fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”. Relativamente a tale enunciato si fa presente, nella nota del Sindaco di BRA, che “non vi è, nelle amministrazioni destinatarie l'assoluta certezza che superi in maniera chiara il principio di diritto come sopra formulato e confermato dalla Corte dei Conti”.
Premesso quanto sopra si formula il seguente quesito: “Se, anche alla luce del nuovo comma 5-bis inserito nell’articolo 113 del D.lgs. n. 50/2016 e s.m.i., gli incentivi per le funzioni tecniche” di cui al comma 3 del medesimo articolo vadano o meno conteggiati ai fini del rispetto del limite annuale di cui all’articolo 23, commi 2 e 3, del D.lgs. n. 75/2017.
...
Il quesito posto dall’ente locale fa riferimento, come in precedenza detto, all’art. 113, comma 5-bis, come modificato dall’articolo 1 comma 526 della legge 27.12.2017, n. 205 (legge di bilancio 2018) che enuncia: “gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”.
In quest’ambito si chiede chiarire se gli incentivi per le “funzioni tecniche” di cui al comma 3 del medesimo articolo (peraltro gli incentivi per le funzioni tecniche vengono indicati al comma 2; ed analogamente anche la delibera della sezione regionale di controllo del Piemonte si riferiva al comma 2 e non al comma 3), vadano o meno conteggiati ai fini del rispetto del limite annuale di cui all’articolo 23, commi 2 e 3, del D.lgs. n. 75/2017 che rispettivamente recitano:
   “comma 2 -nelle more di quanto previsto dal comma 1, al fine di assicurare la semplificazione amministrativa, la valorizzazione del merito, la qualità dei servizi e garantire adeguati livelli di efficienza ed economicità dell'azione amministrativa, assicurando al contempo l'invarianza della spesa, a decorrere dal 01.01.2017, l'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, non può superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2016. A decorrere dalla predetta data l'articolo 1, comma 236, della legge 28.12.2015, n. 208 è abrogato. Per gli enti locali che non hanno potuto destinare nell'anno 2016 risorse aggiuntive alla contrattazione integrativa a causa del mancato rispetto del patto di stabilità interno del 2015, l'ammontare complessivo delle risorse di cui al primo periodo del presente comma non può superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2015, ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio nell'anno 2016.
   Comma 3 - Fermo restando il limite delle risorse complessive previsto dal comma 2, le regioni e gli enti locali, con esclusione degli enti del Servizio sanitario nazionale, possono destinare apposite risorse alla componente variabile dei fondi per il salario accessorio, anche per l'attivazione dei servizi o di processi di riorganizzazione e il relativo mantenimento, nel rispetto dei vincoli di bilancio e delle vigenti disposizioni in materia di vincoli della spesa di personale e in coerenza con la normativa contrattuale vigente per la medesima componente variabile”
.
Su tale quesito si è espressa in modo esaustivo, con
parere 05.02.2018 n. 14, la sezione regionale di controllo per l’Umbria ribadendo che, con riferimento agli incentivi tecnici disciplinati dalla precedente normativa (ex art. 93, comma 7-ter, del D.lgs. n. 163/2006) “vi era stata una pronuncia delle Sezioni Riunite la 51/2011 che aveva “escluso dal rispetto del limite di spesa posto dall’art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78/2010, tutti quei compensi per prestazioni professionali specialistiche offerte da soggetti qualificati, tra i quali l’incentivo per la progettazione”.
In questo specifico contesto si era espressa anche la Sezione delle Autonomie con la
deliberazione 13.11.2009 n. 16/2009, disponendo, ai fini del computo delle voci di spesa da ridurre a norma dell’art. 1, commi 557 e 562, della legge 27.12.2006 n. 296, l’esclusione di incentivi per la progettazione interna a motivo della loro riconosciuta natura: “di spese di investimento, attinenti alla gestione in conto capitale, iscritte nel titolo II della spesa, e finanziate nell’ambito dei fondi stanziati per la realizzazione di un’opera pubblica, e non di spese di funzionamento”.
La Sezione delle Autonomie con la deliberazione 06.04.2017 n. 7, ha stabilito che gli incentivi per le funzioni tecniche, diversi dagli incentivi per la progettazione, rientrino nel tetto del fondo per la contrattazione decentrata.
Su questo punto, in particolare, la Sezione di Controllo per la Liguria con deliberazione n. 58/2017 aveva espressamente richiesto alla Sezione delle Autonomie un riesame della problematica in esame: “la Sezione, considerata l’esigenza di un’interpretazione uniforme della normativa disciplinante gli incentivi tecnici di cui al comma 2 dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016, ai fini del rispetto dei limiti di spesa del personale” sottoponendo la seguente questione di massima: “se gli incentivi tecnici di cui al comma 2 dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016, debbano essere ricompresi nel computo della spesa rilevante ai fini del rispetto del tetto di spesa previsto dall’art. 1, comma 557, della legge n. 296 del 2006, nonché ai fini del rispetto del tetto di spesa previsto dall’art. 1, comma 236, della legge n. 208 del 2015”.
La Sezione delle Autonomie, in risposta alla richiesta formulata dalla sezione di controllo della Liguria, con deliberazione 10.10.2017 n. 24, aveva ribadito il proprio orientamento espresso con la deliberazione 06.04.2017 n. 7 della stessa Sezione, pronunciandosi sul rapporto tra nuovi incentivi e norme vincolistiche sul contenimento della spesa del personale, rimarcando che gli incentivi per le funzioni tecniche di cui all’art. 113, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016, fossero da includere nel tetto di spesa per il salario accessorio dei dipendenti pubblici “posto che gli stessi si configurino, in maniera inequivocabile, come spese di funzionamento e, dunque, come spese correnti, e, quindi, di personale.”
Nella deliberazione 10.10.2017 n. 24 della Sezione delle Autonomie si chiariva che: “Le intervenute modifiche, comunque, non hanno inciso sulla risoluzione adottata da questa Sezione ma, anzi, ne hanno avvalorato l’iter argomentativo in relazione alla rilevata difformità della fattispecie introdotta dall’art. 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016, rispetto all’abrogato istituto degli incentivi alla progettazione.
IV. Ciò debitamente rappresentato, si osserva che la questione di massima deferita dalla Sezione regionale di controllo per la Liguria è sostanzialmente identica a quella già valutata e risolta da questa Sezione delle autonomie con la recente
deliberazione 06.04.2017 n. 7 con la quale, sia pure in via incidentale, in conformità alla questione di massima ad essa in tale sede deferita, la Sezione si è pronunciata anche sul rapporto tra nuovi incentivi e norme vincolistiche sul contenimento della spesa del personale.
Come sottolineato in detta deliberazione, nel delineato nuovo scenario normativo gli incentivi per le funzioni tecniche non possono essere assimilati ai compensi per la progettazione e, pertanto, non possono essere esclusi dal perimetro di applicazione delle norme vincolistiche in tema di contenimento della spesa del personale, nell’alveo delle quali si collocano anche le norme limitative delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio, posto che per detti nuovi incentivi non ricorrono –come anche costantemente affermato dalla giurisprudenza contabile (ex multis: SS.RR. in sede giurisdizionale, sent. n. 23/99/QM n. 2/2012/QM, n. 54/2015/QM)– per le argomentazioni tutte esposte nella richiamata
deliberazione 06.04.2017 n. 7 –come anche costantemente affermato dalla giurisprudenza contabile (ex multis: SS.RR. in sede giurisdizionale, sent. n. 23/99/QM n. 2/2012/QM, n. 54/2015/QM)– i presupposti legittimanti la loro esclusione dal computo di detta voce di spesa, quali delineati dalle Sezioni riunite con la deliberazione 04.10.2011 n. 51 (in relazione ai trattamenti accessori del personale) e dalla Sezione delle autonomie con la
deliberazione 13.11.2009 n. 16/2009 (in relazione al limite previsto per la spesa di personale ex art. 1, commi 557 e 562, della l. 296/2006).
IV.1. Sulla problematica si sono successivamente pronunciate, in sede consultiva, le Sezioni regionali di controllo per il Piemonte e Lombardia (rispettivamente con il parere 09.06.2017 n. 113 e parere 09.06.2017 n. 185) in conformità al principio di diritto espresso dalla Sezione delle autonomie.
Pertanto, allo stato non si registrano ulteriori contrasti interpretativi in relazione alla novella legislativa oggetto della questione di massima nuovamente riproposta dalla Sezione regionale di controllo per la Liguria, ed oggi all’esame
”.
Fermo restando la ricostruzione fin qui svolta, che dava un orientamento restrittivo, è tuttavia intervenuto successivamente l’articolo 1, comma 526, della legge 27/12/2017, n. 205 che ha aggiunto all’articolo 113 il comma 5-bis, che si inserisce all’interno del quadro normativo pregresso, innovandolo.
Nel
parere 05.02.2018 n. 14 della Sezione di Controllo per l’Umbria si sottolinea che la Legge di Bilancio 2018 con l’articolo 1, comma n. 526, ha “infatti, aggiunto all’articolo 113 del d.lgs. n. 75 del 2016, il comma 5-bis il cui testo è il seguente: “Gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”.
In tal modo il legislatore è intervenuto sulla questione della rilevanza degli incentivi tecnici ai fini del rispetto del tetto di spesa per il trattamento accessorio, escludendoli dal computo rilevante ai fini dall'articolo 23, comma 2, d.l.gs. n. 75 del 2017. Il legislatore ha voluto, pertanto, chiarire come gli incentivi non confluiscono nel capitolo di spesa relativo al trattamento accessorio (sottostando ai limiti di spesa previsti dalla normativa vigente) ma fanno capo al capitolo di spesa dell’appalto”.
Del resto, sia il comma 1 che il comma 2 dell’art. 113 citato, già disponevano che tutte le spese afferenti gli appalti di lavori, servizi o forniture, debbano trovare imputazione sugli stanziamenti previsti per i predetti appalti. Il comma 5-bis rafforza tale intendimento e individua come determinante, ai fini dell’esclusione degli incentivi tecnici dai tetti di spesa sopra citati, l’imputazione della relativa spesa sul capitolo di spesa previsto per l’appalto”.
La Sezione delle Autonomie, con deliberazione 26.04.2018 n. 6, ha affrontato due distinte questioni sollevate, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del decreto legge 10.10.2012 n. 174, convertito con modificazioni dalla legge 07.12.2012 n. 213. In particolare:
   1) dalla Sezione di controllo per la Regione Puglia, con la deliberazione 09.02.2018 n. 9, a seguito della richiesta di parere del Sindaco del Comune di San Giovanni Rotondo (FG) concernente l’accertamento, alla luce della novella normativa di cui all’art. 1, comma 526, della L. n. 205/2017, della natura giuridica della spesa per incentivi per funzioni tecniche e dell’inclusione, o meno, della stessa nell’ambito della spesa per il personale, con le relative conseguenze in ordine al rispetto dei vincoli normativi in tema di trattamento accessorio;
   2) dalla Sezione di controllo per la Regione Lombardia, con la
deliberazione 16.02.2018 n. 40, in ordine alla richiesta di parere presentata dal Sindaco del Comune di Cisano Bergamasco (BG) in merito alla sottoposizione ai generali limiti posti al trattamento accessorio del personale dipendente anche degli emolumenti economici erogati a titolo di incentivi dall’art. 113 del codice dei contratti pubblici, d.lgs. n. 50/2016.
Anche ad avviso di questa Sezione di controllo si ritiene che il nuovo assetto normativo fin qui riproposto, possa dare una “nuova” luce ed una più chiara interpretazione che permetta, in modo più esaustivo, di colmare le distanze rispetto a precedenti interpretazioni normative e giurisprudenziali.
Nella predetta delibera della Sezione delle Autonomie si sottolinea che: “Proprio alla luce dei suesposti orientamenti, va considerato che, sul piano logico, l’ultimo intervento normativo, pur mancando delle caratteristiche proprie delle norme di interpretazione autentica (tra cui la retroattività), non può che trovare la propria ratio nell’intento di dirimere definitivamente la questione della sottoposizione ai limiti relativi alla spesa di personale delle erogazioni a titolo di incentivi tecnici proprio in quanto vengono prescritte allocazioni contabili che possono apparire non compatibili con la natura delle spese da sostenere.
La ratio legis è quella di stabilire una diretta corrispondenza tra incentivo ed attività compensate in termini di prestazioni sinallagmatiche, nell’ambito dello svolgimento di attività tecniche e amministrative analiticamente indicate e rivolte alla realizzazione di specifiche procedure. L’avere correlato normativamente la provvista delle risorse ad ogni singola opera con riferimento all’importo a base di gara commisurato al costo preventivato dell’opera, àncora la contabilizzazione di tali risorse ad un modello predeterminato per la loro allocazione e determinazione, al di fuori dei capitoli destinati a spesa di personale.
Sulla questione è anche rilevante considerare che la norma contiene un sistema di vincoli compiuto per l’erogazione degli incentivi che, infatti, sono soggetti a due limiti finanziari che ne impediscono l’incontrollata espansione: uno di carattere generale (il tetto massimo al 2% dell’importo posto a base di gara) e l’altro di carattere individuale (il tetto annuo al 50% del trattamento economico complessivo per gli incentivi spettante al singolo dipendente).
Oltre alla esplicita afferenza della spesa per gli incentivi tecnici al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture è da rilevare che tali compensi non sono rivolti indiscriminatamente al personale dell’ente, ma mirati a coloro che svolgono particolari funzioni (“tecniche”) nell’ambito di specifici procedimenti e ai loro collaboratori (in senso conforme: SRC Lombardia
parere 16.11.2016 n. 333).
Si tratta, quindi di una platea ben circoscritta di possibili destinatari, accomunati dall’essere incaricati dello svolgimento di funzioni rilevanti nell’ambito di attività espressamente e tassativamente previste dalla legge (in senso conforme: SRC Puglia
parere 24.01.2017 n. 5 e parere 21.09.2017 n. 108).
Va rilevato, inoltre, che per l’erogazione degli incentivi l’ente deve munirsi di un apposito regolamento, essendo questa la condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse accantonate sul fondo (in termini: SRC Veneto
parere 07.09.2016 n. 353) e la sede idonea per circoscrivere dettagliatamene le condizioni alle quali gli incentivi possono essere erogate. Il comma 3 dell’art. 113 citato, infatti, fa obbligo all'amministrazione aggiudicatrice, di stabilire “i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro” nel caso di “eventuali incrementi dei tempi o dei costi”.
Una condizione, dunque, che collega necessariamente l’erogazione dell’incentivo al completamento dell’opera o all’esecuzione della fornitura o del servizio oggetto dell’appalto in conformità ai costi ed ai tempi prestabiliti.
Se tale risulta, dunque, il quadro della materia, come configurato a seguito delle ultime modifiche normative intervenute, occorre prendere atto che l’allocazione in bilancio degli incentivi tecnici stabilita dal legislatore ha l’effetto di conformare in modo sostanziale la natura giuridica di tale posta, in quanto finalizzata a considerare globalmente la spesa complessiva per lavori, servizi o forniture, ricomprendendo nel costo finale dell’opera anche le risorse finanziarie relative agli incentivi tecnici. Questi ultimi risultano previsti da una disposizione di legge speciale (l’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016), valevole per i dipendenti di tutte le amministrazioni pubbliche, a differenza degli emolumenti accessori aventi fonte nei contratti collettivi nazionali di comparto.
In altre parole, con un intervento volto a tipizzare espressamente l’allocazione in bilancio degli incentivi per le funzioni tecniche, si deve ritenere che il legislatore (che, in tal modo, ha reso “ordinamentale” il disposto di cui all’art. 113 citato) abbia voluto dare maggiore risalto alla finalizzazione economica degli interventi cui accedono tali risorse, nonostante i possibili dubbi che ne potrebbero conseguire sul piano della gestione contabile. Pur permanendo l’esigenza di chiarire le specifiche modalità operative di contabilizzazione, la novella impone che l'impegno di spesa, ove si tratti di opere, vada assunto nel titolo II della spesa, mentre, nel caso di servizi e forniture, deve essere iscritto nel titolo I, ma con qualificazione coerente con quella del tipo di appalti di riferimento.
Pertanto, il legislatore, con norma innovativa contenuta nella legge di bilancio per il 2018, ha stabilito che i predetti incentivi gravano su risorse autonome e predeterminate del bilancio (indicate proprio dal comma 5-bis dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016) diverse dalle risorse ordinariamente rivolte all’erogazione di compensi accessori al personale. Gli incentivi per le funzioni tecniche, quindi, devono ritenersi non soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017.
La predetta conclusione assorbe le ulteriori questioni poste in via subordinata dalla Sezione remittente lombarda
”.
Questa Sezione, pertanto, non può che uniformare il proprio parere a quanto stabilito dalla Sezione delle Autonomie nella richiamata deliberazione (Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, parere 23.05.2018 n. 54).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEGli incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 nel testo modificato dall’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017, erogati su risorse finanziarie individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e forniture, non sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017.
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Il Sindaco del Comune di San Giovanni Rotondo (FG), dopo aver richiamato la normativa dell’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016 in tema di incentivi per funzioni tecniche ed, in particolare, l’art. 1, comma 526, della L. 27/12/2017 n. 205 che ha aggiunto che tali incentivi “fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniturerichiedeva il parere di questa Sezione al fine di pervenire alla corretta interpretazione della novella normativa ritenendo che i predetti incentivi dovessero essere esclusi dalla voce di spesa del personale per essere allocati al titolo II nell’ambito delle spese di investimento.
...
Con deliberazione 09.02.2018 n. 9, questa Sezione, dopo aver preliminarmente valutato i profili di ricevibilità ed ammissibilità della richiesta, rilevava che la Sezione delle Autonomie, con deliberazione 06.04.2017 n. 7, aveva evidenziato la non sovrapponibilità degli incentivi per funzioni tecniche all’incentivo per la progettazione di cui al previgente art. 93, comma 7-ter, del D.Lgs. n. 163/2006 ed aveva sottolineato che, gli incentivi previsti dall’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016 non sussistono gli elementi che consentono di qualificare la relativa spesa come finalizzata ad investimenti posto che tali emolumenti sono erogabili, con carattere di generalità, anche per gli appalti di servizi e forniture e ciò comporta che gli stessi si configurino, in maniera inequivocabile, come spese di funzionamento e, dunque, come spese correnti (e di personale).
Con la su richiamata deliberazione 06.04.2017 n. 7, la Sezione delle Autonomie aveva aggiunto che non potevano ravvisarsi gli ulteriori presupposti delineati dalla
deliberazione 04.10.2011 n. 51 delle Sezioni riunite in sede di controllo, per escludere gli incentivi di cui trattasi dal limite del tetto di spesa per i trattamenti accessori del personale dipendente “in quanto essi non vanno a remunerare “prestazioni professionali tipiche di soggetti individuati e individuabili” acquisibili anche attraverso il ricorso a personale esterno alla P.A. con possibili aggravi di costi per il bilancio dell’ente interessato”.
Conseguentemente, la Sezione delle Autonomie aveva enunciato il principio di diritto secondo il quale gli incentivi per funzioni tecniche devono essere inclusi nel tetto di spesa per il salario accessorio dei dipendenti pubblici.
Tale conclusione era stata poi confermata dalla successiva deliberazione 10.10.2017 n. 24 della Sezione delle Autonomie  che, preso atto dell’abrogazione del comma 236 dell’art. 1 della legge n. 208/2015 ad opera dell’art. 23, comma 2, del D.Lgs. 25.05.2017 n. 75, aveva ribadito che: “gli incentivi per le funzioni tecniche non possono essere assimilati ai compensi per la progettazione e, pertanto, non possono essere esclusi dal perimetro di applicazione delle norme vincolistiche in tema di contenimento della spesa del personale, nell’alveo delle quali si collocano anche le norme limitative delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio”.
Questa Sezione, rilevato che la collocazione della spesa per incentivi tecnici nell’ambito del medesimo capitolo di spesa di realizzazione dell’opera pubblica introdotta dalla legge di stabilità 2018, comportando l’esclusione di tale tipologia di spesa dall’ammontare complessivo della spesa del personale e della spesa per il trattamento accessorio superava, di fatto, l’interpretazione resa dalla Sezione delle Autonomie con le su enunciate deliberazione 06.04.2017 n. 7 e deliberazione 10.10.2017 n. 24, sottolineava che quando il legislatore ha ritenuto di escludere determinate spese dall’ammontare complessivo della spesa del personale lo ha affermato espressamente, come avvenuto con l’art. 1, comma 424, della L. 23/12/2014 n. 190 in tema di ricollocazione del personale delle Province e con l’art. 11, comma 4-ter, del D.L. 24/06/2014 n. 90 convertito dalla L. 11/08/2014 n. 114, per i comuni colpiti dal sisma.
Aggiungeva, inoltre, la Sezione che poteva assumere valore indiziante della natura di spesa del personale anche l’esame del glossario Siope, vigente per gli enti territoriali a decorrere dal 2018, dal quale emerge che: “i compensi a titolo di incentivo alla progettazione devono essere erogati al personale utilizzando gli appositi codici di spesa previsti per la spesa di personale” e che, anche nell’ipotesi in cui si fosse aderito alla tesi che trattasi in ogni caso di spesa corrente eccezionalmente allocabile al titolo II della spesa, il finanziamento di tale spesa non avrebbe potuto comunque avvenire mediante ricorso all’indebitamento stante il disposto dell’art. 119, ultimo comma, della Costituzione che vieta il ricorso all’indebitamento per il finanziamento di spesa corrente, confermato anche dall’art. 202 del Tuel.
Conclusivamente, questa Sezione riteneva che la questione volta ad accertare la natura giuridica della spesa per incentivi per funzioni tecniche e l’eventuale esclusione dalla spesa del personale e del trattamento accessorio alla luce della novella normativa di cui all’art. 1, comma 526, della L n. 205/2017, assumeva notevole rilevanza inserendosi in un contesto normativo per il quale risultavano già intervenute la
deliberazione 04.10.2011 n. 51 delle Sezioni riunite in sede di controllo  e la deliberazione 13.05.2016 n. 18, deliberazione 06.04.2017 n. 7 e deliberazione 10.10.2017 n. 24 delle Sezioni delle Autonomie e pertanto sottoponeva al Presidente della Corte dei conti la valutazione dell’opportunità di deferire la questione di massima alle Sezioni riunite in sede di controllo o alla Sezione delle Autonomie, ai sensi dell’art. 17, comma 31, del D.L. n. 78/2009 e dell’art. 6, comma 4, del D.L. 10.10.2012 n. 174.
Con deliberazione 26.04.2018 n. 6, la Sezione delle Autonomie ha chiarito che gli incentivi per funzioni tecniche sono, per loro natura, estremamente variabili nel corso del tempo e, come tali, difficilmente assoggettabili a limiti di finanza pubblica a carattere generale che hanno come parametro di riferimento un predeterminato anno base; che la normativa delineata dall’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016 contiene un compiuto sistema di vincoli per l’erogazione degli incentivi individuando due limiti finanziari che ne impediscono l’incontrollata espansione: uno di carattere generale, il tetto massimo al 2% dell’importo posto a base di gara e l’altro di carattere individuale, il tetto annuo al 50% del trattamento economico complessivo per gli incentivi spettante al singolo dipendente e che la ratio legis della disposizione introdotta dall’art. 1, comma 526, della L. n. 205/2017, “è quella di stabilire una diretta corrispondenza tra incentivo ed attività compensate in termini di prestazioni sinallagmatiche, nell’ambito dello svolgimento di attività tecniche e amministrative analiticamente indicate e rivolte alla realizzazione di specifiche procedure. L’avere correlato normativamente la provvista delle risorse ad ogni singola opera con riferimento all’importo a base di gara commisurato al costo preventivato dell’opera, àncora la contabilizzazione di tali risorse ad un modello predeterminato per la loro allocazione e determinazione, al di fuori dei capitoli destinati a spesa di personale”.
La Sezione delle Autonomie ha, inoltre, evidenziato che “tali compensi non sono rivolti indiscriminatamente al personale dell’ente, ma mirati a coloro che svolgono particolari funzioni nell’ambito di specifici procedimenti e ai loro collaboratori” e che “l’allocazione in bilancio degli incentivi tecnici stabilita dal legislatore ha l’effetto di conformare in modo sostanziale la natura giuridica di tale posta, in quanto finalizzata a considerare globalmente la spesa complessiva per lavori, servizi o forniture, ricomprendendo nel costo finale dell’opera anche le risorse finanziarie relative agli incentivi tecnici” conferendo, quindi, “maggiore risalto alla finalizzazione economica degli interventi cui accedono tali risorse” e pertanto “pur permanendo l’esigenza di chiarire le specifiche modalità operative di contabilizzazione, la novella impone che l'impegno di spesa, ove si tratti di opere, vada assunto nel titolo II della spesa, mentre, nel caso di servizi e forniture, deve essere iscritto nel titolo I, ma con qualificazione coerente con quella del tipo di appalti di riferimento”.
I predetti incentivi gravano, inoltre, su risorse autonome e predeterminate del bilancio (indicate proprio dal comma 5-bis dell’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016) diverse dalle risorse ordinariamente rivolte all’erogazione di compensi accessori al personale.
Conclusivamente, sulla questione di massima all’esame, la Sezione delle Autonomie della Corte dei conti ha pronunciato il seguente principio di diritto al quale questa Sezione si conforma: “Gli incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 nel testo modificato dall’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017, erogati su risorse finanziarie individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e forniture, non sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017” (Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia, parere 16.05.2018 n. 74).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEGli incentivi disciplinati dall’art. 113, comma 2, del D.Lgs. n. 50 del 2016, in virtù delle modifiche introdotte dall’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017, non sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del D.Lgs. n. 75 del 2017.
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Con nota acquisita al protocollo interno della Sezione al n. 759 in data 01.03.2018, il Sindaco del Comune di Montecatini Terme (PT) ha inoltrato, per il tramite del Consiglio delle Autonomie Locali, richiesta di parere ex art. 7, comma 8, della l. n. 131/2003, avente ad oggetto gli oneri derivanti dall’erogazione degli incentivi per funzioni tecniche.
In particolare, l’Ente, dato conto della novella legislativa recata dall’art. 1, co. 526, della L. n. 205/2017 (legge di bilancio 2018) –che ha introdotto nell’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016 il comma 5-bis, a mente del quale “Gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”– e richiamata la giurisprudenza delle Sezioni riunite in sede giurisdizionale e della Sezione delle autonomie della Corte dei conti relativamente alla qualificazione degli incentivi per funzioni tecniche quali spese di funzionamento (spese di personale), ha formulato i seguenti quesiti:
   “1) In virtù del comma 5-bis dell'art. 113 del D.Lgs. 50/2016 tutti gli incentivi per le funzioni tecniche di cui al comma 2 del precitato art. 113 sono da escludersi dal tetto di spesa del fondo per il trattamento economico accessorio?
   2) Se, in caso di risposta negativa, siano da escludersi dal tetto gli incentivi relativi alle spese d'investimento e come tali finanziati sul titolo II ovvero gli incentivi volti a remunerare prestazioni professionali tipiche la cui provvista all'esterno potrebbe comportare aggravi di spesa a carico dei bilanci delle amministrazioni pubbliche (direttore dei lavori, collaudi, etc.)?
   3) Se gli incentivi per funzioni tecniche spettino anche agli appalti di forniture e servizi la cui provvista avvenga in virtù di adesioni a Convenzioni Consip o simili?
   4) Vista altresì la deliberazione della Corte dei Conti Lombardia n. 305/2017 successiva al pronunciamento di Codesta illustrissima Corte (177/2017) con cui la stessa Corte della Lombardia così si pronuncia in merito alla retroattività del regolamento ex art. 113 del Codice: "Ne deriva che non può aversi ripartizione del fondo tra gli aventi diritto se non dopo l'adozione del prescritto regolamento. Il che tuttavia non impedisce che quest'ultimo possa disporre anche la ripartizione degli incentivi per funzioni tecniche espletate dopo l'entrata in vigore dei nuovo codice dei contratti pubblici e prima dell'adozione del regolamento stesso, utilizzando le somme già accantonate allo scopo nel quadro economico riguardante la singola opera (Sezione regionale di controllo per la Lombardia, deliberazione n. 185/2017/PAR; Sezione regionale di controllo per il Veneto, deliberazione n. 353/2016/PAR)." si chiede se codesta illustrissima Corte ritenga di concordare con tale posizione e se, in caso affermativo sia possibile liquidare gli incentivi (a seguito dell'adozione del relativo regolamento) anche qualora le somme non siano state previste nei quadri economici riguardanti i singoli appalti
”.
Nell’adunanza del 27.03.2018, questo Collegio rilevava come la Sezione regionale di controllo per la Puglia (con deliberazione 09.02.2018 n. 9) e la Sezione regionale di controllo per la Lombardia (con
deliberazione 16.02.2018 n. 40) avessero sollevato –ai sensi degli artt. 17, co. 31, del D.L. n. 78/2009 e 6, co. 4, del D.L. n. 174/2012– apposita questione di massima in ordine alla natura giuridica degli incentivi ex art. 113 del D.Lgs. 50/2016, ai fini della loro eventuale esclusione dalla spesa del personale e del trattamento accessorio, alla luce della novella legislativa recata dall’art. 1, co. 526, della L. n. 205/2017, che, come ricordato, ha introdotto il nuovo comma 5-bis all’art. 113 citato.
Pertanto, con parere 27.03.2018 n. 19, la Sezione, dopo aver reso il parere con riferimento al terzo e quarto quesito, rinviava la decisione relativamente alle prime due domande all’esito delle determinazioni che sarebbero state assunte in merito, in via nomofilattica, dalla Sezione delle autonomie.
A seguito del deposito della deliberazione 26.04.2018 n. 6 della Sezione delle autonomie, con la quale è stata risolta la questione di massima in parola, è stata fissata l’udienza di camera di consiglio per la risoluzione delle questioni rimanenti.
...
2. Nel merito, con il primo quesito il Comune chiede se, considerata la modifica legislativa intervenuta, sia possibile escludere tutti gli incentivi ex art. 113 citato dal tetto di spesa del fondo per il trattamento economico accessorio.
Con il secondo quesito il Comune chiede, invece, se -in caso di risposta negativa alla questione di cui al punto che precede– “… siano da escludersi dal tetto gli incentivi relativi alle spese d'investimento e come tali finanziati sul titolo II ovvero gli incentivi volti a remunerare prestazioni professionali tipiche la cui provvista all'esterno potrebbe comportare aggravi di spesa a carico dei bilanci delle amministrazioni pubbliche (direttore dei lavori, collaudi, etc.)”.
3. La Sezione delle autonomie, con la richiamata deliberazione 26.04.2018 n. 6, ha risolto la questione di massima sottoposta dalle Sezioni pugliese e lombarda, affermando che “Gli incentivi disciplinati dall’art. 113 del D.Lgs. n. 50 del 2016 nel testo modificato dall’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017, erogati su risorse finanziarie individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e forniture, non sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del D.Lgs. n. 75 del 2017”.
4. Il percorso motivazionale seguito dalla Sezione delle autonomie, premessa l’esposizione del quadro normativo di riferimento, muove dalla disciplina innovativamente introdotta dal legislatore con il comma 5-bis dell’art. 113 del codice degli appalti.
In proposito, asseriva che: “Anche se l’allocazione contabile degli incentivi di natura tecnica nell’ambito del ‘medesimo capitolo di spesa’ previsto dai singoli lavori, servizi o forniture potrebbe non mutarne la natura di spesa corrente –trattandosi, in senso oggettivo, di emolumenti di tipo accessorio spettanti al personale– la contabilizzazione prescritta ora dal legislatore sembra consentire di desumere l’esclusione di tali risorse dalla spesa di personale e dalla spesa per il trattamento accessorio (…) sul piano logico, l’ultimo intervento normativo, pur mancando delle caratteristiche proprie delle norme di interpretazione autentica (tra cui la retroattività), non può che trovare la propria ratio nell’intento di dirimere definitivamente la questione della sottoposizione ai limiti relativi alla spesa di personale delle erogazioni a titolo di incentivi tecnici proprio in quanto vengono prescritte allocazioni contabili che possono apparire non compatibili con la natura delle spese da sostenere.
La ratio legis è quella di stabilire una diretta corrispondenza tra incentivo ed attività compensate in termini di prestazioni sinallagmatiche, nell’ambito dello svolgimento di attività tecniche e amministrative analiticamente indicate e rivolte alla realizzazione di specifiche procedure. L’avere correlato normativamente la provvista delle risorse ad ogni singola opera con riferimento all’importo a base di gara commisurato al costo preventivato dell’opera, àncora la contabilizzazione di tali risorse ad un modello predeterminato per la loro allocazione e determinazione, al di fuori dei capitoli destinati a spesa di personale.
Sulla questione è anche rilevante considerare che la norma contiene un sistema di vincoli compiuto per l’erogazione degli incentivi che, infatti, sono soggetti a due limiti finanziari che ne impediscono l’incontrollata espansione: uno di carattere generale (il tetto massimo al 2% dell’importo posto a base di gara) e l’altro di carattere individuale (il tetto annuo al 50% del trattamento economico complessivo per gli incentivi spettante al singolo dipendente).
Oltre alla esplicita afferenza della spesa per gli incentivi tecnici al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture è da rilevare che tali compensi non sono rivolti indiscriminatamente al personale dell’ente, ma mirati a coloro che svolgono particolari funzioni (“tecniche”) nell’ambito di specifici procedimenti e ai loro collaboratori (in senso conforme: SRC Lombardia
parere 16.11.2016 n. 333).
Si tratta, quindi, di una platea ben circoscritta di possibili destinatari, accomunati dall’essere incaricati dello svolgimento di funzioni rilevanti nell’ambito di attività espressamente e tassativamente previste dalla legge (in senso conforme: SRC Puglia
parere 24.01.2017 n. 5 e parere 21.09.2017 n. 108).
Va rilevato, inoltre, che per l’erogazione degli incentivi l’ente deve munirsi di un apposito regolamento, essendo questa la condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse accantonate sul fondo (in termini: SRC Veneto
parere 07.09.2016 n. 353) e la sede idonea per circoscrivere dettagliatamene le condizioni alle quali gli incentivi possono essere erogate. Il comma 3 dell’art. 113 citato, infatti, fa obbligo all'amministrazione aggiudicatrice, di stabilire “i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro” nel caso di “eventuali incrementi dei tempi o dei costi”. Una condizione, dunque, che collega necessariamente l’erogazione dell’incentivo al completamento dell’opera o all’esecuzione della fornitura o del servizio oggetto dell’appalto in conformità ai costi ed ai tempi prestabiliti”.
5. Tutto ciò premesso ed alla luce del principio espresso dalla Sezione delle autonomie con la riportata deliberazione, avente valenza vincolante per le Sezioni regionali della Corte, può affermarsi che gli incentivi disciplinati dall’art. 113, comma 2, del D.Lgs. n. 50 del 2016, in virtù delle modifiche introdotte dall’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017, non sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del D.Lgs. n. 75 del 2017.
Ciò, fermi naturalmente restando i vincoli oggettivi, soggettivi e procedurali stabiliti dalla normativa e richiamati nella citata deliberazione 26.04.2018 n. 6 della Sezione delle autonomie.
6. Il secondo quesito posto dal Comune, in quanto subordinato alla eventuale risposta negativa al primo, risulta dunque assorbito (Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana, parere 09.05.2018 n. 30).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Poteri dell’Amministrazione su c.i.l.a. presentata per lavori di manutenzione straordinaria.
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Edilizia - C.i.l.a. – Valutazione di ammissibilità - Esclusione - Limite.
La c.i.l.a. relativa a lavori di manutenzione straordinaria, inoltrata dal privato alla Pubblica amministrazione, non può essere oggetto di una valutazione in termini di ammissibilità o meno dell’intervento da parte dell’amministrazione comunale ma, al contempo, a quest’ultima non è precluso il potere di controllare la conformità dell’immobile oggetto di c.i.l.a. alle prescrizioni vigenti in materia (1).
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   (1) Ha ricordato il Tar che la c.i.l.a. è ritenuta atto avente natura privatistica, come tale non suscettibile di autonoma impugnazione innanzi al g.a. (Tar Catania, sez. I, 16.07.2018, n. 1497).
Operando un raffronto con la s.c.i.a., il Consiglio di Stato, nel parere reso il 04.08.2016, n. 1784, rileva come “l’attività assoggettata a c.i.l.a. non solo è libera, come nei casi di s.c.i.a., ma, a differenza di quest’ultima, non è sottoposta a un controllo sistematico, da espletare sulla base di procedimenti formali e di tempistiche perentorie, ma deve essere soltanto conosciuta dall’amministrazione, affinché essa possa verificare che, effettivamente, le opere progettate importino un impatto modesto sul territorio”, conseguendo a ciò che “ci si trova… di fronte a un confronto tra un potere meramente sanzionatorio (in caso di c.i.l.a.) con un potere repressivo, inibitorio e conformativo, nonché di autotutela (con la s.c.i.a.)”.
Sotto altro profilo, peraltro, giova osservare come la p.a. in materia edilizia mantenga fermo, sulla scorta del regime giuridico di cui all’art. 27, d.P.R. n. 380 del 2001, un potere di vigilanza contro gli abusi, implicitamente contemplato dallo stesso art. 6-bis, d.P.R. n. 380 del 2001
Ne deriva che il diniego della c.i.l.a. è nullo ai sensi dell’art. 21-septies, l. n. 241 del 1990, poiché espressivo di un potere non tipizzato nell’art. 6-bis, d.P.R. n. 380 del 2001, salva e impregiudicata l’attività di vigilanza contro gli abusi e l’esercizio della correlata potestà repressiva dell’Ente territoriale (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 29.11.2018 n. 2052 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
6. Il ricorso sottoposto al vaglio del Collegio è articolato su un duplice petitum, il primo dei quali ha ad oggetto la richiesta di annullamento o nullità del diniego di c.i.l.a., mentre il secondo è finalizzato a conseguire una pronuncia di accertamento.
7. Ciò chiarito, è fondata la domanda con cui la ricorrente denuncia la nullità dell’avversato rigetto, in quanto espressione di un potere non tipizzato nell’art. 6-bis D.P.R. n. 380/2001.
Occorre premettere che la c.i.l.a. è stata introdotta dall'art. 3, comma 1, lett. c), D.Lgs. n. 222/2016. Sulla novella si sono appuntante le riflessioni del Consiglio di Stato nel parere reso il 04.08.2016, n. 1784, in cui essa è qualificata come “un istituto intermedio tra l’attività edilizia libera e la s.c.i.a.”, ascrivibile, al pari del secondo, nel genus della liberalizzazione delle attività private.
In particolare, la c.i.l.a. ha carattere residuale, poiché applicabile agli interventi non riconducibili tra quelli elencati agli artt. 6, 10 e 22 D.P.R. n. 380/2001 e riguardanti, rispettivamente, l’edilizia libera, le opere subordinate a permesso di costruire e le iniziative edilizie sottoposte a s.c.i.a.
In base, poi, alle prime pronunce giurisprudenziali,
la c.i.l.a. è ritenuta atto avente natura privatistica, come tale non suscettibile di autonoma impugnazione innanzi al g.a. (TAR Catania, Sez. I, 16.07.2018, n. 1497).
Operando un raffronto con la s.c.i.a., il Consiglio di Stato, nel menzionato parere, rileva inoltre come “
l’attività assoggettata a c.i.l.a. non solo è libera, come nei casi di s.c.i.a., ma, a differenza di quest’ultima, non è sottoposta a un controllo sistematico, da espletare sulla base di procedimenti formali e di tempistiche perentorie, ma deve essere soltanto conosciuta dall’amministrazione, affinché essa possa verificare che, effettivamente, le opere progettate importino un impatto modesto sul territorio”, conseguendo a ciò che “ci si trova… di fronte a un confronto tra un potere meramente sanzionatorio (in caso di c.i.l.a.) con un potere repressivo, inibitorio e conformativo, nonché di autotutela (con la s.c.i.a.)”.
Sotto altro profilo, peraltro, giova osservare come la p.a. in materia edilizia mantenga fermo, sulla scorta del regime giuridico di cui all’art. 27, D.P.R. n. 380/2001, un potere di vigilanza contro gli abusi, implicitamente contemplato dallo stesso art. 6-bis, D.P.R. n. 380/2001 (Consiglio di Stato, Commissione speciale, cit.).
In ragione di quanto evidenziato, quindi,
la c.i.l.a. inoltrata dal privato alla p.a. non può essere oggetto di una valutazione in termini di ammissibilità o meno dell’intervento da parte dell’amministrazione comunale ma, al contempo, a quest’ultima non è precluso il potere di controllare la conformità dell’immobile oggetto di c.i.l.a. alle prescrizioni vigenti in materia.
Ne deriva che
l’avversato provvedimento di diniego della c.i.l.a., adottato dalla resistente amministrazione, è nullo ai sensi dell’art. 21-septies, L. n. 241/1990, poiché espressivo di un potere non tipizzato nell’art. 6-bis D.P.R. n. 380/2001, salva e impregiudicata l’attività di vigilanza contro gli abusi e l’esercizio della correlata potestà repressiva dell’Ente territoriale.
Sul punto, occorre inoltre osservare come il Collegio sia consapevole che, ad avviso di altro orientamento giurisprudenziale, eventuali provvedimenti “… dell’ente in ordine alla ammissibilità degli interventi comunicati con CILA non hanno… carattere provvedimentale ma meramente informativo, non rispondendo gli stessi ad un potere legislativamente tipizzato” (TAR Toscana, Sez. III, n. 20.09.2016, n. 1625). La qualificazione del diniego di c.i.l.a. in termini di atto meramente informativo postulerebbe quale conseguenza la declaratoria di inammissibilità del ricorso per assenza di lesività dell’atto impugnato, soluzione che, ad avviso dell’adìto T.a.r., non è condivisibile.
Invero, il diniego di c.i.l.a. -sebbene provvedimento nullo secondo quanto chiarito- incide comunque nella dinamica del rapporto giuridico amministrativo tra privato e p.a. Pertanto, la declaratoria di nullità dello stesso impedisce -diversamente dalla qualificazione dell’atto quale mera informazione e conseguente inammissibilità del gravame- che il descritto rapporto giuridico amministrativo possa mantenere una zona grigia di ambiguità tra privato e p.a..
7. Va di contro rigettata la domanda tesa a conseguire nella fattispecie una pronuncia di accertamento della regolarità del fabbricato e delle conseguenti facoltà esercitabili dalla ricorrente, involgendo la verifica della regolarità dell’immobile valutazioni di esclusiva spettanza dell’amministrazione comunale, rispetto alle quali una sentenza di accertamento implicherebbe uno sconfinamento della potestà giurisdizionale nella sfera riservata alla p.a., al di fuori delle tassative ipotesi di giurisdizione di merito previste dall’art. 134 c.p.a..

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATASecondo un principio consolidato “il contributo di concessione va determinato con riferimento alla disciplina, legislativa e regolamentare, vigente al momento del rilascio del titolo edilizio, che segna il perfezionamento della fattispecie concessoria (o autorizzatoria, a seconda della tipologia di titolo edilizio)”.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale cui il Collegio aderisce,
la misura del contributo di costruzione può essere successivamente rideterminata nel caso di errore di calcolo rispetto al contributo dovuto in base alla situazione di fatto e alla disciplina vigente al tempo del rilascio del titolo.
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Tali considerazioni devono reputarsi estensibili anche alla c.d. monetizzazione di standard, in quanto –nonostante la diversa natura di tale pretesa rispetto a quella concernente il contributo di costruzione deve ritenersi che, anche in relazione a tale diritto di credito, la fonte dell’obbligazione sia comunque costitutiva dal provvedimento assentivo dell’intervento, sia esso un atto espresso del Comune o un atto privato rispetto al quale l’Amministrazione non esercita alcun potere inibitorio.
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Nel caso in cui l’intervento sia legittimato da una denuncia di inizio attività, il termine per la rideterminazione degli importi dovuti decorre dalla presentazione della denuncia, poiché dal relativo contenuto sono desumibili tutti i profili dell’intervento rilevanti per la quantificazione di tali importi.
Alla medesima data dovrà, inoltre, farsi riferimento anche per l’individuazione della disciplina applicabile ai fini della determinazione delle somme, atteso che “la d.i.a. non costituisce un provvedimento amministrativo a formazione tacita, ma un atto privato, volto a comunicare l'intenzione di intraprendere un'attività direttamente ammessa dalla legge, che si perfeziona con la sua presentazione, per cui allo stesso non può che applicarsi la disciplina legislativa vigente al momento della sua presentazione alla pubblica amministrazione”
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La quantificazione degli standard e la misura del contributo di costruzione devono, quindi, determinarsi in ragione della normativa vigente all’epoca della formazione dell’effettivo titolo che costituisce la fonte o il presupposto di tale obbligazione.
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2.1. Il ricorso è parzialmente fondato ai sensi e nei limiti di seguito indicati.
2.2. Gli interventi edilizi realizzati dalla società ricorrente e ai quali fa riferimento il provvedimento comunale di determinazione degli stardard urbanistici e del contributo di costruzione hanno fondamento giuridico in una pluralità di titoli, in precedenza indicati.
Secondo un principio consolidato “il contributo di concessione va determinato con riferimento alla disciplina, legislativa e regolamentare, vigente al momento del rilascio del titolo edilizio, che segna il perfezionamento della fattispecie concessoria (o autorizzatoria, a seconda della tipologia di titolo edilizio)” (Consiglio di Stato, sez. VI, 07.05.2015, n. 2294; nello stesso senso, ex plurimis: Id., Sez. IV, 07.06.2012, n. 3379; Id., Sez. IV, 25.06.2010, n. 4109; Id, Sez. V, 13.06.2003, n. 3332).
Secondo l’orientamento giurisprudenziale cui il Collegio aderisce, la misura del contributo di costruzione può essere successivamente rideterminata nel caso di errore di calcolo rispetto al contributo dovuto in base alla situazione di fatto e alla disciplina vigente al tempo del rilascio del titolo (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 12.06.2017, n. 2821).
Tali considerazioni devono reputarsi estensibili anche alla c.d. monetizzazione di standard, in quanto –nonostante la diversa natura di tale pretesa rispetto a quella concernente il contributo di costruzione (Cons. Stato, Sez. IV, 28.12.2012, nn. 6706, 6707 e 6708; Id., 16.02.2011, n. 1013; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 26.07.2016, n. 1507; Id., 19.07.2016, n. 1447: Id., 01.08.2013, n. 2056; Id., 14.02.2013, n. 451; TAR Campania, Salerno, Sez. I, 15.09.2014, n. 1558)– deve ritenersi che, anche in relazione a tale diritto di credito, la fonte dell’obbligazione sia comunque costitutiva dal provvedimento assentivo dell’intervento, sia esso un atto espresso del Comune o un atto privato rispetto al quale l’Amministrazione non esercita alcun potere inibitorio.
Infatti, nel caso in cui l’intervento sia legittimato da una denuncia di inizio attività, il termine per la rideterminazione degli importi dovuti decorre dalla presentazione della denuncia, poiché dal relativo contenuto sono desumibili tutti i profili dell’intervento rilevanti per la quantificazione di tali importi.
Alla medesima data dovrà, inoltre, farsi riferimento anche per l’individuazione della disciplina applicabile ai fini della determinazione delle somme, atteso che “la d.i.a. non costituisce un provvedimento amministrativo a formazione tacita, ma un atto privato, volto a comunicare l'intenzione di intraprendere un'attività direttamente ammessa dalla legge, che si perfeziona con la sua presentazione, per cui allo stesso non può che applicarsi la disciplina legislativa vigente al momento della sua presentazione alla pubblica amministrazione” (così Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 29.07.2011 n. 15; Consiglio di Stato, sez. IV, 04.09.2012 n. 4669; Id., sez. IV, 07.07.2016, n. 3014; Tar per la Lombardia–sede di Milano, sez. II, 16.06.2014, n. 1578; TAR per la Lombardia–sede di Milano, Sez. I, 30.11.2016, n. 2277).
2.3. La quantificazione degli standard e la misura del contributo di costruzione devono, quindi, determinarsi in ragione della normativa vigente all’epoca della formazione dell’effettivo titolo che costituisce la fonte o il presupposto di tale obbligazione.
Nel caso di specie, la D.I.A. del 20.10.2010 è relativa alla demolizione di fabbricato preesistente a destinazione autorimessa, sito a Milano in via ... 25, e alla costruzione di nuovo edificio residenziale, per una s.l.p. di 2123,21 mq., e si perfeziona in ragione del mancato esercizio di poteri inibitori da parte del Comune.
La D.I.A. è quindi titolo legittimo dell’intervento in esame, non sostituito dai successivi interventi che hanno portata più limitata e che, comunque, non sostituiscono il primo titolo. Infatti, la successiva D.I.A. del 2012 costituisce una variante ordinaria che limita semplicemente la s.l.p. a 2122,28 mq.
Il successivo intervento (permesso di costruire n. 154 del 2014) non comporta la mera sostituzione del patrimonio edilizio esistente pur generando un aumento della s.l.p.. L’ultimo intervento è costituito dalla segnalazione certificata di inizio attività del 10.04.2014 con la quale si realizzano semplicemente opere di completamento della precedente D.I.A.
2.4. La concreta disamina svolta consente, quindi, di affermare che gli interventi –pur relativi alla medesima complessiva opera e aventi delle fisiologiche interferenze– costituiscono lavori legittimati dai rispettivi titoli e per questo sottoposti alla normativa vigente all’epoca di formazione degli stessi (cfr., Consiglio di Stato, sez. VI, 24.11.2017, n. 5485).
Di conseguenza, la determinazione degli standard urbanistici e del contributo di costruzione non può che avere ad oggetto lo specifico intervento realizzato con applicazione della normativa ratione temporis vigente. In particolare, la prima D.I.A. del 2010 risulta soggetta alle prescrizioni dettate dal previgente P.R.G.; al contrario, sono soggette alla specifiche regole dettate dal sopraggiunto P.G.T. (in relazione ai singoli interventi assentiti) i successivi titoli sin qui esaminati (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 31.08.2018 n. 2039 - link a www.giustizia-amministrativa.it
).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Conclusione del periodo transitorio di dodici mesi, previsto dall’art. 13 della l.r. 33/2015, durante il quale è consentito il deposito della documentazione di cui all’art. 6 della medesima L.R. 33/2015 e ss.mm.ii. in formato sia elettronico che cartaceo, prorogato dal D.d.u.o. 21.05.2018 - n. 7262 (B.U.R.L. Serie Ordinaria n. 21 - 24.05.2018) (ANCI Lombardia, circolare 23.11.2018 n. 325/18).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAOggetto: Piano di Gestione del Rischio di Alluvioni (PGRA) e Piano Stralcio per l’Assetto idrogeologico del Fiume Po (PAI) – Approvazione disposizioni regionali concernenti le verifiche del rischio idraulico degli impianti esistenti di trattamento delle acque reflue, di gestione dei rifiuti, di approvvigionamento idropotabile e di lavorazione inerti ricadenti in aree interessate da alluvioni (Regione Lombardia, nota 11.07.2018 n. 17023 di prot.).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 48 del 30.11.2018, "Aggiornamento della modulistica approvata dalla d.g.r. 30.03.2016 - n. X/5001 «Approvazione delle linee di indirizzo e coordinamento per l’esercizio delle funzioni trasferite ai comuni in materia sismica (artt. 3, comma 1, e 13, comma 1, della l.r. 33/2015)»" (decreto D.U.O. 28.11.2018 n. 17589).
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Moduli 1 e 2 - Istanza di autorizzazione sismica e Comunicazione di deposito sismico/istanza di certificazione alla sopraelevazione
   ● Modulo 3 - Denuncia di costruzione in corso in zona di nuova classificazione sismica
   ● Modulo 4 - Dichiarazione del progettista (coordinatore) delle strutture ai sensi dell’art. 12, comma 5, della l.r. n. 33 del 2015 e s.m.i.
   ● Modulo 5 - Procura speciale autografa per l’effettuazione in forma telematica delle procedure di cui alla l.r. n. 33 del 2015
   ● Modulo 6 - Asseverazione di congruità e conformità del progetto strutturale
   ● Modulo 7 - Asseverazione di congruità e conformità del progetto architettonico
   ● Modulo 8 - Dichiarazione del progettista per interventi di sopraelevazione
   ● Modulo 9 - Dichiarazione/asseverazione del geologo di congruità dei contenuti della relazione geologica ai requisiti richiesti dal paragrafo 6.2.1 N.T.C. 2018 e/o dalla d.g.r. n. 2616 del 2011
   ● Modulo 10 - Dichiarazione/asseverazione dell’estensore della relazione geotecnica di congruità dei contenuti della relazione geotecnica ai requisiti richiesti dal paragrafo 6.2.2 N.T.C. 2018
   ● Modulo 11 - Dichiarazione del progettista strutturale relativa agli aspetti geotecnici dell’intervento
   ● Modulo 12 - Relazione illustrativa e scheda sintetica dell’intervento o di parti compiute dello stesso
  
Modulo 13 - Dichiarazione di fine lavori strutturali ai sensi dell’art. 12, comma 8, lett. b), della l.r. n. 33 del 2015

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 47 del 22.11.2018, "Approvazione dello schema di accordo con Anci Lombardia per la realizzazione di un progetto di sviluppo in materia di governo del territorio" (deliberazione G.R. 19.11.2018 n. 838).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 47 del 22.11.2018, "Avvio della gestione informatica delle procedure di valutazione di incidenza attraverso l’utilizzo del sistema Informativo per la Valutazione di Incidenza [SIVIC]" (deliberazione G.R. 19.11.2018 n. 836).
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Al riguardo, si veda l'apposito sito web: www.sivic.servizirl.it

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 47 del 22.11.2018, "Approvazione delle specifiche tecniche per l’interoperabilità relative alla modulistica edilizia unificata e standardizzata regionale" (decreto D.S. 16.11.2018 n. 16757).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 47 del 20.11.2018, "Identificazione dei comuni dove è vietato, nell’anno campagna 2018-2019, l’impiego per uso agronomico dei fanghi di depurazione in attuazione dell’articolo 6.2 «Condizioni e modalità di utilizzo dei fanghi», lettera d) dell’allegato 1 della deliberazione della giunta regionale 01.07.2014, n. X/2031" (decreto D.S. 13.11.2018 n. 16377).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 19.11.2018 n. 269 "Testo del decreto-legge 28.09.2018, n. 109, coordinato con la legge di conversione 16.11.2018, n. 130, recante: «Disposizioni urgenti per la città di Genova, la sicurezza della rete nazionale delle infrastrutture e dei trasporti, gli eventi sismici del 2016 e 2017, il lavoro e le altre emergenze»".
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Di particolare interesse, si leggano:
   ● Art. 13. Istituzione dell’archivio informatico nazionale delle opere pubbliche - AINOP
   ● Art. 25. Definizione delle procedure di condono
   ● Art. 26. Ricostruzione pubblica
   ● Art. 27. Soggetti attuatori degli interventi relativi alle opere pubbliche e ai beni culturali
   ● Art. 30. Qualificazione degli operatori economici per l’affidamento dei servizi di architettura e di ingegneria
  
● Art. 39-ter. Modifiche all’art. 1-sexies del decreto-legge 29.05.2018, n. 55, convertito, con modificazioni, dalla legge 24.07.2018, n. 89, recante ulteriori misure urgenti a favore delle popolazioni dei territori delle Regioni Abruzzo, Lazio, Marche ed Umbria, interessati dagli eventi sismici verificatisi a far data dal 24.08.2016.

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 47 del 19.11.2018, "Aggiornamento e sostituzione della modulistica edilizia unificata e standardizzata approvata con deliberazione n. 6894 del 17.07.2017, in attuazione di norme di settore comunitarie, nazionali e regionali" (deliberazione G.R. 12.11.2018 n. 784).

PUBBLICO IMPIEGO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 45 del 09.11.2018, "Approvazione dei modelli di tessera di riconoscimento e di fascia distintiva di cui devono essere muniti gli agenti abilitati all’esercizio delle funzioni di accertamento delle violazioni di natura amministrativa (l.r. 6/2015, art. 14)" (deliberazione G.R. 05.11.2018 n. 745).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 45 del 09.11.2018, "Assegnazione dei contributi per l’esercizio delle funzioni trasferite ai comuni, singoli o associati, in materia di opere o di costruzioni e relativa vigilanza in zone sismiche (l.r. 33/2015, art. 2, c. 1) – definizione dei criteri e delle modalità per la liquidazione dei contributi e assunzione degli impegni di spesa per un importo pari ad € 135.511,08" (decreto D.U.O. 31.10.2018 n. 15781).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 45 del 07.11.2018, "Criteri e modalità per la rotazione del personale titolare di posizione organizzativa" (decreto D.G. 05.11.2018 n. 15903).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 45 del 07.11.2018, "Individuazione dei divieti temporali di utilizzazione agronomica nella stagione autunno vernina 2018/2019 in applicazione del d.m. 25.02.2016" (decreto D.G. 31.10.2018 n. 15728).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 44 del 31.10.2018, "Contributi per l’esercizio delle funzioni trasferite ai comuni, singoli o associati, in materia di opere o di costruzioni e relativa vigilanza in zone sismiche (l.r. 33/2015, art. 2, c. 1)" (deliberazione G.R. 24.10.2018 n. 699).

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 44 del 31.10.2018, "Aggiornamento della d.g.r. 18.12.2017 n. X/7581 in merito ai canoni regionali di concessione di polizia idraulica per l’anno 2019 in applicazione dell’art. 6 della l.r. 29.06.2009 n. 10 (Allegato F) e alle linee guida di polizia idraulica (Allegato E)" (deliberazione G.R. 24.10.2018 n. 698).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 44 del 31.10.2018, "Recepimento dell’intesa tra il governo, le regioni e le autonomie locali, concernente l’adozione del regolamento edilizio-tipo di cui all’articolo 4, comma 1-sexies, del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380" (deliberazione G.R. 24.10.2018 n. 695).

APPALTI: G.U. 26.10.2018 n. 250 "Disposizioni per la revisione della disciplina del casellario giudiziale, in attuazione della delega di cui all’articolo 1, commi 18 e 19, della legge 23.06.2017, n. 103" (D.Lgs. 02.10.2018 n. 122).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

URBANISTICA: L. Spallino, Piani attuativi: gli oneri di urbanizzazione secondaria sono dovuti indipendentemente dall'edificazione (02.12.2018 - link a www.dirittopa.it).

EDILIZIA PRIVATA: D. Ponte, Il vincolo paesistico in fronte al mare (29.11.2018 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: N. Durante, L’interdittiva antimafia, tra tutela anticipatoria ed eterogenesi dei fini (26.11.2018 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: R. Ruoppo, La dubbia legittimità dell’usucapione  pubblica alla luce  della Convenzione  europea  dei diritti dell’uomo (21.11.2018 - tratto da www.federalismi.it). 
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Sommario: 1. Considerazioni introduttive. 2. Lo standard di tutela convenzionale dello statuto proprietario. 3. Le occupazioni della p.a.: una storia di illegittimità convenzionale. 4. L’usucapione pubblica, cenni introduttivi. 4.1. Profili di incompatibilità domestica. 4.2. Profili di incompatibilità convenzionale. 5. Conclusioni.

INCARICHI PROFESSIONALI: A. Russo, Dalla straordinarietà all’ordinarietà dell’affidamento diretto del patrocinio legale: brevi note a margine del parere del Consiglio di Stato e delle linee guida Anac sugli affidamenti dei servizi legali (21.11.2018 - tratto da www.federalismi.it). 
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Sommario: 1. Il servizio legale tra contratto d’opera intellettuale ed appalto di servizi. 2. Diversi servizi legali per diversi inquadramenti giuridici: l’art. 17 e l’Allegato IX al Codice dei contratti sotto la lente del Consiglio di Stato. 3. L’affidamento diretto come procedura ordinaria per la soddisfazione del singolo bisogno di difesa: le linee guida Anac n. 12/2018. 4. Conclusioni.

EDILIZIA PRIVATA: F. Donegani, Strade private ad uso pubblico (07.11.2018 - link a www.dirittopa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L. Spallino, L'edilizia di culto secondo il TAR Lombardia (17.10.2018 - link a www.dirittopa.it).

EDILIZIA PRIVATA: A. Galbiati, Autorizzazioni paesaggistiche: termini per il rilascio (11.10.2018 - link a www.dirittopa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl decreto Genova e il condono edilizio per Ischia (01.10.2018 - link a www.dirittopa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L. Spallino, Edifici di culto: l’uso di un bene come luogo di preghiera è illegittimo in assenza di permesso di costruire (04.09.2018 - link a www.dirittopa.it).

APPALTI: L. Spallino, ANAC: poteri di precontenzioso e impugnazione (20.07.2018 - link a www.dirittopa.it).

EDILIZIA PRIVATA: A. Galbiati, Regione Lombardia: "Misure di semplificazione e incentivazione per il recupero del patrimonio edilizio" (09.07.2018 - link a www.dirittopa.it).

EDILIZIA PRIVATA: F. Donegani, Impianti pubblicitari: il sacrificio della libertà economica è giustificato dalla cura di interessi pubblici (29.06.2018 - link a www.dirittopa.it).

QUESITI & PARERI

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Incentivi funzioni tecniche e limiti salario accessorio.
Domanda
Nel fondo delle risorse decentrate 2016 di questo ente sono state inserite, tra le risorse soggette al limite dell’art. 23, comma 2, del D.Lgs. n. 75/2017, quote per incentivi funzioni tecniche, ex art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016, per € 28.000,00.
All’epoca, infatti, la magistratura contabile orientava i propri pareri in tal senso. Ora che l’interpretazione è cambiata ci si chiede se, ai fini del rispetto del limite del predetto art. 23, la somma di € 28.000,00 sia da escludere dall’ammontare complessivo del 2016, senza rideterminare il fondo 2016, ma dandone atto nella determinazione di costituzione del fondo 2018.
Risposta
In riferimento al quesito esposto si rappresenta quanto segue.
Negli anni 2016 e 2017 le risorse relative agli incentivi per funzioni tecniche, di cui all’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016 dovevano essere indicate tra le risorse assoggettate a vincolo di contenimento del trattamento accessorio del personale dipendente. Tale allocazione appare corretta, anche alla luce dei pronunciamenti della Corte dei Conti depositati nell’anno 2017.
Infatti la Sezione Autonomie della Corte dei Conti con la deliberazione 10.10.2017 n. 24, aveva confermato quanto la stessa aveva chiarito con la precedente deliberazione 06.04.2017 n. 7, che «gli incentivi per funzioni tecniche, di cui all’art. 113, comma 2, del d.lgs. 50/2016, costituiscono spese correnti, devono essere finanziati dal bilancio dell’ente e, pertanto, rientrano nel tetto di spesa per il salario accessorio dei dipendenti pubblici».
Solo nel corrente anno, con la deliberazione 26.04.2018 n. 6, la Sezione Autonomie della Corte dei Conti ha enunciato il seguente principio di diritto: «Gli incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 nel testo modificato dall’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017, erogati su risorse finanziarie individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e forniture, non sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017».
Tale posizione è stata inoltre recepita dalla contrattazione nazionale; le parti, con, con la dichiarazione congiunta n. 9, allegata al nuovo CCNL del comparto Funzioni locali 2016/2018, sottoscritto in data 21/05/2018, hanno preso atto positivamente della pronuncia sopra richiamata, e con cui si chiarisce che gli incentivi per funzioni tecniche sono da considerarsi non soggetti ai limiti dell’art. 23, comma 2, del D.Lgs. n. 75/2017.
Tale orientamento ha validità a decorrere dall’anno 2018, pertanto, le somme inserite sul fondo dell’anno 2016, devono essere correttamente assoggettate al tetto di spesa di cui all’art. 1, comma 236, della legge 208/2015.
Solo dall’anno 2018, gli incentivi per funzioni tecniche d.lgs. 50/2016, potranno essere inseriti tra le risorse variabili del fondo ai sensi dell’art. art. 67, comma 3, lettera c), non assoggettate al limite di spesa di cui all’art. 23, comma 2 del D.Lgs. 75/2017 (29.11.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI: Rispetto principio rotazione.
Domanda
Il nostro ente deve procedere con l’aggiudicazione del servizio di assistenza macchine d’ufficio e supporto tecnico. Il pregresso appalto, in prossimità di scadenza, triennale, è stato aggiudicato con una procedura aperta (una gara “vera e propria”) che ha visto aggiudicarsi la ditta X.
Il RUP, anche per una particolare situazione di carenza di organico venutasi a creare ed altre difficoltà determinate dalla necessità di procedere con una serie di adempimenti, suggerisce ora –in luogo della gara “vera e propria”– l’espletamento di una procedura semplificata (biennale) ai sensi dell’articolo 36, comma 2, lett. b), del codice dei contratti. Nella procedura ad inviti, il responsabile unico ritiene che non possa essere invitato anche il pregresso affidatario per la necessità di rispettare il principio di rotazione.
Questa impostazione deve ritenersi corretta considerato che il pregresso affidatario in realtà si è aggiudicato una gara pubblica ed “escluderlo” per effetto della rotazione sembrerebbe una penalizzazione che neppure le linee guida ANAC n. 4 sembrano ammettere. E’ possibile avere un riscontro sulla correttezza dell’ impostazione del RUP?
Risposta
La questione dell’applicazione pratica della rotazione tra imprese, oggettivamente, nel nostro paese sta determinando un conflitto intenso a cui, anche i giudici, spesso non forniscono orientamenti totalmente convincenti.
Ulteriore questione, poi, è che all’interno della stazione appaltante il criterio della rotazione viene applicato in modo differente dai vari responsabili di servizio e RUP, con approcci spesso opposti.
Da qui, l’inevitabile constatazione che l’approccio a tale criterio debba avere un momento di “sintesi” di tipo generale all’interno dell’ente magari con una delibera giuntale (se si tratta di comuni) o un indirizzo generale avvallato dal responsabile anticorruzione magari adottato in conferenza di servizi tra responsabili.
Fatta questa premessa, occorre focalizzarsi sulla esigenza sottesa alla rotazione. L’esigenza della rotazione si impone per evitare che chi sia stato parte di un contratto possa utilizzare quel “bagaglio” di conoscenze/esperienze” determinate dalla “contiguità” con la stazione appaltante nella fase di esecuzione.
Essere parte di un contratto, secondo la giurisprudenza e l’ANAC (con le linee guida n. 4), può generare rapporti particolari tra appaltatore e stazione appaltante (RUP e responsabile del servizio) che possono essere strumentalizzati per ottenere proroghe, rinnovi contrattuali ed altre opzioni non dovute (per legge) ed allo stesso modo possono “condizionare” la libera autonomia della stazione appaltante nel momento in cui questa si dispone a predisporre gli atti di gara.
Ad esempio, astraendo dal caso posto con la domanda, tale posizione di “vantaggio” (determinata dalle conoscenze acquisite in fase di esecuzione del contratto) potrebbero indurre, a fine contratto, il RUP a scegliere invece che una nuova procedura di gara (assolutamente asettica e libera) l’opzione del procedimento ad inviti (proprio per invitare, pur con adeguata motivazione, il pregresso affidatario).
Nelle linee guida n. 4, l’ANAC associa l’esigenza di rispettare il criterio della rotazione a successione di appalti con “stessa” commessa (o commessa riconducibile allo stesso settore o allo stesso genere di servizi e, secondo la giurisprudenza, anche servizi “analoghi”).
La rotazione, evidentemente, non si pone nel caso in cui il RUP opti per una procedura aperta. E’ chiaro che non è possibile porre alcun limite alla partecipazione.
Più delicata è la questione della successione tra procedura aperta e procedura semplificata ad inviti.
In questo senso, nella relazione tecnica che accompagna le linee guida, l’ANAC puntualizza che –nonostante posizioni anche dottrinali diverse– “si ritiene più coerente con l’essenza del principio (di rotazione) ammetterne l’applicabilità anche a fronte di selezioni (a monte) rispettose dell’evidenza pubblica. D’altra parte, come ha di recente osservato il Consiglio di Stato (si veda la sentenza del Consiglio di Stato n. 4142 del 31.08.2017), il rischio di consolidamento di rendite di posizione, vuoi solo per ottenere proroghe, rinnovi o estensioni contrattuali, o anche –si potrebbe aggiungere– per influenzare la predisposizione dei successivi atti di gara, è ipotizzabile pienamente anche in presenza di una selezione originaria che avvenga tramite procedura aperta”.
In sostanza, secondo l’autorità anticorruzione al procedimento semplificato non può essere invitato il pregresso affidatario anche se questi si sia aggiudicato il precedente l’appalto (con ad oggetto la stessa commessa o commessa di settori analoghi) con un procedimento ad evidenza pubblica, salvo evidentemente una chiara ed esaustiva motivazione.
L’unica motivazione che appare realmente plausibile è quella della carenza nel mercato di potenziali contraenti, sempre che il RUP possa certificare l’espletamento di una gestione del precedente contratto in modo più che soddisfacente (non solo a regola d’arte) anche considerando la convenienza indiscutibile dell’offerta.
Si tratta però, e si ripete, di aspetti che devono trovare una uniforme applicazione all’interno della stazione appaltante per evitare disparità di trattamento grave tra i vari appaltatori (28.11.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO: CV collaboratori e privacy.
Domanda
La deliberazione ANAC n. 1310 del 28/12/2016 “Prime linee guida recanti indicazioni sull’attuazione degli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni contenute nel d.lgs. 33/2013 come modificato dal d.lgs. 97/2016” prevede la pubblicazione, nella sezione web di “Amministrazione Trasparente” – Sottosezione “Consulenti e collaboratori”, del curriculum vitae in formato europeo di ogni consulente o collaboratore al quale viene conferito un incarico esterno.
Questo obbligo normativo è in contrasto con quanto previsto dal Regolamento UE 679/2016 (GDPR) e dal decreto legislativo n. 101 del 10.08.2018?
Risposta
Il 25.05.2018, ha dispiegato tutti i suoi effetti il Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 27.04.2016 «relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (Regolamento generale sulla protezione dei dati)» (di seguito GDPR).
In seguito, il 19.09.2018, è entrato in vigore il decreto legislativo 10.08.2018, n. 101 che adegua il Codice in materia di protezione dei dati personali (decreto legislativo 30.06.2003, n. 196) alle disposizioni del Regolamento (UE) 2016/679.
Con riferimento al quesito posto, occorre anzitutto evidenziare che l’articolo 2-ter, del decreto legislativo 196/2003 –introdotto dal decreto legislativo 101/2018– dispone al comma 1 che la base giuridica per il trattamento di dati personali effettuato per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri, ai sensi dell’art. 6, paragrafo 3, lett. b) del Regolamento (UE) 2016/679, «è costituita esclusivamente da una norma di legge o, nei casi previsti dalla legge, di regolamento».
Ciò sta a dimostrare che il regime normativo per il trattamento di dati personali da parte dei soggetti pubblici è rimasto sostanzialmente inalterato, restando fermo il principio per cui lo stesso trattamento sia consentito unicamente se ammesso da una norma di legge o di regolamento.
Pertanto, occorre che l’ente, prima di mettere a disposizione sul proprio sito web istituzionale dati e documenti in forma integrale o per estratto –allegati compresi– contenenti dati personali, verifichi che la disciplina in materia preveda l’obbligo di pubblicazione e, in più, accerti il rispetto di tutti i principi applicabili al trattamento dei dati personali contenuti all’art. 5 del Regolamento (UE) 2016/679.
In particolare, assumono rilievo i principi di adeguatezza, pertinenza e limitazione a quanto necessario rispetto alle finalità per le quali i dati personali sono trattati («minimizzazione dei dati») (par. 1, lett. c) e quelli di esattezza e aggiornamento dei dati, con il conseguente dovere di adottare tutte le misure ragionevoli per cancellare o rettificare tempestivamente i dati inesatti (o non pertinenti) rispetto alle finalità per le quali sono trattati (par. 1, lett. d).
Nel caso di specie prospettato dal quesito, dovrà essere obbligatoriamente pubblicato il curriculum vitae dell’incaricato (secondo l’articolo 15, comma 1, lettera b), decreto legislativo 33/2013, avendo cura di oscurare le informazioni non direttamente connesse all’attività professionale, come ad esempio la data di nascita, la residenza privata, la casella mail e il numero di telefono privato del professionista (27.11.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIl Comune ha formulato una richiesta di parere in ordine alla possibilità di autorizzare una mobilità in compensazione tra un dipendente di categoria D, posizione economica D2 (ex VII livello), ed un dipendente di categoria D3, posizione economica D6 (ex VIII livello) ed alle modalità di finanziamento della differenza di costo dei due dipendenti.
La Sezione ha dichiarato il parere parzialmente ammissibile, rilevando che il presupposto fondamentale per la legittimità dell’operazione in esame è l’osservanza dei limiti di spesa cui gli enti coinvolti sono soggetti, ai sensi dell’art. 1, comma 47, l. 311/2004.
Ciò che rileva, pertanto, è che l’operazione sia finanziariamente neutra ai fini assunzionali. L’accertamento in concreto della corrispondenza dei profili professionali del personale coinvolto nella procedura di mobilità alla luce di quanto previsto dall’art 3 del CCNL 31.03.1999, come modificato dall’art. 12 CCNL 2016-2018, è materia estranea al perimetro dell’attività consultiva di questa Corte, trattandosi di profili rimessi alla contrattazione collettiva.
Per tali ragioni, il quesito proposto deve essere dichiarato inammissibile limitatamente al profilo sopra indicato. Infine, l’impossibilità di estendere il vaglio alla fattispecie concreta determina l’inammissibilità del secondo quesito, relativo alle modalità di finanziamento della differenza di costo tra i due dipendenti.
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Con la nota in epigrafe, il Comune di Arcola (SP) ha formulato una richiesta di parere in ordine alla possibilità di autorizzare una mobilità in compensazione tra un dipendente di categoria D, posizione economica D2 (ex VII livello), ed un dipendente di categoria D3, posizione economica D6 (ex VIII livello).
Preliminarmente, l’Ente istante richiama la disciplina normativa della materia, in particolare:
   - l’art 30 d.lgs. 165/2001 rubricato “passaggio diretto di personale tra amministrazioni diverse”;
   - l’art. 7 D.P.C.M. 325/1988 che sancisce: “E’ consentita in ogni momento, nell’ambito delle dotazioni organiche di cui all’art 3, la mobilità dei singoli dipendenti presso la stessa od altre amministrazioni, anche di diverso comparto, nei casi di domanda congiunta di compensazione con altri dipendenti di corrispondente profilo professionale, previo nulla osta dell’amministrazione di provenienza e di quella di destinazione”;
   - l’art. 1, comma 47, l. 30.12.2004 n. 311 che recita: “In vigenza di disposizioni che stabiliscono in regime di limitazione delle assunzioni di personale a tempo indeterminato, sono consentiti trasferimenti per mobilità, anche intercompartimentale, tra amministrazioni sottoposte al regime di limitazione, nel rispetto delle disposizioni sulle dotazioni organiche e, per gli enti locali, purché abbiano rispettato il patto di stabilità interno per l’anno precedente”;
   - la circolare n. 4/2008 ed il parere n. 4 del 19.03.2010 della Presidenza del Consiglio dei Ministri-Dipartimento della Funzione Pubblica- che hanno precisato che la configurabilità della mobilità in termini di neutralità di spesa resta garantita solo nel caso in cui avvenga tra amministrazioni entrambe sottoposte a vincoli in materia di assunzioni a tempo indeterminato.
L’attuale quadro normativo consente, pertanto, la mobilità intercompartimentale all’interno di due diversi blocchi di amministrazioni soggette a regimi di limitazioni delle assunzioni, garantendo la necessaria neutralità della mobilità sugli equilibri economico finanziari ed impedendo che essa sia esperita come leva per nuove assunzioni di personale (cfr. Corte dei conti, Sezioni Riunite n. 53/2010)
Il Comune richiama, infine, l’art. 12 CCNL 2016-2018 che prevede un unico accesso corrispondente alla posizione economica iniziale per ciascuna categoria, disapplicando di fatto, per la categoria D, la declaratoria allegata al CCNL 31.03.1999.
Alla luce delle coordinate normative e giurisprudenziali sopra richiamate, il Comune chiede un parere in merito alla possibilità di autorizzare come compensativa una mobilità tra i due dipendenti appartenenti a differenti categorie e posizioni economiche (rispettivamente categoria D, posizione economica D2 e categoria D3, posizione economica D6).
In caso di risposta positiva al primo quesito, chiede, altresì, “se la differenza di costo dei due dipendenti (tra posizione D2 e D6) sia imputabile per intero alle risorse stabili del fondo decentrato oppure debba essere finanziata con risorse di bilancio per il differenziale tra la posizione economica D2 e D3 e con le risorse del fondo decentrato per il differenziale D3-D6”.
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3. Passando la merito della richiesta, il Comune chiede un parere in merito alla possibilità di autorizzare una mobilità per interscambio tra dipendenti appartenenti, rispettivamente, alla categoria D, posizione economica D2, ed alla categoria D3, posizione economica D6.
Sul piano normativo, l’art. 30, comma 1, d.lgs. 165/2001 richiede, ai fini della mobilità volontaria, che l’operazione avvenga tra “dipendenti appartenenti ad una qualifica corrispondente” (cfr., sul punto, Sezione controllo Lombardia delibera n. 342/PAR/2015, che sottolinea la necessaria identità di qualifica funzionale dei dipendenti coinvolti, confermata successivamente da Sezione controllo Puglia, delibera n. 79/PAR/2017).
Con specifico riferimento alla mobilità cd. compensativa, o per interscambio, che fa seguito alla domanda congiunta di trasferimento di due dipendenti, l’art. 7 del DPCM 325/1988, richiamato anche dal comune istante, sancisce la necessaria identità di profilo professionale.
Il riferimento all’identità del profilo professionale deve essere interpretato, per gli enti locali, alla luce del sistema di classificazione contenuto nell’art 3 del CCNL 31.03.1999, sulla base del quale il personale degli enti locali viene suddiviso in quattro categorie, denominate rispettivamente A, B, C e D.
Il presupposto fondamentale per la legittimità dell’operazione in esame è l’osservanza dei limiti di spesa cui gli enti coinvolti sono soggetti. L’art. 1, comma 47, l. 311/2004 precisa, infatti, che “in vigenza di disposizioni che stabiliscono un regime di limitazione delle assunzioni di personale a tempo indeterminato, sono consentiti trasferimenti per mobilità, anche intercompartimentale, tra amministrazioni sottoposte al regime di limitazione, nel rispetto delle disposizioni sulle dotazioni organiche e, per gli enti locali, purché abbiano rispettato il patto di stabilità interno per l’anno precedente”.
Ciò che rileva, pertanto, è che l’operazione sia finanziariamente neutra ai fini assunzionali. Sul punto, si richiama quanto osservato dalla Sezione regionale di controllo Lombardia con delibera n. 373/2012/PAR: “né la normativa sulla mobilità prevista dal d.lgs. n. 165/2001, né la disciplina di finanza pubblica, che ha introdotto particolari limitazioni alla spesa di personale, hanno limitato la possibilità di ricorrere a mobilità all’interno di categorie di enti che debbono applicare le stesse regole limitative alle assunzioni. La mobilità, pertanto, può essere attuata anche fra enti che debbono rispondere a limiti differenziati purché, a conclusione dell’operazione, non vi sia stata alcuna variazione nella consistenza numerica e nell’ammontare della spesa di personale".
L’operazione deve, pertanto, garantire il rispetto dei vincoli di spesa (cfr. art. 1, comma 557, l. 296/2006) con riferimento a tutti gli enti coinvolti, in quanto solo se la mobilità si traduce in un mero “spostamento di personale da un’amministrazione ad un’altra … non ha incidenza sulle capacità assunzionali degli Enti” (Sezione controllo Liguria delibera n. 37/PAR/2017, negli stessi termini, cfr. Sezione controllo Piemonte, delibera n. 27/2016/SRCPIE/PAR).
In altri termini, la mobilità in compensazione, al pari della mobilità volontaria, deve garantire la necessaria neutralità ai fini delle assunzioni ai sensi dell’art. 1, comma 47, l. 311/2004 e può avvenire solo tra dipendenti appartenenti al medesimo profilo professionale (da intendersi con riferimento al sistema di classificazione di cui all’art. 3 CCNL 31.03.1999).
D’altra parte, la più volte richiamata neutralità finanziaria dell’operazione di mobilità si può realizzare solo se entrambi “gli enti locali sono soggetti a vincoli di assunzione (o, meglio ancora, sono in regola con le prescrizioni del patto)” (Sezioni Riunite delibera 53/CONTR/2010).
L’accertamento in concreto della corrispondenza dei profili professionali del personale coinvolto nella procedura di mobilità alla luce di quanto previsto dall’art. 3 del più volte citato CCNL 31.03.1999, come modificato dall’art. 12 CCNL 2016-2018, è materia estranea al perimetro dell’attività consultiva di questa Corte, trattandosi di profili rimessi alla contrattazione collettiva.
Per tali ragioni, il quesito proposto deve essere dichiarato inammissibile limitatamente al profilo sopra indicato.
Infine, l’impossibilità di estendere il vaglio alla fattispecie concreta determina l’inammissibilità del secondo quesito, relativo alle modalità di finanziamento della differenza di costo tra i due dipendenti (Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria, parere 24.10.2018 n. 128).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Violazioni edilizi - Ordine di demolizione del manufatto abusivo - Revoca o sospensione dell'esecuzione dell'ordine di demolizione - Limiti - Natura di sanzione amministrativa a carattere ripristinatorio - Principio del ne bis in idem - Normativa convenzionale ed eurounitaria - Artt. 23 e 31, comma 9, d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
In materia di reati concernenti violazioni edilizie, l'ordine di demolizione del manufatto abusivo non è sottoposto alla disciplina estintiva stabilita per le sanzioni penali, né a quella della prescrizione prevista dall'art. 173 cod. pen. avendo natura di sanzione amministrativa a carattere ripristinatorio, priva di finalità punitive e con effetti che ricadono sul soggetto che è in rapporto col bene, indipendentemente dal fatto che questi sia l'autore dell'abuso - né a quella conseguente al decorso del tempo con condotta favorevole, prevista dall'art. 445, comma 2, cod. proc. pen..
Proprio con riguardo a quest'ultima disposizione, invocata in ricorso, è stato infatti ripetutamente affermato che l'ordine di demolizione del manufatto abusivo (previsto dall'art. 31, comma 9, d.P.R. 06.06.2001, n. 380), qualora sia stato impartito con la sentenza di applicazione della pena su richiesta, resta eseguibile anche nel caso di estinzione del reato conseguente al decorso del termine di cui all'art. 445, comma 2, cod. proc. pen., poiché, detto ordine, in quanto sanzione amministrativa, non è soggetto alle norme relative all'estinzione della pena o del reato, nemmeno per effetto di un'applicazione analogica delle medesime.
Detta sanzione, peraltro, non è neppure soggetta alla prescrizione stabilita dall'art. 28 legge 24.11.1981, n. 689, che riguarda unicamente le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva.
Pertanto, l'imposizione dell'ordine di demolizione di un manufatto abusivo non comporta la violazione del principio del "ne bis in idem" convenzionale, come interpretato dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo nella causa Grande Stevens c. Italia del 04.03.2014.

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Demolizione del manufatto abusivo - Coordinamento tra l'intervento specifico giudiziario e quello generale, di carattere amministrativo - Fase esecutiva dei provvedimenti - Poteri e valutazione del giudice dell'esecuzione - Fattispecie.
Il coordinamento tra l'intervento specifico giudiziario e quello generale, di carattere amministrativo si realizza non già a livello dei rispettivi poteri, bensì nella fase esecutiva dei provvedimenti, ma solo nel senso che spetta al giudice dell'esecuzione valutare la compatibilità del provvedimento giurisdizionale di demolizione con le determinazioni dell'Amministrazione, al fine di decidere se vi siano i presupposti per metterlo in esecuzione e con quali modalità (Sez. 3, n. 702 del 14/02/2000, Cucinella).
Nel caso di specie non è stata allegata l'adozione di alcun provvedimento amministrativo incompatibile con l'esecuzione della demolizione, sicché nulla osta a che l'autorità giudiziaria proceda in via esecutiva, avendo peraltro l'ordinanza impugnata attestato che l'esecuzione in sede amministrativa non ha avuto seguito
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.11.2018 n. 53685 - link a www.ambientediritto.it).

ESPROPRIAZIONE: Decreto di esproprio pronunciato al di là dei termini della dichiarazione di pubblica utilità.
Il decreto di esproprio pronunciato al di là dei termini della dichiarazione di pubblica utilità non può considerarsi nullo, ma deve qualificarsi come illegittimo, con conseguente necessità d’impugnazione entro i termini di decadenza.
Invero, “laddove esista una norma attributiva del potere di emettere l'atto autoritativo, ma questo venga emanato senza rispettare i presupposti previsti da essa per la corretta esplicazione del potere conferito, si configuri una violazione di legge. Questa sussiste tutte le volte in cui venga violata una qualsivoglia regola posta dall'ordinamento giuridico e va qualificata quale vizio di legittimità dell'atto amministrativo unitamente ed al pari dell'incompetenza o dell'eccesso di potere.
La previsione, ex art. 13 della l. 25.06.1865 n. 2359, di termini per l'emanazione del decreto di esproprio, configura un precetto posto dalla legge ed indirizzato all'amministrazione pubblica al fine di porre un vincolo alla discrezionalità dei suoi poteri.
La sua violazione, pertanto, va qualificata come violazione di legge ossia come vizio di legittimità dell'atto amministrativo. Se il mancato rispetto dei presupposti a cui la norma riconnette la corretta esplicazione del potere configura un vizio di legittimità dell'atto e la previsione dei termini ex art. 13 cit. altro non è se non presupposto per la legittima esplicazione del potere, è evidente che il precipitato logico del ragionamento seguito consiste nella qualificabilità della violazione dei termini fissati per l'emanazione del decreto di esproprio quale vizio dell'atto da farsi valere negli ordinari termini decadenziali, pena la inoppugnabilità dello stesso ed il divieto, per il Giudice Amministrativo, di disapplicazione”
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Il ricorso è in parte infondato e in parte irricevibile.
Dato per pacifico tra le parti –oltre agli ulteriori fatti sopra specificati- che il decreto di esproprio di data 01.03.1999 è stato assunto tardivamente rispetto ai termini indicati nella dichiarazione di pubblica utilità del 20.10.1992, si osserva che non può trovare accoglimento la domanda di accertamento della nullità del suddetto decreto.
Non ignora il Collegio l’esistenza di alcune pronunce che affermano che il decreto di esproprio, ove emesso oltre la scadenza del termine finale per il completamento della procedura espropriativa, debba essere dichiarato tardivo e tamquam non esset (TAR Lazio, Latina, sez. I, 12.05.2015, n. 383), ma ritiene di aderire al consolidato orientamento giurisprudenziale –dal quale non sussistono valide ragioni per discostarsi- secondo cui, al contrario, il decreto di esproprio pronunciato al di là dei termini della dichiarazione di pubblica utilità non può considerarsi nullo, ma deve qualificarsi come illegittimo, con conseguente necessità d’impugnazione entro i termini di decadenza (ex multis,TAR Campania, Napoli, sez. V, 23.01.2016, n. 1494).
Invero, come è stato con divisibilmente osservato, “laddove esista una norma attributiva del potere di emettere l'atto autoritativo, ma questo venga emanato senza rispettare i presupposti previsti da essa per la corretta esplicazione del potere conferito, si configuri una violazione di legge. Questa sussiste tutte le volte in cui venga violata una qualsivoglia regola posta dall'ordinamento giuridico e va qualificata quale vizio di legittimità dell'atto amministrativo unitamente ed al pari dell'incompetenza o dell'eccesso di potere. La previsione, ex art. 13 della l. 25.06.1865 n. 2359, di termini per l'emanazione del decreto di esproprio, configura un precetto posto dalla legge ed indirizzato all'amministrazione pubblica al fine di porre un vincolo alla discrezionalità dei suoi poteri. La sua violazione, pertanto, va qualificata come violazione di legge ossia come vizio di legittimità dell'atto amministrativo. Se il mancato rispetto dei presupposti a cui la norma riconnette la corretta esplicazione del potere configura un vizio di legittimità dell'atto e la previsione dei termini ex art. 13 cit. altro non è se non presupposto per la legittima esplicazione del potere, è evidente che il precipitato logico del ragionamento seguito consiste nella qualificabilità della violazione dei termini fissati per l'emanazione del decreto di esproprio quale vizio dell'atto da farsi valere negli ordinari termini decadenziali, pena la inoppugnabilità dello stesso ed il divieto, per il Giudice Amministrativo, di disapplicazione” (in tal senso TAR Calabria, Reggio Calabria, 12.05.2008, n. 248, espressamente richiamata da TAR Puglia, Bari, sez. III, 06.04.2017, n. 375; nello stesso senso anche Consiglio di Stato, sez. IV, 18.11.2016, n. 4799; TAR Umbria, 21.04.2015, n. 189; TAR Lazio, Roma, sez. II-bis, 04.03.2015, n. 3710; TAR Sicilia, Palermo, sez. I, 28.02.2013, n. 453).
La domanda di accertamento della nullità del decreto di esproprio va, dunque, respinta.(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 29.11.2018 n. 1130 - link a www.giustizia-amministrativa.it
).

APPALTICorte di giustizia, solo chi partecipa può impugnare gli atti di una gara.
La legittimazione a impugnare gli atti di gara spetta soltanto alle imprese che partecipano al bando. Le eccezioni a questo principio sono poche e, comunque, non allargano in maniera indefinita le possibilità di tutela.

È quanto ha deciso ieri la Corte di giustizia dell’Unione europea (sentenza 28.11.2018 - causa C-328/17), confermando così la linea interpretativa dei giudici amministrativi italiani. E, soprattutto, chiudendo una controversia sul punto che andava avanti da anni e che nel 2016 (sentenza n. 245) aveva visto coinvolta anche la Corte costituzionale.
La vicenda
Il caso riguarda una gara avviata dall’Agenzia regionale per il trasporto pubblico locale della Liguria del 2015. La stazione appaltante aveva indetto una gara per l’affidamento del servizio di trasporto pubblico, contro il quale era stato proposto ricorso al Tar. Il motivo era l’affidamento del servizio in un lotto unico: nessuna delle società ricorrenti, infatti, aveva potuto partecipare alla gara, non avendo a disposizione la struttura necessaria a garantire il servizio.
Il Tar Liguria, sebbene il bando di gara sia poi stato revocato, chiede alla Corte di giustizia «se il diritto dell’Unione in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori sia contrario o meno ad una normativa nazionale che riconosca la possibilità di impugnare gli atti di una procedura di gara ai soli operatori economici che abbiano presentato domanda di partecipazione alla gara stessa, anche qualora la domanda giudiziale sia volta a sindacare in radice la procedura».
La decisione
La Corte, con la sentenza di ieri, ha ricordato che la partecipazione a un procedimento di aggiudicazione di un appalto può, in linea di principio, «validamente costituire una condizione» che deve essere soddisfatta per dimostrare che il soggetto coinvolto ha interesse a ricorrere contro la procedura. Difficile dimostrare l’interesse a opporsi in assenza di un’offerta.
Ci sono, per la verità, delle eccezioni. L’operatore economico potrà, cioè, fare ricorso «nelle ipotesi in cui tale offerta era oggettivamente impossibile», per esempio, per la presenza nel bando «di clausole immediatamente escludenti o di clausole che impongono oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati o che rendono impossibile la stessa formulazione dell’offerta».
Il sistema italiano, consolidatosi con questo assetto attraverso diverse pronunce, viene allora giudicato compatibile con le norme europee. Tenendo fermi questi principi, affermati sia dal Consiglio di Stato che dalla Corte costituzionale, bisognerà solo verificare che «il diritto a una tutela giurisdizionale effettiva» dell’impresa ricorrente sia concretamente garantito (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 29.11.2018).
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MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Terza Sezione) dichiara:
Sia l’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665/CEE del Consiglio, del 21.12.1989, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11.12.2007, sia l’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 92/13/CEE del Consiglio, del 25.02.1992, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle norme comunitarie in materia di procedure di appalto degli enti erogatori di acqua e di energia e degli enti che forniscono servizi di trasporto nonché degli enti che operano nel settore delle telecomunicazioni, come modificata dalla direttiva 2007/66, devono essere interpretati nel senso che non ostano a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, che non consente agli operatori economici di proporre un ricorso contro le decisioni dell’amministrazione aggiudicatrice relative a una procedura d’appalto alla quale essi hanno deciso di non partecipare poiché la normativa applicabile a tale procedura rendeva molto improbabile che fosse loro aggiudicato l’appalto in questione.

ATTI AMMINISTRATIVI: Sentenza con motivazione dubitativa e perplessa.
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Processo amministrativo – Decisioni - Motivazione – Redatta in forma dubitativa – Va annullata in appello.
Deve essere annullata in appello la sentenza del giudice di primo grado motivata in modo perplesso e con espressioni dubitative (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che una motivazione non convinta, da parte dell’organo giudicante, è anche una motivazione non convincente, incapace di esprimere, cioè, in modo sufficiente –e tale da reggere comunque al vaglio giurisdizionale del giudice del secondo grado– la pur concisa esposizione delle ragioni in fatto e in diritto che sorreggono la statuizione impugnata (art. 88, comma 2, lett. d), c.p.a.).
La motivazione perplessa, dubitativa, espressa con formule amletiche o ermetiche, non può soddisfare quel rigoroso onere motivazionale che è imposto, a tacer d’altro, anzitutto dall’art. 111, comma 6, Cost..
L’iter motivazionale della sentenza impugnata non deve riflettere un irrisolto e tortuoso travaglio interiore del giudice che, proprio in quanto tale, deve rimanere interno alla sfera del proprio convincimento, ma esprimere, con la chiarezza e la sinteticità dovute (art. 3, comma 2, c.p.a.), le ragioni che lo hanno indotto a superare il dubbio, sul piano della ricostruzione dei fatti e della interpretazione delle norme, e a giungere alla soluzione della controversia, enunciando la regola del caso concreto secondo il nostro ordinamento.
Non esiste regola del caso concreto –e tale è, per definizione, la statuizione giudiziale atta a costituire cosa giudicata– che si presenti, già nella sua stessa formulazione, perplessa, incerta, periclitante, perché ciò contraddice l’essenza stessa della funzione giurisdizionale, che deve essere chiara, sintetica, in funzione della sua certezza e della sua intellegibilità (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 27.11.2018 n. 6711 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Affidamento con gara della gestione degli spazi pubblicitari.
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Pubblicità – Spazi pubblicitari – Gestione – Affidamento con gara – Legittimità.
È legittimo il regolamento comunale sulla pubblicità nella parte in cui prevede l’affidamento con gara pubblica della gestione degli spazi pubblicitari (1).
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   (1) Ha ricordato il Tar che l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con decisione 25.02.2013, n. 5, dopo aver precisato che “...è una concessione di area pubblica il provvedimento iniziale che conforma il rapporto” ha chiarito che “...sia corretto allocare l’uso degli spazi pubblici contingentati con gara, dovendosi altrimenti ricorrere all’unico criterio alternativo dell’ordine cronologico di presentazione delle domande accoglibili, che è di certo meno idoneo ad assicurare l’interesse pubblico all’uso più efficiente del suolo pubblico e quello dei privati al confronto concorrenziale”.
Ne deriva che “il procedimento di gara non contrasta infatti con la libera espressione dell’attività imprenditoriale di cui si tratta, considerato, in linea generale, che la procedura ad evidenza pubblica è istituto tipico di garanzia della concorrenza nell’esercizio dell’attività economica privata incidente sull’uso di risorse pubbliche e che, in particolare, la concessione tramite gara dell’uso di beni pubblici per l’esercizio di attività economiche private è istituto previsto dall’ordinamento, essendo perciò fondata la qualificazione della gara come strumento per assicurare il principio costituzionale della libera iniziativa economica anche nell’accesso al mercato degli spazi per la pubblicità”.
Dunque, ciò che conta è che, attraverso questo sistema si regolamenta la concessione dell’uso di un’area pubblica, ossia una risorsa limitata, non già la concessione di servizio; il che significa che l’attività di installazione di impianti pubblicitari non perde affatto le sue connotazioni di libera attività imprenditoriale ma assume, semmai, fisionomia di attività economica suscettibile di essere conformata per fini di utilità sociale, secondo quanto esplicitato dall’art. 41 Cost. (TAR Puglia-Bari, Sez. III. sentenza 26.11.2018, n. 1526 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: In tema di dichiarazioni relative al possesso di titoli di merito –che non costituiscono requisiti di partecipazione– rese in buona fede dell’interessato.
Il Collegio osserva che, alla stregua dell’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale in tema di dichiarazioni relative al possesso di titoli di merito –che non costituiscono requisiti di partecipazione– rese in buona fede dell’interessato, il ricorso risulta fondato.
Si è, infatti, più volte affermato che la ritenuta dichiarazione mendace (in realtà erronea) avrebbe potuto comportare la rivalutazione della posizione del ricorrente per un corretto posizionamento in graduatoria e non già la sua decadenza dalla ferma prefissata.
Tale orientamento condivide l’impostazione del giudice d’appello, che invita a distinguere tra il caso in cui la dichiarazione è mirata a far conseguire, quale beneficio primario, l’ammissione al concorso, rispetto a quella in cui è volta all’assegnazione di un maggior punteggio. Il Consiglio di Stato ha osservato che, in quest’ultima ipotesi, “una volta acclarata la mendacità della dichiarazione, la decadenza dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera, può essere solo quella della privazione del punteggio stesso, con il conseguente ridimensionamento della posizione in graduatoria”.
La Sezione si è adeguata all’orientamento sopra richiamato ed ha attenuato le conseguenze negative dell’autocertificazione erronea del possesso di titoli di merito e non requisiti di partecipazione, osservando che “l’indicata dichiarazione non possa ritenersi mendace ai fini della decadenza, proprio in considerazione della buona fede del candidato, che ha indicato nella domanda di partecipazione al concorso, esattamente il titolo dallo stesso asseritamente posseduto”. Tale orientamento è stato ribadito in ulteriori pronunce del Consiglio di Stato, le quali avevano accolto l’appello cautelare sulla base della considerazione che il candidato si sarebbe comunque collocato tra i vincitori.
Da allora, la Sezione si è sempre conformata all’insegnamento del Supremo Consenso, osservando “che l’indicata dichiarazione deve configurarsi quale mero errore del candidato, con la conseguente esclusione dell’assegnazione del punteggio inerente al titolo contestato”.
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Nel caso di specie, la dichiarazione erronea resa dal Signor Ca. con riguardo al possesso della patente del computer ECDL “Core Full” ha comportato esclusivamente il conseguimento di un maggior punteggio ma non ha influito sull’ammissione al reclutamento: la decurtazione del punteggio addizionale derivante dal predetto errore avrebbe collocato in ogni caso l’odierno esponente in posizione utile.
Ne discende, pertanto, che la erronea dichiarazione resa dal candidato è stata irrilevante e non ha comportato “un indebito beneficio”: tale erronea indicazione avrebbe dovuto comportare la rivalutazione della posizione del ricorrente, ai fini di un corretto posizionamento in graduatoria -in relazione all’effettivo punteggio spettante, in base ai titoli effettivamente posseduti, con esclusione, quindi, soltanto di quello contestato- ma non la decadenza dalla ferma prefissata.
Difatti non è stato il punteggio addizionale derivante dal predetto errore -pari a 0,2 punti- ad aver consentito al ricorrente di essere classificato in posizione utile.
Alla luce delle considerazioni sopra svolte, le doglianze articolate dal ricorrente devono ritenersi fondate, non potendosi considerare mendace l’indicazione fatta in buona fede nella domanda di partecipazione, ma semplicemente erronea, con la conseguenza che la sua erroneità avrebbe dovuto comportare la sola sottrazione del punteggio relativo al titolo originariamente riconosciuto e il riposizionamento dell’interessato in graduatoria.

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1. Il Collegio, ad un più approfondito esame del ricorso, proprio della fase di merito, ritiene di confermare l’orientamento seguito in sede cautelare, rilevando la fondatezza del gravame.
2. L’odierno esponente deduce, quali motivi di ricorso, la circostanza che si sia trattato di un mero errore, posto che egli sarebbe effettivamente in possesso di un diploma ECDL ma della tipologia “IT-Security” e non “Core Full”. L’Amministrazione avrebbe dovuto procedere all’esclusione del concorrente soltanto nel caso in cui la falsa dichiarazione avesse permesso al candidato di collocarsi in posizione utile in graduatoria: nel caso di specie, invece, il Sig. Ca. sarebbe stato egualmente ammesso. Pertanto egli non avrebbe ottenuto un indebito beneficio dall’erronea indicazione resa nella domanda di partecipazione e l’Amministrazione non avrebbe dovuto escluderlo dalla procedura de qua.
2.1 La censure dedotte dal ricorrente sono condivisibili.
2.2 Il Collegio osserva che, alla stregua dell’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale in tema di dichiarazioni relative al possesso di titoli di merito –che non costituiscono requisiti di partecipazione– rese in buona fede dell’interessato, il ricorso risulta fondato.
Si è, infatti, più volte affermato che la ritenuta dichiarazione mendace (in realtà erronea) avrebbe potuto comportare la rivalutazione della posizione del ricorrente per un corretto posizionamento in graduatoria e non già la sua decadenza dalla ferma prefissata (TAR Lazio, Sez. I-bis, 05.06.2018, n. 6214; id. 05.04.2018, n. 3820; 08.06.2017, n. 6802; 21.11.2017, n. 11498 e n. 11499).
Tale orientamento condivide l’impostazione del giudice d’appello, che invita a distinguere tra il caso in cui la dichiarazione è mirata a far conseguire, quale beneficio primario, l’ammissione al concorso, rispetto a quella in cui è volta all’assegnazione di un maggior punteggio. Il Consiglio di Stato ha osservato che, in quest’ultima ipotesi, “una volta acclarata la mendacità della dichiarazione, la decadenza dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera, può essere solo quella della privazione del punteggio stesso, con il conseguente ridimensionamento della posizione in graduatoria” (Cons. Stato, Sez., 14.11.2012, n. 5762).
Con sentenza TAR Lazio, Sez. I-bis, n. 2668 del 2017, la Sezione si è adeguata all’orientamento sopra richiamato ed ha attenuato le conseguenze negative dell’autocertificazione erronea del possesso di titoli di merito e non requisiti di partecipazione, osservando che “l’indicata dichiarazione non possa ritenersi mendace ai fini della decadenza, proprio in considerazione della buona fede del candidato, che ha indicato nella domanda di partecipazione al concorso, esattamente il titolo dallo stesso asseritamente posseduto” (TAR Lazio, I-bis, 20.02.2018, n. 1940; id. 21.07.2017, n. 8850; 13.07.2017, n. 8468; 08.06.2017, n. 6802). Tale orientamento è stato ribadito in ulteriori pronunce del Consiglio di Stato, le quali avevano accolto l’appello cautelare sulla base della considerazione che il candidato si sarebbe comunque collocato tra i vincitori.
Da allora, la Sezione si è sempre conformata all’insegnamento del Supremo Consenso, osservando “che l’indicata dichiarazione deve configurarsi quale mero errore del candidato, con la conseguente esclusione dell’assegnazione del punteggio inerente al titolo contestato” (TAR Lazio, Sez. I-bis, 21.05.2018, n. 5609; 02.01.2018, n. 8; 21.07.2017, n. 8848).
2.3 Nel caso di specie, la dichiarazione erronea resa dal Signor Ca. con riguardo al possesso della patente del computer ECDL “Core Full” ha comportato esclusivamente il conseguimento di un maggior punteggio ma non ha influito sull’ammissione al reclutamento: la decurtazione del punteggio addizionale derivante dal predetto errore avrebbe collocato in ogni caso l’odierno esponente in posizione utile.
Ne discende, pertanto, che la erronea dichiarazione resa dal candidato è stata irrilevante e non ha comportato “un indebito beneficio”: tale erronea indicazione avrebbe dovuto comportare la rivalutazione della posizione del ricorrente, ai fini di un corretto posizionamento in graduatoria -in relazione all’effettivo punteggio spettante, in base ai titoli effettivamente posseduti, con esclusione, quindi, soltanto di quello contestato- ma non la decadenza dalla ferma prefissata (TAR Lazio, Sez. I-bis, 08.06.2017, n. 6802). Difatti non è stato il punteggio addizionale derivante dal predetto errore -pari a 0,2 punti- ad aver consentito al ricorrente di essere classificato in posizione utile ai fini della prestazione del servizio in ferma prefissata di un anno nell’Aeronautica Militare (TAR Lazio, Sez. I-bis, 20.06.2018, n. 6889; 08.06.2017, n. 6802).
3. Alla luce delle considerazioni sopra svolte, le doglianze articolate dal ricorrente devono ritenersi fondate, non potendosi considerare mendace l’indicazione fatta in buona fede nella domanda di partecipazione, ma semplicemente erronea, con la conseguenza che la sua erroneità avrebbe dovuto comportare la sola sottrazione del punteggio relativo al titolo originariamente riconosciuto e il riposizionamento dell’interessato in graduatoria (TAR Lazio-Roma, Sez. I-bis, sentenza 24.11.2018 n. 11389 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 20 della l. n. 241/1990, mentre al comma 1 prevede che, «fatta salva l'applicazione dell'art. 19, nei procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di provvedimenti amministrativi il silenzio dell'amministrazione competente equivale a provvedimento di accoglimento della domanda, senza necessità di ulteriori istanze o diffide», al comma 4 precisa che «le disposizioni del presente articolo non si applicano agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico, l'ambiente, la difesa nazionale».
Il rapporto tra la disposizione contenuta nell’art. 20, comma 4, della l. n. 241/1990 e quella contenuta nell’art. 13, comma 1, della l. n. 394/1991 (secondo cui «il rilascio di concessioni o autorizzazioni relative ad interventi, impianti ed opere all'interno del parco è sottoposto al preventivo nulla osta dell'Ente Parco … il nulla osta è reso entro sessanta giorni dalla richiesta … decorso inutilmente tale termine il nulla osta si intende rilasciato»), è stato chiarito dalla giurisprudenza nel senso di annettere prevalenza alla prima e di escludere, quindi, l’operatività del silenzio-assenso sulle richieste di nulla osta del competente Ente Parco nell’ambito dei procedimenti abilitativi edilizi.
Il Consiglio di Stato, nel decidere una questione analoga a quella dedotta nel presente giudizio, ha così statuito: «Il Collegio è dunque chiamato a stabilire se, come sostiene l'appellante, nel conflitto tra la norma contenuta nell'art. 20, comma 4, della l. n. 241/1990 (come sostituita dalla l. n. 80/2005) e la disposizione dell'art. 13 della l. n. 394/1991, sarebbe quest'ultima, in quanto norma speciale, a dover prevalere su quella generale sopravvenuta o, al contrario, … debba darsi prevalenza alla prima. Alla questione deve darsi esito … muovendo dal rilievo per cui entrambe le norme hanno la medesima natura procedimentale e vengono a disciplinare lo stesso istituto operante in materia edilizia-ambientale; resta, infatti, escluso che tra esse possa configurarsi un rapporto di specialità, poiché questo presuppone un certo grado di equivalenza tra norme a confronto, ma che non può spingersi sino alla sostanziale identità tra le due discipline in contrasto. In questo secondo caso, il prospettato conflitto tra due disposizioni, che, seppur con esiti opposti per l'istante, disciplinano il medesimo istituto procedimentale del silenzio assenso, deve quindi essere risolto alla luce della successione nel tempo tra due norme generali e pertanto secondo il principio per cui la legge posteriore abroga la legge anteriore con essa incompatibile (arg. ex art. 15 cod. civ.)».
Il Consiglio di Stato prosegue affermando che: «Anche qui il Collegio condivide, perciò, l'orientamento … per cui non si può far ricorso al principio di specialità che postula l'equivalenza tra le norme stesse, ma deve necessariamente applicarsi il criterio cronologico, in base al quale la legge successiva prevale su quella precedente. Ciò considerato, è evidente che l'intervento dell'art. 20 della l. n. 241/1990, come successivamente modificato, determina che il regime del silenzio assenso non trovi applicazione in materia di tutela ambientale, con la conseguenza che il diniego di nulla osta, pur sopravvenuto oltre il termine fissato dalla legge precedente, risulta pienamente legittimo in quanto emesso in forza di potere non consumatosi –in quanto esplicato nella vigenza della nuova legge– ed il cui esercizio, dunque, non presupponeva l'annullamento in autotutela di un precedente silenzio-assenso, viceversa inesistente».
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2. Venendo ora a scrutinare il ricorso iscritto a r.g. n. 2244/2013, privo di pregio si rivela l’ordine di doglianze secondo cui sulla domanda di permesso di costruire del 15.02.2013 (prot. n. 2401) il nulla osta dell’Ente Parco si sarebbe formato per silenzio-assenso per decorso del termine all’uopo previsto dall’art. 13 della l. n. 394/1991.
A ripudio di un simile assunto, giova rammentare che l'art. 20 della l. n. 241/1990, mentre al comma 1 prevede che, «fatta salva l'applicazione dell'art. 19, nei procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di provvedimenti amministrativi il silenzio dell'amministrazione competente equivale a provvedimento di accoglimento della domanda, senza necessità di ulteriori istanze o diffide», al comma 4 precisa che «le disposizioni del presente articolo non si applicano agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico, l'ambiente, la difesa nazionale».
Il rapporto tra la disposizione contenuta nell’art. 20, comma 4, della l. n. 241/1990 e quella contenuta nell’art. 13, comma 1, della l. n. 394/1991 (secondo cui «il rilascio di concessioni o autorizzazioni relative ad interventi, impianti ed opere all'interno del parco è sottoposto al preventivo nulla osta dell'Ente Parco … il nulla osta è reso entro sessanta giorni dalla richiesta … decorso inutilmente tale termine il nulla osta si intende rilasciato»), è stato chiarito dalla giurisprudenza nel senso di annettere prevalenza alla prima e di escludere, quindi, l’operatività del silenzio-assenso sulle richieste di nulla osta del competente Ente Parco nell’ambito dei procedimenti abilitativi edilizi.
Il Consiglio di Stato, infatti, con sentenza n. 5188/2013, nel decidere una questione analoga a quella dedotta nel presente giudizio, ha così statuito: «Il Collegio è dunque chiamato a stabilire se, come sostiene l'appellante, nel conflitto tra la norma contenuta nell'art. 20, comma 4, della l. n. 241/1990 (come sostituita dalla l. n. 80/2005) e la disposizione dell'art. 13 della l. n. 394/1991, sarebbe quest'ultima, in quanto norma speciale, a dover prevalere su quella generale sopravvenuta o, al contrario, … debba darsi prevalenza alla prima. Alla questione deve darsi esito … muovendo dal rilievo per cui entrambe le norme hanno la medesima natura procedimentale e vengono a disciplinare lo stesso istituto operante in materia edilizia-ambientale; resta, infatti, escluso che tra esse possa configurarsi un rapporto di specialità, poiché questo presuppone un certo grado di equivalenza tra norme a confronto, ma che non può spingersi sino alla sostanziale identità tra le due discipline in contrasto. In questo secondo caso, il prospettato conflitto tra due disposizioni, che, seppur con esiti opposti per l'istante, disciplinano il medesimo istituto procedimentale del silenzio assenso, deve quindi essere risolto alla luce della successione nel tempo tra due norme generali e pertanto secondo il principio per cui la legge posteriore abroga la legge anteriore con essa incompatibile (arg. ex art. 15 cod. civ.)».
Il Consiglio di Stato prosegue affermando che: «Anche qui il Collegio condivide, perciò, l'orientamento … per cui non si può far ricorso al principio di specialità che postula l'equivalenza tra le norme stesse, ma deve necessariamente applicarsi il criterio cronologico, in base al quale la legge successiva prevale su quella precedente. Ciò considerato, è evidente che l'intervento dell'art. 20 della l. n. 241/1990, come successivamente modificato, determina che il regime del silenzio assenso non trovi applicazione in materia di tutela ambientale, con la conseguenza che il diniego di nulla osta, pur sopravvenuto oltre il termine fissato dalla legge precedente, risulta pienamente legittimo in quanto emesso in forza di potere non consumatosi –in quanto esplicato nella vigenza della nuova legge– ed il cui esercizio, dunque, non presupponeva l'annullamento in autotutela di un precedente silenzio-assenso, viceversa inesistente» (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 23.11.2018 n. 1694 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Nullità delle clausole del bando che introducono condizioni limitative o restrittive dell’avvalimento.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Avvalimento – Attestazione Soa in capo ad impresa ausiliata – Nullità della clausola.
E' nulla la clausola del bando di gara che impone a pena di esclusione che, in caso di avvalimento, l’impresa ausiliata debba essere in possesso di propria attestazione SOA, dal momento che la disciplina dell’istituto dell’avvalimento di cui all’art. 89 del d.lgs. 18.04.2016 n. 50 non riconosce alcun potere alla stazione appaltante di introdurre condizioni limitative o, comunque, restrittive dell’avvalimento, tanto meno di sanzionarne la mancanza con l’immediata esclusione del concorrente (1).
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   (1) La Sezione, richiamando un proprio precedente in termini (Tar Napoli, sez. I, 24.07.2018, n. 4943), ha chiarito che la questione centrale della controversia è la qualificazione giuridica del vizio che potrebbe riguardare la prescrizione del disciplinare, in disparte ogni delibazione in ordine alla sua fondatezza.
Difatti, ove tale patologia si dovesse ritenere quale ipotesi di annullabilità, il ricorso non potrebbe trovare accoglimento, atteso che il provvedimento di esclusione impugnato si rivelerebbe pedissequa applicazione della presupposta disposizione del disciplinare, la cui perdurante validità non potrebbe che comportare, in sede di riedizione del potere, l’adozione di un identico provvedimento di esclusione; ove, il vizio dovesse ritenersi di nullità, trattandosi di un’ipotesi di esclusione che la lex specialis avrebbe previsto in assenza di copertura legislativa, l’operato della commissione risulterebbe travolto dall’accertamento di tale più grave patologia che il giudice deve comunque eseguire, ai sensi dell’art. 83, comma 9, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, secondo cui “i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione rispetto a quelle previste dal presente codice e da altre disposizioni di legge vigenti. Dette prescrizioni sono comunque nulle”.
Osserva il Collegio che principi generali dell’azione autoritativa dell’amministrazione pubblica, contenuti negli artt. 21-septies e 21-octies, l. 07.08.1990, n. 241, disciplinano la patologia del provvedimento, in considerazione dell’incidenza più o meno intensa che discende dal tipo di illegittimità, parlando di annullabilità nelle tradizionali fattispecie di incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge e di nullità in caso di mancanza di elementi essenziali, difetto assoluto di attribuzione, violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge; differente ne è poi la disciplina sostanziale e processuale di riferimento.
A ben vedere, la differenza tra annullabilità e nullità ricalca la tradizionale impostazione dicotomica tra cattivo esercizio del potere e carenza di potere, tali essendo state qualificate da risalente giurisprudenza le fattispecie di assenza di elementi costitutivi, difetto assoluto di attribuzione, mentre di nullità tout court si parlava anche con riferimento alle ipotesi di elusione o violazione del giudicato e nelle più recenti fattispecie di nullità ex lege.
Ebbene, applicando tale impostazione generale alla fattispecie di nullità delle clausole di bandi e lettere di invito per violazione del principio di tassatività delle cause di esclusione, può ritenersi che si sia in presenza di annullabilità ove la norma contempli il potere dell’amministrazione di disciplinare e richiedere determinati requisiti di partecipazione ai concorrenti o modalità di formazione delle offerte, per cui ogni possibile criticità si risolve in un vizio per esercizio contra legem di quel potere; si è in presenza di nullità tutte le volte in cui, invece, quel potere sia esercitato praeter legem, ossia laddove l’amministrazione abbia richiesto requisiti che la norma codicistica o altra non contemplino affatto.
Tale soluzione risponde anche ad esigenze di armonizzazione delle qualificazioni sostanziali de quibus con l’indiscutibile preoccupazione del legislatore di consolidamento degli atti delle procedure di gara, la cui definitività è attualmente anticipata dalla previsione di un rito speciale di tipo impugnatorio-decadenziale per le ipotesi di contestazione di atti di esclusione e di ammissione che si assumano illegittimi, segnatamente l’art. 120, commi 2-bis e 6-bis, c.p.a..
Ha quindi concluso la Sezione nel senso che la disciplina dell’istituto dell’avvalimento di cui all’art. 89, d.lgs. n. 50 del 2016 non riconosce alcun potere alla stazione appaltante di introdurre condizioni limitative o, comunque, restrittive dell’avvalimento, tanto meno di sanzionarne la mancanza con l’immediata esclusione del concorrente; a ben vedere, invero, unico spazio per una modulazione da parte della stazione appaltante della disciplina positiva è contenuto nei commi quarto e terzo della predetta disposizione, ove, nel primo caso, si stabilisce che «nel caso di appalti di lavori, di appalti di servizi e operazioni di posa in opera o installazione nel quadro di un appalto di fornitura, le stazioni appaltanti possono prevedere nei documenti di gara che taluni compiti essenziali siano direttamente svolti dall'offerente o, nel caso di un'offerta presentata da un raggruppamento di operatori economici, da un partecipante al raggruppamento» e nel secondo che «nel bando di gara possono essere altresì indicati i casi in cui l'operatore economico deve sostituire un soggetto per il quale sussistono motivi non obbligatori di esclusione, purché si tratti di requisiti tecnici».
Nessun altro potere di conformare i requisiti di accesso all’avvalimento è riconosciuto, in aderenza all’orientamento giurisprudenziale che in sede europea considera l’istituto come espressione del riconoscimento della più ampia libertà di autoorganizzazione degli operatori economici (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 19.11.2018 n. 6691 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA: Sulla sospensione dell'iter procedimentale, di un Piano Attuativo, relativo ad alcuni comparti soggetti a procedimento penale.
Il Collegio ritiene fondato l’orientamento espresso, in materia di pianificazione urbanistica ed attuativa dal Consiglio di Stato, secondo cui “mentre piano urbanistico attuativo e schema di convenzione formano oggetto di un unico atto di approvazione (di competenza del Consiglio comunale), la convenzione propriamente detta (cioè il contratto ad oggetto pubblico successivamente stipulato) costituisce certamente ... un atto negoziale autonomo (nel senso di essere giuridicamente distinto dal provvedimento - atto unilaterale di approvazione), la cui sottoscrizione deve essere effettuata dal dirigente del Comune, ex art. 107, co. 3, lett. c), T.U. enti locali", il quale, se non ha "un potere di modifica e/o integrazione delle clausole, che inciderebbe sul contenuto stesso della potestà pianificatoria precedentemente esercitata dal Consiglio comunale", tuttavia "laddove ritenga che le clausole contrattuali in sé considerate, ovvero lo stesso piano urbanistico attuativo contrastino con disposizioni di legge, ben può rimettere le sue osservazioni all'organo competente, onde sollecitarne una ulteriore valutazione ed, eventualmente, l'esercizio del potere di annullamento in autotutela, ai sensi dell'art. 21-nonies l. n. 241/1990".
Difatti, la convenzione di lottizzazione costituisce un atto accessorio al Piano di lottizzazione, deputato alla regolazione dei rapporti tra il soggetto esecutore delle opere e il Comune con riferimento agli adempimenti derivanti dal Piano medesimo, ed è quindi cronologicamente e fisiologicamente distinta dal sovrastante strumento di pianificazione secondaria, non inciso dal provvedimento contestato di sospensione oggetto di impugnativa.
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Il principio di tipicità degli atti amministrativi non consente che un qualsiasi procedimento possa essere sospeso se una norma non prevede il relativo potere. A ciò si aggiunga che, nell’ipotesi di procedimento ampliativo, come quello in esame, non sarebbe possibile ipotizzare la sussistenza di un generale potere di sospensione in quanto distonico rispetto all’obbligo per la P.A di definire il procedimento con un provvedimento espresso, con il conseguente termine procedimentale di durata massima del procedimento amministrativo (art. 2 L. 241/1990).
Ma, a ben vedere, la sospensione sine die del procedimento ampliativo si pone altresì in contrasto con i principi espressi con l’art. 21-quater della L. 241/1990 ancorché la norma da ultimo citata sia precipuamente diretta alla disciplina della sospensione del provvedimento già esistente.
L’art. 21-quater della L. 241/1990 stabilisce invero che l'efficacia ovvero l'esecuzione del provvedimento amministrativo può essere sospesa, per gravi ragioni e per il tempo strettamente necessario, dallo stesso organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge; il termine della sospensione è esplicitamente indicato nell'atto che la dispone e può essere prorogato o differito per una sola volta, nonché ridotto per sopravvenute esigenze; la sospensione non può comunque essere disposta o perdurare oltre i termini per l'esercizio del potere di annullamento di cui all'art. 21-nonies, l. 07.08.1990, n. 241.
Si tratta, in altre parole, di un generale potere di sospensione di natura cautelare e durata temporanea, cui fa da pendant il necessario controlimite della prefissione di un termine che salvaguardi l'esigenza di certezza della posizione giuridica della parte, proprio al fine di scongiurare il rischio di una illegittima sospensione sine die, che equivarrebbe, nel caso di interesse pretensivo ad un atto ampliativo, al sostanziale diniego dell’atto stesso.

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Nella fattispecie in esame, il dirigente comunale si è limitato a sospendere l’attività amministrativa relativa i comparti C,D,E,F oggetto del procedimento penale n. ... (in corso) almeno sino alle risultanze prodotte dall’udienza preliminare.
Il Tribunale ritiene che il riferimento a tale avvenimento futuro, ma incerto nel quando, si ponga in contrasto con l’obbligo per la P.A di concludere il procedimento nel termine di legge prefissato (art. 2 L. 241/1990).
In ogni caso, tale evento non può surrogare la necessità, espressa dall’art. 21-quater L. 241/1990 dell'indicazione espressa di un termine finale di efficacia del provvedimento di sospensione, eventualmente coincidente con quello necessario per l’esercizio del potere di autotutela, stante l’impossibilità per lo stesso dirigente comunale, all’atto dell’adozione del gravato provvedimento, di ipotizzare un termine certo di conclusione dell’udienza preliminare.
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Posto quanto sopra, è evidente che l’Amministrazione resta in ogni caso titolare del potere di valutare se la pendenza del procedimento penale costituisca fatto idoneo a far venire meno gli interessi pubblici di natura urbanistica sottesi all’originaria lottizzazione, ovvero a verificare se sussistano le condizioni di legge per poter procedere in variante, emendando il Piano dagli eventuali profili di illegittimità riscontrati in sede penale.
Circostanza, quest’ultima, peraltro, già rappresentata dalla stessa Amministrazione con la nota prot. 11595/16, genericamente contestata dal ricorrente con l’odierno gravame, laddove il Comune si riservava di attuare le procedure in autotutela nel caso di mancato adeguamento, da parte del Consorzio ricorrente, del Piano di Lottizzazione alle conclusioni del consulente ratificate dal Consiglio Comunale.
Costituisce, invero principio pacifico che qualora tra approvazione del piano attuativo e la stipulazione della convenzione di lottizzazione, vengano meno i presupposti sui quali la stessa approvazione è stata fondata, “l'amministrazione, la quale ben può verificare la persistenza di detti presupposti fino al momento della stipula, non può ritenersi obbligata alla stipulazione della convenzione, ma valuterà la sussistenza di ragioni di revoca dell'approvazione, ai sensi dell'art. 21-quinquies l. n. 241/1990", ovvero di annullamento del piano già approvato, in esercizio del potere di autotutela.
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14. Posto quanto sopra, per quanto concerne, invece, la domanda di annullamento delle note comunali contestate, deve procedersi alla conversione del rito speciale del silenzio in rito ordinario.
15. In disparte la genericità dell’impugnativa delle note comunali del 2015 e del 2016 contestate con il ricorso introduttivo, quanto all’oggetto precipuo dell’impugnativa (nota del Dirigente UTC prot. n. 12837/2017 del 21.06.2017 e la connessa e richiamata nota 7684 del 07.04.2016), deve ritenersi non fondata la censura di incompetenza, motivata da parte ricorrente sulla base del presupposto che la sospensione del procedimento sarebbe stata decisa dal dirigente preposto e non già dal Consiglio comunale, organo che ha approvato il piano di lottizzazione.
Al riguardo sia sufficiente osservare che, l’avversata determinazione dirigenziale non sospende il Piano di lottizzazione (che, allo stato risulta efficace fino alla sua naturale scadenza), ma solo l’attività amministrativa consequenziale che va ascritta ex art. 107 comma 3, lett. c), Dlgs 267/2000 alla competenza dell’organo di gestione.
In proposito, il Collegio ritiene fondato l’orientamento espresso, in materia di pianificazione urbanistica ed attuativa dal Consiglio di Stato, secondo cui “mentre piano urbanistico attuativo e schema di convenzione formano oggetto di un unico atto di approvazione (di competenza del Consiglio comunale), la convenzione propriamente detta (cioè il contratto ad oggetto pubblico successivamente stipulato) costituisce certamente ... un atto negoziale autonomo (nel senso di essere giuridicamente distinto dal provvedimento - atto unilaterale di approvazione), la cui sottoscrizione deve essere effettuata dal dirigente del Comune, ex art. 107, co. 3, lett. c), T.U. enti locali", il quale, se non ha "un potere di modifica e/o integrazione delle clausole, che inciderebbe sul contenuto stesso della potestà pianificatoria precedentemente esercitata dal Consiglio comunale", tuttavia "laddove ritenga che le clausole contrattuali in sé considerate, ovvero lo stesso piano urbanistico attuativo contrastino con disposizioni di legge, ben può rimettere le sue osservazioni all'organo competente, onde sollecitarne una ulteriore valutazione ed, eventualmente, l'esercizio del potere di annullamento in autotutela, ai sensi dell'art. 21-nonies l. n. 241/1990" (Consiglio di Stato n. 4027/2016 cit.).
Difatti, la convenzione di lottizzazione costituisce un atto accessorio al Piano di lottizzazione, deputato alla regolazione dei rapporti tra il soggetto esecutore delle opere e il Comune con riferimento agli adempimenti derivanti dal Piano medesimo, ed è quindi cronologicamente e fisiologicamente distinta dal sovrastante strumento di pianificazione secondaria, non inciso dal provvedimento contestato di sospensione oggetto di impugnativa.
16. Deve, invece, ravvisarsi, in accoglimento del secondo motivo di ricorso, l’illegittimità della sospensione del procedimento in quanto disposta dall’amministrazione senza l’indicazione di un termine prefissato e certo di durata.
In primis, infatti, deve osservarsi che il principio di tipicità degli atti amministrativi non consente che un qualsiasi procedimento possa essere sospeso se una norma non prevede il relativo potere. A ciò si aggiunga che, nell’ipotesi di procedimento ampliativo, come quello in esame, non sarebbe possibile ipotizzare la sussistenza di un generale potere di sospensione in quanto distonico rispetto all’obbligo per la P.A di definire il procedimento con un provvedimento espresso, con il conseguente termine procedimentale di durata massima del procedimento amministrativo (art. 2 L. 241/1990).
Ma, a ben vedere, la sospensione sine die del procedimento ampliativo si pone altresì in contrasto con i principi espressi con l’art. 21-quater della L. 241/1990 ancorché la norma da ultimo citata sia precipuamente diretta alla disciplina della sospensione del provvedimento già esistente.
L’art. 21-quater della L. 241/1990 stabilisce invero che l'efficacia ovvero l'esecuzione del provvedimento amministrativo può essere sospesa, per gravi ragioni e per il tempo strettamente necessario, dallo stesso organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge; il termine della sospensione è esplicitamente indicato nell'atto che la dispone e può essere prorogato o differito per una sola volta, nonché ridotto per sopravvenute esigenze; la sospensione non può comunque essere disposta o perdurare oltre i termini per l'esercizio del potere di annullamento di cui all'art. 21-nonies, l. 07.08.1990, n. 241.
Si tratta, in altre parole, di un generale potere di sospensione di natura cautelare e durata temporanea, cui fa da pendant il necessario controlimite della prefissione di un termine che salvaguardi l'esigenza di certezza della posizione giuridica della parte, proprio al fine di scongiurare il rischio di una illegittima sospensione sine die, che equivarrebbe, nel caso di interesse pretensivo ad un atto ampliativo, al sostanziale diniego dell’atto stesso.
Pertanto, alla luce e nei limiti delle considerazioni sopra rassegnate, il provvedimento di sospensione deve considerarsi illegittimo.
Nella fattispecie in esame, infatti, il dirigente comunale si è limitato a sospendere l’attività amministrativa relativa i comparti C,D,E,F oggetto del procedimento penale n. -OMISSIS- (in corso) almeno sino alle risultanze prodotte dall’udienza preliminare.
Il Tribunale ritiene che il riferimento a tale avvenimento futuro, ma incerto nel quando, si ponga in contrasto con l’obbligo per la P.A di concludere il procedimento nel termine di legge prefissato (art. 2 L. 241/1990); in ogni caso, tale evento non può surrogare la necessità, espressa dall’art. 21-quater L. 241/1990 dell'indicazione espressa di un termine finale di efficacia del provvedimento di sospensione (TAR Lecce, sez. III, 26/04/2017, n. 636), eventualmente coincidente con quello necessario per l’esercizio del potere di autotutela, stante l’impossibilità per lo stesso dirigente comunale, all’atto dell’adozione del gravato provvedimento, di ipotizzare un termine certo di conclusione dell’udienza preliminare.
17. Posto quanto sopra, è evidente che l’Amministrazione resta in ogni caso titolare del potere di valutare se la pendenza del procedimento penale costituisca fatto idoneo a far venire meno gli interessi pubblici di natura urbanistica sottesi all’originaria lottizzazione, ovvero a verificare se sussistano le condizioni di legge per poter procedere in variante, emendando il Piano dagli eventuali profili di illegittimità riscontrati in sede penale.
Circostanza, quest’ultima, peraltro, già rappresentata dalla stessa Amministrazione con la nota prot. 11595/16, genericamente contestata dal ricorrente con l’odierno gravame, laddove il Comune si riservava di attuare le procedure in autotutela nel caso di mancato adeguamento, da parte del Consorzio ricorrente, del Piano di Lottizzazione alle conclusioni del consulente ratificate dal Consiglio Comunale.
Costituisce, invero principio pacifico che qualora tra approvazione del piano attuativo e la stipulazione della convenzione di lottizzazione, vengano meno i presupposti sui quali la stessa approvazione è stata fondata, “l'amministrazione, la quale ben può verificare la persistenza di detti presupposti fino al momento della stipula (Cons. Stato, sez. IV, 26.07.2016 n. 3334), non può ritenersi obbligata alla stipulazione della convenzione, ma valuterà la sussistenza di ragioni di revoca dell'approvazione, ai sensi dell'art. 21-quinquies l. n. 241/1990", ovvero di annullamento del piano già approvato, in esercizio del potere di autotutela (v. sent. Consiglio di Stato n. 4027/2016)
(TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 19.11.2018 n. 1480 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Cessione di cubatura edificabile un fondo in favore di altro fondo - Condizioni - Requisito della reciproca prossimità - Omogeneità urbanistica.
La cessione di cubatura, è un istituto di fonte negoziale ed è consentita a prescindere dalla comune titolarità dei due terreni, la "cessione" della cubatura edificabile propria di un fondo in favore di altro fondo, cosicché, invariata la cubatura complessiva risultante, il fondo cessionario sarà caratterizzato da un indice di edificabilità superiore a quello originariamente goduto.
Tuttavia, tale meccanismo, onde evitare la facile elusione dei vincoli posti alla realizzazione di manufatti edili in funzione della corretta gestione del territorio, è soggetto a determinate condizioni, delle quali le principali, in vicenda, sono costituite:
   a) dall'essere i terreni in questione, se non precisamente contermini, quanto meno dotati del requisito della reciproca prossimità;
   b) dall'essere i medesimi caratterizzati sia dalla omogeneità urbanistica, avere, cioè, tutti la stessa destinazione e lo stesso indice di fabbricabilità originario, perché altrimenti, in assenza di dette condizioni, attraverso l'utilizzazione di tale strumento, astrattamente del tutto legittimo, sarebbe possibile realizzare scopi del tutto estranei ed, anzi, confliggenti con le esigenze di corretta pianificazione del territorio.
Significativo il dato fattuale dell'assenza del necessario requisito della "contiguità" dei fondi, intesa nel senso che gli stessi, anche in assenza di continuità fisica tra tutte le particelle catastali interessate dalla nuova costruzione, devono pur sempre essere caratterizzati da una effettiva e significativa vicinanza
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.11.2018 n. 51833 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Rilascio di autorizzazione paesaggistica - Responsabile dell'ufficio tecnico - Criteri di valutazione - Presupposti giuridico-fattuali - Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici - Art. 479 cod. pen. - Giurisprudenza.
Il reato di cui all'art. 479 cod. pen., si configuri con il rilascio di autorizzazione paesaggistica, da parte del responsabile dell'ufficio tecnico competente, nella consapevolezza della falsità di quanto attestato dal richiedente circa la sussistenza dei presupposti giuridico-fattuali per l'accoglimento della relativa domanda, essendo l'organo competente obbligato a svolgere in qualunque modo, e non necessariamente con un sopralluogo, le necessarie preventive verifiche in merito alla sussistenza delle relative condizioni. Inoltre, va ricordato il principio secondo il quale è configurabile il delitto di falso ideologico nella valutazione tecnica formulata in un contesto implicante l'accettazione di parametri normativamente predeterminati o tecnicamente indiscussi (Cass. Sez. 3, n. 41373 del 17/07/2014, P.M in proc. Pasteris e altri, che a sua volta richiama Sez. 1, n. 45373 del 10/06/2013, Capogrosso e altro).
Sicché, anche nel caso in cui il pubblico ufficiale sia libero nella scelta dei criteri di valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che contiene il giudizio non è destinato a provare la verità di alcun fatto, tuttavia, se l'atto da compiere fa riferimento, anche implicito, a previsioni normative che dettano criteri di valutazione, si è in presenza di un esercizio di discrezionalità tecnica, che vincola la valutazione ad una verifica di conformità della situazione fattuale a parametri predeterminati, con conseguente integrazione della falsità se detto giudizio di conformità non sia rispondente ai parametri cui esso è implicitamente vincolato (Sez. 3, n. 9881 dell'08/02/2018, Costantini ed altri; Sez. 3, n. 2281 del 24/11/2017 (dep. 2018), Siciliano ed altri; Sez. 3, n. 30040 del 30/01/2018, Strambane; Sez. 3, n. 30025 del 04/12/2017 (dep. 2018), Scrudato; Sez. 3, n. 57120 del 29/09/2017, Borrello ed altro; Sez. 3, n. 57108 del 17/05/2017, Renna; Sez. 3 n. 18890 dell'08/11/2017 (dep. 2018), Renna).

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Dscrezionalità tecnica - Presupposti e limiti - Reato di falso ideologico - Configurabilità - Valutazione normativamente fissati - Criteri tecnici generalmente accettati - Atto pubblico - Funzione di affidamento - Fattispecie.
La discrezionalità tecnica deve essere vincolata alla verifica della conformità della situazione fattuale alle previsioni normative. Pertanto, il reato di falso ideologico è pienamente configurabile quando detto giudizio di conformità non sia rispondente, come nei casi esaminati, ai parametri normativi richiesti per l'emanazione di atti amministrativi, che la veridicità di determinate situazioni fattuali richiedono quali necessari presupposti per l'integrazione delle fattispecie giuridiche di riferimento, ossia nei casi in cui l'agente, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o anche solo di criteri tecnici generalmente accettati, se ne discosti consapevolmente in modo da creare, con la propria idonea e concreta condotta, una situazione di pericolo per il normale svolgimento del traffico giuridico, impedendo all'atto pubblico di adempiere alla funzione di affidamento che gli è propria.
Nella specie, i provvedimenti autorizzativi rilasciati erano fondati su presupposti urbanistici e paesaggistici falsi, contenuti anche nella relazione tecnica e, come tale, anch'essa falsa
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.11.2018 n. 51833 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Demolizione di un manufatto abusivo - Effetti sul soggetto che è in rapporto con il bene - Natura di sanzione amministrativa - Autonoma funzione ripristinatoria - Principio ne bis in idem e Corte europea dei diritti dell'uomo - Art. 31, comma 9, D.P.R. n. 380/2001.
La demolizione del manufatto abusivo, anche se disposta dal giudice penale ai sensi dell'art. 31, comma 9, D.P.R. n. 380/2001, qualora non sia stata altrimenti eseguita, ha natura di sanzione amministrativa che assolve ad un'autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso, configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del territorio, non ha finalità punitive ed ha carattere reale, producendo effetti sul soggetto che è in rapporto con il bene, indipendentemente dall'essere stato o meno quest'ultimo l'autore dell'abuso.
Sicché, l'imposizione dell'ordine di demolizione di un manufatto abusivo non comporta la violazione del principio del "ne bis in idem" convenzionale, come interpretato dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo nella causa Grande Stevens c. Italia del 04.03.2014.

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SENTENZA
Caratteristiche dell'ordine di demolizione - Violazione del divieto del ne bis in idem - Ordine impartito dal giudice che configura un obbligo di fare - Prescrizione - Giurisprudenza della Corte EDU.
Il divieto del ne bis in idem può ritenersi violato allorquando, per un fatto corrispondente sotto il profilo storico-naturalistico a quello oggetto di sanzione penale, sia già stata irrogata all'imputato una sanzione formalmente amministrativa, della quale venga riconosciuta natura "sostanzialmente penale" (Sez. 6, n. 31873 del 09/05/2017, P.G. in proc. Basco), escludendo, quindi, la sussistenza di una violazione del principio del "ne bis in idem" convenzionale nel caso in cui uno dei procedimenti in relazione al quale si invoca il principio non abbia natura sostanzialmente penale (Sez. 3, n. 56264 del 18/05/2017, P.G. e altro in proc. Elan e altro), nonché la sua deducibilità anche in presenza di una sanzione formalmente amministrativa della quale venga riconosciuta la natura "sostanzialmente penale" quando manchi qualsiasi prova della definitività della irrogazione della sanzione amministrativa medesima (Sez. 3, n. 19334 del 11/02/2015, Andreatta; Sez. 3, n. 48591 del 26/04/2016, Pellicani).
Inoltre, l'ordine impartito dal giudice, che configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del territorio, non è soggetto alla prescrizione quinquennale stabilita per le sanzioni amministrative dall'art. 28 della L. 689/1981, che riguarda le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva (Sez. 3, n. 16537 del 18/02/2003, Filippi) e, stante la sua natura di sanzione amministrativa, non si estingue neppure per il decorso del tempo ai sensi dell'art. 173 cod. pen. (Sez. 3, n. 36387 del 7/7/2015, Formisano; Sez. 3, n. 19742 del 14/04/2011, Mercurio e altro; Sez. 3, n. 43006 del 10/11/2010, La Mela), atteso che quest'ultima disposizione si riferisce alle sole pene principali (Sez. 3, n. 39705 del 30/4/2003, Pasquale).
Tali principi sono stati ribaditi anche osservando che, avuto riguardo alle richiamate caratteristiche dell'ordine di demolizione, lo stesso non può ritenersi una «pena» nel senso individuato dalla giurisprudenza della Corte EDU e non è quindi soggetto alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen.
(Sez. 3, n. 49331 del 10/11/2015, P.M. in proc. Delorier) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.11.2018 n. 51044 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Termine di impugnazione di un permesso di costruire in sanatoria.
Se è vero che la "piena conoscenza" cui fa riferimento l'art. 41, comma 2, c.p.a. non può essere intesa quale conoscenza integrale dell'atto, è altrettanto vero che la stessa, per essere idonea a far decorrere il termine per l’impugnazione, presuppone la consapevolezza non solo dell’esistenza dello stesso, ma altresì della sua portata illegittimamente lesiva e quindi del suo contenuto essenziale.
In altre parole, è essenziale che la conoscenza effettiva dell’atto non copra solo la sua portata lesiva dell’interesse del ricorrente, ma deve includere anche quegli aspetti tali da poter valutare il provvedimento, non solo svantaggioso, ma illegittimamente sfavorevole.
Pertanto, la conoscenza dell’effettivo lesivo implica la conoscenza del contenuto dell’atto, così da poterne percepire gli eventuali vizi (nel caso di specie, il ricorrente attraverso un’istanza di accesso riferito a un permesso di costruire in sanatoria ha mostrato solo di conoscere l’esistenza del titolo edilizio, manifestando l’interesse a conoscerne il contenuto, in qualità di confinante, come specificato nell’istanza stessa; mentre la percezione dell’effetto lesivo e della sua supposta illegittimità si è avuta solo con la successiva cognizione del contenuto dell’atto)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 09.11.2018 n. 6335 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
Rilevato che:
   - la sentenza impugnata -n. 189/2018 del 30.03.2018 del TAR dell’Umbria- relativa al giudizio promosso da Vi.Ra. per l’ottemperanza delle sentenze del medesimo TAR n. 90/2011 e n. 23/2016 (confermate dalla sentenza del Consiglio di Stato n. 4380/2016) ha: a) dichiarato inammissibile il ricorso proposto per l’ottemperanza della sentenza n. 90/2011; b) rigettato la domanda di nullità del permesso di costruire in sanatoria n. 21 del 07/07/2017 proposta dal ricorrente con motivi aggiunti; c) fissato l’udienza di discussione per l’esame della domanda di annullamento del predetto provvedimento nelle forme del rito ordinario;
   - il Comune di Passignano sul Trasimeno e Ag.Im. s.n.c. hanno proposto appello avverso la predetta sentenza nella parte in cui ha convertito il rito e ha rinviato lo scrutinio della domanda di annullamento dei provvedimenti impugnati a successiva udienza pubblica, rigettando l’eccezione preliminare di decadenza dalla domanda;
   - il ricorrente in primo grado (Vi.Ra.) ha proposto appello incidentale, chiedendo la riforma della sentenza nella parte in cui ha rigettato, siccome infondata, la domanda di nullità del permesso di costruire in sanatoria n. 21 del 07.07.2017;
considerato che:
   - nel rispetto dell’ordine logico di esame delle questioni appare opportuno esaminare in via prioritaria l’appello incidentale proposto dal ricorrente in primo grado, volto a contestare la sentenza impugnata che ha respinto la domanda di nullità del provvedimento n. 21 del 07/07/2017; più precisamente, l’appellante deduce che il Comune avrebbe violato e/o eluso il giudicato per aver accolto la domanda di Agilla Immobiliare e sanato il manufatto (con diversa destinazione d’uso) a norma dell’art. 36 D.P.R. n. 380/2001, anziché avviare e concludere il procedimento previsto in caso di annullamento di un titolo edilizio dall’art. 38 dello stesso Testo Unico, trasfuso nell’art. 149 L.R.U. n. 1/2015;
   - le sentenze, di cui il ricorrente chiede l’ottemperanza, si limitano a rilevare l’illegittimità del titolo edilizio, ma non contengono alcun vincolo che imponga al Comune di procedere alla demolizione, ovvero di procedere secondo un iter predeterminato e vincolato;
   - in generale, seppur dall’annullamento del titolo edilizio discenda una condizione di abusività dell’immobile, anche in base all’art. 38 cit., l’amministrazione ha in primo luogo l’obbligo di verificare la sussistenza delle condizioni per l’applicazione della sanatoria prevista dalla stessa norma (ex multis: Cons. St., Sez. IV, 12.05.2014, n. 2398);
   - nel caso di specie, a valle della sentenza del Consiglio di Stato n. 4380/2016, che aveva confermato le sentenze del TAR di annullamento dei titoli edilizi in base ai quali era stato assentito il capannone di Ag.Im., l’Amministrazione ha attivato il procedimento sanzionatorio, a cui è seguita da parte di Ag.Im. la presentazione dell’istanza n. 835/2017 per il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001, a fronte della quale il Comune si è determinato con il rilascio del permesso n. 21/2017;
   - che quest’ultimo provvedimento, per le considerazioni innanzi esposte, non si pone in violazione del giudicato, ben potendo, come in effetti è avvenuto, essere censurato in sede di legittimità, ove verrà valutata anche la dedotta violazione del principio della c.d. “doppia conformità”;
   - infatti, come già ricordato, anche a seguito del giudicato di annullamento del titolo edilizio, l’amministrazione, a fronte dell’istanza del privato tesa alla sanatoria del manufatto, ben può determinarsi sulla stessa, senza violare, di per sé, il giudicato, salva ovviamente la valutazione circa la legittimità del provvedimento di sanatoria;
   - per le ragioni esposte, l’appello di Vi.Ra. non può trovare accoglimento;
   - devono essere rigettate anche le impugnazioni proposte dal Comune e da An.Im., volte a contestare la conversione del rito in ordinario, disposta dal TAR al fine di scrutinare la legittimità del permesso a costruire in sanatoria; più precisamente, si deduce la tardività del ricorso proposto dal ricorrente avverso il permesso a costruire, assumendo che, anche in ragione del tenore letterale dell’istanza di accesso proposta il 04.09.2017, a quella data, il ricorrente aveva già acquisito la “piena conoscenza” dell’esistenza e del contenuto essenziale del permesso di costruire in sanatoria n. 21/2017;
   - la piena conoscenza dell’atto –quando esso non è notificato o comunicato– costituisce una circostanza di fatto che deve essere specificatamente provata da chi eccepisce la tardività del ricorso;
   - l’istanza di accesso proposta dal ricorrente in data 04.09.2017 non rappresenta, a tal fine, una prova idonea dell’avvenuta conoscenza del provvedimento di sanatoria successivamente impugnato, dal momento che dalla stessa emerge solo che il ricorrente era consapevole del provvedimento di sanatoria, non certo del contenuto di questo, di cui ha preso contezza solo a seguito dell’ostensione dello stesso in accoglimento dell’istanza di accesso in data 24/10/2017; ne consegue che, condivisibilmente, il TAR ha considerato che il termine dovesse decorre da tale momento e non dal momento dell’istanza di accesso;
   - se è vero che la "piena conoscenza" cui fa riferimento l'art. 41, co. 2, CPA, non può essere intesa quale conoscenza integrale dell'atto, è altrettanto vero che la stessa, per essere idonea a far decorrere il termine per l’impugnazione, presuppone la consapevolezza non solo dell’esistenza dello stesso, ma altresì della sua portata illegittimamente lesiva e quindi del suo contenuto essenziale; in altre parole, è essenziale che la conoscenza effettiva dell’atto non copra solo la sua portata lesiva dell’interesse del ricorrente, ma deve includere anche quegli aspetti tali da poter valutare il provvedimento, non solo svantaggioso, ma illegittimamente sfavorevole; pertanto, la conoscenza dell’effettivo lesivo implica la conoscenza del contenuto dell’atto, così da poterne percepire gli eventuali vizi (cfr. Cons. St., Sez. VI, 08.02.2007, n. 522);
   - nel caso di specie, il ricorrente attraverso l’istanza di accesso ha mostrato solo di conoscere l’esistenza del titolo edilizio, manifestando l’interesse a conoscerne il contenuto, in qualità di confinante, come specificato nell’istanza stessa; mentre la percezione dell’effetto lesivo e della sua supposta illegittimità si è avuta solo con la successiva cognizione del contenuto dell’atto;

URBANISTICA: Reiterazione del vincolo espropriativo e onere motivazionale.
Per la reiterazione del vincolo è necessaria una motivazione congrua che valuti l’interesse dell’amministrazione alla continuazione del vincolo unitamente a quello del privato al pieno godimento del proprio bene, alla luce anche del tempo trascorso dalla prima imposizione e quindi della durata complessiva del vincolo.
Il TAR Milano ritiene quindi illegittima una previsione di vincolo –alla quale non ha fatto peraltro seguito alcun provvedimento attuativo o esecutivo– reiterata dal Comune con un generico richiamo alla necessità di realizzare l’opera pubblica, in mancanza dell’esplicitazione delle specifiche ragioni della scelta dell’amministrazione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 09.11.2018 n. 2539 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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2. In sede di adozione della prima variante al PGT, il Comune decideva di eliminare la previsione del tratto di pista ciclabile sull’area di via XX Settembre, pur confermando la destinazione a parcheggio dell’area sita invece nel centro storico.
L’esponente presentava la propria osservazione alla variante così adottata (cfr. il doc. 5 del resistente), nella quale chiedeva che la destinazione a parcheggio pubblico fosse limitata ad una sola porzione del fondo interessato e non più all’intero sedime, con possibilità in ogni modo di acquisire in permuta un’altra area dove era collocata la ex massicciata ferroviaria.
In sede di controdeduzioni, l’amministrazione accoglieva formalmente l’osservazione, seppure a condizione che fosse realizzata una pista ciclopedonale di proprietà comunale tra piazza del Bersagliere e via Benedetto Croce (cfr. la relazione di controdeduzione alle osservazioni, doc. 6 del resistente).
In tal modo, la deliberazione di approvazione definitiva della variante n. 7/2013 (cfr. il doc. 3 della ricorrente e il doc. 11 del resistente, osservazione n. 16), introduceva nuovamente la previsione della realizzazione della pista ciclabile, già contemplata nell’originario PGT impugnato col gravame principale e non più indicata nella delibera di adozione della variante.
Le doglianze dei motivi aggiunti si indirizzano contro la determinazione di reintroduzione della destinazione a pista ciclabile, la quale realizza un vincolo espropriativo limitativo del diritto di proprietà della ricorrente.
Tale vincolo, già previsto dal PGT del 2009 (cfr. il doc. 1 della ricorrente e il doc. 4 del resistente), è stato quindi reiterato nel 2013.
Tale reiterazione deve reputarsi illegittima, per le ragioni che seguono.
Come noto, ai sensi dell’art. 9, comma 2, del DPR 327/2001 (Testo Unico sulle espropriazioni) il vincolo preordinato all’esproprio ha durata quinquennale e dopo la decadenza (si veda il comma 4 dell’art. 9), può essere “motivatamente reiterato”.
La giurisprudenza esige per la reiterazione del vincolo una motivazione congrua, che valuti l’interesse dell’amministrazione alla continuazione del vincolo unitamente a quello del privato al pieno godimento del proprio bene, alla luce anche del tempo trascorso dalla prima imposizione e quindi della durata complessiva del vincolo (cfr., fra le tante, TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 28.05.2018, n. 1344; TAR Toscana, sez. I, 06.11.2017, n. 1352, con la giurisprudenza ivi richiamata).
Nel caso di specie, a fronte della previsione di vincolo del 2009 –alla quale non ha fatto peraltro seguito alcun provvedimento attuativo o esecutivo– il Comune, nell’anno 2013, si è limitato semplicemente a riaffermare la necessità della pista ciclopedonale, senza aggiungere alcunché, quindi con una dichiarazione sostanzialmente priva di motivazione (cfr. ancora il doc. 3 della ricorrente, risposta all’osservazione n. 16 e la relazione comunale sulle controdeduzioni, doc. 6 del resistente, pag. 19).
Neppure potrebbe sostenersi che l’onere motivazionale possa essere assolto con un generico richiamo alla necessità di realizzare l’opera pubblica, in mancanza dell’esplicitazione delle specifiche regioni della scelta dell’amministrazione.
In definitiva, il ricorso per motivi aggiunti deve essere accolto, con conseguente annullamento della norma di piano che impone il vincolo di cui è causa sul terreno dell’esponente.

EDILIZIA PRIVATA: DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Rilascio di titoli abilitativi edilizi - Regolarità dei procedimenti amministrativi - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Verifica di atti della pubblica amministrazione - Insindacabilità in sede di legittimità - Art. 44, lett. b) d. P R. n. 380/2001.
L'accertamento della correttezza dei procedimenti amministrativi per il rilascio di titoli abilitativi edilizi è sostanzialmente riservata al giudice di merito, poiché presuppone necessariamente la verifica di atti della pubblica amministrazione, mentre il controllo in sede di legittimità concerne la correttezza giuridica dell'accertamento di merito sul punto.
Deve peraltro tenersi conto della natura sommaria del giudizio cautelare, la quale impedisce una esaustiva verifica della regolarità dei procedimenti amministrativi, in quanto l'accertamento dell'esistenza del fumus dei reati è fondato sulle prospettazioni della pubblica accusa, che non appaiano errate sul piano giuridico ovvero non siano contraddette in modo inconfutabile dalla difesa.
Pertanto, è insindacabile, in sede di legittimità, la regolarità dei procedimenti amministrativi seguiti per il rilascio di titoli abilitativi edilizi, essendo altresì precluso alla Corte di cassazione procedere all'accertamento di eventuali errori di fatto commessi in sede di merito nel verificare detta regolarità
(Sez. 3, n. 20571 del 28/4/2010, Alberti)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.11.2018 n. 50161- link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Aree sottoposte a vincoli - Realizzazione, modifica o allargamento di una strada - Permesso di costruire - Necessità - Fattispecie: realizzazione ex novo di una strada - Artt. 3, 29 e 44 D.P.R. n. 380/2001 - Art. 181, d.lgs. n. 42/2004.
In tema di tutela delle aree sottoposte a vincoli, non soltanto (a fortiori) la realizzazione di un nuovo tracciato ma anche la modificazione o l'allargamento di una preesistente strada deve essere preceduta dal rilascio della concessione edilizia (ora permesso di costruire) e dalla autorizzazione dell'autorità proposta alla tutela del vincolo, atteso che trattasi di modificazione ambientale di carattere stabile, in assenza delle quali si configurano i reati di cui agli artt. 44 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380 e 181 del D.Lgs. 22.01.2004 n. 42 (Cass. Sez. 3, n. 33186 del 03/06/2004, Spano; Sez. 3, n. 1442 del 06/11/2012, dep. 2013, Pallone).
Pertanto, la realizzazione ex novo di una strada -nella specie avvenuta mediante sbancamento del costone, con lavori peraltro ancora corso al momento dell'accertamento- è opera che certamente richiede il rilascio del permesso di costruire, trattandosi di intervento di urbanizzazione realizzato da soggetto diverso dal comune, espressamente considerato quale intervento di nuova costruzione dall'art. 3, comma 1, lett. e.2), d.p.R. 380 del 2001, e che, se ricadente in zona vincolata, richiede altresì l'autorizzazione paesaggistica, in quanto potenzialmente idoneo a modificare stabilmente il paesaggio.

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BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Reati ambientali - Interventi abusivi che ricadono nelle zone sottoposte a vincolo paesaggistico - Mancata indicazione del provvedimento impositivo del vincolo.
In materia di reati ambientali, la fattispecie di cui all'art. 181, comma 1-bis, lett. a), del D.Lgs. 42 del 2004 -che punisce gli interventi abusivi che ricadono nelle zone sottoposte a vincolo paesaggistico- è correttamente contestata quando, pur in assenza di esplicita menzione dello specifico provvedimento impositivo del regime vincolistico, sulla base delle altre indicazioni sia comunque possibile risalire al vincolo gravante sull'area (Sez. 3, n. 48984 del 21/10/2014, Maresca) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.11.2018 n. 50138 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reati edilizi - Individuazione responsabile dell'abuso edilizio - Comproprietario non committente - Compartecipazione anche morale - Necessità - Giurisprudenza.
In tema di reati edilizi, l'individuazione del comproprietario non committente quale soggetto responsabile dell'abuso edilizio può essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziaria della compartecipazione, anche morale, alla realizzazione del manufatto, ricavabili dalla presentazione della domanda di condono edilizio, dalla piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo, dall'interesse specifico ad edificare la nuova costruzione, dai rapporti di parentela o affinità tra terzo e proprietario, dalla presenza di quest'ultimo in loco e dallo svolgimento di attività di vigilanza nell'esecuzione dei lavori o dal regime patrimoniale dei coniugi (Sez. 3, n. 52040 del 11/11/2014, Langella e a.; Sez. 3, n. 25669 del 30/05/2012, Zeno e a.).
Pena la sostanziale applicazione del ripudiato principio della responsabilità formale per il mero possesso della qualità, si è successivamente chiarito che la prova della responsabilità del proprietario non committente delle opere abusive non può essere desunta esclusivamente dalla piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo e dall'interesse specifico ad edificare la nuova costruzione, ma necessita di ulteriori elementi, sintomatici della sua compartecipazione, anche morale, alla realizzazione del manufatto quali quelli più sopra indicati (Sez. 3, n. 38492 del 19/05/2016, Avanato).

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Reati edilizi - Comproprietario dell'immobile - Responsabilità - Inerzia di chi non rivesta una posizione di garanzia - Irrilevanza penale.
In tema di rati edilizi, l'inerzia di chi non rivesta una posizione di garanzia ai sensi dell'art. 29 d.P.R. 380 del 2001 non ha rilievo penale.
La vera natura di tale ultima disposizione, di fatti, non è quella di individuare i soggetti attivi di un presunto reato proprio che, salvo specifiche ipotesi, tale invece non è
(Cass, Sez. 3, Sentenza n. 45146 del 08/10/2015, Fiacchino e a.), bensì quella di estendere la responsabilità penale delle figure indicate nel caso di omesso, costante, controllo, anche sulla condotta altrui, circa la conformità delle opere in corso d'esecuzione ai parametri di legalità sostanziale contenuti nel titolo, negli strumenti urbanistici, nelle disposizioni di legge.
Tale forma di responsabilità non può dunque essere ascritta a soggetti diversi da quelli indicati nell'art. 29 d.P.R. 380/2001, e quindi non può riguardare il (com)proprietario dell'immobile sul quale si eseguono i lavori abusivi che resti del tutto inerte rispetto all'altrui condotta illecita
(Cass., Sez. 3, n. 33387 del 08/06/2018, Nigro e aa.).

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Costruzione abusiva - Responsabilità e limiti del proprietario dell'area estraneo all'attività edificatoria.
Il proprietario di un'area su cui viene realizzata una costruzione abusiva, il quale sia rimasto estraneo alla relativa attività edificatoria anche in veste di semplice committente dei lavori, non ha -perché non impostogli da alcuna norma di legge- l'obbligo giuridico di impedire o di denunciare l'attività illecita di costruzione abusiva da altri su detta area posta in essere (Sez. 3, 16/05/2000, Molinaro e a.).
Anzi, la previsione contenuta nell'art. 29 d.P.R. 380 del 2001, prevede che, «pur indicando alcuni soggetti (il titolare della concessione edilizia, il committente, il costruttore, il direttore dei lavori) che sono tenuti a garantire la conformità dell'opera alla concessione edilizia e pertanto sono da ritenere responsabili dell'eventuale costruzione in assenza di concessione, tra essi non include il proprietario del terreno.
Or se non v'è alcuna norma di legge che impone a carico del proprietario dell'area l'obbligo di impedire la costruzione abusiva, è da escludere che un tale soggetto possa rispondere del reato edilizio sol perché è rimasto inerte dinanzi all'illecito commesso da altri»
(Sez. 3, 04/04/1997, Celi; Sez. 3, 09/01/2003, Costa; Sez. 3, n. 47083 del 22/11/2007, Tartaglia; Sez. 3, n. 44202 del 10/10/2013, Menditto)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.11.2018 n. 50138 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: RIFIUTI - Terre e rocce da scavo - Inserimento nella categoria dei c.d. sottoprodotti - Condizioni - Onere della prova - Mancata prova - Reato di inottemperanza all'ordinanza emessa di ripristino - Artt. 134-bis, 135, 192, 255 D.L.vo n. 152/2006.
L'applicazione della disciplina sulle terre e rocce da scavo (art. 186, D.Lgs. 03.04.2006, n. 152), nella parte in cui sottopone i materiali da essa indicati al regime dei sotto-prodotti e non a quello dei rifiuti, è subordinata alla prova positiva, gravante su chi intende far valere la sussistenza delle condizioni previste per la sua operatività, in quanto trattasi di disciplina avente natura eccezionale e derogatoria rispetto a quella ordinaria (Sez. 3, n. 16078 del 10/03/2015, Fortunato).
Nella specie, non risultavano soddisfatte le condizioni che le terre e rocce da scavo richiedono per rientrare nella categoria dei c.d. sottoprodotti e conseguente integrazione del reato previsto dall'articolo 255, comma 3, del D.L.vo n. 152/2006 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.11.2018 n. 50134 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Differenza tra manutenzione edilizia ordinaria e manutenzione delle infrastrutture di rilevanza pubblica - Differenza tra gestione ordinaria e particolare di categorie di rifiuti - Attività di gestione di rifiuti non autorizzata - Artt. 181, 183, 184, 184-bis, 230, 256, 266, d.lgs. n. 152/2006.
Nell'ambito delle speciali categorie di rifiuti (di cui agli artt. 227 e ss. del n. 152/2006), l'art. 230 del dlgs n. 152 del 2006 disciplina quelli derivanti dalla manutenzione delle infrastrutture, non potendosi ritenere tali i rifiuti derivanti della svolgimento della ordinaria attività di manutenzione edilizia ma solo quelli derivante dalla manutenzione delle infrastrutture di rilevanza pubblica.
Sicché, la disciplina applicabile ai rifiuti derivanti della svolgimento della normale attività di manutenzione edilizia è quella ordinaria, (contenuta al titolo I - del capo I - disposizioni generali, ad es. artt. 181, 183, 184, 184-bis e del 256, comma 1, lettera a), del dlgs n. 152 del 2006), e non quella particolare contenuta negli articoli 227 e ss. né quella di cui all’art. 266, comma 4, del medesimo decreto.
Diversamente opinando, si giungerebbe all'inaccettabile conseguenza che il produttore di rifiuti potrebbe sia lasciarli sul luogo di produzione indefinitamente, in tal modo impedendo ai medesimi di acquisire la qualifica normativamente significativa di rifiuti, sia, addirittura, trasferirli, senza che gli stessi acquistino la qualifica di rifiuti, dal luogo di loro produzione verso un luogo diverso dalla sua sede o domicilio.

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RIFIUTI - Nozione di "luogo di produzione del rifiuto" - Criteri e condizioni - Onere della prova - Giurisprudenza.
In tema di rifiuti, per luogo di produzione del rifiuto va inteso non solo quello ove lo stesso è stato materialmente prodotto ma anche quello nella disponibilità del produttore che sia funzionalmente collegato al precedente (Corte di cassazione, Sezione VII penale, 27.04.2016, n. 17333; idem Sezione III penale, 20.02.2013, n. 8061), incombendo sulla parte privata l'onere di dimostrare l'esistenza di siffatto collegamento (Corte di cassazione, Sezione III penale, 26.08.2016, n. 35494), va ricordato che fra le condizioni necessarie per la individuazione del deposito temporaneo vi è il divieto incondizionato di permanenza dei rifiuti nel sito di deposito per un periodo superiore all'anno ovvero, nel caso in cui gli stessi superino il volume dei 30 mc. al trimestre (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.11.2018 n. 50129 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA: FAUNA E FLORA – Ambiente – Conservazione degli habitat naturali - Conservazione della flora e della fauna selvatiche – DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Progetto di costruzione stradale – Il committente deve fornire informazioni relative all’impatto ambientale - VIA VAS AIA – Valutazione dell’impatto di determinati progetti - Opportuna valutazione dell’impatto ambientale – Portata dell’obbligo di motivazione – Perizia scientifica e informazioni supplementari - Direttiva 2011/92/UE – Portata della nozione di "principali alternative" - Direttiva 92/43/CEE.
L’articolo 6, paragrafo 3, della direttiva 92/43/CEE del Consiglio, del 21.05.1992, relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche, deve essere interpretato nel senso che un’«opportuna valutazione» deve, da un lato, censire la totalità dei tipi di habitat e delle specie per i quali un sito è protetto, nonché, dall’altro, individuare ed esaminare tanto l’impatto del progetto proposto sulle specie presenti su detto sito, e per le quali quest’ultimo non è stato registrato, quanto quello sui tipi di habitat e le specie situati al di fuori dei confini del suddetto sito, laddove tale impatto possa pregiudicare gli obiettivi di conservazione del sito.
Pertanto, l’articolo 6, paragrafo 3, della direttiva 92/43 deve essere interpretato nel senso che esso consente all’autorità competente di autorizzare un piano o un progetto che lascia il committente libero di determinare successivamente taluni parametri relativi alla fase di costruzione, quali l’ubicazione dei cantieri e le vie di trasporto, solo se è certo che l’autorizzazione stabilisce condizioni sufficientemente rigorose che garantiscano che tali parametri non pregiudicheranno l’integrità del sito.
Sempre, l’articolo 6, paragrafo 3, della direttiva 92/43 deve essere interpretato nel senso che, quando l’autorità competente respinge le conclusioni di una perizia scientifica che raccomanda l’acquisizione di informazioni supplementari, l’«opportuna valutazione» deve contenere una motivazione esplicita e dettagliata, atta a dissipare ogni ragionevole dubbio scientifico in ordine agli effetti dei lavori previsti sul sito interessato.
Mentre, l’articolo 5, paragrafi 1 e 3, nonché l’allegato IV della direttiva 2011/92/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13.12.2011, concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati devono essere interpretati nel senso che impongono al committente di fornire informazioni che esaminino esplicitamente l’impatto significativo del suo progetto su tutte le specie individuate nella dichiarazione fornita in applicazione di tali disposizioni.
Infine, l’articolo 5, paragrafo 3, lettera d), della direttiva 2011/92 deve essere interpretato nel senso che il committente deve fornire informazioni relative all’impatto ambientale tanto della soluzione prescelta quanto di ciascuna delle principali alternative da lui prese in esame, nonché le ragioni della sua scelta, sotto il profilo, perlomeno, del loro impatto sull’ambiente, anche in caso di rigetto, in una fase iniziale, di tale alternativa
(Corte di Giustizia UE, Sez. II, sentenza 07.11.2018 n. C-461/17 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: RIFIUTI - Deposito temporaneo - Caratteristiche e condizioni di qualità di tempo e di quantità - Rispetto dei principi di precauzione e di azione preventiva - Limiti al collegamento funzionale con il luogo di produzione del rifiuto e la contiguità delle aree - Artt. 183, 256, d.lgs. n. 152/2006.
In materia di rifiuti, il deposito temporaneo deve rispettare le condizioni fissate dall'art. 183, lett. m), del D.Lgs. n. 152 del 2006 ed è comunque soggetto al rispetto dei principi di precauzione e di azione preventiva in quanto, ai sensi delle direttive comunitarie in materia e della normativa nazionale attuativa delle medesime, contenuta nel d.lgs. n. 152 del 2006, il deposito temporaneo deve osservare precise condizioni di qualità, di tempo, di quantità, di organizzazione tipologica e di rispetto delle norme tecniche. Pertanto non rileva il nesso di collegamento funzionale con il luogo di produzione del rifiuto e la contiguità delle aree ove essi vengono raggruppati quando non sono rispettati i principi di precauzione e di azione preventiva nonché le condizioni richieste dall'art. 183, lett. bb), del d.lgs. n. 152 del 2006 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 30.10.2018 n. 49674 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: Impugnazione immediata del bando.
Né il codice dei contratti pubblici del 2006 né quello del 2016 consentono di rinvenire elementi per pervenire all’affermazione che debba imporsi all’offerente di impugnare immediatamente la clausola del bando che prevede il criterio di aggiudicazione, ove la ritenga errata.
Versandosi nello stato iniziale della procedura, l'onere di immediata impugnativa imporrebbe all’offerente di denunciare la clausola del bando sulla scorta della preconizzazione di una futura e ipotetica lesione, per tutelare un interesse (strumentale alla riedizione della gara), subordinato rispetto all’interesse primario (quello a rendersi aggiudicatario) del quale non sarebbe certa la non realizzabilità
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 24.10.2018 n. 6040 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
1. Il primo motivo di appello, che contesta la dichiarazione di inammissibilità del ricorso di primo grado, è fondata.
Infatti, come da Cons. Stato, Ad. plen., 26.04.2018, n. 4, che conferma l’orientamento tradizionale,
le clausole del bando di gara prive di portata escludente vanno impugnate unitamente al provvedimento lesivo e possono essere impugnate unicamente dall’operatore economico che abbia partecipato alla gara o manifestato formalmente il proprio interesse alla procedura.
La giurisprudenza ha spesso puntualizzato che rientrano nel genus delle “clausole immediatamente escludenti” le fattispecie di:
   a) clausole impositive, ai fini della partecipazione, di oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della procedura concorsuale
(Cons. Stato, IV, 07.11.2012, n. 5671);
  
b) regole che rendano la partecipazione incongruamente difficoltosa o addirittura impossibile (Cons. Stato, Ad. plen., n. 3 del 2001);
  
c) disposizioni abnormi o irragionevoli che rendano impossibile il calcolo di convenienza tecnica ed economica ai fini della partecipazione alla gara; ovvero prevedano abbreviazioni irragionevoli dei termini per la presentazione dell'offerta (Cons. Stato, V, 24.02.2003, n. 980);
  
d) condizioni negoziali che rendano il rapporto contrattuale eccessivamente oneroso e obiettivamente non conveniente (Cons. Stato, V, 21.11.2011, n. 6135; id., III, 23.01.2015, n. 293);
  
e) clausole impositive di obblighi contra ius (es. cauzione definitiva pari all'intero importo dell'appalto: Cons. Stato, II, 19.02.2003, n. 2222);
  
f) bandi con gravi carenze nell'indicazione di dati essenziali per la formulazione dell'offerta (come ad esempio quelli relativi al numero, qualifiche, mansioni, livelli retributivi e anzianità del personale destinato ad essere assorbiti dall'aggiudicatario), ovvero che presentino formule matematiche del tutto errate (come quelle per cui tutte le offerte conseguono comunque il punteggio di "0" punti);
  
g) atti di gara del tutto mancanti della prescritta indicazione nel bando di gara dei costi della sicurezza "non soggetti a ribasso" (Cons. Stato, III, 03.10.2011, n. 5421).
Le rimanenti clausole, non immediatamente lesive, vanno impugnate con l'atto di approvazione della graduatoria definitiva, che definisce la procedura concorsuale ed identifica in concreto il soggetto leso dal provvedimento, rendendo attuale e concreta la lesione della situazione soggettiva (Cons. Stato, V, 27.10.2014, n. 5282) e postulano la preventiva partecipazione alla gara.
Pertanto,
né il Codice dei contratti pubblici del 2006 né il quello del 2016 consentono di rinvenire elementi per pervenire all’affermazione che debba imporsi all’offerente di impugnare immediatamente la clausola del bando che prevede il criterio di aggiudicazione, ove la ritenga errata: versandosi nello stato iniziale della procedura, non vi sarebbe infatti base per assumere l’impugnante non sarebbe divenuto aggiudicatario. Sicché si imporrebbe all’offerente di denunciare la clausola del bando sulla scorta della preconizzazione di una futura ed ipotetica lesione, per tutelare un interesse (strumentale alla riedizione della gara), subordinato rispetto all’interesse primario (quello a rendersi aggiudicatario), del quale non sarebbe certa la non realizzabilità.
Imporre l’immediata impugnazione di qualsiasi clausola del bando, in questo contesto, rischierebbe di produrre le seguenti conseguenze:
   a)
tutte le offerenti che ritengano di potere prospettare critiche avverso prescrizioni del bando pur non rivestenti portata escludente sarebbero incentivate a proporre immediatamente l’impugnazione (nella certezza che non potrebbero proporla successivamente);
   b)
al contempo, in vista del perseguimento del loro obiettivo primario (quello dell’aggiudicazione) esse sarebbero tentate di dilatare in ogni modo la tempistica processuale (in primis omettendo di proporre la domanda cautelare), così consentendo alla stazione appaltante di proseguire nell’espletamento della gara, in quanto, laddove si rendessero aggiudicatarie prima che il ricorso proposto avverso il bando pervenga alla definitiva decisione, esse potrebbero rinunciare al detto ricorso proposto avverso il bando, avendo conseguito l’obiettivo primario dell’aggiudicazione;
   c)
soltanto se non si rendessero aggiudicatarie, a quel punto, coltiverebbero l’interesse strumentale alla riedizione della procedura di gara incentrato sul ricorso già proposto avverso il bando.

LAVORI PUBBLICI: Appalto di opere pubbliche - Esecuzione dei lavori - Mancata acquisizione delle autorizzazioni amministrative o rinnovazione delle autorizzazioni - Compito del committente salvo specifiche pattuizioni contrarie - Art. 1206 cod. civ. - Sospensioni disposte nel corso dei lavori di costruzione - Risarcimento dei danni all'appaltatore - Giurisprudenza.
In tema di appalto di opere pubbliche, le ragioni di pubblico interesse o necessità che possono giustificare la sospensione dei lavori vanno essenzialmente identificate in esigenze pubbliche oggettive e sopravvenute, non previste né prevedibili da parte dell'Amministrazione con l'uso dell'ordinaria diligenza, e non possono quindi essere invocate al fine di porre rimedio a negligenza o imprevidenza della committente (Cass., Sez. VI, 25/10/2012, n. 18239; Cass., Sez. I, 22/07/2004, n. 13643; 11/04/2002, n. 5135).
Sicché, l'acquisizione delle autorizzazioni amministrative necessarie per l'esecuzione dei lavori spetta al committente, che, in qualità di titolare dell'opera da realizzare, è tenuto a procurarsele, in osservanza del dovere, discendente dall'art. 1206 cod. civ. e più in generale dai principi di correttezza e buona fede oggettiva, di cooperare all'adempimento dell'appaltatore, ponendo in essere tutte quelle attività, distinte dal comportamento dovuto da quest'ultimo, necessarie affinché egli possa realizzare il risultato cui è preordinato il rapporto obbligatorio (cfr. Cass., Sez. I, 05/06/2014, n. 12698; 29/04/2006, n. 10052; Cass., Sez. II, 22/11/2013, n. 26260).
Nella specie, in assenza di specifiche pattuizioni, la cui stipulazione non è stata nemmeno prospettata, volte a trasferire il predetto obbligo a carico dell'appaltatore, il committente deve altresì provvedere, se necessario, alla rinnovazione di tali autorizzazioni, la cui scadenza, che impedisca la prosecuzione dei lavori, non costituisce affatto un evento imprevisto ed imprevedibile, configurandosi piuttosto come inadempimento della stazione appaltante, tenuta ad attivarsi tempestivamente, con la conseguente impossibilità di porvi rimedio attraverso la sospensione, a meno che le parti non raggiungano un accordo in tal senso. Fattispecie: illegittimità delle sospensioni disposte nel corso dei lavori di costruzione della rete fognaria nera e delle stazioni di sollevamento degli impianti
(Corte di Cassazione, Sez. I civile, ordinanza 12.10.2018 n. 25554 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: La cd. cessione di cubatura presuppone il perfezionamento di un accordo con il quale una parte (il proprietario cedente) si impegna a prestare il proprio consenso affinché la cubatura (o una parte di essa) che gli compete in base agli strumenti urbanistici venga attribuita dalla P.A. al proprietario del fondo vicino (cessionario), compreso nella stessa zona urbanistica, cosi consentendogli di chiedere ed ottenere una concessione per la costruzione di un immobile di volume maggiore di quello cui avrebbe avuto altrimenti diritto.
Il trasferimento di cubatura tra le parti e nei confronti dei terzi consegue, tuttavia, esclusivamente al provvedimento concessorio, discrezionale e non vincolato, che, a seguito della rinuncia all'utilizzazione della volumetria manifestata al Comune dal cedente, aderendo al progetto edilizio presentato dal cessionario, può essere emanato dall'ente pubblico a favore del cessionario.
Tale accordo, quindi, ha un'efficacia meramente obbligatoria tra i suoi sottoscrittori e non è, quindi configurabile come un contratto traslativo (e, tanto meno, costitutivo) di un diritto reale opponibile ai terzi.
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7. Con il quarto motivo, i ricorrenti, lamentando la violazione degli artt. 277 c.p.c., 118 disp. att. c.p.c., 17 della l. n. 765 del 1967, 1027, 1062, 1063, 1064, 1072, 1073, 1074 e 1075 c.c., per l'erronea applicazione di norme di legge, carenza e contraddittorietà della motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dai ricorrenti, in relazione all'art. 360 n. 3 e n. 5 c.p.c., hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d'appello ha rigettato la domanda con la quale era stato chiesto che si dichiarasse che la parte convenuta non ha il diritto di edificare sul proprio terreno in quanto asservito da An.Co. all'unità immobiliare dei ricorrenti, come risulta tanto dall'atto del 28/07/1977, con il quale il lotto è stato venduto dalla Co. in favore del Biondi, che poi lo ha venduto ai ricorrenti, tanto dall'atto dell'01/02/1995, con il quale il fondo limitrofo è stato venduto dalla stessa Co. ai coniugi Fo./Mi..
L'asservimento operato dalla Co., originaria proprietaria di tutti i terreni, hanno aggiunto i ricorrenti, si configura, in realtà, come l'istituzione, per destinazione del padre di famiglia, di una servitù di non edificabilità dei terreni, tra cui quello venduto ai coniugi Fonti/Milana, con la conseguente impossibilità assoluta, per detti terreni, di essere edificati, essendo la loro volumetria e cubatura già stata utilizzata in favore del fondo dei ricorrenti.
8. Il motivo è infondato.
Questa Corte ha avuto già modo di affermare che la cd. cessione di cubatura presuppone il perfezionamento di un accordo con il quale una parte (il proprietario cedente) si impegna a prestare il proprio consenso affinché la cubatura (o una parte di essa) che gli compete in base agli strumenti urbanistici venga attribuita dalla P.A. al proprietario del fondo vicino (cessionario), compreso nella stessa zona urbanistica, cosi consentendogli di chiedere ed ottenere una concessione per la costruzione di un immobile di volume maggiore di quello cui avrebbe avuto altrimenti diritto (Cass. n. 20623 del 2009; Cass. n. 12631 del 2016, in motiv.).
Il trasferimento di cubatura tra le parti e nei confronti dei terzi consegue, tuttavia, esclusivamente al provvedimento concessorio, discrezionale e non vincolato, che, a seguito della rinuncia all'utilizzazione della volumetria manifestata al Comune dal cedente, aderendo al progetto edilizio presentato dal cessionario, può essere emanato dall'ente pubblico a favore del cessionario (Cass. n. 1352 del 1996, in motiv.; Cass. n. 20623 del 2009 in motiv.).
Tale accordo, quindi, ha un'efficacia meramente obbligatoria tra i suoi sottoscrittori e non è, quindi configurabile come un contratto traslativo (e, tanto meno, costitutivo) di un diritto reale opponibile ai terzi (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 10.10.2018 n. 24948).

EDILIZIA PRIVATA: Misure di salvaguardia, determinazione degli standard e quantificazione del contributo di costruzione.
Le misure di salvaguardia sono unicamente finalizzate ad evitare l’immediata realizzazione di interventi che ledano le scelte programmatorie del Comune, quali risultanti dall’adozione del nuovo piano, ma non si traducono in una applicazione anticipata delle previsioni contenute in quest’ultimo.
In particolare, ove l’intervento risulti in sé legittimo e, come tale, si sottragga alla preclusione temporanea di cui all’articolo 12, comma 3, del D.P.R. 380/2001, non può neppure configurarsi la ratio sottesa alle misure di salvaguardia, al solo fine di dare attuazione anticipata alle diverse regole in tema di determinazione degli standard e quantificazione del contributo di costruzione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 31.08.2018 n. 2039 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
A non diversa conclusione può condurre la ritenuta applicazione delle nuove disposizioni del P.G.T. operante in regime di salvaguardia.
Infatti, occorre considerare che “
la normativa relativa alle misure di salvaguardia ha lo scopo di evitare la realizzazione di interventi che nelle more dell'approvazione degli strumenti urbanistici adottati possono compromettere l'assetto del territorio programmato dal Comune, vanificandone la sua concreta attuazione e […], proprio per ovviare a tali inconvenienti, la legge ha stabilito che a decorrere dalla data della deliberazione di adozione dei piani regolatori generali e fino all'emanazione del decreto di approvazione il dirigente dell'ufficio comunale sia obbligato a sospendere ogni determinazione in ordine ai progetti che risultino in contrasto con le relative previsioni” (Consiglio di Stato, sez. IV, 20.01.2014, n. 257).
Le misure di salvaguardia sono, quindi, unicamente finalizzate ad evitare l’immediata realizzazione di interventi che ledano le scelte programmatorie del Comune –quali risultanti dall’adozione del nuovo piano–, ma non si traducono in una applicazione anticipata delle previsioni contenute in quest’ultimo. In particolare, ove l’intervento risulti in sé legittimo e, come tale, si sottragga alla preclusione temporanea di cui all’articolo 12, comma 3, del D.P.R. 380/2001, non può neppure configurarsi la ratio sottesa alle misure di salvaguardia, al solo fine di dare attuazione anticipata alle diverse regole in tema di determinazione degli standard e quantificazione del contributo di costruzione.
Né convince il richiamo effettuato in memoria di replica dal Comune di Milano alla sentenza del Consiglio di Stato, Sez. IV, 20.04.2016, n. 1558. Difatti, l’affermazione del Giudice d’Appello (secondo cui “La tesi principale di parte appellante (secondo cui le misure di salvaguardia non si estendevano alle disposizioni “procedimentali” contenute nel regolamento urbanistico) è palesemente destituita di fondamento: allorché il pianificatore compie una scelta, stabilendo quale titolo abilitativo debba trovare applicazione in relazione alla singola tipologia di opera erigenda nella singola area, all’evidenza compie una valutazione urbanistica, né più e né meno di quelle dirette ad imprimere una certa destinazione ad un’area del territorio comunale”) non è, invero, sovrapponibile al caso in esame.
Infatti, nel caso esaminato dal Consiglio di Stato, si tratta di dare applicazione ad una previsione che determina il titolo abilitativo necessario. Situazione ben diversa dal caso di specie ove, al contrario, vengono applicate, a titolo di misure di salvaguardia, le previsioni sulle determinazioni degli standard e del contributo di costruzione di interventi abilitati da un titolo legittimamente formatosi nella vigenza del precedente strumento urbanistico, sicché di questo il titolo edilizio segue integralmente il regime.
2.5. In ragione delle considerazioni espresse, il primo motivo deve essere accolto con annullamento in parte qua degli atti impugnati e conseguente obbligo del Comune di rideterminare le somme dovute in considerazione della normativa vigente all’epoca di formazione del relativo titolo edilizio. Il calcolo degli standard relativi al nuovo permesso di costruire deve quindi essere condotto solo sulla s.l.p. di 123,74 mq che, come dedotto in via di subordine dal Comune, tiene conto delle riduzioni in precedenza operate, considerato che il permesso di costruire viene rilasciato per un ampliamento di 204,17 mq.

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI - URBANISTICA: VIA VAS AIA – Ambiente progetti pubblici e privati – Omissione della valutazione di impatto ambientale di un progetto - Possibilità di procedere, a posteriori, alla valutazione a titolo di regolarizzazione - DIRITTO DELL'ENERGIA - Impianto per la produzione di energia da biogas già in funzione al fine di ottenere una nuova autorizzazione - DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Impatto ambientale intervenuto a partire dalla realizzazione dell'opera – Direttiva 85/337/CEE – Direttiva 2011/92/UE.
In caso di omissione di una valutazione di impatto ambientale di un progetto prescritta dalla direttiva 85/337/CEE del Consiglio, del 27.06.1985, concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati, come modificata dalla direttiva 2009/31/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23.04.2009, il diritto dell’Unione, da un lato, impone agli Stati membri di rimuovere le conseguenze illecite di tale omissione e, dall’altro, non osta a che una valutazione di tale impatto sia effettuata a titolo di regolarizzazione, dopo la costruzione e la messa in servizio dell’impianto interessato, purché le norme nazionali che consentono tale regolarizzazione non offrano agli interessati l’occasione di eludere le norme di diritto dell’Unione o di disapplicarle e la valutazione effettuata a titolo di regolarizzazione non si limiti alle ripercussioni future di tale impianto sull’ambiente, ma prenda in considerazione altresì l’impatto ambientale intervenuto a partire dalla sua realizzazione (Corte di Giustizia UE, Sez. I, sentenza 26.07.2018 cause riunite C-196/16 e C-197/16 - link a www.ambientediritto.it).

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