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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di OTTOBRE 2018

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aggiornamento al 30.10.2018

aggiornamento all'08.10.2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 30.10.2018

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La legge urbanistica lombarda, oramai, è un "colabrodo": l'ennesimo rinvio alla Consulta!!

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Ancora alla Corte costituzionale la legge della Regione Lombardia sulle aree che accolgono attrezzature religiose.
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Religione – Edifici di culto – Lombardia – Edifici di culto – Art. 72, l.reg. n. 12 del 2005 – Discrezionalità del Comune – Violazione artt. 2, 3, 5, 19, 114, 117, commi 2, lett. m), e 6, terzo periodo, e 118 Cost. – Rilevanza e non manifesta infondatezza.
E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 72, comma 5, della l.r. della Lombardia 11.03.2005, n. 12, nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’art. 1, comma 1, lett. c), l.reg. Lombardia 03.02.2015, n. 2, per contrasto con gli artt. 2, 3, 5, 19, 114, 117, commi 2, lett. m), e 6, terzo periodo, e 118 Cost. nella parte in cui, avuto riguardo alla tutela costituzionale riservata alla libertà religiosa, non detta alcun limite alla discrezionalità del Comune nel decidere quando (comma 5) e in che senso (commi 1 e 2) determinarsi a fronte della richiesta di individuazione di edifici o aree da destinare al culto (1).
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   (1) Ha ricordato il Tar di aver già rimesso la questione di legittimità costituzionale limitatamente a commi 1 e 2 dell’art. 72, l.reg. n. 12 del 2005 con sentenza della sez. II 03.08.2018, n. 1939.
Ritiene infatti il Tar che la domanda di spazi da dedicare all’esercizio di tale libertà debba trovare una risposta -in un senso positivo o in senso negativo- in tempi certi, ed entro un termine ragionevole, avuto riguardo sia ai tempi connessi alla valutazione di impatto sul tessuto urbanistico, a volte indiscutibilmente complessa, sia avuto riguardo alla particolare importanza del bene della vita al quale aspirano i fedeli interessati.
Al riguardo, il Tar ha richiamato la sentenza della Corte cost. 24.03.2016, n. 63, secondo cui “Non è, invece, consentito al legislatore regionale, all’interno di una legge sul governo del territorio, introdurre disposizioni che ostacolino o compromettano la libertà di religione.”. La richiamata condizione di attesa a tempo indeterminato e di incertezza rileva quale ostacolo all’esplicazione del diritto di libertà religiosa.
Ne consegue una non giustificata compressione dei diritti di cui all’art. 19 Cost., e più in generale un ostacolo non giustificato all’esplicazione dei diritti inviolabili della persona, sia come singolo sia nelle formazioni sociali, in violazione dell’art. 2 Cost..
Il fatto che tale compressione della posizione soggettiva degli interessati non appaia giustificata pare altresì contrastare con il criterio della ragionevolezza del quale è espressione l’art. 3 Cost..
In sintesi la norma contrasta con i principi costituzionali richiamati, laddove prevede un termine –di 18 mesi– per l’adozione del piano delle attrezzature religiose, decorso il quale non viene previsto alcun intervento sostitutivo, ma viene demandato all’Amministrazione Comunale la facoltà di introdurre il piano in sede di revisione o adozione del PGT, senza alcun ulteriore termine.
In tal modo viene vanificato il diritto alla libertà religiosa, sotto il profilo del diritto di trovare spazi da dedicare all’esercizio di tale libertà.
La norma pare violare altresì l’art. 97 Cost. e dell’art. 117, comma 2, lett. m), il fatto che l’art. 72, comma 5, l.reg. Lombardia n. 12 del 2005 rinvii a tempo indeterminato la risposta a un’esigenza riguardante l’esercizio di un diritto fondamentale della persona.
La mancata previsione, da parte della norma regionale, di tempi certi di risposta alle istanze dei fedeli interessati sembra infatti in contrasto con il principio di buon andamento che deve presiedere l’attività della Pubblica Amministrazione.
A bene vedere, la mancata di previsione di tempi certi da parte dell’art. 72, comma 5, l.reg. Lombardia n. 12 del 2005 pare inoltre esprimere uno sfavore dell’Amministrazione nei confronti del fenomeno religioso, il che contrasta con il principio di imparzialità dell’azione amministrativa di cui al menzionato art. 97 Cost..
Sotto connesso profilo, nella prospettiva dell’art. 117, comma 2, lett. m), Cost. appare violato il livello minimo delle prestazioni concernenti i diritti civili, che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.
Al riguardo, osserva il Tar che, ai sensi dell’art. 29, l. n. 241 del 1990 attiene ai livelli essenziali delle prestazioni di cui all’art. 117, comma 2, lett. m), Cost. l’aspetto riguardante la predeterminazione della durata massima dei procedimenti.
Ovviamente, va da sé che una norma che si esprima in termini di sfavore verso il fenomeno religioso contrasta anche con gli artt. 2. 3 e 19 Cost., ai quali si è già fatto riferimento.
In sintesi il quadro normativo che, una volta decorso il primo termine di 18 mesi dall’entrata in vigore della l. reg. Lombardia n. 12 del 2005, non ha previsto ulteriori termini per imporre l’adozione del piano della attrezzature religiose, si pone in contrasto con la disciplina in materia di procedimento amministrativo e di certezza dei termini di conclusione del procedimento, quindi con i principi costituzionali dell’art. 97 Cost. e dell’art. 117, comma 2, lett. m) Cost.
Sotto un ulteriore profilo, ritiene il Tar che l’art. 72, comma 5, l.reg. Lombardia n. 12 del 2005 contrasti con l’art. 5 Cost., con l’art. 114, comma 2, Cost., con l’art. 117, comma 6, terzo periodo, Cost., con l’art. 118, comma 1, Cost..
Ad avviso del Tar la norma regionale condiziona l’adozione del Piano delle attrezzature religiose alla revisione complessiva del piano di governo del territorio.
Infatti, solo nei primi diciotto mesi dall’entrata in vigore della norma le Amministrazioni potevano predisporre il Piano delle attrezzature religiose senza mettere mano all’intera disciplina del governo del territorio.
Da che è maturata la scadenza dei diciotto mesi, la legge regionale non lo permette più.
In altri termini, l’art. 72, comma 5, l.reg. Lombardia n. 12 del 2005 impedisce ai Comuni di dotarsi di un Piano delle attrezzature religiose senza contestualmente revisionare l’intera disciplina del governo del territorio.
Ad avviso del Tar viene in rilievo una ingiustificata compressione delle prerogative del Comuni da parte della Regione. Infatti, non si comprende quale ragione possa giustificare il sostanziale divieto gravante sui Comuni lombardi di adottare il Piano delle attrezzature religiose in un momento distinto rispetto alla revisione generale del Piano di governo del territorio. Da un primo punto di vista, la norma sembra integrare una violazione dell’art. 5 Cost., atteso che essa frustra l’autonomia dei Comuni, quali autonomie locali. Sotto connesso profilo, appaiono violati l’art. 114, comma 2, Cost. e l’art. 117, comma 6, terzo periodo, Cost..
In particolare, nella prospettiva dell’art. 114, comma 2, Cost. appare violato sotto un profilo generale l’autonomia riservata ai Comuni in relazione all’esercizio dei poteri e delle funzioni di loro competenza.
Nella più particolare prospettiva dell’art. 117, comma 6, terzo periodo Cost. appare violata l’autonomia degli Enti Locali sotto il profilo della potestà regolamentare in ordine alle funzioni attribuite ai Comuni.
Come anticipato, la limitazione imposta dalla Regione all’autonomia dei Comuni non appare giustificata.
Da questo punto di vista sembra venire in rilievo la violazione del principio di sussidiarietà verticale di cui all’art. 118, comma 1, Cost..
In sintesi la disposizione regionale, laddove fa divieto ai Comuni di adottare il piano delle attrezzature religiose dopo il termine dei 18 mesi, ma necessariamente solo contestualmente alla revisione del PGT, viola il principio di autonomia riservata ai Comuni in relazione all’esercizio dei poteri e delle funzioni di loro competenza (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.10.2018 n. 2227 -commento tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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FATTO
L’Associazione Co.Is. (da ora anche solo Associazione), è un’associazione costituita nel 2004 e raccoglie circa trecento persone di religione islamica, residenti prevalentemente a Sesto Calende e nei comuni limitrofi.
Già nel luglio 2011, nel corso della formazione del PGT, l’Associazione ha chiesto al Comune di prevedere nel proprio strumento urbanistico un’area per il culto islamico.
Il provvedimento di rigetto è stato impugnato con ricorso (r.g. n. 364/2012), accolto con sentenza n. 2485 del 08.11.2013.
Tuttavia, a fronte dell’inerzia del Comune, L’Associazione si vedeva costretta a notificare ricorso per ottemperanza, accolto con sentenza n. 146 del 15.01.2015.
L’Amministrazione avviava quindi un procedimento in ottemperanza alla sentenza del Tar; tuttavia, con nota del 22.02.2015, l’Amministrazione comunicava di aver sospeso il procedimento, a seguito della L.R. n. 2 del 03.02.2015.
L’Associazione notificava un nuovo giudizio di ottemperanza, sull’assunto che la nuova legge regionale non potesse costituire ostacolo all’esecuzione delle precedenti statuizioni giurisdizionali. Il ricorso di ottemperanza veniva accolto con sentenza n. 943/2015: il Tar riteneva infatti che la L.R. 2/2015, ancorché sopravvenuta, dovesse trovare applicazione e incidesse sul dovere di esecuzione del Comune.
Al fine di non fare decorrere il termine di 18 mesi per l’approvazione dei piani comunali delle attrezzature religiose, l’Associazione notificava in data 26.07.2016 un atto di diffida.
L’Amministrazione avviava il procedimento al fine della valutazione delle osservazioni pervenute e dopo la comunicazione ex art 10-bis, notificava il rigetto della domanda, rilevando l’assenza dei requisiti di ente di confessione religiosa, come richiesti dalla L. 1159/1929.
Il diniego veniva impugnato con il presente ricorso, notificato in data 20.12.2016 e depositato il 22.12.2016, per i seguenti motivi:
   1) illegittimità del provvedimento 25.10.2016 n. 24471 per eccesso di potere e violazione di legge, in relazione all’art. 70, c. 2-ter, L.R. 12/2005; violazione della L. 1159/1929; in subordine illegittimità derivata per violazione degli art. 2 e 19 Cost.: secondo l’Amministrazione l’Associazione non avrebbe i poteri di rappresentanza propri degli enti delle altre confessioni religiose e non costituirebbe ente di confessione religiosa. Sostiene la ricorrente che la L. 1159/1929 non è applicabile al caso in esame, né può rappresentare una condizione per limitare l’esercizio del diritto di culto, dal momento che la libertà religiosa è un diritto costituzionale. Seguendo l’interpretazione dell’Amministrazione la L.R. risulterebbe in contrasto con gli artt. 2, 8 e 19 Cost., perché si escluderebbe qualsiasi insediamento di edifici di culto islamico nel territorio regionale;
   2) illegittimità del provvedimento 25.10.2016 n. 24471 in relazione ai vincolo da osservare nell’esecuzione delle sentenze del Tar Lombardia sez. II n. 2485/2013 e n. 146/2015, difetto di motivazione: l’Amministrazione sostiene che l’Associazione ricorrente non sarebbe “ente di confessione religiosa”. Già nelle pregresse sentenze l’Associazione è stata ritenuta come rappresentativa di una comunità di residenti dotata di legittimazione al ricorso;
   3) illegittimità del provvedimento 25.10.2016 n. 24471 per violazione degli artt. 3 e 8 Cost. e dell’art 70 L.R. 12/2005: il provvedimento richiede la necessità della sottoscrizione di una convenzione con il Comune. L’Associazione è sempre stata disponibile a detta sottoscrizione; in ogni caso si tratta di una condizione in contrasto con i principi costituzionali perché viene introdotta una discriminazione fondata sulla confessione religiosa;
   4) illegittimità del provvedimento 25.10.2016 n. 24471 per violazione dell’art 10 L. 241/1990: nel provvedimento una ragione di rigetto è indicata nella circostanza che l’associazione non costituirebbe ente di confessione religiosa, motivo non rappresentato nel preavviso di rigetto.
Si è costituito in giudizio il Comune di Sesto Calende, chiedendo il rigetto del ricorso.
Con ordinanza cautelare n. 117 del 20.01.2017 gli effetti del diniego sono stati sospesi, disponendo il riesame, rilevando profili di fondatezza del ricorso, in quanto “la mancanza del riconoscimento ai sensi della legge n. 1159 del 1929 non appare legittimamente invocabile quale causa di esclusione dalla possibilità di ottenere, da parte di una confessione religiosa, l’assegnazione di aree da destinare all’esercizio del culto, considerato che tale possibilità deve essere garantita a tutte le confessioni, e non soltanto a quelle riconosciute (cfr. Corte cost. n. 63 del 2016, n. 193 del 1995 e n. 59 del 1958);
   - appare pure censurabile l’affermazione secondo la quale l’Associazione ricorrente, al di là della mancanza di riconoscimento ai sensi della legge n. 1159 del 1929, non costituirebbe “ente di confessione religiosa”, in quanto, a fronte della finalità religiosa dell’organizzazione e della dichiarata volontà di disporre di un luogo per l’esercizio del culto, non sembra consentito al Comune richiedere né il possesso di specifici requisiti da parte del soggetto istante (attesa la declaratoria di illegittimità costituzionale che ha colpito la parte del comma 2-bis dell’articolo 70 della legge regionale n. 12 del 2005, ove tali requisiti erano stabiliti), né la prova che tale soggetto costituisca articolazione di una confessione organizzata o benefici di un riconoscimento formale della rappresentatività di un certo credo religioso, poiché la libertà di culto è garantita anche a “confessioni religiose strutturate come semplici comunità di fedeli che non abbiano organizzazioni regolate da speciali statuti” (Corte cost. n. 193 del 1995);
   - conseguentemente, in una lettura costituzionalmente orientata della disciplina regionale, la qualificazione del soggetto richiedente, da parte del Comune, come “ente di confessione religiosa” non sembra potersi basare che sull’idoneità in concreto di tale soggetto a rappresentare un’esigenza di culto riscontrabile a livello locale;
   - in tale prospettiva, la valutazione che il Comune è chiamato a compiere, ai fini all’individuazione di luoghi da destinare all’esercizio del culto, dovrà perciò risultare attinente, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale, “all’entità della presenza sul territorio dell’una o dell’altra confessione, alla rispettiva consistenza e incidenza sociale e alle esigenze di culto riscontrate nella popolazione” (Corte cost. n. 63 del 2016); dati, questi, da ponderare in considerazione delle utilità limitate (nel caso di specie: utilizzazione del territorio ed eventuale consumo di suolo) oggetto di assegnazione (cfr. ancora la sentenza da ultimo richiamata);
”.
Il Comune ha quindi adottato la delibera consiliare del 20.09.2017 n. 39, sempre respingendo la domanda, per una pluralità di motivi. In particolare sostiene il Comune che:
   - l’Associazione non avrebbe i requisiti richiesti dalla legge, perché la disciplina sui luoghi di culto non va applicata in funzione della percentuale rispetto alla popolazione totale, ma quando si riscontra la presenza di un gruppo di fedeli e l’esigenza per essi di disporre di un culto;
   - le aree non sono dotate di parcheggi e in ogni caso non ci sono immobili comunali idonei a questo scopo;
   - l’Associazione si è trasferita come sede in altro comune.
Con motivi aggiunti depositati in data 22.11.2017 è stata impugnata la delibera n. 39/2017, per i seguenti motivi:
   1) Violazione dell’art 19 Cost. e dell’art 70, comma 2-bis, L.R. 12/2005; violazione dei principi affermati dal Tar Lombardia nella sentenza 24585/2013: l’Amministrazione non può, in presenza di una comunità religiosa, differire ogni determinazione in ordine alla individuazione di un’area di culto. La presenza di una comunità islamica è ragione sufficiente per accogliere la richiesta;
   2) Violazione dell’art. 70, comma 2, della L.R. 12/2005 per carenza di istruttoria e difetto di motivazione: il comune afferma:
      a) che l’associazione non avrebbe le caratteristiche di consistenza e di incidenza sociale; per consentire l’individuazione di un’area di culto;
      b) le aree non sono dotate di parcheggi e non ci sono immobili comunali idonei;
      c) l’associazione si è trasferita come sede fuori dal Comune resistente;
      d) nel 2008 l’Amministrazione ha negato che vi fossero elementi per riconoscere una consistente presenza sul territorio dell’associazione.
La ricorrente contesta la fondatezza delle motivazioni del rigetto della domanda, in quanto l’Associazione ha come iscritti i nuclei familiari, per cui gli aderenti sono maggiori rispetto a quelli considerati. Inoltre la disciplina sui luoghi di culto non va applicata in funzione della percentuale rispetto alla popolazione totale, ma quando si riscontra la presenza di un gruppo di fedeli e l’esigenza per essi di disporre di un culto.
L’affermazione circa l’inidoneità delle aree è in contrasto con il diritto costituzionale alla libertà religiosa. Irrilevante la circostanza che l’associazione abbia cambiato sede e che già nel 2008 l’Amministrazione avesse negato che sussistessero elementi idonei a confermare la consistente presenza dell’associazione sul territorio.
Anche rispetto ai motivi aggiunti si è costituto il Comune, affermando che non vi sarebbe alcun obbligo di trovare un’area, ma solo di valutare l’idoneità dell’area.
Ha altresì sollevato l’eccezione di inammissibilità del ricorso, in quanto generico.
All’udienza del 30.05.2018 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
DIRITTO
1) Con il ricorso principale l'Associazione ha impugnato, chiedendone la sospensione cautelare, il provvedimento prot. 24471 di data 25.10.2016 a mezzo del quale il Comune di Sesto Calende aveva respinto l'istanza tesa all'individuazione di un luogo di culto del territorio comunale da dedicare al culto islamico.
A seguito dell'accoglimento dell'istanza cautelare con l'ordinanza della Sezione n. 112/2017 e del rigetto dell'appello avverso la stessa decisone con l'ordinanza del Consiglio di Stato n. 1884/2017, il Comune si rideterminava a mezzo della deliberazione consiliare n. 39 di data 20.09.2017, con la quale respingeva nuovamente l'istanza dell'Associazione.
Ritiene il Collegio che tale decisione di riesame della originaria istanza dell'Associazione abbia natura di provvedimento di secondo grado rispetto a quello di data 25.10.2016.
Di conseguenza, la deliberazione consiliare n. 39 di data 20.09.2017 ha definitivamente privato di efficacia il provvedimento di data 25.10.2016, impugnato –quando ancora era efficace– a mezzo del ricorso principale.
In tale situazione, il ricorso principale va dichiarato improcedibile.
2) Con il ricorso per motivi aggiunti l'Associazione chiede l'annullamento della deliberazione consiliare n. 39 di data 20.09.2017.
Al riguardo, va rigettata l’eccezione di inammissibilità opposta dalla difesa Comunale, secondo cui i motivi aggiunti avrebbero contenuto generico e non indicherebbero i profili di ritenuta illegittimità del provvedimento impugnato.
Osserva infatti il Collegio che, nel primo motivo aggiunto, riguardante l’impianto generale della deliberazione consiliare n. 39/2017, emergono nitidamente le doglianze circa il difetto di motivazione e circa il cattivo esercizio della discrezionalità nella pianificazione urbanistica.
Il secondo motivo aggiunto contesta invece analiticamente i singoli punti della motivazione del provvedimento impugnato.
3) Passando al merito della controversia, rileva il Collegio che la deliberazione consiliare n. 39 di data 20.09.2017 costituisce il provvedimento finale del procedimento apertosi a seguito dell'istanza dell'Associazione tesa all'individuazione nel PGT del Comune di Sesto Calende di un luogo del territorio comunale di culto da dedicare al culto islamico, sulla base della sentenza della Sezione n. 2485/2013, passata in giudicato.
Nel giudizio riguardante l'ottemperanza della sentenza appena citata, la Sezione aveva precisato che al procedimento andavano applicate le norme introdotte dalla L.R. Lombardia n. 2/2015 a modifica della L.R. n. 12/2005 rubricata “Legge per il governo del territorio” (sentenza n. 943/2016).
Il procedimento era quindi retto dall'applicazione dell'art. 72 della L.R. Lombardia n. 12/2005, nella versione risultante dalle modifiche introdotte dalla menzionata L.R. n. 2/2015.
L'Associazione, a mezzo del terzo motivo del ricorso principale, ha eccepito l'illegittimità costituzionale di tale art. 72 sopra citato nella parte in cui condiziona l'esercizio del culto alla discrezionalità riservata al Comune nell'individuare o meno nello strumento urbanistico luoghi destinati a servizi religiosi.
L'eccezione è da intendersi estesa anche al provvedimento impugnato con i motivi aggiunti.
Infatti, il ricorso per motivi aggiunti non ha mutato i termini della controversia così come perimetrati nel ricorso principale.
   3.1 Ciò premesso,
anche il Collegio dubita della legittimità costituzionale dell'art. 72 della L.R. Lombardia n. 12/2005 nella misura in cui tale norma, avuto riguardo alla tutela costituzionale riservata alla libertà religiosa, non detta alcun limite alla discrezionalità del Comune nel decidere quando (comma 5) e in che senso (commi 1 e 2) determinarsi a fronte della richiesta di individuazione di edifici o aree da destinare al culto.
La Sezione ha già rimesso la questione di legittimità costituzionale limitatamente a commi 1 e 2 del menzionato art. 72 della L.R. n. 12/2005 a mezzo della sentenza non definitiva n. 1939/2018, alla quale infra il Collegio farà ampio riferimento.
Sotto questo profilo, il Collegio reputa opportuno sospendere il giudizio ai sensi dell'art. 79 c.p.a. in attesa della decisione della Corte Costituzionale.
Sotto il profilo della questione di legittimità costituzionale dell'art. 72, comma 5, ritiene invece il Collegio di dovere sottoporre gli atti alla Corte Costituzionale, per un ulteriore profilo di incostituzionalità della norma regionale, non sollevato nella precedente decisione di rinvio.
4) Prima di affrontare compiutamente i temi della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità, pare al Collegio opportuno richiamare la ricostruzione del quadro normativo che viene in rilievo, operata a mezzo della menzionata sentenza della Sezione n. 1939/2018:
“9.1 La legge regionale della Lombardia 11.03.2005, n. 12 (“Legge per il governo del territorio”) reca, nella Parte II (“Gestione del territorio”), un Titolo IV dedicato alle “Attività edilizie specifiche”. Nell’ambito di questo Titolo, il Capo III – composto dagli articoli 70-73 della legge – detta “Norme per la realizzazione di edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi religiosi”.
Le previsioni contenute nel suddetto Capo stabiliscono, anzitutto, che le “attrezzature di interesse comune per servizi religiosi”, come definite all’articolo 71, comma 1, della legge regionale, “costituiscono opere di urbanizzazione secondaria ad ogni effetto” (così il comma 2 dello stesso articolo 71, tuttora vigente).
Quanto alla localizzazione sul territorio di tali attrezzature, l’articolo 71, comma 1, stabiliva, nel suo tenore originario, prima delle modifiche apportate dalla legge regionale 03.02.2015, n. 2, che il Piano dei Servizi –che è uno degli atti di cui si compone il Piano di Governo del Territorio– dovesse specificamente individuare, dimensionare e disciplinare “le aree che accolgono attrezzature religiose, o che sono destinate alle attrezzature stesse”, e ciò “sulla base delle esigenze locali, valutate le istanze avanzate dagli enti delle confessioni religiose di cui all’articolo 70”.
Tali ultimi soggetti erano individuabili, in particolare, negli “enti istituzionalmente competenti in materia di culto della Chiesa Cattolica” (articolo 70, comma 1) e negli “enti delle altre confessioni religiose come tali qualificate in base a criteri desumibili dall’ordinamento ed aventi una presenza diffusa, organizzata e stabile nell’ambito del comune (…), ed i cui statuti esprimano il carattere religioso delle loro finalità istituzionali e previa stipulazione di convenzione tra il comune e le confessioni interessate” (articolo 70, comma 2).
Era, inoltre, stabilito che, indipendentemente dalla dotazione di attrezzature religiose esistenti, “nelle aree in cui siano previsti nuovi insediamenti residenziali, il piano dei servizi, e relative varianti, assicura nuove aree per attrezzature religiose, tenendo conto delle esigenze rappresentate dagli enti delle confessioni religiose di cui all’articolo 70” (articolo 72, comma 2).
Apposite previsioni erano pure dettate per la realizzazione di attrezzature religiose di interesse sovracomunale (articolo 71, comma 3).
Quanto alla ripartizione delle attrezzature tra gli enti interessati, questa doveva essere operata “in base alla consistenza ed incidenza sociale delle rispettive confessioni” (articolo 71, comma 4).
Era, inoltre, stabilito che, fino all’approvazione del Piano dei Servizi, la realizzazione di nuove attrezzature per i servizi religiosi fosse “ammessa unicamente su aree classificate a standard nei vigenti strumenti urbanistici generali e specificamente destinate ad attrezzature per interesse comune” (così il comma 4-bis dell’articolo 71, introdotto dall’articolo 1, comma 1, lett. hhh), della legge regionale 14.03.2008, n. 4).
Infine, l’articolo 73 dettava (e detta tuttora) disposizioni relative alle modalità di finanziamento della realizzazione di attrezzature religiose da parte di ciascun comune.
9.2 La suddetta disciplina ha subito incisive modifiche a seguito dell’entrata in vigore della legge regionale 03.02.2015, n. 2; modifiche che –si anticipa sin d’ora– sono state in parte colpite da una dichiarazione di incostituzionalità, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 63 del 2016.
9.2.1 La nuova legge ha, anzitutto, innovato in modo significativo la disciplina dettata dall’articolo 70, in tema di individuazione degli enti delle confessioni religiose deputati a realizzare attrezzature religiose sul territorio comunale. Tali soggetti sono stati, infatti, individuati, oltre che negli enti della Chiesa cattolica, anche negli “enti delle altre confessioni religiose con le quali lo Stato ha già approvato con legge la relativa intesa ai sensi dell’articolo 8, terzo comma, della Costituzione” (nuovo articolo 70, comma 2) e negli enti delle ulteriori confessioni religiose, non firmatarie di intesa, in presenza di determinati requisiti specifici (articolo 70, comma 2-bis).
Per gli enti diversi da quelli della Chiesa cattolica è stato, peraltro, previsto che l’applicazione delle previsioni in materia di attrezzature di interesse religioso sia subordinata alla stipulazione di “una convenzione a fini urbanistici con il comune interessato” (articolo 70, comma 2-ter).
E’ stata, ancora, prevista l’istituzione di una Consulta regionale, nominata con provvedimento della Giunta regionale, deputata al “rilascio di parere preventivo e obbligatorio sulla sussistenza dei requisiti” per l’accreditamento presso i Comuni degli enti di confessioni religiose che non abbiano stipulato intese con lo Stato, al fine della realizzazione di attrezzature religiose (articolo 70, comma 2-quater).
9.2.2 E’ stata, inoltre, radicalmente modificata la disciplina relativa alla localizzazione delle attrezzature religiose, contenuta all’articolo 72.
Sotto questo profilo, si è stabilito, anzitutto, che “Le aree che accolgono attrezzature religiose o che sono destinate alle attrezzature stesse sono specificamente individuate nel piano delle attrezzature religiose, atto separato facente parte del piano dei servizi, dove vengono dimensionate e disciplinate sulla base delle esigenze locali, valutate le istanze avanzate dagli enti delle confessioni religiose di cui all’articolo 70” (articolo 72, comma 1).
Il Piano delle attrezzature religiose è “sottoposto alla medesima procedura di approvazione dei piani componenti il PGT” (articolo 72, comma 3) e deve prevedere una serie di contenuti specifici (articolo 72, comma 7), consistenti in prescrizioni di dotazioni di servizi (lett. a), b) e d), del comma 7), caratteristiche costruttive delle attrezzature religiose (lett. e), f) e g) del comma 7) e apposite distanze tra le strutture da destinare alle diverse confessioni religiose, sulla base delle distanze minime stabilite dalla Giunta regionale (lett. c) del comma 7).
E’, poi, stabilito che “L’installazione di nuove attrezzature religiose presuppone il piano di cui al comma 1; senza il suddetto piano non può essere installata nessuna nuova attrezzatura religiosa da confessioni di cui all’articolo 70” (articolo 72, comma 2). E, in questa prospettiva, la legge regionale dispone pure che “I comuni che intendono prevedere nuove attrezzature religiose sono tenuti ad adottare e approvare il piano delle attrezzature religiose entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della legge regionale recante “Modifiche alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) – Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi“.”, ossia la stessa legge n. 2 del 2015; “Decorso detto termine il piano è approvato unitamente al nuovo PGT” (articolo 72, comma 5).
9.3 Le previsioni in materia di attrezzature religiose introdotte dalla legge regionale n. 2 del 2015 sono state in parte dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 63 del 2016, in esito al giudizio in via d’azione promosso dal Presidente del Consiglio dei Ministri contro la predetta legge.
Più in dettaglio, la Corte ha dichiarato fondate, per violazione degli artt. 3, 8, 19 e 117, secondo comma, lettera c), della Costituzione, le questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto:
   – l’articolo 70, comma 2-bis, ove erano stabiliti i requisiti che gli enti delle confessioni religiose che non hanno stipulato un’intesa con lo Stato avrebbero dovuto possedere al fine di accedere alla possibilità di realizzare attrezzature religiose;
   – l’articolo 70, comma 2-quater, che sottoponeva al vaglio di un’apposita Consulta regionale lo scrutinio in ordine al possesso di tali requisiti.
La Corte ha, inoltre, riscontrato la fondatezza delle questioni con le quali si prospettava la violazione della competenza esclusiva statale in materia di ordine pubblico e sicurezza, di cui all’articolo 117, secondo comma, lettera h), della Costituzione ad opera delle previsioni contenute:
   – all’articolo 72, comma 4, primo periodo, della legge regionale, ove si prevedeva che, nel corso del procedimento per la predisposizione del Piano delle attrezzature religiose, venissero acquisiti “i pareri di organizzazioni, comitati di cittadini, esponenti e rappresentanti delle forze dell’ordine oltre agli uffici provinciali di questura e prefettura al fine di valutare possibili profili di sicurezza pubblica, fatta salva l’autonomia degli organi statali”;
   – all’articolo 72, comma 7, lett. e), ove si prescriveva che il Piano dovesse prevedere, per le attrezzature religiose, “la realizzazione di un impianto di videosorveglianza esterno all’edificio, con onere a carico dei richiedenti, che ne monitori ogni punto di ingresso, collegato con gli uffici della polizia locale o forze dell’ordine”.
9.4 L’intervento della Corte non ha, invece, toccato –in quanto non sottoposta allo scrutinio di legittimità costituzionale– l’architettura del sistema prefigurato dalla legge regionale n. 2 del 2015 al fine dell’insediamento sul territorio delle attrezzature religiose e, in particolare, la necessaria subordinazione della realizzazione di tali attrezzature all’approvazione di un apposito Piano.
La Corte ha, infatti, espressamente evidenziato che non formava oggetto del giudizio “l’art. 72, comma 1, della stessa legge regionale n. 12 del 2005, il quale ricollega alla valutazione delle «esigenze locali», previo esame delle diverse istanze confessionali, la programmazione urbanistica delle attrezzature religiose”.
Per quanto qui rileva, la Corte ha, inoltre, dichiarato manifestamente inammissibile, per inconferenza del parametro evocato –ossia l’articolo 117, secondo comma, lett. l), della Costituzione– la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 72, comma 5, della legge regionale n. 12 del 2005, ove si stabilisce che i Comuni che intendano prevedere nuove attrezzature religiose debbano approvare il relativo Piano entro diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge e che, in mancanza, si provveda unitamente al nuovo Piano di Governo del Territorio.”
La ricostruzione normativa deve essere completata in considerazione dell’avvenuta abrogazione della L.R. Lombardia n. 2/2015 a mezzo della L.R. n. 5/2018, recante “Razionalizzazione dell’ordinamento regionale. Abrogazione di disposizioni di legge.”
Sulla portata della L.R. Lombardia n. 5/2018 ritiene il Collegio di confermare il proprio orientamento espresso nella più volte menzionata sentenza della Sezione n. 1939/2018:
“Sempre in punto di rilevanza, il Collegio deve prendere in considerazione la portata della legge regionale 25.01.2018, n. 5, recante “Razionalizzazione dell’ordinamento regionale. Abrogazione di disposizioni di legge.”, pubblicata nel Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia del 29.01.2018, Supplemento n. 5.
La suddetta legge reca, all’articolo 2 –dedicato alla “Abrogazione di leggi”– la previsione secondo la quale “A decorrere dall’entrata in vigore della presente legge sono o restano abrogate: …b)le seguenti leggi o disposizioni operanti modifiche alla legislazione regionale… 69) L.R. 03.02.2015, n. 2 (Modifiche alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) – Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi);”.
E’ stata, dunque, disposta l’abrogazione della legge regionale n. 2 del 2015, che –come più volte ripetuto– ha novellato la legge regionale n. 12 del 2005, dettando la disciplina applicata dal provvedimento impugnato nel presente giudizio.
Occorre, dunque, domandarsi se tale previsione possa influire sulla rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale che si intendono rimettere alla Corte costituzionale.
21.1 Il Collegio rileva, anzitutto, che il provvedimento impugnato nel presente giudizio è precedente alla legge regionale n. 5 del 2018, per cui la sua legittimità va valutata in base al quadro normativo vigente al tempo della sua adozione.
Conseguentemente, la norma regionale abrogatrice sopravvenuta non potrebbe comunque far venire meno la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale relative al testo della legge n. 12 del 2005, nella formulazione in vigore quando è stato rilasciato il permesso di costruire annullato, e anche al tempo della determinazione di autotutela qui censurata.
21.2 In ogni caso, è pure da escludere che la legge regionale n. 5 del 2018 abbia modificato l’articolo 72 della legge regionale n. 12 del 2005, il quale è da ritenere a tutt’oggi vigente nel tenore risultante dalle modificazioni apportate dalla legge regionale n. 2 del 2015.
L’operazione disposta dal legislatore regionale è stata, infatti, di mero riordino legislativo, come risulta chiaramente dall’articolo 1 della legge regionale n. 5 del 2018, ove, nell’indicare le finalità dell’intervento normativo, si enuncia che “La presente legge opera interventi di manutenzione e razionalizzazione tecnica dell’ordinamento regionale attraverso interventi abrogativi di leggi o di disposizioni di legge. Per tutte le disposizioni oggetto di abrogazione sono fatti salvi gli effetti secondo quanto previsto dall’articolo 4.”.
Il richiamato articolo 4 stabilisce, a sua volta, che “Sono fatti salvi gli effetti prodotti o comunque derivanti dalle leggi e dalle disposizioni abrogate dalla presente legge, comprese le modifiche apportate ad altre leggi. Restano pertanto confermate, in particolare, le autorizzazioni, le variazioni, i rifinanziamenti e ogni altro effetto giuridico, economico o finanziario prodotto o comunque derivante dalle disposizioni in materia di bilancio, nonché le variazioni testuali apportate alla legislazione vigente dalle leggi abrogate dalla presente legge, ove non superate da integrazioni, modificazioni o abrogazioni disposte da leggi intervenute successivamente. Trova inoltre applicazione, per le leggi di cui all’articolo 3, anche quanto previsto dall’articolo 24, comma 2, della L.R. 29/2006”.
Il legislatore regionale ha, cioè, inteso eliminare le leggi enumerate –tra le quali la legge n. 2 del 2015– intese esclusivamente quali atti fonte, ossia quali “veicoli” delle modificazioni apportate ad altre leggi; “veicoli” che hanno sostanzialmente esaurito i loro effetti con l’introduzione stessa delle novelle. Le leggi modificate non sono state, invece, toccate dall’intervento di riordino, il quale non ha inteso apportare alcuna variazione sostanziale al corpus legislativo regionale.”

5) Alla luce della ricostruzione normativa e della precedente decisione, viene sollevato in questo giudizio l’ulteriore profilo di incostituzionalità dell’art. 72 L.R. Lombardia n. 12/2005, in quanto questione rilevante al fine della definizione dei motivi aggiunti.
Infatti, entrambe le censure proposte con i motivi aggiunti riguardano la violazione dell’art. 70, comma 2-bis, della L.R. Lombardia n. 12/2005, secondo cui “le disposizioni del presente capo si applicano altresì agli enti delle altre confessioni religiose”. Al riguardo, viene in rilievo il “Capo III”, intitolato “Norme per la realizzazione di edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi religiosi” della Parte II, Titolo IV, della Legge regionale in argomento.
Lamentando la violazione di tale norma, l’Associazione ricorrente si duole quindi del modo in cui il Comune ha applicato le norme del Capo III, tra le quali è compreso l’art. 72, che, come detto nella precedente decisione, si deve ritenere in vigore.
In particolare, con il primo motivo aggiunto, l'Associazione lamenta che “l’Amministrazione comunale non può legittimamente negare la sussistenza dei presupposti ad una individuazione di area di culto da assegnare a fedeli della religione islamica, né tanto meno [il che particolarmente rileva ai fini della questione di legittimità costituzionale – n.d.r.] può legittimamente differire ogni determinazione in tal senso ad una successiva ed ulteriore verifica in sede di futuro aggiornamento del PGT”.
L’Associazione ricorrente ha avuto cura di precisare che la censura di cui al primo motivo aggiunto “ha carattere assorbente” rispetto a quella contenuta nel motivo successivo, a mezzo del quale la ricorrente lamenta che il Comune avrebbe errato: (a) nell’esprimere il giudizio di significatività della presenza di una comunità islamica sul proprio territorio; (b) nel qualificare l’istanza dell’Associazione come tesa a fruire di un immobile comunale; (c) nell’affermare che l’Associazione avrebbe ormai trovato sede in un Comune contermine; (d) nel dare rilevanza che già nell’anno 2008 il Comune medesimo non aveva ravvisato in capo all’Associazione una consistenza e una incidenza sociale apprezzabili sul territorio.
Ritiene quindi il Collegio di poter affrontare la seconda censura dei motivi aggiunti solo dopo avere deciso sulla prima censura.
Sennonché, come detto, la decisione sulla prima censura passa necessariamente attraverso l’applicazione dell’art. 72, comma 5, della L.R. Lombardia n. 12/2005, secondo cui -lo si ripete- “I comuni che intendono prevedere nuove attrezzature religiose sono tenuti ad adottare e approvare il piano delle attrezzature religiose entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della legge regionale recante "Modifiche alla legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) - Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi". Decorso detto termine il piano è approvato unitamente al nuovo PGT.”.
Al riguardo, osserva il Collegio che il termine di diciotto mesi menzionato al primo periodo ha iniziato a decorrere dal 06.02.2015, giorno successivo alla data di pubblicazione della Legge sul Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia, ed è spirato il 06.08.2016.
Nel caso di specie, il Comune di Sesto Calende ha adottato il provvedimento impugnato in data 20.09.2017, con la conseguenza che viene in rilievo l’applicazione del secondo periodo dell’art. 72, comma 5, a mente del quale la previsione di nuove attrezzature religiose sul territorio comunale presuppone la previa redazione di un apposito piano, che i Comuni lombardi possono adottare in uno con il nuovo PGT.
Senza l’avvio del nuovo Piano del Governo del Territorio rimane sena tutela la posizione dell’Associazione: in tal senso è quindi innegabile la rilevanza della questione nel caso di specie.
6)
Il Collegio sospetta l’art. 72, comma 5, della L.R. Lombardia n. 12/2005 di illegittimità costituzionale per le seguenti ragioni.
   6.1.
Sotto un primo profilo, al Collegio pare che l’art. 72, comma 5, della L.R. Lombardia n. 12/2005 contrasti con l’art. 2 Cost., con l’art. 3 Cost., e con l’art. 19 Cost..
Al riguardo, con la sentenza n. 1939/2018 la Sezione ha già avuto modo di osservare che la programmazione urbanistica comunale interviene con cadenze periodiche pluriennali, non fissate a priori.
Di conseguenza, atteso il tenore letterale dell’art. 72, comma 5, della L.R. n. 12/2005, i fedeli di una confessione che intendono trovare una sede per esercitare il proprio culto devono attendere per un tempo indeterminato la decisione del Comune di individuare o meno un’area da destinare ad attrezzatura religiosa: infatti se decorre inutilmente il termine dei 18 mesi (come nel caso in esame), l’Amministrazione non ha alcun obbligo di avviare il procedimento di revisione del PGT, per individuare le aree destinate a luogo di culto.
Al decorso dei 18 mesi non è infatti prevista alcuna disposizione “sanzionatoria”, quale la sostituzione commissariale per l’adozione del piano de quo.
Ora, resta fuori discussione il potere del Comune di decidere, all’esito di un istruttoria adeguata, se accogliere o respingere la domanda degli interessati.
Tuttavia, la perdurante situazione di attesa e di incertezza nella quale, in ragione di quanto disposto dall’art. 72, comma 5, della L.R. Lombardia n. 12/2005, versano i fedeli, i quali aspirano a che il Comune individui un luogo per il culto da essi professato, non è compatibile con il rango costituzionale del diritto di libertà religiosa.
Ritiene infatti il Collegio che la domanda di spazi da dedicare all’esercizio di tale libertà debba trovare una risposta -in un senso positivo o in senso negativo- in tempi certi, ed entro un termine ragionevole, avuto riguardo sia ai tempi connessi alla valutazione di impatto sul tessuto urbanistico, a volte indiscutibilmente complessa, sia avuto riguardo alla particolare importanza del bene della vita al quale aspirano i fedeli interessati.
Al riguardo, il Collegio ritiene utile e opportuno fare riferimento a quanto affermato dalla Corte Costituzionale 24.03.2016 n. 63, secondo cui “Non è, invece, consentito al legislatore regionale, all’interno di una legge sul governo del territorio, introdurre disposizioni che ostacolino o compromettano la libertà di religione.”
Infatti, ad avviso del Collegio, la richiamata condizione di attesa a tempo indeterminato e di incertezza rileva quale ostacolo all’esplicazione del diritto di libertà religiosa.
Ne consegue una non giustificata compressione dei diritti di cui all’art. 19 Cost., e più in generale un ostacolo non giustificato all’esplicazione dei diritti inviolabili della persona, sia come singolo sia nelle formazioni sociali, in violazione dell’art. 2 Cost..
Il fatto che tale compressione della posizione soggettiva degli interessati non appaia giustificata pare altresì contrastare con il criterio della ragionevolezza del quale è espressione l’art. 3 Cost..
In sintesi la norma contrasta con i principi costituzionali richiamati, laddove prevede un termine –di 18 mesi– per l’adozione del piano delle attrezzature religiose, decorso il quale non viene previsto alcun intervento sostitutivo, ma viene demandato all’Amministrazione Comunale la facoltà di introdurre il piano in sede di revisione o adozione del PGT, senza alcun ulteriore termine.
In tal modo viene vanificato il diritto alla libertà religiosa, sotto il profilo del diritto di trovare spazi da dedicare all’esercizio di tale libertà.
   6.2
La norma pare violare altresì l’art. 97 Cost. e dell’art. 117, comma 2, lett. m), il fatto che l’art. 72, comma 5, della L.R. Lombardia n. 12/2005 rinvii a tempo indeterminato la risposta a un’esigenza riguardante l’esercizio di un diritto fondamentale della persona.
La mancata previsione, da parte della norma regionale, di tempi certi di risposta alle istanze dei fedeli interessati sembra infatti in contrasto con il principio di buon andamento che deve presiedere l’attività della Pubblica Amministrazione.
A bene vedere, la mancata di previsione di tempi certi da parte dell’art. 72, comma 5, della L.R. Lombardia n. 12/2005 pare inoltre esprimere uno sfavore dell’Amministrazione nei confronti del fenomeno religioso, il che contrasta con il principio di imparzialità dell’azione amministrativa di cui al menzionato art. 97 Cost..
Sotto connesso profilo, nella prospettiva dell’art. 117, comma 2, lett. m), Cost. appare violato il livello minimo delle prestazioni concernenti i diritti civili, che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.
Al riguardo, osserva il Collegio che, ai sensi dell’art. 29 della L. n. 241/1990 attiene ai livelli essenziali delle prestazioni di cui all’articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione l’aspetto riguardante la predeterminazione della durata massima dei procedimenti.
Ovviamente, va da sé che una norma che si esprima in termini di sfavore verso il fenomeno religioso contrasta anche con gli artt. 2. 3 e 19 Cost., ai quali si è già fatto riferimento.
In sintesi il quadro normativo che, una volta decorso il primo termine di 18 mesi dall’entrata in vigore della L.R. 12/2010, non ha previsto ulteriori termini per imporre l’adozione del piano della attrezzatture religiose, si pone in contrasto con la disciplina in materia di procedimento amministrativo e di certezza dei termini di conclusione del procedimento, quindi con i principi costituzionali dell’art 97 Cost. e dell’art. 117 comma 2 lett. m) Cost.
   6.3.
Sotto un ulteriore profilo, ritiene il Collegio che l’art. 72, comma 5, della L.R. Lombardia n. 12/2005 contrasti con l’art. 5 Cost., con l’art. 114, comma 2, Cost., con l’art. 117, comma 6, terzo periodo, Cost., con l’art. 118, comma 1, Cost..
Ad avviso del Collegio, la norma regionale condiziona l’adozione del Piano delle attrezzature religiose alla revisione complessiva del piano di governo del territorio.
Infatti, solo nei primi diciotto mesi dall’entrata in vigore della norma le Amministrazioni potevano predisporre il Piano delle attrezzature religiose senza mettere mano all’intera disciplina del governo del territorio.
Da che è maturata la scadenza dei diciotto mesi, la legge regionale non lo permette più.
In altri termini, l’art. 72, comma 5, della L.R. Lombardia n. 12/2005 impedisce ai Comuni di dotarsi di un Piano delle attrezzature religiose senza contestualmente revisionare l’intera disciplina del governo del territorio.
Ad avviso del Collegio, viene in rilievo una ingiustificata compressione delle prerogative del Comuni da parte della Regione.
Infatti, non si comprende quale ragione possa giustificare il sostanziale divieto gravante sui Comuni lombardi di adottare il Piano delle attrezzature religiose in un momento distinto rispetto alla revisione generale del Piano di governo del territorio.
Da un primo punto di vista, la norma sembra integrare una violazione dell’art. 5 Cost., atteso che essa frustra l’autonomia dei Comuni, quali autonomie locali.
Sotto connesso profilo, appaiono violati l’art. 114, comma 2, Cost. e l’art. 117, comma 6, terzo periodo, Cost..
In particolare, nella prospettiva dell’art. 114, comma 2, Cost. appare violato sotto un profilo generale l’autonomia riservata ai Comuni in relazione all’esercizio dei poteri e delle funzioni di loro competenza.
Nella più particolare prospettiva dell’art. 117, comma 6, terzo periodo, Cost. appare violata l’autonomia degli Enti Locali sotto il profilo della potestà regolamentare in ordine alle funzioni attribuite ai Comuni.
Come anticipato, la limitazione imposta dalla Regione all’autonomia dei Comuni non appare giustificata.
Da questo punto di vista sembra venire in rilievo la violazione del principio di sussidiarietà verticale di cui all’art. 118, comma 1, Cost..
In sintesi la disposizione regionale, laddove fa divieto ai Comuni di adottare il piano delle attrezzature religiose dopo il termine dei 18 mesi, ma necessariamente solo contestualmente alla revisione del PGT, viola il principio di autonomia riservata ai Comuni in relazione all’esercizio dei poteri e delle funzioni di loro competenza.
7) In conclusione, il ricorso principale va dichiarato improcedibile.
Rispetto ai motivi aggiunti,
va rimessa alla Corte Costituzionale la questione di legittimità dell’art. 72, comma 5, della L.R. n. 12/2005 in relazione all’art. 2 Cost., all’art. 3 Cost., all’art. 5 Cost., all’art. 19 Cost., all’art. 114 Cost., all’art. 117, comma 2, lett. m), Cost., all’art. 117, comma 6, terzo periodo, Cost. e all’art. 118 Cost..
Va di conseguenza disposta la sospensione del giudizio.
P.Q.M.
Il Tribunale Regionale per la Lombardia (Sezione Seconda), non definitivamente pronunciando sul ricorso principale e su quello per motivi aggiunti:
   - dichiara improcedibile il ricorso principale;
   -
rimette alla Corte Costituzionale le questioni di legittimità costituzionale illustrate in motivazione, relative all’articolo 72, comma 5, della legge regionale della Lombardia 11.03.2005, n. 12, nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’articolo 1, comma 1, lett. c), della legge regionale 03.02.2015 n. 2, per contrasto con l’art. 2 Cost., con l’art. 3 Cost., con l’art. 5 Cost., con l’art. 19 Cost., con l’art. 114 Cost., con l’art. 117, comma 2, lett. m), Cost., con l’art. 117 comma 6 terzo periodo Cost. e con l’art. 118 Cost.;
   - dispone, la sospensione del giudizio sino all’esito della decisione della Corte Costituzionale sulla questione rimessa tramite il presente provvedimento e sino alla decisione sulla questione di legittimità Costituzionale sollevata dal Tribunale a mezzo della sentenza non definitiva n. 1939/2018;
   - riserva alla sentenza definitiva la pronuncia in ordine ai motivi aggiunti, nonché in ordine alla complessiva regolazione delle spese del giudizio (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.10.2018 n. 2227 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

Posa di una sbarra metallica: serve, o meno, il titolo edilizio abilitativo??

EDILIZIA PRIVATA: Il Comune legittimamente ordina la riduzione in pristino ove individui la violazione edilizia rappresentata dalla mancanza di un presupposto che deve essere presente per l’ottenimento di qualunque titolo edilizio, compreso quello che si forma secondo il meccanismo peculiare della segnalazione certificata di inizio attività.
Nella specie, risulta, infatti, che –pur se il paletto insiste nel terreno di proprietà degli appellanti– la sbarra quando è aperta insiste, in questa parte, sul terreno di proprietà comunale.
Così come un privato non può installare senza il consenso del vicino una sbarra che –quando è aperta– incide sull’altrui proprietà e sul libero passaggio, allo stesso modo un privato non può installare senza il consenso del Comune una sbarra che –quando è aperta– incide sul passaggio della strada comunale.
Nella specie, l’Amministrazione –che non ha esercitato il potere derivante dalla legge per rimuovere gli impedimenti incidenti sul libero transito di una strada– ha legittimamente esercitato il potere di natura edilizia, avendo riscontrato che la sbarra in questione quando è chiusa insiste su un terreno che non è di proprietà di chi la ha installata.
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Né si può ritenere che vi sia stato, nella fattispecie, un esercizio illegittimo del potere comunale per perseguire finalità di risoluzione di una controversia privata.
Infatti, da un lato l’accordo stipulato a suo tempo tra amministrazione provinciale e gli appellanti prevedeva solo gli aspetti del transito su quell’area e non anche la possibilità di installare una sbarra e, dall’altro, l’Amministrazione resta comunque titolare del potere-dovere di far proseguire il transito di una strada, quando un privato con le sue opere intenda alterare la relativa situazione di fatto.
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1.−I signori Gi. e Br. sono comproprietari di un immobile sito in Sesta Godano, via ..., n. 12, censito al mappale 704. Esso confina con un immobile, adibito a magazzino ed officina, censito al mappale 770, che un tempo era di proprietà della Provincia di La Spezia e poi è stato trasferito al Comune di Sesta Godano.
I signori sopra indicati hanno presentato, in data 14.04.2016, una segnalazione certificata di inizio attività per la realizzazione di un «dissuasore di transito di tipo girevole, costituito da un paletto di altezza pari a metri 1,00 e sbarra girevole ortogonale».
Il Comune, con determinazione 19.11.2016, n. 37, ha rilevato che «l’area interessata dalla realizzazione delle predette opere, catastalmente individuata al foglio 42, particella 770, è di proprietà del Comune di Sesta Godano e che, in persona del Sindaco, ha chiarito nell’ambito della corrispondenza intervenuta con le parti, la propria volontà di non autorizzare il posizionamento della predetta sbarra».
Per le suddette ragioni, il Comune ha ordinato la demolizione delle opere realizzate.
2.− Le parti hanno impugnato tale determinazione innanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Liguria, prospettando plurimi motivi di illegittimità, riproposti in sede di appello e riportati nei successivi punti.
3.− Il Tribunale amministrativo, con la sentenza 04.09.2017, n. 712, ha rigettato il ricorso.
4.− I ricorrenti di primo grado hanno proposto appello ed hanno chiesto che, in riforma della sentenza impugnata, sia accolto il ricorso di primo grado.
4.1.− Si è costituiti in giudizio il Comune di Sesta Godano, chiedendo il rigetto dell’appello.
5.− La causa è stata decisa all’esito dell’udienza pubblica del 03.05.2018.
6.− L’appello non è fondato.
7.− Con il primo ed il terzo motivo, si è dedotta l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui non ha ravvisato l’illegittimità della determinazione comunale derivante dal fatto che non si comprenderebbe quale sarebbe la violazione edilizia commessa, atteso che l’opera sarebbe stata realizzata su un’area di proprietà degli appellanti.
Si deduce che il Comune avrebbe fatto una applicazione distorta dei poteri repressivi in materia edilizia, per perseguire finalità di risoluzione di una controversia privata.
In particolare, si rileva che tra il precedente proprietario dell’area, la Provincia di La Spezia, e gli odierni proprietari era stato stipulato un accordo che prevedeva:
   (i) la cessione gratuita da parte degli appellanti del diritto di passaggio sulla contigua striscia di terreno del fondo del mappale 704 di loro proprietà, al fine di ampliare l’accesso dalla via ... per assicurare, al contempo, maggiore sicurezza al traffico;
   ii) l’autorizzazione rilasciata dall’amministrazione provinciale agli appellanti di «apertura dell’accesso carrabile sul mappale 770» e di contestuale «transito carraio sul medesimo mappale».
Ritiene la Sezione che tali motivi non siano fondati.
Il Comune, con il provvedimento impugnato, ha chiaramente individuato la violazione edilizia rappresentata dalla mancanza di un presupposto che deve essere presente per l’ottenimento di qualunque titolo edilizio, compreso quello che si forma secondo il meccanismo peculiare della segnalazione certificata di inizio attività.
Nella specie, risulta, infatti, che –pur se il paletto insiste nel terreno di proprietà degli appellanti– la sbarra quando è aperta insiste, in questa parte, sul terreno di proprietà comunale.
Così come un privato non può installare senza il consenso del vicino una sbarra che –quando è aperta– incide sull’altrui proprietà e sul libero passaggio, allo stesso modo un privato non può installare senza il consenso del Comune una sbarra che –quando è aperta– incide sul passaggio della strada comunale.
Nella specie, l’Amministrazione –che non ha esercitato il potere derivante dalla legge per rimuovere gli impedimenti incidenti sul libero transito di una strada– ha legittimamente esercitato il potere di natura edilizia, avendo riscontrato che la sbarra in questione quando è chiusa insiste su un terreno che non è di proprietà di chi la ha installata.
Né si può ritenere che vi sia stato un esercizio illegittimo del potere per perseguire finalità di risoluzione di una controversia privata.
Infatti, da un lato l’accordo stipulato a suo tempo tra amministrazione provinciale e gli appellanti prevedeva solo gli aspetti del transito su quell’area e non anche la possibilità di installare una sbarra e, dall’altro, l’Amministrazione resta comunque titolare del potere-dovere di far proseguire il transito di una strada, quando un privato con le sue opere intenda alterare la relativa situazione di fatto (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 07.06.2018 n. 3454 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’installazione di una sbarra metallica a delimitazione della proprietà privata è intervento che, “per la sua entità e tipologia, deve ricondursi in quelli di <<manutenzione ordinaria>> per i quali non è richiesto alcun titolo abilitativo”.
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1. Con atto di ricorso ritualmente notificato e depositato, il sig. Ev.Pe. ha adito l’intestato Tribunale per chiedere l’annullamento del provvedimento, meglio in epigrafe specificato, con il quale gli è stata ordinata al ricorrente predetto la rimozione di due cartelli di segnalazione di proprietà privata posti su due alberi e di una sbarra in ferro installati su strada vicinale privata, in quanto ritenuti abusivi per mancanza dei necessari titoli abilitativi.
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2. Con il primo motivo, parte ricorrente lamenta che il provvedimento impugnato sarebbe illegittimo per carenza di motivazione e contraddittorietà dell’istruttoria condotta dall’amministrazione comunale, in quanto le opere di cui è stata ordinata la demolizione sarebbero state realizzate prima del 1954, ossia prima dell’apposizione vincolo paesaggistico asseritamente violato.
2.1. Il motivo è fondato.
2.2. Dalla documentazione versata in atti e, in particolare, dalla relazione prodotta dall’Ufficio Servizi Operativi del Comune resistente (cfr., nota del 28.05.2015, prot. n. 28/2015 U.S.O) -peraltro non citata nelle premesse del provvedimento impugnato- risulta infatti che la strada in argomento, “è chiusa con una sbarra da tempo immemorabile” ed appare “utilizzata esclusivamente ad uso privato”.
2.3. Ciò conduce a ritenere inattendibile l’affermazione contenuta nel provvedimento impugnato secondo cui “la strada era libera da impedimenti al libero transito almeno dall’inizio degli anni 80”, trattandosi peraltro di determinazione alla quale l’amministrazione è giunta sulla scorta “di sommarie informazioni acquisite da tre persone” (cfr., verbale di polizia municipale in data 11.09.2015), che sul punto risultano contraddette da dichiarazioni prodotte da altri soggetti, concludenti, al contrario, per la presenza della sbarra in contestazione fin “dagli inizi degli anni 50” (cfr., dichiarazione di cui al doc. n. 6 di parte ricorrente, acquisita agli atti del Comune di Assisi in data 03.02.2015).
2.4. Deve pertanto confermarsi, ad avviso del Collegio, la sussistenza del dedotto vizio di contraddittorietà dell’istruttoria, risultando invero inequivocabile la mancata ponderazione di tutte le risultanze probatorie istruttorie in possesso dell’amministrazione resistente, la quale ha trascurato di verificare mediante accertamenti attendibili e non contradditori, in merito all’apposizione della sbarra in questione nonché dei relativi cartelli di segnalazione di proprietà privata, dopo l’apposizione del vincolo paesaggistico del quale è stata contestata la violazione.
2.5. Occorre peraltro aggiungere che, a prescindere dal menzionato vincolo paesaggistico, l’installazione di una sbarra metallica a delimitazione della proprietà privata è intervento che, “per la sua entità e tipologia, deve ricondursi in quelli di <<manutenzione ordinaria>> per i quali non è richiesto alcun titolo abilitativo” (cfr., ex multis, Cons. St., sez. VI, 20.11.2013, 5513, idem, sez. VI, 07.08.2015, n. 3898), per il che risulta parimenti sconfessata, sotto questo ulteriore profilo, la dedotta assenza dei necessari titoli abilitativi, anche con riferimento alla asserita sostituzione della sbarra stessa (TAR Umbria, sentenza 02.02.2017 n. 120 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001 consente di eseguire interventi edilizi senza titolo abilitativo per specifiche previsioni (lavori per eliminare barriere architettoniche, opere temporanee per attività di ricerca nel sottosuolo, connesse all’attività agricola, dirette a soddisfare esigenze contingenti, ecc.), ivi comprese le opere di manutenzione di cui all’art. 3, co. 1, lett. a), nonché, previa comunicazione di inizio dei lavori, gli interventi di manutenzione straordinaria di cui all'art. 3, co. 1, lett. b).
Orbene, l’installazione di una sbarra automatica in sostituzione del precedente manufatto manuale rappresenta appunto un lavoro di manutenzione straordinaria soggetto a C.I.L., la cui inosservanza è sanzionata dallo stesso art. 6, co. 7, con una pena pecuniaria pari a 1.000 euro.

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Con ricorso notificato il 19/05/2015, Lo.Ag. e Lo.An., nella dedotta qualità di proprietarie di due unità edilizie in San Giorgio a Cremano nel fabbricato denominato C al prolungamento di via Manzoni, impugnavano gli atti in epigrafe concernenti l’apposizione di una sbarra metallica automatizzata in asserita sostituzione di preesistente sbarra in ferro, per il cui intervento, oggetto di accertamento da parte della Polizia Municipale, era stata presentata istanza di accertamento di conformità e di compatibilità paesaggistica.
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1. Nel merito le ricorrenti deducono che:
   - l’intervento in questione non sarebbe soggetto a permesso di costruire, per cui sarebbe da escludere la sanzione della demolizione; neppure sarebbe applicabile il ripristino dello stato dei luoghi per la mancanza del nulla-osta paesaggistico in quanto l’opera sarebbe priva di impatto ambientale;
   - il silenzio sull’istanza di conformità urbanistica ed il provvedimento di demolizione deriverebbero dal mancata pronuncia dell’autorità preposta alla tutela del vincolo; nessuna preclusione vi sarebbe al rilascio dell’autorizzazione in sanatoria attesa la tipologia dell’intervento ed i materiali impiegati; l’intervento sarebbe comunque sanabile sotto il profilo edilizio;
   - gli atti impugnati sarebbero in contrasto con gli artt. 146, co. 4, 167, co. 4 e 5, 181, co. 1-quater, del d.lgs. n. 42 del 2004 e con l’art. 25 del decreto-legge n. 133 del 2014; l’accertamento di compatibilità paesaggistica sarebbe ammissibile in sanatoria per cui l’amministrazione aveva l’obbligo di provvedere sull’istanza presentata dalle ricorrenti; né peraltro sussisterebbero ragioni ostative all’accertamento di conformità sotto il profilo urbanistico;
   - lo stesso Comune rappresenta nel provvedimento di demolizione la possibilità di chiedere l’accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 181, co. 1-quater, del d.lgs. n. 42 del 2004, senza considerare che l’istanza era già stata presentata;
   - la nuova sbarra sarebbe in sostituzione di una preesistente sbarra in ferro;
   - mancherebbe la comunicazione di avvio del procedimento, in violazione degli artt. 7 e 10-bis della legge n. 241 del 1990.
1.1. Giova premettere che l’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001 consente di eseguire interventi edilizi senza titolo abilitativo per specifiche previsioni (lavori per eliminare barriere architettoniche, opere temporanee per attività di ricerca nel sottosuolo, connesse all’attività agricola, dirette a soddisfare esigenze contingenti, ecc.), ivi comprese le opere di manutenzione di cui all’art. 3, co. 1, lett. a), nonché, previa comunicazione di inizio dei lavori, gli interventi di manutenzione straordinaria di cui all'art. 3, co. 1, lett. b).
Orbene l’installazione di una sbarra automatica in sostituzione del precedente manufatto manuale rappresenta appunto un lavoro di manutenzione straordinaria soggetto a C.I.L., la cui inosservanza è sanzionata dallo stesso art. 6, co. 7, con una pena pecuniaria pari a 1.000 euro.
Appunto in esplicita applicazione di tale disposizione il Comune ha correttamente e doverosamente sanzionato l’opera abusiva in questione, per cui vanno disattese in parte qua le censure dedotte (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 24.02.2016 n. 992 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’elettrificazione di un cancello esistente, o l’apposizione di un barra mobile, integrativa delle funzioni del medesimo cancello e dalle caratteristiche estetiche non invasive, così come l’installazione di un sistema di illuminazione, rientrano nella nozione di manutenzione ordinaria e non risultano suscettibili di incidere su valori paesaggistici protetti, salvo prescrizioni particolarmente restrittive.
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Per quanto riguarda infatti, in primo luogo, l’installazione di una barra elettrificata, retrostante al cancello esistente di accesso al parcheggio, con impianto luce e allacci elettrici, appare condivisibile la tesi, secondo cui si tratterebbe di interventi corrispondenti ad “attività edilizia libera”, disciplinata dall’art. 6 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia).
Ai sensi del comma 1, lettera a), della citata norma non richiedono, infatti, alcun titolo abilitativo –fatte salve specifiche prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali o altre disposizioni, fra cui quelle dettate a tutela dei beni culturali ed il paesaggio– gli interventi di manutenzione ordinaria, che l’art. 3 del medesimo d.P.R. n. 380/2001 definisce come “interventi edilizi che riguardano le opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici e quelle necessarie a mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti”.
Ad avviso del Collegio, l’elettrificazione di un cancello esistente, o l’apposizione (come nel caso di specie) di un barra mobile, integrativa delle funzioni del medesimo cancello e dalle caratteristiche estetiche non invasive, così come l’installazione di un sistema di illuminazione, rientravano nella nozione di manutenzione ordinaria sopra specificata e non risultavano suscettibili di incidere su valori paesaggistici protetti, salvo prescrizioni particolarmente restrittive, non evidenziate nella situazione in esame (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 20.11.2013 n. 5513 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATACirca l’apposizione della sbarra di metallo all’accesso della strada di proprietà privata e la recinzione in muratura posta lungo il confine sud-ovest di delimitazione dell’area di pertinenza esclusiva del fabbricato da quella adibita a servitù di passaggio, si ritiene che tali interventi non siano sussumibili nella fattispecie di cui all’ art. 6 del D.P.R. n. 380/2001, come sostituito dall’art. 5, co. 1, del D.L. 25.03.2010 n. 40, conv. in legge 22.05.2010 n. 73, ma costituiscano, piuttosto, attività assentibile mediante Scia ai sensi dell’art. 49, comma 4-bis, della legge 122/2010, la cui mancanza risulta sanzionata mediante l’applicazione delle misure previste dall’art. 37 del D.P.R. 380/2001.
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Con il provvedimento n. 9432 del 29.08.2012 il Comune di Maruggio ha rigettato la richiesta presentata dalla sig. ra Co.Ro. volta a ottenere il permesso di costruire in relazione agli “interventi eseguiti in assenza di Permesso di Costruire e per l’installazione di una sbarra in metallo di delimitazione accesso alla proprietà, nonché per la nuova realizzazione di una recinzione con relativi accessi” sulla base delle seguenti argomentazioni:
   - esaminato l’elaborato progettuale di rilievo del Piano terra con riferimento alla parte di copertura priva di tamponamento, già autorizzata con concessione edilizia in sanatoria n. 177/2001,
   - premesso che la stessa deve considerarsi come portico, vista la mancanza di una diversa e precisa indicazione di destinazione;
   - se è vero che l’art. 18 del Regolamento Edilizio Comunale vigente, recante norme per la misurazione delle altezze e dei volumi dei fabbricati, prescrive che nel calcolo del volume non vengano computati i portici, è anche vero che, nel caso in esame, gli interventi realizzati dall’istante hanno determinato un mutamento di destinazione d’uso da porticato-garage a cantina e lavanderia;
   - mediante la realizzazione di opere murarie aggiuntive, si è determinato un incremento della volumetria, non consentito nella zona “F4.2- Verde pubblico e attrezzature collettive” in cui l’immobile ricade, in quanto le norme tecniche di attuazione prescrivono che nelle aree a verde pubblico è consentita unicamente la creazione di impianti sportivi e per lo svago, di stazioni di servizio, campeggi, autoparcheggi, negozi, chioschi ed altri impianti similari di uso pubblico;.
   – la disposizione di cui all’art. 32 del D.P.R. n. 380/2001, secondo cui non possono comunque ritenersi variazioni essenziali quelle che incidono sulla entità delle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna delle singole unità abitative, non trova applicazione al caso in esame in quanto i nuovi locali realizzati (cantina e lavanderia) non possono qualificarsi quali volumi tecnici;
   - l’apposizione della barra metallica all’ingresso della strada privata gravata da servitù di passaggio deve qualificarsi come “opera di recinzione” ai sensi dell’art. 49, comma 4-bis, della legge n. 122/2010 e deve considerarsi come intervento assentibile mediante Scia, la cui mancanza determina l’applicazione della sole sanzioni previste dall’art. 37 del D.P.R. n. 380/2001;
   - negli stessi termini, la realizzazione della recinzione in muratura costituisce “opera di recinzione” assentibile mediante Scia, per la quale, così come per la sanatoria della sbarra metallica, dovrà pervenire all’Ufficio competente nuova e separata richiesta corredata da tutta la documentazione tecnica prevista dalla normativa vigente a firma di un tecnico abilitato.
Con un unico motivo di ricorso la ricorrente ha impugnato il provvedimento denunciandone l’illegittimità per eccesso di potere, violazione e/o falsa applicazione della legge e/o violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 380/2001 e/eccesso di potere per difetto di motivazione e/o contraddittorietà ed illogicità, violazione del giusto procedimento e/o violazione del principio di legalità e buon andamento dell’attività amministrativa e/o irrazionalità ed illogicità dell’azione amministrativa e/o eccesso di potere ed erronea valutazione dei presupposti di fatto e di diritto e/o illogicità dell’azione amministrativa.
Il provvedimento di diniego, infatti, sarebbe illegittimo in quanto, a detta di parte ricorrente:
   - la planimetria della concessione in sanatoria n. 177/2001 indicava la destinazione di utilizzo del porticato in piano garage;
   - gli artt. 136 e 137 del D.P.R. 380/2001 mantengono in vigore la legge 05.08.1978 n. 457 ad eccezione dell’art. 48;
   - il porticato è stato condonato come piano garage e non è, pertanto, applicabile l’art. 18 del Regolamento Edilizio Comunale di Maruggio;
   - l’art. 27 della citata legge non è applicabile al caso in esame per assenza dei piani di recupero;
   - la richiesta di costruire del 23.02.2012 riguarda interventi di ristrutturazione edilizia ammissibili di cui all’art. 31 della legge n. 457/1978, trasfuso nell’art. 3 del D.P.R. n. 380/2001;
   - l’art. 31 della legge n. 457/1978 prevede che sono ammissibili le opere necessarie per realizzare ed integrare servizi igienico-sanitari e tecnologici;
   - l’uso del porticato con destinazione garage è pienamente compatibile con l’uso a cantina e lavatoio, e che la cantina/lavanderia, integrando mere cubature accessorie, e non volumi tecnici,
   - la sbarra metallica, posta su una strada privata, così come la recinzione in muratura costituiscono un’attività libera per la quale non è richiesto alcun permesso di costruire e per le quali, in ogni modo, è fatta salvo, per il privato, richiedere al Comune il permesso di costruire, con conseguente obbligo dall’Amministrazione di accogliere siffatta richiesta.
I motivi di ricorso così proposti sono infondati.
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Per ciò che concerne, invece, l’apposizione della sbarra di metallo all’accesso della strada di proprietà privata e la recinzione in muratura posta lungo il confine sud-ovest di delimitazione dell’area di pertinenza esclusiva del fabbricato da quella adibita a servitù di passaggio, si ritiene che, contrariamente a quanto dedotto da parte ricorrente, tali interventi non siano sussumibili nella fattispecie di cui all’art. 6 del D.P.R. n. 380/2001, come sostituito dall’art. 5, co. 1, del D.L. 25.03.2010 n. 40, conv. in legge 22.05.2010 n. 73, ma costituiscano, piuttosto, attività assentibile mediante Scia ai sensi dell’art. 49, comma 4-bis, della legge 122/2010, la cui mancanza risulta sanzionata mediante l’applicazione delle misure previste dall’art. 37 del D.P.R. 380/2001 (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 27.08.2013 n. 1801 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa costante giurisprudenza ritiene necessaria la concessione edilizia solo per gli interventi che producano una significativa e stabile trasformazione urbanistica del territorio
Invece, non presenta tale carattere lo spandimento di materiale stabilizzante sul tracciato stradale, che deve invece essere ricondotto agli interventi di tipo manutentivo–conservativo rientranti nell'attività edilizia libera, non abbisognante di alcun titolo concessorio o autorizzatorio.
Parimenti, non risulta abusiva nemmeno l'installazione della sbarra in metallo, in quanto le recinzioni di fondi rustici realizzate senza interventi in muratura non sono espressione dello jus aedificandi, bensì del diverso jus excludendi omnes alios che non necessitano di concessione edilizia.
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La ricorrente, insieme agli altri destinatari dei provvedimenti repressivi impugnati (non costituiti in giudizio), sono proprietari di fondi rustici con annessi fabbricati situati in C.C. Daone (pp.ff. nn. 2193/4 e 2193/1, 2201, 2210/2, 2210/08 e 2210/2, nonché 2450/1) asserviti da una vecchia strada che li attraversa, costeggiando il fiume Chiese, utilizzata anche dal Servizio Forestale della PAT per i necessari interventi di polizia idraulica.
Col ricorso in epigrafe la ricorrente espone che il Sindaco di Daone, con due distinti provvedimenti, ha ingiunto ad essa, congiuntamente agli altri proprietari, la rimessa in pristino dello stato dei luoghi sul presupposto che, come risulta dal sopralluogo effettuato in data 30.05.2012, la suddetta strada fosse stata oggetto di interventi abusivi consistenti nell'installazione di una sbarra in metallo all'ingresso e di riporto di materiale stabilizzato (ord. n. 22/12) e di ampliamento mediante realizzazione di un nuovo tratto, con modifica del tracciato preesistente (ord. n. 23/12) in assenza dei prescritti titoli edilizi.
...
A sostegno del presente ricorso viene dedotto:
  a) che non è stato comunicato l'avvio del procedimento, in violazione dell'art. 7 della l. n. 241 del 1990;
   b) che non vi sarebbe stato un sufficiente accertamento circa la consistenza quantitativa e/o qualitativa dell'abuso realizzato, concretandosi così il difetto di istruttoria e la violazione degli artt. 1, 3, 6 della l. n. 241/1990;
   c) che mancherebbero i presupposti di emanazione delle ordinanze gravate, stante il carattere non abusivo degli interventi realizzati che, in quanto di mero ripristino e non comportanti rilevante alterazione dello stato dei luoghi, non avrebbero abbisognato di titolo edilizio (terzo e quarto motivo di ricorso);
   d) che dette ordinanze sarebbero illegittime in quanto emanate in aperta lesione del legittimo affidamento che si sarebbe ingenerato nella ricorrente a fronte dell'inerzia e dei ritardi dell'amministrazione nell'accertare gli abusi, non colpiti dalle ord. nn. 64 e 71 del 2004, sebbene all'epoca già realizzati, e che comunque i provvedimenti gravati sarebbero privi della motivazione “rafforzata” necessaria, a detta della ricorrente, per perseguire abusi risalenti nel tempo, in violazione dell'art. 3 l. n. 241/1990 e del corrispondente art. 4 l. n. 23/1992;
   e) che sarebbe ravvisabile sviamento di potere nel fatto che la reiterata attività di vigilanza dell'Amministrazione sarebbe stata motivata, non dalle esigenze di repressione degli abusi edilizi ed urbanistici ma dall'intento di favorire la controinteressata, autrice della denuncia che ha determinato il sopralluogo del 30.05.2012.
...
Il terzo e quarto motivo di ricorso possono essere esaminati congiuntamente.
La ricorrente lamenta che le ordinanze censurate sarebbero state emanate sulla base dell'erroneo presupposto del carattere abusivo degli interventi ivi contestati, in quanto essi sarebbero stati realizzati in assenza dei prescritti titoli edilizi, in particolare della concessione per l'ampliamento della strada e della denuncia d'inizio attività per l'installazione della sbarra metallica e per il riporto di materiale stabilizzato.
Le censure avverso l'ord. n. 22/12, avente ad oggetto la realizzazione della sbarra e la stabilizzazione del terreno, sono fondate.
La costante giurisprudenza ritiene infatti necessaria la concessione edilizia solo per gli interventi che producano una significativa e stabile trasformazione urbanistica del territorio (cfr., ad es.: Cons. Stato, sez. V, n. 1922/2013).
Invece, non presenta tale carattere lo spandimento di materiale stabilizzante sul tracciato stradale, che deve invece essere ricondotto agli interventi di tipo manutentivo–conservativo rientranti nell'attività edilizia libera, non abbisognante di alcun titolo concessorio o autorizzatorio.
Parimenti, non risulta abusiva nemmeno l'installazione della sbarra in metallo, in quanto le recinzioni di fondi rustici realizzate senza interventi in muratura non sono espressione dello jus aedificandi, bensì del diverso jus excludendi omnes alios che non necessitano di concessione edilizia (cfr., ibidem: Cons. Stato, sez. V, n. 1922/2013).
Conseguentemente, dovendosi escludere il carattere abusivo delle opere anzidette, l'ingiunzione risulta essere stata emessa in assenza dei presupposti previsti dalla legge: da ciò la sua illegittimità.
E' invece infondata la censura di erroneità dei presupposti mossa nei confronti dell'ord. n. 23/12, avente ad oggetto l'avvenuta modifica del tracciato stradale rispetto a quello originario. Detto intervento è certamente abusivo poiché non poteva essere realizzato, come invece è avvenuto, in assenza di titolo concessorio: non rientrano infatti nel quadro degli interventi di manutenzione, neppure straordinaria, i lavori stradali che comportino varianti al tracciato, ampliamento della carreggiata e, più in generale, modifica dello stato dei luoghi o di destinazione delle aree interessate.
Come detto, l'effettiva realizzazione di tale ampliamento ed il suo carattere abusivo sono possono essere rimessi in discussione essendo stati positivamente accertati dalle citate ordinanze di demolizione nn. 64 e 71 del 2004 ritenute legittime da questo Tribunale con la citata sentenza n. 26/2006, passata in giudicato (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 20.06.2013 n. 210 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sul divieto alle pubbliche amministrazioni di attribuire incarichi di studio e di consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza.
Deve essere rimessa alla Corte di Giustizia UE la questione “Se il principio di non discriminazione di cui agli artt. 1 e 2 della direttiva del Consiglio dell’Unione Europea 27.11.2000, n. 78, osta alla disposizione di cui all’art. 5, comma 9, del decreto-legge 06.07.2012, n. 95 (convertito, con modificazioni, dalla legge 07.08.2012, n. 135, nel testo modificato dall’art. 6 del decreto-legge 24.06.2014 n. 90, convertito dalla legge 11.08.2014 n. 114), che prevede il divieto per le pubbliche amministrazioni di attribuire incarichi di studio e di consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza”.
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1. – Con il ricorso in esame, il dottor Fr.Me. chiede l’annullamento dell’avviso di manifestazione di interesse n. 5722 del 28.12.2017, pubblicato dal Comune di Gesturi, avente ad oggetto “Studio e Consulenza Eco Centro Comunale”, nella parte in cui prevede, tra i requisiti di partecipazione, che i soggetti interessati non siano dipendenti pubblici collocati in quiescenza.
Segnatamente, l’avviso stabilisce che per l'affidamento di un incarico di studio e consulenza gli interessati debbano essere in possesso dei seguenti requisiti:
   «- Laurea in Medicina e Chirurgia
   - Specializzazione in Igiene
   - comprovata esperienza dirigenziale nel servizio sanitario nazionale per almeno cinque anni
   - non essere soggetto già lavoratore privato o pubblico collocato in quiescenza
».
L’odierno ricorrente riferisce di non poter partecipare alla procedura, essendo attualmente dipendente pubblico in pensione, pur avendo tutti gli altri requisiti soggettivi prescritti dall’avviso pubblico in questione (laureato in Medicina e Chirurgia presso l’università degli Studi di Cagliari il 28.03.1974, specialista in Igiene e Medicina Preventiva presso l’università degli Studi di Cagliari nel dicembre 1977, già dirigente del Servizio Sanitario Regionale dal 1983 al 2005).
2. - Avverso la predetta clausola escludente, il ricorrente deduce –con il primo motivo– la illegittimità dell’art. 5, comma 9, del decreto-legge 06.07.2012, n. 95 [convertito, con modificazioni, dalla legge 07.08.2012, n. 135, nel testo modificato dall’art. 6 del decreto-legge 24.06.2014 n. 90, convertito dalla legge 11.08.2014 n. 114], che prevede il divieto per le pubbliche amministrazioni di attribuire incarichi di studio e di consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza, per il contrasto con l’art. 21 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e con la Direttiva del Consiglio dell'Unione Europea 27.11.2000, n. 78, in specie con l’art. 1, l’art. 2, comma 2, lett. b), l’art. 3, comma 1, lett. a), l’art. 4, comma 1, e l’art. 6, comma 1, lett. c).
Secondo il ricorrente, la norma statale crea una forma indiretta di discriminazione, correlata all’età dei destinatari, sussumibile nella tipologia descritta dall’art. 2, comma 2, lett. b), della suddetta direttiva del Consiglio dell'Unione Europea n. 78/2000, ed è quindi contraria all’obiettivo di combattere le discriminazioni (tra cui quelle collegate all’età) fissato dall’art. 1 della medesima direttiva. Tale discriminazione non appare sorretta da una “finalità legittima” (come richiesto dall’art. 6, comma 1, della Direttiva n. 78/2000), considerato che il fine dichiarato della norma sarebbe di evitare che “soggetti in quiescenza assumano rilevanti responsabilità nelle amministrazioni” e “assicurare il fisiologico ricambio di personale”.
Da quanto rilevato, il ricorrente fa discendere l'illegittimità, e la conseguente annullabilità o nullità, della clausola contenuta nell'avviso di manifestazione di interesse, in quanto applicativa di disposizioni che debbono essere disapplicate perché in contrasto con la disciplina comunitaria.
Il ricorrente lamenta, altresì, l’incompatibilità delle norme statali sopra menzionate con l’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
3. - Il Comune di Gesturi non si è costituito in giudizio.
4. - Alla camera di consiglio del 21.02.2018, previo avviso alle parti, ai sensi dell’art. 60 del codice del processo amministrativo, sulla possibilità di definire il giudizio nel merito con sentenza in forma semplificata, la causa è stata trattenuta in decisione.
5. - Il Collegio ritiene di dover sottoporre alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul Funzionamento dell’U.E., la questione inerente la compatibilità con il diritto dell’Unione Europea della disposizione di cui all’art. 5, comma 9, del decreto-legge 06.07.2012, n. 95 (convertito, con modificazioni, dalla legge 07.08.2012, n. 135, nel testo modificato dall’art. 6 del decreto-legge 24.06.2014 n. 90, convertito dalla legge 11.08.2014 n. 114), che prevede il divieto per le pubbliche amministrazioni di attribuire incarichi di studio e di consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza
6. - La questione è senz’altro rilevante perché la contestata clausola del bando impugnato che impedisce la partecipazione alla selezione costituisce diretta applicazione della suddetta norma. Per cui l’eventuale accoglimento della censura prospettata consentirebbe di definire la controversia con il conseguente annullamento della clausola del bando.
7. -
Le disposizioni rilevanti del diritto dell’Unione Europea.
Per la soluzione del caso di specie assumono rilevanza le disposizioni della direttiva del Consiglio dell’Unione Europea 27 novembre 2000, n. 78, di cui:
   - all’art. 1, secondo cui «La presente direttiva mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l'occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento.»;
   - all’art. 2, paragrafi 1, 2 e 4, secondo i quali: «1. Ai fini della presente direttiva, per "principio della parità di trattamento" si intende l'assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all'articolo 1.
2. Ai fini del paragrafo 1:
   a) sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all'articolo 1, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga;
   b) sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le persone di una particolare età o di una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre persone, a meno che: i) tale disposizione, tale criterio o tale prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari; […].
4. L'ordine di discriminare persone per uno dei motivi di cui all'articolo 1, è da considerarsi discriminazione ai sensi del paragrafo 1.
[…]
»;
   - all’art. 3, paragrafo 1, secondo cui «Nei limiti dei poteri conferiti alla Comunità, la presente direttiva, si applica a tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore privato, compresi gli organismi di diritto pubblico, per quanto attiene:
a) alle condizioni di accesso all'occupazione e al lavoro, sia dipendente che autonomo, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione indipendentemente dal ramo di attività e a tutti i livelli della gerarchia professionale, nonché alla promozione;
b) all'accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali;
c) all'occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione;
d) all'affiliazione e all'attività in un'organizzazione di lavoratori o datori di lavoro, o in qualunque organizzazione i cui membri esercitino una particolare professione, nonché alle prestazioni erogate da tali organizzazioni
.».
Rileva, inoltre, l’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, paragrafo 1, secondo cui è vietata «qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale».
8. -
Le disposizioni del diritto nazionale.
Nell’ambito del diritto nazionale, è rilevante la disposizione di cui all’art. 5, comma 9, del decreto-legge 06.07.2012, n. 95 (convertito, con modificazioni, dalla legge 07.08.2012, n. 135, nel testo modificato dall’art. 6 del decreto-legge 24.06.2014 n. 90, convertito dalla legge 11.08.2014 n. 114), ai sensi del quale «E’ fatto divieto alle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2011, nonché alle pubbliche amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell’articolo 1, comma 2, della legge 31.12.2009, n. 196 nonché alle autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob) di attribuire incarichi di studio e di consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza.
Alle suddette amministrazioni è, altresì, fatto divieto di conferire ai medesimi soggetti incarichi dirigenziali o direttivi o cariche in organi di governo delle amministrazioni di cui al primo periodo e degli enti e società da esse controllati, ad eccezione dei componenti delle giunte degli enti territoriali e dei componenti o titolari degli organi elettivi degli enti di cui all' articolo 2, comma 2-bis, del decreto-legge 31.08.2013, n. 101 , convertito, con modificazioni, dalla legge 30.10.2013, n. 125.
Gli incarichi, le cariche e le collaborazioni di cui ai periodi precedenti sono comunque consentiti a titolo gratuito. Per i soli incarichi dirigenziali e direttivi, ferma restando la gratuità, la durata non può essere superiore a un anno, non prorogabile ne' rinnovabile, presso ciascuna amministrazione. Devono essere rendicontati eventuali rimborsi di spese, corrisposti nei limiti fissati dall'organo competente dell'amministrazione interessata. Gli organi costituzionali si adeguano alle disposizioni del presente comma nell'ambito della propria autonomia
».
9. –
Conclusioni.
Come anticipato, il dubbio che giustifica la rimessione alla Corte di Giustizia si fonda sul contrasto della norma statale con gli artt. 1 e 2 della direttiva del Consiglio dell’Unione Europea 27.11.2000, n. 78, che pongono l’obiettivo di combattere ogni forma di discriminazione sia diretta che indiretta (tra cui quella basata sull’età), in quanto esclude una categoria di persone dalla possibilità di assumere incarichi nell’amministrazione per ragioni essenzialmente correlate all’età (essendo il collocamento in quiescenza determinato dal raggiungimento di una certa anzianità “contributiva” e quindi necessariamente da una proporzionale età anagrafica).
Né peraltro tale discriminazione può trovare una adeguata giustificazione ai sensi dell’art. 6, della medesima direttiva (rubricato «Giustificazione delle disparità di trattamento collegate all'età»), secondo cui «gli Stati membri possono prevedere che le disparità di trattamento in ragione dell'età non costituiscano discriminazione laddove esse siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell'ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari».
Ed invero non può affermarsi che la norma possa “assicurare il fisiologico ricambio di personale” (tale sarebbe, come si è sopra accennato, la finalità perseguita dal legislatore).
Appare infatti improbabile che un incarico, specialmente se delicato e complesso, che possa essere ben espletato da chi ha per lungo tempo operato nel settore, possa essere conferito ad un soggetto privo della necessaria esperienza.
La misura appare dunque inappropriata rispetto alla scopo e pertanto inidonea a giustificare la discriminazione
10. - Formulazione delle questioni pregiudiziali.
Tutto ciò premesso, il TAR per la Sardegna formula il seguente quesito: “
Se il principio di non discriminazione di cui agli artt. 1 e 2 della direttiva del Consiglio dell’Unione Europea 27.11.2000, n. 78, osta alla disposizione di cui all’art. 5, comma 9, del decreto-legge 06.07.2012, n. 95 (convertito, con modificazioni, dalla legge 07.08.2012, n. 135, nel testo modificato dall’art. 6 del decreto-legge 24.06.2014 n. 90, convertito dalla legge 11.08.2014 n. 114), che prevede il divieto per le pubbliche amministrazioni di attribuire incarichi di studio e di consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza”.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna, Sezione Prima, così dispone:
   1) rimette alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea la questione pregiudiziale indicata in motivazione, ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea;

   2) sospende il presente giudizio fino alla definizione della questione pregiudiziale (TAR Sardegna, Sez. I, ordinanza 19.10.2018 n. 881 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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EDILIZIA PRIVATA: Sulla base del quadro normativo vigente emerge che non è possibile affermare in assoluto che la tettoia richieda, o non richieda, il titolo edilizio maggiore e assoggettarla, o non assoggettarla, alla relativa sanzione senza considerare nello specifico come essa è realizzata.
In proposito, quindi, l’amministrazione ha l’onere di motivare in modo esaustivo, attraverso una corretta e completa istruttoria che rilevi esattamente le opere compiute e spieghi per quale ragione esse superano i limiti entro i quali si può trattare di una copertura realizzabile in regime di edilizia libera.
La disciplina delle tettoie non è definita in modo univoco né nella normativa né in giurisprudenza.
Dal punto di vista normativo, va considerato l’art. 6 del T.U. 06.06.2001 n. 380, che contiene l’elenco delle opere di cd edilizia libera, le quali non necessitano di alcun titolo abilitativo; a prescindere dalla natura esemplificativa o tassativa che si voglia riconoscere a tale elenco, va poi osservato che esso comprende voci di per sé abbastanza generiche, tali da poter ricomprendere anche opere non espressamente nominate.
Con riferimento alle tettoie, rileva in particolare la voce di cui alla lettera e)-quinquies, che considera opere di edilizia libera gli “elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici”, concetto nel quale può sicuramente rientrare una tettoia genericamente intesa, come copertura comunque realizzata di un’area pertinenziale, come il terrazzo.
La norma è stata introdotta dall’art. 3 del d.lgs. 25.11.2016 n. 222, ma si deve considerare applicabile anche alle costruzioni precedenti, come quella per cui è causa, per due ragioni. In primo luogo, nel diritto delle sanzioni è principio generale quello per cui non si possano subire conseguenze sfavorevoli per un comportamento in ipotesi illecito nel momento in cui è stato realizzato, che più non lo sia quando si tratti di applicare le sanzioni stesse. In secondo luogo, la giurisprudenza di cui subito si dirà, anche in epoca anteriore alla modifica legislativa di cui s’è detto, distingueva all’interno della categoria in esame costruzione da costruzione assoggettandola a regime diverso a seconda delle sue caratteristiche.
In materia, è poi intervenuto di recente un chiarimento da parte del legislatore, ovvero il recente D.M. 02.03.2018, di “Approvazione del glossario contenente l'elenco non esaustivo delle principali opere edilizie realizzabili in regime di attività edilizia libera”, ai sensi dell'articolo 1, comma 2 del citato d.lgs. 222/2016. Tale decreto comprende, al n. 50 del glossario delle opere realizzabili senza titolo edilizio alcuno, in particolare le cd pergotende, ovvero, per comune esperienza, strutture di copertura di terrazzi e lastrici solari, di superficie anche non modesta, formate da montanti ed elementi orizzontali di raccordo e sormontate da una copertura fissa o ripiegabile formata da tessuto o altro materiale impermeabile, che ripara dal sole, ma anche dalla pioggia, aumentando la fruibilità della struttura. Si tratta quindi di un manufatto molto simile alla tettoia, che se ne distingue secondo logica solo per presentare una struttura più leggera.
Al polo opposto, v’è l’art. 10, comma 1, lettera a), del T.U. 380/2001, che assoggetta invece al titolo edilizio maggiore, ovvero al permesso di costruire, “gli interventi di nuova costruzione”.
La giurisprudenza si fonda su tale ultima disposizione per richiedere appunto il permesso di costruire nel caso di tettoie di particolari dimensioni e caratteristiche. Si afferma infatti in via generale che tale struttura costituisce intervento di nuova costruzione e richiede il permesso di costruire nel momento in cui difetta dei requisiti richiesti per le pertinenze e gli interventi precari, ovvero quando modifica la sagoma dell’edificio.
Sulla base di tale quadro normativo emerge chiara una conseguenza: non è possibile affermare in assoluto che la tettoia richieda, o non richieda, il titolo edilizio maggiore e assoggettarla, o non assoggettarla, alla relativa sanzione senza considerare nello specifico come essa è realizzata. In proposito, quindi, l’amministrazione ha l’onere di motivare in modo esaustivo, attraverso una corretta e completa istruttoria che rilevi esattamente le opere compiute e spieghi per quale ragione esse superano i limiti entro i quali si può trattare di una copertura realizzabile in regime di edilizia libera.
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Ciò a maggior ragione nel caso di specie, a fronte della limitata estensione e consistenza del manufatto, sia in relazione alla necessità di esplicare le ragioni sottese alla reputata contrarietà al vincolo esistente in loco ed alla sussistenza della rilevata alterazione dell'aspetto esteriore dei luoghi. A quest’ultimo riguardo infatti, solo una corretta ricostruzione e qualificazione del manufatto costituisce la necessaria base su cui svolgere la doverosa valutazione di carattere paesaggistico.
Tutto ciò non si ritrova nel provvedimento impugnato, che si limita ad una descrizione generica di quanto rilevato, a fronte della quale, si noti, la difesa di parte appellante ha sin dal ricorso di prime cure evidenziato una serie di elementi in fatto, a partire dalle dimensioni inferiori ai sei mq, dal fatto di non essere infissa al suolo e dalla stretta pertinenzialità rispetto al manufatto esistente.
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Va quindi ribadito che non ogni opera che interessi la superficie esterna dell’edificio determina una automatica alterazione dei luoghi soggetti a tutela, ma esclusivamente quella che ne immuti le caratteristiche essenziali in maniera rilevante; spetta alla p.a. l’onere di esplicare, una volta verificata la consistenza del manufatto, la rilevata alterazione.
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... per la riforma della sentenza breve del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania (Sezione Sesta) n. 5499/2011, resa tra le parti, concernente demolizione opere abusive
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Con l’appello in esame l’odierna parte appellante impugnava la sentenza n. 5499 del 2011 con cui il Tar Campania ha respinto l’originario gravame.
Quest’ultimo era stato proposto dalla medesima parte, in qualità di proprietaria del compendio immobiliare coinvolto sito in comune di Procida, al fine di ottenere l’annullamento degli atti concernenti l’ordine di demolizione di una tettoia in legno con copertura in tegole di cotto di circa sei metri quadrati, con altezza variabile tra mt. 3,00 e 2,50.
...
1. L’appello è fondato in ordine ai profili dedotti in merito alla qualificazione dell’opera.
2.1 In linea di fatto appaiono pacifici i seguenti elementi: la (limitata) consistenza dell’intervento, la qualificazione in termini di tettoia, l’assenza di titolo edilizio e la relativa collocazione in area sottoposta a vincolo paesaggistico.
2.2 In linea di diritto, va richiamato quanto ancora di recente evidenziato dalla sezione (cfr. decisione n. 07.05.2018 n. 2715) nel senso che la disciplina delle tettoie non è definita in modo univoco né nella normativa né in giurisprudenza.
Dal punto di vista normativo, va considerato l’art. 6 del T.U. 06.06.2001 n. 380, che contiene l’elenco delle opere di cd edilizia libera, le quali non necessitano di alcun titolo abilitativo; a prescindere dalla natura esemplificativa o tassativa che si voglia riconoscere a tale elenco, va poi osservato che esso comprende voci di per sé abbastanza generiche, tali da poter ricomprendere anche opere non espressamente nominate.
Con riferimento alle tettoie, rileva in particolare la voce di cui alla lettera e)-quinquies, che considera opere di edilizia libera gli “elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici”, concetto nel quale può sicuramente rientrare una tettoia genericamente intesa, come copertura comunque realizzata di un’area pertinenziale, come il terrazzo.
La norma è stata introdotta dall’art. 3 del d.lgs. 25.11.2016 n. 222, ma si deve considerare applicabile anche alle costruzioni precedenti, come quella per cui è causa, per due ragioni. In primo luogo, nel diritto delle sanzioni è principio generale quello per cui non si possano subire conseguenze sfavorevoli per un comportamento in ipotesi illecito nel momento in cui è stato realizzato, che più non lo sia quando si tratti di applicare le sanzioni stesse. In secondo luogo, la giurisprudenza di cui subito si dirà, anche in epoca anteriore alla modifica legislativa di cui s’è detto, distingueva all’interno della categoria in esame costruzione da costruzione assoggettandola a regime diverso a seconda delle sue caratteristiche.
In materia, è poi intervenuto di recente un chiarimento da parte del legislatore, ovvero il recente D.M. 02.03.2018, di “Approvazione del glossario contenente l'elenco non esaustivo delle principali opere edilizie realizzabili in regime di attività edilizia libera”, ai sensi dell'articolo 1, comma 2, del citato d.lgs. 222/2016.
Tale decreto comprende, al n. 50 del glossario delle opere realizzabili senza titolo edilizio alcuno, in particolare le cd pergotende, ovvero, per comune esperienza, strutture di copertura di terrazzi e lastrici solari, di superficie anche non modesta, formate da montanti ed elementi orizzontali di raccordo e sormontate da una copertura fissa o ripiegabile formata da tessuto o altro materiale impermeabile, che ripara dal sole, ma anche dalla pioggia, aumentando la fruibilità della struttura. Si tratta quindi di un manufatto molto simile alla tettoia, che se ne distingue secondo logica solo per presentare una struttura più leggera.
Al polo opposto, v’è l’art. 10, comma 1, lettera a), del T.U. 380/2001, che assoggetta invece al titolo edilizio maggiore, ovvero al permesso di costruire, “gli interventi di nuova costruzione”.
La giurisprudenza si fonda su tale ultima disposizione per richiedere appunto il permesso di costruire nel caso di tettoie di particolari dimensioni e caratteristiche. Si afferma infatti in via generale che tale struttura costituisce intervento di nuova costruzione e richiede il permesso di costruire nel momento in cui difetta dei requisiti richiesti per le pertinenze e gli interventi precari, ovvero quando modifica la sagoma dell’edificio: fra le molte, C.d.S. sez. IV 08.01.2018 n. 12 e sez. VI 16.02.2017 n. 694.
2.3 Sulla base di tale quadro normativo emerge chiara una conseguenza: non è possibile affermare in assoluto che la tettoia richieda, o non richieda, il titolo edilizio maggiore e assoggettarla, o non assoggettarla, alla relativa sanzione senza considerare nello specifico come essa è realizzata. In proposito, quindi, l’amministrazione ha l’onere di motivare in modo esaustivo, attraverso una corretta e completa istruttoria che rilevi esattamente le opere compiute e spieghi per quale ragione esse superano i limiti entro i quali si può trattare di una copertura realizzabile in regime di edilizia libera.
Ciò a maggior ragione nel caso di specie, a fronte della limitata estensione e consistenza del manufatto, sia in relazione alla necessità di esplicare le ragioni sottese alla reputata contrarietà al vincolo esistente in loco ed alla sussistenza della rilevata alterazione dell'aspetto esteriore dei luoghi. A quest’ultimo riguardo infatti, solo una corretta ricostruzione e qualificazione del manufatto costituisce la necessaria base su cui svolgere la doverosa valutazione di carattere paesaggistico.
Tutto ciò non si ritrova nel provvedimento impugnato, che si limita ad una descrizione generica di quanto rilevato, a fronte della quale, si noti, la difesa di parte appellante ha sin dal ricorso di prime cure evidenziato una serie di elementi in fatto, a partire dalle dimensioni inferiori ai sei mq, dal fatto di non essere infissa al suolo e dalla stretta pertinenzialità rispetto al manufatto esistente.
2.4 Va quindi ribadito che non ogni opera che interessi la superficie esterna dell’edificio determina una automatica alterazione dei luoghi soggetti a tutela, ma esclusivamente quella che ne immuti le caratteristiche essenziali in maniera rilevante; spetta alla p.a. l’onere di esplicare, una volta verificata la consistenza del manufatto, la rilevata alterazione.
...
4. Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello va accolto in ordine ai profili indicati; per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, va accolto il ricorso di primo grado (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 09.10.2018 n. 5781 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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EDILIZIA PRIVATA: E' necessaria l’autorizzazione paesaggistica per la demolizione di immobili vincolati?
La mancanza dell’autorizzazione paesaggistica, in ordine all’intervento di demolizione di un immobile vincolato, determina l’illegittimità derivata di quella adottata con riferimento all’intervento di ricostruzione, nonché del permesso di costruire, in quanto rilasciato sulla base di un presupposto errato.
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Con motivi aggiunti, i ricorrenti impugnavano altresì il permesso di costruire, conclusivo del procedimento, deducendo, oltre le censure già proposte nell’originaria impugnazione, la violazione degli artt. 142, 146 e 167 d.lgs. 22.01.2004 n. 42, argomentata sull’assunto che non era stato richiesto e ottenuto il nulla osta necessario per demolire la preesistente costruzione, insistente su area gravata da vincolo paesaggistico.
L’area interessata dall’intervento si colloca infatti ad una distanza inferiore a 150 mt. dal corso dei Torrenti Piscio e Chiappe senza che, ratione temporis, possa trovare applicazione l’esclusione dal vincolo per le zone territoriali omogenee A e B di cui al d.m. 02.04.1968 n. 1444.
...
18. Nel merito, ai fini del decidere, riveste carattere logicamente pregiudiziale, come del resto messo in luce dallo stesso TAR per la Liguria nella sentenza n. 1002 del 25.06.2014, la questione relativa alla necessità dell’autorizzazione paesaggistica in ordine all’intervento di demolizione.
La mancanza di quest’ultima, ove effettivamente necessaria, appare infatti idonea a determinare l’illegittimità dell’intervento nel suo complesso, sia sotto il profilo edilizio che paesaggistico.
Al riguardo, le doglianze svolte dagli appellanti, appaiono manifestamente fondate.
18.1. Come noto, ai sensi dell’art. 1 del 27.06.1985, n. 312, convertito in legge con modificazioni, con l’art. 1 della l. n. 431 del 1985 (che ha aggiunto 9 commi all’art. 82 del d.P.R. n. 616 del 1977) «Sono sottoposti a vincolo paesaggistico ai sensi della legge 29.06.1939, n. 1497», tra gli altri, «c) i fiumi, i torrenti ed i corsi d’acqua iscritti negli elenchi di cui al testo unico delle disposizioni di legge sulle acque ed impianti elettrici, approvato con regio decreto 11.12.1933, n. 1775, e le relative sponde o piede degli argini per una fascia di 150 metri ciascuna».
Tuttavia «Il vincolo di cui al precedente comma non si applica alle zone A, B e -limitatamente alle parti ricomprese nei piani pluriennali di attuazione- alle altre zone, come delimitate negli strumenti urbanistici ai sensi del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444, e, nei comuni sprovvisti di tali strumenti, ai centri edificati perimetrati ai sensi dell’art. 18 della legge 22.10.1971, n. 865».
Tali disposizioni sono state poi riprodotte nell’art. 146 del d.lgs. n. 490 del 1999 e quindi nell’art. 142 del d.lgs. n. 42/2004 (così come sostituito dall'art. 12, comma 1, d.lgs. 24.03.2006, n. 157, successivamente integrato e modificato dal d.lgs. n. 63 del 2008), in particolare nel comma 2, secondo cui, «La disposizione di cui al comma 1, lettere a), b), c), d), e), g), h), l), m), non si applica alle aree che alla data del 06.09.1985:
   a) erano delimitate negli strumenti urbanistici, ai sensi del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444, come zone territoriali omogenee A e B;
   b) erano delimitate negli strumenti urbanistici ai sensi del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444, come zone territoriali omogenee diverse dalle zone A e B, limitatamente alle parti di esse ricomprese in piani pluriennali di attuazione, a condizione che le relative previsioni siano state concretamente realizzate;
   c) nei comuni sprovvisti di tali strumenti, ricadevano nei centri edificati perimetrati ai sensi dell'articolo 18 della legge 22.10.1971, n. 865
».
Le specificazioni contenute in tali disposizioni, come noto, rappresentano la trasposizione dell’interpretazione delle norme originariamente contenute nella legge Galasso, quale consolidatasi nell’elaborazione giurisprudenziale.
La tesi sostenuta dalle parti resistenti in primo grado e avallata dal TAR è che ai fini dello sgravio dal vincolo, rileverebbe anche solo il piano adottato in quanto, da un lato, la delimitazione delle zone A e B avrebbe natura meramente “accertativa” delle zone antropiche ed urbanizzate, dall’altro «l’approvazione del PRG –oltretutto confermativa […] delle opzioni contenute nella delibera di adozione– nulla aggiunge in termini di delimitazione delle aree urbanizzate sottratte (per loro intrinseca caratteristica) al vincolo. In ogni caso, trattandosi d’accertamento dichiarativo, la delimitazione opera ex tunc: ossia, fin dall’adozione del P.R.G. cui faccia seguito l’approvazione».
E’ tuttavia destituita di fondamento, in primo luogo, l’argomentazione secondo cui, sia pure ai soli fini di cui trattasi, l’approvazione del P.R.G. abbia efficacia retroattiva.
Al contrario, è giurisprudenza del tutto pacifica quella secondo cui il piano regolatore (oggi variamente denominato nelle legislazioni regionali) è un atto complesso, il cui procedimento si conclude solo con l’approvazione da parte della Regione.
Gli unici effetti anticipati del piano adottato dal Consiglio comunale concernono le misure di salvaguardia le quali giustificano il diniego di concessioni difformi (cfr. Cons. St., Adunanza plenaria, n. 1 del 09.03.1983; cfr. anche cfr., Consiglio di Stato, sez. V, 06.12.2007, n. 6226, relativa a vicenda per certi versi speculare a quella qui in esame).
In secondo luogo, le previsioni del Piano regolatore non possono avere effetti “dichiarativi”, semplicemente perché la loro funzione è quella di disciplinare e ordinare gli usi e le trasformazioni del territorio.
Come, ancora da ultimo, ricordato da questo Consiglio, anche «la c.d. “zonizzazione” non postula e non presuppone solo l’individuazione di un territorio -ossia una operazione puramente ricognitiva- bensì la qualificazione di esso, e pertanto una valutazione, alla stregua delle categorie offerte dal legislatore» (Cons. Stato, Sez. IV, 28.06.2018, n. 3987).
Per quanto poi specificamente concerne i vincoli paesistici ex lege, si è già accennato al fatto che, secondo la giurisprudenza amministrativa formatasi in merito alla legge Galasso, «la possibilità di deroga al vincolo paesaggistico riguarda soltanto le aree comprese in previsioni urbanistiche già approvate alla data di entrata in vigore della legge e non può essere estesa ai successivi atti programmatori» (Cons. St., Sez. V, 01.04.2011, n. 2015, che richiama Sez. VI, 04.12.1996, n. 1679; id., 22.04.2004, n. 2332, secondo cui la disciplina statale ancora l’esclusione dal vincolo paesaggistico predisposto per legge alla delimitazione dei terreni negli strumenti urbanistici come zone A e B ad una data determinata, e cioè al 06.09.1985, epoca di entrata in vigore della l. n. 431 del 1985).
Non appare poi inutile ricordare quale fosse la ragione della deroga ivi introdotta al regime ordinario di tutela paesistica.
Essa aveva infatti lo scopo di consentire la realizzazione di opere già avviate in esecuzione dei piani vigenti all’entrata in vigore della legge (Cons. Stato, Sez. VI, 02.10.2007, n. 5072, con riferimento ai piani pluriennali di attuazione) nonché in relazione ad aree già urbanizzate o comunque «oggetto di una pianificazione che ha ritenuto maturo il tempo dell’esecuzione di interventi sul territorio» (Cass. pen., Sez. III, 17.12.1997, n. 3882,; cfr. anche 30.03.1999, n. 5923).
Va ancora soggiunto, nel caso di specie, che -anche a volere operare una comparazione tra la disciplina del piano vigente nel Comune di Rapallo all’epoca per cui è causa e le classificazioni contenute nel d.m. 02.04.1968 relativamente alle zone territoriali omogenee- non vi è alcuna prova, in atti, che il borgo di Case di Noè, all’epoca di entrata in vigore della legge Galasso, fosse una zona già urbanizzata ovvero matura per l’edificazione (nei sensi cui di cui al suddetto d.m., alla stregua del quale le zone B sono «le parti del territorio totalmente o parzialmente edificate, diverse dalle zone A): si considerano parzialmente edificate le zone in cui la superficie coperta degli edifici esistenti non sia inferiore al 12,5% (un ottavo) della superficie fondiaria della zona e nelle quali la densità territoriale sia superiore ad 1,5 mc/mq»).
Semmai, vi è prova del contrario.
Dalla nota dell’Ufficio Gestione del Territorio del Comune di Rapallo in data 17.06.2016, prodotta dagli appellanti, si evince infatti che, alla stregua del P.R.G. approvato nel 1961, l’immobile oggetto dell’intervento all’odierno esame era «ricompreso in zona “G rurale”.
Al riguardo, è poi significativo che, ancora in una delibera comunale dell’anno 2009 (n. 188 del 29.12.2009) e quindi, in epoca ben successiva all’entrata in vigore della Legge Galasso, il borgo di Case di Noé venga descritto come un insediamento «di particolare pregio e valore storico» nonché rappresentativo «di un modello aggregativo del sistema insediativo agricolo rurale nella cui strutturazione formale e d'immagine, episodi di accorpamento ed integrazione volumetrica potrebbero inserire elementi di incongruità e discontinuità tali da comprometterne l'unitarietà percettiva».
Tali espressioni, invero, mal si attagliano ad una zona urbanizzata, quale ipotizzata dalle decisioni impugnate.
19. I rilievi che precedono appaiono invero assorbenti ai fini dell’accoglimento degli appelli, poiché la mancanza dell’autorizzazione paesaggistica in ordine all’intervento di demolizione determina l’illegittimità derivata di quella adottata con riferimento all’intervento di ricostruzione, nonché del permesso di costruire, in quanto rilasciato sulla base di un presupposto errato (cfr., per una compiuta analisi del rapporto tra i due titoli abilitativi Cons. St., Sez. IV, 14.12.2015, n. 5663) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.10.2018 n. 5945 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

URBANISTICA: Termine massimo di dieci anni di validità del piano di lottizzazione.
Il termine massimo di dieci anni di validità del piano di lottizzazione, stabilito dall’art. 16, quinto comma, della L. 17.08.1942 n. 1150 per i piani particolareggiati, non è suscettibile di deroga neppure sull’accordo delle parti e decorre non dalla data di sottoscrizione della convenzione attuativa ma da quella di approvazione del piano attuativo.
La convenzione, atto accessorio deputato alla regolazione dei rapporti tra il soggetto esecutore delle opere e il Comune con riferimento agli adempimenti derivanti dal piano medesimo, non può infatti incidere sulla validità massima, prevista in legge, del sovrastante strumento di pianificazione secondaria.
Conseguentemente, una volta che il piano di lottizzazione abbia perso efficacia, è illegittimo il provvedimento che ne dispone una proroga.

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La giurisprudenza del Consiglio di Stato ribadisce, ancora di recente, che “l’art. 16, comma 5, della legge urbanistica n. 1150 del 1942 […] stabilisce in dieci anni il termine entro il quale il piano particolareggiato dovrà essere attuato e la giurisprudenza [chiarisce] che il termine decennale di efficacia dei piani particolareggiati è applicabile anche ai piani di lottizzazione”.
Inoltre, “la giurisprudenza […] ha […] modo di chiarire, giungendo a conclusioni dalle quali questo Collegio non ha ragioni per discostarsi, in relazione all’obiezione che il termine decennale di efficacia dei piani particolareggiati non potrebbe essere applicato in via di analogia alle lottizzazioni, in quanto sarebbe stabilito per i primi (piani particolareggiati) sol perché impongono vincoli espropriativi ai proprietari dei suoli, quanto segue:
   - la legge urbanistica stabilisce espressamente la durata degli altri strumenti urbanistici che disciplina: di quelli generali (il piano territoriale di coordinamento ed il piano regolatore generale, in vigore a tempo indeterminato ex artt. 6 e 11 della legge urbanistica) e del piano particolareggiato, avente la durata di dieci anni per espressa previsione dell’art. 17 della stessa legge;
   - la durata massima dei piani di lottizzazione, se ad essi non fosse applicabile il termine decennale di efficacia dei piani particolareggiati, sarebbe quella, indeterminata, degli strumenti urbanistici generali, invece di quella decennale dello strumento urbanistico attuativo, il che costituirebbe di per sé motivo di incoerenza;
   - non giova, inoltre, rilevare che l’art. 28 della legge n. 1150 del 1942, come modificato dall’art. 8 della l. 06.08.1967 n. 765, preveda un termine decennale soltanto per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione e non per l’edificazione dei singoli lotti, tenuto conto che la fissazione di un termine risponde ad un preminente interesse pubblico, non soltanto per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione, ma anche per l’edificazione dei lotti;
   - il disegno di fissazione di un termine di decadenza per le licenze prima, poi per le concessioni edilizie e poi, ancora, per i permessi di costruire, diretto ad assicurare l’effettività e l’attualità delle nuove previsioni urbanistiche, sarebbe incompleto alla fonte se, prima del rilascio del titolo abilitativo, le lottizzazioni convenzionate avessero l’efficacia di condizionare a tempo indeterminato, con l’affidamento dei suoi titolari, la pianificazione urbanistica futura;
   - alla scadenza del piano di lottizzazione sopravvivono, esclusivamente, la destinazione di zona, la destinazione ad uso pubblico di un bene privato, gli allineamenti, le prescrizioni di ordine generale e quant’altro attenga all’armonico assetto del territorio, trattandosi di misure che devono rimanere inalterate fino all’intervento di una nuova pianificazione, non essendo la stessa condizionata all’eventuale scadenza di vincoli espropriativi o di altra natura ma tutti caratterizzati dall’avere contenuto specifico e puntuale”.
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Dello stesso avviso si mostra la giurisprudenza di questo Tribunale secondo cui:
   - “il Piano di lottizzazione ha durata decennale, di talché decorso infruttuosamente il suddetto termine lo strumento attuativo perde efficacia;
   - né è ipotizzabile l'ultrattività delle previsioni del Piano di lottizzazione decennale, in quanto la prosecuzione degli effetti oltre il detto termine decennale confligge con la finalità sottesa alla fissazione del termine de quo coincidente con l'esigenza di assicurare effettività e attualità alle previsioni urbanistiche, non potendo le lottizzazioni convenzionate condizionare a tempo indeterminato la pianificazione urbanistica futura;
   - è irrilevante, ai fini delle conseguenze connesse alla scadenza del termine decennale di efficacia del piano di lottizzazione, la circostanza che l'impossibilità della mancata attuazione sia dovuta alla pubblica amministrazione o al privato lottizzante”.
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Declinando i principi esposti al caso di specie, può osservarsi che il piano di lottizzazione in esame risulta approvato con le delibere consiliari n. 27 del 01.06.2004 e n. 48 del 29.09.2004; la convenzione di lottizzazione è stipulata solo in data 30.07.2015.
Ora, se è vero che, secondo la giurisprudenza, il termine di validità decennale del piano di lottizzazione decorre dalla data di stipula della relativa convenzione, deve osservarsi che tale affermazione si ricollega “in primo luogo, al fatto che, in via normale, all’approvazione del piano di lottizzazione segue, in tempi ragionevoli, la stipula della relativa convenzione”.
Come affermato di recente, tuttavia, “la circostanza della mancata stipula della convenzione non possa ragionevolmente costituire legittimo motivo per cui il piano di lottizzazione abbia validità a tempo indeterminato,
   - sia perché a ciò osta il dato letterale della disposizione di cui all’art. 16, quinto comma, della L. 17.08.1942 n. 1150 relativamente ai piani particolareggiati, che fa esclusivamente riferimento al “tempo, non maggiore di anni dieci, entro il quale il piano particolareggiato dovrà essere attuato”;
   - sia perché deve comunque ritenersi prevalente la ratio della norma per cui le previsioni di un piano particolareggiato o di un piano di lottizzazione devono avere una determinata e certa durata temporale, con conseguente scadenza di validità del piano medesimo, al fine di garantire l’adeguatezza e rispondenza di tali previsioni agli interessi pubblici e privati riferiti al periodo di validità del piano, con la conseguente e ragionevole necessità che dopo un certo periodo di tempo (10 anni) si debba necessariamente procedere ad una rivalutazione di tali interessi pubblici e privati coinvolti nelle scelte urbanistiche in questione.
Tali conclusioni devono ritenersi avvalorate dai principi giurisprudenziali in materia secondo cui “il termine massimo di dieci anni di validità del piano di lottizzazione, stabilito dall’art. 16, quinto comma, della L. 17.08.1942 n. 1150 per i piani particolareggiati non è suscettibile di deroga neppure sull’accordo delle parti e decorre dalla data di completamento del complesso procedimento di formazione del piano attuativo.
Ciò in quanto la convenzione è per certo un atto accessorio al Piano di lottizzazione, deputato alla regolazione dei rapporti tra il soggetto esecutore delle opere e il Comune con riferimento agli adempimenti derivanti dal Piano medesimo, ma che non può incidere sulla validità massima, prevista in legge, del sovrastante strumento di pianificazione secondaria”.

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1. Parte ricorrente censura la deliberazione del Consiglio Comunale di Livigno n. 63 del 29.09.2014 con la quale l’Ente provvede a prorogare i termini di efficacia del Piano di Lottizzazione approvato con le delibere n. 27 del 01.06.2004 e n. 48 del 29.09.2004 e finalizzato alla realizzazione di un insediamento a destinazione industriale idoneo a soddisfare le richieste di nuovi insediamenti produttivi e di trasferimento degli insediamenti esistenti in Livigno.
Articola due motivi di ricorso facendo valere l’illegittimità della proroga per violazione della normativa richiamata che imporrebbe un termine di efficacia pari a dieci anni e per mancata esplicitazione delle ragioni fattuali e giuridiche a sostegno della proroga.
Con il primo ricorso per motivi aggiunti la sig.ra Ga. impugna la delibera della Giunta comunale n. 51 del 20.05.2017 per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione primaria del PLU, e chiede, inoltre, che sia dichiarati nulli e/o inefficaci:
   a) la convenzione di lottizzazione stipulata tra il Comune di Livigno e la Co.Ar.Li.;
   b) l’atto di ricomposizione fondiaria di pari data;
   c) l’accordo per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione primaria previsto dagli atti impugnati. Con tale atto la ricorrente deduce, in primo luogo, l’invalidità derivata del provvedimento impugnato richiamando i motivi articolati nel ricorso principale. Propone, inoltre, un unico motivo di ricorso per invalidità propria del provvedimento impugnato rubricato: “Violazione dell’articolo 78, comma 2, del d.lgs. 267/2000”.
Con l’ultimo ricorso per motivi aggiunti la sig.ra Ga. chiede a questo Tribunale di accertare e dichiarare il diritto alla retrocessione del terreno identificato catastalmente al foglio 49, mappale 475 del N.C.T. del Comune di Livigno, previa eventuale concessione di “un termine per la chiedere alla Commissione provinciale espropri la determinazione dell’indennità di cui all’articolo 46, comma 1, del D.P.R. 327/2001 e con deposito o pagamento diretto (in caso di accettazione) della predetta indennità, da effettuarsi nei modi, nei termini [ritenuti] di giustizia”.
...
2. Entrando nel merito del ricorso introduttivo si osserva che il primo motivo deve ritenersi fondato alla luce delle considerazione che seguono.
2.1. La giurisprudenza del Consiglio di Stato ribadisce, ancora di recente, che “l’art. 16, comma 5, della legge urbanistica n. 1150 del 1942 […] stabilisce in dieci anni il termine entro il quale il piano particolareggiato dovrà essere attuato e la giurisprudenza [chiarisce] che il termine decennale di efficacia dei piani particolareggiati è applicabile anche ai piani di lottizzazione (cfr. Cons. Stato, IV, 10.08.2011, n. 4761, che richiama Cons. Stato, VI, 20.01.2003, n. 200)”.
Inoltre, “la giurisprudenza […] (cfr. Cons. Stato, IV, n. 4036 del 2017; V, n. 6823 del 2013; IV, 06.04.2012, n. 2045) ha […] modo di chiarire, giungendo a conclusioni dalle quali questo Collegio non ha ragioni per discostarsi, in relazione all’obiezione che il termine decennale di efficacia dei piani particolareggiati non potrebbe essere applicato in via di analogia alle lottizzazioni, in quanto sarebbe stabilito per i primi (piani particolareggiati) sol perché impongono vincoli espropriativi ai proprietari dei suoli, quanto segue:
   - la legge urbanistica stabilisce espressamente la durata degli altri strumenti urbanistici che disciplina: di quelli generali (il piano territoriale di coordinamento ed il piano regolatore generale, in vigore a tempo indeterminato ex artt. 6 e 11 della legge urbanistica) e del piano particolareggiato, avente la durata di dieci anni per espressa previsione dell’art. 17 della stessa legge;
   - la durata massima dei piani di lottizzazione, se ad essi non fosse applicabile il termine decennale di efficacia dei piani particolareggiati, sarebbe quella, indeterminata, degli strumenti urbanistici generali, invece di quella decennale dello strumento urbanistico attuativo, il che costituirebbe di per sé motivo di incoerenza;
   - non giova, inoltre, rilevare che l’art. 28 della legge n. 1150 del 1942, come modificato dall’art. 8 della l. 06.08.1967 n. 765, preveda un termine decennale soltanto per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione e non per l’edificazione dei singoli lotti, tenuto conto che la fissazione di un termine risponde ad un preminente interesse pubblico, non soltanto per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione, ma anche per l’edificazione dei lotti;
   - il disegno di fissazione di un termine di decadenza per le licenze prima, poi per le concessioni edilizie e poi, ancora, per i permessi di costruire, diretto ad assicurare l’effettività e l’attualità delle nuove previsioni urbanistiche, sarebbe incompleto alla fonte se, prima del rilascio del titolo abilitativo, le lottizzazioni convenzionate avessero l’efficacia di condizionare a tempo indeterminato, con l’affidamento dei suoi titolari, la pianificazione urbanistica futura;
   - alla scadenza del piano di lottizzazione sopravvivono, esclusivamente, la destinazione di zona, la destinazione ad uso pubblico di un bene privato, gli allineamenti, le prescrizioni di ordine generale e quant’altro attenga all’armonico assetto del territorio, trattandosi di misure che devono rimanere inalterate fino all’intervento di una nuova pianificazione, non essendo la stessa condizionata all’eventuale scadenza di vincoli espropriativi o di altra natura ma tutti caratterizzati dall’avere contenuto specifico e puntuale
” (Consiglio di Stato, sez. IV, 18.05.2018, n. 3002).
2.2. Dello stesso avviso si mostra la giurisprudenza di questo Tribunale (TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. IV, 17.08.2018, n. 2001) secondo cui:
   - “il Piano di lottizzazione ha durata decennale, di talché decorso infruttuosamente il suddetto termine lo strumento attuativo perde efficacia (Cons. Stato Sez. VI 20/01/2003 n. 200; Consiglio di Stato, sez. IV, 27/04/2015, n. 2109; idem 25/07/2001 n. 4073);
   - né è ipotizzabile l'ultrattività delle previsioni del Piano di lottizzazione decennale, in quanto la prosecuzione degli effetti oltre il detto termine decennale confligge con la finalità sottesa alla fissazione del termine de quo coincidente con l'esigenza di assicurare effettività e attualità alle previsioni urbanistiche, non potendo le lottizzazioni convenzionate condizionare a tempo indeterminato la pianificazione urbanistica futura (Cons. Stato Sez. IV 29/11/2010 n. 8384; idem 13/04/2005 n. 1543);
   - è irrilevante, ai fini delle conseguenze connesse alla scadenza del termine decennale di efficacia del piano di lottizzazione, la circostanza che l'impossibilità della mancata attuazione sia dovuta alla pubblica amministrazione o al privato lottizzante (Cons. Stato, Sez. IV, 10/08/2011 n. 4761)
”.
2.3. Declinando i principi esposti al caso di specie, può osservarsi che il piano di lottizzazione in esame risulta approvato con le delibere consiliari n. 27 del 01.06.2004 e n. 48 del 29.09.2004; la convenzione di lottizzazione è stipulata solo in data 30.07.2015. Ora, se è vero che, secondo la giurisprudenza, il termine di validità decennale del piano di lottizzazione decorre dalla data di stipula della relativa convenzione, deve osservarsi che tale affermazione si ricollega “in primo luogo, al fatto che, in via normale, all’approvazione del piano di lottizzazione segue, in tempi ragionevoli, la stipula della relativa convenzione”.
Come affermato di recente, tuttavia, “la circostanza della mancata stipula della convenzione non possa ragionevolmente costituire legittimo motivo per cui il piano di lottizzazione abbia validità a tempo indeterminato, sia perché a ciò osta il dato letterale della disposizione di cui all’art. 16, quinto comma, della L. 17.08.1942 n. 1150 relativamente ai piani particolareggiati, che fa esclusivamente riferimento al “tempo, non maggiore di anni dieci, entro il quale il piano particolareggiato dovrà essere attuato”; sia perché deve comunque ritenersi prevalente la ratio della norma per cui le previsioni di un piano particolareggiato o di un piano di lottizzazione devono avere una determinata e certa durata temporale, con conseguente scadenza di validità del piano medesimo, al fine di garantire l’adeguatezza e rispondenza di tali previsioni agli interessi pubblici e privati riferiti al periodo di validità del piano, con la conseguente e ragionevole necessità che dopo un certo periodo di tempo (10 anni) si debba necessariamente procedere ad una rivalutazione di tali interessi pubblici e privati coinvolti nelle scelte urbanistiche in questione.
Tali conclusioni devono ritenersi avvalorate dai principi giurisprudenziali in materia secondo cui “il termine massimo di dieci anni di validità del piano di lottizzazione, stabilito dall’art. 16, quinto comma, della L. 17.08.1942 n. 1150 per i piani particolareggiati non è suscettibile di deroga neppure sull’accordo delle parti e decorre dalla data di completamento del complesso procedimento di formazione del piano attuativo (Cons. Stato, Sez. IV, 11.03.2003 n. 1315).
Ciò in quanto la convenzione è per certo un atto accessorio al Piano di lottizzazione, deputato alla regolazione dei rapporti tra il soggetto esecutore delle opere e il Comune con riferimento agli adempimenti derivanti dal Piano medesimo, ma che non può incidere sulla validità massima, prevista in legge, del sovrastante strumento di pianificazione secondaria” (Consiglio di Stato n. 1574/2013)
” (TAR per la Sardegna, sez. II, 22.01.2018, n. 36; nello stesso senso, cfr. TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. IV, 17.08.2018, cit.).
2.4. Pertanto, nel caso in esame, il Piano di lottizzazione ha perso di efficacia per intervenuto decorso del termine decennale di legge. Non assumono rilievo le circostanze addotte dall’Amministrazione (e censurate con il secondo motivo del ricorso introduttivo) atteso che, come già spiegato, non determina conseguenze in ordine al termine decennale di efficacia del piano di lottizzazione il fatto che l'impossibilità della mancata attuazione sia dovuta alla pubblica Amministrazione o al privato lottizzante.
2.4. Nel caso all’attenzione del Collegio, deve, quindi ritenersi che il Piano di Lottizzazione abbia perso efficacia e sia illegittimo il provvedimento che ne dispone una proroga in quanto contrario alle previsione di legge e alle relative rationes indicate nella precedente esposizione.
Di conseguenza va accolto il ricorso introduttivo e il primo ricorso per motivi aggiunti per illegittimità derivata degli atti ivi impugnati.
Può ritenersi assorbito il motivo di invalidità propria fatto valere con il primo ricorso per motivi aggiunti
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 12.10.2018 n. 2265 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Se la pavimentazione del giardino, per una superficie di 35 metri quadrati, rientri -o meno- nell’attività edilizia libera.
Le previsioni dell’articolo 6 del d.P.R. n. 380 del 2001 sono da ritenere di stretta interpretazione, in quanto dirette ad affermare l’irrilevanza urbanistica ed edilizia delle opere in essi contemplate, con la conseguente sottrazione alla regola del regime di controllo pubblico sugli interventi edilizi.
Ne deriva che le opere indicate possono ritenersi effettivamente rientranti nel perimetro di applicazione della previsione normativa soltanto laddove, per le loro caratteristiche in concreto, siano del tutto inidonee a influire in modo rilevante sullo stato dei luoghi, e quindi non determinino una significativa trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio.
In questa prospettiva, deve escludersi che, nell’assoggettare al regime di edilizia libera la realizzazione di interventi di pavimentazione di spazi esterni, entro i prescritti limiti di permeabilità del fondo, il legislatore abbia inteso consentire la facoltà di coprire liberamente e senza alcun titolo qualunque estensione di suolo inedificato, salvo soltanto il rispetto di tali limiti. E ciò in quanto la pavimentazione di aree esterne:
   (i) è di per sé idonea a trasformare permanentemente porzioni di suolo inedificato;
   (ii) riduce la superficie filtrante, con la conseguenza che –anche se contenuta nei prescritti limiti di permeabilità– incide comunque sul regime del deflusso delle acque dal terreno;
   (iii) è percepibile esteriormente, per cui presenta una potenziale rilevanza sotto il profilo dell’inserimento delle opere nel contesto urbano;
   (iv) determina la creazione di una superficie utile, benché non di nuova volumetria.
Un’interpretazione della previsione normativa sopra richiamata diretta ad assicurarne la coerenza con il fondamentale canone di ragionevolezza di cui all’articolo 3 della Costituzione impone perciò di ritenere che gli interventi di pavimentazione, anche ove contenuti entro i limiti di permeabilità del fondo, siano realizzabili in regime di edilizia libera soltanto laddove presentino una entità minima, sia in termini assoluti, che in rapporto al contesto in cui si collocano e all’edificio cui accedono.
Solo in presenza di queste condizioni tali opere possono infatti ritenersi realmente irrilevanti dal punto di vista urbanistico ed edilizio, e quindi sottratte al controllo operato dal Comune attraverso il titolo edilizio.
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13.2 La parte ricorrente afferma, poi, che la pavimentazione del giardino del signor La., per una superficie di 35 metri quadrati, rientrerebbe nell’attività edilizia libera, in quanto sarebbe dimostrato, in base alla relazione tecnica depositata agli atti del giudizio, che le opere non ostacolano la permeabilità del fondo.
13.2.1 Al riguardo, occorre tenere presente che l’articolo 6, comma 2, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001, nel testo vigente al tempo dell’adozione dell’ordinanza impugnata, assoggettava al regime dell’edilizia libera, subordinandole a una mera comunicazione dell’inizio dei lavori, “le opere di pavimentazione e di finitura di spazi esterni, anche per aree di sosta, che siano contenute entro l’indice di permeabilità, ove stabilito dallo strumento urbanistico comunale, ivi compresa la realizzazione di intercapedini interamente interrate e non accessibili, vasche di raccolta delle acque, locali tombati”.
13.2.2 Ciò posto, deve anzitutto rilevarsi che l’osservanza delle prescrizioni in tema di permeabilità non risulta effettivamente dimostrata, atteso che nella relazione tecnica della parte ricorrente si afferma bensì il rispetto dell’indice di permeabilità stabilito per l’intervento di lottizzazione, ma si evidenzia anche che, in base all’articolo 71 del Regolamento edilizio comunale, le pavimentazioni non carrabili devono essere almeno parzialmente permeabili e filtranti (v. doc. 3 della parte ricorrente, p. 3).
Nel caso oggetto del presente giudizio, la pavimentazione risulta essere stata realizzata con piastrelle, secondo quanto affermato nel ricorso, e non risulta, invece, allegato, né dimostrato, l’impiego di materiali filtranti. Né può assumere rilievo il fatto che sia stata lasciata una striscia di terreno libera lungo il perimetro della proprietà e sia stato realizzato un pozzo perdente per le acque reflue. Tali accorgimenti, infatti, non equivalgono a quanto prescritto dalla richiamata previsione regolamentare, la quale richiede che le superfici pavimentate debbano risultare almeno in parte permeabili dalle acque.
13.2.3 In ogni caso, le previsioni dell’articolo 6 del d.P.R. n. 380 del 2001 sono da ritenere di stretta interpretazione, in quanto dirette ad affermare l’irrilevanza urbanistica ed edilizia delle opere in essi contemplate, con la conseguente sottrazione alla regola del regime di controllo pubblico sugli interventi edilizi. Ne deriva che le opere indicate possono ritenersi effettivamente rientranti nel perimetro di applicazione della previsione normativa soltanto laddove, per le loro caratteristiche in concreto, siano del tutto inidonee a influire in modo rilevante sullo stato dei luoghi, e quindi non determinino una significativa trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio.
In questa prospettiva, deve escludersi che, nell’assoggettare al regime di edilizia libera la realizzazione di interventi di pavimentazione di spazi esterni, entro i prescritti limiti di permeabilità del fondo, il legislatore abbia inteso consentire la facoltà di coprire liberamente e senza alcun titolo qualunque estensione di suolo inedificato, salvo soltanto il rispetto di tali limiti. E ciò in quanto la pavimentazione di aree esterne:
   (i) è di per sé idonea a trasformare permanentemente porzioni di suolo inedificato;
   (ii) riduce la superficie filtrante, con la conseguenza che –anche se contenuta nei prescritti limiti di permeabilità– incide comunque sul regime del deflusso delle acque dal terreno;
   (iii) è percepibile esteriormente, per cui presenta una potenziale rilevanza sotto il profilo dell’inserimento delle opere nel contesto urbano;
   (iv) determina la creazione di una superficie utile, benché non di nuova volumetria.
Un’interpretazione della previsione normativa sopra richiamata diretta ad assicurarne la coerenza con il fondamentale canone di ragionevolezza di cui all’articolo 3 della Costituzione impone perciò di ritenere che gli interventi di pavimentazione, anche ove contenuti entro i limiti di permeabilità del fondo, siano realizzabili in regime di edilizia libera soltanto laddove presentino una entità minima, sia in termini assoluti, che in rapporto al contesto in cui si collocano e all’edificio cui accedono. Solo in presenza di queste condizioni tali opere possono infatti ritenersi realmente irrilevanti dal punto di vista urbanistico ed edilizio, e quindi sottratte al controllo operato dal Comune attraverso il titolo edilizio.
13.2.3 Nel caso oggetto del presente giudizio, la pavimentazione esterna realizzata non può ritenersi di modesta entità, perché consiste nella copertura di una porzione di suolo libero di circa 35 metri quadrati. E tale superficie, oltre a essere di per sé non trascurabile, risulta rilevante anche in rapporto all’unità immobiliare interessata, atteso che dalla relazione tecnica della parte ricorrente si evince l’eliminazione di una porzione significativa del giardino della villetta, attuata in modo da lasciare libera solo una striscia di terreno inedificato sul perimetro della proprietà (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 06.09.2018 n. 2049 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

URBANISTICA: Opere da realizzare a scomputo oneri e obblighi di fatturazione.
Nella ipotesi di convenzione di lottizzazione, nella quale la realizzazione di un'opera pubblica a scomputo degli oneri di urbanizzazione è assoggettata ad Iva qualora l'opera non rientri tra quelle destinate ad esigenze di urbanizzazione primaria e secondaria, l'obbligo di fatturazione non insorge alla data di sottoscrizione della convenzione urbanistica, ma al compimento delle opere concordate con l'ente territoriale, ed al loro collaudo.
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Per priorità logica devono esaminarsi i motivi del ricorso incidentale.
Infatti la controversia de quo verte su due questioni, distinte ma l'una dall'altra dipendenti. La prima, introdotta con il ricorso principale della Agenzia, è relativa all'atto di irrogazione delle sanzioni comminate dall'Ufficio per l'asserito indebito rimborso dell'Iva (€ 1.180.000,00) inerente il primo trimestre dell'anno di imposta 2007.
Secondo la prospettazione della ricorrente principale erano assenti i presupposti previsti dall'art. 30, co. 3, lett. a), del d.P.R. n. 633 del 1972, per cui aveva contestato e notificato alla contribuente l'atto di irrogazione n. T9RIRI2000017/2012, con il quale, ai sensi dell'art. 13 del d.lgs. n. 471 del 1997, si comminava la sanzione pari al 30% dell'ammontare del suddetto rimborso. Sul punto la Commissione regionale non ha negato che il rimborso fosse indebito, ma ha ritenuto che le sanzioni previste dall'art. 13 fossero applicabili alle sole fattispecie relative all'omesso o tardivo versamento e non ai rimborsi.
A sua volta è però rilevante evidenziare che l'Amministrazione ha ritenuto indebito il rimborso in conseguenza del recupero a tassazione Iva della somma di € 969.853,00, di cui assumeva l'omessa fatturazione in relazione alla sottoscrizione della convenzione urbanistica intervenuta tra il Comune di Basiglio e la società contribuente, avvenuta il 28.03.2007. È infatti con la contestazione della maggiore iva dovuta e non fatturata nel primo trimestre 2007 che sono venuti meno i requisiti prescritti dall'art. 30 cit. per ottenere il rimborso infrannuale dell'iva trimestrale (1° trimestre 2007), altrimenti rimborsabile a conclusione dell'anno.
Ne discende che risalta prioritario verificare la correttezza della sentenza regionale, la cui statuizione, riconoscendo le ragioni dell'Ufficio in merito al recupero dell'Iva non fatturata in relazione alla data di sottoscrizione della convenzione urbanistica (salvo a riconoscere una riduzione, marginale, dell'importo, che non è tuttavia più in discussione), si riflette ovviamente anche sulla sussistenza o meno dei requisiti per la contestazione dell'indebito rimborso ottenuto dalla contribuente, già oggetto di controversia dinanzi al giudice regionale e conseguentemente di alcuni dei motivi del ricorso incidentale dinanzi a questa Corte.
Sempre in via preliminare deve peraltro premettersi che la vicenda che ci occupa attiene alla realizzazione di opere pubbliche a scomputo degli oneri di urbanizzazione, ma diverse da quelle primarie e secondarie, come tali dunque imponibili ai fini Iva, esulando dalla disciplina prevista della cessione ai Comuni di aree o di opere di urbanizzazione, già prevista dall'art. 51 della l. n. 342 del 2000 (abrogato dal d.l. n. 5 del 2012, conv. con modificazioni in l. n. 35 del 2012).
Ciò chiarito, la questione posta dalla società è se l'obbligo di fatturazione sia insorto alla data di sottoscrizione della convenzione urbanistica, come sostenuto dalla Agenzia, oppure al termine della realizzazione delle opere concordate con l'ente territoriale, ed al loro collaudo, come sostiene la società.
La sentenza impugnata sul punto afferma che «dall'esame delle questioni proposte in relazione all'avviso di accertamento, ritiene il Collegio che con la convenzione i rapporti inter partes siano stati definiti e, quindi, è a quella data che avrebbe dovuto essere emessa la fattura relativa, anche se i lavori sarebbero stati ancora da eseguire. A norma dell'art. 6, comma 3, del D.P.R. 26.10.1972, n. 633, "le prestazioni di servizi si considerano effettuate all'atto del pagamento del corrispettivo", con la conseguenza che, nel caso in cui i rapporti dare-avere siano definiti tra le parti, la relativa fattura deve essere emessa alla data dell'accordo raggiunto dalle parti. Infatti ciò che rileva è la contemporanea esistenza dei crediti contrapposti. Nella convenzione la società contribuente si era impegnata con il Comune per l'esecuzione di una rotatoria stradale, a scomputo delle somme dovute per gli oneri di urbanizzazione.».
A parte l'imprecisione sul riferimento solo ad alcune delle opere alla cui realizzazione la società si era impegnata, la sentenza è inequivoca nel ritenere che l'obbligo di emissione della fattura sia insorto alla data della stipula dell'accordo raggiunto tra le parti (dunque il 28.03.2007), riconducendo a quel momento la definizione dei rapporti dare-avere, inteso evidentemente come esecuzione delle prestazioni, e ritenendo pertanto verificatosi quanto prescritto dall'art. 6, co. 3, del d.P.R. n. 633 cit., ossia che le prestazioni di servizi si considerano effettuate all'atto del pagamento del corrispettivo. Questa interpretazione, propugnata dall'Ufficio, è criticata dalla contribuente.
In particolare essa con il primo motivo del ricorso incidentale, rivolto avverso la parte della sentenza che ha ad oggetto l'avviso di accertamento n. T9R031200658, si duole della violazione di legge in riferimento agli artt. 6, co. 3, e 11, co. 1, del d.P.R. n. 633 del 1972, nonché agli artt. 1197, 1141, 1142, 1143, 1362, 1363 c.c. In sintesi contesta che la convenzione urbanistica potesse rientrare in una fattispecie compensativa, con estinzione dei reciproci crediti al momento della sottoscrizione dell'accordo, e ne propugna l'inquadramento nella figura della datio in solutum, che prevede l'estinzione della obbligazione ad esecuzione della prestazione, ossia, per quello che qui interessa, ad esecuzione delle opere concordate con l'ente territoriale, e a collaudo delle medesime.
Il motivo è fondato.
Sebbene l'imposta sul valore aggiunto presenti peculiarità tutte proprie ai fini della imposizione delle operazioni economiche ad essa soggette, è tuttavia indiscutibile che l'emersione dell'obbligo di fatturazione dell'atto giuridico regolativo dell'operazione vada ricondotto, quando non diversamente stabilito dalla disciplina dell'imposta comunitaria, ai principi e alle regole del sistema giuridico. Sicché, con riferimento alla prestazione di servizi, la regola di emersione dell'obbligo di fatturazione non può prescindere dal significato attribuibile nel sistema giuridico al concetto di pagamento del corrispettivo, e cioè al momento dell'avvenuto pagamento del corrispettivo, quando ci si rapporta alla assunzione di obbligazioni derivanti dalla sottoscrizione di una convenzione urbanistica.
Nel caso che ci occupa la dimensione fattuale della vicenda è semplice e ad un tempo tipica e ricorrente.
Si tratta dell'ipotesi dell'impresa, proprietaria di un'area edificabile secondo lo strumento urbanistico vigente in un Comune, che in luogo dei computati oneri di urbanizzazione primari e secondari sottoscrive con l'Ente una "convenzione urbanistica per programma di intervento integrato", obbligandosi alla esecuzione di opere (ancorché non di natura primaria o secondaria) a scomputo degli oneri medesimi.
Questa operazione è inquadrata dalla sentenza (accogliendo la impostazione della Agenzia) nell'istituto della compensazione, affermandosi che con l'accordo tra le parti sarebbe insorto un (reciproco) rapporto di dare-avere definito tra le parti per la contemporanea esistenza di crediti contrapposti.
Questa la ricostruzione giuridica cui sottende l'accoglimento della tesi della Agenzia, non sembra a questo Collegio condivisibile l'assunto.
Intanto, pur solo per cenni, in ordine alla qualificazione giuridica delle convenzioni di urbanizzazione è stato condivisibilmente evidenziato, in dottrina e giurisprudenza (Cass., sent. n. 1366 del 1999 a proposito delle convenzioni di lottizzazione con cessione di terreni per la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria), che queste trovano collocazione tra i contratti con oggetto pubblico. Con esse l'Amministrazione dal suo canto realizza determinate finalità istituzionali, solo strumentalmente alle quali si originano a proprio favore diritti ed obbligazioni a contenuto patrimoniale; per altro verso, ma alle predette finalità asservite, sono precisati gli obblighi che il privato assume, sicché si sostiene che le convenzioni iscritte nella normativa pubblicistica relativa alle opere di urbanizzazione, e, può aggiungersi, più in generale nell'alveo dell'art. 11 della L. n. 241/1990, si configurano quali accordi endoprocedimentali dal contenuto vincolante, al fine dell'ottenimento di autorizzazioni urbanistico-edilizie (Cass., sent. n. 9314 del 2013).
In tal senso si è pertanto sostenuto che tali negozi sono conclusi in condizioni di disparità, laddove gli obblighi per la parte privata configurano atti dovuti, prestazioni patrimoniali aventi natura di obbligazioni propter rem (cfr. Cass., sent. 16401 del 2013; sent. n. 11196 del 2007), e di prestazione patrimoniale imposta, seguendo la titolarità del bene, anziché il soggetto originario contraente.
La sommatoria di queste considerazioni porta alla conclusione secondo cui non è ravvisabile un rapporto strettamente sinallagmatico tra i soggetti stipulanti convenzioni urbanistiche, ossia la natura del rapporto, almeno in parte impositivo rinveniente dalla convenzione urbanistica, esclude il piano di parità formale tra i contraenti (cfr. TAR-Lombardia, Sez. Brescia, sent. n. 784 del 2005; TAR Marche, sent. n. 939 del 2003; TAR Sicilia, sez. Catania, sent. n. 934 del 2011).
D'altronde, ad ulteriore rafforzamento di tali considerazioni, è stato sottolineato, dalla dottrina come dalla giurisprudenza, che le convenzioni di lottizzazione non costituiscono un vero e proprio contratto a prestazioni corrispettive, mancando una
«vera e propria corrispondenza di tipo contrattuale tra cessioni immobiliari, opere di urbanizzazione, prestazioni e contributi vari, con cui si attuano gli obblighi convenzionali, e il perfezionamento del procedimento amministrativo finalizzato alla legittimazione dell'attività lottizzatoria (così in dottrina), atteso che tali convenzioni addirittura lasciano integra ... la potestà pubblicistica del Comune in materia di disciplina del territorio e di regolamentazione urbanistica, ivi compresa la facoltà di liberarsi dal vincolo contrattuale, alla stregua di esigenze sopravvenute»» (Cass., sent. n. 15660 del 2014, che riporta a sua volta Cass., sent. n. 6482 del 1995).
Ebbene, già queste considerazioni rendono difficile, per non dire inconciliabile, collocare nell'istituto della compensazione la fattispecie che ci occupa -che esula dalla esecuzione di opere primarie e secondarie o da meri obblighi di cessione di terreni ove allocare le predette opere primarie o secondarie, ma parimenti vede sull'impegno di realizzo di opere pure pubbliche, finalizzato all'ottenimento della autorizzazione amministrativa a costruire.
Lo impedisce proprio quella disarticolazione rilevata nella assenza di una posizione paritetica delle parti, che contrasta con l'estinzione dei rispettivi crediti, dal giorno della loro coesistenza ex art. 1242 c.c., laddove nel caso che ci occupa il rapporto potrebbe addirittura condurre alla revoca della autorizzazione qualora dovessero sopraggiungere motivi di pubblico interesse, secondo il principio generale riassunto nell'art. 11, co. 4, l. 241 cit..
Ciò mal si concilia con la configurabilità di crediti compensati ed estinti addirittura al momento della sottoscrizione della convenzione, cioè ben prima che, secondo l'accordo pubblico raggiunto, il contribuente abbia iniziato i lavori di realizzazione delle opere concordate. Sarebbe anzi una interpretazione pregna di pericolose conseguenze per la Amministrazione stessa (quella dell'ente territoriale, non del fisco), perché se si volesse riconoscere che con la sottoscrizione della convenzione si realizza il momento impositivo corrispondente al pagamento del corrispettivo della prestazione di servizio, con ciò ritenendo adempiuta l'attività sostitutiva della monetizzazione degli oneri urbanistici, un successivo eventuale inadempimento del privato nella esecuzione delle opere costruttive dovrebbe importare per l'Amministrazione l'onere dell'avvio di una causa risolutoria del rapporto giuridico, evento inconciliabile quando non del tutto bizzarro sul piano giuridico, attesi i poteri riservati alla Amministrazione stessa.
Oppure, ancora, gli effetti della compensazione, immediati con estinzione dei due debiti dal giorno della loro coesistenza secondo la previsione dell'art. 1242 c.c., sarebbero del tutto inconciliabili con la pacifica e necessaria natura di obbligazione propter rem attribuita agli obblighi che si assumono con la convenzione.
Si comprende pertanto perché sia più consona alla vicenda economica emergente dalla stipula della convenzione e dalla sottoscrizione della stessa ricondurre la fattispecie nell'alveo giuridico della datio in solutum (cfr. Cass., sent. n. 1366 cit.; Cass. n. 15660 cit.), come invoca la difesa della contribuente. Ebbene, l'art. 1197, co. 1, c.c. statuisce che l'obbligazione si estingue al momento della esecuzione della diversa prestazione, sicché nel caso che ci occupa è al momento della realizzazione delle opere convenute che l'Amministrazione doveva fare riferimento per individuare l'emersione dell'obbligo di fatturazione.
D'altronde sono evidenziabili ulteriori parametri interpretativi che risolvono la vicenda nel senso appena tracciato. L'art. 108 del TUIR, co. 2, lett. b), dispone che «i corrispettivi delle prestazioni di servizi si considerano conseguiti ....alla data in cui le prestazioni sono ultimate»; nell'ambito civilistico è pacifico che in tema di appalto l'obbligazione del committente di pagare il corrispettivo sorge, a mente dell'art. 1665, ult. co., c.c., soltanto all'esito dell'accettazione dell'opera che, negli appalti di opere pubbliche, può ritenersi avvenuta soltanto all'esito del collaudo dell'opera stessa (Cass., sent. n. 13075 del 2000).
Ancor più interessante, per quanto qui rileva, è che nell'appalto il diritto dell'appaltatore al corrispettivo sorge con l'accettazione dell'opera da parte del committente, ai sensi dell'art. 1665, ult. co., c.c., e non già al momento stesso della stipulazione del contratto. È certo che la disciplina sull'Iva segua i suoi peculiari principi, ma nel caso di specie è significativo il supporto interpretativo che proviene da settori distinti del diritto.
Significativa si rivela poi la stessa convenzione stipulata tra la società ed il Comune di Basiglio. In essa infatti è previsto che
«nella ipotesi di conseguimento di finanziamenti regionali per le opere pubbliche concordate con la società, ....a semplice richiesta dell'Amministrazione Comunale le somme eccedenti il contributo dovuto dovranno essere utilizzate per il finanziamento di opere diverse da quelle indicate, che il proponente si impegna sin d'ora a realizzare» (art. 8 della convenzione, riportato alla pagg. 29 e 30 del controricorso e ricorso incidentale). Ciò sta a dimostrare che al momento della sottoscrizione della convenzione non era neppure del tutto certo l'oggetto delle opere da realizzarsi in luogo della corresponsione degli oneri di urbanizzazione.
È Inoltre importante evidenziare la previsione contenuta nell'art. 11, co. 8, della convenzione (riportata a pag. 37 del medesimo atto difensivo), secondo cui «l'importo di cui al comma 1 (€ 969.853,00) deve essere adeguatamente documentato prima del collaudo; qualora sia documentato un costo inferiore, anche dopo che siano stati assolti tutti gli obblighi convenzionali, sarà il costo documentato e non quello preventivato oggetto di scomputo dagli oneri di urbanizzazione di cui al presente art. 11, co. 1
», prevedendosi inoltre che «qualora il costo documentato sia inferiore a quello determinato con deliberazione comunale ai sensi dell'art. 44 della Legge Regionale n. 12 del 2005, entro la data del collaudo dovranno essere corrisposti a conguaglio i maggiori oneri di urbanizzazione afferenti le edificazioni già autorizzate o comunque assentite».
In conclusione è più che evidente che la sottoscrizione della convenzione non definiva assolutamente nulla se non l'assunzione di obblighi endoprocedimentali, restando ancora incerto l'oggetto della prestazione. Era anzi addirittura prospettata l'ipotesi di dover versare in moneta la differenza risultante tra gli oneri computati e le opere edili pubbliche realizzate.
Gli elementi emergenti e le considerazioni giuridiche esplicitate escludono pertanto che la contribuente fosse tenuta ad emettere fattura al momento della sottoscrizione della convenzione. Ne risulta fondato il primo motivo del ricorso incidentale.
L'accoglimento del primo motivo del ricorso incidentale assorbe i motivi secondo, terzo e settimo (nella numerazione corrispondenti al IV, al V ed al IX).
Deve pertanto affermarsi che la sentenza del giudice regionale è errata in ordine al riconosciuto obbligo di fatturazione dell'importo di € 969.853,00 (come ridotta dalla Commissione stessa) al momento della sottoscrizione della convenzione, per non aver tenuto conto dei parametri interpretativi sopra enunciati, e in particolare del principio secondo cui «
nella ipotesi di convenzione di lottizzazione, nella quale la realizzazione di un'opera pubblica a scomputo degli oneri di urbanizzazione è assoggettata ad Iva qualora l'opera non rientri tra quelle destinate ad esigenze di urbanizzazione primaria e secondaria, l'obbligo di fatturazione non insorge alla data di sottoscrizione della convenzione urbanistica, ma al compimento delle opere concordate con l'ente territoriale, ed al loro collaudo» (Corte di Cassazione, Sez. V civile, sentenza 22.06.2018 n. 16533).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: E' principio pacifico in giurisprudenza quello secondo cui il Comune, nel procedimento di rilascio dei titoli edilizi, ha il potere e il dovere di verificare l'esistenza, in capo al richiedente, di tutti i presupposti per la loro emanazione e, in caso di opere che vadano ad incidere sul diritto di altri proprietari, è legittimo da parte dell'ente, esigere il consenso degli stessi.
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Anche nelle ipotesi di autorizzazioni in sanatoria, il Comune è tenuto a pretendere la produzione della dichiarazione di assenso del terzo pregiudicato -in ragione del suo interesse contrario alla sanatoria, che potrebbe risolversi in danno dello stesso- al solo fine di accertare il requisito della legittimazione del richiedente alla sanatoria e non per risolvere i conflitti di interesse tra le parti private in ordine all'assetto proprietario degli immobili interessati.
Ne consegue che, poiché nel caso in esame difetta, in capo al ricorrente, quale richiedente la sanatoria, il requisito di legittimazione consistente nella piena disponibilità delle aree oggetto dell’intervento, dato il dissenso espressamente manifestato anche da uno soltanto dei contitolari dell’area dove esso insiste, la sanatoria non poteva essere concessa.
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Del pari infondato è il secondo motivo.
Ed invero, dagli atti depositati emerge che il terrazzo in questione, già oggetto, per una parte, di una precedente sanatoria, sovrasta una parte comune e indivisa della proprietà dei signori Or. (foglio 24, mappale 489, sub 1), rimasta tale anche all’esito della divisione posta in essere per atto del notaio Fe. in data 04.11.1993; inoltre esso poggia su mura perimetrali comuni mediante strutture di cemento armato.
Non è possibile, quindi, sostenere che la costruzione non riguardi parti comuni dell’edificio, dal momento che, anche a voler ammettere che il terrazzo in questione sia di proprietà esclusiva del ricorrente, la sua realizzazione indubbiamente insiste su aree indivise e su muri condominiali.
Ciò posto, è principio pacifico in giurisprudenza quello secondo cui il Comune, nel procedimento di rilascio dei titoli edilizi, ha il potere e il dovere di verificare l'esistenza, in capo al richiedente, di tutti i presupposti per la loro emanazione e, in caso di opere che vadano ad incidere sul diritto di altri proprietari, è legittimo da parte dell'ente, esigere il consenso degli stessi (Cons. St., sez. V, 21.10.2003, n. 6529; Cons. St., sez. IV, 26.01.2009, n. 437).
Anche nelle ipotesi di autorizzazioni in sanatoria, il Comune è tenuto a pretendere la produzione della dichiarazione di assenso del terzo pregiudicato -in ragione del suo interesse contrario alla sanatoria, che potrebbe risolversi in danno dello stesso- al solo fine di accertare il requisito della legittimazione del richiedente alla sanatoria e non per risolvere i conflitti di interesse tra le parti private in ordine all'assetto proprietario degli immobili interessati (Cons. St., sez. IV, 07.09.2016, n. 3823; TAR Umbria Perugia, sez. I, 14.02.2011, n. 48; TAR Abruzzo Pescara, sez. I, 06.06.2009, n. 401; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 18.12.2007, n. 4286).
Ne consegue che, poiché nel caso in esame difetta, in capo al ricorrente, quale richiedente la sanatoria, il requisito di legittimazione consistente nella piena disponibilità delle aree oggetto dell’intervento, dato il dissenso espressamente manifestato anche da uno soltanto dei contitolari dell’area dove esso insiste, la sanatoria non poteva essere concessa (TAR Marche, sentenza 15.05.2018 n. 375 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

UTILITA'

PATRIMONIO - VARI#ILLUMINAZIONEinClasseA - scegliere la lampadina giusta, a basso consumo e ridotto impatto ambientale (ENEA, ottobre 2018).
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Lampadine che consumano meno e durano di più: da Enea una guida.
Un aiuto per interpretare e comprendere simboli e valori scritti sulle confezioni e orientarsi verso la scelta giusta.

EDILIZIA PRIVATA: LE AGEVOLAZIONI FISCALI PER IL RISPARMIO ENERGETICO (Agenzia delle Entrate, ottobre 2018).

EDILIZIA PRIVATAEcoBonus e SismaBonus - guida operativa 2018 (ANCE, settembre 2018).

SICUREZZA LAVOROIL PRIMO SOCCORSO NEI LUOGHI DI LAVORO (INAIL, agosto 2018).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 44 del 29.10.2018, "Esclusione dall’obbligo di autorizzazione paesaggistica (ex d.p.r. 31/2017) ed esame paesistico ex art. 35 delle norme del piano paesaggistico regionale" (comunicato regionale 22.10.2018 n. 145).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 44 del 29.10.2018, "Obbligatorietà del parere della commissione paesaggio locale per i procedimenti di autorizzazione paesaggistica «Semplificata» ex d.p.r. 31/2017" (comunicato regionale 22.10.2018 n. 144).

APPALTI: G.U. 26.10.2018 n. 250, suppl. ord. n. 50/L, "Disposizioni per la revisione della disciplina del casellario giudiziale, in attuazione della delega di cui all’articolo 1, commi 18 e 19, della legge 23.06.2017, n. 103" (D.Lgs. 02.10.2018 n. 122).

EDILIZIA PRIVATACONTRIBUTI PER L’ESERCIZIO DELLE FUNZIONI TRASFERITE AI COMUNI, SINGOLI O ASSOCIATI, IN MATERIA DI OPERE O DI COSTRUZIONI E RELATIVA VIGILANZA IN ZONE SISMICHE (L.R. 33/2015, ART. 2, C. 1) (Regione Lombardia, deliberazione G.R. 24.10.2018 n. 699).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICARECEPIMENTO DELL’INTESA TRA IL GOVERNO, LE REGIONI E LE AUTONOMIE LOCALI, CONCERNENTE L'ADOZIONE DEL REGOLAMENTO EDILIZIO-TIPO DI CUI ALL'ARTICOLO 4, COMMA 1-SEXIES, DEL DECRETO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA 06.06.2001, N. 380 (Regione Lombardia, deliberazione G.R. 24.10.2018 n. 695).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 43 del 22.10.2018, "Settimo aggiornamento 2018 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (deliberazione G.R. 16.10.2018 n. 14838).

ATTI AMMINISTRATIVI: G.U. 06.10.2018 n. 233 "Disposizioni urgenti in materia di giustizia amministrativa, di difesa erariale e per il regolare svolgimento delle competizioni sportive" (D.L. 05.10.2018 n. 115).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 05.10.2018 n. 232, suppl. ord. n. 46, "Contratto collettivo nazionale di lavoro relativo al personale del comparto funzioni locali - Triennio 2016-2018" (ARAN, 21.05.2018).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 40 del 05.10.2018, "Approvazione della modulistica regionale per la presentazione delle istanze di volturazione della titolarità dell’autorizzazione rilasciata per la costruzione ed esercizio degli impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili e approvazione della procedura informatizzata per la gestione del relativo procedimento amministrativo" (decreto D.U.O. 02.10.2018 n. 13953).

APPALTI - ENTI LOCALI: G.U. 04.10.2018 n. 231 "Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata" (D.L. 04.10.2018 n. 113).
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Di particolare interesse si leggano:
   ● Art. 25. Sanzioni in materia di subappalti illeciti
   ● Art. 26. Monitoraggio dei cantieri
   ● Modifiche all’articolo 143 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 40 del 03.10.2018, "Registro delle Unioni di Comuni Lombarde. 4° Aggiornamento 2018 (in attuazione della d.g.r. 27.03.2015, n. 3304)" (decreto D.S. 26.09.2018 n. 13646).

ENTI LOCALI - VARI: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 40 del 02.10.2018 "Istituzione dell’Organismo regionale per le attività di controllo" (L.R. 28.09.2018 n. 13).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 28.09.2018 n. 226 "Disposizioni urgenti per la città di Genova, la sicurezza della rete nazionale delle infrastrutture e dei trasporti, gli eventi sismici del 2016 e 2017, il lavoro e le altre emergenze" (D.L. 28.09.2018 n. 109).
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Di particolare interesse si leggano:
   ● Art. 13. Istituzione dell’archivio informatico nazionale delle opere pubbliche - AINOP
  
Art. 14. Sistema di monitoraggio dinamico per la sicurezza delle infrastrutture stradali e autostradali in condizioni di criticità e piano straordinario di monitoraggio dei beni culturali immobili
  
Art. 41. Disposizioni urgenti sulla gestione dei fanghi di depurazione

ENTI LOCALI: G.U. 28.09.2018 n. 226 "Elenco delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato individuate, ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196 e successive modificazioni. (Legge di contabilità e di finanza pubblica)" (ISTAT).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTIOggetto: Nota operativa per l’utilizzo obbligatorio, dal 18 ottobre, dei mezzi di comunicazione elettronici (ANCI, nota 19.10.2018 n. 76 di prot.).

APPALTIOGGETTO: Imposta di bollo sui documenti prodotti nell’ambito dei contratti Pubblici. Interpello Art. 11, legge 27.07.2000, n. 212 (Agenzia delle Entrate, risposta 12.10.2018 n. 35).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAOggetto: Chiarimenti ministeriali sul nuovo regolamento recante la disciplina della cessazione della qualifica di rifiuto del conglomerato bituminoso (fresato d’asfalto) (ANCE di Bergamo, circolare 10.10.2018 n. 237).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAOggetto: Chiarimenti circa l’interpretazione di talune disposizioni di cui al D.M. 28.03.2018, n. 69 “Regolamento recante disciplina della cessazione della qualifica di rifiuto di conglomerato bituminoso ai sensi dell'articolo 184-ter, comma 2 del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152” (Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, nota 05.10.2018 n. 16293 di prot.).
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Si legga, al riguardo: Fresato d'asfalto, Siteb-Ance: le indicazioni del Minambiente non semplificano il reimpiego. La recente nota del Ministero dell'Ambiente non ha sciolto i dubbi sollevati (11.10.2018 - link a www.casaeclima.com).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Decreto del Ministero dell'Interno 22.11.2017 recante "Approvazione della regola tecnica di prevenzione incendi per l’installazione e l’esercizio di contenitori-distributori, ad uso privato, per l’erogazione di carburante liquido di categoria C" e Decreto del Ministero dell'Interno 10.05.2018 recante "Disposizioni transitorie in materia di prevenzione incendi per l’installazione e l’esercizio di contenitori-distributori, ad uso privato, per l’erogazione di carburante liquido di categoria C". Indicazioni operative (Ministero dell'Interno, circolare 29.08.2018 n. 1/2018).

ATTI AMMINISTRATIVI: Oggetto: Diritto di accesso ex L. n. 241/1990 (Avvocatura Generale dello Stato, circolare n. 33/2018 - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2018).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: C. Benetazzo, Primazia” del diritto U.E. e proroghe ex lege delle concessioni balneari (10.10.2018 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Premessa: le “preoccupanti” affermazioni di Cass. pen., sez. III, 14.05.2018, n. 21281 in merito all’applicabilità del regime delle proroghe legali delle concessioni balneari e gli aspetti problematici collegati all’istituto della disapplicazione. – 2. La “ primazia” del diritto U.E. e la disapplicazione quale strumento per risolvere gli eventuali conflitti tra norme. L’iniziale “distanza” tra Corte costituzionale e Corte di Giustizia e il successivo riconoscimento, da parte della giurisprudenza costituzionale italiana, del principio dell’effetto “diretto” del diritto U.E. Disapplicazione, abrogazione e “controlimiti” nazionali: la competenza come ulteriore criterio di risoluzione delle antinomie (la sentenza Frontini e i chiarimenti della Corte di Giustizia). – 3. L’ambito di operatività dell’istituto della disapplicazione. La “primazia” delle disposizioni dei Trattati e la natura auto-applicativa dei regolamenti U.E. (ad eccezione dei regolamenti non dotati di diretta effettività). La peculiare ipotesi delle direttive: l’iniziale natura non auto-applicativa e il successivo riconoscimento di un effetto diretto subordinatamente alla ricorrenza di determinate condizioni quali: la scadenza del termine per il recepimento; l’effetto favorevole all’individuo e la non necessaria emanazione di ulteriori atti applicativi. L’interpretazione adeguatrice nei casi Pfeiffer e Velasco Navarro. – 4. La disciplina di attuazione dell’art. 12 della direttiva 2006/123/CE e la non convincente interpretazione della Cassazione penale in merito all’effetto auto-applicativo della stessa. Gli effetti sfavorevoli al privato conseguenti alla disapplicazione delle norme sulla proroga legale dei termini di durata delle concessioni disposta dall’art. 1, comma 18, d.l. n. 194/2009. La deroga al principio di retroattività favorevole di cui all’art. 2, comma 2, c.p. Il conflitto tra norma interna e norma U.E. come possibile questione di legittimità costituzionale: rinvio al successivo § 5. – 5. Gli effetti delle sentenze della Corte di Giustizia: la vincolatività per il giudice a quo e la limitata efficacia “esterna”. L’applicabilità dell’art. 12 della direttiva 2006/123/CE anche alle concessioni di beni del demanio marittimo, lacuale e fluviale con finalità turistico-ricreative. Parziali aperture in favore dell’autonomia dei singoli Stati membri: la “scarsità” della risorsa e l’interesse transfrontaliero certo quali presupposti per l’applicazione di tale disposizione. Il regime transitorio a garanzia dell’esigenza di certezza dei rapporti giuridici e la piena condivisione degli orientamenti del giudice dell’U.E. nella giurisprudenza della Corte costituzionale. – 6. Ambito e limiti di applicazione della proroga ex d.l. n. 194/2009. Le “oscillazioni” della giurisprudenza amministrativa e l’approccio “pragmatico” della Corte costituzionale. Compatibilità della disciplina transitoria con il principio di certezza dei rapporti giuridici enunciato dalla Corte di Giustizia nella sentenza Promoimpresa e Melis.
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Abstract: La sentenza qui annotata appare degna di nota in quanto induce a tornare su uno dei temi più attuali e problematici del diritto amministrativo ovvero il rapporto tra concessioni balneari e direttiva Bolkestein, in merito al quale la Cassazione penale suggerisce una interpretazione non convincente. Lo scopo di queste pagine non può essere quello di tentare una soluzione del rebus circa l’esatta applicazione della direttiva Bolkestein alle concessioni balneari, argomento già ampiamente trattato in precedenti scritti, ma di far emergere i problemi nuovi che la vicenda in esame è in grado di sollevare, soprattutto in relazione ai rapporti tra ordinamento nazionale e sistema delle fonti U.E., nonché ai limiti di utilizzabilità dell’istituto della disapplicazione quale strumento per risolvere gli eventuali conflitti tra norme. Il metodo seguito è quello di ripercorrere le argomentazioni della Cassazione penale per utilizzarle come traccia degli aspetti problematici appena indicati.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: S. Neri, Il reclutamento nel pubblico impiego alla luce dei recenti interventi normativi (10.10.2018 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Introduzione. – 2. Il reclutamento nel pubblico impiego. - 3. Il quadro normativo. - 4. Il circolo virtuoso tra la programmazione dei fabbisogni di personale e le procedure di reclutamento. - 5. Il sistema informativo nazionale sul lavoro pubblico. – 6. Le linee guida sulle procedure concorsuali. - 6.1. Concorsi pubblici interni ed esterni. – 6.2. La trasparenza nelle procedure selettive. – 6.3. L’accentramento dei concorsi. – 6.4. Modelli e metodi per il reclutamento. - 7. La dirigenza pubblica e il ruolo della Scuola nazionale dell’amministrazione. – 7.1. Il 7° corso-concorso della Scuola Nazionale dell’amministrazione.

ATTI AMMINISTRATIVI: G. Gardini, La nuova trasparenza amministrativa: un bilancio a due anni dal “FOIA Italia” (10.10.2018 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. FOIA Italia: diritto individuale o strumento anticorruzione? 2. A chi appartengono le informazioni pubbliche? 3. Dalla trasparenza come mezzo alla trasparenza come fine; 4. Le conseguenze dell’ambigua natura dell’ accesso civico; 5. L’assenza di una autorità indipendente preposta all’ enforcement del FOIA; 6. Alcune questioni operative: i rimedi contro i silenzi dell’amministrazione; 7. Segue: i rimedi contro l’inottemperanza dell’amministrazione alla decisione del Difensore civico; 8. Brevi conclusioni.

ENTI LOCALI: D. Rossano, I controlli nelle società pubbliche (10.10.2018 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Premessa. 2. I controlli interni … 3. (Segue) … alla luce degli studi di economia aziendale: … 4. (Segue) … l’ufficio di controllo interno. 5. I controlli esterni. 6. Considerazioni conclusive.

EDILIZIA PRIVATA: P. Carpentieri, Interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata - d.P.R. 13.02.2017, n. 31 (09.10.2018 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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Sommario 1. Il nuovo regolamento. 2. I principi e i concetti fondamentali alla base della nuova semplificazione.  3. I limiti immanenti nella nozione di “lieve entità”. 4. Le eccezioni alla liberalizzazione.5. La lettura “integrata” delle tabelle A e B.  6. Ulteriori semplificazioni. 7. La nuova procedura semplificata. 8. Cenni alle tipologie di interventi liberi (allegato A) e alle tipologie di interventi semplificati (allegato B).

APPALTI SERVIZIGare per l’affidamento del servizio di distribuzione del gas naturale a livello di Ambito Territoriale Minimo (ATEM) - Il percorso per giungere alla pubblicazione del bando di gara - Istruzioni tecniche, linee guida, note e modulistica (ANCI, quaderno n. 15 di ottobre 2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOCCNL 21.05.2018 - PRIMA APPLICAZIONE: IL CONTRATTO INTEGRATIVO ED IL FONDO RISORSE DECENTRATE - Istruzioni tecniche, linee guida, note e modulistica (ANCI, settembre 2018).

EDILIZIA PRIVATA: F. Nocilla, Titolarità di immobili abusivi e regime di tutela di diritti nell’ordinamento civilistico (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2018).
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Sommario: 1. L’abusivismo edilizio come fenomeno giuridico trasversale: inquadramento sistematico - 2. abusivismo edilizio e sanzioni giuridiche civilistiche - 3. La vexata quaestio della nullità degli atti traslativi degli immobili abusivi: nullità sostanziale o formale? - 4. il contratto preliminare e gli atti mortis causa aventi ad oggetto immobili abusivi - 5. altri atti esclusi dal regime di nullità della legge n. 47/1985 e del D.P.r. n. 380/2001 - 6. Espropriazione forzata avente ad oggetto un immobile abusivo. L’aliud pro alio nella vendita forzata - 7. Locazione di immobile abusivo - 8. appalto di immobile abusivo - 9. atti giudiziari sostitutivi di accordi negoziali aventi ad oggetto immobili abusivi - 10. La non risarcibilità della lesione patrimoniale all’immobile abusivo: la sentenza della Cassazione n. 4206/2011 - 11. il non riconoscimento dell’indennizzo espropriativo al titolare dell’immobile abusivo - 12. immobili abusivi e violazione delle distanze tra edifici - 13. i rimedi amministrativi esperibili avverso l’abuso commesso dal vicino - 14. ius supervenines favorevole al costruttore: cosa succede se l’immobile abusivo diventa legittimo in virtù di una norma sopravvenuta? - 15. Usucapione e immobile abusivo: un diverso approccio della giurisprudenza - 16. Considerazioni conclusive.

ATTI AMMINISTRATIVI: F. Meloncelli, La natura del contributo unificato raddoppiato e il suo ambito d’applicazione (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2018).
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Sommario: 1. Gli istituti del contributo unificato e del suo raddoppio per il rigetto dell’impugnazione - 2. La natura giuridica del cosiddetto raddoppio del contributo unificato per il rigetto dell’impugnazione - 2.1. rassegna della giurisprudenza di legittimità sul regime giuridico del raddoppio del contributo unificato - 2.1.1. La decorrenza della normazione sul raddoppio del contributo unificato - 2.1.2. Fatto rilevante per la decorrenza della normazione sul raddoppio del contributo unificato - 2.1.3. il presupposto per l’applicazione del raddoppio del contributo unificato - 2.1.4. il vincolo per il giudice dell’impugnazione - 2.1.5. il soggetto passivo dell’obbligazione del raddoppio del contributo unificato - 2.1.6. La formula per l’applicazione del raddoppio del contributo unificato - 2.2. La tesi della natura principalmente tributaria e secondariamente sanzionatoria del cosiddetto raddoppio del contributo unificato per il rigetto dell’impugnazione - 2.3. La tesi della natura esclusivamente sanzionatoria del cosiddetto raddoppio del contributo unificato per il rigetto dell’impugnazione - 2.4. Critica alla tesi della natura sanzionatoria - 2.5. La tesi della natura esclusivamente tributaria del cosiddetto raddoppio del contributo unificato per il rigetto dell’impugnazione - 3. il problema dell’individuazione delle giurisdizioni costituenti l’ambito di applicazione del raddoppio del contributo unificato - 4. Conclusioni. 

ATTI AMMINISTRATIVI: M. Strazzeri, L’actio finium regundorum in materia di accesso ai documenti della Pubblica Amministrazione (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2018).
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Sommario: 1.Premessa - 2. il rapporto tra accesso civico e documentale ante Foia - 3. Verso il nuovo concetto di trasparenza amministrativa: una chiave di lettura del diritto di accesso civico - 4. L’inquadramento del diritto di accesso civico - 5. La situazione post Foia: la “profondità” della trasparenza condizionata. 

ATTI AMMINISTRATIVI: P. Vitullo e F. Muccio, Il divieto di accesso agli atti strumentale a precostituire prova in sede civile nella sentenza n. 296/2018 emessa dal TAR Molise - Nota a TAR Molise setenza 21.05.2018 n. 296 (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2018).

ATTI AMMINISTRATIVI: A. Pascale, Il diritto di accesso civico generalizzato: una sentenza del Tar Lazio sull’interpretazione dell’art. 5, co. 2, d.lgs. 33/2013 - Nota a TAR Lazio, Sez. III-quater, 16.03.2018 n. 2994 (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2018).
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Sommario: 1. Premesse - 2. La sentenza TAR Lazio, sezione III-quater, del 16.03.2018, n. 2994 - 3. Le diverse tipologie del diritto di accesso - 3.1. il diritto di accesso procedimentale - 3.2. il diritto di accesso documentale - 3.3. accesso in materia penale - 3.4. accesso in materia ambientale - 3.5. accesso civico semplice - 3.6. accesso civico generalizzato - 4. L’accesso agli atti delle istituzioni europee - 5. L’accesso in Germania e in Francia - 6. Libertà di informazione: art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo - 7. “Linee Guida” dell’ANAC - 8. accesso irragionevole - 9. La motivazione della sentenza - 10. Conclusioni finali. 

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOOggetto: Responsabile per la transizione digitale - art. 17 decreto legislativo 07.03.2005, n. 82 “Codice dell’amministrazione digitale” (Ministro per la pubblica amministrazione, circolare 01.10.2018 n. 3).

ARAN

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nuovo fondo risorse decentrate / Come deve essere correttamente applicato l’art. 67, comma 1, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, secondo il quale nell’unico importo consolidato delle risorse stabili ivi previsto, confluisce anche l’importo annuale delle risorse di cui all’art. 32, comma 7, del CCNL del 22.01.2004 (pari allo 0,20% del monte salari dell’anno 2001, esclusa la quota relativa alla dirigenza) nel caso in cui tali risorse non siano state utilizzate nel 2017 per il finanziamento delle posizioni organizzative di alta professionalità?
Relativamente alla particolare problematica esposta, in relazione alle modalità di utilizzo, dopo la stipulazione del CCNL del 21.05.2018, delle risorse dell’art. 32, comma 7, del CCNL 22.01.2004, destinate esclusivamente, al finanziamento della retribuzione di posizione e di risultato delle posizioni organizzative di alta professionalità, si ritiene opportuno fornire le seguenti indicazioni di carattere generale, distinguendo tre possibili fattispecie:
ipotesi 1
l’ente non ha in alcun modo istituito posizioni organizzative di alta professionalità alla data del 31.12.2017. In tal caso trova applicazione la disciplina dell’art. 67, comma 1, penultimo ed ultimo periodi, del CCNL del 21.05.2018. Pertanto, l’importo annuale delle risorse di cui all’art. 32, comma 7, del CCNL 22.01.2004 confluisce nell’importo consolidato delle risorse stabili di cui al primo periodo del medesimo comma 1 dell’art. 67;
ipotesi 2
l’ente al 31.12.2017 ha istituito posizioni organizzative destinando al finanziamento delle relative retribuzioni di posizione e di risultato tutte le risorse di cui all’art. 32, comma 7, del CCNL 22.2004. In tal caso, l’importo annuale di tali risorse rientra nell’ambito applicativo dell’’art. 15, comma 5, del CCNL del 21.05.2018. Pertanto, esso sarà portato in detrazione alle risorse stabili consolidate di cui al primo periodo del comma 1 dell’art. 67 del medesimo CCNL del 21.05.2018 e ritornerà nelle disponibilità di bilancio dell’ente, nell’ambito della nuova disciplina per il finanziamento della retribuzione di posizione e di risultato delle posizioni organizzative;
ipotesi 3
l’ente al 31.12.2017 ha istituito un limitato numero di posizioni organizzative di alta professionalità, destinando, pertanto, solo parzialmente le risorse di cui all’art. 32, comma 7, del CCNL 22.01.2004, al finanziamento delle relative retribuzioni di posizione e di risultato. Pertanto, per quelle non destinate al finanziamento delle posizioni di alta professionalità, valgono le indicazioni dell’ipotesi 1; per la quota destinata, invece, a tale finalità, si farà riferimento alle indicazioni dell’ipotesi 2 (orientamento applicativo 09.10.2018 CFL 15 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Orario di lavoro / Alla luce delle previsioni degli artt. 22, comma 7, e 26 del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, fermo restando il diritto di fruire di una pausa di trenta minuti dopo sei ore di lavoro per i dipendenti che facciano richiesta, sono possibili, previo consenso del lavoratore, articolazioni dell’orario di lavoro che prevedano in via ordinaria prestazioni di lavoro superiori alle sei ore senza la predetta pausa?
Relativamente alla particolare problematica esposta, si ritiene opportuno evidenziare che l’art. 26 del CCNL del 21.05.2018, in coerenza con le previsioni del D.Lgs. n. 66/2003, configura la pausa come obbligatoria in presenza di una prestazione di lavoro giornaliera che ecceda le sei ore, qualunque sia la ragione giustificativa di tale prolungata durata dell’orario di lavoro.
Una eventuale e limitata deroga all’obbligo della pausa, sotto il solo profilo della durata, è consentita solo nelle specifiche fattispecie considerate nell’art. 13 del CCNL del 09.05.2006 in materia di buono pasto.
Per completezza informativa, si ricorda anche che la medesima pausa non può essere neppure soppressa o dichiarata rinunciabile dalla contrattazione integrativa (non figurando questo profilo tra le materie ad essa demandate dal CCNL) o da atti unilaterali dell’Ente (per evidente contrasto con la legge e con il contratto collettivo nazionale di lavoro) (orientamento applicativo 09.10.2018 CFL 14 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Relazioni sindacali / Un ente non ha ancora sottoscritto i contratti integrativo relativi alle annualità 2016 e 2017. Poiché la sottoscrizione degli stessi avverrà dopo l’entrata in vigore del CCNL delle Funzioni Locale del 21.05.2018, è ipotizzabile che, nei suddetti contratti integrativi relativi al 2016 ed al 2018, possano essere disciplinati ed applicati gli istituti economici previsti dal nuovo CCNL ed in particolare (il Titolo VI dedicato alla Polizia Locale ed il Titolo VIII sul trattamento economico accessorio), tenuto conto che si tratta, comunque, dei primi contratti integrativi intervenuti dopo la stipulazione del nuovo CCNL oppure devono trovare applicazione ancora le precedenti regole negoziali?
Per l’iter di approvazione dei contratti integrativi per il 2016 e per il 2017 devono essere seguite le disposizioni previste dal Titolo II del CCNL concernente le relazioni sindacali?
In ordine alle particolari problematiche esposte, si ritiene utile precisare quanto segue:
   a) l’avviso della scrivente Agenzia è nel senso che i nuovi istituti del trattamento economico accessorio previsti, nei presupposti legittimanti e nel relativo ammontare, dal CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, possono essere applicati solo in sede di stipula del contratto integrativo dell’ente concernente il periodo temporale successivo al suddetto CCNL (anno 2018 e successivi). Infatti, non si ritiene possibile, in sede di contrattazione integrativa, far retroagire ed applicare compensi accessori con riferimento a periodi temporali nei quali gli stessi non erano già previsti e disciplinati dal CCNL, soprattutto con riferimento alle condizioni per la loro erogazione;
   b) con riferimento alla contrattazione integrativa, se la fattispecie si riferisce all’iter procedimentale successivo alla sottoscrizione dell’ipotesi di accordo, si evidenzia che nell’ambito della nuova disciplina dell’art. 8 del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, non sussistono sostanziali differenze con il precedente impianto regolativo dell’art. 5 del CCNL dell’01.04.1999, come sostituito dall’art. 4 del CCNL del 22.01.2004 (orientamento applicativo 09.10.2018 CFL 13 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assenze per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici / L’art. 35, commi da 1 a 10, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018 ha introdotto la nuova tipologia di permessi orari retribuiti per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici. Poiché il contratto è entrato in vigore il 22.05.2018, è corretto ritenere che, per il 2018, le 18 ore annue di tale tipologia di permessi devono essere riproporzionate in modo da tenere conto della data di decorrenza degli effetti del nuovo CCNL?
In ordine a tale problematica si ritiene utile precisare quanto segue.
L’art. 35 del CCNL del 21.05.2018 ha introdotto un’organica ed esaustiva disciplina in materia di “assenze per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici”.
Il nuovo istituto contrattuale, applicabile dal 22.05.2018, infatti, prevede un quantitativo di 18 ore annue che, potranno essere fruite, alle condizioni espressamente stabilite dal citato art. 35 del CCNL del 21.05.2018.
Trattandosi di un istituto del tutto nuovo, che non trova precedenti e non si collega in alcun modo, direttamente o implicitamente, alla pregressa disciplina applicabile in materia, l’eventuale fruizione, ai sensi 55-septies del D.Lgs. n. 165/2001, nei primi mesi del 2018, di assenze giornaliere per visite specialistiche non può avere alcuna incidenza sul quantitativo complessivo delle ore che la richiamata disciplina contrattuale riconosce al personale.
Pertanto, nel corso del 2018, il lavoratore potrà sempre fruire di permessi retribuiti per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici, nel limite delle 18 ore annue, anche se precedentemente al 21.05.2018 si era già assentato, a giorni, per la medesima motivazione (orientamento applicativo 09.10.2018 CFL 12 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assenze per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici / Alla luce delle nuove disposizioni contrattuali che consentono la fruibilità su base oraria ed anche in minuti delle ore successive alla prima nel caso dei permessi per particolari motivi personali o familiari (art. 32 del CCNL del 21.05.2018) ed anche della prima ora nella diversa fattispecie dei permessi l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici (art. 35 del CCNL del 21.05.2018), è possibile ritenere che sia consentita la fruizione in minuti anche dei permessi in forma oraria di cui all’art. 33, comma 3, della legge n. 104/1992 ed all’art. 33, comma 1, del CCNL del 21.05.2018?
In materia, si ritiene che debba essere confermato il precedente orientamento applicativo per cui i permessi della legge n. 104/1992 non possono essere fruiti frazionatamente anche solo a minuti, non essendosi modificata la specifica disciplina contrattuale di riferimento (orientamento applicativo 09.10.2018 CFL 11b - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Permessi per motivi personali o familiari / Alla luce delle nuove disposizioni contrattuali che consentono la fruibilità su base oraria ed anche in minuti delle ore successive alla prima nel caso dei permessi per particolari motivi personali o familiari (art. 32 del CCNL del 21.05.2018) ed anche della prima ora nella diversa fattispecie dei permessi l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici (art. 35 del CCNL del 21.05.2018), è possibile ritenere che sia consentita la fruizione in minuti anche dei permessi in forma oraria di cui all’art. 33, comma 3, della legge n. 104/1992 ed all’art. 33, comma 1, del CCNL del 21.05.2018?
In materia, si ritiene che debba essere confermato il precedente orientamento applicativo per cui i permessi della legge n. 104/1992 non possono essere fruiti frazionatamente anche solo a minuti, non essendosi modificata la specifica disciplina contrattuale di riferimento (orientamento applicativo 00.10.2018 CFL 11a - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Permessi per motivi personali o familiari / Relativamente alla disciplina dei permessi retribuiti per particolari motivi personali o familiari, per l’anno 2018, ai fini del rispetto del limite massimo di 18 ore annue previsto dall’art. 32, comma 1, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, occorre tenere conto anche dei giorni di permesso per motivi personali o familiari, di cui all’art. 19, comma 2, del CCNL del 06.07.1995, già fruiti dal dipendente prima del 21.05.2018?
La disciplina previgente, contenuta nell’art. 19, comma 2, del CCNL del 06.07.1995 consentiva il riconoscimento dei permessi per motivi personali e familiari con una modalità di fruizione esclusivamente giornaliera, nel limite di tre giorni annui.
Tale disciplina è stata modificata e sostituita da quella contenuta nell’art. 32, comma 2, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, secondo la quale: “Al dipendente, possono essere concesse, a domanda, compatibilmente con le esigenze di servizio, 18 ore di permesso retribuito nell'anno, per particolari motivi personali o familiari.”.
Non viene in considerazione una forma di permesso ulteriore ed aggiuntiva.
Si tratta, infatti, sempre dei permessi per particolari motivi personali o familiari, ma cambia solo la modalità di fruizione da giornaliera, ai sensi del precedente art. 19, comma 2, del CCNL del 06.07.1995, ad oraria, come disposto dal nuovo contratto.
Pertanto, i tre giorni annui di permesso di cui si tratta si sono semplicemente “trasformati” nelle 18 ore annue di cui al citato art. 32, comma 1, del CCNL del 21.05.2018.
Per effetto di quanto sopra detto, conseguentemente, se un lavoratore, prima del 21.05.2018, ha già fruito di uno o più giorni di permesso per motivi personali, secondo la pregressa regolamentazione, questi dovranno essere, comunque, portati in detrazione dal monte delle 18 ore di permesso retribuito, di cui al sopra richiamato art. 32, comma 1, del CCNL del 21.05.2018.
Al fine della corretta determinazione del numero delle ore da detrarre, gli enti possono fare riferimento alle previsioni del comma 2, lett. e) del medesimo art. 32, secondo le quali i permessi orari di cui si tratta “possono essere fruiti, cumulativamente, anche per la durata dell’intera giornata lavorativa; in tale ipotesi, l'incidenza dell'assenza sul monte ore a disposizione del dipendente è convenzionalmente pari a sei ore”.
Tale regola, finalizzata espressamente alla quantificazione delle modalità di decurtazione del monte orario annuale dei permessi orari, nel caso in cui essi siano fruiti cumulativamente per una intera giornata, nell’ambito della nuova regolamentazione introdotta, consente, indirettamente, di determinare anche la decurtazione da operare nella diversa ipotesi di avvenuta fruizione, prima del nuovo CCNL, di giorni di permesso, ai sensi dell’art. 19, comma 2, del CCNL del 06.07.1995.
Infatti, secondo principi di logica e ragionevolezza, non possono applicarsi regole diverse in presenza di fattispecie sostanzialmente assimilabili.
Pertanto, se un dipendente ha già fruito, ai sensi del più volte citato art. 19, comma 2, del CCNL del 06.07.1995, di due giorni di permesso per particolari motivi personali e familiari, l’ente procederà ad una decurtazione di 12 ore di quel monte orario annuo di 18 ore previsto dall’art. 32, comma 1, del CCNL del 21.05.2018.
La disciplina del sopra richiamato comma 2, lett. e), dell’art. 32, comporta che, in caso di fruizione del permesso orario per l’intera giornata lavorativa, la riduzione del monte ore annuo di permessi sarà sempre di sei ore (durata convenzionale), sia nel caso di giornata lavorativa con orario superiore a sei ore (ad esempio, 8 ore) che in quello di orario inferiore alle 6 ore (ad esempio, 5 ore) (orientamento applicativo 09.10.2018 CFL 10 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Permessi per motivi personali o familiari / Come deve essere computato il termine massimo di 7 giorni lavorativi dal decesso per la fruizione dei permessi per lutto?
Si ritiene che il computo del termine massimo di 7 giorni lavorativi dal decesso per la fruizione dei tre giorni di permesso retribuito del lutto, ai sensi dell’art. 31, comma 1, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, debba essere effettuato secondo la generale disciplina civilistica, di cui all’art. 2963 del codice civile ed all’art. 155 del codice di procedura civile (orientamento applicativo 09.10.2018 CFL 9 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assenze per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici / In relazione alle previsioni dell’art. 35, commi da 1 a 10, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, concernenti le 18 ore annuali di permesso per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici, ai fini del computo del periodo di comporto, in caso di fruizione di un giorno di permesso, deve essere computato un giorno di comporto o il conteggio del comporto deve avvenire in base al numero effettivo di ore di lavoro che il dipendente avrebbe dovuto osservare nella giornata di assenza?
In materia deve farsi riferimento alla espressa previsione dell’art. 35, comma 4, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, secondo il quale: “Ai fini del computo del periodo di comporto, sei ore di permesso fruite su base oraria corrispondono convenzionalmente ad una intera giornata lavorativa.”.
Pertanto, nel caso di permessi orari per visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici fruiti cumulativamente per una intera giornata lavorativa, ove questa abbia una durata di 9 ore (per effetto del rientro pomeridiano in presenza di una settimana lavorativa con orario articolato sul 5 giorni), ai fini del computo del periodo di comporto, sarà considerato sempre un solo giorno.
Tuttavia, le ulteriori tre ore di permesso (rispetto alle sei già precedentemente valutate) saranno, comunque, considerate.
Infatti, esse si potranno sommare alle ulteriori ore di permesso eventualmente fruite al medesimo titolo nel corso dell’anno di riferimento e, ove, si raggiunga, di nuovo, il numero di sei, esse daranno luogo al computo di un altro giorno nel periodo di comporto (orientamento applicativo 09.10.2018 CFL 8 - link a www.aranagenzia.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Nuovo fondo risorse decentrate / Ai sensi dell’art. 67, comma 1, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, nell’unico importo consolidato delle risorse stabili ivi previsto, confluisce anche l’importo annuale delle risorse di cui all’art. 32, comma 7, del CCNL del 22.01.2004 (pari allo 0,20% del monte salari dell’anno 2001, esclusa la quota relativa alla dirigenza) nel caso in cui tali risorse non siano state utilizzate nel 2017 per il finanziamento delle posizioni organizzative di alta professionalità.
Era obbligatorio inserire nel fondo lo 0,21 del monte salari dell’anno 2001, come previsto dal ciato art. 32, comma 7, del CCNL del 22.01.2004, anche se l’ente non aveva intenzione di istituire le “alte professionalità”? Qualora l’ente non avesse previsto tali risorse nel fondo del 2017 e non le avesse accantonate, può comunque inserirle nell’unico importo consolidato relativo al 2017?

Relativamente alle particolari problematiche esposte, si ritiene opportuno precisare quanto segue.
Se le risorse di cui all’art. 32, comma 7, del CCNL del Comparto Regioni-Autonomie Locali del 22.01.2004 non erano già state stanziate dall’Ente negli anni precedenti, come pure disposto dalla richiamata disciplina contrattuale e ribadito dalla dichiarazione congiunta n. 1, allegata al CCNL del 09.05.2006, allora le stesse non possono in alcun modo essere inserite nella parte stabile del Fondo di cui all’art. 67, comma 1, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018.
In proposito, tuttavia, si ritiene opportuno rilevare che, come già evidenziato in precedenti orientamenti applicativi predisposti in materia, qualora l’ente dovesse riconoscere un proprio errore nel procedimento di calcolo e di quantificazione delle singole voci di alimentazione delle risorse decentrate, potrebbe eventualmente, procedere, secondo criteri di correttezza e buona fede, ad un eventuale intervento correttivo, nel rispetto evidentemente delle clausole negoziali che le prevedono e disciplinano.
In materia, interverranno i medesimi soggetti che ordinariamente provvedono e sovrintendono alla quantificazione delle risorse destinate alla contrattazione integrativa: i competenti uffici dell’ente nonché i revisori dei conti.
L’ente deve anche procedere ad un ulteriore adempimento in quanto deve comunicare alla Ragioneria Generale dello Stato del Ministero dell’Economia e delle Finanze le modifiche intervenute, per effetto del ricalcolo, nell’ammontare delle risorse decentrate al fine della necessaria variazione dei dati del Conto annuale, eventualmente evidenziando anche le ragioni giustificative dello stesso.
Data la rilevanza di tale fattispecie di ricalcolo con effetto retroattivo delle risorse decentrate, anche ai fini del rispetto dei vincoli legislativi di finanza pubblica intervenuti anche in passato in materia e venendo in considerazione una problematica concernente comunque le modalità applicative di specifiche disposizioni di legge, ulteriori indicazioni possono essere utilmente acquisite anche dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, istituzionalmente competente per l’interpretazione delle norme di legge concernenti il rapporto di lavoro pubblico (orientamento applicativo 08.10.2018 CFL 7 - link a www.aranagenzia.it).

A.N.AC.

APPALTI SERVIZIGare per contratti misti, serve l'attestazione Soa.
In un contratto misto di manutenzione di immobili è necessaria l'attestazione Soa per partecipare alla gara anche se i lavori hanno carattere accessorio rispetto alle altre prestazioni (servizi e forniture), a condizione che gli interventi determino un quid novi.

È quanto ha precisato l'Anac con la Parere di Precontenzioso 05.09.2018 n. 756 - rif. PREC 159/18/S, affrontando una fattispecie inerente all'affidamento di un contratto di manutenzione di immobili avente ad oggetto sia servizi che lavori (nella specie, opere straordinarie di manutenzione) qualificato come appalto di servizi, senza richiesta di attestazione Soa, società organismo di attestazione.
L'Autorità, in premessa, ha ricordato come la tipologia dei requisiti da richiedere ai fini della partecipazione va valutata con riferimento alle attività oggetto del contratto. In caso di contratto misto, nel quale coesistono due o più tipi di prestazioni, l'operatore economico deve possedere i requisiti di qualificazione e capacità prescritti dal dlgs n. 50/2016 per ciascuna prestazione di lavori, servizi, forniture prevista dal contratto. È quanto prevede in particolare, l'articolo 28, comma 1, del codice dei contratti pubblici.
Venendo al caso di appalti per l'affidamento della manutenzione degli immobili, il parere Anac rammenta che nelle linee guida sull'affidamento dei servizi di manutenzione degli immobili (Determinazione n. 7 del 28.04.2015) era stato recepito l'orientamento di giurisprudenza e della stessa Autorità per cui «qualora tra le prestazioni del bando siano previste, sia pure a carattere accessorio, attività qualificate come lavori, il concorrente deve possedere, oltre ai requisiti previsti per i servizi, anche la qualificazione per i lavori per la categoria e l'importo corrispondente alle lavorazioni oggetto dell'appalto».
In passato, infatti, la distinzione tra servizi (di manutenzione) e lavori (di manutenzione) è stata oggetto di una intensa attività interpretativa con la conseguenza che, ha detto l'Anac, «il concetto di manutenzione rientra nell'ambito dei lavori pubblici qualora l'attività dell'appaltatore comporti un'azione prevalente ed essenziale di modificazione della realtà fisica (c.d. quid novi) che prevede l'utilizzazione, la manipolazione e l'installazione di materiali aggiuntivi e sostitutivi non inconsistenti sul piano strutturale e funzionale».
Se invece viceversa, tali azioni non si traducono in una essenziale o significativa modificazione dello stato fisico del bene, l'attività si configura come prestazione di servizi. Nel caso specifico, la stazione appaltante da un lato (capitolato descrittivo e prestazionale) ha genericamente riconosciuto la natura mista del contratto (lavori a titolo accessorio) e dall'altro (bando e disciplinare) non ha richiesto i relativi requisiti di partecipazione.
Per l'Anac è quindi mancata un'analisi sul quid novi: avrebbe dovuto identificare in modo preciso la natura, le caratteristiche e l'importo delle varie lavorazioni, in modo tale da commisurare la qualificazione da richiedere ai fini della partecipazione all'effettiva entità degli interventi da realizzare. E da questa analisi emerge che occorreva l'attestazione Soa (articolo ItaliaOggi del 28.09.2018).

APPALTIAnac, proroghe del termine per integrare la documentazione solo in casi eccezionali.
Con il Parere di Precontenzioso 05.09.2018 n. 751 - rif. PREC 134/18/S, l'Anac –risolvendo ogni dubbio in proposito– afferma che il termine per integrare eventuali carenze della documentazione di gara, purché non si tratti di elementi che riguardano l'offerta tecnico/economica, deve essere inteso come perentorio e l'appaltatore non può pretendere una proroga se non oggettivamente motivata da difficoltà imprevedibili.
La vicenda
Rivolgendosi all'autorità anticorruzione, un appaltatore aveva evidenziato di essere stato escluso da una procedura d'appalto per non aver provveduto, nel termine richiesto dalla stazione appaltante in sede di soccorso istruttorio, a integrare la documentazione che attestava il possesso del requisito di capacità economico-finanziaria relativo al fatturato specifico nel settore di attività oggetto dell'appalto.
L'Anac ha affrontato la tematica chiarendo anche alcuni concetti sui quali l'interpretazione, da parte dei vari responsabili unici delle stazioni appaltanti, risulta laboriosa.
In primo luogo, viene fatta la distinzione tra servizi analoghi e servizi specifici. Nel momento in cui la stazione appaltante esige un fatturato minimo con riferimento a servizi come quelli oggetto dell'appalto, non vi è alcun margine di discrezionalità.
E su questo tema, si legge nel parere, la giurisprudenza ha chiarito che, se il bando richiede come requisito di partecipazione un fatturato specifico relativo a precedenti servizi svolti e inerenti l'oggetto dell'appalto, «è necessario che le precedenti esperienze del concorrente riguardino servizi propri dello specifico settore cui attiene l'oggetto dell'appalto, secondo un criterio di analogia ed inerenza che non richiede l'esatta coincidenza dei servizi con quelli nominalmente richiamati negli atti della specifica procedura concorsuale (Cons. Stato, Sez. V, 27.04.2015, n. 2098)».
Altro chiarimento ha riguardato l'esatta configurazione giuridica delle referenze bancarie.
Le referenze bancarie, secondo l'Authority, altro non sono che lettere di “affidabilità” con le quali gli istituti di credito attestano «di intrattenere rapporti di affidamento bancario con un operatore economico, sono infatti finalizzate a certificare la solidità economica del concorrente e consistono in un'attestazione dell'idoneità dell'impresa sotto il profilo delle risorse disponibili a far fronte agli impegni che conseguirebbero dall'aggiudicazione dell'appalto, ma non sono idonee a comprovarne il fatturato specifico».
Pertanto, come nel caso di specie, in presenza di dubbi è corretto il comportamento del Rup che richiede altra documentazione per dimostrare il fatturato richiesto come condizione per poter essere ammessi in gara.
Il termine del soccorso istruttorio
Infine, viene affrontato l'aspetto sulla natura del termine concesso per le integrazioni/correzioni della documentazione di gara. La nuova norma (articolo 83, comma 9, del codice) conferma che l'appaltatore deve adempiere alle richieste entro un termine non superiore a 10 giorni.
Secondo l'Anac, questo termine non può essere interpretato in modo discrezionale in quanto costituisce un vincolo perentorio senza possibilità di proroghe o differimenti se non in presenza di specifiche ed oggettive ragioni che non siano imputabili al soggetto interessato. In particolare, nel parere si legge che «la possibilità di concedere una proroga è riconosciuta nei casi di obiettiva impossibilità o difficoltà dovute a cause “esterne”, indipendenti dalla volontà del concorrente».
Nel caso di specie, nessuna prova è stata fornitura e l'appaltatore non ha neppure «dato atto del tempestivo impegno per adeguarsi alla richiesta, avendo inviato l'istanza di proroga a ridosso della scadenza prefissata». Né può essere accettata una tesi di irragionevolezza del tempo assegnato per la regolarizzazione, tenuto conto della tipologia dei documenti mancanti (che richiedono il semplice reperimento di dati su contratti svolti) e non particolare impegno.
La sottolineatura dell'Anac introduce, quindi, anche l'esigenza che nell'ambito della stessa stazione appaltante i vari responsabili adottino un comportamento uniforme evitando quindi –laddove non sia oggettivamente necessario– la concessione di termini diversi e/o addirittura ammettendo proroghe non fondate su circostanza peculiari adeguatamente motivate (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.09.2018).

QUESITI & PARERI

APPALTI: Dati componenti commissioni gara.
Domanda
Nella sezione del sito web istituzionale di Amministrazione Trasparente vanno pubblicati i nomi dei componenti delle commissioni giudicatrici delle procedure di affidamento di appalti pubblici?
Risposta
L’articolo 37 del Decreto Trasparenza (decreto legislativo 14.03.2013, n. 33), che riguarda la pubblicazione di dati e informazioni nella sotto sezione di primo livello “Bandi di Gara e Contratti”, è stato completamente riformulato dopo le modifiche introdotte dal d.lgs. 25.05.2016, n. 97, che dovevano essere applicate entro il 23.12.2016 (sei mesi dall’entrata in vigore, fissata per il 23.06.2016).
Alcuni obblighi, già fissati dall’art. 1, comma 32, della legge Severino (legge 06.11.2012, n. 190) sono rimasti inalterati, in particolare quelli riguardanti l’elaborazione e la trasmissione all’ANAC (ex AVCP), entro il 31 gennaio di ogni anno, dei tracciati xml contenenti le informazioni sugli affidamenti e sui loro CIG (Codici Identificativi di Gara).
Sono stati invece aggiunti –e richiamati– alcuni obblighi di pubblicazione rintracciabili nell’ultimo Codice dei Contratti Pubblici (decreto legislativo 50/2016), all’articolo 29, tra i quali ritroviamo proprio le informazioni sulla composizione della commissione giudicatrice.
In particolare, sono assoggettati all’obbligo di pubblicazione non solo i nominativi dei componenti della commissione giudicatrice, ma anche i loro curricula.
Inoltre, sono da pubblicare (e aggiornare):
   • tutti gli atti relativi alla programmazione di lavori e opere, servizi, forniture, concorsi pubblici di progettazione, concorsi di idee, concessioni, solo se non considerati riservati o secretati;
   • i resoconti della gestione finanziaria dei contratti, al termine della loro esecuzione.
Per approfondimenti in materia, si suggerisce di consultare anche le Linee guida dell’Autorità (ANAC) approvate con deliberazione n. 1310 del 28.12.2016.
Quanto alle modalità da utilizzare per la pubblicazione degli atti, sono le medesime che regolano la pubblicazione di tutti i dati e le informazioni presenti nella sezione web di Amministrazione Trasparente, fissati dagli articoli 6 e 9 del Decreto Trasparenza e dall’ormai celebre Allegato 2 (Documento tecnico sui criteri di qualità della pubblicazione dei dati) alla deliberazione dell’Autorità (ex CIVIT) n. 50/2013 (30.10.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGOAssunzione categorie protette extra quota d’obbligo.
Domanda
Il nostro comune vorrebbe assumere un istruttore tecnico appartenente alle categorie protette. Pur non essendo soggetti all’obbligo, se assumessimo questa figura, potrebbe comunque la spesa non rientrare nel limite della media triennale?
Risposta
L’obbligo di assunzione di soggetti disabili, sancito dalla Legge n. 68/1999 e s.m.i., presuppone la scopertura della relativa quota di riserva calcolata con riferimento alla quota prevista a regime per l’Ente.
Le assunzioni che non valgono come copertura della quota di riserva non beneficiano dell’esclusione dai limiti di legge inerenti le spese di personale.
Se non vi è scopertura, dato che l’ente non è obbligato ad assumere disabili, sono necessari, da un lato il rispetto delle regole in materia di contenimento delle spese di personale (media triennio 2011-2013), dall’altro la disponibilità di facoltà assunzionale al fine di procedere all’assunzione tramite concorso (o scorrimento di graduatoria valida), qualora le procedure di mobilità si concludano con esito negativo (di norma: prima art. 34-bis, poi art. 30 del TUPI) (25.10.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTIRUP e scelta appaltatori.
Domanda
Nel nostro ente stiamo predisponendo il regolamento che disciplina le acquisizioni di forniture, servizi e lavori nel sotto soglia comunitario ed in particolare, più specificatamente, in relazione all’applicazione concreta dell’articolo 36 del codice dei contratti.
Strutturando la disciplina della procedura negoziata semplificata, in relazione alle forniture ed ai servizi, ci si è posti il problema dell’interazione sul mercato elettronico in relazione alla scelta dei soggetti da invitare al procedimento di gara.
Che tipo di criteri possono essere utilizzati?
Risposta
La questione della scelta degli appaltatori da invitare al procedimento di gara, nel caso di acquisto dal mercato elettronico (sia il MEPA sia la vetrina del soggetto aggregatore regionale) è stata oggetto di considerazione anche da parte di recentissima giurisprudenza (in questo senso il Consiglio di Stato, sentenza, n. 5833 del 10.10.2018).
La giurisprudenza, così come già l’ANAC (con le linee guida n. 4 in tema di acquisizione nell’ambito sotto soglia comunitario e segnatamente in relazione all’applicazione dell’articolo 36 del codice dei contratti), evidenzia che la scelta degli appaltatori da invitare alla procedura negoziata (e su cui innestare o gli inviti tradizionali o le RDO sul mercato elettronico) deve avvenire previa indagine di mercato.
È chiaro poi che nell’avviso –anche “lanciato” sul MEPA– dovranno essere specificati i criteri per la scelta degli appaltatori da invitare alla competizione semplificata. Uno dei criteri, suggeriti anche dall’ANAC, è quello del sorteggio che deve avvenire con modalità trasparenti e tutelando l’anonimato degli appaltatori. Le stesse “dinamiche” delle piattaforme dei soggetti aggregatori consentono di lanciare un “sorteggio” anche tra tutti gli iscritti.
Sotto il profilo pratico, già nella determinazione che approva l’avviso pubblico per avviare l’indagine di mercato il RUP dovrebbe indicare quali siano i criteri che poi determinano la scelta degli appaltatori da invitare, sempre fatto salvo che lo stesso responsabile unico del procedimento non abbia suggerito al dirigente/responsabile del servizio di invitare tutti gli appaltatori che abbiamo manifestato l’interesse ad essere invitati alla competizione.
Ad ausilio del RUP sembra importante riportare alcuni passi della sentenza citata (che, a margine di una complessa vicenda sulla negata possibilità di ottenere finanziamenti ministeriali che esigevano una procedura di gara trasparente ed oggettiva, ha respinto il ricorso del comune proprio perché era stata omessa l’indagine di mercato con la previa fissazione dei criteri di scelta degli appaltatori da invitare) in cui si legge:
   • le stesse Linee Guida n. 4 dell’ANAC, approvate dal Consiglio dell’Autorità con delibera n. 1097 del 26.10.2016 e aggiornate al d.lgs. n. 56 del 19.04.2017 con la delibera n. 206 del 01.03.2018, hanno chiarito, al punto 5.1.1., lett. c), che le stazioni appaltanti possano dotarsi, nel rispetto del proprio ordinamento, di un regolamento in cui vengano disciplinati, tra gli altri, i criterî di scelta dei soggetti da invitare a presentare offerta a seguito di indagine di mercato o attingendo all’elenco degli operatori economici propri o da quelli presenti nel mercato elettronico delle pp.aa. o altri strumenti similari gestiti dalle centrali di committenza di riferimento;
   • l’opportunità di indicare almeno tali criterî risponde all’esigenza di evitare che il ricorso al mercato elettronico, sia esso facoltativo o, come in questo caso, obbligatorio per le stazioni appaltanti, si presti comunque a facili elusioni della concorrenza, poiché la stazione appaltante deve selezionare, in modo non discriminatorio, gli operatori da invitare, in numero proporzionato all’importo e alla rilevanza del contratto e, comunque, in numero almeno pari a cinque, sulla base dei criterî definiti nella determina a contrarre ovvero nell’atto equivalente;
•in questo modo si intende evitare che anche il ricorso a cataloghi del mercato elettronico o standardizzati, in uso presso le stazioni appaltanti, presti il fianco all’aggiramento dei principî atti ad assicurare imparzialità, trasparenza, e par condicio tra gli operatori economici, quando pure qualificati e iscritti in detti elenchi, con la scelta di eventuali operatori “graditi” da invitare finanche in tali elenchi (24.10.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: rettifica di un permesso di abitabilità rilasciato nel 1972 – presupposti – parere (Legali Associati per Celva, nota 23.10.2018 - tratto da www.celva.it).

ATTI AMMINISTRATIVIAccesso civico e controinteressati.
Domanda
A fronte di una richiesta di accesso civico “semplice” è necessario informare gli eventuali controinteressati, dando loro la possibilità di presentare opposizione ed eventuali osservazioni?
Risposta
Il quesito trova risposta in un inciso contenuto nell’art. 5, comma 5, del d.lgs. 14.03.2013, n. 33, come modificato dal d.lgs. 25.05.2016, n. 97, laddove è disciplinato principalmente il diverso istituto dell’accesso civico “generalizzato”.
La suddetta disposizione prevede, infatti, che “fatti salvi i casi di pubblicazione obbligatoria, l’amministrazione cui è indirizzata la richiesta di accesso, se individua soggetti controinteressati, ai sensi dell’articolo 5 bis, comma 2, è tenuta a dare comunicazione agli stessi, mediante invio di copia con raccomandata con avviso di ricevimento, o per via telematica per coloro che abbiano consentito tale forma di comunicazione. Entro 10 giorni dalla ricezione della comunicazione, i controinteressati possono presentare una motivata opposizione, anche per via telematica, alla richiesta di accesso”.
È, pertanto, escluso, in caso di domanda di accesso civico “semplice”, l’obbligo di instaurazione del contraddittorio con alcun soggetto terzo, diversamente da quanto previsto per l’accesso civico sancito al secondo comma, dell’art. 5, nonché per l’accesso documentale disciplinato dalle norme sul procedimento amministrativo – legge 07.08.1990, n. 241.
Il Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza, al quale deve essere inviata la richiesta, è tenuto a pronunciarsi su di essa entro trenta giorni, pubblicando il documento o l’informazione richiesta sul proprio sito e contestualmente comunicando l’avvenuta pubblicazione al richiedente, o allegando il documento richiesto, più semplicemente, indicando il relativo collegamento ipertestuale utile per reperire quanto richiesto sul web.
L’unica verifica spettante al RPCT è quella di appurare se l’Ente abbia correttamente adempiuto all’obbligo di legge. Alcuna valutazione, alcun bilanciamento di interessi privati e pubblici in gioco deve essere effettuata; questa è, infatti, operata a monte dal legislatore il quale, coerentemente, non ha previsto alcun obbligo di coinvolgimento di soggetti controinteressati (potenzialmente idonei ad essere lesi nel loro diritto alla riservatezza), ed ha, altresì, stabilito che la richiesta di accesso civico non debba essere motivata.
L’istituto, d’altronde, costituisce un mero rimedio alla mancata osservanza degli obblighi di pubblicazione imposti dalla legge (tanto dal d.lgs. 33/2013 quanto dalla altre disposizioni di settore), e sovrappone al dovere pubblicistico ricadente sulle pubbliche amministrazioni, il diritto del privato di accedere agli atti, dati e informazioni interessati dall’inadempienza.
A diverso regime sono, invece, sottoposte le istanze di accesso civico “generalizzato” –istituto finalizzato ad assicurare al cittadino un controllo “sociale” sull’azione amministrativa e la verifica sul rispetto dei canoni dell’imparzialità e della trasparenza– aventi ad oggetto dati e documenti relativi a (o contenenti) dati personali.
In questo caso l’Ente, come disposto dall’Autorità Nazionale Anticorruzione, con la delibera n. 1309, del 28.12.2016, di approvazione delle “Linee Guida recanti indicazioni operative ai fini della definizione delle esclusioni e dei limiti all’accesso civico di cui all’art. 5 co.2 del d.lgs. 33/2013”, deve valutare “se la conoscenza di da parte di chiunque del dato personale richiesto arreca (o possa arrecare) un pregiudizio concreto alla protezione dei dati personali, in conformità alla disciplina legislativa in materia”. E per far ciò deve interpellare eventuali soggetti controinteressati invitandoli a presentare osservazioni e l’eventuale opposizione all’ostensione del documento o delle informazioni.
Tutte le anzidette considerazioni trovano conferma nella circolare n. 2/2017 del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, avente ad oggetto “Attuazione delle norme sull’accesso civico generalizzato (c.d. FOIA)”, laddove al punto 6 è stabilito che “L’art. 5, comma 5, d.lgs. n. 33/2013 prevede che, per ciascuna domanda di accesso generalizzato l’amministrazione debba verificare l’eventuale esistenza di controinteressati. Invece questa verifica non è necessaria quando la richiesta di accesso civico abbia ad oggetto dati la cui pubblicazione è prevista dalla legge come obbligatoria” (23.10.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Orario giornaliero e pausa.
Domanda
Nel nostro ente l’orario di lavoro di alcuni dipendenti in qualche giorno supera le 6 ore continuative senza pausa e rientro pomeridiano (ad esempio: ore 6.30’ o 7.12’ continuative).
Alla luce di quanto stabilito dall’art. 26 del nuovo CCNL Funzioni Locali, oltre le 6 ore di prestazione lavorativa va comunque prevista una pausa della durata di almeno 30 minuti.
Risposta
Le fonti del diritto che disciplinano la pausa sono l’art. 8 del d.lgs. 66/2003 e gli artt. 22 e 26 del CCNL del 21.05.2018.
La disciplina legale demanda alla contrattazione collettiva il compito di fissare le modalità di fruizione e la durata della pausa obbligatoria: quella cioè che deve essere fruita dal lavoratore qualora l’orario di lavoro giornaliero ecceda le 6 ore.
L’art. 8, comma 2, del d.lgs. 66/2003 precisa che, in difetto di disciplina collettiva, la durata della pausa è determinata in un periodo non inferiore a dieci minuti e questa è stata la norma che ha guidato il comportamento degli enti in relazione alla pausa, sino alla stipula del contratto del 21 maggio scorso.
La disciplina contrattuale, in esecuzione della previsione di legge, definisce all’art. 22, comma 7, il diritto alla pausa come un diritto indisponibile e fissa in 30 minuti la durata della pausa obbligatoria, declinando così il “dovere” di prevederla e rinviando all’art. 26 per la disciplina di dettaglio.
Da ultimo, l’art. 26 precisa che, qualora la prestazione di lavoro giornaliera ecceda le sei ore, il personale, purché non in turno, ha diritto a beneficiare di una pausa di almeno 30 minuti.
La pausa non è considerata orario di lavoro e perciò non è retribuita e va rilevata con il cartellino segnatempo dal lavoratore.
La modalità con la quale la pausa deve essere fruita, è identica in entrambe le ipotesi di articolazione di orario di lavoro prospettate.
Il principio da rispettare è quello di prevedere una pausa obbligatoria, dopo le 6 ore continuative di lavoro.
Pertanto, nel caso in cui l’orario di lavoro sia di 7,12 ore, al trascorrere del termine della sesta ora, il lavoratore deve fermarsi per almeno 30 minuti.
Allo stesso modo occorre comportarsi in caso di lavoro straordinario.
La pausa è rivolta infatti al recupero delle energie psicofisiche del lavoratore e per questa ragione deve considerarsi alla stregua di un diritto indisponibile.
Il legislatore non ha indicato un perimetro temporale di tolleranza pertanto, un orario di lavoro di 7ore e 12 minuti continuativi non può più dirsi conforme alle disposizioni contrattuali, così come una frazione di tempo superiore alle 6 ore, lavorata ininterrottamente.
Le ipotesi che derogano all’obbligo di rispettare la pausa sono quelle indicate nel contratto all’art. 26, comma 4, quando cioè il lavoratore stia svolgendo attività obbligatoria per legge (18.10.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI: Gare telematiche.
Domanda
Sono un funzionario del settore tecnico di un comune non capoluogo di provincia e vorrei sapere se è confermato l’obbligo delle gare telematiche per l’appalto di lavori pubblici a partire dal 18.10.2018.
Risposta
L’art. 40 del codice dei contratti rubricato “Obbligo di uso dei mezzi di comunicazione elettronici nello svolgimento di procedure di aggiudicazione” stabilisce: “1. Le comunicazioni e gli scambi di informazioni nell’ambito delle procedure di cui al presente codice svolte da centrali di committenza sono eseguiti utilizzando mezzi di comunicazione elettronici ai sensi dell’articolo 5-bis del decreto legislativo 07.03.2005, n. 82, Codice dell’amministrazione digitale.
2. A decorrere dal 18.10.2018, le comunicazioni e gli scambi di informazioni nell’ambito delle procedure di cui al presente codice svolte dalle stazioni appaltanti sono eseguiti utilizzando mezzi di comunicazione elettronici
“.
L’obiettivo del legislatore nazionale e comunitario è quello di garantire la segretezza e l’immodificabilità delle offerte nelle procedure di affidamento, attraverso l’introduzione obbligatoria dei mezzi di comunicazione elettronici, in particolare mediante l’utilizzo delle piattaforme telematiche di negoziazione per tutti gli approvvigionamenti.
Pertanto, a decorrere dal 18.10.2018 il comune potrà procedere agli acquisti di forniture e servizi sotto soglia comunitaria utilizzando il Mepa, oppure –ad esempio in Lombardia e Veneto– la piattaforma telematica di negoziazione denominata Sintel (di Arca Regione Lombardia resa disponibile anche per gli enti del Veneto.)
Analogamente, per l’affidamento di lavori pubblici inferiori a 150.000 euro nel caso di manutenzione straordinaria, ovvero inferiori ad 1.000.000 euro nel caso di manutenzione ordinaria, l’ente potrà utilizzare il Mepa o la piattaforma Sintel (17.10.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Registro degli accessi.
Domanda
A un corso di formazione ci è stato detto che dobbiamo tenere un unico registro per gli accessi agli atti del comune. Ci potete confermare se la questione è vera e quale è la norma di riferimento?
Risposta
Con l’introduzione nella legislazione italiana, del FOIA (Freedom Of Information Act – legge sulla libertà di informazione), avvenuta con gli articoli 5, comma 2 e 5-bis, del d.lgs. 33/2013, nel testo introdotto dall’art. 6, del d.lgs. 25.05.2016, n. 97, le forme di accesso agli atti delle pubbliche amministrazioni si possono effettuare con tre tipologie, secondo le seguenti definizioni:
   a) per accesso documentale, si intende l’accesso disciplinato dal capo V, articoli da 22 a 28, della legge 241/1990;
   b) per accesso civico, si intende l’accesso di cui all’art. 5, comma 1, del decreto trasparenza (d.lgs. 33/2013), ai documenti oggetto degli obblighi di pubblicazione;
   c) per accesso generalizzato, si intende l’accesso di cui all’art. 5, comma 2, del decreto trasparenza.
Per ogni tipologia di accesso, l’ente è tenuto a predisporre un’apposita modulistica, che deve trovare collocazione nel sito web istituzionale alla sessione: Amministrazione trasparente > Altri contenuti > Accesso civico.
Per ciò che riguarda gli accessi della legge 241/1990 e quelli dell’accesso civico generalizzato (FOIA), l’istanza va indirizzata al responsabile dell’ufficio che detiene, l’atto o il documento per il quale si intende effettuare l’accesso. Per le richieste di accesso civico “semplice” (art. 5, comma 1), invece, la richiesta va indirizzata direttamente al responsabile della trasparenza, nominato nell’ente, così come previsto all’art. 5, comma 3, lettera d) del d.lgs. 33/2013.
Come espressamente stabilito nell’articolo 5-bis, comma 6, del d.lgs. 33/2013, l’ANAC doveva adottare delle apposite Linee guida, recanti indicazioni operative, d’intesa con il Garante per la protezione dei dati personali (Garante Privacy) e sentita la Conferenza unificata dell’art. 8, d.lgs. 281/1997.
L’ANAC ha provveduto a ciò, approvando la deliberazione n. 1309 del 28.12.2016, avente per oggetto: Linee guida recanti indicazioni operative ai fini della definizione delle esclusioni e dei limiti all’accesso civico di cui all’art. 5, co. 2, del d.lgs. 33/2013.
Al Paragrafo 9, lettera c) delle citate Linee guida, viene previsto quanto segue: “c) sia istituito presso ogni amministrazione un registro delle richieste di accesso presentate (per tutte le tipologie di accesso)”.
Anche se l’obbligo, dunque, non è previsto in alcuna disposizione legislativa, a nostro giudizio, l’adempimento va comunque eseguito, in quanto stabilito nelle Linee guida dell’ANAC, adottate a seguito di uno specifico rimando normativo. Nella disciplina interna (di solito si adotta un regolamento comunale), è bene che venga identificata la struttura (ufficio/servizio) che avrà il compito di istituire il registro e di tenerlo costantemente aggiornato, nonché le modalità di trasferimento delle informazioni dai singoli uffici verso la struttura deputata alla tenuta del registro (16.10.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Regole per assumere 110, comma 1, nell’unione.
Domanda
Quali sono le regole essenziali per assumere attraverso l’istituto dell’art. 110, comma 1, del d.lgs. 267/2000, in un’unione di comuni?
Risposta
Con riferimento alla richiesta in merito all’assunzione da parte di un’unione di un dipendente ex art. 110, comma 1, del d.lgs. 267/2000, riportiamo di seguito alcune considerazioni:
   1. trattandosi di incarico in dotazione organica il posto deve essere previsto nella stessa;
   2. per poterlo prevedere l’ente deve dimostrare di rispettare tutti i limiti vigenti in materia di risorse umane e nello specifico:
      • gli incarichi ex art. 110 rientrano sicuramente nella norma di contenimento della spesa di personale (comma 557 o comma 562 della l. 296/2009) e, quindi, l’ente deve avere il margine per tale assunzione. Ricordiamo, che la spesa di personale dell’unione deve comunque trovare spazio nei limiti delle spese di personale dei comuni che partecipano all’unione medesima. Quindi, per poter proceder all’assunzione è necessario verificare se la maggior spesa dell’art. 110 permette a tutti gli enti e all’unione di rispettare le norme sopra richiamate;
      • gli incarichi ex art. 110, comma 1, non rientrano nel limite del lavoro flessibile in quanto esplicitamente esclusi dallo stesso art. 9, comma 28, del d.l. 78/2010;
      • gli incarichi ex art. 110, comma 1, essendo temporanei non assorbono capacità assunzionale per assunzioni a tempo indeterminato;
      • se all’incaricato viene corrisposta la retribuzione di posizione o l’assegno ad personam di cui al comma 3, questi rientrano, a nostro parere e nonostante il parere contrario di alcune sezioni regionali della Corte dei Conti, nel limite del trattamento accessorio di cui all’art. 23, comma 2, del d.lgs. 75/2017 (se non in quello dell’unione in quello dei comuni aderenti) (11.10.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - SEGRETARI COMUNALI: Verbalizzazione delle sedute del consiglio comunale.
Il verbale ha l’onere di attestare il compimento dei fatti svoltisi al fine di verificare il corretto iter di formazione della volontà collegiale e di permettere il controllo delle attività svolte, non avendo al riguardo alcuna rilevanza l’eventuale difetto di una minuziosa descrizione delle singole attività compiute o delle singole opinioni espresse.
Il Comune chiede un parere in materia di verbalizzazione delle sedute del consiglio comunale. Più in particolare, desidera sapere se un consigliere possa pretendere la verbalizzazione di alcune dichiarazioni rese dal sindaco nel corso di una seduta assembleare.
In via generale, si ricorda che il verbale, quale atto giuridico annoverabile nella più ampia categoria degli atti certificativi, è un documento finalizzato alla descrizione di atti e/o fatti rilevanti per il diritto, compiuti alla presenza di un soggetto verbalizzante, al fine di garantire la certezza della descrizione degli accadimenti constatati, documentandone l’esistenza
[1].
Il decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 recante “Testo unico sull’ordinamento degli enti locali” non contiene norme specifiche sulle modalità di redazione del verbale delle sedute degli organi collegiali dell’ente locale o circa i suoi contenuti. Uniche norme di riferimento sono l’articolo 97, comma 4, lett. a), che, nell’individuare le funzioni del segretario comunale ne indica anche la partecipazione con funzioni consultive, referenti e di assistenza alle riunioni del consiglio e della giunta e prevede che egli curi la verbalizzazione delle stesse, nonché l’articolo 38, comma 2, TUEL che rimanda al regolamento sul funzionamento dei consigli, nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto, la disciplina del funzionamento del consiglio nel cui alveo si ritiene debba ricomprendersi anche la parte sulla verbalizzazione delle sedute consiliari.
Circa la funzione ed i contenuti del verbale assembleare certa dottrina
[2] ha affermato che il verbale della seduta di un organo collegiale “rappresenta la «memoria» di quanto è accaduto e documenta i fatti salienti della seduta”.
Anche la giurisprudenza, intervenuta sull’argomento, ha affermato che: “Il verbale ha l’onere di attestare il compimento dei fatti svoltisi al fine di verificare il corretto iter di formazione della volontà collegiale e di permettere il controllo delle attività svolte, non avendo al riguardo alcuna rilevanza l’eventuale difetto di una minuziosa descrizione delle singole attività compiute o delle singole opinioni espresse
[3].
Da quanto sopra, ed al fine di fornire una risposta al quesito posto, emerge che per individuare i contenuti di un verbale è necessario, in primis, analizzare le disposizioni, eventualmente esistenti sull’argomento, del regolamento sul funzionamento del consiglio del Comune e, in subordine, avvalersi dei principi elaborati in sede giurisprudenziale e dottrinale al riguardo.
Il regolamento dell’Ente al Titolo VIII, “Verbali delle adunanze del Consiglio Comunale”, articolo 41, rubricato “I verbali delle deliberazioni: contenuto” prevede, al comma 1, che il verbale debba contenere una serie di indicazioni. Tra queste, per quel che rileva in questa sede, si riporta quella di cui alla lett. i) secondo cui il verbale deve contenere “le principali argomentazioni emerse dal dibattito con una verbalizzazione integrale dell’intervento, qualora richiesto esplicitamente da un consigliere”.
La prima parte della disposizione citata pare essere esplicativa dei principi espressi da dottrina e giurisprudenza sull’argomento ovverosia che, tendenzialmente, non tutti gli atti o fatti devono essere necessariamente documentati nel verbale, ma solo quelli che, secondo un criterio di ragionevole individuazione, assumono rilevanza proprio in relazione alle finalità cui l’attività di verbalizzazione è preposta.
Circa la seconda parte della disposizione citata, ove si prevede l’obbligo della verbalizzazione integrale dell’intervento, qualora richiesto esplicitamente da un consigliere, si evidenzia la necessità di procedere all’interpretazione della disposizione suddetta, atteso che essa potrebbe essere intesa nel senso che un consigliere può esplicitamente richiedere la verbalizzazione integrale del proprio intervento oppure, in un senso più ampio, richiedere, sempre esplicitamente, la verbalizzazione integrale anche di interventi di altri consiglieri o del sindaco stesso.
Al riguardo, si ricorda che l’interpretazione delle norme sul funzionamento del consiglio comunale compete unicamente all’organo che le ha elaborate, quindi allo stesso organo consiliare.
Ciò premesso, a meri fini collaborativi, si rileva che, ad avviso di questo Ufficio, tale disposizione sembrerebbe doversi intendere nel senso che un consigliere possa esplicitamente richiedere la verbalizzazione integrale soltanto del proprio intervento.
Ciò parrebbe porsi in linea con il principio che sembra desumersi da alcune disposizioni normative, riguardanti l’ambito civilistico, e precisamente afferenti il contenuto dei verbali, rispettivamente delle assemblee condominiali
[4] e delle società per azioni [5], le quali prevedono la possibilità di riproposizione nel verbale delle sole dichiarazioni rese dal richiedente la stessa [6].
Fermo quanto sopra si ribadisce ad ogni modo che compete esclusivamente al consiglio comunale interpretare la disposizione regolamentare in argomento, eventualmente anche nel senso di ritenere possibile che la richiesta di verbalizzazione integrale riguardi altresì interventi di altri consiglieri o del sindaco stesso.
---------------
[1] In questi termini, si veda Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 18.07.2018, n. 4373.
[2] R. Chieppa, R. Giovagnoli, “Manuale di diritto amministrativo”, 2011, Giuffré editore, pag. 453.
[3] Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 25.07.2001, n. 4074. Nello stesso senso, Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza del 02.03.2001, n. 1189 e TAR Lazio–Roma, sez. I, sentenza del 12.03.2001, n. 1835. Si veda, anche, Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza del 14.04.2008, n. 1575 ove si afferma che: “Si deve ritenere che nell’ambito dell’attività amministrativa, il verbale non necessariamente debba contenere la descrizione minuta di ogni singola modalità di svolgimento dell’azione (finendo ciò per appesantire notevolmente la funzione verbalizzatrice senza una seria giustificazione), ma debba riportarne solo gli aspetti salienti e significativi, dovendosi configurare come tali, in particolare, quelli necessari per consentire la verifica della correttezza delle operazioni eseguite dall’organo collegiale”.
[4] In particolare, l’articolo 1130 c.c. (come sostituito dall’articolo 10, comma 1, della legge 11.12.2012, n. 220), al primo comma, num. 7) prevede che: “L’amministratore, oltre a quanto previsto dall’articolo 1129 e dalle vigenti disposizioni di legge, deve: curare la tenuta del registro dei verbali delle assemblee, del registro di nomina e revoca dell’amministratore e del registro di contabilità. Nel registro dei verbali delle assemblee sono altresì annotate: le eventuali mancate costituzioni dell’assemblea, le deliberazioni nonché le brevi dichiarazioni rese dai condomini che ne hanno fatto richiesta; […]”.
[5] L’articolo 2375, primo comma, del codice civile recita: “Le deliberazioni dell'assemblea devono constare da verbale sottoscritto dal presidente e dal segretario o dal notaio. Il verbale deve indicare la data dell'assemblea e, anche in allegato, l'identità dei partecipanti e il capitale rappresentato da ciascuno; deve altresì indicare le modalità e il risultato delle votazioni e deve consentire, anche per allegato, l'identificazione dei soci favorevoli, astenuti o dissenzienti. Nel verbale devono essere riassunte, su richiesta dei soci, le loro dichiarazioni pertinenti all'ordine del giorno.”.
[6] Benché riguardanti l’ambito civilistico, e non amministrativo, si tratta pur sempre di norme pertinenti il contenuto del verbale la cui natura giuridica non muta nei due ambiti del diritto
(10.10.2018 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

APPALTI: Corrispondenza tra oggetto sociale CCIAA e prestazione in appalto.
Domanda
In sede di predisposizione della documentazione di gara, ed in particolare nel disciplinare, è necessario richiedere, ai fini dell’ammissione, che l’operatore sia iscritto nel registro camerale per lo specifico e dettagliato oggetto della prestazione in appalto?
Risposta
Ai sensi dell’art. 83, commi 1, lett. a) e 3, del d.lgs. 50/2016 l’iscrizione nel registro della camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura o nel registro delle commissioni provinciali per l’artigianato o presso i competenti ordini professionali, costituisce un requisito di idoneità professionale per la partecipazione alle procedure di gara, finalizzata a filtrare l’ingresso dei soli concorrenti forniti di una professionalità coerente con le prestazioni oggetto dell’affidamento pubblico (vedasi C.d.S. sez. III, 08.11.2017 n. 5170 e TAR Lazio Roma sez. II-ter 09.08.2018 n. 8948).
Dalla lettura delle sentenze emerge come non sia necessaria una congruenza contenutistica assoluta tra le risultanze descrittive del certificato camerale, come desumibili dall’attività e dall’oggetto sociale, e le prestazioni dedotte in contratto, bensì una rispondenza globale e complessiva.
Dello stesso avviso anche l’ANAC, che nel Bando-tipo n. 1/2017 – Schema di disciplinare di gara nelle procedure per forniture e servizi nei settori ordinari, al punto 7.1 Requisiti di idoneità, in particolare, con riferimento all’iscrizione camerale, prevede: “a) Iscrizione nel registro tenuto dalla Camera di commercio industria, artigianato e agricoltura oppure nel registro delle commissioni provinciali per l’artigianato per attività coerenti con quelle oggetto della presente procedura di gara”.
Sui requisiti di idoneità si segnala la deliberazione n. 767 del 05.09.2018 dell’Autorità di chiarimento del punto 7.1 del Bando – tipo n. 1: “la previsione di cui al punto 7.1 lett. b) del Bando – tipo n. 1, che richiede l’iscrizione a registri o albi, diversi da quelli della Camera di Commercio, è da intendersi riferita sia ad abilitazioni specifiche ulteriori (ad. es. Albo Nazionale Gestori Ambientali), sia all’iscrizione ad altri registri o albi (ad es. registri regionali/provinciali del volontariato o al Registro unico nazionale del Terzo settore), qualora la stazione appaltante, valutato il relativo mercato di riferimento, preveda la partecipazione alla gara di quei soggetti ai quali la legislazione vigente non imponga, per l’espletamento dell’attività oggetto di gara, l’iscrizione alla Camera di Commercio” (10.10.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI: Controlli prevenzione conflitto d’interessi.
Domanda
Siamo in fase di stesura del nuovo PTPCT; potreste darci qualche idea su come poter disciplinare i controlli circa eventuali conflitti di interessi in cui possano trovarsi i nostri dipendenti, per relazioni di parentela o affinità con soggetti esterni all’amministrazione?
Risposta
L’art. 1, comma 9, lettera e), della legge 06.11.2012, n. 190, stabilisce che il Piano triennale di prevenzione della corruzione e della trasparenza delle amministrazioni, deve rispondere, fra le varie esigenze, anche a quella di «definire le modalità di monitoraggio dei rapporti tra l’amministrazione e i soggetti che con la stessa stipulano contratti o che sono interessati a procedimenti di autorizzazione, concessione o erogazione di vantaggi economici di qualunque genere, anche verificando eventuali relazioni di parentela o affinità sussistenti tra i titolari, gli amministratori, i soci e i dipendenti degli stessi soggetti e i dirigenti e i dipendenti dell’amministrazione».
La verifica sulla sussistenza di relazioni civilistiche tra gli organi, o anche solo dei dipendenti, delle P.A. e dei soggetti beneficiari degli atti e dei provvedimenti sopra citati costituisce, quindi, una delle forme di accertamento di eventuali situazioni di conflitto di interesse, sintomatiche di una potenziale distorsione dell’attività amministrativa.
È auspicabile, pertanto, che i singoli PTPCT contengano una procedura specifica che disciplini compiti, modalità e tempi del monitoraggio. Sul punto l’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC), nel silenzio di norme e regolamenti di dettaglio, si è espressa (orientamento n. 110 del 04.11.2014 e parere del 18.02.2015 reso all’Avvocatura generale dello Stato) affermando che le amministrazioni hanno la facoltà di chiedere, anche ai soggetti con i quali sono stati stipulati contratti o che risultano interessati dai suddetti procedimenti, una dichiarazione in cui si attesti l’inesistenza di rapporti di parentela o affinità con funzionari o dipendenti della p.a.; ricadendo, poi, sulle stesse, il compito di verificare la sussistenza di situazioni di conflitto di interesse ed, eventualmente, di adottare i necessari provvedimenti per rimuoverla.
La dichiarazione, in ossequio alle disposizioni della legge 190/2012 e del Piano Nazionale Anticorruzione 2013 –e successivi aggiornamenti– potrebbe essere richiesta per le fattispecie negoziali o provvedimentali rientranti nelle seguenti aree a rischio:
   • scelta del contraente per l’affidamento di lavori, servizi e forniture di beni;
   • autorizzazioni e concessione;
   • concessione di contributi, sussidi e vantaggi economici;
   • altre fattispecie ad elevato rischio corruttivo previste nel PTPCT.
Non essendo state previste modalità di verifica né dalla legislatore, né da ANAC, si deduce che rientri nella discrezionalità delle amministrazioni vigilare sulla fondatezza delle dichiarazioni ricevute, attraverso richieste di informazioni, certificazioni da parte di altre amministrazioni, accesso ad archivi pubblici.
Di tale funzione, potrebbero essere investiti i Dirigenti (o comunque i responsabili degli uffici/settori dell’amministrazione), chiamati a monitorare in stretta collaborazione con il Responsabile per la prevenzione della corruzione e della trasparenza, le eventuali situazioni che possano coinvolgere il personale incaricato.
La procedura del PTPCT potrebbe, altresì, prevedere, che i Dirigenti, trasmettano annualmente al RPCT una relazione concernente l’esito delle suesposte verifiche –nel rispetto delle norme che tutelano la riservatezza dei dati personali dei soggetti coinvolti– evidenziando le possibili situazioni di conflitto e le relative ipotesi di soluzione da concordare con il Responsabile medesimo; ciò anche al fine di consentire a quest’ultimo di avere ulteriori dati per eventuali modifiche ed integrazioni da apportare alle misure di prevenzione previste, in materia, all’interno del Piano (09.10.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ La digitalizzazione della p.a. consente l’utilizzo delle moderne tecnologie. Un diritto d’accesso 2.0. Ai consiglieri documenti in formato elettronico.
In materia di diritto di accesso dei consiglieri comunali, è legittima l'ostensione della documentazione amministrativa richiesta su supporto digitale, o eventualmente indicando il link a cui accedere nella sezione Amministrazione trasparente, in luogo del rilascio delle copie cartacee?

Il diritto di accesso dei consiglieri comunali deve essere esercitato in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali, attraverso modalità che, ai sensi dell' art. 43 del dlgs n. 267/2000, sono disciplinate dal regolamento dell'ente.
Inoltre, non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche ovvero meramente emulative, fermo restando tuttavia che la sussistenza di tali condizioni deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto stesso (Consiglio di stato, sez. V, n. 6963/2010).
La Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, al fine di evitare che le continue richieste di accesso si traducessero in un aggravio dell'ordinaria attività amministrativa dell'ente locale, ha riconosciuto la possibilità, per il consigliere comunale, di avere accesso diretto al sistema informatico interno, anche contabile, del comune attraverso l'uso della password di servizio (cfr. parere del 29/11/2009). Anche il Tar Sardegna, con sentenza n. 29/2007, ha ritenuto che «la notevole mole della documentazione da consegnare può, nel caso, giustificare la distribuzione nel tempo del rilascio delle copie richieste».
Il Consiglio di stato ha, inoltre, affermato che, «qualora si tratti di esibire documentazione complessa e voluminosa, appare, altresì, legittimo il rilascio di supporti informatici al consigliere, o la trasmissione mediante posta elettronica, in luogo delle copie cartacee» (v. Cds n. 6742/2007 del 28/12/2007).
Tale modalità è, peraltro, conforme alla vigente normativa in materia di digitalizzazione della pubblica amministrazione (dlgs n. 82 del 07.03.2005)
(articolo ItaliaOggi del 05.10.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Progressioni, assegno ad personam e rinnovi contrattuali.
Domanda
Nel nostro ente sono state effettuate delle progressioni verticali nell’anno 2009. Ai dipendenti che hanno beneficiato della progressione deve essere mantenuto l’assegno ad personam, calcolato sulla differenza della posizione economica di provenienza e quella iniziale della categoria superiore o deve essere rideterminato sulla base dei nuovi valori degli stipendi tabellari contenuti nel contratto sottoscritto in data 21.05.2018?
Risposta
In base all’art. 15, comma 2, del CCNL del 31.03.1999, disapplicato dall’art. 9 del CCNL del 09.05.2006, l’assegno ad personam può essere riassorbito solo a seguito di una progressione economica orizzontale nella nuova categoria acquisita per progressione verticale
[1].
Di conseguenza, una volta attribuito detto assegno, non è necessario effettuare riproporzionamenti del medesimo per effetto dei nuovi contratti collettivi che accrescano il valore dello stipendio tabellare.
Si aggiunge che tale garanzia per il lavoratore in progressione verticale è venuta meno a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. 150/2009 che, avendo abrogato l’istituto, ammetteva solo il concorso pubblico per il passaggio ad una categoria superiore.
Il contratto del 2018, all’art. 12, commi 8 e 10, ha però riammesso la garanzia in parola nel caso di applicazione dell’art. 22, comma 15, del d.lgs. 75/2017 ossia delle nuove progressioni verticali limitate al triennio 2018-2020
[2].
-----------------
[1] Vedasi in proposito parere Aran
[2] “Per il triennio 2018-2020, le pubbliche amministrazioni, al fine di valorizzare le professionalità interne, possono attivare, nei limiti delle vigenti facoltà assunzionali, procedure selettive per la progressione tra le aree riservate al personale di ruolo, fermo restando il possesso dei titoli di studio richiesti per l’accesso dall’esterno. Il numero di posti per tali procedure selettive riservate non può superare il 20 per cento di quelli previsti nei piani dei fabbisogni come nuove assunzioni consentite per la relativa area o categoria. In ogni caso, l’attivazione di dette procedure selettive riservate determina, in relazione al numero di posti individuati, la corrispondente riduzione della percentuale di riserva di posti destinata al personale interno, utilizzabile da ogni amministrazione ai fini delle progressioni tra le aree di cui all’articolo 52 del decreto legislativo n. 165 del 2001. Tali procedure selettive prevedono prove volte ad accertare la capacità dei candidati di utilizzare e applicare nozioni teoriche per la soluzione di problemi specifici e casi concreti. La valutazione positiva conseguita dal dipendente per almeno tre anni, l’attività svolta e i risultati conseguiti, nonché l’eventuale superamento di precedenti procedure selettive, costituiscono titoli rilevanti ai fini dell’attribuzione dei posti riservati per l’accesso all’area superiore” (04.10.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI: Condizioni e competenza per non aggiudicazione appalto.
Domanda
Siamo in fase di aggiudicazione dell’appalto e la commissione, valutato il progetto presentato dagli offerenti ed aperti i plichi delle offerte economiche, ha predisposto la graduatoria prevedendo l’assegnazione dell’appalto. Il RUP, in fase di verifica degli atti della procedura, ritiene che la proposta economica dell’aggiudicatario non risulti adeguata ritenendo –sulla base di dati raccolti durante alcune indagini di mercato svolte dalla stazione appaltante– che nel mercato sia possibile ottenere condizioni economiche migliori. Giunti a questa fase (sostanzialmente di aggiudicazione provvisoria) è possibile non procedere con l’aggiudicazione della gara e, soprattutto, a chi compete adottare eventuali atti di revoca del procedimento?
Risposta
La questione posta, peraltro abbastanza consueta, impone di rammentare che il procedimento di gara non ha come finalità fisiologica l’aggiudicazione visto che questa è solo eventuale. Del resto, così come il pregresso codice degli appalti, l’attuale codice dei contratti prevede, ora, nell’articolo 95, comma 12, che “le stazioni appaltanti possono decidere di non procedere all’aggiudicazione se nessuna offerta risulti conveniente o idonea in relazione all’oggetto del contratto. Tale facoltà è indicata espressamente nel bando di gara o nella lettera di invito”.
La fase del procedimento –secondo quanto indicato nel quesito– è quella dell’ex aggiudicazione provvisoria ora solo proposta di aggiudicazione, che pur non determinando autentici diritti soggettivi impone l’esigenza di tutelare l’aspettativa di chi si trova al primo posto della graduatoria di “merito”. Pertanto, eventuali decisioni di non proseguire con l’appalto deve essere adottata in buona fede e rispetto degli interessi coinvolti.
La “revoca” della proposta di aggiudicazione, di per sé, non esige particolari motivazioni ed in questo senso recentissima giurisprudenza (Tar Abruzzo, Pescara, sez. I, sentenza n. 236/2018) ha ribadito che “l’unico limite alla possibilità di esercitare un potere di revoca della procedura di gara è costituito dall’avvenuta stipula del contratto (v. ad es. Cons. Stato Sez. V, 28.10.2015, n. 4934 e Consiglio di Stato sez. III 29.07.2015 n. 3748), anche se, ovviamente, va tenuta distinta la fase anteriore all’aggiudicazione definitiva dalla sussistenza di quest’ultima, che è idonea a costituire un principio di affidamento in capo alla concorrente che ne sia destinataria, così che, una volta intervenuta l’aggiudicazione provvisoria non è richiesto un particolare onere motivazionale a sostegno della revoca del procedimento (v. ad es. TAR Salerno, sez. I 04.12.2015 n. 2544), mentre dopo l’aggiudicazione definitiva e prima della stipula del contratto, la revoca è pur sempre possibile, salvo un particolare e più aggravato onere di motivazione (sulla revocabilità dell’aggiudicazione provvisoria, vedasi ad es. Cons. Stato Sez. IV, 12.01.2016, n. 67)” (cfr. Tar Lazio, 9543 del 2016)”.
Pertanto, la possibilità di non aggiudicare l’appalto –senza che sia necessario parlare di revoca vera e propria (sempre se si è in fase di sola proposta di aggiudicazione)– può ritenersi ammessa, a sommesso parere, anche se nel bando non sia stata espressamente rimarcata questa possibilità sempre che la stazione appaltante si comporti in perfetta buona fede.
La possibilità di non aggiudicare, quindi, può dipendere o dalla inadeguatezza dell’offerta, rilevata anche successivamente da parte del RUP che, in questo caso, dovrà però coinvolgere la commissione di gara procedendo ad una sua riconvocazione affinché si possa ri-esprimere (in tempi recentissimi, il Tar Lombardia, Brescia, sez. II, n. 906/2018) oppure in relazione alla non convenienza economica.
In questo secondo caso, la competenza sulla “valutazione” è del RUP e del dirigente/responsabile del servizio.
Ben chiaro, si ripete, che la motivazione sulla mancata aggiudicazione per non convenienza economica dovrà essere chiarissima e reale (ad esempio confrontando i dati relativi ad una indagine di mercato espletata in tempi recenti, oppure anche attraverso il confronto con recenti aggiudicazioni di appalti di altre stazioni appaltanti e similari).
Ulteriore possibilità di non procedere con l’aggiudicazione è data dal caso di “ripensamento”, circostanza che può verificarsi se vengono meno quelle condizioni che hanno indotto la stazione appaltante a procedere con l’indizione della gara. Anche questa possibilità è di competenza del RUP e del dirigente/responsabile del servizio.
Si pensi al caso di un appalto di lavori che poi si ritengono non più necessari per sopravvenuti motivi tecnici.
Di recente il caso è stato anche trattato in giurisprudenza (sempre il Tar Abruzzo, Pescara, sez. I, sentenza n. 236/2018) in cui la decisione del dirigente responsabile del servizio di “non procedere all’aggiudicazione definitiva” di lavori è stata motivata per il fatto che sono stati “ritenuti più urgenti e improcrastinabili (…) lavori di risanamento sismico, (…) valutati come incompatibili con l’esecuzione contemporanea di quelli oggetto dell’appalto”. Evidentemente, si tratta di atti che devono essere adottati sempre in presenza di adeguate motivazioni e soprattutto in situazioni di correttezza/buona fede amministrativa da parte della stazione appaltante.
Sempre nella sentenza appena citata si puntualizza che “la scelta di non procedere all’aggiudicazione provvisoria non è tuttavia affatto parificata a un atto di autotutela ma è condivisibilmente considerato in giurisprudenza un evento del tutto fisiologico che non richiede un particolare onere motivazionale né una comparazione dell’interesse pubblico con quello privato né motivi di interesse pubblico particolarmente qualificati, essendo sufficiente che vi siano ragioni che “sconsiglino” di procedere all’aggiudicazione definitiva (cfr. Tar Lazio n. 14 del 2018)” (03.10.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Compatibilità Responsabile privacy e Responsabile anticorruzione.
Domanda
Nell’ambito della procedura di adeguamento al nuovo Regolamento Europeo in materia di protezione dei dati personali, il nostro comune ha nominato come Data Protection Officer (DPO) / Responsabile della Protezione dei Dati (RPD) il Segretario comunale che è, anche, Responsabile per la Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (RPCT). Le due cariche sono compatibili?
Risposta
La nomina del Data Protection Officer (DPO) / Responsabile della Protezione dei Dati (RPD), nel vortice di adempimenti introdotti con scadenza 25.05.2018, è quella che più di tutti è stata ritenuta gravosa.
L’applicazione del nuovo Regolamento Europeo in materia di protezione dei dati personali (GDPR 2016/679) è ispirato dal principio dell’accountability (principio di responsabilità) che, appunto, evidenzia che la tutela degli interessi fondamentali non può prescindere da un cambio di mentalità: gli adempimenti richiesti non possono essere solo formali.
In questo caso specifico, la scelta e la successiva nomina del DPO/RPD deve ricadere su un soggetto effettivamente dotato delle qualità professionali imposte dall’art. 37 del GDPR e, in particolare, “della conoscenza specialistica della normativa e delle prassi in materia di protezione dei dati, e della capacità di assolvere i compiti di cui all’articolo 39”.
Pertanto, la nomina del DPO/RPD non può basarsi esclusivamente su criteri di risparmio di spesa, ma deve concentrarsi sulla verifica e sul successivo mantenimento delle elevate competenze richieste dal GDPR.
Deve, inoltre, essere tenuta in debito conto anche la necessaria indipendenza che deve caratterizzare questa figura: occorre quindi verificare attentamente che non sussistano situazioni di conflitto di interesse.
In base all’art. 38, par. 6, del GDPR, il titolare del trattamento o il responsabile del trattamento devono quindi assicurarsi (non solo in fase di individuazione e nomina del DPO, ma durante tutta la sua attività) che gli altri compiti e funzioni eventualmente svolti da chi è nominato come DPO non diano adito a un conflitto di interessi: i compiti svolti dal DPO non devono confliggere con la protezione dei dati per conto del Titolare o del Responsabile.
Una situazione di conflitto di interessi potrebbe, ad esempio, consistere proprio nel fatto che il DPO possa trovarsi a dover controllare delle situazioni da lui stesso determinate in cui, cioè, si trovi allo stesso tempo ad essere controllore e controllato. Tali situazioni rendono inefficace l’attività del DPO.
Ed è proprio questo il caso da Voi prospettato: la figura del Responsabile per la Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (RPCT) è sostanzialmente omologa al DPO, poiché la struttura normativa che sta alla base di entrambe le cariche è quella che si occupa della prevenzione di un rischio: da un lato, il GDPR, dall’altro, della disciplina anticorruzione.
Pertanto, per non incorrere in provvedimenti (anche sanzionatori) relativi a nomine illegittime, si consiglia di procedere a nuova nomina, comunicando al Garante la revoca dei dati trasmessi.
Sul sito web del Garante è possibile reperire il modello da impiegare a questo indirizzo (02.10.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

SEGRETARI COMUNALI: Conflitto di interessi segretario comunale componente NDV.
Domanda
Nel nostro ente il segretario comunale riveste anche la carica di responsabile della prevenzione della corruzione e trasparenza (RPCT), nonché di presidente del nucleo di valutazione (NdV). Sussiste conflitto di interessi tra le cariche?
Risposta
A tal proposito, occorre segnalare il recentissimo (14 giugno u.s.), intervento del Presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC), Raffaele Cantone, il quale ha presentato al Senato della Repubblica la relazione sull’attività svolta dalla predetta Autorità nel corso del 2017.
La relazione, che ripercorre i punti più importanti sulle attività di vigilanza e sui contratti svolte dall’ANAC, si sofferma, nella parte relativa alle segnalazioni in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza, all’ipotesi di conflitto di interesse nei confronti del Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza (RPCT) nominato componente del Nucleo di Valutazione di enti locali.
L’Autorità ricorda che, con l’atto di segnalazione n. 1 del 24.01.2018, aveva formulato alcune osservazioni in merito alla situazione di conflitto di interesse conseguente all’ipotesi in cui il RPCT rivestisse il ruolo di componente o di presidente del nucleo di valutazione di enti locali.
In particolare, nella relazione viene evidenziato che il segretario comunale, cui spetta l’incarico di RPCT, è spesso anche componente del nucleo di valutazione e tale cumulo dei due incarichi rappresenta una situazione di conflitto di interesse , in analogia con il regime di incompatibilità disciplinato dal decreto legislativo 27.10.2009, n. 150 (che pone espressamente il divieto di nominare, quali componenti dell’organo indipendenti di valutazione della performance (OIV), i dipendenti dell’amministrazione stessa o coloro che rivestano incarichi politici e sindacali).
Nella fattispecie sopra descritta, l’ANAC rileva che il segretario comunale (nel ruolo di RPCT) si troverebbe nella veste di controllore e controllato, in quanto, in qualità di componente del nucleo di valutazione, è tenuto ad attestare l’assolvimento degli obblighi di pubblicazione, mentre in qualità di responsabile per la trasparenza è tenuto a svolgere stabilmente un’attività di controllo proprio sull’adempimento dei suddetti obblighi da parte del’amministrazione, con conseguente responsabilità, ai sensi dell’articolo 1, comma 12, della legge 190/2012, in caso di colpevole omissione.
Alla luce delle considerazione sopra illustrate, l’ANAC auspica il più presto possibile un intervento correttivo da parte del legislatore, finalizzato ad integrare la disciplina normativa prevista dall’articolo 16 del decreto legislativo 27.10.2009, n. 150 con l’introduzione di specifiche disposizioni in tema di incompatibilità dei componenti del nucleo di valutazione, in analogia a quanto previsto dall’articolo 14 del predetto decreto per la composizione degli OIV, con particolare riferimento all’incarico di RPCT (27.09.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Comune di Civitavecchia - rapporto tra le disposizioni di cui agli articoli 14-ter della 1. n. 241 del 1990 e 146 del d.lgs. n. 42 del 2004 - effetti della mancata partecipazione del rappresentante del Ministero alle riunioni della conferenza di servizi o della mancata espressione della relativa posizione di competenza all'esito della ultima riunione - parere (MIBAC, Ufficio Legislativo, nota 27.09.2018 n. 23231 di prot.).
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Si riscontra la nota di codesto Comune prot. 49442 del 05.06.2018, con la quale si chiede se la mancata partecipazione del Ministero alle conferenze di servizi, qualificandosi quale "assenza-assenso", possa comportare il superamento dell'avviso negativo al rilascio dell'autorizzazione paesaggistica ex art. 146 del codice di settore da parte dell'autorità preposta (regione o comune subdelegato) in ragione della mancata conformità dell'intervento proposto con le prescrizioni contenute nel Piano paesaggistico regionale e se la determinazione favorevole della conferenza di servizi possa sostituire l'autorizzazione paesaggistica, ove l'amministrazione procedente si sia espressa negativamente e il Ministero non abbia partecipato alla riunione e non abbia espresso alcun parere.
Al riguardo, si osserva quanto segue.
In primo luogo, onde evitare equivoci interpretativi, si precisa che l'operatività dell'istituto del "silenzio-assenso", di cui all'art. 17-bis della 1. n. 241 del 1990, all'interno del procedimento di autorizzazione paesaggistica di cui all'art. 146 del codice di settore, è limitata alla sola ipotesi di proposta positiva da parte dell'amministrazione procedente.
Infatti, il procedimento delineato dall'art. 146 del codice di settore, come è noto, prevede ... (...continua).

LAVORI PUBBLICI: OGGETTO: Comune di Valpelline – appalto dei lavori attinenti opere di urbanizzazione primaria (acquedotto e fognatura) – articolazione in fasi successive – configurabilità della fattispecie di modifica del contratto ex art. 106, c. 1, lett. b), cod. app. – possibilità di riutilizzo del risparmio conseguito in sede di gara – parere (Legali Associati per Celva, nota 24.09.2018 - tratto da www.celva.it).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: immobile edificato a distanza inferiore dai limiti di legge - rilascio del permesso di costruire in sanatoria - doppia conformità – necessità assenso del confinante – parere (Legali Associati per Celva, nota 12.06.2018 - tratto da www.celva.it).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Procedura negoziata senza pubblicazione bando: escluso l’incentivo.
Al fine di erogare l’incentivo per funzioni tecniche è necessario che le attività siano riferibili a contratti affidati mediante una procedura di gara o, comunque, una procedura comparativa, seppur in forma semplificata.
   a) per l’attività astrattamente incentivabile espletata sotto la vigenza della pregressa normativa di cui all’art. 93 d.lgs. 163/2016, è da escludere qualsiasi incentivazione considerato che la norma appena richiamata si riferisce esclusivamente alle opere e lavori;
   b) per l’attività astrattamente incentivabile che ricade nel campo di applicazione della normativa vigente, rappresentata dall’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016, l’incentivazione delle attività tecniche è esclusa da un costante orientamento giurisprudenziale che, al fine di erogare l’incentivo, richiede, da un lato, che vi sia l’effettivo svolgimento di una delle attività elencate dalla norma di riferimento e, dall’altro, che le suddette attività siano riferibili a contratti affidati mediante una procedura di gara o, comunque, una procedura comparativa, seppur in forma semplificata.
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Il Sindaco del comune di Abetone Cutigliano (PT) ha inoltrato, per il tramite del Consiglio delle Autonomie Locali, richiesta di parere ex art. 7, comma 8, della l. n. 131/2003, avente ad oggetto gli oneri derivanti dall’erogazione degli incentivi per funzioni tecniche.
In particolare, premesso che l’Ente:
   - detiene il 51% del capitale sociale della Ximenes S.p.A. (società a partecipazione pubblica in liquidazione), la quale ha provveduto ad eseguire lavori di ristrutturazione ed ampliamento della seggiovia "Le Regine Selletta", stipulando apposito contratto con la società di leasing Mediocredito Italiano Spa per finanziare la realizzazione di detto impianto di risalita;
   - ha stabilito di procedere all’acquisto della parte elettromeccanica dell'impianto di risalita "Le Regine - Selletta" e relativi accessori per un importo lordo complessivo di circa due milioni di euro (comprese le spese tecniche finalizzate alla verifica della conformità della fornitura, nonché per la redazione di eventuali certificazioni, collaudi tecnici ed amministrativi ecc., anche tramite l'eventuale affidamento di incarichi esterni);
   - risulta assegnatario del bando della Regione Toscana per l’accesso degli enti locali al finanziamento per infrastrutture per il turismo, soggetto a condizione sospensiva (completamento delle procedure di acquisto entro il 31/12/2018);
premesso, altresì, che l’Ente:
   - intende procedere all'acquisto mediante procedura negoziata senza pubblicazione di un bando dell'impianto di risalita: dalla società Ximenes Spa, secondo la procedura di cui all'art. 63, comma 3, lettera d), del d.lgs. 50/2016 ovvero da Mediocredito Italiano Spa, secondo la procedura di cui al comma 2, lettera b), del medesimo articolo, nel caso in cui i tempi ed i modi del passaggio di proprietà da questa società a Ximenes Spa non consentissero il rispetto dei termini per l'erogazione del contributo regionale ottenuto dall'Ente;
   - ha approvato il regolamento degli incentivi per le funzioni tecniche in data 18.05.2018 ai sensi dell'art. 113 d.lgs. 50/2016, non avendo fino a quella data una regolamentazione specifica.
Tutto ciò premesso, il Comune di Abetone Cutigliano formula una serie di quesiti e, segnatamente:
   a) se sia applicabile la norma di cui all'art. 113 d.lgs. 50/2016 o il previgente art. 93 d.lgs. 163/2016;
   b) se, ritenuta applicabile da questa Sezione di controllo la nuova normativa, siano dovuti gli incentivi per funzioni tecniche di cui all'articolo 113 del d.lgs. 50/2016 trattandosi di bene già individuato, ancorché trattasi di acquisto di beni di elevato valore, attraverso procedura negoziata senza pubblicazione di un bando dell'impianto di risalita ai sensi dell'art. 63, comma 3, lettera d), del d.lgs. 50/2016 oppure dell'articolo 63, comma 2, lettera b, del d.lgs. 50/2016);
   c) se, ritenuta applicabile da questa Sezione di controllo e ritenuti erogabili gli incentivi anche in assenza di procedure comparative, sia comunque erogabile l'incentivo di cui all'art. 113 d.lgs. 50/2016 visto che il regolamento per l'erogazione degli incentivi, conditio sine qua non per attuare il riparto tra gli aventi diritto (secondo la giurisprudenza di questa corte: Corte dei Conti: Sezione di controllo per la Toscana, parere 14.12.2017 n. 186) è stato approvato nel 2018 ed in precedenza non c'era un regolamento sulle funzioni tecniche;
   d) se, qualora questa Sezione di controllo ritenesse erogabile l'incentivo per funzioni tecniche di cui all'articolo 113 del D.lgs. 50/2016, l'Ente, considerato che la programmazione dell'acquisto del bene è stata avviata in data antecedente al 2016, debba provvedere a decurtare dagli incentivi di cui trattasi una quota proporzionale relativa alla programmazione della spesa avvenuta precedentemente all'approvazione del regolamento disciplinante la corresponsione degli incentivi (avvenuto nel 2018) o preventiva all'entrata in vigore della norma.
...
2. Il quesito principale, ricostruito in termini astratti e generali, concerne l’individuazione della normativa applicabile ad un contratto di fornitura di un bene infungibile senza ricorso ad una procedura concorrenziale, con specifico riferimento alle attività potenzialmente incentivabili nell’ambito della procedura di acquisizione dello stesso; ossia se a tali attività possa essere riconosciuto il compenso incentivante.
La risposta da dare al quesito è negativa per un duplice ordine di motivi:
   a)
per l’attività astrattamente incentivabile espletata sotto la vigenza della pregressa normativa di cui all’art. 93 d.lgs. 163/2016, è da escludere qualsiasi incentivazione considerato che la norma appena richiamata si riferisce esclusivamente alle opere e lavori;
   b)
per l’attività astrattamente incentivabile che ricade nel campo di applicazione della normativa vigente, rappresentata dall’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016, l’incentivazione delle attività tecniche è esclusa da un costante orientamento giurisprudenziale che, al fine di erogare l’incentivo, richiede, da un lato, che vi sia l’effettivo svolgimento di una delle attività elencate dalla norma di riferimento e, dall’altro, che le suddette attività siano riferibili a contratti affidati mediante una procedura di gara o, comunque, una procedura comparativa, seppur in forma semplificata. Gara che nelle fattispecie richiamate dall'art. 63, commi 2 e 3, manca.
Pertanto, ritenendo questa Sezione di non discostarsi dalla predetta giurisprudenza,
la risposta da dare ai primi due quesiti è negativa, nel senso che non è possibile accantonare ed erogare incentivi tecnici (Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana, parere 10.10.2018 n. 63).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHELa Corte rimette gli atti al Presidente della Corte dei conti affinché valuti la possibilità di deferire la questione alla Sezione delle Autonomie circa l’adozione di una pronuncia di orientamento al fine di stabilire se gli incentivi per funzioni tecniche di cui all’articolo 113 d.l.vo n. 50/2016 spettino anche in relazione agli appalti di manutenzione ordinaria o straordinaria.
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Il Sig. Presidente della Provincia di Perugia, con nota dell’11.07.2018, ha inoltrato una richiesta di parere, ex art. 7, comma 8, della l. n. 131/2003, in merito al seguente quesito:
Si chiede […] di conoscere l’avviso di codesta Sezione sull’inclusione o esclusione delle attività tecniche di programmazione, verifica, appalto, di responsabile unico del procedimento e direzione dei lavori connesse con i lavori di manutenzione, ordinaria e straordinaria, nella o dall’incentivazione prevista dall’art. 113 del D.lgs. n. 50/2016”.
La richiesta di parere è stata rivolta sulla base delle considerazioni che seguono.
   - “L'art. 113 (Incentivi per funzioni tecniche) del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 dispone in merito agli incentivi per funzioni tecniche stabilendo che "a valere sugli stanziamenti di cui al comma 1 le amministrazioni pubbliche destinano a un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti pubblici esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti di predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti."
   - Al successivo comma 3 dello stesso articolo è previsto che l'ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi del comma 2 è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti"
   - l'articolo 93, comma 7-ter, del d.lgs 163/2006 espressamente prevedeva che l'80% delle risorse finanziarie del fondo per la progettazione e l'innovazione fosse ripartito per ciascuna opera o lavoro escludendo dal novero delle attività incentivabili le attività manutentive;
   - la formulazione dell'articolo 113 del d.lgs. 50/2016 non esclude espressamente le attività tecniche svolte dai dipendenti pubblici relative alla programmazione della spesa per investimenti, alla predisposizione e controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, al responsabile unico del procedimento, alla direzione dei lavori etc. , che possono riguardare anche i lavori di manutenzione sia ordinaria che straordinaria, ma si limita a riferirsi a ciascuna "opera o lavoro"
   - l'articolo 1 del medesimo d.lgs. 50/2016 (Oggetto e ambito di applicazione) dispone "1. Il presente codice disciplina i contratti di appalto e di concessione delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori aventi ad oggetto l'acquisizione di servizi, forniture, lavori e opere, nonché i concorsi pubblici di progettazione."
   - il successivo articolo 3 del d.lgs 50/2016 (Definizioni) stabilisce che ai fini del codice citato per «lavori» di cui all'allegato I, debbano intendersi le attività di costruzione, demolizione, recupero, ristrutturazione urbanistica ed edilizia, sostituzione, restauro, manutenzione di opere.
   - lo stesso allegato I del codice citato, che definisce l'elenco delle attività che costituiscono “appalti di lavori pubblici" (per definizione i contratti a titolo oneroso, stipulati per iscritto tra una o più stazioni appaltanti e uno o più operatori economici, aventi per oggetto l'esecuzione di lavori, la fornitura di prodotti e la prestazione di servizi) comprende alla voce "Costruzioni" nuove costruzioni, restauri e riparazioni comuni
"”.
Il Presidente della Provincia di Perugia ha anche richiamato precedenti pareri di questa Sezione (parere 14.05.2015 n. 71, con il quale è stato escluso ogni beneficio per l’attività manutentiva, anche straordinaria, in relazione all’esplicito disposto del precitato comma 7-ter dell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006, e parere 26.04.2017 n. 51, con cui questa Sezione ha concluso nel senso che "è da escludere che l'attività manutentiva possa essere incentivata, ai sensi dell'art. 113 del d.Lgs. n. 50/2016”).
La nota prosegue osservando, peraltro, che, con parere 09.06.2017 n. 190, la Sezione Regionale di Controllo per la Regione Lombardia, rispondendo al quesito: "Se sia possibile riconoscere gli incentivi per funzioni tecniche per le prestazioni indicate dall'art. 113, comma 2, riferite ad appalti aventi ad oggetto lavori di manutenzione ordinaria/straordinaria oppure servizi manutentivi, considerato che la nuova disposizione non esclude espressamente le attività manutentive e che alla luce degli orientamenti ermeneutici espressi in materia dalle Sezioni regionali di controllo, la stessa riconosce gli incentivi anche agli appalti di servizi e forniture", ha formulato il seguente parere: “Si deve rilevare, in primo luogo, che l'elenco delle attività incentivabili di cui all'art. 113, comma 2, come fatto palese dalla lettera della legge con l'utilizzo dell'avverbio "esclusivamente", deve ritenersi tassativo e non suscettibile di interpretazione analogica.
Ne viene che gli incentivi in parola possono essere corrisposti solo ed esclusivamente ai funzionari che hanno svolto le funzioni espressamente indicate dalla disposizione di legge sopra richiamata all'interno delle fasi procedimentali che connotano gli affidamenti di contratti pubblici (programmazione, progettazione, procedura selettiva, stipulazione ed esecuzione).
L'interpretazione riferita trova del resto conferma nella giurisprudenza contabile, concorde nell'escludere incentivabilità di funzioni o attività diverse da quelle considerate dall'art. 113, comma 2, del decreto legislativo n. 50/2016 (Sezione delle Autonomie,
deliberazione 13.05.2016 n. 18; Sezione regionale di controllo per la Puglia, parere 13.12.2016 n. 204; Sezione regionale di controllo per il Veneto, parere 02.03.2017 n. 134; Sezione regionale di controllo per la Regione siciliana, parere 30.03.2017 n. 71).
La disposizione in esame non sembra, invece, delimitare in senso escludente l'incentivabilità di dette funzioni in ragione dell'oggetto del contratto a cui è finalizzato il procedimento nell'ambito del quale si svolgono le medesime. L'art. 113, infatti, utilizza a più riprese espressioni riferibili alle procedure di affidamento di contratti aventi ad oggetto servizi e forniture quali i richiami alle "verifiche di conformità". La stessa Sezione delle autonomie, con
deliberazione 06.04.2017 n. 7, ha accolto l'assunto secondo cui il compenso incentivante di cui all'art. 113, comma 2, del decreto legislativo n. 50 del 2016 riguarda non soltanto i lavori, ma anche i servizi e le forniture rientranti nell'ambito di applicazione del Codice dei contratti pubblici ed ha al contempo dato atto del fatto che tale interpretazione è ormai avvalorata dalla giurisprudenza della Corte in sede consultiva (cfr. Sezione di controllo Lombardia, parere 16.11.2016 n. 333), che, da un lato ammette che gli incentivi siano da riconoscere anche per gli appalti di servizi e forniture e, dall'altro, che tra i beneficiari degli stessi non possano comprendersi coloro che svolgono attività relative alla progettazione e al coordinamento della sicurezza (cfr. anche la deliberazione 13.05.2016 n. 18 della medesima Sezione).
Né può farsi discendere dalla formulazione dell'art. 3 del decreto legislativo n. 50 del 2016, in collegato disposto all'allegato I (al quale fa rinvio l'articolo 3, comma 2, lett. ii, n. 1 per definire la nozione di "lavori"), l'estromissione dei contratti di manutenzione ordinaria e straordinaria dall'ambito di applicabilità del Codice dei contratti pubblici.
Da un lato, l'articolo 3, comma 2, lett. nn) ricomprende espressamente fra i "lavori" di cui all'allegato I l'attività di manutenzione di opere in quanto tale. Lo stesso Allegato I è organizzato per specifiche attività che, a seconda del complessivo lavoro affidato, possono assurgere a tipiche attività manutentive o meno. Si pensi all'attività di tinteggiatura di cui al punto 45.44 dell'Allegato I.....
”.
In sostanza, con il quesito ora in esame, peraltro meglio articolato rispetto a quello che aveva dato origine al precedente parere negativo di questa Sezione, di cui al citato parere 26.04.2017 n. 51, si sollecita una revisione dell’orientamento espresso anche in ragione del fatto nuovo costituito dalla sopravvenienza del parere reso dalla Sezione di controllo Lombardia con la deliberazione indicata, di contenuto invece favorevole alla tesi dell’Amministrazione.
...
La disposizione normativa oggetto del quesito, come detto, è stata scrutinata più volte, sia da numerose Sezioni regionali di controllo, sia dalla Sezione Autonomie, anche per profili diversi da quello ora in esame.
La legge delega 28/01/2016, n. 11, all’art. 1, lett. rr), ha stabilito che “al fine di incentivare l'efficienza e l'efficacia nel perseguimento della realizzazione e dell'esecuzione a regola d'arte, nei tempi previsti dal progetto e senza alcun ricorso a varianti in corso d'opera, è destinata una somma non superiore al 2 per cento dell'importo posto a base di gara per le attività tecniche svolte dai dipendenti pubblici relativamente alla programmazione della spesa per investimenti, alla predisposizione e controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di direzione dei lavori e ai collaudi, con particolare riferimento al profilo dei tempi e dei costi, escludendo l'applicazione degli incentivi alla progettazione”.
In attuazione della delega, l’art. 113 del d.l.vo n. 50 del 2016 (Codice dei contratti pubblici), nel testo ora vigente, ha così disciplinato la materia di tali incentivi:
1. Gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori ovvero al direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche di conformità, al collaudo statico, agli studi e alle ricerche connessi, alla progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento e al coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione quando previsti ai sensi del decreto legislativo 9 aprile 2008 n. 81, alle prestazioni professionali e specialistiche necessari per la redazione di un progetto esecutivo completo in ogni dettaglio fanno carico agli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti.
2. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 1, le amministrazioni aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle stesse esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti. Tale fondo non è previsto da parte di quelle amministrazioni aggiudicatrici per le quali sono in essere contratti o convenzioni che prevedono modalità diverse per la retribuzione delle funzioni tecniche svolte dai propri dipendenti. Gli enti che costituiscono o si avvalgono di una centrale di committenza possono destinare il fondo o parte di esso ai dipendenti di tale centrale. La disposizione di cui al presente comma si applica agli appalti relativi a servizi o forniture nel caso in cui è nominato il direttore dell'esecuzione.
3. L'ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi del comma 2 è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche indicate al comma 2 nonché tra i loro collaboratori. Gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione. L'amministrazione aggiudicatrice o l'ente aggiudicatore stabilisce i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi non conformi alle norme del presente decreto. La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti. Gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, incrementano la quota del fondo di cui al comma 2. Il presente comma non si applica al personale con qualifica dirigenziale.
4. Il restante 20 per cento delle risorse finanziarie del fondo di cui al comma 2 ad esclusione di risorse derivanti da finanziamenti europei o da altri finanziamenti a destinazione vincolata è destinato all'acquisto da parte dell'ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione anche per il progressivo uso di metodi e strumenti elettronici specifici di modellazione elettronica informativa per l'edilizia e le infrastrutture, di implementazione delle banche dati per il controllo e il miglioramento della capacità di spesa e di efficientamento informatico, con particolare riferimento alle metodologie e strumentazioni elettroniche per i controlli. Una parte delle risorse può essere utilizzato per l'attivazione presso le amministrazioni aggiudicatrici di tirocini formativi e di orientamento di cui all'articolo 18 della legge 24.06.1997, n. 196 o per lo svolgimento di dottorati di ricerca di alta qualificazione nel settore dei contratti pubblici previa sottoscrizione di apposite convenzioni con le Università e gli istituti scolastici superiori.
5. Per i compiti svolti dal personale di una centrale unica di committenza nell'espletamento di procedure di acquisizione di lavori, servizi e forniture per conto di altri enti, può essere riconosciuta, su richiesta della centrale unica di committenza, una quota parte, non superiore ad un quarto, dell'incentivo previsto dal comma 2.
5-bis. Gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture
”.
Come affermato dalla Sezione Autonomie con deliberazione 23.03.2016 n. 10, in aderenza al contenuto della norma di delega, la disposizione ha lo scopo di incentivare le “funzioni operative per l’esecuzione di lavori”, per realizzare l’“opera a regola d’arte e nei tempi previsti dal progetto, senza alcun ricorso a varianti in corso d’opera”.
È altrettanto pacifico (v. Sezione controllo Sardegna, parere 18.10.2016 n. 122) che la stessa, a differenza dell’analoga norma contenuta nel precedente codice dei contratti pubblici (art. 93, comma 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006), non prevede incentivi per le attività di progettazione, bensì solo per le funzioni tecniche in essa indicate.
A proposito di queste ultime, vi è generale consenso sul fatto che la relativa elencazione è tassativa e suscettibile solo di stretta interpretazione. Le funzioni incentivabili costituiscono pertanto un “numero chiuso”, come si desume sia dall’utilizzo dell’avverbio “esclusivamente” da parte del legislatore, sia tenendo presente che la norma costituisce eccezione al principio generale della onnicomprensività del trattamento economico (così Sezione controllo Emilia Romagna parere 07.12.2016 n. 118).
Come detto, la norma ha formato oggetto di numerose richieste di parere rivolte alle Sezioni regionali di controllo.
Restringendo il campo ai soli pareri che hanno avuto ad oggetto la questione di cui ci si occupa, si riscontra che gli stessi sono prevalentemente orientati a dare risposta negativa ai quesiti che le varie amministrazioni hanno posto con formulazioni non sempre omogenee, ma con un oggetto sostanzialmente identificabile in maniera univoca. In definitiva, si vuole conoscere se gli incentivi in questione spettino ai funzionari delle amministrazioni che svolgano le funzioni tecniche indicate dalla norma nell’ambito di appalti (di lavori o di servizi) di manutenzione ordinaria o straordinaria.
Il dubbio interpretativo origina (come spesso chiarito nelle richieste di parere) dal raffronto della nuova normativa con quella previgente (art. 93, comma 7-ter d.l.vo n. 163/2006), la quale aveva espressamente escluso la possibilità di concedere gli incentivi da essa disciplinati per le attività manutentive (secondo Sezione della Autonomie, deliberazione 23.03.2016 n. 10, senza distinzione tra manutenzione ordinaria e straordinaria), esclusione che la nuova norma non ripete (perlomeno in maniera esplicita).
Sul punto, si registrano già diversi pronunciamenti delle Sezioni regionali di controllo, come di seguito esposto.
  
Secondo la Sezione controllo Emilia Romagna parere 07.12.2016 n. 118 (già citato) “l’avverbio “esclusivamente” utilizzato dal legislatore nel comma 2 dell’articolo in esame per individuare le attività per lo svolgimento delle quali può essere previsto un compenso specifico e aggiuntivo deve essere interpretato nel senso della tassatività delle attività incentivabili. Pertanto, non essendo stata espressamente ricompresa l’attività di manutenzione, ne discende che non può essere prevista per la stessa nessuna remunerazione ai sensi dell’articolo 113 d.lgs. 50/2016. In secondo luogo, si rileva che, ai fini dell’applicazione del codice di contratti pubblici di cui al d.lgs. 50/2016, nell’allegato I (cui fa rinvio l’articolo 3, comma 2, lett. ll, n.1), che contiene l’elenco delle attività che costituiscono “appalti pubblici di lavori”, non sono in alcun modo indicate le attività di manutenzione, né ordinarie, né straordinarie”.
  
Nello stesso senso si sono espresse la Sezione controllo Puglia (
parere 24.01.2017 n. 5) e questa Sezione (parere 26.04.2017 n. 51).
  
Anche la Sezione controllo Veneto (
parere 12.05.2017 n. 338) ha dato al quesito risposta negativa, osservando che le funzioni tecniche incentivabili “sono state selezionate dal legislatore per la loro specifica attitudine a produrre effetti performanti e di vigilanza sulla spesa. Il raffronto dell’attuale dettato normativo con quello previgente, pertanto, deve essere letto alla luce di una tendenza evolutiva della ratio degli incentivi in esame che ulteriormente ne definisce l’ambito con la finalità di valorizzare “esclusivamente” un (pertanto) tassativo elenco di attività rispetto ad altre funzioni necessarie nelle varie fasi di esecuzione di un contratto pubblico (Sez. contr. Emilia Romagna, parere 07.12.2016 n. 118, Sez. contr. Sardegna, parere 18.10.2016 n. 122, Sez. contr. Veneto, parere 02.03.2017 n. 134, Sez. contr. Puglia, parere 24.01.2017 n. 5).
Se con l’art. 93, comma 7-ter, D.Lgs. 163/2006, il legislatore ha sentito la necessità, rispetto alla prassi pretoria affermatasi, di chiarire che l’incentivo non fosse riconoscibile per nessuna attività di manutenzione, con l’attuale art. 113, D.Lgs. 50/2016, ha ritenuto di dover circoscrivere la finalità “premiante” degli incentivi alle (sole) funzioni tecniche tassativamente elencate, a cui occorre aggiungere, a segnare il superamento del precedente sistema, l’esplicita esclusione delle attività di progettazione contenuta nella legge di delega.
Ammettere una tacita e contemporanea riespansione dell’ambito operativo degli incentivi in esame in favore di attività, quali quelle manutentive, già espressamente escluse dal legislatore del 2014, pertanto, contrasterebbe con lo spirito, ulteriormente selettivo rispetto al passato, della riforma del 2016.
Non è fondata, tra l’altro, un’interpretazione che, nel constatare che quando il legislatore ha voluto escludere esplicitamente alcune attività (quali quelle di progettazione) si è preoccupato di farlo espressamente, vuole far derivare dal silenzio della legge un significato ultroneo (incentivazione delle attività manutentive) rispetto a quello fatto palese dall’elemento puramente letterale, in quanto nell’attuale testo si è adottata una differente tecnica normativa che consiste nella esplicita scelta di limitarsi a menzionare solo e, come recita la disposizione in esame, “esclusivamente”, alcune funzioni tecniche, risultando quelle non inserite nella disposizione in analisi automaticamente e inequivocabilmente escluse.
Una diversa conclusione rispetto a quella offerta, pertanto, contrasta non solo con l’inequivoca lettera della norma, che non ammette interpretazioni difformi in assenza di dubbi sul suo chiaro significato (rafforzato, come detto, dalla scelta di utilizzare l’avverbio “esclusivamente”), ma anche con un’interpretazione storico-sistematica alla luce dei precedenti approdi della giurisprudenza contabile
”.
  
In senso invece favorevole alla tesi dell’amministrazione si è espressa la Sezione controllo Lombardia con
parere 09.06.2017 n. 190, richiamata nel quesito ora in esame.
Nell’occasione, la Sezione Lombardia, premesso e condiviso il già richiamato orientamento giurisprudenziale contabile circa la tassatività delle funzioni tecniche incentivabili, ha poi però osservato che “la disposizione in esame non sembra, invece, delimitare in senso escludente l’incentivabilità di dette funzioni in ragione dell’oggetto del contratto a cui è finalizzato il procedimento nell’ambito del quale si svolgono le medesime. L’art. 113, infatti, utilizza a più riprese espressioni riferibili alle procedure di affidamento di contratti aventi ad oggetto servizi e forniture quali i richiami alle “verifiche di conformità”.
La stessa Sezione delle autonomie, con
deliberazione 06.04.2017 n. 7, ha accolto l’assunto secondo cui il compenso incentivante di cui all’art. 113, comma 2, del decreto legislativo n. 50 del 2016 riguarda non soltanto i lavori, ma anche i servizi e le forniture rientranti nell’ambito di applicazione del Codice dei contratti pubblici ed ha al contempo dato atto del fatto che tale interpretazione è ormai avvalorata dalla giurisprudenza della Corte in sede consultiva (cfr. Sezione di controllo Lombardia, parere 16.11.2016 n. 333), che, da un lato ammette che gli incentivi siano da riconoscere anche per gli appalti di servizi e forniture e, dall’altro, che tra i beneficiari degli stessi non possano comprendersi coloro che svolgono attività relative alla progettazione e al coordinamento della sicurezza (cfr. anche la deliberazione 13.05.2016 n. 18 della medesima Sezione).
Né può farsi discendere dalla formulazione dell’art. 3 del decreto legislativo n. 50 del 2016, in collegato disposto all’allegato I (al quale fa rinvio l’articolo 3, comma 2, lett. ll, n. 1 per definire la nozione di “lavori”), l’estromissione dei contratti di manutenzione ordinaria e straordinaria dall’ambito di applicabilità del Codice dei contratti pubblici.
Da un lato, l’articolo 3, comma 2, lett. nn) ricomprende espressamente fra i “lavori” di cui all’allegato I l’attività di manutenzione di opere in quanto tale. Lo stesso Allegato I è organizzato per specifiche attività che, a seconda del complessivo lavoro affidato, possono assurgere a tipiche attività manutentive o meno. Si pensi all’attività di tinteggiatura di cui al punto 45.44 dell’Allegato I.
Si aggiunge che il Codice dei contratti pubblici definisce espressamente le attività di manutenzione ordinaria e straordinaria nelle lettere oo-quater e oo-quinquies dell’articolo 3, comma 2, lettere che seguono la definizione di “appalti pubblici di lavori” e precedono la delimitazione della nozione di “appalti pubblici di servizi”.
Dall’altro lato, il contenuto residuale che il legislatore imprime alla nozione di “servizi”, considerata la tecnica utilizzata per la definizione della medesima nell’articolo 3, comma 2, lett. ss e lett. vv, comporta che l’eventuale esclusione dei contratti manutentivi dalla nozione di appalti di lavori abbia quale unica conseguenza la ricomprensione dei medesimi fra gli appalti dei servizi, senza che ciò possa incidere sulla riconduzione dei contratti di manutenzione nell’ambito di applicabilità del decreto legislativo n. 50 del 2016 e sull’incentivabilità delle funzioni indicate nell’art. 113.
Al riguardo si è già rilevato che la Sezione delle autonomie ritiene incentivabili non soltanto i lavori, ma anche i servizi e le forniture.
Da ultimo non può non richiamarsi il correttivo al Codice dei contratti pubblici (decreto legislativo 19.04.2017, n. 56, pubblicato nella G.U. in data 05.05.2017 e in vigore a partire dal 20.05.2017), ai sensi del quale gli appalti di servizi e forniture sono stati espressamente citati nel comma 1 dell’art. 113
”.
  
Di contro, la Sezione controllo Toscana (
parere 14.12.2017 n. 186) ha ribadito l’orientamento negativo, sottoponendo a riflessione critica le motivazioni della deliberazione della Sezione Lombardia.
Pur riconoscendo la suggestività delle ipotesi interpretative esposte nella citata pronuncia, la Sezione Toscana “ritiene che l’impianto complessivo della norma di riforma, la palese intenzione restrittiva del legislatore, appaiono chiare nel loro orientarsi verso principi di tassatività ed esclusività delle attività incentivabili, da non poter ammettere una estensione in via interpretativa in assenza di una espressa previsione di legge.
In primo luogo si può osservare che il comma 2 dell’art. 113 fa espresso riferimento al fatto che il fondo viene costituito “ove necessario per consentire l’esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti”. Tale necessità sembra presente solo per le attività caratterizzate da una certa complessità, complessità che risulta assente nelle attività di manutenzione, attività per lo più semplici, che non necessitano di uno sforzo supplementare affinché l’esecuzione del contratto rispetti i documenti a base di gara, il progetto, i tempi e i costi. Di conseguenza, non sussistendo tale necessità, la previsione dell’incentivo per tali attività sarebbe illegittima.
Si segnala, in via meramente collaterale, che se in effetti all’art. 3 comma 2, lettera nn, i “lavori” vengono così definiti: “attività di costruzione, demolizione, recupero, ristrutturazione urbanistica ed edilizia, sostituzione, manutenzione di opere”. Il legislatore avrebbe potuto ripetere il riferimento anche all’art. 113, ove avesse inteso estendere le fattispecie incentivabili. In più, laddove si scorra l’elenco di specifiche attività di cui all’allegato I, è pur vero che al punto 45.44 si citano le “tinteggiature” ma lo si fa solo in abbinamento con “la posa in opera di vetrate”, quasi a citare attività conclusive di una edificazione o completamento di complessa opera, tanto è vero che al numero seguente 45.45 si legge la denominazione “altri lavori di completamento degli edifici”, chiarendo che si tratta non tanto di manutenzioni, quando di attività di chiusura di un cantiere di rilievo.
La Sezione ritiene dunque, in assenza di una norma esplicita, di allinearsi al prevalente orientamento restrittivo in tutti gli aspetti interpretativi della norma, escludendo dall’incentivo qualsiasi fattispecie non espressamente indicata dall’art. 113, comma 2, del D.Lgs. n. 50/2016. In tale senso si è pronunciata anche la Sezione regionale di controllo per la Regione siciliana, con
parere 30.03.2017 n. 71”.
Così riassunto il contenuto dei pareri emessi dalle Sezioni regionali di controllo sulla questione in esame, la Sezione, rilevata la portata generale della questione stessa, ritiene che sarebbe utile l’adozione di una pronuncia di orientamento al fine di stabilire se gli incentivi per funzioni tecniche di cui all’articolo 113 d.l.vo n. 50/2016 spettino anche in relazione agli appalti di manutenzione ordinaria o straordinaria.
A questo riguardo, appare significativo il fatto che, come segnalato dal numero dei quesiti posti,
la questione riveste una sicura rilevanza per le amministrazioni pubbliche e su di essa non si riscontra unanimità di pareri emessi dalle Sezioni regionali di controllo (pur dovendosi registrare l’ampia prevalenza dell’orientamento negativo).
Ciò detto, ad avviso della Sezione
appare in primo luogo dirimente affrontare una questione che affiora nelle pronunce esaminate. Si tratta cioè di stabilire se le “attività manutentive” non siano incentivabili in quanto non rientranti tra le funzioni tecniche indicate dalla norma, il cui elenco, come detto, è da considerare tassativo. Se l’affermazione fosse condivisa, effettivamente la risposta, alla luce di quel principio che anche la Sezione condivide, non potrebbe che essere negativa.
Sembra però più corretto ritenere, come già affermato da questa Sezione nel parere 26.04.2017 n. 51 sopra richiamata, che, nel sistema di incentivazione regolato dalla norma di cui si discute, “la manutenzione resta un “lavoro” e non una “funzione tecnica”…”.
Anche la norma previgente, che aveva escluso le attività manutentive dall’incentivazione, per la sua formulazione (“il regolamento definisce i criteri di riparto delle risorse del fondo, tenendo conto […] della complessità delle opere, escludendo le attività manutentive …”) fa intendere che le attività in questione rientrino nell’ambito delle opere e, quindi, come ritenuto dalla Sezione Lombardia nella deliberazione sopra richiamata, costituiscano l’oggetto dell’appalto e non funzioni tecniche svolte da funzionari dell’amministrazione committente.
Se così si ritenesse, il divieto di corrispondere gli incentivi di che trattasi andrebbe semmai ricavato aliunde.
Si è visto che il fondo di incentivazione è compreso negli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti.
Ciò implicherebbe, secondo la Sezione Emilia Romagna (parere 07.12.2016 n. 118 cit.), l’esclusione degli incentivi in questione per gli appalti di manutenzione, posto che la definizione data dal Codice di “appalti pubblici di lavori” non consentirebbe di includervi le attività di manutenzione ordinaria e straordinaria.
Tanto si ricaverebbe dal fatto che, secondo la suddetta definizione (contenuta nell’art. 3 lettera ll), sono tali “i contratti stipulati per iscritto tra una o più stazioni appaltanti e uno o più operatori economici aventi per oggetto [tra gli altri]: 1) l'esecuzione di lavori relativi a una delle attività di cui all'allegato I”. Allegato nel quale, sempre secondo la deliberazione citata, “non sono in alcun modo indicate le attività di manutenzione, né ordinarie, né straordinarie”.
Come però obiettato dalla Sezione Lombardia, ove si condividesse tale affermazione, si finirebbe per concludere che gli appalti aventi ad oggetto la manutenzione ordinaria e straordinaria, che pure sono definite dal Codice dei contratti pubblici (v. art. 3, lettere oo-quater e oo-quinquies), non siano appalti di lavori pubblici e, quindi, non rientrino nell’ambito di applicabilità del Codice stesso.
Peraltro, esistono nelle stesse definizioni date dal Codice riferimenti alle attività manutentive che appaiono contraddire l’affermazione della Sezione Emilia Romagna.
Nella lettera nn) dell’art. 3 si definiscono infatti «lavori» di cui all'allegato I, “le attività di costruzione, demolizione, recupero, ristrutturazione urbanistica ed edilizia, sostituzione, restauro, manutenzione di opere”. In sostanza, sembra potersi ritenere che, in questo modo, il legislatore abbia precisato ulteriormente il contenuto delle attività descritte nell’allegato I, nel quale, pertanto, vengono ad essere attratte anche le attività di cui alla lettera nn).
Inoltre, va soggiunto, come sottolineato nello stesso quesito in esame, che nell’allegato I alla Sezione F Costruzioni, Divisione 45, descrizione Costruzioni, è precisato in nota che “Questa divisione comprende: -nuove costruzioni, restauri e riparazioni comuni” (sottolineatura della Sezione).
In buona sostanza,
i dati letterali potrebbero consentire di non escludere dall’ambito di che trattasi le attività manutentive.
Né appare persuasivo l’argomento contrario portato dalla Sezione Toscana, secondo cui, poiché le attività in questione sarebbero per lo più caratterizzate dalla loro semplicità, laddove l’incentivazione de qua mirerebbe a premiare lo svolgimento di funzioni tecniche di una certa complessità, il riconoscimento della stessa per gli appalti di manutenzione sarebbe illegittimo.
Si può tuttavia osservare che non pochi interventi di manutenzione, soprattutto straordinaria, sono contrassegnati da elevata complessità, sia nell’ambito dei lavori che in quello dei servizi (si pensi al caso, segnalato da Sezione controllo Lombardia,
deliberazione 16.02.2018 n. 40, della manutenzione di apparecchiature elettro-medicali). Talché non sarebbe logico ritenere che, in relazione a tali appalti, l’obiettivo assegnato dal legislatore agli incentivi di che trattasi (“incentivare l'efficienza e l'efficacia nel perseguimento della realizzazione e dell'esecuzione a regola d'arte, nei tempi previsti dal progetto e senza alcun ricorso a varianti in corso d'opera”) non sia meritevole di essere conseguito attraverso lo strumento premiale.
Per altro verso, il rischio che gli incentivi siano così concedibili anche per attività manutentive di contenuto semplice è ridotto, ove si consideri che, come precisato dalla Sezione Lombardia nel parere 09.06.2017 n. 190 citato, sono incentivabili “le sole funzioni tecniche svolte rispetto a contratti affidati mediante lo svolgimento di una gara”, ovverosia esclusivamente con riferimento ad “attività riferibili a contratti di lavori, servizi o forniture che, secondo la legge (comprese le direttive ANAC dalla stessa richiamate) o il regolamento dell’ente, siano stati affidati previo espletamento di una procedura comparativa”.
E ciò in quanto “la lettera della legge […], nel dettare i criteri per la determinazione del fondo destinato a finanziare gli incentivi, fa espresso riferimento all’ “importo dei lavori (servizi e forniture) posti a base di gara”. Il che già porta ad escludere che gli appalti più semplici, per i quali, di norma, l’amministrazione procede all’affidamento con modalità diverse dalla gara (v. art. 36, comma 2, lett. a), del Codice), possano dare origine all’incentivazione di che trattasi.
Può soggiungersi che la stessa normativa che prevede e disciplina gli incentivi in questione sembra già avere a riferimento, comunque, appalti (quale che ne sia l’oggetto) di una certa complessità, come può desumersi dal fatto che si parli, nella norma di delega, di “tempi previsti dal progetto e senza alcun ricorso a varianti in corso d'opera” o, ancora, nella norma delegata, di “esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti”, elementi tutti che sembrano incompatibili con appalti di manutenzione caratterizzati da estrema semplicità.
Infine,
non sembra possa desumersi l’esistenza di un divieto alla concessione dell’incentivazione per gli appalti di manutenzione in ragione di una comune ratio ispiratrice tra nuova e previgente normativa in materia di incentivi, come sostanzialmente ritenuto dalla Sezione Veneto.
Nel senso della discontinuità della nuova normativa rispetto alla precedente si è pronunciata la Sezione delle Autonomie con deliberazione 06.04.2017 n. 7, ove si è affermato che “il compenso incentivante previsto dall’art. 113, comma 2, del nuovo codice degli appalti non è sovrapponibile all’incentivo per la progettazione di cui all’art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006, oggi abrogato”.
Si è ivi sottolineato, infatti, che la diversità dei due sistemi di incentivazione si ricava ponendo a confronto sia le funzioni incentivabili (con particolare, ma non unico, riferimento alla progettazione, prevista dal primo, esclusa invece dal secondo), sia l’ambito degli appalti per i quali l’incentivazione opera (solo quelli di lavori, nel primo caso, mentre l’attuale normativa li prevede anche per i servizi e le forniture). Il che farebbe ritenere quanto meno dubbio che possano trarsi dalla precedente disciplina degli incentivi argomenti ermeneutici per l’interpretazione della normativa vigente.
Peraltro, nell’ipotesi contraria, dovrebbe allora valorizzarsi il fatto che, nella nuova normativa, il legislatore non abbia riproposto il divieto di corrispondere l’incentivazione per le attività manutentive.
PER QUESTI MOTIVI
La Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per l’Umbria sospende la pronuncia e rimette gli atti al Presidente della Corte dei conti per le valutazioni di competenza in ordine al quesito di cui alle premesse in fatto.
In particolare,
affinché valuti la possibilità di deferire la questione alla Sezione delle Autonomie, ai sensi dell’articolo 6, comma 4, d.l. 10.10.2012, n. 174, convertito con modificazioni dalla legge 07.12.2012, n. 213, secondo il quale, per la risoluzione di questioni di massima di particolare rilevanza in materia di attività consultiva, la citata Sezione emana delibera di orientamento alla quale le Sezioni regionali si conformano; questo sempre che il Presidente della Corte dei conti non ritenga, invece, opportuna l’adozione, da parte delle Sezioni Riunite, di una pronuncia di orientamento generale, ai sensi dell’articolo 17, comma 31, d.l. 01.07.2009, n. 78, convertito con modificazioni dalla legge 03.08.2009, n. 102, qualora riconosca la sussistenza di un caso di eccezionale rilevanza ai fini del coordinamento della finanza pubblica (Corte dei Conti, Sez. controllo Umbria, deliberazione 08.10.2018 n. 103).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Solo la pubblicazione del bando di concorso sulla Gazzetta Ufficiale, costituendo il momento d'indizione del concorso medesimo, ha l'effetto di cristallizzare la normativa applicabile allo stesso. E' in questo momento che si determina il sistema normativo di riferimento di tutte le fasi del concorso.
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Il Sindaco del Comune di Trivigno (PZ) ha inoltrato, in data 05.09.2018, a questa Sezione una richiesta di parere ai sensi dell’art. 7, comma 8, della Legge n. 131/2003 con la quale chiede di conoscere quale sia il momento iniziale di una procedura concorsuale per l’assunzione di personale al fine di determinare la normativa applicabile alla medesima procedura.
Al fine di inquadrare la vicenda all’interno della quale si colloca la richiesta di parere il Sindaco svolge una dettagliata premessa relativa alla complessa procedura che l’Amministrazione comunale ha posto in essere prima di arrivare ad indire un concorso, ai sensi dell’art. 35, comma 1, lett. a), del D.Lgs. n. 165/2001, per la copertura di un posto di funzionario direttivo tecnico – posizione giuridica D3, approvando il relativo bando di concorso e modello di domanda.
Tale indizione è avvenuta con determinazione dirigenziale n. 41 del 18.05.2018. Il bando di concorso è stato pubblicato, in versione integrale, in data 19.05.2018, all’albo pretorio on-line del Comune di Trivigno, nonché sulla home page del sito istituzionale del Comune medesimo e nella sezione “Amministrazione trasparente” – “Bandi di concorso”, mentre è stato pubblicato, per estratto, sulla Gazzetta ufficiale – 4^ Serie speciale – Concorsi ed esami n. 48 del 19.06.2018.
Nelle more della pubblicazione del bando di concorso sulla Gazzetta ufficiale, vi è stata, in data 21.05.2018, la sottoscrizione definitiva del CCNL del comparto Funzioni locali per il triennio 2016-2018, i cui effetti decorrono dal 22.05.2018.
Tale contratto, all’art. 12, comma 9, contiene una disposizione che recita “Nel caso in cui, alla data di entrata in vigore del presente CCNL, siano tuttora in corso procedure concorsuali per l’assunzione di personale nei profili professionali con accesso nella posizione economica D3, secondo il previgente sistema di classificazione, il primo inquadramento avviene nei suddetti profili della categoria D. Successivamente, si applica quanto previsto dal comma 5.”.
...
Alla luce delle considerazioni esposte,
la Sezione ritiene che la richiesta di parere formulata dal Sindaco di Trivigno difetti dei requisiti oggettivi necessari ad una disamina nel merito in quanto: a) sprovvisto dei requisiti della generalità e dell’astrattezza; b) relativo a una specifica attività gestoria già posta in essere dal Comune richiedente; c) potenzialmente idoneo ad interferire con le competenze di altri organi giurisdizionali.
3. In via incidentale, tuttavia, la Sezione, in un’ottica collaborativa e sempre in linea generale, rileva che la questione prospettata riguarda l’individuazione dell’atto iniziale della procedura concorsuale indetta dal Comune di Trivigno al fine di determinare la disciplina giuridica da applicare alla medesima procedura. Ciò in quanto
il principio “tempus regit actum”, posto dall’art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile, secondo cui la legge ordinariamente dispone solo per l’avvenire, non potendo avere efficacia retroattiva se non in base ad un’espressa previsione, ha la funzione pratica di consentire l’individuazione della disciplina giuridica da applicare ad un procedimento amministrativo.
Dunque
ogni atto è disciplinato dalla legge in vigore nel tempo in cui viene adottato con esclusione, di regola, della retroattività e dell’ultrattività di essa. Ciò comporta che lo ius superveniens si applica esclusivamente (salvo che la legge stessa non disponga per il passato) alle fattispecie sorte successivamente alla sua entrata in vigore. Discende come conseguenza che la norma preesistente continua ad essere applicata ai rapporti sorti durante il tempo in cui era vigente, anche se successivamente intervenga una nuova norma che regoli diversamente la fattispecie.
Se l’applicazione di questo principio non determina problemi particolari per l’emanazione di un singolo provvedimento amministrativo, diverso è il caso della sequenza di atti che costituiscono un procedimento, come nel caso delle procedure concorsuali, per la disomogeneità di disciplina che potrebbe derivarne.
Infatti
il procedimento amministrativo è composto da una pluralità di atti dotati di propria autonomia funzionale, susseguenti, diversi e coordinati fra loro, finalizzati all’emanazione di un provvedimento finale. In tale ipotesi il principio “tempus regit actum” comporta che ciascun atto del procedimento sia regolato dalle norme in vigore nel momento del compimento del singolo atto (del resto le condizioni di legittimità dell’atto amministrativo vanno riscontrate alla luce delle situazioni di fatto e di diritto esistenti al momento della sua emanazione con irrilevanza dello ius superveniens Cons. Stato, Sez. V, n. 8341/2003).
Questa regola subisce, però, una logica eccezione in quei procedimenti che possono essere considerati unitari, come ad esempio i concorsi pubblici o i procedimenti di scelta del contraente della pubblica amministrazione mediante bando pubblico. Sul punto la giurisprudenza amministrativa è consolidata nel ritenere che i concorsi debbano espletarsi in base alla normativa vigente alla data di emanazione del bando, che, com’è noto, costituisce lex specialis del procedimento e, in quanto tale, cristallizza le norme vigenti al momento iniziale del procedimento (cfr. ex multis TAR Piemonte, sez. II, sentenza 09.02.2012 n. 193; Cons. Stato, sez. IV, sentenza 06.07.2004, n. 5018; Cons. Stato, sez. V, sentenza 13.01.1996, n. 46; SRC Puglia, deliberazione n. 41/PAR/2010).
Infatti
il principio “tempus regit actum” attiene alle sequenze procedimentali composte di atti dotati di propria autonomia funzionale, e non anche ad attività, quale è quella di espletamento di un concorso, interamente disciplinate dalle norme vigenti al momento in cui essa ha inizio: pertanto mentre le norme legislative e regolamentari vigenti al momento dell’indizione della procedura devono essere applicate anche se non espressamente richiamate nel bando, le norme sopravvenienti, per le quali non è configurabile alcun rinvio implicito nella lex specialis, di regola non modificano i concorsi già banditi, a meno che diversamente non sia espressamente stabilito dalle norme stesse” (Cons. Stato, sez. IV, sentenza 12.01.2011, n. 124, nella quale si richiamano Cons. Stato, sez. VI, sentenza 21.07.2010, n. 4791; Cons. Stato, sez. IV, sentenza 24.08.2009, n. 5032; Cons. Stato, sez. VI, sentenza 12.06.2008, n. 2909).
È così affermato il principio generale della inefficacia delle norme sopravvenute a modificare le procedure concorsuali in svolgimento ma è altresì prevista la possibilità che, in via speciale e particolare, tali modifiche possano prodursi ad effetto di normative sopravvenute il cui oggetto specifico sia quel medesimo concorso, quando, evidentemente, il legislatore ragionevolmente ravvisi la necessità di un tale intervento” (Cons. Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 24.05.2011, n. 9).
3.1 Appare, dunque, dirimente individuare esattamente il momento in cui il concorso in questione è stato effettivamente indetto.
La giurisprudenza amministrativa è consolidata nel ritenere che la procedura concorsuale di accesso al pubblico impiego inizia con la pubblicazione del bando di concorso in quanto atto ad efficacia esterna teso a rendere conoscibile alla generalità dei consociati la volontà dell’amministrazione in merito all’esistenza della procedura selettiva, ai requisiti di ammissione, alle modalità di partecipazione, alle regole della procedura e ai criteri di valutazione.
Il concorso pubblico, quindi, così come ogni altra procedura concorsuale (ad es. procedura per l’affidamento di un contratto pubblico) deve essere espletato sulla base della normativa e delle regole vigenti alla data di pubblicazione del bando, in conformità al principio “tempus regit actum” ed alla natura del bando di concorso, quale norma speciale della procedura le cui prescrizioni vincolano non solo i partecipanti ma anche l’Amministrazione che ha indetto la procedura.
Infatti, in tema di procedure ad evidenza pubblica, quale è il concorso per l’accesso ai pubblici impieghi, vale, secondo la costante giurisprudenza amministrativa, il principio di tutela dell’affidamento dei concorrenti. Anteriormente alla pubblicazione del bando non è configurabile alcun affidamento tutelabile in capo ai cittadini potenzialmente interessati al concorso.
Pertanto gli atti posti in essere dal Comune di Trivigno anteriormente alla pubblicazione, per estratto, del bando di concorso sulla Gazzetta Ufficiale – 4^ serie speciale – Concorsi ed esami n. 48 del 19.06.2018 sono atti programmatori e, comunque, preliminari all’indizione del concorso. La stessa determinazione n. 41 del 18.05.2018, con la quale si è preso atto che le procedure di assunzione mediante l’utilizzo di graduatorie di altri enti è stata espletata e che la stessa ha avuto esito negativo e, per l’effetto, è stata indetta una procedura concorsuale ex art. 35, comma 1, lett. a), del D.Lgs. n. 165/2001, approvando il relativo bando di concorso e il modello di domanda, ha efficacia meramente interna, sicché la sua adozione non implica il sorgere di alcuna situazione soggettiva tutelabile in capo ai terzi potenzialmente interessati. Ne consegue che il divieto di applicazione dello ius supeveniens non può derivare dall’adozione di tale ultimo provvedimento.
Pertanto solo la pubblicazione del bando di concorso sulla Gazzetta Ufficiale, costituendo il momento di indizione del concorso medesimo, ha l’effetto di cristallizzare la normativa applicabile allo stesso. È in questo momento che si determina il sistema normativo di riferimento di tutte le fasi del concorso.
Si ritiene, infine, opportuno ricordare che, secondo la costante giurisprudenza amministrativa, l’obbligo di pubblicazione dei bandi nella Gazzetta Ufficiale, ai sensi dell’art. 4 del D.P.R. n. 487/1994, che, al comma 1-bis, prevede, in particolare, per gli enti locali la possibilità di sostituire la pubblicazione del bando con l’avviso di concorso contenente gli estremi del bando e l’indicazione della scadenza del termine per la presentazione della domanda (pubblicazione per estratto), costituisca regola generale rivolta a garantire la conoscibilità dell’esistenza di un concorso pubblico a tutti i cittadini in perfetta armonia con i principi costituzionali sull’accesso agli impieghi pubblici (cfr. ex multis Cons. Stato, sez. V, sentenza 16.2.2010, n. 871) (Corte dei Conti, Sez. controllo Basilicata, parere 05.10.2018 n. 36).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEGli incentivi per funzioni tecniche previsti dall’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016 non possono essere corrisposti in rapporto ad attività di manutenzione ordinaria e straordinaria.
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Il Sindaco del Comune di Fasano (BR), dopo aver richiamato la giurisprudenza di questa Corte in sede consultiva in materia di corresponsione del compenso per incentivi per funzioni tecniche relativamente al riconoscimento di tale compenso anche per gli appalti di servizi e forniture, illustra le definizioni di appalti pubblici, appalti pubblici di lavori ed appalti pubblici di servizi rese dal D.Lgs. n. 50/2016 reputando che: “l’eventuale esclusione dei contratti manutentivi dalla nozione di appalti pubblici di lavori abbia come unica conseguenza la ricomprensione dei medesimi contratti tra gli appalti pubblici di servizi comunque denominati in quanto attività che si svolgono e si pongono a gara come attività pubbliche”.
Il Sindaco precisa, inoltre, che, per tutti i servizi pubblici appaltati ed appaltabili, è possibile applicare le disposizioni dell’art. 113, comma 2, del citato D.Lgs. n. 50/2016 in tema di incentivi per funzioni tecniche ed al riguardo, specifica che la Sezione delle Autonomie, con deliberazione 13.05.2016 n. 18, ha affermato che il predetto art. 113 “utilizza a più riprese espressioni riferibili alle procedure di affidamento di contratti aventi ad oggetto servizi e forniture quali i richiami alle verifiche di conformità”.
Pertanto, il Sindaco chiede alla Sezione se gli appalti pubblici per le manutenzioni di qualunque tipo devono essere considerati “appalti pubblici di servizi” con conseguente riconduzione nell’ambito di applicabilità del D.Lgs. n. 50/2016 ed incentivabilità delle funzioni indicate dall’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016 e se nel rispetto dell’appena richiamato art. 113, comma 2 “sono incentivabili le funzioni tecniche esclusivamente nello stesso elencate, svolte in esecuzione di appalti pubblici di servizi comunque denominati e meglio definiti all’art. 3, comma 1, lettera ss), dello stesso D.Lgs. n. 50/2016, a condizione che sia stata svolta una gara di appalto e sia stato nominato il direttore dell’esecuzione.
...
L’art. 113, commi 1 e 2, del D.Lgs. 18/04/2016 n. 50, come sostituiti dall’art. 76 del D.Lgs. 19/04/2017 n. 56, statuiscono che, a valere sugli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti, le amministrazioni aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle stesse esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti.
Tale fondo non è previsto da parte di quelle amministrazioni aggiudicatrici per le quali sono in essere contratti o convenzioni che prevedono modalità diverse per la retribuzione delle funzioni tecniche svolte dai propri dipendenti. Gli enti che costituiscono o si avvalgono di una centrale di committenza possono destinare il fondo o parte di esso ai dipendenti di tale centrale. La disposizione appena richiamata, per espresso dettato normativo, si applica anche agli appalti relativi a servizi o forniture nel caso in cui è nominato il direttore dell'esecuzione.
La disciplina normativa in tema di incentivi per funzioni tecniche è stata, inoltre, novellata per effetto dell’introduzione, ad opera del comma 526 dell’art. 1 della L. 27/12/2017 n. 205, del comma 5 bis all’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016 che ha previsto che i predetti incentivi devono essere allocati al medesimo capitolo di spesa dei lavori, servizi e forniture.
Peraltro, il tenore letterale della norma che fa espresso riferimento all’importo dei lavori, servizi e forniture “posti a base di gara”, induce a ritenere incentivabili le sole funzioni tecniche svolte rispetto a contratti affidati mediante lo svolgimento di una gara (Sezione regionale di controllo per la Puglia, deliberazione 09.02.2018 n. 9).
Con deliberazione 26.04.2018 n. 6, la Sezione delle Autonomie ha chiarito che gli incentivi per funzioni tecniche sono, per loro natura, estremamente variabili nel corso del tempo e, come tali, difficilmente assoggettabili a limiti di finanza pubblica a carattere generale che hanno come parametro di riferimento un predeterminato anno base e che la normativa delineata dall’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016 contiene un compiuto sistema di vincoli per l’erogazione degli incentivi individuando due limiti finanziari che ne impediscono l’incontrollata espansione: uno di carattere generale, il tetto massimo al 2% dell’importo posto a base di gara e l’altro di carattere individuale, il tetto annuo al 50% del trattamento economico complessivo per gli incentivi spettante al singolo dipendente.
La Sezione delle Autonomie, nel fornire l’interpretazione della normativa previgente dettata dall’articolo 93, comma 7-ter, del D.Lgs n. 163/2006, basandosi sull’interpretazione letterale del testo, aveva escluso dall’incentivo alla progettazione interna qualunque attività manutentiva, senza distinzione tra manutenzione ordinaria o straordinaria (Sezione delle Autonomie, deliberazione 23.03.2016 n. 10, Sezione regionale di controllo per la Puglia, parere 14.09.2018 n. 124).
Ad avviso del Collegio,
se è pur vero che la normativa vigente non ha reiterato la predetta esclusione, deve, tuttavia, rilevarsi che le attività di manutenzione ordinaria e straordinaria non risultano espressamente richiamate dall’attuale elencazione tassativa e pertanto deve escludersi la possibilità di procedere all’incentivazione di tali attività.
Questa Sezione ha, infatti, già chiarito che
le forme di incentivazione per funzioni tecniche, ora riconosciute anche in relazione ad appalti per forniture e servizi, costituiscono eccezioni al generale principio della onnicomprensività del trattamento economico e pertanto possono essere corrisposte solo per le attività espressamente e tassativamente previste dalla legge (Sezione regionale di controllo per la Puglia, parere 24.01.2017 n. 5, parere 21.09.2017 n. 108 e deliberazione 09.02.2018 n. 9).
Il carattere tassativo delle attività incentivabili risulta avvalorato sia dall’utilizzo dell’avverbio “esclusivamente” che dall’assenza di un’esplicita norma che portano a desumere che il predetto emolumento non può essere utilizzato per le attività di manutenzione, attività non indicate dal legislatore (Sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna, parere 07.12.2016 n. 118, Sezione regionale di controllo per la Toscana, parere 14.12.2017 n. 186).
Deve aggiungersi che
il riferimento alle attività di manutenzione ordinaria o straordinaria non risulta contenuto neppure nell’ordinanza del 04.07.2018 del Presidente del Consiglio dei Ministri che disciplina la costituzione e quantificazione del fondo di cui all’articolo 113 del D.Lgs. n. 118/2011 per la ricostruzione nei territori dei Comuni delle Regioni di Abruzzo, Lazio, Marche e Umbria interessati dagli eventi sismici e che prevede una dettagliata elencazione delle funzioni e di ripartizione delle risorse finanziarie del fondo.
Questa Sezione ribadisce, pertanto, che
gli incentivi per funzioni tecniche previsti dall’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016 non possono essere corrisposti in rapporto ad attività di manutenzione ordinaria e straordinaria (Sezione regionale di controllo per la Puglia, parere 24.01.2017 n. 5) (Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia, parere 28.09.2018 n. 140).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: La norma contenuta nella legge di bilancio 2018 ha stabilito che gli incentivi gravano su risorse autonome e predeterminate del bilancio (comma 5-bis, art. 113, D.Lgs. 50 del 2016) diverse dalle risorse ordinariamente rivolte all'erogazione di compensi accessori al personale.
Per l'individuazione della linea di demarcazione fra vecchia e nuova regolamentazione della materia incentivante, non può che essere individuata nel 01.01.2018, per cui la nuova forma di copertura del Fondo introdotta dal comma 5-bis inizierà ad applicarsi ai contratti pubblici il cui progetto dell'opera/del lavoro sono stati approvati e inseriti nei documenti di programmazione dopo il 01.01.2018 o, per le altre tipologie d'appalti, in cui l'affidamento del contratto è stato deliberato dopo tale data.
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Con la nota sopra citata il Sindaco del Comune di Nembro (BG) pone un quesito concernente l’erogazione degli “incentivi per funzioni tecniche” di cui all’art. 113, comma 2, del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 (codice dei contratti pubblici).
In particolare, considerato che il comma 5-bis art. 113 del D.Lgs 50 del 18/04/2016, introdotto dall’art. 1 della L. 27.12.2017 n. 205, prevede che “gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture” a decorrere dal 01.01.2018 e considerato che, la Sezione Autonomie ha chiarito con sua deliberazione 26.04.2018 n. 6 che gli incentivi per le funzioni tecniche di cui all’art. 113 del D.Lgs. 50/2016 non soggiaciono al vincolo posto al complessivo trattamento accessorio dei dipendenti previsto dall’art. 23, comma 2, del D.Lgs. 75/2017, si chiede se gli incentivi per le funzioni tecniche, previsti all’art. 113 del D.Lgs 50/2016, di competenza dell’anno 2017 soggiaciano o meno al vincolo posto al complessivo trattamento accessorio relativamente al fondo incentivante anno 2017.
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Il quesito formulato con la presente richiesta di parere richiede di stabilire se gli incentivi per funzioni tecniche di cui all’art. 113, del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 maturati nella competenza 2017, debbano essere compresi nelle spese per il trattamento accessorio del personale anche agli effetti del rispetto del tetto di spesa stabilito dalla legge.
La questione degli incentivi per funzioni tecniche è stata ampiamente dibattuta e sul tema si sono pronunciate più volte, sia diverse Sezioni regionali della Corte dei Conti (Sez. Controllo Lombardia parere 07.11.2017 n. 307, Sez. Controllo Lazio parere 06.07.2018 n. 57, Sez. Controllo Friuli Venezia Giulia parere 02.02.2018 n. 6, Sez. Controllo Veneto parere 25.07.2018 n. 264), sia la Sezione Autonomie nella veste di organo nella propria funzione nomofilattica. Così anche la ricostruzione del quadro giuridico generale e della sua evoluzione nel tempo è stata ampiamente ripresa da questa stessa sezione regionale e anche più recentemente dalla Sezione del Lazio.
Il tema più specifico sollevato dalla richiesta di parere del Comune di Nembro, cioè la valutazione della natura delle spese relative agli incentivi e più specificamente la loro imputabilità o meno tra le spese di personale, a sua volta ha avuto un approfondimento articolato che ha condotto a due distinte pronunce della Sezione Autonomie, in seguito alle diverse successive modifiche susseguitesi nel quadro normativo.
La prima pronuncia (deliberazione 06.04.2017 n. 7), precedente alla novella introdotta dal comma 526, art. 1, della legge 205/2017 che ha modificato l’art. 113 del D.Lgs. 50/2016, aveva stabilito, a seguito di numerosi problemi interpretativi, che le spese per gli incentivi tecnici fossero a tutti gli effetti da includere tra i costi del personale e dunque da considerare nelle valutazioni dei relativi tetti di spesa.
Successivamente a questo chiarimento è poi intervenuta la modifica dell’art. 113 del D.Lgs. 50/2016 per opera appunto della legge 205/2017 art. 1, comma 526, che ha introdotto il principio della allocazione delle spese per incentivi tecnici nei capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e forniture.
Sulla base di questa modifica normativa, si è reso necessario un nuovo intervento della Sezione Autonomie per chiarire il nuovo quadro giuridico venutosi a creare. Pur sottolineando la interpretabilità della novella normativa, ai fini dell’inclusione delle spese per incentivi tra le voci di spesa del personale, la Sezione Autonomie conclude la sua pronuncia (deliberazione 26.04.2018 n. 6) affermando il seguente principio ”Gli incentivi disciplinati dall’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 nel testo modificato dall’art. 1, comma 526, della legge n. 205 del 2017, erogati su risorse finanziarie individuate ex lege facenti capo agli stessi capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli lavori, servizi e forniture, non sono soggetti al vincolo posto al complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017”.
Proprio sulla base di questa pronuncia il Comune di Nembro pone la questione ancora più specifica di come valutare gli incentivi di competenza 2017 e se questi siano da includere o meno tra le spese di personale.
Sulla questione occorre chiarire in primo luogo che, come affermato in modo esplicito dalla Sezione Autonomie, la norma contenuta all’art. 113, comma 5-bis, così come modificato dalla legge di bilancio per il 2018, non è norma interpretativa, ma innovativa e dunque non può certamente produrre alcun effetto retroattivo.
Così si esprime al proposito la Sezione Autonomie: “Proprio alla luce dei suesposti orientamenti, va considerato che, sul piano logico, l’ultimo intervento normativo, pur mancando delle caratteristiche proprie delle norme di interpretazione autentica (tra cui la retroattività), non può che trovare la propria ratio nell’intento di dirimere definitivamente la questione della sottoposizione ai limiti relativi alla spesa di personale delle erogazioni a titolo di incentivi tecnici proprio in quanto vengono prescritte allocazioni contabili che possono apparire non compatibili con la natura delle spese da sostenere”.
E ancora nello stesso atto aggiunge: “Pertanto, il legislatore, con norma innovativa contenuta nella legge di bilancio per il 2018, ha stabilito che i predetti incentivi gravano su risorse autonome e predeterminate del bilancio (indicate proprio dal comma 5-bis dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016) diverse dalle risorse ordinariamente rivolte all’erogazione di compensi accessori al personale”.
Non solo dunque si ribadisce la portata innovativa e la irretroattività della norma, ma si sottolinea che tali incentivi gravano su risorse predeterminate, dunque appositamente da prevedere nelle poste di bilancio con un chiaro riferimento sinallagmatico tra le fasi di programmazione e realizzazione dell’opera e l’appostamento delle risorse destinate alla corresponsione degli incentivi.
A tale proposito, è intervenuto recentemente a valutare il problema cronologico, il parere della sezione Lazio (parere 06.07.2018 n. 57). Innanzi tutto viene ricordato che per quanto riguarda il nuovo comma 5-bis dell’art. 113, ai fini della individuazione della linea di demarcazione fra la vecchia e la nuova regolamentazione della materia incentivante, tale linea non può che essere individuata nella data del 01.01.2018, dopo aver ribadito, come peraltro già affermato dalla Sezione Autonomie, che la disposizione introdotta dal comma 526 dell’art. 1 della legge di stabilità 2018 non ha natura di interpretazione autentica, per cui non può considerarsi retroattivamente operativa.
Inoltre in modo convincente ed esplicito la Sezione Lazio della Corte nello stesso parere afferma sul punto che “la fonte di copertura inizia a variare per tutte le procedure la cui programmazione della spesa è approvata dopo il 01.01.2018, stante la intima compenetrazione sussistente tra tale programmazione ed i relativi stanziamenti con accantonamento di risorse nel Fondo costituito ai fini della successiva ripartizione e liquidazione dei compensi incentivanti. Per cui la nuova forma di copertura del Fondo introdotta dal comma 5-bis inizierà ad applicarsi ai contratti pubblici il cui progetto dell'opera o del lavoro sono stati approvati ed inseriti nei documenti di programmazione dopo il 01.01.2018 o, per le altre tipologie di appalti, in cui l’affidamento del contratto è stato deliberato dopo tale data” (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 27.09.2018 n. 258).

CONSIGLIERI COMUNALI - INCARICHI PROFESSIONALI - SEGRETARI COMUNALI: Non sussiste la responsabilità erariale circa l'affidamento all'esterno dell'ente dell'incarico di frazionamento catastale di una strada allorché detto incarico risulti effettivamente non affidabile all’interno dell’amministrazione per ragioni puntualmente esposte.
E’ opinione condivisa che la ratio dell’art. 7 del D.L.gs. n. 165/2001 -il quale, al comma 4, prevede che le Amministrazioni pubbliche curino la formazione e l’aggiornamento del personale e, al successivo comma 6, regolamenta i limiti entro i quali le Amministrazioni possono conferire incarichi esterni– sia quella di favorire l’efficienza degli Enti pubblici, realizzando la migliore utilizzazione delle risorse umane disponibili negli apparati amministrativi.
Giova, altresì, ricordare come la richiamata disciplina statale sia stata oggetto, nel tempo, di numerosi interventi di modifica che hanno reso sempre più stringenti tali limiti, al fine di prevenire danni all’Erario per spese improduttive o per ingiustificate erogazioni di denaro pubblico.
Pertanto, in virtù di tale normativa,
le Amministrazioni pubbliche devono avvalersi, per lo svolgimento delle proprie funzioni, delle risorse dell’apparato istituzionale, potendo derogare a tale regola solamente nei casi di assoluta impossibilità di provvedere con il personale dipendente ed a condizione che tale impossibilità risulti oggettivamente accertata con procedure formali che ne diano motivatamente conto
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Tali prescrizioni, da rispettare obbligatoriamente al fine di una corretta gestione del capitale umano all’interno della P.A., costituiscono altrettante regole di legittimità dell’azione amministrativa, la cui inosservanza può essere oggetto di sindacato giurisdizionale da parte del Giudice contabile sotto il profilo della ragionevolezza della scelta, non configurandosi, al riguardo, il lamentato travalicamento del limite al sindacato delle scelte discrezionali previsto dall’art. 1, comma 1, della L. n. 20/1994.
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Reputa il Collegio, sulla base di una lettura letterale, logica e sistematica, nonché costituzionalmente orientata (art. 97 Cost.) della disciplina contenuta nella L.P. n. 26/1993, che le Amministrazioni Trentine, nell’espletamento delle funzioni che loro competono, debbano avvalersi, in via prioritaria, del personale tecnico al proprio servizio.

Infatti,
l’art. 20 della L.P. n. 23/1996, concernente l’affidamento degli incarichi di progettazione e di “altre attività tecniche” (tra le quali rientra il frazionamento), nella formulazione applicabile vigente ratione temporis, dispone che tali attività devono essere svolte, anche parzialmente, dal personale dipendente “compatibilmente con la quantità e la qualità di risorse professionali e tecnologiche effettivamente disponibili presso ciascuna struttura”.
Inoltre
la citata norma prevede (art. 20, comma 3) che solo nel caso di interventi tecnici comportanti la “soluzione di complesse questioni tecniche” o di “carenze anche temporanee di organico o di competenze specifiche”, che devono essere “attestate motivatamente dai dirigenti dei servizi”, gli Enti possono avvalersi di professionisti esterni.
Tanto premesso con riguardo al quadro normativo di riferimento,
appare evidente come la richiamata disciplina preveda precisi limiti all’esternalizzazione delle attività tecniche ed obblighi l’Amministrazione a motivare congruamente gli affidamenti esterni, supportando la scelta con una previa istruttoria, compiuta dal settore competente, in ordine alle oggettive carenze di organico, strumentali o alle altre specifiche ragioni che, per legge, possono giustificare la scelta di gravare l’Amministrazione di un costo aggiuntivo per svolgere un’attività rientrante nei compiti di ufficio.
Deve, altresì, rilevarsi come la giurisprudenza contabile abbia, in più occasioni, rimarcato che le lacune procedurali che inficiano gli atti di conferimento di funzioni dell’Ente a soggetti esterni alla P.A., rilevabili per il tramite della motivazione del provvedimento -allorché il Legislatore ponga agli amministratori pubblici determinati vincoli di spesa, ritenendo implicitamente non utili tutte quelle spese che non rispettino i limiti da esso posti- non rappresentano meri vizi con incidenza circoscritta alla sfera di legittimità del provvedimento, ma rendono ingiustificata e, perciò, tendenzialmente dannosa la stessa erogazione di denaro pubblico.
Ciò posto,
osserva il Collegio come la delibera di giunta municipale n. 44/2016 abbia motivato l’affidamento dell’incarico esterno di frazionamento, in ciò confortata dal parere favorevole di regolarità tecnico-amministrativa del responsabile del Settore, con riguardo ad una carenza tecnologica dell’Ufficio Tecnico Comunale (sprovvisto della stazione GPS satellitare) in base, quindi, ad una delle ipotesi astrattamente consentite dalla citata normativa provinciale per l’esternalizzazione del servizio tecnico.
In relazione alle esposte circostanze
non può, pertanto, ravvedersi in capo ai convenuti una condotta posta in essere in violazione degli obblighi di servizio o gravemente colpevole.
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2.1 La fattispecie di responsabilità amministrativa sottoposta all’attenzione del Collegio riguarda un incarico tecnico esterno affidato, secondo la tesi attorea, in violazione dei principi di cui all’art. 7, c. 6, del D.lgs. n. 165/2001.
In particolare il Requirente, nella domanda formulata in via principale, ha contestato ai convenuti –nelle qualità di componenti della Giunta comunale che ha adottato la delibera di conferimento dell’incarico (n. 44/2016) e di Segretario che ne ha avallato la legittimità– di aver cagionato il danno erariale di euro 2.325,71, pari alla spesa sostenuta dal Comune di Cavalese in relazione all’affidamento in favore di un geometra esterno dell’attività di frazionamento (inerente una strada) che avrebbe dovuto essere svolta dal personale assegnato all’U.T.C..
Parte attrice, “solo in via meramente secondaria”, ha riferito il contestato danno anche alla violazione delle regole sulla concorrenza, essendo stato l’incarico affidato a trattativa privata senza un previo confronto concorrenziale.
Avuto riguardo alla contestazione attorea principale, i difensori dei convenuti hanno affermato la conformità della delibera di Giunta comunale alla disciplina provinciale, in quanto al momento dell’adozione del provvedimento sussisteva un oggettivo deficit strumentale nell’ambito dell’Ufficio Tecnico Comunale, tale da giustificare la ragionevole scelta di esternalizzare il servizio, a fronte anche di un ingente spesa, all’incirca di 20.000,00 euro, necessaria per acquistare la particolare apparecchiatura GPS satellitare.
In relazione alla domanda risarcitoria subordinata, le stesse difese hanno poi osservato che la modalità di affidamento senza gara non contrasta con la disciplina provinciale e che la Procura, in ogni caso, non ha provato la sussistenza di un effettivo danno da concorrenza, in un contesto nel quale il professionista incaricato risulta aver operato una riduzione dei compensi rispetto alle previsioni della Tariffa professionale.
2.2 Così sintetizzate le posizioni delle parti, giova ricordare che la normativa di cui al decreto legislativo n. 165/2001 (recante “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”), nel quale è inserita la disposizione di cui all’art. 7, comma 6, richiamata dalla Procura Regionale, rappresenta per le Regioni a Statuto speciale e per le Province Autonome di Trento e di Bolzano una disciplina con “valenza di norme fondamentali di riforma economico sociale” (art. 1, comma 3, D.Lgs. n. 165/2001), con la quale il Legislatore statale ha inteso regolamentare l’organizzazione degli uffici e i rapporti di lavoro e di impiego alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche “tenuto conto delle Autonomie locali e di quelle delle Regioni e delle Province Autonome, nel rispetto dell’art. 97 comma primo della Costituzione”.
E’ opinione condivisa che la ratio dell’art. 7 del D.L.gs. n. 165/2001 -il quale, al comma 4, prevede che le Amministrazioni pubbliche curino la formazione e l’aggiornamento del personale e, al successivo comma 6, regolamenta i limiti entro i quali le Amministrazioni possono conferire incarichi esterni– sia quella di favorire l’efficienza degli Enti pubblici, realizzando la migliore utilizzazione delle risorse umane disponibili negli apparati amministrativi.
Giova, altresì, ricordare come la richiamata disciplina statale sia stata oggetto, nel tempo, di numerosi interventi di modifica che hanno reso sempre più stringenti tali limiti, al fine di prevenire danni all’Erario per spese improduttive o per ingiustificate erogazioni di denaro pubblico. Pertanto, in virtù di tale normativa,
le Amministrazioni pubbliche devono avvalersi, per lo svolgimento delle proprie funzioni, delle risorse dell’apparato istituzionale, potendo derogare a tale regola solamente nei casi di assoluta impossibilità di provvedere con il personale dipendente ed a condizione che tale impossibilità risulti oggettivamente accertata con procedure formali che ne diano motivatamente conto (cfr. ex multis, Corte conti, Sezione Seconda Giurisdizionale Centrale d’Appello n. 291/2012, id. n. 333/2014).
Tali prescrizioni, da rispettare obbligatoriamente al fine di una corretta gestione del capitale umano all’interno della P.A., costituiscono altrettante regole di legittimità dell’azione amministrativa, la cui inosservanza può essere oggetto di sindacato giurisdizionale da parte del Giudice contabile sotto il profilo della ragionevolezza della scelta (cfr. Cass., Sez. un., n. 1378/2006; id. n. 7924/2006; id. n. 4283/2013; id. n. 22228/2016; Corte conti, Sezione di Appello per la Sicilia n. 198/2015; id. Sezione Terza Centrale d’Appello n. 430/2017), non configurandosi, al riguardo, il lamentato travalicamento del limite al sindacato delle scelte discrezionali previsto dall’art. 1, comma 1, della L. n. 20/1994.
2.3 Per quanto riguarda la Provincia Autonoma di Trento va, innanzitutto, rilevato che la generale materia degli incarichi di studio, ricerca, consulenza e collaborazione è disciplinata dal Capo I-bis, della L.P. n. 23/1990 (recante “Disciplina dell’attività contrattuale e dell’amministrazione dei beni della Provincia”).
In particolare, l’art. 39-quater della citata legge dopo aver disposto, al primo comma, che le disposizioni del Capo I-bis disciplinano l’affidamento di incarichi retribuiti a soggetti esterni, finalizzati all’acquisizione di apporti professionali per il miglior perseguimento dei fini istituzionali dell’Amministrazione, ne esclude espressamente l’applicazione per taluni incarichi –quali, ad esempio, quelli della rappresentanza in giudizio e del patrocinio dell’Amministrazione– con la previsione, al quinto comma, che “rimane fermo quanto previsto dalle leggi provinciali per l’affidamento di incarichi per l’esercizio di pubbliche funzioni o per incarichi di pubblico servizio, per l’esecuzione dei lavori pubblici (…)”.
Con riferimento alla specifica materia dei lavori pubblici viene, pertanto, in rilievo anche la disciplina di settore, richiamata dalle difese dei convenuti, di cui alla legge provinciale n. 26/1993, recante “Norme in materia di lavori pubblici di interesse provinciale e per la trasparenza negli appalti”, come modificata dalla L.P. n. 10/2008.
Sotto il profilo ordinamentale, appare di interesse osservare come la citata normativa provinciale sia stata oggetto di vaglio da parte della Corte Costituzionale.
In particolare, la Consulta, nella sentenza n. 45/2010 (dal contenuto parzialmente caducatorio), ha ricordato che l’art. 8, primo comma, n. 17 del D.P.R. n. 670/1972 (Statuto speciale) attribuisce alla Provincia autonoma di Trento una competenza legislativa primaria in alcune materie specificamente enumerate, tra le quali rientra quella dei lavori pubblici di interesse provinciale.
Nell’ambito di tale decisione, il Giudice delle leggi ha osservato che tale potestà legislativa primaria si esplica nei limiti previsti dall’art. 4 dello Statuto e, quindi, in armonia con la Costituzione ed i principi dell’Ordinamento giuridico della Repubblica, con il rispetto degli obblighi internazionali, degli interessi nazionali nonché delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica (i ricordati limiti sono stati richiamati anche nella sentenza n. 187/2013 riguardante la L.P. n. 26/1993 e nella recente decisione n. 191/2017 concernente la materia delle misure di contenimento della spesa pubblica).
Ciò premesso,
reputa il Collegio, sulla base di una lettura letterale, logica e sistematica, nonché costituzionalmente orientata (art. 97 Cost.) della disciplina contenuta nella L.P. n. 26/1993, che le Amministrazioni Trentine, nell’espletamento delle funzioni che loro competono, debbano avvalersi, in via prioritaria, del personale tecnico al proprio servizio.
Infatti,
l’art. 20 della L.P. n. 23/1996, concernente l’affidamento degli incarichi di progettazione e di “altre attività tecniche” (tra le quali rientra il frazionamento), nella formulazione applicabile vigente ratione temporis, dispone che tali attività devono essere svolte, anche parzialmente, dal personale dipendente “compatibilmente con la quantità e la qualità di risorse professionali e tecnologiche effettivamente disponibili presso ciascuna struttura”.
Inoltre
la citata norma prevede (art. 20, comma 3) che solo nel caso di interventi tecnici comportanti la “soluzione di complesse questioni tecniche” o di “carenze anche temporanee di organico o di competenze specifiche”, che devono essere “attestate motivatamente dai dirigenti dei servizi”, gli Enti possono avvalersi di professionisti esterni.
2.4 Tanto premesso con riguardo al quadro normativo di riferimento,
appare evidente come la richiamata disciplina preveda precisi limiti all’esternalizzazione delle attività tecniche ed obblighi l’Amministrazione a motivare congruamente gli affidamenti esterni, supportando la scelta con una previa istruttoria, compiuta dal settore competente, in ordine alle oggettive carenze di organico, strumentali o alle altre specifiche ragioni che, per legge, possono giustificare la scelta di gravare l’Amministrazione di un costo aggiuntivo per svolgere un’attività rientrante nei compiti di ufficio.
Deve, altresì, rilevarsi come la giurisprudenza contabile abbia, in più occasioni, rimarcato che le lacune procedurali che inficiano gli atti di conferimento di funzioni dell’Ente a soggetti esterni alla P.A., rilevabili per il tramite della motivazione del provvedimento -allorché il Legislatore ponga agli amministratori pubblici determinati vincoli di spesa, ritenendo implicitamente non utili tutte quelle spese che non rispettino i limiti da esso posti- non rappresentano meri vizi con incidenza circoscritta alla sfera di legittimità del provvedimento, ma rendono ingiustificata e, perciò, tendenzialmente dannosa la stessa erogazione di denaro pubblico (Corte conti, Sezione Prima Centrale di Appello n. 224/2017; id. Sezione Appello Sicilia n. 48/2017).
Ciò posto,
osserva il Collegio come la delibera di giunta municipale n. 44/2016 abbia motivato l’affidamento dell’incarico esterno di frazionamento, in ciò confortata dal parere favorevole di regolarità tecnico-amministrativa del responsabile del Settore, con riguardo ad una carenza tecnologica dell’Ufficio Tecnico Comunale (sprovvisto della stazione GPS satellitare) in base, quindi, ad una delle ipotesi astrattamente consentite dalla citata normativa provinciale per l’esternalizzazione del servizio tecnico.
In relazione alle esposte circostanze
non può, pertanto, ravvedersi in capo ai convenuti una condotta posta in essere in violazione degli obblighi di servizio o gravemente colpevole.
Né ritiene il Collegio che le evidenze processuali dimostrino che i componenti della Giunta comunale ed il Segretario abbiano mantenuto in un voluto stato di inefficienza organizzativa l’Ufficio Tecnico comunale, secondo quanto affermato dal Pubblico Ministero, non provvedendo all’ordinaria strumentazione di un Ufficio Tecnico di rilevanti dimensioni “in concorso con il responsabile dell’Ufficio Tecnico” al fine di “compiacere la volontà di favorire professionisti esterni”.
Si osserva, in proposito, come la reiterazione degli incarichi nel biennio 2015/2016, enfatizzata dal Requirente, non sia di per sé sufficiente a provare il prospettato “concorso” illecito per favorire soggetti terzi.
Per quanto già evidenziato, deve ritenersi che all’atto dell’assunzione della delibera n. 44/2016, l’Ufficio Tecnico del Comune di Cavalese non fosse, oggettivamente, nelle condizioni di effettuare l’attività di frazionamento della strada non possedendo la necessaria strumentazione. Inoltre, le difese hanno provato –depositando il preventivo di una ditta specializzata– che tale strumentazione aveva un costo particolarmente elevato, di molto superiore a quanto corrisposto al professionista esterno per effettuare il necessario singolo frazionamento e tanto consente di escludere, in assenza di prova contraria da parte della Procura, che la scelta di esternalizzare l’incarico possa configurarsi come irragionevole e, in definitiva, dannosa per l’Ente.
Ciò posto, deve essere respinta la domanda risarcitoria formulata in via principale da parte attrice, con riguardo alla violazione della normativa in materia di incarichi esterni, non sussistendo i presupposti della responsabilità amministrativa dei convenuti.
Né può trovare accoglimento la domanda risarcitoria formulata dal P.M. “in via meramente secondaria”, in relazione al mancato rispetto delle regole della concorrenza, non risultando in alcun modo provata, anche con riguardo a tale prospettazione subordinata, la sussistenza dell’esistenza di un danno erariale.
Conclusivamente, sulla base delle esposte considerazioni, assorbita ogni altra questione e disattesa ogni contraria istanza, deduzione ed eccezione, i convenuti vanno mandati assolti dagli addebiti di responsabilità contestati nell’atto di citazione.
Avuto riguardo al proscioglimento nel merito, il Collegio deve provvedere alla liquidazione delle spese di difesa, ai sensi dell’art. 31, comma 2, del Codice di Giustizia Contabile (D.Lgs. n. 174/2016).
Ai sensi di tale disposizione, con la sentenza che esclude definitivamente la responsabilità amministrativa per accertata insussistenza del danno, ovvero della violazione degli obblighi di servizio, del nesso di causalità, del dolo o della colpa grave, il Giudice non può disporre la compensazione delle spese del giudizio e deve liquidare, a carico dell’Amministrazione di appartenenza, l’ammontare degli onorari e dei diritti spettanti alla difesa.
Sulla base della citata norma, esaminati gli atti di causa e facendo applicazione dei parametri contenuti nel D.M. n. 55/2014 (“Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense”) si quantificano le spese legali, da porre a carico del Comune di Cavalese, in favore della difesa del convenuto Gi.Ma. nell’importo di euro 270,00 per compensi oltre spese generali (15%), c.n.p.a. e I.V.A nonché in favore della difesa, unitariamente considerata, degli altri convenuti We.Si., Gi.Pa., Va.Gi., Va.Ma. e Va.Or., nell’importo complessivo di euro 486,00 per compensi oltre spese generali (15%), c.n.p.a. e I.V.A .
PER QUESTI MOTIVI
la Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale per il Trentino Alto Adige/Südtirol - sede di Trento, definitivamente pronunciando, assolve i convenuti We.Si., Gi.Pa., Va.Gi., Va.Or., Va.Ma. e Gi.Ma. (Corte dei Conti, Sez. giursidiz. Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 21.09.2018 n. 35).

CONSIGLIERI COMUNALI - INCARICHI PROFESSIONALI - SEGRETARI COMUNALI: Sussiste la responsabilità per danno erariale nel caso di affidamento, a professionista esterno all’amministrazione, di un incarico di direzione lavori e di coordinamento della sicurezza in fase esecutiva n assenza di adeguata e congrua motivazione che esponga in termini puntuali le ragioni per le quali risulta l’impossibilità di utilizzo del personale interno o dell’attrezzatura necessaria.
E’ opinione condivisa che la ratio dell’art. 7 del D.L.gs. n. 165/2001 -il quale, al comma 4, prevede che le Amministrazioni pubbliche curino la formazione e l’aggiornamento del personale e, al successivo comma 6, regolamenta i limiti entro i quali le Amministrazioni possono conferire incarichi esterni– sia quella di favorire l’efficienza degli Enti pubblici, realizzando la migliore utilizzazione delle risorse umane disponibili negli apparati amministrativi.
Giova, altresì, ricordare come la richiamata disciplina statale sia stata oggetto, nel tempo, di numerosi interventi di modifica che hanno reso sempre più stringenti tali limiti, al fine di prevenire danni all’Erario per spese improduttive o per ingiustificate erogazioni di denaro pubblico.
Pertanto, in virtù di tale normativa,
le Amministrazioni pubbliche devono avvalersi, per lo svolgimento delle proprie funzioni, delle risorse dell’apparato istituzionale, potendo derogare a tale regola solamente nei casi di assoluta impossibilità di provvedere con il personale dipendente ed a condizione che tale circostanza risulti oggettivamente accertata con procedure formali che ne diano motivatamente conto
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Tali prescrizioni, da rispettare obbligatoriamente al fine di una corretta gestione del capitale umano all’interno della P.A., costituiscono altrettante regole di legittimità dell’azione amministrativa, la cui inosservanza può essere oggetto di sindacato giurisdizionale da parte del Giudice contabile sotto il profilo della ragionevolezza della scelta, non configurandosi, al riguardo, il lamentato travalicamento del limite al sindacato delle scelte discrezionali previsto dall’art. 1, comma 1, della L. n. 20/1994.
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Reputa il Collegio, sulla base di una lettura letterale, logica e sistematica, nonché costituzionalmente orientata (art. 97 Cost.) della disciplina contenuta nella L.P. n. 26/1993, che le Amministrazioni Trentine, nell’espletamento delle funzioni che loro competono, debbano avvalersi, in via prioritaria, del personale tecnico al proprio servizio.

Infatti,
l’art. 22 della L.P. n. 26/1993 (recante “incarichi di direzione lavori”), nella formulazione applicabile e vigente ratione temporis, dispone(comma 2) che “la direzione lavori è di norma affidata ai competenti servizi tecnici delle Amministrazioni aggiudicatrici in possesso delle necessarie professionalità”, soggiungendo (comma 5) che “la direzione dei lavori può essere costituita anche nella forma del gruppo misto di direzione formato da dipendenti dell’Amministrazione e da professionisti esterni”.
Deve aggiungersi che
la normativa in riferimento prevede, in forza del richiamo contenuto nel citato art. 22 (terzo comma) alla disposizione di cui all’art. 20 (terzo comma) della medesima L.P. n. 23/1996, solo nel caso “di interventi comportanti la soluzione di complesse questioni tecniche” ovvero “in caso di esigenze organizzative delle Amministrazioni aggiudicatrici determinate da carenze anche temporanee di organico o di competenze specifiche, attestate motivatamente dai dirigenti dei servizi competenti d’intesa con il dirigente generale” la possibilità di avvalersi, anche parzialmente, di soggetti di riconosciuta e specifica competenza.
In definitiva,
solamente in presenza di comprovate carenze organizzative, da attestarsi, motivatamente, dai dirigenti dei servizi, l’Amministrazione può avvalersi di professionisti esterni, eventualmente costituendo una direzione lavori nella forma del gruppo misto di direzione, di cui all’art. 22 cit., o, nell’ipotesi non sussistano i presupposti per tale soluzione intermedia, esternalizzando totalmente l’incarico.
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Tanto premesso con riguardo al quadro normativo di riferimento, appare evidente come la richiamata disciplina preveda precisi limiti all’esternalizzazione delle attività tecniche ed obblighi l’Amministrazione a motivare congruamente gli affidamenti esterni, supportando la scelta con una previa istruttoria, compiuta dal settore competente, in ordine alle oggettive carenze di organico, strumentali o alle altre specifiche ragioni che, per legge, possono giustificare la scelta di gravare l’Amministrazione di un costo aggiuntivo per svolgere un’attività rientrante nei compiti di ufficio.
Deve, altresì, rilevarsi come la giurisprudenza contabile abbia, in più occasioni, rimarcato che le lacune procedurali che inficiano gli atti di conferimento di funzioni dell’Ente a soggetti esterni alla P.A., rilevabili per il tramite della carenza della motivazione del provvedimento -allorché il Legislatore ponga agli amministratori pubblici determinati vincoli di spesa, ritenendo implicitamente non utili tutte quelle spese che non rispettino i limiti da esso posti- non rappresentano meri vizi, con incidenza circoscritta alla sfera di legittimità del provvedimento, ma rendono ingiustificata e, perciò, tendenzialmente dannosa la stessa erogazione di denaro pubblico.
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Sul punto giova ricordare la diversità dei compiti assegnati alle figure del direttore dei lavori e del coordinatore della sicurezza, considerato che il primo è preposto alla direzione ed al controllo tecnico, contabile e amministrativo dell’esecuzione dell’intervento mentre il secondo è tenuto a verificare durante la realizzazione dell’opera, ex art. 92, comma 1, del D.lgs. n. 81/2008, l’idoneità del Piano di Sicurezza e la corretta applicazione delle relative procedure di lavoro, a controllare che le imprese esecutrici adeguino i rispettivi piani operativi, segnalando al committente ed al responsabile dei lavori le eventuali inosservanze nonché sospendendo i lavori in caso di pericolo grave ed imminente.
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La questione dedotta in giudizio integra la fattispecie esaminata dalla citata giurisprudenza, ovvero il caso di una delibera assunta in assenza di qualsiasi congrua motivazione rispetto ai vincoli espressamente previsti dal Legislatore per il conferimento di incarichi esterni.

Oltre all’indiscutibile illegittimità della delibera, e conseguente antigiuridicità della condotta dei convenuti, risulta altresì provata in atti la concreta dannosità della scelta di gravare l’Amministrazione di costi indebiti, rinunciando ad avvalersi, anche parzialmente, come consentito dalla L.P. n. 26/1993, delle prestazioni lavorative dei numerosi e qualificati dipendenti in servizio presso l’Ufficio Tecnico.
Sicché,
devono ritenersi integrati i presupposti della responsabilità amministrativa dei convenuti.
In primo luogo,
non appare revocabile in dubbio che la condotta dei componenti della Giunta comunale e dal Segretario comunale sia stata gravemente lesiva degli obblighi di servizio, contrastando non solo con la chiara normativa in materia di conferimento di incarichi esterni nell’ambito dei lavori pubblici, ma anche con il generale criterio dell’autosufficienza dell’organizzazione amministrativa e, in definitiva, con i principi di efficienza, efficacia ed economicità nonché di legalità e buon andamento dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.).
La violazione di tali basilari principi, sotto il profilo dell’elemento soggettivo, costituisce indice sintomatico di grave trascuratezza, negligenza ed imperizia nell’esercizio delle funzioni demandate agli amministratori comunali oltre che al segretario comunale, cui spetta il compito di vigilare sulla legittimità dell’azione amministrativa.

La totale mancanza di una motivazione che potesse giustificare l’affidamento dell’incarico esterno consente, invece, di ritenere provato l’elemento psicologico della colpa grave in capo ai convenuti, reso evidente dalla superficialità con la quale è stata disposta, in palese violazione degli obblighi di servizio e della normativa di riferimento, una rilevante spesa gravante sul bilancio comunale senza il preventivo accertamento dell’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane interne.
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2.1 La fattispecie di responsabilità amministrativa sottoposta all’attenzione del Collegio riguarda un incarico tecnico esterno affidato, secondo la tesi attorea, in violazione dell’art. 7, comma 6, del D.lgs. n. 165/2001.

In particolare il Requirente, nella domanda formulata in via principale, ha contestato ai convenuti -nelle qualità di componenti della Giunta comunale che ha adottato la delibera di conferimento dell’incarico (n. 19/2016) e di Segretario che ne ha avallato la legittimità- di aver cagionato il danno erariale di euro 17.472,02, pari alla spesa sostenuta dal Comune di Cavalese in relazione all’affidamento in favore di un geometra esterno della direzione lavori e del coordinamento della sicurezza in fase esecutiva delle opere concernenti la realizzazione di un nuovo tratto di fognatura comunale (in località Salanzada), che avrebbe dovuto essere svolto dal personale assegnato all’U.T.C..
Parte attrice, solo in “via meramente secondaria”, ha riferito il contestato danno alla violazione delle regole sulla concorrenza, essendo stato l’incarico affidato a trattativa privata senza previo confronto concorrenziale.
Avuto riguardo alla contestazione attorea principale, i difensori dei convenuti hanno affermato la conformità della delibera di Giunta comunale alla disciplina provinciale, in quanto al momento dell’adozione della stessa sussisteva un deficit organizzativo e strumentale, nell’ambito dell’Ufficio Tecnico Comunale, tale da giustificare la scelta di esternalizzare il servizio.
In relazione alla domanda risarcitoria subordinata, le stesse difese hanno poi osservato che la modalità di affidamento senza gara non contrasta con la disciplina provinciale e che la Procura, in ogni caso, non ha provato la sussistenza di un effettivo danno da concorrenza, in un contesto nel quale il professionista incaricato risulta aver operato una riduzione dei compensi rispetto alle previsioni della Tariffa professionale.
2.2 Così sintetizzate le posizioni delle parti, giova ricordare che la normativa di cui al decreto legislativo n. 165/2001 (recante “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”), nel quale è inserita la disposizione di cui all’art. 7, comma 6, richiamata dalla Procura Regionale, rappresenta per le Regioni a Statuto speciale e per le Province Autonome di Trento e di Bolzano una disciplina con “valenza di norme fondamentali di riforma economico sociale” (art. 1, comma 3, D.Lgs. n. 165/2001), con la quale il Legislatore statale ha inteso regolamentare l’organizzazione degli uffici e i rapporti di lavoro e di impiego alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche “tenuto conto delle Autonomie locali e di quelle delle Regioni e delle Province Autonome, nel rispetto dell’art. 97 comma primo della Costituzione”.
E’ opinione condivisa che la ratio dell’art. 7 del D.L.gs. n. 165/2001 -il quale, al comma 4, prevede che le Amministrazioni pubbliche curino la formazione e l’aggiornamento del personale e, al successivo comma 6, regolamenta i limiti entro i quali le Amministrazioni possono conferire incarichi esterni– sia quella di favorire l’efficienza degli Enti pubblici, realizzando la migliore utilizzazione delle risorse umane disponibili negli apparati amministrativi.
Giova, altresì, ricordare come la richiamata disciplina statale sia stata oggetto, nel tempo, di numerosi interventi di modifica che hanno reso sempre più stringenti tali limiti, al fine di prevenire danni all’Erario per spese improduttive o per ingiustificate erogazioni di denaro pubblico. Pertanto, in virtù di tale normativa,
le Amministrazioni pubbliche devono avvalersi, per lo svolgimento delle proprie funzioni, delle risorse dell’apparato istituzionale, potendo derogare a tale regola solamente nei casi di assoluta impossibilità di provvedere con il personale dipendente ed a condizione che tale circostanza risulti oggettivamente accertata con procedure formali che ne diano motivatamente conto (cfr. ex multis, Corte conti, Sezione Seconda Giurisdizionale Centrale d’Appello n. 291/2012, id. n. 333/2014).
Tali prescrizioni, da rispettare obbligatoriamente al fine di una corretta gestione del capitale umano all’interno della P.A., costituiscono altrettante regole di legittimità dell’azione amministrativa, la cui inosservanza può essere oggetto di sindacato giurisdizionale da parte del Giudice contabile sotto il profilo della ragionevolezza della scelta (cfr. Cass., Sez. un., n. 1378/2006; id. n. 7924/2006; id. n. 4283/2013; id. n. 22228/2016; Corte conti, Sezione di Appello per la Sicilia n. 198/2015; id. Sezione Terza Centrale d’Appello n. 430/2017), non configurandosi, al riguardo, il lamentato travalicamento del limite al sindacato delle scelte discrezionali previsto dall’art. 1, comma 1, della L. n. 20/1994.
2.3 Per quanto riguarda la Provincia Autonoma di Trento va, innanzi tutto, rilevato che la generale materia degli incarichi di studio, ricerca, consulenza e collaborazione è disciplinata dal Capo I-bis, della L.P. n. 23/1990 (recante “Disciplina dell’attività contrattuale e dell’amministrazione dei beni della Provincia”).
In particolare, l’art. 39-quater della citata legge dopo aver disposto, al primo comma, che le disposizioni del Capo I-bis disciplinano l’affidamento di incarichi retribuiti a soggetti esterni, finalizzati all’acquisizione di apporti professionali per il miglior perseguimento dei fini istituzionali dell’Amministrazione, ne esclude espressamente l’applicazione per taluni incarichi –quali, ad esempio, quelli della rappresentanza in giudizio e del patrocinio dell’Amministrazione– con la previsione, al quinto comma, che “rimane fermo quanto previsto dalle leggi provinciali per l’affidamento di incarichi per l’esercizio di pubbliche funzioni o per incarichi di pubblico servizio, per l’esecuzione dei lavori pubblici (…)”.
Con riferimento alla specifica materia dei lavori pubblici viene, pertanto, in rilievo anche la disciplina di settore, richiamata dalle difese dei convenuti, di cui alla legge provinciale n. 26/1993, recante “Norme in materia di lavori pubblici di interesse provinciale e per la trasparenza negli appalti”, come modificata dalla L.P. n. 10/2008.
Sotto il profilo ordinamentale, appare di interesse osservare come la citata normativa provinciale sia stata oggetto di vaglio da parte della Corte Costituzionale.
In particolare, la Consulta, nella sentenza n. 45/2010 (dal contenuto parzialmente caducatorio), ha ricordato che l’art. 8, primo comma, n. 17 del D.P.R. n. 670/1972 (Statuto speciale) attribuisce alla Provincia autonoma di Trento una competenza legislativa primaria in alcune materie specificamente enumerate, tra le quali rientra quella dei lavori pubblici di interesse provinciale.
Nell’ambito di tale decisione, il Giudice delle leggi ha osservato che tale potestà legislativa primaria si esplica nei limiti previsti dall’art. 4 dello Statuto e, quindi, in armonia con la Costituzione ed i principi dell’Ordinamento giuridico della Repubblica, con il rispetto degli obblighi internazionali, degli interessi nazionali nonché delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica (i ricordati limiti sono stati richiamati anche nella sentenza n. 187/2013 riguardante la L.P. n. 26/1993 e nella recente decisione n. 191/2017 concernente la materia delle misure di contenimento della spesa pubblica).
Ciò premesso,
reputa il Collegio, sulla base di una lettura letterale, logica e sistematica, nonché costituzionalmente orientata (art. 97 Cost.) della disciplina contenuta nella L.P. n. 26/1993, che le Amministrazioni Trentine, nell’espletamento delle funzioni che loro competono, debbano avvalersi, in via prioritaria, del personale tecnico al proprio servizio.
Infatti,
l’art. 22 della L.P. n. 26/1993 (recante “incarichi di direzione lavori”), nella formulazione applicabile e vigente ratione temporis, dispone(comma 2) che “la direzione lavori è di norma affidata ai competenti servizi tecnici delle Amministrazioni aggiudicatrici in possesso delle necessarie professionalità”, soggiungendo (comma 5) che “la direzione dei lavori può essere costituita anche nella forma del gruppo misto di direzione formato da dipendenti dell’Amministrazione e da professionisti esterni”.
Deve aggiungersi che
la normativa in riferimento prevede, in forza del richiamo contenuto nel citato art. 22 (terzo comma) alla disposizione di cui all’art. 20 (terzo comma) della medesima L.P. n. 23/1996, solo nel caso “di interventi comportanti la soluzione di complesse questioni tecniche” ovvero “in caso di esigenze organizzative delle Amministrazioni aggiudicatrici determinate da carenze anche temporanee di organico o di competenze specifiche, attestate motivatamente dai dirigenti dei servizi competenti d’intesa con il dirigente generale” la possibilità di avvalersi, anche parzialmente, di soggetti di riconosciuta e specifica competenza.
In definitiva,
solamente in presenza di comprovate carenze organizzative, da attestarsi, motivatamente, dai dirigenti dei servizi, l’Amministrazione può avvalersi di professionisti esterni, eventualmente costituendo una direzione lavori nella forma del gruppo misto di direzione, di cui all’art. 22 cit., o, nell’ipotesi non sussistano i presupposti per tale soluzione intermedia, esternalizzando totalmente l’incarico.
Va, poi, evidenziato come la normativa provinciale di cui alla L.P. n. 26/1993 all’art. 22, comma 6, preveda la possibilità sia di tenere unite che di separare le funzioni di direzione lavori e di coordinamento della sicurezza (mentre la successiva L.P. n. 2 del 09.03.2016, all’art. 10, recante “disposizioni per la progettazione e gli incarichi relativi all’architettura e all’ingegneria”, opta per una tendenziale separazione prevedendo che “gli incarichi di coordinatore per la sicurezza sono affidati ad un soggetto diverso dal progettista e dal direttore dei lavori, a meno che il responsabile del procedimento non ritenga opportuna la coincidenza tra queste due figure”).
Sul punto
giova ricordare la diversità dei compiti assegnati alle figure del direttore dei lavori e del coordinatore della sicurezza, considerato che il primo è preposto alla direzione ed al controllo tecnico, contabile e amministrativo dell’esecuzione dell’intervento mentre il secondo è tenuto a verificare durante la realizzazione dell’opera, ex art. 92, comma 1, del D.lgs. n. 81/2008, l’idoneità del Piano di Sicurezza e la corretta applicazione delle relative procedure di lavoro, a controllare che le imprese esecutrici adeguino i rispettivi piani operativi, segnalando al committente ed al responsabile dei lavori le eventuali inosservanze nonché sospendendo i lavori in caso di pericolo grave ed imminente.
2.4 Tanto premesso con riguardo al quadro normativo di riferimento,
appare evidente come la richiamata disciplina preveda precisi limiti all’esternalizzazione delle attività tecniche ed obblighi l’Amministrazione a motivare congruamente gli affidamenti esterni, supportando la scelta con una previa istruttoria, compiuta dal settore competente, in ordine alle oggettive carenze di organico, strumentali o alle altre specifiche ragioni che, per legge, possono giustificare la scelta di gravare l’Amministrazione di un costo aggiuntivo per svolgere un’attività rientrante nei compiti di ufficio.
Deve, altresì, rilevarsi come la giurisprudenza contabile abbia, in più occasioni, rimarcato che le lacune procedurali che inficiano gli atti di conferimento di funzioni dell’Ente a soggetti esterni alla P.A., rilevabili per il tramite della carenza della motivazione del provvedimento -allorché il Legislatore ponga agli amministratori pubblici determinati vincoli di spesa, ritenendo implicitamente non utili tutte quelle spese che non rispettino i limiti da esso posti- non rappresentano meri vizi, con incidenza circoscritta alla sfera di legittimità del provvedimento, ma rendono ingiustificata e, perciò, tendenzialmente dannosa la stessa erogazione di denaro pubblico (Corte conti, Sezione Prima Centrale di Appello n. 224/2017; id. Sezione Appello Sicilia n. 48/2017).
Ciò posto, osserva il Collegio come la delibera di Giunta municipale n. 19/2016 -votata dai convenuti We.Si., Se.Si., Gi.Pa., Va.Gi., Va.Or., Va.Ma. e la cui legittimità è stata avallata dal Segretario comunale dott. Gi.- non rechi alcuna motivazione, così come invece previsto dalla stessa L.P. n. 26/1993, in ordine all’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse interne dell’Ufficio Tecnico Comunale, risultando del tutto inconferente la circostanza, evidenziata nella parte motiva del provvedimento, che il geometra cui veniva affidato la direzione lavori ed il coordinamento della sicurezza avesse già redatto la progettazione esecutiva dell’opera in base ad un precedente incarico.
Pertanto,
la questione dedotta in giudizio integra la fattispecie esaminata dalla citata giurisprudenza, ovvero il caso di una delibera assunta in assenza di qualsiasi congrua motivazione rispetto ai vincoli espressamente previsti dal Legislatore per il conferimento di incarichi esterni.
Oltre all’indiscutibile illegittimità della delibera, e conseguente antigiuridicità della condotta dei convenuti, risulta altresì provata in atti la concreta dannosità della scelta di gravare l’Amministrazione di costi indebiti, rinunciando ad avvalersi, anche parzialmente, come consentito dalla L.P. n. 26/1993, delle prestazioni lavorative dei numerosi e qualificati dipendenti in servizio presso l’Ufficio Tecnico.
Giova, in proposito, ricordare come nei compiti ordinari di tali dipendenti rientrasse, in base alle stesse indicazioni contenute nel P.E.G. (cfr. punto E.1/Adempimenti amministrativi e tecnici) l’attività relativa al “progettare/dirigere e controllare sotto il profilo della sicurezza le opere di competenza dell’Ufficio secondo le indicazioni dell’Amministrazione”.
Al fine di provare, in giudizio, la pretesa impossibilità del personale interno di svolgere le ricordate funzioni ordinarie, i convenuti hanno prodotto le dichiarazioni rese, in data 27/09/2017, dai dipendenti dell’Ufficio Tecnico.
Questi ultimi hanno riferito, in particolare, di non disporre dell’apparecchiatura necessaria per verificare l’inclinazione delle tubature e di non aver avuto il “tempo necessario” per occuparsi della prestazione esternalizzata, in quanto tale attività li avrebbe distolti “dalle incombenze ordinarie”. Inoltre, hanno dichiarato di non aver mai acquisito le certificazioni in materia di sicurezza.
Rileva il Collegio come in tali dichiarazioni non siano state indicate dettagliatamente né le altre incombenze asseritamente preclusive dell’espletamento delle mansioni rientranti negli ordinari compiti dell’Ufficio Tecnico, né il costo dell’attrezzatura mancante, né tanto meno l’incidenza dell’utilizzo di tale strumentazione nell’ambito dell’attività esternalizzata.
Con riguardo, poi, alla dichiarazione dei dipendenti concernente la mancanza, all’atto dell’assunzione della delibera n. 19/2016, dei requisiti per svolgere il ruolo di Coordinatore della sicurezza, di cui all’art. 98 del Dlgs n. 81/2008 -non avendo i dipendenti dell’U.T.C. mai frequentato i previsti corsi e, quindi, acquisito la necessaria certificazione- deve rilevarsi come tale carenza non precludesse, vista la possibilità di separare le funzioni di D.L. e di Coordinatore della sicurezza, di affidare ad almeno uno dei numerosi professionisti interni (tre geometri ed un architetto), l’attività di direzione lavori.
In ragione di quanto innanzi esposto,
devono ritenersi integrati i presupposti della responsabilità amministrativa dei convenuti.
In primo luogo,
non appare revocabile in dubbio che la condotta dei componenti della Giunta comunale e dal Segretario comunale sia stata gravemente lesiva degli obblighi di servizio, contrastando non solo con la chiara normativa in materia di conferimento di incarichi esterni nell’ambito dei lavori pubblici, ma anche con il generale criterio dell’autosufficienza dell’organizzazione amministrativa e, in definitiva, con i principi di efficienza, efficacia ed economicità nonché di legalità e buon andamento dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.).
La violazione di tali basilari principi, sotto il profilo dell’elemento soggettivo, costituisce indice sintomatico di grave trascuratezza, negligenza ed imperizia nell’esercizio delle funzioni demandate agli amministratori comunali oltre che al segretario comunale, cui spetta il compito di vigilare sulla legittimità dell’azione amministrativa.

Non ritiene, invece, il Collegio che le evidenze processuali dimostrino che i componenti della Giunta comunale ed il Segretario abbiano mantenuto in un voluto stato di inefficienza organizzativa l’Ufficio Tecnico comunale e che, in particolare, secondo quanto affermato dal Pubblico Ministero, “la mancata acquisizione (…) dell’attestato inerente al coordinamento sicurezza (benché normale bagaglio del geometra professionista) risponda alla precisa volontà dell’Amministrazione di favorire professionisti esterni (con la connivenza delle risorse interne dell’Ufficio Tecnico Comunale)”.
Si osserva, in proposito, come la reiterazione degli incarichi nel biennio 2015/2016, enfatizzata dal Requirente, non sia di per sé sufficiente a provare il prospettato “concorso” illecito volto a favorire soggetti terzi.
La totale mancanza di una motivazione che potesse giustificare l’affidamento dell’incarico esterno consente, invece, di ritenere provato l’elemento psicologico della colpa grave in capo ai convenuti, reso evidente dalla superficialità con la quale è stata disposta, in palese violazione degli obblighi di servizio e della normativa di riferimento, una rilevante spesa gravante sul bilancio comunale senza il preventivo accertamento dell’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane interne.
Tale circostanza risulta evidenziata nella stessa relazione del dirigente del Servizio Autonomie Locali della Provincia Autonoma di Trento ed è accennata anche nelle dichiarazioni rese innanzi al P.M, in data 24/10/2017, dal consigliere comunale che ha dato avvio, con il proprio esposto, all’indagine della Procura contabile.
Reputa il Collegio che quest’ultima acquisizione istruttoria, contrariamente a quanto sostenuto dalle parti convenute, sia stata ritualmente assunta dalla Procura Regionale in piena osservanza dell’art. 67, settimo comma, del Codice di Giustizia Contabile. Disposizione, quest’ultima, che consente all’Inquirente di svolgere attività istruttoria anche successivamente all’invito a dedurre nel caso in cui, come nella fattispecie in esame, vi sia stata la necessità di compiere accertamenti su ulteriori elementi di fatto emersi a seguito delle controdeduzioni.
Vanno pertanto respinte le eccezioni delle difese in ordine all’inutilizzabilità di tale atto istruttorio, dovendo altresì rilevarsi come il contenuto di tali dichiarazioni non risulti, peraltro, determinante al fine del decidere, emergendo per tabulas l’illegittimità della delibera di Giunta.
2.5 Non è poi revocabile in dubbio il danno subito dal Comune di Cavalese che, in esecuzione dell’illegittima delibera n. 19/2016, ha sostenuto, per remunerare il professionista esterno, la complessiva spesa di euro 17.472,02, di cui euro 13.057,98 per la direzione lavori ed euro 4.414,04 per l’attività di coordinamento della sicurezza.
Ai fini della misura del risarcimento eziologicamente imputabile alla condotta dei convenuti ritiene poi il Collegio, per le considerazioni che si andranno di seguito ad esporre, di addivenire ad una minore quantificazione rispetto al petitum richiesto da parte attrice.
Giova, al riguardo, premettere che
nel giudizio di responsabilità amministrativa, ove si tratti di responsabilità per colpa grave, la natura personale e parziaria dell’obbligazione risarcitoria consente al Giudice di tener conto di eventuali comportamenti concorrenti di soggetti estranei al giudizio che costituendo, anche in parte, il motivo dell’insorgenza del nocumento lamentato dall’Amministrazione riducano la responsabilità del convenuto (Corte conti, Sezione Prima Centrale d’Appello n. 435/2015; id. Sezione Seconda Centrale d’Appello n. 156/2013; id. Sezione Terza Centrale d’Appello n. 156/2010).
Sostanzialmente ricognitiva di tale orientamento giurisprudenziale risulta la disposizione di cui all’art. 83 del Codice di Giustizia Contabile (D.L.gs. n. 174/2016) che, pur vietando la chiamata in giudizio su ordine del Giudice, gli consente di eseguire un accertamento incidentale su eventuali condotte concausali, ai soli fini dell’esatta determinazione delle quote di danno da porre a carico dei soggetti evocati in giudizio, con l’ulteriore previsione, nei casi in cui emergano fatti nuovi rispetto a quelli posti a base dell’atto introduttivo -circostanza, quest’ultima non concretatasi nel caso di specie- della trasmissione degli atti al P.M.
Nello specifico, il danno azionato in via principale da parte attrice appare il frutto del concorso di diverse responsabilità imputabili ai vari organi dell’Ente, tra le quali vanno considerate anche quelle riferibili alle evidenti disfunzioni organizzative presenti nell’Ufficio Tecnico Comunale.
A tal proposito è significativo rilevare come nessuno dei dipendenti in servizio presso tale Ufficio, in possesso dei prescritti requisiti (diploma di geometra o di laurea in architettura), abbia mai partecipato ai corsi necessari a conseguire le certificazioni in materia di coordinamento della sicurezza dei lavori pubblici, nonostante nei compiti ordinari degli stessi rientrasse quello di “controllare sotto il profilo della sicurezza le opere di competenza dell’Ufficio secondo le indicazioni dell’Amministrazione” (cfr. PEG 2015 e 2016).
A tale carenza della formazione del personale, con riguardo al delicato e rilevante settore della sicurezza delle opere comunali, così come con riferimento alla generale efficienza del Settore, avrebbero dovuto porre cura e rimedio, in primo luogo, i responsabili dell’Ufficio Tecnico.
Oltre che del cennato contributo causale da parte di soggetti estranei al giudizio, ai fini della corretta imputazione del danno ai convenuti, reputa il Collegio di considerare anche la parziale utilitas conseguita dall’Amministrazione danneggiata in relazione allo svolgimento dell’attività concernente il coordinamento della sicurezza dei lavori, remunerata al geometra incaricato con l’importo di euro 4.414,04, che i dipendenti dell’Ufficio Tecnico, oggettivamente, non potevano svolgere in relazione al provato mancato conseguimento delle necessarie certificazioni previste dall’art. 98 del D.Lgs. n. 81/2008.
Come evidenziato da recente giurisprudenza del Giudice di appello, con la norma di cui all’art. 1, comma 1-bis. della legge n. 20/1994 –secondo la quale “
nel giudizio di responsabilità, fermo restando il potere di riduzione, deve tenersi conto dei vantaggi comunque conseguiti dall’amministrazione di appartenenza o da altra amministrazione, o dalla comunità amministrata, in relazione al comportamento degli amministratori o dei dipendenti pubblici soggetti al giudizio di responsabilità”- il Legislatore ha inteso affermare la natura sostanziale, e non meramente formale, della responsabilità amministrativa, sicché il Giudice contabile non può “denegare l’ingresso alla valutazione dei vantaggi conseguiti dall’Amministrazione sul presupposto dell’illegittimità delle condotte, poiché trattasi di un ragionamento tautologico, che esclude l’inequivoca applicazione dell’art. 1-1-bis della legge n. 20 del 1994 (cfr. Sezione Prima Centrale d’Appello n. 508/2017).
Ciò posto, in accoglimento della domanda risarcitoria formulata in via principale dal Pubblico Ministero -e ritenuta assorbita la domanda subordinata prospettata dal Requirente “solo in via meramente secondaria” con riferimento al danno alla concorrenza (da ritenersi, quest’ultimo, non provato)- reputa il Collegio che il danno imputabile alle condotte gravemente colpevoli dei convenuti, con riguardo al nocumento derivato al bilancio del Comune di Cavalese per la violazione della normativa in materia di incarichi esterni, debba limitarsi, per le ragioni innanzi esposte (concorso causale nel danno da parte di soggetti estranei al giudizio e parziale utilitas conseguita dal Comune) alla quota del 50% del richiesto importo di condanna.
Non sussistono, invece, i presupposti per l’applicazione del generale potere riduttivo, in relazione all’evidente gravità delle condotte, per la macroscopica violazione delle procedure di legge concernenti l’esternalizzazione degli incarichi.
Conclusivamente, disattesa ogni contraria istanza, deduzione ed eccezione, deve disporsi la condanna dei convenuti al pagamento, in favore del Comune di Cavalese, del complessivo importo di euro 8.736,00 (ottomilasettecentotrentasei/00), da suddividersi in parti uguali fra gli stessi (per un settimo ciascuno, ovvero euro 1248,00 a carico di ogni convenuto). Tale importo va maggiorato della rivalutazione monetaria dalla data dell’indebito esborso (di cui al mandato di pagamento n. 1051 del 06/04/2017) sino alla pubblicazione della sentenza e degli interessi legali, sulla sorte capitale rivalutata, da quest’ultima data all’effettivo soddisfo.
In ragione della soccombenza in giudizio, i convenuti sono condannati al pagamento, in solido, delle spese di giudizio in favore dello Stato nella misura determinata in dispositivo.
In ordine alle statuizioni di condanna nei confronti dei convenuti si ordina, a cura della Segreteria, la spedizione di copia della presente sentenza in forma esecutiva all’ufficio del P.M., ai sensi dell’art. 212 del Codice di Giustizia Contabile (D.Lgs. n. 174/2016), per gli ulteriori incombenti di sua competenza di cui agli artt. 213 e seguenti C.G.C.
PER QUESTI MOTIVI
la Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale per il Trentino Alto Adige/Südtirol - sede di Trento, definitivamente pronunciando, condanna i convenuti We.Si., Se.Si., Gi.Pa., Va.Gi., Va.Or., Va.Ma. e Gi.Ma. al pagamento, da suddividersi in parti uguali fra gli stessi, della complessiva somma di euro 8.736,00 (ottomilasettecentotrentasei/00) in favore del Comune di Cavalese, oltre rivalutazione monetaria, per come in motivazione, ed interessi legali dalla pubblicazione della sentenza all’effettivo soddisfo e, per l’effetto, li condanna in solido al pagamento delle spese di giudizio in favore dello Stato, che sono liquidate in euro 1.083,36 (euro milleottantatre/36) (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 21.09.2018 n. 34).

EDILIZIA PRIVATALa Sezione Autonomie della Corte dei conti, con delibera n. 10/SEZAUT/2016, aveva escluso dall'incentivo alla progettazione interna qualunque attività manutentiva, senza distinzione tra manutenzione ordinaria e straordinaria.
In assenza di diversa disposizione, considerato che gli incentivi in argomento spettavano nei soli casi tassativamente indicati dalla legge, tale esclusione valeva evidentemente per tutti i potenziali aventi diritto alla ripartizione del fondo: responsabile del procedimento e incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori.
Non è rinvenibile, infatti, alcun supporto normativo alla suddetta esclusione per i soli incaricati alla redazione del progetto.
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Il Sindaco del Comune di Santeramo in Colle (BA), con nota n. 13647 del 03.07.2018, ha chiesto un parere in merito alla esatta interpretazione dell’art. 93, comma 7-ter, del D.Lgs. n. 163/2006, relativo alla ripartizione del fondo per la progettazione e l’innovazione.
L’Amministrazione, dopo aver richiamato la deliberazione 23.03.2016 n. 10 della Sezione delle Autonomie, secondo la quale la corretta interpretazione della suddetta norma è nel senso dell’esclusione dall’incentivo alla progettazione interna di qualunque attività manutentiva, senza distinzione tra manutenzione ordinaria o straordinaria, chiede se la predetta esclusione “debba riferirsi alla sola quota del fondo destinata per gli incaricati alla redazione del progetto ovvero alla quota del fondo destinata a tutti i soggetti coinvolti e, dunque, riferita anche al responsabile del procedimento e agli incaricati della redazione del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché dei loro collaboratori.
...
Appare opportuno, in via preliminare, evidenziare che l’art. 93, comma 7-ter, del D.Lgs. n. 163/2006, comma inserito dall’art. 13-bis, comma 1, del decreto legge n. 90/2014, convertito in legge n. 114/2014, di cui l’Amministrazione chiede l’esatta interpretazione, è stato da tempo abrogato, insieme all’intero decreto legislativo n. 163/2006, dal D.Lgs. n. 50/2016.
Quest’ultimo decreto, come si evince dalla richiesta di parere, risulta comunque conosciuto dalla Amministrazione istante.
Atteso che sarebbe inammissibile una richiesta di parere riferibile a provvedimenti o comportamenti già compiuti dei quali si chieda la soluzione o la valutazione a posteriori e che il Comune di Santeramo in Colle ha espressamente negato il ricorrere nella fattispecie di tale situazione, questa Sezione non può che procedere a dare riscontro alla richiesta di parere in termini del tutto generali ed astratti.
Interpretando la precedente normativa dettata dall’art. 93, comma 7-ter, del D.Lgs. n. 163/2006, la Sezione delle Autonomie della Corte dei conti, con la deliberazione 23.03.2016 n. 10 richiamata dall’ente nella richiesta di parere, aveva escluso dall’incentivo alla progettazione interna qualunque attività manutentiva, senza distinzione tra manutenzione ordinaria e straordinaria.
In assenza di diversa disposizione, considerato che gli incentivi in argomento spettavano nei soli casi tassativamente indicati dalla legge, tale esclusione valeva evidentemente per tutti i potenziali aventi diritto alla ripartizione del fondo: responsabile del procedimento e incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori.
Non è rinvenibile, infatti, alcun supporto normativo alla suddetta esclusione per i soli incaricati alla redazione del progetto. Tale interpretazione, peraltro, condurrebbe ad una ingiustificata disparità di trattamento
(Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia, parere 14.09.2018 n. 124).

NEWS

APPALTIOpere in concessione, regole per il partenariato. Il contratto-tipo è a disposizione delle amministrazioni.
È a disposizione delle amministrazioni un contratto-tipo per regolare le operazioni di Partenariato pubblico privato (Ppp) affidate in concessione per la realizzazione e gestione di opere cosiddette fredde, cioè che non sono in grado di generare cash flow a seguito della gestione.
Lo strumento (schema di contratto di concessione per la progettazione, costruzione e gestione di opere pubbliche) è stato messo a disposizione dal Mef per le operazioni di Ppp nelle quali, a fronte di prestazioni rese dal concessionario, l'amministrazione concedente paga un canone di disponibilità dell'opera, canoni per i servizi accessori e, ove previsto, un contributo pubblico a titolo di prezzo dei lavori realizzati ai sensi degli articoli 165, comma 2, e 180, comma 6, del codice.
Lo schema di contratto di concessione riguarda quelle che vengono definite come opere fredde. Per questa tipologia, il problema principale da tenere sotto controllo è stato sempre quello della corretta allocazione del rischio, profilo sul quale lo schema di contratto insiste con determinazione attraverso la definizione di clausole chiare e inequivocabili. L'obiettivo è quindi quello del pieno rispetto delle prescrizioni della direttiva appalti n. 2014/23/Ue, del codice dei contratti pubblici e delle indicazioni fornite da Eurostat.
L'obiettivo è quello di incentivare e sostenere gli investimenti in infrastrutture, tutelando al contempo la finanza pubblica. Il documento è composto di una prima sezione di condizioni generali in cui l'elemento fondamentale è rappresentato dall'individuazione dell'oggetto del contratto (progettazione esecutiva, altre analisi connesse, esecuzione dei lavori, manutenzione ordinaria e straordinaria, gestione e sfruttamento economico dell'opera). Rilevante la precisazione che l'importo dei lavori è fisso e invariabile. La durata della concessione, in base all'articolo 168 del codice dei contratti pubblici deve essere commisurata al valore della concessione e alla complessità organizzativa dell'intervento.
La parte successiva dello schema attiene alla società di progetto e in particolare a come si distribuisce il capitale fra i soci (costruttori, gestori e coloro che hanno contribuito a soddisfare i requisiti di qualificazione richiesti dal bando di gara, ad esempio i progettisti). Seguono poi le parti sugli obblighi e le responsabilità di tutti i soggetti coinvolti, e la parte sul contributo pubblico, fisso e invariabile erogato per stati di avanzamento e al collaudo.
Il concessionario avrà anche il compito, dopo la realizzazione dell'opera, di fornire tutti i servizi «di disponibilità dell'opera e i servizi accessori alla disponibilità» (fra cui, per la disponibilità, quelli di manutenzione, gestione e manutenzione degli impianti, gestione energia; per i servizi accessori: pulizia, lavanderia, ristorazione). Per i servizi accessori il concedente dopo un determinato periodo (5 anni dopo l'inizio della fase di gestione) indice una procedura di affidamento. Il concessionario riceverà quindi un corrispettivo per i servizi di disponibilità decorrente dalla messa in esercizio dell'opera e per i primi 5 anni un corrispettivo anche per i servizi accessori.
Infine, lo schema disciplina i profili assicurativi, le penali e le assicurazioni
(articolo ItaliaOggi del 05.10.2018).

ENTI LOCALIPartecipazioni, tagli a regime. Enti stretti tra piani di razionalizzazione e dismissioni. Al via l’alienazione delle quote fuori legge. Entro fine anno il piano ordinario di restyling.
Partecipazioni societarie strette fra piani di razionalizzazione e obblighi di alienazione. Entro fine anno, le p.a. devono presentare il primo piano ordinario di razionalizzazione, mentre è scattato il congelamento per le quote da dismettere in base ai piani straordinari approvati un anno fa.
Il tema del controllo e della razionalizzazione delle società pubbliche si conferma fra i più attuali, nel panorama della giurisprudenza contabile e in quello normativo.
Nella scorsa legislatura, il dlgs 175/2016 (attuativo della legge Madia) ha ridefinito in modo più restrittivo le regole che disciplinano la costituzione di società, nonché l'acquisto, il mantenimento e la gestione di partecipazioni, da parte delle pubbliche amministrazioni.
La riforma ha previsto un doppio meccanismo attuativo: dapprima (entro 1 anno dall'entrata in vigore del nuova disciplina) è scattato l'obbligo di revisione straordinaria, che avrebbe dovuto portare nell'anno successivo alla alienazione delle partecipazioni fuori legge (almeno 5.000 secondo le stime di allora). Dal 2018, invece, la razionalizzazione diviene annuale e periodica, per evitare che i carrozzoni usciti dalla porta rientrino dalla finestra.
In linea generale, alle p.a. è fatto divieto di costituire o mantenere partecipazioni (anche indirette) in società aventi per oggetto attività di produzione di beni e servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali. Non si tratta di una novità, ma finora non è bastato a contenere l'esuberanza degli amministratori.
Ecco perché il dlgs 175 ha introdotto ulteriori limiti, definendo in modo rigido i settori nei quali le partecipazioni rimangono consentite, ovvero: produzione di un servizio di interesse generale (inclusa la realizzazione e la gestione delle reti e degli impianti funzionali ai servizi medesimi), progettazione, realizzazione e gestione di opere pubbliche, autoproduzione di beni o servizi strumentali, servizi di committenza.
I diversi adattamenti subiti dal testo nei suoi vari passaggi hanno introdotto ulteriori deroghe, che riguardano, per esempio, le finanziarie regionali, le società aventi per oggetto sociale prevalente la gestione di spazi fieristici e l'organizzazione di eventi fieristici, nonché la realizzazione e la gestione di impianti di trasporto a fune per la mobilità turistico sportiva in aree montane. Escluse dalla riforma anche alcune partecipate statali come Anas, Invitalia, Coni servizi, Invimit, Sogin e il Poligrafico.
Il terzo ordine di paletti riguarda i requisiti che tutte le società partecipate devono rispettare per poter sopravvivere. Nel mirino sono finite le realtà che risultano prive di dipendenti o hanno un numero di amministratori superiore a quello dei dipendenti, quelle che svolgono attività analoghe o similari ad altre società partecipate o enti pubblici strumentali e quelle che, nel triennio precedente, hanno conseguito un fatturato medio non superiore a un milione di euro.
Come detto, in sede di prima applicazione le p.a. hanno dovuto redigere un piano straordinario per individuare le società da dismettere entro l'anno successivo. All'esito di tale verifica, fatti salvi i casi in cui essa abbia dato esito negativo e quelli in cui l'ente abbia deciso altri interventi di razionalizzazione (per esempio, tramite la fusione o la messa in liquidazione), è scattato l'obbligo di alienazione, da adempiere, in base all'art. 24, comma 4, del dlgs 175 entro l'anno successivo.
Poiché la dead-line per approvare i piani era stata fissata al 30.09.2017, il tempo è scaduto. In base al successivo comma 5, in caso di mancata alienazione entro i termini previsti, il socio pubblico non potrà esercitare i diritti sociali nei confronti della società e, salvo in ogni caso il potere di alienare la partecipazione, la medesima dovrà essere liquidata in denaro in base ai criteri stabiliti dal codice civile. La penalità più grave è la prima, che rischia di paralizzare l'operatività delle società ancora attive.
Intanto, si avvicina la scadenza di fine anno per la redazione del primo piano ordinario di razionalizzazione, per il quale al momento non è stata predisposta alcuna modulistica (a differenza di quanto era accaduto per il piano straordinario) (articolo ItaliaOggi del 05.10.2018).

APPALTIStretta su cottimi e subappalti. Cantieri sotto controllo e segnalazioni anche al prefetto. Inasprite le pene con il decreto sicurezza del 24 settembre: fino a cinque anni per illeciti.
Inasprite le pene per i subappalti e i cottimi illeciti che diventano reato con pene da uno a cinque anni.
È quanto prevede lo schema di decreto-legge approvato lo scorso 24 settembre dal consiglio dei ministri (che in questi giorni è stato al vaglio del presidente della repubblica e a breve dovrebbe essere in Gazzetta Ufficiale) recante «Disposizioni urgenti in materia di sicurezza pubblica, prevenzione e contrasto al terrorismo e alla criminalità mafiosa, modifiche al codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 06.09.2011, n. 159, nonché misure per la funzionalità del ministero dell'interno.
All'interno del provvedimento, che contiene anche le disposizioni sulla stretta per i permessi d'asilo e umanitari, si trovano anche alcune disposizioni che modificano sensibilmente le regole sui subappalti e i cottimi che si collocano nell'ambito della prevenzione e del contrasto alla criminalità mafiosa.
In particolare, è l'articolo 10 (sanzioni in materia di subappalti illeciti) che ritocca l'articolo 21, comma 1, della legge 13.09.1982, n. 646 con l'obiettivo di inasprire il trattamento sanzionatorio per le condotte degli appaltatori che facciano ricorso, illecitamente, a meccanismi di subappalto.
La norma stabilisce innanzitutto la trasformazione in delitto del reato contravvenzionale di «subappalto illecito»; inoltre si dispone l'equiparazione della sanzione personale a quella prevista per il reato di frode nelle pubbliche forniture. Questa scelta viene realizzata attraverso l'aumento della reclusione da uno a cinque anni (ad oggi la pena varia da sei mesi a un anno) oltre a una multa non inferiore a un terzo del valore dell'opera concessa in subappalto o a cottimo e non superiore a un terzo del valore complessivo dell'opera ricevuta in appalto, a chiunque, avendo in appalto opere riguardanti la pubblica amministrazione, concede anche di fatto, in subappalto o a cottimo, in tutto o in parte, le opere stesse, senza l'autorizzazione dell'autorità competente.
Stretta anche nei confronti del subappaltatore e dell'affidatario del cottimo cui si applica la reclusione da uno a cinque anni e la multa pari a un terzo del valore dell'opera ricevuta in subappalto o in cottimo.
Una particolare attenzione è riservata anche alla fase di monitoraggio dei cantieri con l'obiettivo di garantire una maggiore circolarità delle informazioni per un più puntuale monitoraggio dei cantieri. A tal fine viene ampliata la platea dei destinatari della segnalazione di inizio attività dei cantieri in una provincia, includendo il prefetto, quale autorità di governo che presiede il gruppo di accesso nei cantieri stessi.
Lo schema inserisce anche (con l'articolo 12 dello schema) ulteriori disposizioni finalizzate a migliorare la circolarità informativa e a consentire anche alle autorità proponenti di richiedere la collaborazione dell'unità di informazione finanziaria (Uif) per ottenere le informazioni sui soggetti destinatari di proposte di misure di prevenzione patrimoniali che siano in possesso della stessa unità: ad esempio, segnalazioni di operazioni sospette e dati in possesso degli omologhi organismi esteri.
Per la documentazione antimafia si farà inoltre particolare attenzione ai soggetti che abbiano riportato condanne con sentenza definitiva o confermata in grado di appello, per i reati di truffa ai danni dello Stato o altro ente pubblico (articolo 640, comma 2, punto 1 del codice penale) e per truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (articolo 640-bis codice penale)
(articolo ItaliaOggi del 05.10.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOCcnl, niente mobilità da posizioni D3 a D1.
Il nuovo Ccnl enti locali non consente mobilità di funzionari inquadrati giuridicamente nei profili D3 verso profili inquadrati nella posizione D1. L'art. 12 del Ccnl 21.05.2018 ha parzialmente rivisto il sistema di classificazione che, nel 1999,con il Ccnl del 31 marzo, distinse nella categoria D due sottocategorie: quella con ingresso nella posizione economica D1, corrispondente sul piano giuridico all'ex settima qualifica funzionale e al profilo di istruttore direttivo, e quella con ingresso diretto nella posizione economica D3, corrispondente all'ex ottava qualifica funzionale e profilo del funzionario.
Questa distinzione ebbe senso finché ai dipendenti di categoria giuridica D1 restò precluso di andare per progressione orizzontale oltre la posizione D3. Dal 31.12.2001 questo blocco venne rimosso. Pertanto, da anni è possibile che dipendenti inquadrati (grazie alla sostanziale finzione giuridica del Ccnl del 1999) in un profilo inferiore si trovino con trattamenti economici tabellari uguali o maggiori di dipendenti di profilo superiore. Un controsenso durato fin troppo tempo, per effetto di una suddivisione forzata della categoria D in due sottocategorie, nonostante sul piano contrattuale la categoria D sia unica, tanto che possono essere incaricati nell'area delle posizioni organizzative indifferentemente tutti i dipendenti di categoria D, qualunque sia la posizione di ingresso. Il Ccnl 21.05.2018 chiarisce questa confusione eliminando la categoria di ingresso in D3.
Tuttavia, la cancellazione della categoria giuridica D3 vale solo per il futuro. I dipendenti a suo tempo assunti nell'ottava qualifica funzionale e reinquadrati nella D3 giuridica e quelli assunti direttamente in profili D3, per effetto dell'art. 12, comma 5, conservano il profilo posseduto e la posizione economica acquisita nell'ambito della categoria. Il problema si pone perché l'art. 30, commi 1 e 2-bis, del dlgs 165/2001, pare presupporre assoluta identità tra «area funzionale» del posto vacante che si intende coprire e la mobilità e inquadramento funzionale del dipendente che chieda il trasferimento.
Se per «area funzionale» si intendesse esclusivamente la categoria, il problema non si porrebbe: tutti i dipendenti di categoria D, a prescindere dalla posizione economica di inquadramento, potrebbero transitare per mobilità, considerando che il comma 2-bis dell'art. 30 (non il comma 1, però) garantisce al dipendente trasferito la conservazione della posizione economica posseduta presso l'ente di provenienza. Ma l'espressa conservazione di profili distinti di categoria D3 (sia pure «a esaurimento») e di categoria D1 impedisce di considerare possibile una mobilità per un posto di profilo D1 da coprire con un dipendente inquadrato in un profilo di provenienza in D3.
Spazi limitati alla mobilità vi potrebbero essere solo laddove l'ente che avvia la procedura abbia modificato la dotazione organica attuando la pianificazione dei fabbisogni, riqualificando un profilo professionale di categoria D3 (ovviamente vacante) come D1: in questo modo, un dipendente di pari profilo ancora inquadrato in D3 potrebbe transitare, conservando la posizione economica di provenienza.
Si porrebbe, però, a quel punto il problema della concreta applicabilità del comma 6 dell'art. 12 del Ccnl, ai sensi del quale l'ammontare delle risorse stabili che finanziano la posizione economica di sviluppo dei dipendenti inquadrati in D3 si calcola non sul differenziale con la posizione economica iniziale, ma appunto sulla posizione economica D3: ma, se un dipendente D3, transita in un identico profilo professionale di un ente diverso per mobilità e inquadrato in D1, l'ente che ha modificato il piano del fabbisogno sarebbe legittimato a calcolare il differenziale sulla posizione iniziale? Il Ccnl non ha fornito, purtroppo, indicazioni su come gestire le mobilità nell'ambito delle categorie D (articolo ItaliaOggi del 05.10.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOBongiorno alle p.a.: istituire il responsabile per il digitale.
Istituire al più presto in ogni ente pubblico la figura del Responsabile per la transizione al digitale. E nei piccoli comuni la funzione potrà essere svolta anche in forma associata.

A richiamare gli enti all'obbligo, previsto dal Codice dell'amministrazione digitale (Cad), ma largamente disatteso, è il ministro della pubblica amministrazione, Giulia Bongiorno con la circolare 01.10.2018 n. 3.
L'art. 17, comma 1, del Cad stabilisce, infatti, che ciascuna p.a. sia tenuta ad affidare ad un unico ufficio dirigenziale la «transizione alla modalità operativa digitale e i conseguenti processi di riorganizzazione finalizzati alla realizzazione di un'amministrazione digitale e aperta», nominando un Responsabile per la transizione al digitale (Rtd).
Tuttavia, osserva la numero uno di palazzo Vidoni, dalla data di entrata in vigore di tale obbligo (14.09.2016) ad oggi, soltanto un numero limitato di amministrazioni ha provveduto ad individuare tale figura. Di qui il richiamo alle amministrazioni a provvedere «con ogni opportuna urgenza», all'individuazione del Responsabile e alla relativa registrazione sull'Indice delle pubbliche amministrazioni (Ipa - www.indicepa.gov.it).
Le p.a. dovranno individuare, con atto organizzativo interno e nell'ambito della dotazione organica complessiva delle posizioni di funzione dirigenziale, l'ufficio dirigenziale, di livello generale cui attribuire i compiti per la transizione digitale. Il responsabile di tale ufficio assumerà le funzioni di Rtd e dovrà essere dotato di «adeguate competenze tecnologiche, di informatica giuridica e manageriali».
Nelle amministrazioni in cui non sono previste posizioni dirigenziali, le funzioni per la transizione digitale potranno essere affidate ad un dipendente in posizione apicale o già titolare di posizione organizzativa in possesso di adeguate competenze tecnologiche e di informatica giuridica.
Infine, la nota della Funzione pubblica chiarisce che le amministrazioni diverse dalle amministrazioni dello stato possono esercitare le funzioni di Rtd anche in forma associata. Tale opzione organizzativa, raccomandata specialmente per le p.a. di piccole dimensioni, potrà avvenire in forza di convenzioni o, per i comuni, anche mediante unioni (articolo ItaliaOggi del 03.10.2018).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVIP.a., telematica con garanzie. Funzionari tenuti a correttezza e assistenza ai cittadini. Digitalizzazione della P.a. sì, ma con le tutele. Il Tar Lazio sull’intelligenza artificiale: no a meccanismi interamente automatizzati.
L’attività degli enti pubblici non può essere dominata dagli algoritmi e i provvedimenti finali non possono essere interamente automatizzati senza garanzie per il cittadino del giusto procedimento amministrativo. A mettere all’angolo l’intelligenza artificiale è il Tar Lazio.

Digitalizzazione della pubblica amministrazione sì, ma con le garanzie del giusto procedimento amministrativo. Imprese e cittadini hanno gli strumenti per difendersi dallo strapotere delle macchine, soprattutto quando devono sottostare e decisioni di una pubblica autorità.
L'attività degli enti pubblici, infatti, non può essere dominata dagli algoritmi e i provvedimenti finali non possono essere interamente automatizzati, senza garanzie per il cittadino. Inoltre ai mezzi di comunicazione telematica, se utilizzati in via esclusiva si deve accompagnare un obbligo di assistenza e correttezza: per esempio, se bisogna presentare on-line una domanda entro un termine tassativo, nel caso di disguidi della rete, la p.a. deve rimettere in termini l'interessato che, per colpe non sue, non ha presentato la domanda in tempo.
A mettere all'angolo l'intelligenza artificiale, per ridurla allo stato di strumento a disposizione del funzionario pubblico, è il Tar Lazio, che, in due mosse, ripristina la gerarchia tra intelligenza umana e intelligenza delle macchine. Lo fa con due sentenze, punti fermi della discussione del rapporto tra nuove tecnologie e modalità di gestione dell'interesse pubblico.
Ma vediamo di descrivere il contenuto e la portata delle due pronunce.
Sportello telematico bloccato. Il primo caso vede protagonista un'azienda che tenta di inviare una istanza di finanziamento pubblico da mandare usando esclusivamente un canale telematico. Qualcosa va storto e, a causa del malfunzionamento del sistema, la domanda non viene recapitata nei termini previsti dalle procedure del finanziamento.
L'azienda segnala il disguido e chiede di poter essere riammessa a presentare l'istanza. Il ministero interessato non risponde e l'azienda fa un ricorso al Tar contro il silenzio e contro il bando del finanziamento, poiché, quest'ultimo, non consentiva alternative allo sportello telematico.
Il TAR Lazio-Roma (Sez. III-bis, presidente Savoia, estensore Graziano, sentenza 08.08.2018 n. 8902) accoglie il ricorso.
Se il sistema non funziona o è lento, specie se si è vicini a una scadenza, la pubblica amministrazione ha il dovere di agevolare l'interessato.
La motivazione del Tar Lazio mette, tra l'altro, in luce che nell'ambito di un procedimento tenuto con modalità telematiche la scadenza del termine di presentazione della domanda non può essere considerata allo stesso modo della scadenza del termine di presentazione nell'ambito di un tradizionale procedimento cartaceo.
Nel caso di domande telematiche, c'è l'alea del funzionamento delle macchine e delle reti.
Inoltre, aggiunge la sentenza, le procedure informatiche applicate ai procedimenti amministrativi devono collocarsi in una posizione necessariamente servente rispetto agli stessi, non essendo concepibile che, per problematiche di tipo tecnico, sia ostacolato l'ordinato svolgimento dei rapporti tra privato e pubblica amministrazione e fra pubbliche amministrazioni nei reciproci rapporti.
E quindi, conclude il Tar, anche se i procedimenti amministrativi sono interamente telematizzati, soprattutto quando la presentazione della domanda deve avvenire entro rigidi termini di decadenza e la compilazione della stessa si riveli di particolare complessità, l'amministrazione, anche a non voler prevedere modalità ulteriori di presentazione della stessa, non può prescindere dal cosiddetto soccorso istruttorio e cioè in base all'articolo 6 della legge n. 241/1990, chiedendo la rettifica/integrazione di istanze incomplete.
Stop all'algoritmo. Stavolta la vicenda concreta ha riguardato la scelta delle sedi per gli insegnanti. Affidata a un algoritmo, la procedura, colta a smistare i docenti in maniera irragionevole, è stata bocciata dal TAR Lazio-Roma (Sez. III-bis, sentenza 10.09.2018 n. 9230, presidente Savoia, estensore Graziano), che ha messo in primo piano il ruolo dell'apporto umano, prioritario, rispetto a quello, servente, delle macchine e delle procedure automatizzate.
L'algoritmo potrà anche essere perfetto, ma la cura dell'interesse pubblico implica valutazioni discrezionali, che non si possono affidare a meccanismi interamente automatizzati.
Le modalità esclusivamente informatiche e matematiche sono incompatibili con le esigenze istruttorie e di ponderazione e bilanciamento degli interessi, tipiche di una procedura pubblica. Sono in gioco i diritti costituzionali delle persone, dice il Tar, e le procedure interamente informatizzate, anche se rasentassero la perfezione, non possono soppiantare, l'attività cognitiva, acquisitiva e di giudizio, che solo un'istruttoria affidata a un funzionario persona fisica è in grado di svolgere.
La persona fisica è il titolare del procedimento e le procedure informatiche devono mantenersi in funzione servente e strumentale.
In materia l'orientamento del Tar Lazio trova un appoggio nella normativa europea sulla protezione dei dati. In particolare l'articolo 22 del regolamento Ue n. 2016/679 (operativo in Italia dal 25.05.2018), prevede che, nel caso di decisioni interamente automatizzate, l'interessato ha il diritto di ottenere l'intervento umano, di esprimere la propria opinione e di contestare la decisione.
Le regole europee sulla privacy sono, quindi, sulla stessa lunghezza d'onda dei principi del giusto procedimento amministrativo (legge 241/1990).
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L'Ue mette un freno al potere degli algoritmi.
Diritto all'intervento umano, di dire la propria opinione e di contestare la decisione dell'elaboratore elettronico. Sono i tre scudi contro l'eccesso di potere degli algoritmi, previsti dalla normativa dell'Unione europea.
In Europa, sulle decisioni automatizzate la pietra miliare è il regolamento Ue sulla protezione dei dati n. 2016/679 e, in particolare l'articolo 22. Nel linguaggio del regolamento si parla di «decisioni interamente automatizzate» e si distinguono dalle decisioni automatizzate (ma non «interamente»).
La griglia europea è a maglie strette, perché la regola di partenza per le decisioni interamente automatizzate è che sono vietate.
L'interessato, cioè il cittadino (per usare un termine tipico dei rapporti con la p.a.), dice il regolamento, ha il diritto di non essere sottoposto a una decisione basata unicamente sul trattamento automatizzato, compresa la profilazione, che produca effetti giuridici che lo riguardano o che incida in modo analogo significativamente sulla sua persona.
Ottenere o non ottenere un finanziamento, essere ammesso o non essere ammesso a scuola, pagare una sanzione più alta o più bassa: sono tutti casi in cui la decisione automatizzata produce effetti giuridici rilevanti.
Probabilmente l'uso degli algoritmi alleggerisce il carico di attività istruttoria e decisionale. Ma è sempre possibile e lecito ricorrervi?
L'uso degli algoritmi è ammesso solo in tre casi. I primi due sono: necessità contrattuali e consenso esplicito dell'interessato. Il terzo caso è la previsione di una norma del diritto dell'Unione o del diritto interni; alla ulteriore condizione che la normativa preveda misure adeguate a tutela dei diritti, delle libertà e dei legittimi interessi dell'interessato.
Lo sbarramento è duplice: ci vuole una base giuridica e questa normativa deve preoccuparsi di proteggere le persone dalle macchine e dalla intelligenza artificiale.
Quali siano le misure adeguate lo deve dire la legge, ma il regolamento dà qualche spunto, nella parte in cui parla delle misure appropriate da garantire nel caso di decisioni interamente automatizzate basate su contratto o sul consenso. Le garanzie minime sono il diritto di ottenere l'intervento umano da parte del titolare del trattamento, il diritto di esprimere la propria opinione e il diritto di contestare la decisione.
L'indicazione a tinte europee è chiara. Per fare trattare i dati da una macchina con l'uso di algoritmi, ci vogliono disposizioni efficaci per garantire la fruibilità di tre diritti. Due di essi coincidono con il diritto alla partecipazione al procedimento amministrativo; il terzo assicura il diritto di agire in giudizio per contestare la decisione interamente automatizzata e ottenere la pronuncia di un giudice-persona fisica
(articolo ItaliaOggi Sette dell'01.10.2018).

APPALTIObbligo di bollo sui contratti Mepa, necessaria una rettifica dell’Entrate.
Ha suscitato stupore e perplessità la risposta data direzione regionale Lombardia dell'Agenzia delle Entrate all’interpello 13.09.2018 n. 956-571, sull'obbligo di applicazione del bollo sui numerosissimi contratti che ogni giorno vengono stipulati con le pubbliche amministrazioni attraverso il Mepa, il portale elettronico delle Pa.
In effetti l'analisi dell'Agenzia trae le mosse da un interpello di una università che dava per scontata l'applicazione del bollo, in conformità alle conclusioni raggiunte dalla risoluzione 96 del 2013. E così, l'Agenzia delle Entrate ha concentrato la propria attenzione (non sulla debenza, o meno, dell'imposta ma) sulle concrete modalità applicative del tributo, senza tuttavia considerare che lo scenario normativo è nel frattempo cambiato ad opera del nuovo codice dei contratti pubblici, il Dlg 50/2016.
Le motivazioni dell’Agenzia
In effetti, la risoluzione ministeriale 96/2013 aveva concluso per l'assoggettamento a Bollo dei contratti stipulati tramite Mepa sulla base di un duplice ordine di motivazioni:
   i) il fatto che –ai sensi dell'articolo 328 del Dpr 207/2010– il contratto tramite Mepa fosse «stipulato per scrittura privata, che può consistere anche nello scambio dei documenti di offerta ed accettazione firmati digitalmente da fornitore e dalla stazione appaltante»;
   ii) l'attivazione, nel contesto del Mepa, di una “particolare procedura”, che sembrava sfuggire all'alternativa tra contratto stipulato in via simultanea e contratto stipulato per corrispondenza.
L’innesto delle nuove regole
Sul primo punto, va segnalato che la risoluzione ministeriale 96/13 muoveva da un assunto inesatto, l'equiparazione tra scrittura privata e atto contestualmente sottoscritto dalle parti interessate, mentre è vero che un contratto viene stipulato per scrittura privata anche quando la sua sottoscrizione si realizza attraverso lo scambio –per corrispondenza– di due scritture unilaterali. A scanso di equivoci, resta comunque il fatto che lo stesso articolo 328 del Dpr 207/2010 è stato abrogato ad opera dell'articolo 217, comma 1, lettera u), n. 2, del Dlgs 50/2016, con decorrenza dal 19.04.2016.
Sul secondo punto va invece ribadito che, al di là dei tecnicismi informatici, i contratti pubblici conclusi attraverso il Mepa vengono effettivamente stipulati mediante corrispondenza, consistente in un apposito scambio di lettere (o e-mail, che dir si voglia); in effetti, ciò che caratterizza il contratto a mezzo corrispondenza è proprio la mancanza, nell'uno o nell'altro documento scambiato, della firma contestuale dei contraenti.
Di per sé evidente, il punto ha trovato definitiva ed ufficiale conferma a livello normativo, ad opera dell'articolo 32, comma 14, Dlgs 50/2016, secondo cui il contratto pubblico è stipulato «in caso di procedura negoziata, ovvero per gli affidamenti di importo non superiore a 40.000 euro, mediante corrispondenza … consistente in un apposito scambio di lettere, anche tramite posta elettronica certificata o strumenti analoghi». La stipulazione a mezzo corrispondenza rende applicabile il bollo solo in caso d'uso, ai sensi dell'articolo 24 della tariffa, parte seconda, allegata al Dpr 642/1972.
Necessaria una rettifica
A questo punto, una complessiva riconsiderazione del tema, volta a limitare il ricorso alle modalità applicative fissate dalla risposta all'interpello dell'università alla sola (ed infrequente) ipotesi del caso d'uso, risulta quanto mai opportuna.
Del resto, precedenti positivi non mancano: nel corso del 2017 l'Agenzia ha affrontato il caso di una città capoluogo di regione che ha attivato un proprio portale elettronico attraverso il quale transitano tutte le fasi della procedura di acquisto (richiesta di offerta, ricezione della stessa, individuazione dell'offerta migliore), ad eccezione dell'ultima, quella dell'affidamento di una fornitura, la quale avviene al di fuori del portale, attraverso una apposita lettera sottoscritta dal responsabile dell'ufficio e contente l'ordine di acquisto, poi inviato via Pec al destinatario.
Nell'occasione, l'Agenzia ha concluso per la sussistenza di un contratto sottoscritto per corrispondenza, e dunque da assoggettare a bollo solo in caso d'uso. Data la sostanziale equivalenza tra questa procedura e quella prevista dal Mepa, all'Agenzia non resterebbe che proseguire su questa strada (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 25.09.2018).

GIURISPRUDENZA

APPALTI: Il Rup può essere anche commissario di gara.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Commissione di gara – Componenti – Rup – Art. 77, d.lgs. n. 50 del 2016 – Possibilità.
Nella vigenza del nuovo Codice dei contratti, ai sensi dell’art. 77, comma 4, d.lgs. n. 50 del 2016, nelle procedure di evidenza pubblica, il ruolo di Rup può coincidere con le funzioni di commissario di gara e di presidente della commissione giudicatrice, a meno che non sussista la concreta dimostrazione dell'incompatibilità tra i due ruoli, desumibile da una qualche comprovata ragione di interferenza e di condizionamento tra gli stessi (1).
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   (1) Ha premesso la Sezione che sul punto si sono formati due orientamenti.
Infatti, all’orientamento alla quale aderisce (Tar Veneto, sez. I, 07.07.2017, n. 660; Tar Lecce, sez. I, 12.01.2018, n. 24; Tar Bologna, sez. II, 25.01.2018, n. 87; Tar Umbria 30.03.2018, n. 192), se ne contrappone un secondo che ha inteso il comma 4 dell’art. 77, d.lgs. n. 50 del 2016, cogliendone il portato innovativo, rispetto alle corrispondenti e previgenti disposizioni del d.lgs. n. 163 del 2006, proprio nella scelta di introdurre una secca incompatibilità tra le funzioni tipiche dell'ufficio di RUP (o ruoli equivalenti) e l'incarico di componente e finanche di presidente della commissione.
Ad integrazione e supporto di questa impostazione si è altresì evidenziato che la nuova regola del comma 4 è di immediata applicazione, non essendo condizionata dall'istituzione dell'albo dei commissari previsto dall'art. 77, comma 2 (Tar Latina 23.05.2017, n. 325; Tar Brescia, sez. II, 04.11.2017, n. 1306).
Per meglio intendere l’effetto innovativo dell’art. 77 comma 4, si consideri che l'art. 84, comma 4, dell'abrogato d.lgs. n. 163 del 2006 si limitava a sanzionare le situazioni di incompatibilità dei soli membri della commissione di gara diversi dal presidente ("i commissari diversi dal Presidente non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta"); viceversa, l'incompatibilità prevista dall’art. 77, comma 4, del d.lgs. n. 50 del 2016 -discendente anch’essa dall'aver svolto in passato o dallo svolgere "alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta"- non fa distinzione tra i componenti della commissione di gara implicati nel cumulo di funzioni e, pertanto, si estende a tutti costoro indistintamente.
In favore di una lettura preclusiva del cumulo di funzioni si era espressa anche l’ANAC nel primo schema delle Linee Guida n. 3 che così recitava: "il ruolo di RUP è incompatibile con le funzioni di commissario di gara e di presidente della commissione giudicatrice (art. 77, comma 4, del Codice)".
L’indirizzo dell’ANAC è mutato nel testo definitivo delle Linee Guida (poi approvate con determinazione dell'ANAC n. 1096 del 26.10.2016) rielaborato, alla luce del parere del Consiglio di Stato n. 1767 del 2016, nel senso che "Il ruolo di RUP è, di regola, incompatibile con le funzioni di commissario di gara e di presidente della commissione giudicatrice (art. 77, comma 4 del Codice), ferme restando le acquisizioni giurisprudenziali in materia di possibile coincidenza" (punto 2.2., ultimo periodo).
A supporto della tesi affermnata dalla Sezione milita l'indicazione successivamente fornita dal legislatore con il correttivo approvato con 19.04.2017, n. 56, il quale, integrando il disposto dell’art. 77, comma 4, ha escluso ogni effetto di automatica incompatibilità conseguente al cumulo delle funzioni, rimettendo all'amministrazione la valutazione della sussistenza o meno dei presupposti affinché il RUP possa legittimamente far parte della commissione gara.
Sembra difficile negare che il correttivo normativo introdotto nel 2017 abbia svolto una funzione di ausilio ad una esegesi della disposizione che era già emersa alla luce della prima versione dell’art. 77 (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 26.10.2018 n. 6082 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
1. Col primo motivo di ricorso, la Del.Ga ha lamentato la violazione dell’art. 77 del d.lgs. 50/2016, per avere l’ing. No.Ca. ricoperto le funzioni, tra di loro incompatibili, di dirigente della CUC incaricato della redazione del bando di gara oltre che di Presidente della Commissione giudicatrice.
1.1. Il TAR Bolognese ha ritenuto in concreto non incompatibile l’ufficio di Presidenza della Commissione giudicatrice con le funzioni di dirigente della CUC Unione Terre d’Argine.
Richiamando la giurisprudenza consolidata in materia, ha infatti affermato che:
   a) l’art. 77 del nuovo codice dei contratti pubblici è applicabile esclusivamente “a regime”, cioè a seguito della istituzione dell’albo nazionale dei commissari di gara;
   b) nella fase intertemporale che precede tale momento, non sussiste alcuna incompatibilità tra i ruoli di Presidente della Commissione e di RUP o di soggetto aggiudicatore, a meno che non venga dimostrata in concreto una specifica interferenza tra le due funzioni;
   c) tale prova nel caso presente è del tutto mancata, anche perché il contenuto essenziale della lex specialis di gara -predeterminato dall’ente locale con determina dirigenziale n. 38 del 27.1.2017- è stato pedissequamente recepito nel bando di gara ed il ruolo della CUC si è limitato alla conduzione e all’espletamento della procedura selettiva.
1.2. La società appellante -dopo aver rilevato che nel caso di specie il presidente della commissione ricopriva le funzioni (non di RUP ma) di Presidente della Centrale di committenza dell’Unione delle Terre d’argine designato ad interim, e che in tale qualità egli aveva elaborato e approvato gli atti di gara, designato sé stesso quale presidente della Commissione e designato i commissari- osserva che, anche volendo accedere alla teoria della non immediata precettività del regime delle incompatibilità introdotto dall’art. 77, la stazione appaltante avrebbe dovuto valutare l’insussistenza di un'incompatibilità in concreto a carico dell’Ing. Ca. in relazione alla svolgimento sia della funzione di Presidente della commissione di gara sia delle funzioni amministrative in precedenza assolte e, quindi, con riguardo alla possibile incidenza che tale cumulo di ruoli avrebbe potuto determinare sul processo di valutazione delle offerte.
Aggiunge la parte appellante che l’art. 77 d.lgs. 50/2016 (al pari dell’art. 84, comma 4, d.lgs. 163/2006) è norma preventiva, finalizzata a scongiurare il semplice pericolo di possibili effetti distorsivi e non implicante alcun onere probatorio a carico della parte che deduce l’incompatibilità del commissario.
Indice concreto di una condizione di incompatibilità si ricaverebbe nel caso specifico dal fatto che il presidente della Commissione di gara, in qualità di dirigente della centrale unica di committenza, ha approvato un bando differente rispetto alle indicazioni fornite dal dirigente del Comune di Carpi, in particolare nella individuazione del valore della concessione, stimato non secondo il criterio del fatturato (come suggerito nella relazione del dirigente comunale) ma secondo il diverso criterio del corrispettivo da riconoscere al comune.
2. Il motivo di appello non può trovare accoglimento.
2.1. Giova premettere che la gara, bandita con determina del 27.01.2017 n. 38, soggiace alle disposizioni dettate dal nuovo Codice dei contratti.
In questo specifico scenario normativo, di utile rilievo ai fini della tesi promossa dalla parte appellante è l’art. 77, comma 4, del d.lgs. 50/2016, il quale, nella sua versione originaria (applicabile ratione temporis alla vicenda qui all’esame) disponeva che “I commissari non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta”.
Con successiva modifica introdotta in sede di correttivo dall'art. 46, comma 1, lett. d), d.lgs. 19.04.2017, n. 56, ma non applicabile ratione temporis alla fattispecie vigente, il comma 4 è stato arricchito di un addendum ai sensi del quale “la nomina del RUP a membro delle commissioni di gara è valutata con riferimento alla singola procedura”.
2.2.
Si tratta a questo punto di chiarire quale sia la portata attribuibile alla prima versione dell’art. 77, comma 4, e se essa possa essere intesa in senso del tutto ostativo alla possibilità che in un medesimo soggetto si cumulino le due funzioni di presidente di Commissione e Rup (o presidente dell’ente aggiudicatore).
2.3. Una parte della giurisprudenza di primo grado ha così inteso il comma 4, cogliendone il portato innovativo, rispetto alle corrispondenti e previgenti disposizioni del d.lgs. 163/2006, proprio nella scelta di introdurre una secca incompatibilità tra le funzioni tipiche dell'ufficio di RUP (o ruoli equivalenti) e l'incarico di componente e finanche di presidente della commissione.
Ad integrazione e supporto di questa impostazione si è altresì evidenziato che la nuova regola del comma 4 è di immediata applicazione, non essendo condizionata dall'istituzione dell'albo dei commissari previsto dall'articolo 77, comma 2 (in questo senso TAR Latina, sez. I, 23.05.2017, n. 325; TAR Brescia sez. II, 04.11.2017, n. 1306).
2.4. Per meglio intendere l’effetto innovativo dell’art. 77, comma 4, si consideri che l'art. 84, comma 4, dell'abrogato d.lgs. n. 163 del 2006 si limitava a sanzionare le situazioni di incompatibilità dei soli membri della commissione di gara diversi dal presidente ("i commissari diversi dal Presidente non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta"); viceversa, l'incompatibilità prevista dall’art. 77, comma 4, del d.lgs. n. 50/2016 -discendente anch’essa dall'aver svolto in passato o dallo svolgere "alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta"- non fa distinzione tra i componenti della commissione di gara implicati nel cumulo di funzioni e, pertanto, si estende a tutti costoro indistintamente.
2.5. In favore di una lettura preclusiva del cumulo di funzioni si era espressa anche l’ANAC nel primo schema delle Linee Guida n. 3 che così recitava: "il ruolo di RUP è incompatibile con le funzioni di commissario di gara e di presidente della commissione giudicatrice (art. 77, comma 4, del Codice)".
L’indirizzo dell’ANAC è mutato nel testo definitivo delle Linee Guida (poi approvate con determinazione dell'ANAC n. 1096 del 26.10.2016) rielaborato, alla luce del parere del Consiglio di Stato n. 1767/2016, nel senso che "Il ruolo di RUP è, di regola, incompatibile con le funzioni di commissario di gara e di presidente della commissione giudicatrice (art. 77, comma 4 del Codice), ferme restando le acquisizioni giurisprudenziali in materia di possibile coincidenza" (punto 2.2., ultimo periodo).
2.6. Un secondo e opposto orientamento giurisprudenziale ha invece interpretato l’art. 77, comma 4, in continuità con l’indirizzo formatosi sul codice antevigente, giungendo così a concludere che, nelle procedure di evidenza pubblica, il ruolo di RUP può coincidere con le funzioni di commissario di gara e di presidente della commissione giudicatrice, a meno che non sussista la concreta dimostrazione dell'incompatibilità tra i due ruoli, desumibile da una qualche comprovata ragione di interferenza e di condizionamento tra gli stessi (TAR Veneto, sez. I, 07.07.2017, n. 660; TAR Lecce, sez. I, 12.01.2018, n. 24; TAR Bologna, sez. II, 25.01.2018, n. 87; TAR Umbria, sez. I, 30.03.2018, n. 192).
2.7.
Il Collegio ritiene di dare séguito a questo secondo orientamento, a ciò indotto dalle seguenti considerazioni.
2.7.1. Innanzitutto, vi è ragione di dubitare che l’art. 77, comma 4, nella sua versione ante correttivo, intendesse precludere al RUP la partecipazione alla commissione.
Una tale lettura era stata avversata da questo stesso Consiglio di Stato nel parere n. 1767, del 02.08.2016, reso ad ANAC sullo schema di Linee Guida n. 3, nel quale la Commissione speciale aveva così censurato l’impostazione espressa nel documento all’esame: "...la disposizione che in tal modo viene interpretata (e in maniera estremamente restrittiva) è in larga parte coincidente con l'articolo 84, comma 4 del previgente 'Codice' in relazione al quale la giurisprudenza di questo Consiglio aveva tenuto un approccio interpretativo di minor rigore, escludendo forme di automatica incompatibilità a carico del RUP, quali quelle che le linee-guida in esame intendono reintrodurre (sul punto ex multis: Cons. Stato, V, n. 1565/2015). Pertanto, non sembra condivisibile che le linee-guida costituiscano lo strumento per revocare in dubbio (e in via amministrativa) le acquisizioni giurisprudenziali..." (vedasi il punto "Pag. 3, par. 1.2., terzo periodo" del parere 1767/2016).
A seguire, la stessa ANAC era giunta ad affermare l'inesistenza di una tale automaticità allorché, nel testo delle Linee Guida licenziato il 26.10.2016, aveva fatto riferimento alla circostanza che "il ruolo di RUP è, di regola, incompatibile con le funzioni di commissario di gara e di presidente della commissione giudicatrice (art. 77, comma 4 del Codice), ferme restando le acquisizioni giurisprudenziali in materia di possibile coincidenza".
2.7.2. Un secondo e decisivo elemento esegetico è costituito dall'indicazione successivamente fornita dal legislatore, il quale, integrando il disposto dell’art. 77, comma 4, ha escluso ogni effetto di automatica incompatibilità conseguente al cumulo delle funzioni, rimettendo all'amministrazione la valutazione della sussistenza o meno dei presupposti affinché il RUP possa legittimamente far parte della commissione gara.
Sembra difficile negare che il correttivo normativo introdotto nel 2017 abbia svolto una funzione di ausilio ad una esegesi della disposizione che era già emersa alla luce della prima versione dell’art. 77.
La soluzione così avallata, sebbene astrattamente opinabile se riguardata in relazione al tenore testuale della prima versione dell’art. 77, sembra tuttavia costituire l’esito ermeneutico maggiormente coerente con l’opzione che il legislatore ha inteso consolidare in via definitiva. A ciò aggiungasi che una lettura funzionale ad una uniforme applicazione della disposizione (pur nel mutamento della sua formulazione testuale) è da preferirsi anche sotto il profilo del riflesso che tale soluzione può assumere sulla continuità e sul buon andamento degli indirizzi della prassi amministrativa.
2.7.3. In questi stessi termini si è di recente espressa l’ANAC, con il parere di cui alla deliberazione n. 193/2018, ove  proprio con riguardo ad una fattispecie riconducibile alla prima versione dell’art. 77, comma 4, d.lgs. 50/2016- si è chiarito che “al fine di evitare forme di automatica incompatibilità a carico del RUP, l’eventuale situazione di incompatibilità, con riferimento alla funzione di commissario di gara e Presidente della commissione giudicatrice, deve essere valutata in concreto dalla stazione appaltante verificando la capacità di incidere sul processo formativo della volontà tesa alla valutazione delle offerte, potendone condizionare l’esito” (e nello stesso senso si pone la precedente delibera ANAC n. 436 del 27.04.2017).
2.8.
Dando seguito, pertanto, alla qui condivisa impostazione secondo la quale non può essere ravvisata nessuna automatica incompatibilità tra le funzioni di RUP e quelle di componente della commissione giudicatrice, a meno che essa non venga dimostrata in concreto -nell’ottica di una lettura dell’art. 77, comma 4, del d.lgs. n. 50/2016 che si ponga in continuità con l’indirizzo interpretativo formatosi sul comma 4 dell’art. 84 del previgente d.lgs. n. 163/2006 (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. III, 18.01.2018, n. 695)- occorre ulteriormente evidenziare che:
  
- la garanzia di trasparenza ed imparzialità nella conduzione della gara impedisce la presenza nella commissione di gara di soggetti che abbiano svolto un’attività idonea a interferire con il giudizio di merito sull’appalto di che trattasi (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 21.07.2011, n. 4438, parere n. 46 del 21.03.2012);
  
- la situazione di incompatibilità deve ricavarsi dal dato sostanziale della concreta partecipazione alla redazione degli atti di gara, al di là del profilo formale della sottoscrizione o mancata sottoscrizione degli stessi e indipendentemente dal fatto che il soggetto in questione sia il funzionario responsabile dell'ufficio competente (Cons. Stato, sez. V, 28.04.2014, n. 2191);
  
- per predisposizione materiale della legge di gara deve quindi intendersi “non già un qualsiasi apporto al procedimento di approvazione dello stesso, quanto piuttosto una effettiva e concreta capacità di definirne autonomamente il contenuto, con valore univocamente vincolante per l'amministrazione ai fini della valutazione delle offerte, così che in definitiva il suo contenuto prescrittivo sia riferibile esclusivamente al funzionario (Cons. Stato, sez. V, 22.01.2015, n. 255 e 23.03.2015, n. 1565);
  
- ad integrare la prova richiesta, non è sufficiente il mero sospetto di una possibile situazione di incompatibilità, dovendo l’art. 84, comma 4, essere interpretato in senso restrittivo, in quanto disposizione limitativa delle funzioni proprie dei funzionari dell'amministrazione (Cons. Stato, sez. V, 22.01.2015, n. 255);
   - detto onere della prova grava sulla parte che deduce la condizione di incompatibilità (cfr. Cons. Stato, sez. V, 25.01.2016, n. 242 e 23.03.2017, n. 1320; Id., sez. III, 22.01.2015, n. 226);
  
- in ogni caso, la predetta incompatibilità non può desumersi ex se dall’appartenenza del funzionario-componente della Commissione, alla struttura organizzativa preposta, nella fase preliminare di preparazione degli atti di gara e nella successiva fase di gestione, all'appalto stesso (cfr. TAR Lazio, sez. III, 06.05.2014, n. 4728; TAR Lecce, sez. III, 07.01.2015, n. 32).

EDILIZIA PRIVATA: L'ordine di demolizione del manufatto abusivo, avendo natura di sanzione amministrativa di carattere ripristinatorio, non è soggetto alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen. per le sanzioni penali, né alla prescrizione stabilita dall'art. 28 legge n. 689 del 1981 che riguarda unicamente le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva.
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Nessuna equiparazione può, logicamente, farsi tra la demolizione e la confisca, trattandosi di due istituti diversi che operano su piani completamente diversi: sanzionatoria la confisca e solo di riduzione in pristino (riporta il paesaggio alla condizione iniziale, prima dell'abuso) del bene leso, la demolizione
.
Inoltre,
la demolizione dell'immobile, attualmente prevista dall'art. 31, comma 9, del T.U. n. 380/2001 e già dall'art. 7 della legge 28.02.1985 n. 47, non è esclusa nemmeno dall'alienazione a terzi della proprietà dell'immobile abusivamente edificato. L'eventuale acquirente (reale o simulato) dell'immobile abusivo subirà le conseguenze della demolizione e potrà rivalersi, nelle sedi competenti, nei confronti del venditore.
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4. Il ricorso è inammissibile, per manifesta infondatezza dei motivi (art. 606, comma 3, del cod. proc. pen.) e per genericità, reitera i motivi dell'istanza 2 senza confrontarsi con le motivazioni del provvedimento impugnato.
In materia di reati concernenti le violazioni edilizie, l'ordine di demolizione del manufatto abusivo, avendo natura di sanzione amministrativa di carattere ripristinatorio, non è soggetto alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen. per le sanzioni penali, né alla prescrizione stabilita dall'art. 28 legge n. 689 del 1981 che riguarda unicamente le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva (Sez. 3, n. 36387 del 07/07/2015 - dep. 09/09/2015, Formisano, Rv. 264736; Sez. 3, n. 19742 del 14/04/2011 - dep. 19/05/2011, Mercurio e altro, Rv. 250336).
5. La questione della natura sanzionatoria dell'ordine di demolizione relativamente alle sentenze Cedu sulla confisca è mal posta, oltre che generica.
Nessuna equiparazione può, infatti, logicamente farsi tra la demolizione e la confisca, trattandosi di due istituti diversi che operano su piani completamente diversi: sanzionatoria la confisca e solo di riduzione in pristino (riporta il paesaggio alla condizione iniziale, prima dell'abuso) del bene leso, la demolizione (vedi Cass. Sez. 3, 22/10/2009, n. 48925, Viesti).
6. Inoltre, la demolizione dell'immobile, attualmente prevista dall'art. 31, comma 9, del T.U. n. 380/2001 e già dall'art. 7 della legge 28.02.1985 n. 47, non è esclusa nemmeno dall'alienazione a terzi della proprietà dell'immobile abusivamente edificato. L'eventuale acquirente (reale o simulato) dell'immobile abusivo subirà le conseguenze della demolizione e potrà rivalersi, nelle sedi competenti, nei confronti del venditore (Sez. 3, 28/03/2007, n. 22853, Coluzzi; Sez. 3, 11/02/2016, n. 5708, Woolgar).
7. La mera proposizione di una sanatoria non consente l'automatica sospensione dell'ordine di demolizione, in quanto il giudice penale deve valutare la ragionevole previsione che, in un breve lasso di tempo, intervenga un provvedimento amministrativo in insanabile contrasto con la demolizione: «L'ordine di demolizione delle opere abusive emesso con la sentenza passata in giudicato può essere sospeso solo qualora sia ragionevolmente prevedibile, sulla base di elementi concreti, che in un breve lasso di tempo sia adottato dall'autorità amministrativa o giurisdizionale un provvedimento che si ponga in insanabile contrasto con detto ordine di demolizione» (Sez. 3, n. 42978 del 17/10/2007 - dep. 21/11/2007, Parisi, Rv. 238145; vedi inoltre, Sez. 3, n. 9145 del 01/07/2015 - dep. 04/03/2016, Manna, Rv. 266763) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 25.10.2018 n. 48834).

EDILIZIA PRIVATA: Opere abusive - Ordine di demolizione - Revoca o sospensione dell'ordine di demolizione - Istanza di condono o sanatoria successivamente al passaggio in giudicato della sentenza di condanna - Effetti - Pendenza del condono edilizio - Verifiche del giudice dell'esecuzione - Esclusione dell'efficacia sanante sulle opere abusive - Pagamento dell'oblazione - Art. 31 d.P.R. n. 380/2001.
La revoca o la sospensione dell'ordine di demolizione delle opere abusive, di cui all'art. 31 d.P.R. n. 380 del 2001, in conseguenza della presentazione di una istanza di condono o sanatoria successivamente al passaggio in giudicato della sentenza di condanna, presuppone l'accertamento da parte del giudice dell'esecuzione della sussistenza di elementi che facciano ritenere plausibilmente prossima la adozione da parte della autorità amministrativa competente del provvedimento di accoglimento (Sez. 3, n. 9145 del 01/07/2015 - dep. 04/03/2016, Manna) ( Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 25.10.2018 n. 48835 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: All’Adunanza plenaria le conseguenze dell’omessa indicazione degli oneri di sicurezza nel nuovo Codice dei contratti.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta – Oneri di sicurezza – Omessa indicazione separata – Conseguenza – Art. 95, comma 10, d.lgs. n. 50 del 2016 – Esclusione o soccorso istruttorio – Contrasto giurisprudenziale – Rimessione all’Adunanza plenaria.
E’ rimessa all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato la questione se per le gare bandite nella vigenza del d.lgs. 18.04.2016, n. 50, la mancata indicazione separata degli oneri di sicurezza aziendale determini immediatamente e incondizionatamente l’esclusione del concorrente, senza possibilità di soccorso istruttorio, anche quando non è in discussione l’adempimento da parte del concorrente degli obblighi di sicurezza, né il computo dei relativi oneri nella formulazione dell’offerta, né vengono in rilievo profili di anomalia dell’offerta, ma si contesta soltanto che l’offerta non specifica la quota di prezzo corrispondente ai predetti oneri; nonché se, ai fini della eventuale operatività del soccorso istruttorio, assuma rilevanza la circostanza che la lex specialis richiami espressamente l’obbligo di dichiarare gli oneri di sicurezza (1).
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   Analoga rimessione è stata disposta dalla stessa Sezione con ordinanza 26.10.2018, n. 6122.
   (1) Ha chiarito la Sezione che sebbene l’Adunanza plenaria n. 19 del 2016 ha circoscritto la portata del principio enunciato alle gare bandite nel vigore del d.lgs. n. 163 del 2006, dichiarando espressamente di prescindere –perché il tema non era oggetto del contendere e la relativa norma non era applicabile ratione temporis– dagli effetti derivanti dal nuovo Codice, non può, tuttavia, non evidenziarsi che l’ampia formulazione dell’art. 80, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016 (che ammette il soccorso istruttorio con riferimento a “qualsiasi elemento formale della domanda”) sembra consentire, anche nella vigenza del nuovo Codice, di sanare l’offerta che sia viziata solo per la mancata formale indicazione separata degli oneri di sicurezza.
Sotto tale profilo, invero, la circostanza che, oggi, l’art. 95, comma 10, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, abbia esplicitato che sussiste per l’operatore economico l’obbligo di indicare in sede di offerta i propri costi per la manodopera e gli oneri di sicurezza aziendali non sembra rappresentare elemento di novità di per sé sufficiente a determinare il superamento del principio di diritto enunciato dalla sentenza dell’Adunanza plenaria n. 19 del 2016. Non va, infatti, dimenticato che anche nel vigore del previgente Codice, l’Adunanza plenaria aveva già desunto (v. in particolare sentenza n. 3 del 2015) l’esistenza di un obbligo normativo operante in tutte le gare d’appalto (ivi comprese quelle di lavori) di indicare, a pena di esclusione, gli oneri di sicurezza, precisando, altresì, che pur nel silenzio della lex specialis, tale obbligo dichiarativo eterointegrava il bando di gara.
Sotto tale profilo, l’art. 95, comma 10, d.lgs. n. 50 del 2016 si è limitato a rende esplicito un obbligo dichiarativo che nel precedente sistema si ricavava, comunque, implicitamente dal tessuto normativo. Non pare, tuttavia, che tale espressa previsione normativa concernente l’obbligo di indicare i costi di sicurezza aziendale sia un elemento di novità di per sé in grado di escludere l’operatività del soccorso istruttorio, il quale, peraltro, nel passaggio dal vecchio al nuovo codice (specie con le ulteriori modifiche apportate in sede di correttivo: d.lgs. n. 56 del 2017) è stato persino potenziato (attraverso la generalizzazione del principio di gratuità e l’eliminazione dell’ambigua categoria delle c.d. irregolarità non essenziali).
Non sembra neanche che possa essere messo in discussione che l’indicazione degli oneri di sicurezza sia un obbligo previsto dalla legge a pena di esclusione e che, alla luce del chiaro tenore testuale della previsione ora contenuta nell’art. 95, comma 10, cit., il relativo obbligo dichiarativo sia capace di eterointegrare il bando pur nel silenzio della lex specialis. L’ammissibilità di un fenomeno di eterointegrazione del bando, specie da parte di norme legislative di contenuto univoco, è stato già chiaramente riconosciuto in più occasioni dalla stessa Adunanza plenaria (cfr. sentenza n. 9 del 2014, richiamata e condivisa dalle sentenze nn. 3 e 9 del 2015 e n. 19 del 2016) e, anche rispetto a tale profilo, non sembra che il nuovo Codice contenga elementi di novità capaci di sovvertire tale conclusione.
L’eterointegrazione (e prima ancora la portata potenzialmente escludente dell’obbligo dichiarativo di cui si discute) non appare, tuttavia, argomento sufficiente ad escludere l’operatività del soccorso istruttorio, ma, anzi, ne costituisce il presupposto applicativo. Il soccorso istruttorio, invero, opera proprio (od ormai solo) per le c.d. irregolarità essenziali: cioè le inosservanze dichiarative e documentali richieste a pena di esclusione.
L’esclusione del soccorso istruttorio per la mancata indicazione degli oneri di sicurezza potrebbe semmai essere argomentata diversamente, ovvero ritenendo che gli oneri di sicurezza rappresentino (sempre e comunque) non un elemento formale dell’offerta, ma un elemento sostanziale della stessa, con la conseguenza che l’indicazione postuma attraverso il soccorso istruttorio consentirebbe al concorrente di determinare una (senz’altro inammissibile) modifica ex post dell’offerta.
Sotto tale profilo, tuttavia, l’incondizionata qualificazione degli oneri di sicurezza in termini di elemento sostanziale dell’offerta si porrebbe in contrasto con quanto precisato dall’Adunanza plenaria nella sentenza n. 19 del 2016, la quale, come si è già ricordato, aveva espressamente specificato (cfr. par. 35 della motivazione) che: “gli oneri di sicurezza rappresentano un elemento essenziale dell’offerta (la cui mancanza è in grado di ingenerare una situazione di insanabile incertezza assoluta sul suo contenuto) solo nel caso in cui si contesta al concorrente di avere formulato un’offerta economica senza considerare i costi derivanti dal doveroso adempimento dei obblighi di sicurezza a tutela dei lavoratori. In questa ipotesi, vi è certamente incertezza assoluta sul contenuto dell’offerta e la sua successiva sanatoria richiederebbe una modifica sostanziale del “prezzo” (perché andrebbe aggiunto l’importo corrispondente agli oneri di sicurezza inizialmente non computati). Laddove, invece, (come avviene nel caso oggetto del presente giudizio), non è in discussione l’adempimento da parte del concorrente degli obblighi di sicurezza, né il computo dei relativi oneri nella formulazione dell’offerta, ma si contesta soltanto che l’offerta non specifica la quota di prezzo corrispondente ai predetti oneri, la carenza, allora, non è sostanziale, ma solo formale”.
Applicando il principio di diritto appena richiamato, la qualificazione dell’omessa indicazione degli oneri di sicurezza in termini di elemento formale dell’offerta (nel caso in cui essi siano stati considerati ai fini del prezzo ed inglobati in esso) imporrebbe, quindi, di consentire il soccorso istruttorio a prescindere dalla circostanza, che di per sé non appare dirimente alla luce dell’esistenza di un pacifico principio di eterointegrazione, che la lex specialis abbia richiamato o meno il relativo obbligo dichiarativo.
Proprio tale rilievo apre ad una opzione esegetica che in parte differisce anche da quella accolta dalla III Sezione di questo Consiglio di Stato nella sentenza n. 2554 del 2018, o da quella sottesa alla questione pregiudiziale attualmente al vaglio della Corte di giustizia, nelle quali, invece, sembra attribuirsi rilievo dirimente, ai fini di ammettere o negare il soccorso istruttorio, proprio a questo dato formale (ovvero il richiamo o meno nella lex specialis del relativo obbligo dichiarativo).
Conclusione che sembra, tuttavia, contraddire, o, comunque, attenuare, la portata del principio di etero-integrazione, che la stessa giurisprudenza dell’Adunanza plenaria ha in più occasioni ritenuto operante, specie se l’obbligo legislativo risulta puntuale e univoco (come, puntuale e univoco appare essere, appunto, quello previsto dall’art. 95, comma 10, d.lgs. n. 50 del 2016)
(Consiglio di Stato, Sez. V, ordinanza 25.10.2018 n. 6069 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Alla Corte costituzionale l’automaticità delle conseguenze derivanti dalla dichiarazione mendace.
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Procedimento amministrativo – Dichiarazione sostitutiva atto di notorietà – Dichiarazione falsa – Conseguenza – Art. 75, d.P.R. n. 445 del 2000 – Conseguenza – Decadenza automatica del beneficio – Violazione art. 3 Cost. – Rilevante e non manifestamente infondata.
E’ rilevante e non manifestamente infondata, per violazione dei principi di proporzionalità, ragionevolezza e uguaglianza, di cui all’art. 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 75, d.P.R. 28.12.2000, n. 445, nella parte in cui introduce un automatismo legislativo tra la non veridicità della dichiarazione resa dall’interessato e la perdita dei benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera (1).
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   (1) Analoga rimessione è stata disposta dalla Sezione con ordinanze 23.10.2018, n. 1531, 25.10.2018, n. 1552 e 17.09.2018, n. 1346.
Ha chiarito la Sezione che le conseguenze decadenziali (definitive) dal beneficio (peraltro, latu sensu sanzionatorie), legate alla non veridicità obiettiva della dichiarazione e, a fortiori, l’impedimento a conseguire il beneficio medesimo, ai sensi del citato art. 75, d.P.R. 28.12.2000, n. 445, appaiono irragionevoli e incostituzionali, contrastando con il principio di proporzione, che è alla base della razionalità che, a sua volta, informa il principio di uguaglianza sostanziale, ex art. 3 Cost..
E tanto ove si considerino (innanzitutto e in via dirimente) il meccanico automatismo legale (del tutto “slegato” dalla fattispecie concreta) e l’assoluta rigidità applicativa della norma in questione, che (da un lato) impone tout court (senza alcun distinguo, né gradazione) la decadenza dal beneficio (o l’impedimento al conseguimento dello stesso), a prescindere dall’effettiva gravità del fatto contestato (sia per le fattispecie in cui la dichiarazione non veritiera riveste un’incidenza del tutto marginale rispetto all’interesse pubblico perseguito dalla P.A., sia per quelle nelle quali tale dichiarazione risulta in netto contrasto con tale interesse, riservando, quindi, il medesimo trattamento a situazioni di oggettiva diversa gravità), e (dall’altro) non consente di escludere nemmeno le ipotesi di non veridicità delle autodichiarazioni su aspetti di minima rilevanza concreta, con ogni possibile (e finanche prevedibile) abnormità e sproporzione delle relative conseguenze, rispetto al reale disvalore del fatto commesso.
Ha aggiunto la Sezione che è ben vero, infatti, che l’art. 75, d.P.R. n. 445 del 2000 deve qualificarsi quale norma generale di semplificazione amministrativa.
Tuttavia, proprio in quanto tale, la suddetta norma, se, da un lato, è sicuramente volta a rendere più efficiente ed efficace l’azione dell’Amministrazione pubblica (buon andamento, ai sensi dell’art. 97 Cost.), dall’altro è (altrettanto inequivocabilmente) finalizzata a garantire i diritti dei singoli costituzionalmente tutelati e di volta in volta coinvolti nel procedimento amministrativo attivato (e nell’ambito del quale sono state rese le autodichiarazioni medesime): si pensi, ad esempio, al diritto allo studio (art. 34), al diritto alla salute (art. 32), al diritto al lavoro (artt. 4 e 35), al diritto all’assistenza sociale (art. 38), al diritto di iniziativa economica privata (art. 41).
Sicché, anche nella prospettiva del necessario bilanciamento degli interessi costituzionali coinvolti (nonché della massima espansione possibile delle relative tutele), il rigido automatismo applicativo (in uno ai correlati e definitivi effetti preclusivi e/o decadenziali) si rivela, in concreto, lesivo del doveroso equilibrio fra le diverse esigenze in gioco, e persino tale da pregiudicare definitivamente proprio quei diritti costituzionali del singolo alla cui migliore e più rapida realizzazione la norma di semplificazione de qua è, in definitiva, finalizzata (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, ordinanza 24.10.2018 n. 1544 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
2. - Rileva, innanzitutto, il Collegio che l’impugnato diniego risulta motivato dalla P.A. resistente sulla scorta dell’omessa dichiarazione, da parte dell’istante, di taluni debiti verso l’Erario (e cioè, la preesistenza di talune cartelle di pagamento, come risultante dalla nota P.E.C. pervenuta dall’Agenzia delle Entrate - Riscossione in data 20.12.2017 e viste le osservazioni ricevute in data 15.01.2018, da cui risulta, per talune cartelle l’avvenuta presentazione della domanda di definizione agevolata, per altra cartella la proposizione di ricorso, e per altre ancora l’intenzione di presentare domanda di definizione agevolata, omettendo qualsiasi valutazione sull’entità -minima o meno- dei relativi importi e, quindi, in maniera del tutto automatica), ai sensi, sostanzialmente (a ben vedere), dell’art. 75 del D.P.R. 28.12.2000 n. 445.
E’ opportuno rammentare che l’articolo 75 (“Decadenza dai benefici”) del D.P.R. 28.12.2000, n. 445 (“Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa”) dispone che: “1. Fermo restando quanto previsto dall’articolo 76, qualora dal controllo di cui all’articolo 71 emerga la non veridicità del contenuto della dichiarazione, il dichiarante decade dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera”.
La granitica giurisprudenza formatasi in “subiecta materia” (ex plurimis, Consiglio di Stato, Sezione Quinta, 09.04.2013, n. 1933) ha osservato che il su riportato art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 <<si inserisce in un contesto in cui alla dichiarazione sullo status o sul possesso di determinati requisiti è attribuita funzione probatoria, da cui il dovere del dichiarante di affermare il vero.
Ne consegue che la dichiarazione “non veritiera” al di là dei profili penali, ove ricorrano i presupposti del reato di falso, nell’ambito della disciplina dettata dalla L. n. 445 del 2000, preclude al dichiarante il raggiungimento dello scopo cui era indirizzata la dichiarazione o comporta la decadenza dall’utilitas conseguita per effetto del mendacio
”.
Pertanto, <<In tale contesto normativo, in cui la “dichiarazione falsa o non veritiera” opera come fatto, perde rilevanza l’elemento soggettivo ovvero il dolo o la colpa del dichiarante>> (Consiglio di Stato, Sezione Quinta, cit., n. 1933/2013), “poiché, se così fosse, verrebbe meno la ratio della disciplina che è volta a semplificare l’azione amministrativa, facendo leva sul principio di autoresponsabilità del dichiarante” (Consiglio di Stato, Sezione Quinta, 27.04.2012, n. 2447): sicché ogni eventuale ulteriore circostanza, “senz’altro rilevante in sede penale, in quanto ostativa alla configurazione del falso ideologico, attesa la mancanza dell’elemento soggettivo, ovvero della volontà cosciente e non coartata di compiere il fatto e della consapevolezza di agire contro il dovere giuridico di dichiarare il vero, non assume rilievo nell’ambito della L. n. 445 del 2000, in cui il mendacio rileva quale inidoneità della dichiarazione allo scopo cui è diretto” (Consiglio di Stato, Sezione Quinta, cit., n. 1933/2013).
Ai sensi della normativa generale di cui all’art. 75 del D.P.R. n. 445 del 2000, quindi, “la non veridicità di quanto autodichiarato rileva sotto un profilo oggettivo e conduce alla decadenza dei benefici ottenuti con l'autodichiarazione non veritiera”; così la sent. 13.09.2016, n. 9699)” (TAR Lazio, Roma, Sezione III-ter, 24.05.2017, n. 6207), “senza che tale disposizione lasci margine di discrezionalità alle Amministrazioni (cfr. ad es. CdS 1172/2017)” (TAR Liguria, Genova, Sezione Prima, 14.06.2017, n. 534).
In definitiva, per effetto della suddetta esegesi consolidata (tale da assurgere al rango di “diritto vivente”, sicché neppure è possibile per il Tribunale operare una c.d. “interpretazione costituzionalmente conforme”):
   - l’applicazione dell’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 comporta l’automatica decadenza dal beneficio eventualmente già conseguito, non residuando, nell’applicazione della predetta norma, alcun margine di discrezionalità alle PP.AA. che, in sede di controllo (d’ufficio) ex art. 71 del medesimo Testo Unico, si avvedano della (oggettiva) non veridicità delle autodichiarazioni, posto che tale norma prescinde, per la sua applicazione, dalla condizione soggettiva del dichiarante, attestandosi (unicamente) sul dato oggettivo della non veridicità, rispetto al quale risulta, peraltro, del tutto irrilevante il complesso delle giustificazioni addotte dal dichiarante medesimo;
   - parimenti, tale disposizione, nel contemplare la decadenza dai benefici conseguenti al provvedimento emanato sulla base delle dichiarazioni non veritiere, impedisce (ovviamente e a fortiori, come nel caso di specie) anche l’emanazione del provvedimento (ampliativo) di accoglimento dell’istanza tendente ad ottenere i benefici dalla P.A..
3. - Tuttavia, la predetta norma (art. 75 del D.P.R. n. 445/2000), intesa alla stregua dell’illustrato “diritto vivente”, nel suo meccanico automatismo legale (del tutto decontestualizzato dal caso specifico) e nella sua assoluta rigidità applicativa (che non conosce eccezioni), sembra al Collegio incostituzionale, per violazione dei principi di ragionevolezza, proporzionalità e uguaglianza sanciti dall’art. 3 della Costituzione.
4. - Ed invero, “il giudizio di ragionevolezza, lungi dal comportare il ricorso a criteri di valutazione assoluti e astrattamente prefissati, si svolge attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti. Sicché, … l’impossibilità di fissare in astratto un punto oltre il quale scelte di ordine quantitativo divengono manifestamente arbitrarie e, come tali, costituzionalmente illegittime, non può essere validamente assunta come elemento connotativo di un giudizio di merito, essendo un tratto che si riscontra … anche nei giudizi di ragionevolezza.
Del resto,……, le censure di merito non comportano valutazioni strutturalmente diverse, sotto il profilo logico, dal procedimento argomentativo proprio dei giudizi valutativi implicati dal sindacato di legittimità, differenziandosene, piuttosto, per il fatto che in quest’ultimo le regole o gli interessi che debbono essere assunti come parametro del giudizio sono formalmente sanciti in norme di legge o della Costituzione
” (Corte Costituzionale, 22.12.1988, n. 1130).
In conclusione:
   - per un verso, il giudizio di ragionevolezza della norma di legge deve essere necessariamente ancorato al criterio di proporzionalità, rappresentando quest’ultimo “diretta espressione del generale canone di ragionevolezza (ex art. 3 Cost.)” (Corte Costituzionale, 01.06.1995, n. 220);
   - per altro verso, la ragionevolezza va intesa come forma di razionalità pratica (tenuto conto, appunto, “delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti” - Corte costituzionale, cit., n. 1130/1988), non riducibili alla mera (e sola) astratta razionalità sillogistico -deduttiva e logico- formale, laddove (invece) la ragione (pratica e concreta) deve essere aperta all’impatto che su di essa esplica il caso, il fatto, il dato di realtà (che diventa esperienza giuridica), solo così potendo (doverosamente) valutarsi l’adeguatezza del mezzo al fine, la ragionevolezza “intrinseca”, in uno agli (eventuali) esiti ed effetti sproporzionati e/o paradossali che possono concretamente derivare da una regola generale apparentemente ed astrattamente logica.
In tal senso, il giudizio di ragionevolezza, lungi dal limitarsi alla (sola) valutazione della singola situazione oggetto della specifica controversia da cui sorge il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, si appalesa idoneo (traendo spunto da quest’ultima) a vagliare gli effetti della Legge sull’intera realtà sociale che la Legge medesima è chiamata a regolare, anche in funzione dell’<<“esigenza di conformità dell’ordinamento a valori di giustizia e di equità” ... ed a criteri di coerenza logica, teleologica …. , che costituisce un presidio contro l’eventuale manifesta irrazionalità o iniquità delle conseguenze della stessa» (sentenza n. 87 del 2012)>> (Corte Costituzionale, sentenza 10.06.2014, n. 162).
E tanto anche confrontando i benefici che derivano dall’adozione, per dir così, “neutra” del provvedimento con i suoi “costi”, e valutando l’eventuale inadeguata penalizzazione degli altri diritti e interessi di rango costituzionale contestualmente in gioco (bilanciamento).
5. - Orbene, l’illustrata fattispecie di “automatismo legislativo” di cui all’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000, intesa alla stregua del “diritto vivente”, non sfugge, ad avviso meditato del Collegio, a forti dubbi di incostituzionalità per violazione dei principi di proporzionalità, ragionevolezza e uguaglianza, di cui all’art. 3 della Costituzione.
5.1 - Ed invero, le conseguenze decadenziali (definitive) dal beneficio (peraltro, latu sensu sanzionatorie), legate alla non veridicità obiettiva della dichiarazione, e, a fortiori, l’impedimento a conseguire il beneficio medesimo, ai sensi del citato art. 75 del D.P.R. n. 445/2000, appaiono al Tribunale irragionevoli e incostituzionali, contrastando con il principio di proporzione, che è alla base della razionalità che, a sua volta, informa il principio di uguaglianza sostanziale, ex art. 3 della Costituzione.
E tanto ove si considerino (innanzitutto e in via dirimente) il meccanico automatismo legale (del tutto “slegato” dalla fattispecie concreta) e l’assoluta rigidità applicativa della norma in questione, che (da un lato) impone tout court (senza alcun distinguo, né gradazione) la decadenza dal beneficio (o l’impedimento al conseguimento dello stesso), a prescindere dall’effettiva gravità del fatto contestato (sia per le fattispecie in cui la dichiarazione non veritiera riveste un’incidenza del tutto marginale rispetto all’interesse pubblico perseguito dalla P.A., sia per quelle nelle quali tale dichiarazione risulta in netto contrasto con tale interesse, riservando, quindi, il medesimo trattamento a situazioni di oggettiva diversa gravità), e (dall’altro) non consente di escludere nemmeno le ipotesi di non veridicità delle autodichiarazioni su aspetti di minima rilevanza concreta, con ogni possibile (e finanche prevedibile) abnormità e sproporzione delle relative conseguenze, rispetto al reale disvalore del fatto commesso.
5.2 - Sotto altro profilo, inoltre, l’assoluta rigidità applicativa dell’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 appare eccessiva, in quanto non consente (parimenti irragionevolmente e inadeguatamente) di valutare l’elemento soggettivo (dolo -la c.d. coscienza e volontà di immutare il vero- ovvero colpa, grave o meno -nell’ipotesi di fatto dovuto a mera leggerezza o negligenza dell’agente) della dichiarazione (oggettivamente) non veritiera, nella naturale (e contestuale) sede del procedimento amministrativo (o anche, laddove la P.A. lo ritenga, nell’ambito del pertinente giudizio penale).
5.3 - Né può ritenersi che i suddetti dubbi di costituzionalità possano essere superati facendo leva sulla ratio sottesa alla disposizione di che trattasi, rinvenibile, secondo il diritto “vivente” (cfr., ex plurimis, Consiglio di Stato, Sezione Quinta, cit., n. 2447/2012), nel principio generale di semplificazione amministrativa (cui si accompagna l’affermazione dell’autoresponsabilità - “oggettiva” - del dichiarante).
E’ ben vero, infatti, che l’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 debba qualificarsi quale norma generale di semplificazione amministrativa.
Tuttavia, proprio in quanto tale, la suddetta norma, se, da un lato, è sicuramente volta a rendere più efficiente ed efficace l’azione dell’Amministrazione pubblica (buon andamento, ai sensi dell’art. 97 della Costituzione), dall’altro è (altrettanto inequivocabilmente) finalizzata a garantire i diritti dei singoli costituzionalmente tutelati e di volta in volta coinvolti nel procedimento amministrativo attivato (e nell’ambito del quale sono state rese le autodichiarazioni medesime): si pensi, ad esempio, al diritto allo studio (art. 34), al diritto alla salute (art. 32), al diritto al lavoro (artt. 4 e 35), al diritto all’assistenza sociale (art. 38), al diritto di iniziativa economica privata (art. 41, come nel caso di specie).
Sicché, anche nella prospettiva del necessario bilanciamento degli interessi costituzionali coinvolti (nonché della massima espansione possibile delle relative tutele), il rigido automatismo applicativo (in uno ai correlati e definitivi effetti preclusivi e/o decadenziali) si rivela, in concreto, lesivo del doveroso equilibrio fra le diverse esigenze in gioco, e persino tale da pregiudicare definitivamente proprio quei diritti costituzionali del singolo alla cui migliore e più rapida realizzazione la norma di semplificazione de qua è, in definitiva, finalizzata.
E tanto vieppiù allorché si consideri che l’art. 40 (“Certificati”) del D.P.R. 28.12.2000, n. 445 (“Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa”), come modificato dall’art. 15, comma 1, lett. a), L. 12.11.2011, n. 183, ha disposto che “01. Le certificazioni rilasciate dalla pubblica amministrazione in ordine a stati, qualità personali e fatti sono valide e utilizzabili solo nei rapporti tra privati. Nei rapporti con gli organi della pubblica amministrazione e i gestori di pubblici servizi i certificati e gli atti di notorietà sono sempre sostituiti dalle dichiarazioni di cui agli articoli 46 e 47” e che <<02. Sulle certificazioni da produrre ai soggetti privati è apposta, a pena di nullità, la dicitura: “Il presente certificato non può essere prodotto agli organi della pubblica amministrazione o ai privati gestori di pubblici servizi”>>: sicché, in definitiva, essendo il privato obbligato, e non più (meramente) facultato, a presentare alle PP.AA. le “dichiarazioni di cui agli articoli 46 e 47”, la semplificazione de qua si risolve, in ultima analisi, per un verso, nella (sicura) diminuzione degli adempimenti a carico dell’Amministrazione Pubblica (a fronte dei controlli d’ufficio, “anche a campione”, ai sensi dell’art. 71 del D.P.R. n. 445/2000), e, per altro verso, nell’eccessiva (considerate le conseguenze automatiche derivanti dall’eventuale dichiarazione non veritiera, ex art. 75 del D.P.R. n. 445/2000) autoresponsabilità (“oggettiva”) del privato medesimo.
6. - Pertanto, rispetto ad una disposizione -l’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000-, nel significato in cui essa “vive” nella (costante) applicazione giudiziale, il Collegio non può che sollevare la questione di legittimità costituzionale, tenuto conto, per quanto innanzi esposto, che la stessa appare non superabile in via interpretativa (in ragione, appunto, del “diritto vivente”) e non manifestamente infondata.
7. - Inoltre, l’intervento del Giudice delle Leggi appare assolutamente necessario nella presente controversia, non potendosi prescindere dalla definizione (necessariamente e logicamente pregiudiziale) di tale questione ai fini della decisione del presente giudizio (in cui viene all’esame, per l’appunto, una fattispecie nella quale la Pubblica Amministrazione ha fatto pedissequa ed automatica applicazione della norma in questione, a prescindere da qualsivoglia valutazione in ordine all’entità -minima o meno- dei debiti erariali emersi nel caso concreto), in quanto, nell’ipotesi in cui il citato art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 dovesse essere dichiarato incostituzionale, verrebbe meno l’unico presupposto normativo posto, sostanzialmente (a ben vedere), a fondamento del gravato diniego, nel mentre, in caso contrario, il gravame sarebbe infondato alla stregua delle censure formulate dalla parte ricorrente.
8. -
Il Collegio, in conclusione, ritiene che la questione di legittimità costituzionale, per contrasto con i principi di ragionevolezza, proporzionalità e uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione, dell’art. 75 del D.P.R. 28.12.2000, n. 445, sia rilevante (sussistendo, appunto, il nesso di assoluta pregiudizialità tra la soluzione della prospettata questione di legittimità costituzionale e la decisione del presente giudizio) e non manifestamente infondata, e debba, conseguentemente, essere rimessa all’esame della Corte Costituzionale, mentre il giudizio in corso deve essere sospeso fino alla decisione della Consulta.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce - Sezione Terza, pronunciando sul ricorso indicato in epigrafe, sospende il giudizio e solleva questione di legittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 3 della Costituzione, nei sensi e termini di cui in motivazione, dell’art. 75 del D.P.R. 28.12.2000, n. 445.
Dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale.

URBANISTICA: In sintesi:
   - in mancanza di diversa disposizione, il Piano Particolareggiato deve essere attuato nel termine di 10 anni dalla sua pubblicazione;
   - decorso tale termine, il Piano Particolareggiato diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione, fatti salvi gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal Piano decaduto, che rimangono efficaci a tempo indeterminato e dovranno essere osservati anche in futuro nella costruzioni di nuovi edifici;
   - dalla data di scadenza del Piano Particolareggiato, il Comune ha due anni di tempo per presentare un nuovo Piano Particolareggiato al fine di disciplinare (“assestare”) la parte di piano rimasta inattuata;
   - decorso tale termine, i privati proprietari di aree incluse nei singoli comparti del piano decaduto possono presentare al Comune proposte di formazione di singoli sub-comparti, purché tali proposte non modifichino la destinazione d’uso delle aree pubbliche e rispettinogli stessi rapporti dei parametri urbanistici dello strumento attuativo decaduto;
   - il Comune accoglie le proposte se sussiste l’”interesse improcrastinabile dell'Amministrazione di dotare le aree di infrastrutture e servizi”.
Dal quadro normativo qui sopra delineato discendono alcune considerazioni essenziali ai fini del giudicare; vale a dire:
   - la formazione di sub-comparti può essere approvata dal Comune se sussiste l’”interesse improcrastinabile dell'Amministrazione di dotare le aree di infrastrutture e servizi”;
   - tale interesse può sussistere soltanto nel caso in cui il Piano Particolareggiato abbia già avuto una parziale attuazione prima di decadere per decorso del termine decennale di efficacia, giacché solo in tal caso, in presenza di edificazioni residenziali già in parte realizzate con le connesse opere di urbanizzazione, può sussistere l’”interesse improcrastinabile” dell’Amministrazione a completare le opere di urbanizzazione del comparto edificatorio;
   - per contro, la sussistenza di tale “improcrastinabile” interesse dell’amministrazione di dotare le aree di infrastrutture e servizi può dirsi esclusa nel caso in cui il Piano Particolareggiato non abbia ricevuto avuto alcuna attuazione nel termine decennale di sua efficacia, dal momento che in tal caso è del tutto assente quell’esigenza di completare la realizzazione delle opere di urbanizzazione del comparto che invece contraddistingue l’ipotesi in cui il Piano sia già stato attuato, ma solo in parte;
   - in ogni caso, la valutazione circa l’esistenza di un “interesse improcrastinabile dell'Amministrazione di dotare le aree di infrastrutture e servizi” costituisce oggetto di una valutazione ampiamente discrezionale della P.A., sindacabile da questo giudice solo in presenza di vizi di macroscopica illogicità o irragionevolezza o travisamento del fatto: vizi che nel caso di specie, il collegio non ritiene sussistenti.
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14. Con il primo motivo, i ricorrenti hanno dedotto vizi di violazione dell’art. 17, comma 3, della L. 1150/1942, e di eccesso di potere per sviamento di potere, illogicità, carenza di istruttoria e di motivazione; secondo i ricorrenti:
   - la formazione di sub-comparti costituirebbe, una volta decaduto il Piano Particolareggiato, un’attività doverosa dell’amministrazione comunale, priva di margini di discrezionalità, essendo funzionale al soddisfacimento di un duplice interesse pubblico: l’interesse improcrastinabile di dotare le aree di infrastrutture e servizi (standards urbanistici), e l’interesse all’attuazione delle previsioni del Piano Particolareggiato decaduto, stante l’ultrattività legale delle sue prescrizioni di zona, attraverso l’armonico inserimento di nuovi manufatti residenziali; secondo i ricorrenti, la formazione di subcomparti non sarebbe un atto di pianificazione urbanistica, per sua natura discrezionale, ma una mera riperimetrazione di aree che rimangono assoggettate alle prescrizioni di zona contenute nel Piano Particolareggiato decaduto; in questa fase, l’amministrazione dovrebbe limitarsi a verificare che i richiedenti siano i proprietari delle aree interessate dalla formazione del sub-comparto e che non siano modificate le destinazioni d’uso previste dal Piano Particolareggiato decaduto; solo successivamente, in sede di presentazione dei progetti di edificazione, l’amministrazione sarebbe chiamata a valutare la conformità degli stessi alle prescrizioni urbanistiche del Piano Particolareggiato, alle prescrizioni del Piano paesaggistico e alla caratterizzazione idrogeologica dell’area stessa; nel caso di specie, invece, l’amministrazione ha attribuito all’atto di autorizzazione alla formazione di sub-comparti la natura di strumento urbanistico, per cui si è addentrata irritualmente in una serie di valutazioni di “merito urbanistico” che, al contrario, avrebbero potuto essere svolte soltanto nella fase successiva ed eventuale di valutazione dei futuri progetti di trasformazione urbanistica;
   - in ogni caso, le valutazioni di merito formulate dall’amministrazione comunale nella delibera consiliare impugnata sarebbero illegittime, sotto plurimi profili; in particolare:
      a) il richiamo alla disciplina del Piano Paesaggistico Regionale in itinere sarebbe viziato da perplessità nelle parti in cui l’amministrazione ipotizza che alcune aree potrebbero essere qualificate inedificabili dal Piano Paesaggistico medesimo, e in ogni caso tale valutazione non sembrerebbe riferirsi in alcun modo alle aree di proprietà dei ricorrenti;
      b) l’affermazione secondo cui “la suddivisione del comparto in due sub-comparti non garantisce la realizzazione di tutte le opere di urbanizzazione e delle opere di riassetto del territorio”, sarebbe una mera petizione di principio, e comunque sarebbe illogica dal momento che gli obblighi di realizzazione delle opere di urbanizzazione e di tutela idrogeologica sarebbero destinati a sorgere in capo ai proprietari di ciascun sub-comparto soltanto a seguito dell’approvazione dei rispettivi progetti di edificazione e della stipula delle relative convenzioni accessive;
      c) parimenti illogica sarebbe l’affermazione secondo cui la suddivisione in sub-comparti potrebbe determinare “disparità di trattamento tra aree di proprietari differenti”, dal momento che sarebbe stato compito degli uffici comunali verificare quale sarebbe stata la futura ripartizione degli oneri di urbanizzazione e di difesa idrogeologica spettante ai proprietari delle aree di ciascun sub-comparto; e in ogni caso il consiglio comunale avrebbe potuto tutelare l’interesse pubblico alla completa realizzazione, in futuro, delle opere di urbanizzazione stabilendo sin d’ora un criterio di ripartizione dei costi tra tutti i proprietari di aree comprese nei vari sub-comparti in proporzione all’estensione delle aree medesime; conseguente violazione del principio di proporzionalità; inoltre, vi sarebbe violazione dell’art. 10 della l. n. 241/1990 dal momento che l’amministrazione non avrebbe preso in considerazione l’impegno formale del sig. Ac.Ma. a partecipare agli oneri di urbanizzazione e di difesa delle acque;
      d) l’amministrazione ha ritenuto che non sussista il presupposto di cui all’art. 17, comma 3, L. 1150/1942 dell’interesse improcrastinabile di dotare le aree di infrastrutture e servizi, ma secondo i ricorrenti si tratterebbe di affermazione illogica e contraddittoria, dal momento che proprio la formazione dei sub-comparti creerà i presupposti per la realizzazione delle opere di urbanizzazione;
      e) le asserite ragioni di contrasto tra le istanze presentate dai diversi interessati sarebbero del tutto indeterminate: eventuali sovrapposizioni spaziali tra i vari progetti avrebbero potuto essere ovviate su iniziativa degli uffici comunali attraverso semplici rettifiche dei perimetri;
      f) non vi sarebbe alcuna differenziazione tra l’istanza del solo Ma. e quella presentata da quest’ultimo assieme ad altri; in entrambi i casi sarebbe stata garantita la realizzazione delle opere di urbanizzazione e delle opere di difesa del suolo.
14.1. Il collegio ritiene che l’articolata censura di parte ricorrente non possa essere condivisa.
Giova prendere le mosse dalla disposizione normativa sulla quale ruota l’oggetto del presente giudizio, vale a dire l’art. 17 della L. 17.08.1942 n. 1150.
Tale norma così dispone: “1] Decorso il termine stabilito per la esecuzione del piano particolareggiato questo diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato l'obbligo di osservare nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso.
[2] Ove il comune non provveda a presentare un nuovo piano per il necessario assesto della parte di piano particolareggiato che sia rimasta inattuata per decorso di termine, la compilazione potrà essere disposta dal prefetto a norma del secondo comma dell'art. 14.
[3] Qualora, decorsi due anni dal termine per l'esecuzione del piano particolareggiato, non abbia trovato applicazione il secondo comma, nell'interesse improcrastinabile dell'Amministrazione di dotare le aree di infrastrutture e servizi, il comune, limitatamente all'attuazione anche parziale di comparti o comprensori del piano particolareggiato decaduto, accoglie le proposte di formazione e attuazione di singoli sub-comparti, indipendentemente dalla parte restante del comparto, per iniziativa dei privati che abbiano la titolarità dell'intero sub-comparto, purché non modifichino la destinazione d'uso delle aree pubbliche o fondiarie rispettando gli stessi rapporti dei parametri urbanistici dello strumento attuativo decaduti. I sub-comparti di cui al presente comma non costituiscono variante urbanistica e sono approvati dal consiglio comunale senza l'applicazione delle procedure di cui agli articoli 15 e 16
”.
Tale norma va letta in combinato disposto con l’art. 16, comma 5, della stessa legge, secondo cui “Col decreto di approvazione sono decise le opposizioni e sono fissati il tempo, non maggiore di anni 10, entro il quale il piano particolareggiato dovrà essere attuato ed i termini entro cui dovranno essere compiute le relative espropriazioni”.
14.2. In sintesi:
   - in mancanza di diversa disposizione, il Piano Particolareggiato deve essere attuato nel termine di 10 anni dalla sua pubblicazione;
   - decorso tale termine, il Piano Particolareggiato diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione, fatti salvi gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal Piano decaduto, che rimangono efficaci a tempo indeterminato e dovranno essere osservati anche in futuro nella costruzioni di nuovi edifici;
   - dalla data di scadenza del Piano Particolareggiato, il Comune ha due anni di tempo per presentare un nuovo Piano Particolareggiato al fine di disciplinare (“assestare”) la parte di piano rimasta inattuata;
   - decorso tale termine, i privati proprietari di aree incluse nei singoli comparti del piano decaduto possono presentare al Comune proposte di formazione di singoli sub-comparti, purché tali proposte non modifichino la destinazione d’uso delle aree pubbliche e rispettinogli stessi rapporti dei parametri urbanistici dello strumento attuativo decaduto;
   - il Comune accoglie le proposte se sussiste l’”interesse improcrastinabile dell'Amministrazione di dotare le aree di infrastrutture e servizi”.
14.3. Dal quadro normativo qui sopra delineato discendono alcune considerazioni essenziali ai fini del giudicare; vale a dire:
   - la formazione di sub-comparti può essere approvata dal Comune se sussiste l’”interesse improcrastinabile dell'Amministrazione di dotare le aree di infrastrutture e servizi”;
   - tale interesse può sussistere soltanto nel caso in cui il Piano Particolareggiato abbia già avuto una parziale attuazione prima di decadere per decorso del termine decennale di efficacia, giacché solo in tal caso, in presenza di edificazioni residenziali già in parte realizzate con le connesse opere di urbanizzazione, può sussistere l’”interesse improcrastinabile” dell’Amministrazione a completare le opere di urbanizzazione del comparto edificatorio;
   - per contro, la sussistenza di tale “improcrastinabile” interesse dell’amministrazione di dotare le aree di infrastrutture e servizi può dirsi esclusa nel caso in cui il Piano Particolareggiato non abbia ricevuto avuto alcuna attuazione nel termine decennale di sua efficacia, dal momento che in tal caso è del tutto assente quell’esigenza di completare la realizzazione delle opere di urbanizzazione del comparto che invece contraddistingue l’ipotesi in cui il Piano sia già stato attuato, ma solo in parte;
   - in ogni caso, la valutazione circa l’esistenza di un “interesse improcrastinabile dell'Amministrazione di dotare le aree di infrastrutture e servizi” costituisce oggetto di una valutazione ampiamente discrezionale della P.A., sindacabile da questo giudice solo in presenza di vizi di macroscopica illogicità o irragionevolezza o travisamento del fatto: vizi che nel caso di specie, il collegio non ritiene sussistenti (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 24.10.2018 n. 1153 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Fermo restando che la denuncia anonima non può essere utilizzata a fini probatori, onde in base a essa non possono essere compiuti atti, quali ad esempio le intercettazioni telefoniche, le perquisizioni o i sequestri (ossia atti di indagine che presuppongono l'esistenza di indizi di reato), tuttavia le notizie contenute nella denuncia anonima possono -anzi devono, per effetto del principio dell'obbligatorietà dell'azione penale- costituire spunti per una investigazione di iniziativa del pubblico ministero o della polizia giudiziaria al fine di assumere dati conoscitivi diretti a verificare se dall'anonimo possano ricavarsi gli estremi di una notitia criminis.
Invero, “Una denuncia anonima non può essere posta a fondamento di atti tipici di indagine e, quindi, non è possibile procedere a perquisizioni, sequestri e intercettazioni telefoniche, trattandosi di atti che implicano e presuppongono l’esistenza di indizi di reità. Tuttavia, gli elementi contenuti nelle denunce anonime possono stimolare l’attività di iniziativa del pubblico ministero e della polizia giudiziaria al fine di assumere dati conoscitivi, diretti a verificare se dall’anonimo possano ricavarsi estremi utili per l’individuazione di una notitia criminis”.
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10. Nel merito il ricorso è infondato e va pertanto rigettato, dovendosi disattendere tutte le doglianze articolate.
11. Quanto all’inutilizzabilità dell’esposto anonimo ai fini dell’avvio del procedimento, in applicazione analogica dell’art. 333, comma 3, c.p.p. occorre evidenziare che l’orientamento giurisprudenziale citato in ricorso appare superato da un successivo e maggiormente condivisibile orientamento giurisprudenziale affermatosi nella giurisprudenza penale.
11.1. In particolare deve osservarsi che nella prevalente impostazione ermeneutica l’apporto conoscitivo dell’esposto anonimo è limitato nell'ambito della c.d. pre-inchiesta, ossia nella fase in cui gli organi investiganti ricercano elementi utili per l'individuazione della notizia di reato e che si caratterizza, da un lato (sotto il profilo procedurale) per l'atipicità e l'informalità delle attività svolte sia dal pubblico ministero, che dalla polizia giudiziaria; dall'altro (sotto il profilo cronologico) per la collocazione in un momento antecedente all'avvio delle indagini preliminari.
Infatti, secondo una consolidata giurisprudenza del giudice penale (ex multis, Cass. pen., Sez. V, 28.10.2008, n. 4329, Sez. VI, 21.09.2006, n. 36003), fermo restando che la denuncia anonima non può essere utilizzata a fini probatori, onde in base a essa non possono essere compiuti atti, quali ad esempio le intercettazioni telefoniche, le perquisizioni o i sequestri (ossia atti di indagine che presuppongono l'esistenza di indizi di reato), tuttavia le notizie contenute nella denuncia anonima possono -anzi devono, per effetto del principio dell'obbligatorietà dell'azione penale- costituire spunti per una investigazione di iniziativa del pubblico ministero o della polizia giudiziaria al fine di assumere dati conoscitivi diretti a verificare se dall'anonimo possano ricavarsi gli estremi di una notitia criminis.
Del resto -sebbene facendo leva sul tenore letterale degli articoli 240, comma 1, e 333, comma 3, cod. proc. pen. le disposizioni ivi contenute si prestino essere interpretate nel senso di escludere che l'esposto anonimo non consenta l'avvio di alcun tipo di accertamento- tuttavia tale interpretazione è smentita dall'art. 330 cod. proc. pen., che permette alla polizia giudiziaria ed al pubblico ministero di formare autonomamente la notizia di reato, accedendo a fonti d'informazione c.d. spurie, tra le quali si inserisce anche l'esposto anonimo.
Inoltre la prevalente impostazione ermeneutica trova conferma nell'art. 5 del D.M. 30.09.1989 (recante il "Regolamento per l'esecuzione del codice di procedura penale"), ove si prevede che:
   a) "le denunce e gli altri documenti anonimi che non possono essere utilizzati nel procedimento sono annotati in apposito registro suddiviso per anni, nel quale sono iscritti la data in cui il documento è pervenuto e il relativo oggetto";
   b) il predetto registro (c.d. modello 46) ed i documenti anonimi sono "custoditi presso la procura della Repubblica con modalità tali da assicurarne la riservatezza" (comma 2);
   c) "decorsi cinque anni da quando i documenti indicati nel comma 1 sono pervenuti alla procura della Repubblica, i documenti stessi e il registro sono distrutti con provvedimento adottato annualmente dal procuratore della Repubblica".
Ciò posto, come chiarito anche di recente dalla Suprema Corte “Una denuncia anonima non può essere posta a fondamento di atti tipici di indagine e, quindi, non è possibile procedere a perquisizioni, sequestri e intercettazioni telefoniche, trattandosi di atti che implicano e presuppongono l’esistenza di indizi di reità. Tuttavia, gli elementi contenuti nelle denunce anonime possono stimolare l’attività di iniziativa del pubblico ministero e della polizia giudiziaria al fine di assumere dati conoscitivi, diretti a verificare se dall’anonimo possano ricavarsi estremi utili per l’individuazione di una notitia criminis” (Cass. pen., sez. VI, 22.04.2016 che ha pertanto ammesso l’utilizzabilità dell’anonimo esclusivamente come “mero atto di impulso investigativo per verificare l’esistenza di una notitia criminis”).
11.2. Si evidenzia al riguardo che nell’ipotesi di specie l’esposto anonimo è stato solo il sollecito sulla cui base si è condotta un’attività accertativa d’ufficio concretizzatasi, a seguito di apposito sopralluogo, nel rapporto fascicolo 23315 del 25/09/1996 richiamato nel provvedimento gravato, con cui si è constata ad opera del Corpo dei Vigili Urbani, Comando del XX Gruppo Circ.le, la realizzazione dei cancelli di cui è causa -laddove per contro con l’esposto anonimo si era lamentata l’istallazione abusiva di un unico cancello- per cui l’Unita organizzativa tecnica della circoscrizione XX del Comune di Roma ha qualificato le opere de quibus come opere eseguite in assenza di D.I.A. e suscettibili pertanto di essere sanzionate ai sensi dell’art. 60, comma 2, l. 662/1996.
Da ciò l’infondatezza della doglianza al riguardo formulata.
12. Ciò posto, senza dubbio destituita di fondamento è anche la censura fondata sull’asserita contraddittorietà fra l’esposto anonimo e le risultanza del sopralluogo, in quanto, come detto, l’esposto anonimo è stato solo l’impulso al fine di accertare d’ufficio la presenza di abusi edilizi, per cui valore probatorio deve assegnarsi unicamente alle risultanze del sopralluogo, peraltro eseguito da soggetti qualificabili quali pubblici ufficiali; da ciò il valore di fede privilegiata, ovvero sino a querela di falso ex art. 2700 c.c. da assegnarsi alle predette risultanze (cfr., in tali senso, Cons. Stato, sez. quinta, sentenza 03.11.2010, n. 7770; 28.01.1998, n. 103; sezione prima, 08.01.2010, n. 250 e cfr. anche, per il principio, Tar Campania, sesta sezione, n. 760 del 06.02. 2013; 11.12.2012, n. 5084, 21.06.2012, n. 2944; 02.05.2012, n. 2006, 02.05.2012, n. 2006, 05.06.2012, n. 2635 e n. 2644; 30.03.2011, n. 1856; sezione terza, 20.11.2012, n. 4638; sezione quarta, 03.01.2013, n. 59) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 23.10.2018 n. 10268 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per pacifica giurisprudenza l’applicazione delle sanzioni in materia edilizia è un atto tipicamente vincolato.
Presupposto per la loro adozione è pertanto soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tali sanzioni atti dovuti, esse sono sufficientemente motivate con l’accertamento dell’abuso, e non necessitano di una particolare motivazione in ordine all’interesse pubblico che è in re ipsa.
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Per costante giurisprudenza in materia, l'onere di fornire la prova dell'epoca di realizzazione di un abuso edilizio e della sua sanabilità incombe sull'interessato, e non sull'Amministrazione, la quale, in presenza di un'opera edilizia non assistita da un titolo che la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge.
Si è dunque affermato in giurisprudenza il principio che la prova circa l'epoca di realizzazione delle opere edilizie e la relativa consistenza è nella disponibilità dell'interessato, e non dell'Amministrazione, dato che solo l'interessato può fornire gli inconfutabili atti, documenti o gli elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell'addotta sanabilità del manufatto che, nel caso della doppia conformità, necessita della previa verifica dell'epoca di realizzazione delle opere, stante la necessità di poterne accertare la conformità sia con riferimento all'epoca di realizzazione, che alla data della domanda.
Detto principio ben può essere applicato non solo nell’ipotesi in cui la data di realizzazione degli interventi edilizi eseguiti sine titulo sia rilevante per la loro sanabilità, ma anche allorquando, come nella specie, la stessa sia rilevante per lo stesso accertamento della necessità del titolo edilizio, dovendosi in ogni caso fare applicazione del principio processualcivilistico in base al quale la ripartizione dell’onere della prova va effettuata secondo il principio della vicinanza della prova.
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Non avendo parte ricorrente offerto prova, parimenti destituita di fondamento è la censura riferita alla non applicabilità della predetta sanzione alle ricorrenti, in qualità di proprietari dell’immobile in cui sarebbero state da altri realizzate le opere edili di cui è causa, in quanto a seguito dell’entrata in vigore della l. 47/1985 si è andato per contro affermando il principio secondo il quale a norma dell’att. 6 l. n. 47 del 1985 sussiste a carico del proprietario dell'immobile una presunzione semplice di responsabilità per gli abusi edilizi accertati, sicché l'interessato può sottrarsi a tale responsabilità dimostrando la sua estraneità all'abuso commesso da altri .
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E' destituita di fondamento la censura riferita all’illegittimità della sanzione demolitoria, stante il lasso di tempo trascorso fra l’avvio dell’istruttoria e l’irrogazione della sanzione, dovendosi applicare il principio giurisprudenziale secondo il quale “Il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell'abuso neanche nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell'abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell'onere di ripristino”, principio questo applicabile in riferimento a tutte le sanzioni in materia edilizia e non solamente in riferimento all’ordine di demolizione, ricorrendo il medesimo presupposto della natura vincolata del potere esercitato.
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14. Parimenti infondate sono le ulteriori censure, riferite al difetto di motivazione e di istruttoria in relazione alla sussistenza dei presupposti per l’applicazione della sanzione di cui è causa.
Si evidenzia al riguardo che per pacifica giurisprudenza l’applicazione delle sanzioni in materia edilizia è un atto tipicamente vincolato.
Presupposto per la loro adozione è pertanto soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tali sanzioni atti dovuti, esse sono sufficientemente motivate con l’accertamento dell’abuso, e non necessitano di una particolare motivazione in ordine all’interesse pubblico che è in re ipsa (ex multis, TAR Campania Napoli, Sez. IV, 28.12.2009, n. 9638; Sez. VI, 09.11.2009, n. 7077; Sez. VII, 04.12.2008 , n. 20987).
Ed invero nell’ipotesi di specie, avendo l’Amministrazione comunale accertato la realizzazione delle opere de quibus in assenza della prescritta D.I.A., alcun altro accertamento doveva essere condotto dalla medesima, incombendo su parte ricorrente, cui era stata ritualmente inviata la comunicazione di avvio del procedimento, la prova della loro realizzazione in data antecedente l’entrata in vigore della L. 47/1985, onde ritenere che le stesse fossero sottratte non solo al regime della D.I.A., ma anche a quello dell’autorizzazione, laddove detto onere non è stato assolto non solo in sede procedimentale –non risultando che parte ricorrente abbia prodotto in quella sede memorie scritte e documenti, per cui si palesa infondata la dedotta violazione dell’art. 10 l. 241/1990– ma neanche nella presente sede.
Infatti per costante giurisprudenza in materia (ex multis TAR Campania Napoli, sez. VI, 17/09/2015, n. 4565 Cons. St., sez. IV, 14.02.2012 n. 703; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 02.07.2010 n. 16569; Cons. St., sez. IV, 10.01.2014 n. 46; Cons. St., sez. III, 13.09.2013 n. 4546; Cons. St., sez. VI, 20.12.2013 n. 6159, Cons. St., sez. V, 20.08.2013 n. 4182; Cons. St., sez. VI, 01.02.2013 n. 631) l'onere di fornire la prova dell'epoca di realizzazione di un abuso edilizio e della sua sanabilità incombe sull'interessato, e non sull'Amministrazione, la quale, in presenza di un'opera edilizia non assistita da un titolo che la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge.
Si è dunque affermato in giurisprudenza il principio che la prova circa l'epoca di realizzazione delle opere edilizie e la relativa consistenza è nella disponibilità dell'interessato, e non dell'Amministrazione, dato che solo l'interessato può fornire gli inconfutabili atti, documenti o gli elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell'addotta sanabilità del manufatto che, nel caso della doppia conformità, necessita della previa verifica dell'epoca di realizzazione delle opere, stante la necessità di poterne accertare la conformità sia con riferimento all'epoca di realizzazione, che alla data della domanda.
Detto principio ben può essere applicato non solo nell’ipotesi in cui la data di realizzazione degli interventi edilizi eseguiti sine titulo sia rilevante per la loro sanabilità, ma anche allorquando, come nella specie, la stessa sia rilevante per lo stesso accertamento della necessità del titolo edilizio, dovendosi in ogni caso fare applicazione del principio processualcivilistico in base al quale la ripartizione dell’onere della prova va effettuata secondo il principio della vicinanza della prova (cfr. per tutte Cassazione S.U. 30.10.2001 sentenza n. 13533).
Nell’ipotesi di specie per contro alcuna prova è stata al riguardo fornita, non potendosi annettere valore di prova in tale senso all’impegno contrattuale assunto dalla società Ac.Im.80 circa l’istallazione dei cancelli entro il mese di Maggio 1984, non essendovi alcuna prova in atti che in effetti i cancelli siano stati apposti entro la suddetta data e comunque in data anteriore all’entrata in vigore della L. 47/1985.
14.1. Non avendo parte ricorrente offerto siffatta prova, parimenti destituita di fondamento è la censura riferita alla non applicabilità della predetta sanzione alle ricorrenti, in qualità di proprietari dell’immobile in cui sarebbero state da altri realizzate le opere edili di cui è causa, in quanto a seguito dell’entrata in vigore della l. 47/1985 si è andato per contro affermando il principio secondo il quale a norma dell’att. 6 l. n. 47 del 1985 sussiste a carico del proprietario dell'immobile una presunzione semplice di responsabilità per gli abusi edilizi accertati, sicché l'interessato può sottrarsi a tale responsabilità dimostrando la sua estraneità all'abuso commesso da altri (ex multis TAR Sicilia Palermo Sez. II, 04.07.2014, n. 1744); per contro detta estraneità non può affermarsi nell’ipotesi di specie, in quanto le opere de quibus, anche se realizzate dalla società Ac.Im.80, erano state eseguite per conto ed in favore dei coniugi Fa., come da impegno contrattuale al riguardo intervenuto, con la conseguenza che alcun esonero di responsabilità può farsi valere nell’odierna sede, salva la possibilità di rivalsa in sede civile per inesatto inadempimento dell’obbligazione assunta dalla società Ac.Im.80.
15. Parimenti destituita di fondamento è la censura riferita all’illegittimità della sanzione applicata, stante il lasso di tempo trascorso fra l’avvio dell’istruttoria e l’irrogazione della sanzione, dovendosi applicare il principio giurisprudenziale, di recente ribadito con sentenza dell’Adunanza Plenaria 17/10/2017, n. 9 secondo il quale “Il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell'abuso neanche nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell'abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell'onere di ripristino”, principio questo applicabile in riferimento a tutte le sanzioni in materia edilizia e non solamente in riferimento all’ordine di demolizione, ricorrendo il medesimo presupposto della natura vincolata del potere esercitato (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 23.10.2018 n. 10268 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Circa il diniego dell'istanza di autorizzazione, ai sensi dell’art. 53, comma 7, del d.lgs. n. 165/2001, allo svolgimento al di fuori dell’orario di lavoro dell’attività di imprenditore agricolo, la questione deve essere risolta nel senso della declaratoria del difetto di giurisdizione di questo G.A., in base all’art. 63, comma 1, del d.lgs. n. 165/2001, avendo gli atti impugnati natura, indiscutibilmente, di atti di gestione del rapporto di lavoro del dipendente pubblico (che è ricompreso nel cd. pubblico impiego contrattualizzato) ed essendo, perciò, la loro cognizione devoluta al G.O..
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Considerato che con il ricorso in epigrafe il sig. Ca.Be. –dipendente del Comune di Grisignano del Zocco (VI) assunto a tempo indeterminato nel 2003 con qualifica di “operaio specializzato”, cat. giur. B3, cat. econ. B4– ha impugnato i seguenti atti:
   - la nota del Sindaco di Grisignano di Zocco prot. n. 3571 del 20.04.2018, a mezzo della quale è stata respinta la richiesta del medesimo sig. Be. di essere autorizzato, ai sensi dell’art. 53, comma 7, del d.lgs. n. 165/2001, allo svolgimento al di fuori dell’orario di lavoro dell’attività di imprenditore agricolo;
   - la nota a firma del responsabile dell’Area Tecnica del Comune di Grisignano di Zocco prot. n. 2264 del 07.03.2018, richiamata dalla nota di cui al punto precedente;
Considerato che il ricorrente ha chiesto l’annullamento, previa sospensione dell’esecuzione, degli atti impugnati, per i dedotti motivi di legittimità;
Considerato che si è costituito in giudizio il Comune di Grisignano del Zocco, eccependo, in rito, il difetto di giurisdizione dell’adito G.A. e, nel merito, l’infondatezza del ricorso;
Considerato che in esito alla Camera di consiglio del 17.10.2018 –dato avviso alle parti costituite circa la possibilità della definizione del giudizio con sentenza cd. semplificata, previa conversione del rito, ai sensi degli artt. 60 e 74 c.p.a., e dopo sintetica discussione–, la causa è stata trattenuta in decisione;
Considerato che il Collegio deve preliminarmente scrutinare la questione di giurisdizione, sollevata dalla difesa comunale, atteso che, per giurisprudenza consolidata (cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. V, 12.11.2013, n. 5421; TAR Veneto, Sez. I, 06.12.2017, n. 1103; id., 15.11.2017, n. 1028; id., 20.09.2016, n. 1044), l’analisi della questione di giurisdizione assume carattere prioritario rispetto ad ogni altra, giacché il difetto di giurisdizione del giudice adito lo priva del potere di esaminare qualsiasi profilo della controversia, in rito e nel merito. Ed invero, il potere del giudice adito di definire la controversia sottoposta al suo esame postula che su di essa egli sia munito della potestas iudicandi, la quale è un imprescindibile presupposto processuale della sua determinazione (v. C.d.S., Sez. V, 05.12.2013, n. 5786; TAR Veneto, Sez. I, n. 1103/2017, cit.; id., 02.02.2017, n. 117);
Ritenuto che la questione debba essere risolta nel senso della declaratoria del difetto di giurisdizione di questo G.A., in base all’art. 63, comma 1, del d.lgs. n. 165/2001, avendo gli atti impugnati natura, indiscutibilmente, di atti di gestione del rapporto di lavoro del sig. Be. (che è ricompreso nel cd. pubblico impiego contrattualizzato) ed essendo, perciò, la loro cognizione devoluta al G.O. (cfr., ex multis, TAR Molise, Sez. I, 21.12.2016, n. 535);
Considerato, invero, che in base al chiaro dettato dell’art. 63, comma 1, del d.lgs. n. 165/2001, non è in alcun modo possibile condividere l’assunto del ricorrente, espresso anche nella discussione della domanda cautelare, circa la pretesa natura di provvedimenti amministrativi da attribuire alle note del Comune oggetto di impugnazione;
Ritenuto, quindi, in ragione di ciò che si è detto, che sussistano le condizioni per la pronuncia di una sentenza in forma cd. semplificata ex artt. 60 e 74 c.p.a., sentite sul punto le parti costituite, essendo il ricorso manifestamente inammissibile per il difetto di questo giudice amministrativo a conoscere della controversia instaurata con il medesimo;
Ritenuto, inoltre, –ai sensi e per gli effetti dell’art. 11 c.p.a.– di dover indicare il giudice ordinario quale giudice nazionale provvisto di giurisdizione per la suindicata controversia, davanti al quale il processo potrà essere riproposto nel termine perentorio previsto dal comma 2 del medesimo art. 11, con salvezza degli effetti processuali e sostanziali della domanda, ferme restando le preclusioni e le decadenze già intervenute;
Ritenuto, da ultimo, di dover liquidare le spese secondo il criterio della soccombenza, nella misura di cui al dispositivo
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto – Sezione Prima (I^), così definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, dichiara l’inammissibilità del medesimo per difetto di giurisdizione dell’adito giudice amministrativo.
Ai sensi dell’art. 11, commi 1 e 2, c.p.a. indica, quale giudice nazionale provvisto di giurisdizione sulla controversia in esame, il giudice ordinario, davanti al quale il processo potrà essere riproposto nel termine perentorio previsto dal succitato art. 11, comma 2, con salvezza degli effetti processuali e sostanziali della domanda, ferme restando le preclusioni e le decadenze già intervenute (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 23.10.2018 n. 982 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La giurisprudenza amministrativa ha riconosciuto la possibilità di applicare in modo attenuata il tendenziale divieto di commistione tra le caratteristiche oggettive della offerta e i requisiti soggettivi della impresa concorrente, alla duplice condizione:
   a) che taluni aspetti dell’attività dell’impresa possano effettivamente ‘illuminare’ la qualità della offerta e
   b) che lo specifico punteggio assegnato, ai fini dell'aggiudicazione, per attività analoghe a quella oggetto dell'appalto, non incida in maniera rilevante sulla determinazione del punteggio complessivo.

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4. In via subordinata rispetto all’accoglimento del primo motivo il RTI appellante ha censurato l’illegittimità dell’intera procedura di gara, la quale risulterebbe irrimediabilmente viziata a causa dell’indebita commistione fra requisiti soggettivi del concorrente e requisiti oggettivi dell’offerta risultante dalla lex specialis.
In particolare, sulla base del criterio di gara dinanzi descritto sub 2.1 sarebbe accaduto che l’indice PSF illegittimamente assumesse la duplice valenza:
   i) di requisito soggettivo per la partecipazione del singolo concorrente (nel caso di PSF di valore inferiore a 18) e
   ii) di elemento di valutazione dell’offerta (nel caso di PSF di valore superiore a 18, il quale assurgeva ad elemento di valutazione dell’offerta tecnica).
4.1. Il motivo è infondato.
4.1.1. E’ vero che, in base a un consolidato orientamento, costituisce principio generale regolatore delle gare pubbliche quello che vieta la commistione fra i criteri soggettivi di qualificazione e quelli oggettivi afferenti alla valutazione dell'offerta (in tal senso –ex multis -: Cons. Stato III, sent. 18.06.2012, n. 3550).
E’ altresì vero che, nel caso in esame, la fissazione di una diversa soglia di punteggio relativa a un determinato elemento di valutazione (il più volte richiamato indice PSF), così come la fissazione di una soglia di punteggio minima non si atteggiava ad elemento di qualificazione dei concorrenti, ma esprimeva soltanto l’esigenza della stazione appaltante di poter disporre di concorrenti idonei ad assicurare un livello minimo di qualità tecnica.
Si tratta di un criterio valutativo del tutto conforme alla previsione del comma 8 dell’articolo 83 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 (‘Codice dei contratti pubblici’), secondo cui le stazioni appaltanti possono indicare “livelli minimi di capacità” (evidentemente intesi quali forme di barrage condizionanti la stessa partecipazione alle gare) e, allo stesso tempo, procedere “[alla] verifica formale e sostanziale delle capacità realizzative [e] delle competenze tecniche e professionali” (intesa evidentemente in senso gradualistico e parametrico, con possibilità di modulare la valutazione in ragione del diverso grado di capacità riscontrato).
4.1.2. Del resto, la possibilità per le stazioni appaltanti di individuare “livelli minimi di capacità” idonei a condizionare la stessa partecipazione (ma non ad escludere la possibilità di utilizzare i medesimi parametri anche ai fini valutativi) è stata ammessa dal paragrafo 5 dell’articolo 58 della c.d. ‘Direttiva appalti’ n. 2014/24/UE.
4.1.3. Si osserva inoltre che la giurisprudenza amministrativa ha riconosciuto la possibilità di applicare in modo attenuata il tendenziale divieto di commistione tra le caratteristiche oggettive della offerta e i requisiti soggettivi della impresa concorrente, alla duplice condizione a) che taluni aspetti dell’attività dell’impresa possano effettivamente ‘illuminare’ la qualità della offerta e b) che lo specifico punteggio assegnato, ai fini dell'aggiudicazione, per attività analoghe a quella oggetto dell'appalto, non incida in maniera rilevante sulla determinazione del punteggio complessivo (in tal senso: Cons. Stato, V, 03.10.2012, n. 5197).
Si tratta di condizioni che sussistono nel caso in esame, atteso che:
   i) agli aspetti tecnici sottesi alla formulazione dell’indice PSF veniva riconosciuta notevole importanza ai fini della valutazione economico-finanziaria del singolo concorrente;
   ii) il punteggio del PSF non era riconosciuto soltanto in relazione alle pregresse esperienze professionali (atteggiandosi nella sostanza a requisito esperienziale) ma era connesso a ulteriori e diversi parametri (quali la liquidità corrente, l’autonomia finanziaria e l’indebitamento bancario) svincolati dalla mera esperienza pregressa del concorrente.
4.2. Anche il secondo motivo di appello deve dunque essere respinto
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.10.2018 n. 6026 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Offerta economicamente più vantaggiosa, Consiglio di Stato: le Linee guida Anac n. 2 non sono vincolanti.
Tali Linee guida non sono idonee a rappresentare parametro di legittimità delle determinazioni adottate dalle singole stazioni appaltanti nella fissazione delle regole di gara.
In merito all'eventuale discrasia fra la legge di gara e le prescrizioni di cui alle linee guida dell’ANAC n. 2 del 21.09.2016 (in tema di ‘Offerta economicamente più vantaggiosa’), deve osservarsi che “trattandosi pacificamente di linee guida ‘non vincolanti’ (le quali traggono la propria fonte di legittimazione nella generale previsione di cui al comma 2 dell’articolo 213 del nuovo ‘Codice dei contratti’), esse non risultano idonee a rappresentare parametro di legittimità delle determinazioni adottate dalle singole stazioni appaltanti nella fissazione delle regole di gara”.
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5. Con il terzo motivo di appello (reiterativo di analogo motivo già articolato in primo grado e respinto dal TAR) la Si. lamenta che illegittimamente la stazione appaltante, nel delineare le regole di attribuzione dei 70 punti relativi alla componente tecnica dell’offerta, si sarebbe soffermata in modo pressoché esclusivo sulle componenti tecniche ed organizzative delle concorrenti ed avrebbe trascurato qualunque riferimento agli aspetti tecnici dell’offerta concretamente ricollegati alle caratteristiche dell’appalto.
5.1. Il motivo è infondato.
5.1.1. Va in primo luogo osservato che non può essere accolto il motivo con cui si è lamentata in parte qua la discrasia fra la legge di gara e le prescrizioni di cui alle linee guida dell’ANAC n. 2 del 21.09.2016 (in tema di ‘Offerta economicamente più vantaggiosa’).
Al riguardo ci si limita ad osservare che, trattandosi pacificamente di linee guida ‘non vincolanti’ (le quali traggono la propria fonte di legittimazione nella generale previsione di cui al comma 2 dell’articolo 213 del nuovo ‘Codice dei contratti’), esse non risultano idonee a rappresentare parametro di legittimità delle determinazioni adottate dalle singole stazioni appaltanti nella fissazione delle regole di gara.
Il testo in questione, quindi, lungi dal fissare regole di carattere prescrittivo, si atteggia soltanto quale strumento di “regolazione flessibile”, in quanto tale volto all’incremento “dell’efficienza, della qualità dell’attività delle stazioni appaltanti”.
Il testo in parola risulta ricognitivo di princìpi di carattere generale, ivi compreso quello della lata discrezionalità che caratterizza le scelte dell’amministrazione in punto di individuazione degli elementi di valutazione delle offerte.
Sulla base di orientamenti più che consolidati, tuttavia, deve affermarsi che tali scelte non possano essere censurate in giudizio se non in caso di palesi profili di irragionevolezza e abnormità (nel caso di specie non ravvisabili).
Ebbene, a fronte di lavorazioni non caratterizzate da altissimo contenuto tecnico e da una certa ripetitività (quali le manutenzioni sui fabbricati ferroviari non interferenti con l’esercizio ferroviario e la conduzione e manutenzione di impianti di riscaldamento) non appare irragionevole la scelta della stazione appaltante di delineare indicatori di valutazione fondati essenzialmente sulla valutazione della struttura di impresa, sull’organizzazione del personale e sull’organizzazione tecnica del singolo concorrente.
Non può del resto essere condivisa la tesi dell’appellante secondo cui i parametri di valutazione in tal modo delineati non avrebbero in alcun modo consentito di tenere conto dei profili tecnici dell’offerta e delle caratteristiche dei beni e dei servizi offerti.
Lo svolgimento dei lavori e dei servizi messi a gara non richiedeva una complessa attività di progettazione, ma soltanto una adeguata organizzazione delle lavorazioni e dei servizi posti a fondamento della lex specialis. Conseguentemente può risultare opinabile –ma non certamente abnorme– la scelta della stazione appaltante di valorizzare, ai fini valutativi, gli elementi relativi all’organizzazione del personale e all’organizzazione tecnica.
5.2. Anche il terzo motivo di appello deve quindi essere escluso (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.10.2018 n. 6026 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO ACUSTICO - Rumore e rilevanza penale delle grida - Disturbato delle occupazioni e del riposo delle persone mediante schiamazzi - Oggetto della tutela penale dell'art. 659 cod. pen. - Tranquillità pubblica - Natura di reato di pericolo - Fattispecie: affaccio di notte alla finestra urlando e fischiando per richiamare i cani con il fine di farli smettere.
L'oggetto della tutela penale dell'art. 659 cod. pen., è dato dall'interesse dello Stato alla salvaguardia dell'ordine pubblico, considerato nel particolare aspetto della tranquillità pubblica, consistente in quella condizione psicologica collettiva, inerente all'assenza di perturbamento e di molestia nel corpo sociale. Il bene giuridico protetto viene offeso dal disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, cagionato mediante rumori, e cioè da suoni intensi e prolungati, di qualunque specie e natura, atti a determinare il turbamento della tranquillità pubblica, o da schiamazzi (la giurisprudenza ha sempre definito gli schiamazzi delle grida scomposte e clamorose, Cfr. Cass. Sez. 6, n. 1789 del 11/10/1969, Bonazza).
La rilevanza penale delle grida, in particolare di quelle notturne, integra il reato di disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone di cui all'art. 659, comma 1, cod. pen. (Cass. Sez. 1, n. 13000 del 18/02/2009, Staltari, soggetto che per più giorni, si dia a schiamazzi e grida notturne, alla guida di una autovettura i cui pneumatici faccia reiteratamente stridere, percorrendo in un senso e in quello opposto le strade di un centro abitato).
Va ribadito, che la contravvenzione ex art. 659 cod. pen. è un reato di pericolo e che la valutazione circa l'entità del fenomeno rumoroso deve essere d'altro canto compiuta in rapporto alla media sensibilità del gruppo sociale in cui il fenomeno rumoroso si verifica, considerate le circostanze di luogo e tempo della azione.

INQUINAMENTO ACUSTICO - Disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone - Prova del reato di cui all'articolo 659 cod. pen. - Testimoni o qualsiasi altro mezzo idoneo - Superamento della normale tollerabilità - Apprezzamento del giudice di merito.
La prova del reato di cui all'articolo 659 cod. pen. può essere fornita anche mediante la prova per testimoni (Cass. Sez. 3, n. 11031 del 05/02/2015, Montoli, che ha affermato, in tema di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, che l'effettiva idoneità delle emissioni sonore ad arrecare pregiudizio ad un numero indeterminato di persone costituisce un accertamento di fatto rimesso all'apprezzamento del giudice di merito, il quale non è tenuto a basarsi esclusivamente sull'espletamento di specifiche indagini tecniche, ben potendo fondare il proprio convincimento su altri elementi probatori in grado di dimostrare la sussistenza di un fenomeno in grado di arrecare oggettivamente disturbo della pubblica quiete).
Nel caso esaminato, l'intensità delle emissioni sonore è stata ricostruita mediante la deposizione dei testimoni, i quali avevano riferito di non riuscire a seguire i programmi televisivi. Sono pertanto irrilevanti le critiche rivolte alla motivazione della sentenza con le quali la difesa ha richiesto l'espletamento di una prova tecnica scientifica per la valutazione della sussistenza della condotta e del superamento della normale tollerabilità.

DANNO AMBIENTALE - Risarcimento del danno risarcibile non rinvenibile da componenti patrimoniali suscettibili di precisa determinazione - Ricorso del giudice a criteri equitativi - Legittimità.
In tema di risarcimento di danni, è legittimo il ricorso del giudice a criteri equitativi nella quantificazione del danno risarcibile ove in esso non siano rinvenibili componenti patrimoniali suscettibili di precisa determinazione (Cass. Sez. 5, n. 43053 del 30/09/2010, Arena) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.10.2018 n. 47719 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: In linea di diritto, l'onere della prova dell'ultimazione entro una certa data di un'opera edilizia abusiva, allo scopo di dimostrare che essa rientra fra quelle per le quali si può ottenere una sanatoria speciale ovvero fra quelle per cui non era richiesto un titolo ratione temporis, incombe sul privato a ciò interessato, unico soggetto ad essere nella disponibilità di documenti e di elementi di prova, in grado di dimostrare con ragionevole certezza l'epoca di realizzazione del manufatto.
Analogamente va richiamata la predominante giurisprudenza che pone in capo al proprietario (o al responsabile dell'abuso) assoggettato a ingiunzione di demolizione l'onere di provare il carattere risalente del manufatto della cui demolizione si tratta con riferimento a epoca anteriore alla c. d. legge "ponte" n. 761 del 1967, con la quale l'obbligo di previa licenza edilizia venne esteso alle costruzioni realizzate al di fuori del perimetro del centro urbano (come accade nel caso in esame, a detta dei ricorrenti, trovandosi l'immobile al di fuori del "perimetro urbano").
Tuttavia, questa stessa prevalente opinione giurisprudenziale ammette un temperamento secondo ragionevolezza nel caso in cui, il privato da un lato porti a sostegno della propria tesi sulla realizzazione dell'intervento prima del 1967 elementi non implausibili (aerofotogrammetrie, dichiarazioni sostitutive di edificazione ante 01.09.1967) e, dall'altro, il Comune fornisca elementi incerti in ordine alla presumibile data della realizzazione del manufatto privo di titolo edilizio, o con variazioni essenziali.
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Nelle controversie in materia edilizia, soggette alla giurisdizione del giudice amministrativo, i principi di prova oggettivi concernenti la collocazione dei manufatti tanto nello spazio, quanto nel tempo, si rinvengono nei ruderi, fondamenta, aerofotogrammetrie, mappe catastali, laddove la prova per testimoni è del tutto residuale.
Data la premessa, da essa discende che la prova dell'epoca di realizzazione si desume da dati oggettivi, che resistono a quelli risultanti dagli estratti catastali ovvero alla prova testimoniale ed è onere del privato, che contesti il dato dell'Amministrazione, fornire prova rigorosa della diversa epoca di realizzazione dell'immobile, superando quella fornita dalla parte pubblica.
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4. Le considerazioni di cui alla sentenza appellata non sono condivisibili e l’appello è fondato.
4.1 In linea di diritto, l'onere della prova dell'ultimazione entro una certa data di un'opera edilizia abusiva, allo scopo di dimostrare che essa rientra fra quelle per le quali si può ottenere una sanatoria speciale ovvero fra quelle per cui non era richiesto un titolo ratione temporis, incombe sul privato a ciò interessato, unico soggetto ad essere nella disponibilità di documenti e di elementi di prova, in grado di dimostrare con ragionevole certezza l'epoca di realizzazione del manufatto (cfr. ad es. Consiglio di Stato sez. VI 05.03.2018 n. 1391).
Analogamente va richiamata la predominante -e qui condivisa, in linea di principio- giurisprudenza che pone in capo al proprietario (o al responsabile dell'abuso) assoggettato a ingiunzione di demolizione l'onere di provare il carattere risalente del manufatto della cui demolizione si tratta con riferimento a epoca anteriore alla c. d. legge "ponte" n. 761 del 1967, con la quale l'obbligo di previa licenza edilizia venne esteso alle costruzioni realizzate al di fuori del perimetro del centro urbano (come accade nel caso in esame, a detta dei ricorrenti, trovandosi l'immobile al di fuori del "perimetro urbano").
Tuttavia, questa stessa, prevalente opinione giurisprudenziale (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI, 18.07.2016, n. 3177) ammette un temperamento secondo ragionevolezza nel caso in cui, il privato da un lato porti a sostegno della propria tesi sulla realizzazione dell'intervento prima del 1967 elementi non implausibili (aerofotogrammetrie, dichiarazioni sostitutive di edificazione ante 01.09.1967) e, dall'altro, il Comune fornisca elementi incerti in ordine alla presumibile data della realizzazione del manufatto privo di titolo edilizio, o con variazioni essenziali (sembrerebbe essere questa la fattispecie per la quale è causa, in cui lo stesso Comune alla fine dà atto dell’esistenza di una tettoia o comunque di un manufatto poi consolidato, pur entro una situazione in punto di fatto non del tutto perspicua e caratterizzata da elementi documentali non sempre univoci e sicuri, che dovrà costituire oggetto di approfondimento istruttorio nella naturale sede procedimentale).
4.2 Sulla scorta di tali linee direttrici la fattispecie in esame appare connotata da elementi ben diversi rispetto a quanto rilevato dal Tar con la sentenza, resa in forma semplificata, qui appellata.
Dall’analisi della documentazione versata in atti emerge, infatti, come gli elementi prodotti da parte odierna appellante non si siano limitati alle richiamate dichiarazioni.
In particolare, emergono i seguenti elementi.
4.2.1 In primo luogo le risultanze degli atti pubblici di compravendita degli immobili interessati. In particolare, già il contratto di compravendita del 1940 tra gli originari proprietari ed il dante causa dell’odierno appellante, contiene il riferimento all’alienazione di una “casa civile con stalla, portico e fienile” e, quindi, un immobile composto non solo dalla casa di civile abitazione, ma anche da altri due corpi di fabbrica ovvero un portico ed un fienile che, presumibilmente, sono stati trasformati –con un intervento che la p.a. è chiamata a qualificare– nel manufatto in contestazione.
Ai fini della presente causa rileva che, contrariamente a quanto posto a fondamento del provvedimento demolitorio e della sentenza impugnata, lungi dal trattarsi di un manufatto ex novo l’ampliamento esisteva da epoca risalente –anche ante 1942– con conseguente onere di approfondimento istruttorio e motivazionale, ben distinto rispetto alla conclusione sottesa alla ordinata demolizione, sulla dimostrazione e sulla consistenza della presunta modifica successiva.
4.2.2 In secondo luogo, le aerofotogrammetrie, con particolare riferimento a quella rilasciata dall’Istituto Geografico militare del 1962, dalla quale è rilevabile la presenza di un manufatto, collocato nel punto riferibile all’ampliamento in contestazione. Tale fondamentale elemento, neppure esaminato o controdedotto dalla p.a. in sede procedimentale, evidenzia la presenza di un manufatto realizzato in epoca ante 1962.
Sul punto la concisa considerazione svolta dalla sentenza appellata appare tanto generica quanto contraddittoria, laddove prende atto che una copertura (e quindi un manufatto) vi fosse, in termini quindi opposti alla contestazione, di cui all’ordinanza impugnata, circa la presenza di un ampliamento abusivamente realizzato ex novo.
4.2.3 In terzo luogo, le diverse dichiarazioni sostitutive le quali, seppur in astratto non sufficienti ex sé, in concreto, a fronte della loro pluralità e della coerenza con gli altri richiamati elementi, impongono alla p.a. uno sforzo ben maggiore di quello posto a fondamento del provvedimento condiviso dal Tar.
Anche sul punto le concise considerazioni del Tar si basano su di un’affermazione generale non coerente con i principi sopra richiamati e basata sul richiamo di precedenti non pertinenti, in quanto relativi a fattispecie ben distinte: la prima, (Tar Veneto 121/2017) concernente una sola dichiarazione contrastante con plurime altre; la seconda (Tar Basilicata 164/2015) concernente un caso di irrilevanza della prova in quanto attestante la realizzazione di un manufatto nel 1970, cioè quando già sussisteva la generalizzata necessità del titolo edilizio.
In dettaglio, vano richiamate le tre dichiarazioni sostitutive, erroneamente considerate come isolate dal Tar: quella della signora Bi.Ma.Te., nata nel 1949 nei luoghi di causa (cosicché è ben ipotizzabile che possa correttamente riferire per un’epoca quantomeno anteriore al 1967), la quale conferma la circostanza che si evince dall’atto di compravendita del 1940 in merito all’esistenza di un porticato e, quindi, di un corpo di fabbrica già dagli anni ’40, che, negli anni ‘50 è stato tamponato ed ha assunto l’attuale consistenza; quella della signora La.Zu., acquirente pro quota, con il Br. nel 1982 dell’immobile oggetto dell’ordinanza di demolizione, che afferma che l’ampliamento all’epoca esisteva e che nello stesso vi era già quello che è ancora l’unico servizio igienico della casa; quella del signor Gr.Vi., mediatore che si era occupato dell’acquisto dell’immobile per conto del signor Br., il quale conferma la sussistenza dell’ampliamento nel 1982.
Tali ultime due dichiarazioni, pur riferendosi ad un’epoca posteriore al 1967, assumono rilievo sia in generale, quale conferma degli elementi desumibili dagli altri documenti, sia nello specifico quale esistenza del manufatto nell’attuale consistenza in epoca ben anteriore all’apposizione del vincolo paesaggistico.
5. In definitiva, conformemente ai principi sopra richiamati, la parte privata ha fornito una serie di elementi coerenti e plurimi in ordine alla risalenza del manufatto ad un’epoca anteriore alle date rilevanti in materia (1942 e 1967) e nella presente fattispecie (1987). Rispetto a tali elementi, non risulta che la p.a. abbia svolto il necessario approfondimento istruttorio e motivazionale, essendosi limitata a formule generiche e sostanzialmente di stile.
Inoltre, a fronte delle richiamate emergenze documentali, il Comune ha comunque erroneamente valutato come interamente abusivo l’ampliamento, considerandolo come realizzato ex novo; vizio in cui è incorso anche il giudice di prime cure. All’opposto, risulta provato per tabulas che un’opera era già esistente addirittura nel 1940 (oltre che nel 1962, come da aerofotogrammetria); conseguentemente appare fondato anche in parte qua il vizio dedotto in termini di travisamento fatti, difetto di motivazione e istruttoria sull’epoca e sulla consistenza dell’intervento asseritamente abusivo in quanto realizzato post 1967.
La p.a. è chiamata altresì a rivalutare il manufatto sotto il profilo paesaggio, in quanto risulta provata l’epoca di realizzazione anteriormente al vincolo, apposto solo nel 1987; al riguardo, se è pur vero che in caso di sanatoria assume rilievo unicamente l’epoca di valutazione dell’istanza, nel caso di specie, in assenza di un’istanza dell’odierno appellante, la p.a. è preliminarmente chiamata a verificare e valutare la consistenza dell’opera ed a dimostrare la realizzazione di un intervento, ante imposizione del vincolo, rilevante ai fini del vincolo stesso.
6. Sempre in linea generale, rispetto agli elementi rilevanti acquisiti nella presente controversia, vanno svolte le ulteriori considerazioni, sempre sulla scorta della prevalente e condivisa seguente opinione giurisprudenziale: nelle controversie in materia edilizia, soggette alla giurisdizione del giudice amministrativo, i principi di prova oggettivi concernenti la collocazione dei manufatti tanto nello spazio, quanto nel tempo, si rinvengono nei ruderi, fondamenta, aerofotogrammetrie, mappe catastali, laddove la prova per testimoni è del tutto residuale; data la premessa, da essa discende che la prova dell'epoca di realizzazione si desume da dati oggettivi, che resistono a quelli risultanti dagli estratti catastali ovvero alla prova testimoniale ed è onere del privato, che contesti il dato dell'Amministrazione, fornire prova rigorosa della diversa epoca di realizzazione dell'immobile, superando quella fornita dalla parte pubblica (Consiglio di Stato sez. IV 09.02.2016 n. 511).
Nel caso di specie la p.a. non ha fornito la necessaria prova, limitandosi a valutare come irrilevanti gli elementi concreti forniti, attraverso formule di stile non sufficienti alla luce dei principi sopra richiamati.
Parimenti irrilevante (in disparte della questione di ammissibilità che accomuna la perizia tecnica da ultimo prodotta da parte appellante, non richiamata dal Collegio in quanto reputata irrilevante), è la documentazione da ultimo prodotta dalla difesa comunale, sia in quanto integrante una inammissibile integrazione giudiziale della motivazione, sia per irrilevanza della stessa: per ciò che concerne i dati catastali, gli stessi non sono rilevanti, nei termini appena richiamati; per ciò che concerne la nuova dichiarazione sostitutiva la stessa, oltre a non contraddire in gran parte gli elementi già acquisiti e sopra descritti, dovrà comunque essere debitamente valutata nella naturale sede procedimentale insieme a tutti i numerosi elementi rilevanti nella fattispecie.
7. Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello va accolto e per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, va parimenti accolto il ricorso di primo grado (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 19.10.2018 n. 5988 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In termini generali costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia quegli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possano portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente.
In tale prospettiva, la ristrutturazione ‒nelle forme dell’intervento “conservativo” o “ricostruttivo”‒ si pone in continuità con tutti gli altri interventi edilizi cosiddetti minori (manutenzione ordinaria, manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo), che hanno per finalità il recupero del patrimonio edilizio esistente.
Ai sensi dell’art. 10, comma 1, lettera c), del TUE, le opere di ristrutturazione edilizia necessitano di permesso di costruire se consistenti in interventi che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino, modifiche del volume, dei prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso (ristrutturazione edilizia).
In via residuale, la SCIA assiste invece i restanti interventi di ristrutturazione c.d. «leggera» (compresi gli interventi di demolizione e ricostruzione che non rispettino la sagoma dell’edificio preesistente). In relazione, invece, agli immobili sottoposti a vincolo ai sensi del d.lgs. n. 42 del 2004 sono soggetti a SCIA solo gli interventi che non alterano la sagoma dell’edificio.
L’art. 22, comma 3, del TUE prevede tre diverse tipologie di interventi edificatori ‒di cui la prima è costituita proprio da quelli di ristrutturazione, come individuati dal precedente art. 10, comma 1, lettera c)‒ sottoposti al regime del permesso di costruire, per i quali, per ragioni di carattere acceleratorio, si consente all’interessato di optare per la presentazione della DIA (c.d. “super DIA”). Tale facoltà di opzione esaurisce i propri effetti sul piano prettamente procedimentale, atteso che su quello sostanziale (dei presupposti), penale e contributivo resta ferma l’applicazione della disciplina dettata per il permesso di costruire.
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Il rilascio del permesso di costruire per la realizzazione di una tettoia è necessario solo quando, per le sue caratteristiche costruttive, essa sia idonea ad alterare la sagoma dell’edificio.
L’installazione della tettoia è invece sottratta al regime del permesso di costruire ove la sua conformazione e le ridotte dimensioni ne rendano evidente e riconoscibile la finalità di mero arredo e di riparo e protezione dell’immobile cui accedono.
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1.– Il presente giudizio di appello riguarda il provvedimento del Comune di Roma prot. n. 16018, notificato il 26.04.2006, recante demolizione d’ufficio di una tettoia di 64 mq e di un bagno di 4 mq, collocati su un plateatico in calcestruzzo, realizzati su terreno di proprietà degli odierni appellanti, ubicato in Roma, via ... n. 32, gravato da vincolo paesaggistico.
2.– Secondo il Collegio, la sentenza appellata ha correttamente rilevato che per la realizzazione delle opere in contestazione sarebbe stato necessario il previo rilascio del permesso di costruire.
2.1.– In termini generali costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia quegli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possano portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente.
In tale prospettiva, la ristrutturazione ‒nelle forme dell’intervento “conservativo” o “ricostruttivo”‒ si pone in continuità con tutti gli altri interventi edilizi cosiddetti minori (manutenzione ordinaria, manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo), che hanno per finalità il recupero del patrimonio edilizio esistente.
Ai sensi dell’art. 10, comma 1, lettera c), del TUE, le opere di ristrutturazione edilizia necessitano di permesso di costruire se consistenti in interventi che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino, modifiche del volume, dei prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso (ristrutturazione edilizia).
In via residuale, la SCIA assiste invece i restanti interventi di ristrutturazione c.d. «leggera» (compresi gli interventi di demolizione e ricostruzione che non rispettino la sagoma dell’edificio preesistente). In relazione, invece, agli immobili sottoposti a vincolo ai sensi del d.lgs. n. 42 del 2004 sono soggetti a SCIA solo gli interventi che non alterano la sagoma dell’edificio.
L’art. 22, comma 3, del TUE prevede tre diverse tipologie di interventi edificatori ‒di cui la prima è costituita proprio da quelli di ristrutturazione, come individuati dal precedente art. 10, comma 1, lettera c)‒ sottoposti al regime del permesso di costruire, per i quali, per ragioni di carattere acceleratorio, si consente all’interessato di optare per la presentazione della DIA (c.d. “super DIA”). Tale facoltà di opzione esaurisce i propri effetti sul piano prettamente procedimentale, atteso che su quello sostanziale (dei presupposti), penale e contributivo resta ferma l’applicazione della disciplina dettata per il permesso di costruire.
2.2.– Il rilascio del permesso di costruire per la realizzazione di una tettoia è necessario solo quando, per le sue caratteristiche costruttive, essa sia idonea ad alterare la sagoma dell’edificio (Consiglio di Stato, sez. VI, 16.02.2017, n. 694). L’installazione della tettoia è invece sottratta al regime del permesso di costruire ove la sua conformazione e le ridotte dimensioni ne rendano evidente e riconoscibile la finalità di mero arredo e di riparo e protezione dell’immobile cui accedono (Consiglio di Stato, sez. V, 13.03.2014 n. 1272).
2.3.– Nel caso in esame, la realizzazione di una tettoia di rilevanti dimensioni e di un nuovo volume (il bagno), avendo innovato il preesistente fabbricato, sia dal punto di vista morfologico che funzionale, era soggetta al regime autorizzatorio. Peraltro, l’esecuzione delle opere in discorso è avvenuta all’interno del Parco di Veio, istituito per l’elevato valore paesaggistico dell’area (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 19.10.2018 n. 5983 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costituisce principio consolidato che l’onere di provare la data di realizzazione dell’immobile abusivo spetti a colui che ha commesso l’abuso e che solo la deduzione, da parte di quest’ultimo, di concreti elementi ‒i quali non possono limitarsi a sole allegazioni documentali a sostegno delle proprie affermazioni‒ trasferisce il suddetto onere di prova contraria in capo all’amministrazione.
Solo l’interessato infatti può fornire inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione di un manufatto e, in difetto di tali prove, resta integro il potere dell’Amministrazione di negare la sanatoria dell’abuso e il suo dovere di irrogare la sanzione demolitoria.

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3.– Sotto altro profilo, non è assistita da prova la tesi secondo cui la tettoia sarebbe stata assai risalente nel tempo –segnatamente, si tratterebbe di una tettoia preesistente sin dal 1927, usata come concimaia, per la quale all’epoca non abbisognava alcun tipo di permesso autorizzatorio–, cosicché l’intervento edilizio contestato si sarebbe limitato ad un’opera di manutenzione straordinaria e restauro.
3.1.– Costituisce principio consolidato che l’onere di provare la data di realizzazione dell’immobile abusivo spetti a colui che ha commesso l’abuso e che solo la deduzione, da parte di quest’ultimo, di concreti elementi ‒i quali non possono limitarsi a sole allegazioni documentali a sostegno delle proprie affermazioni‒ trasferisce il suddetto onere di prova contraria in capo all’amministrazione.
Solo l’interessato infatti può fornire inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione di un manufatto e, in difetto di tali prove, resta integro il potere dell’Amministrazione di negare la sanatoria dell’abuso e il suo dovere di irrogare la sanzione demolitoria.
3.2.– Nel caso di specie, gli appellanti non hanno fornito elementi idonei a comprovare la preesistenza del manufatto, nella sua attuale consistenza.
Dall’atto di divisione in data 11.01.2006, risulta sì una tettoia ma, a quel tempo «fatiscente» e dunque bisognevole di sostanziale rispristino, che dunque ha subito –come confermato anche dalle foto– una radicale alterazione di struttura e fisionomia.
Che la «concimaia» esistente prima degli interventi edilizi realizzati dal Sig. Vi.Gi., fosse un manufatto del tutto diverso da come oggi appare –collocato peraltro su un plateatico di calcestruzzo– risulta dalle stesse dichiarazioni del perito depositate in atti, secondo cui:
   - «il sottoscritto non conoscendo personalmente, lo stato di fatto dell’immobile prima dell’esecuzione delle opere di manutenzione effettuate, può determinare l’entità di queste per confronto tra lo stato attuale e quello precedente riferendosi esclusivamente ad una descrizione del fabbricato preesistente, che seppur in forma sommaria è stata riportata nell’atto di divisione dell’11.01.2006 rep 48061 racc. 17534»;
   - «dalla stringata descrizione si evince che si trattava di una tettoia fatiscente che per maggior precisazione riportata in via verbale al sottoscritto dai proprietari, era realizzata con profilati metallici e lamiere posticce, quindi i lavori di manutenzione straordinaria hanno senza dubbio riguardato il rinnovo delle pareti strutturali principali e la sostituzione della copertura con i materiali descritti che hanno reso definitiva la tettoia»;
   - «nulla può essere detto a riguardo del piccolo bagno adiacente la tettoia coperto dalle falde di tetto della stessa, in quanto in nessuna descrizione precedente lo stesso è stato citato» (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 19.10.2018 n. 5983 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: La consegna in via d’urgenza delle prestazioni contrattuali non comporta l’insorgere di vincoli contrattuali di tipo privatistico tra amministrazione appaltante ed appaltatore.
Essa, infatti, è un provvedimento di natura eccezionale, dal quale non deriva il perfezionamento del contratto.
Trattasi, infatti, di un provvedimento tipicamente adottato nelle more della stipulazione, allorché ricorrano circostanze di urgenza che non consentono gli indugi delle formalità necessarie alla stipulazione: con la conseguenza che la consegna d’urgenza limita i rapporti tra le parti alle sole prestazioni oggetto dell’ordine dell’Amministrazione pubblica e non coinvolge l’intero complesso dell’esecuzione delle opere.
Va, quindi, escluso che, nella fattispecie, fosse necessaria la previa stipula del contratto ai fini dell’attivazione, in capo alla Stazione appaltante, della prevista possibilità di chiedere l’esecuzione d’urgenza di talune prestazioni.

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1. Dato, quindi, atto della ammissibilità dell’impugnativa, è infondato il primo degli argomenti di censura con essa esposti.
Parte ricorrente assume che il sig. Tr.Da., dipendente della stessa Co. s.r.l., difettasse dei poteri per ricevere la consegna anticipata dei lavori in mancanza della previa stipula del contratto, ipotesi che nella fattispecie non era affatto configurabile; e ciò in quanto nei confronti del predetto nominativo sarebbe stato conferito, con procura speciale, il solo potere di stipulare il contratto e di procedere alla successiva ordinaria consegna dei lavori.
1.1 Va, innanzi tutto, osservato come il comma 8 dell’art. 32 del D.Lgs. 50/2016 stabilisca che: “Divenuta efficace l'aggiudicazione, e fatto salvo l'esercizio dei poteri di autotutela nei casi consentiti dalle norme vigenti, la stipulazione del contratto di appalto o di concessione ha luogo entro i successivi sessanta giorni, salvo diverso termine previsto nel bando o nell'invito ad offrire, ovvero l'ipotesi di differimento espressamente concordata con l'aggiudicatario. Se la stipulazione del contratto non avviene nel termine fissato, l'aggiudicatario può, mediante atto notificato alla stazione appaltante, sciogliersi da ogni vincolo o recedere dal contratto. All'aggiudicatario non spetta alcun indennizzo, salvo il rimborso delle spese contrattuali documentate. Nel caso di lavori, se è intervenuta la consegna dei lavori in via di urgenza e nel caso di servizi e forniture, se si è dato avvio all'esecuzione del contratto in via d'urgenza, l'aggiudicatario ha diritto al rimborso delle spese sostenute per l'esecuzione dei lavori ordinati dal direttore lavori, ivi comprese quelle per opere provvisionali. Nel caso di servizi e forniture, se si è dato avvio all'esecuzione del contratto in via d'urgenza, l'aggiudicatario ha diritto al rimborso delle spese sostenute per le prestazioni espletate su ordine del direttore dell'esecuzione. L'esecuzione d'urgenza di cui al presente comma è ammessa esclusivamente nelle ipotesi di eventi oggettivamente imprevedibili, per ovviare a situazioni di pericolo per persone, animali o cose, ovvero per l'igiene e la salute pubblica, ovvero per il patrimonio, storico, artistico, culturale ovvero nei casi in cui la mancata esecuzione immediata della prestazione dedotta nella gara determinerebbe un grave danno all'interesse pubblico che è destinata a soddisfare, ivi compresa la perdita di finanziamenti comunitari”.
1.2 La consegna in via d’urgenza delle prestazioni contrattuali non comporta l’insorgere di vincoli contrattuali di tipo privatistico tra amministrazione appaltante ed appaltatore.
Essa, infatti, è un provvedimento di natura eccezionale, dal quale non deriva il perfezionamento del contratto.
Trattasi, infatti, di un provvedimento tipicamente adottato nelle more della stipulazione, allorché ricorrano circostanze di urgenza che non consentono gli indugi delle formalità necessarie alla stipulazione: con la conseguenza che la consegna d’urgenza limita i rapporti tra le parti alle sole prestazioni oggetto dell’ordine dell’Amministrazione pubblica e non coinvolge l’intero complesso dell’esecuzione delle opere.
Va, quindi, escluso che, come dalla ricorrente sostenuto, fosse necessaria la previa stipula del contratto ai fini dell’attivazione, in capo alla Stazione appaltante, della prevista possibilità di chiedere l’esecuzione d’urgenza di talune prestazioni
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 19.10.2018 n. 1003 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI:  La cauzione provvisoria è configurata dal Codice come strumento di garanzia dell’offerta.
In tal senso, depone il disposto dell’art. 93, comma 1, del D.Lgs. 50/2016, laddove prevede che “L'offerta è corredata da una garanzia fideiussoria, denominata "garanzia provvisoria" pari al 2 per cento del prezzo base indicato nel bando o nell'invito, sotto forma di cauzione o di fideiussione, a scelta dell'offerente”.
Di talché un costante insegnamento giurisprudenziale ha affermato che “la cauzione costituisce parte integrante dell’offerta e non mero elemento di corredo della stessa; sicché essa si pone come strumento di garanzia della serietà ed affidabilità dell’offerta che vincola le imprese partecipanti ad una gara pubblica all’osservanza dell’impegno assunto a rispettarne le regole, responsabilizzandole, mediante l’anticipata liquidazione dei danni subiti dall’amministrazione, in ordine alle dichiarazioni rese anche con riguardo al possesso dei requisiti di ammissione alla procedura. La cauzione provvisoria costituisce, dunque, una misura di natura patrimoniale che, da un lato, è finalizzata, come la caparra confirmatoria, a confermare la serietà di un impegno da assumere in futuro, dall’altro costituisce, ove prevista, naturale effetto della violazione di regole e doveri contrattuali espressamente accettati”; con la conseguenza che “l’escussione della cauzione provvisoria costituisce conseguenza della violazione dell’obbligo di diligenza gravante sull’offerente e dell’inosservanza della lex specialis avente carattere di gravità”.
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3. Lamenta, da ultimo, parte ricorrente che la Provincia di Mantova, a fronte degli inadempimenti dalla medesima valutati quali presupposti di revoca dell’aggiudicazione, avrebbe potuto procedere alla sola escussione della garanzia provvisoria: e non anche di quella definitiva.
Anche tale profilo di doglianza non si presta a condivisione.
3.1 Va, in proposito, osservato come, ai sensi del comma 1 dell’art. 103 del Codice dei contratti, di cui al D.Lgs. 50/2016, “L'appaltatore per la sottoscrizione del contratto deve costituire una garanzia, denominata "garanzia definitiva" a sua scelta sotto forma di cauzione o fideiussione con le modalità di cui all'articolo 93, commi 2 e 3, pari al 10 per cento dell'importo contrattuale e tale obbligazione è indicata negli atti e documenti a base di affidamento di lavori, di servizi e di forniture. … La cauzione è prestata a garanzia dell'adempimento di tutte le obbligazioni del contratto e del risarcimento dei danni derivanti dall'eventuale inadempimento delle obbligazioni stesse, nonché a garanzia del rimborso delle somme pagate in più all'esecutore rispetto alle risultanze della liquidazione finale, salva comunque la risarcibilità del maggior danno verso l'appaltatore”.
Diversamente, la cauzione provvisoria è configurata dallo stesso Codice come strumento di garanzia dell’offerta.
In tal senso, depone il disposto dell’art. 93, comma 1, del D.Lgs. 50/2016, laddove prevede che “L'offerta è corredata da una garanzia fideiussoria, denominata "garanzia provvisoria" pari al 2 per cento del prezzo base indicato nel bando o nell'invito, sotto forma di cauzione o di fideiussione, a scelta dell'offerente”.
Di talché un costante insegnamento giurisprudenziale (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, 10.04.2018 n. 2181) ha affermato che “la cauzione costituisce parte integrante dell’offerta e non mero elemento di corredo della stessa; sicché essa si pone come strumento di garanzia della serietà ed affidabilità dell’offerta che vincola le imprese partecipanti ad una gara pubblica all’osservanza dell’impegno assunto a rispettarne le regole, responsabilizzandole, mediante l’anticipata liquidazione dei danni subiti dall’amministrazione, in ordine alle dichiarazioni rese anche con riguardo al possesso dei requisiti di ammissione alla procedura. La cauzione provvisoria costituisce, dunque, una misura di natura patrimoniale che, da un lato, è finalizzata, come la caparra confirmatoria, a confermare la serietà di un impegno da assumere in futuro, dall’altro costituisce, ove prevista, naturale effetto della violazione di regole e doveri contrattuali espressamente accettati”; con la conseguenza che “l’escussione della cauzione provvisoria costituisce conseguenza della violazione dell’obbligo di diligenza gravante sull’offerente e dell’inosservanza della lex specialis avente carattere di gravità”.
3.2 È ben vero che, secondo quanto disposto dal comma 6 dello stesso art. 93, “la garanzia copre la mancata sottoscrizione del contratto dopo l'aggiudicazione dovuta ad ogni fatto riconducibile all'affidatario o all'adozione di informazione antimafia interdittiva…; la garanzia è svincolata automaticamente al momento della sottoscrizione del contratto”.
Ma è altrettanto vero che, nella fattispecie, non è venuta in considerazione la sola mancata sottoscrizione del contratto (non imputabile, come precedentemente illustrato, a fatto proprio della Stazione appaltante), quanto, ulteriormente, il mancato adempimento (anticipata esecuzione dei lavori in via d’urgenza) di un’obbligazione dalla ricorrente assunta mediante consenso prestato alla richiesta in tal senso formulata dall’Amministrazione.
Ne deriva che la fattispecie viene ad integrare una tipologia pluriarticolata di inadempimento: a fronte della quale, non venendo in considerazione un vizio dell’offerta (“garantita” dalla prestazione della cauzione provvisoria, che assiste l’intera fase di partecipazione alla gara, fino al conclusivo provvedimento aggiudicatorio), la Stazione appaltante ha, nel caso di specie, correttamente provveduto all’incameramento della cauzione definitiva dalla parte prestata a garanzia della sottoscrizione del contratto
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 19.10.2018 n. 1003 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Acquisizione patrimoniale dei beni immobili necessari alla realizzazione degli impianti di reti di comunicazione elettronica ad uso pubblico.
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Espropriazione per pubblica utilità - Stazione radio base ad uso pubblico – Espropriazione ex art. 90, d.lgs. n. 259 del 2003 - Immobile su area già in possesso della società di telefonia mobile – Legittimità.
E' legittimo il provvedimento teso all'espropriazione ex art. 90, d.lgs. 01.08.2003, n. 259 per l'acquisizione in proprietà di un'area già in possesso della società di telefonia mobile, anche nel caso in cui l'impianto sia già stato realizzato e il contratto di locazione sia in corso, dato che l'interesse presidiato dalla norma consiste nella garanzia di stabilità dell'impianto stesso e nella certezza e produttività dell'investimento necessario alla sua realizzazione (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che il terzo comma dell’art. 90 dispone che “Per l’acquisizione patrimoniale dei beni immobili necessari alla realizzazione degli impianti e delle opere di cui ai commi 1 e 2, può esperirsi la procedura di esproprio prevista dal decreto del Presidente della Repubblica 08.06.2001, n. 327. Tale procedura può essere esperita dopo che siano andati falliti, o non sia stato possibile effettuare, i tentativi di bonario componimento con i proprietari dei fondi sul prezzo di vendita offerto, da valutarsi da parte degli uffici tecnici erariali competenti”.
Un’interpretazione letterale potrebbe indurre a ritenere che, essendo la procedura funzionale alla “acquisizione patrimoniale dei beni immobili necessari alla realizzazione degli impianti”, esulino dal suo ambito di applicazione le procedure finalizzate all’acquisizione di immobili su cui insistono impianti già realizzati.
Tuttavia tale interpretazione -oltre ad essere stata smentita, seppur implicitamente, dalla giurisprudenza (Tar Lazio, sez. III-ter, n. 8267 del 2012)- porta a conseguenze per vero inaccettabili. Emblematico è il caso in cui il gestore per realizzare l’impianto abbia stipulato di un contratto di locazione, alla scadenza del quale il proprietario dell’immobile si mostri indisponibile a rinnovarlo, e non vi siano soluzioni alternative (ivi comprese le forme di coubicazione di cui all’art. 89, d.lgs. n. 259 del 2003).
Oppure si pensi alla fattispecie all’esame del Tar, nella quale la società di telefoni per acquisire coattivamente l’area di cui trattasi utilizzando, come le è consentito, la procedura espropriativa dovrebbe rimuovere l’impianto per poi richiedere l’autorizzazione a reinstallarlo sul medesimo sito.
In definitiva un’interpretazione costituzionalmente orientata (con riferimento al principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.) della disposizione in esame induce a ritenere che la stessa si applichi anche nel caso in cui si renda necessario acquisire un immobile su cui insista un impianto già realizzato (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 19.10.2018 n. 228 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: All’Adunanza plenaria la questione se è consentito ad un’impresa componente il raggruppamento di ridurre la propria quota di esecuzione.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Raggruppamento temporaneo di imprese – Quota di lavori dichiarata in offerta - Requisito di un componente insufficiente – Riduzione della quota se il raggruppamento nel suo insieme ha i requisiti – Contrasti in giurisprudenza - Rimessione all’Adunanza plenaria.
E’ rimessa all’Adunanza plenaria la questione se è consentito ad un’impresa componente raggruppamento temporaneo di imprese, che possegga il requisito di qualificazione in misura insufficiente per la quota di lavori dichiarata in sede di presentazione dell’offerta, di ridurre la propria quota di esecuzione, così da renderla coerente con il requisito di qualificazione effettivamente posseduto, nel caso in cui il raggruppamento nel suo insieme sia in possesso di requisiti di qualificazione sufficienti a coprire l’intera quota di esecuzione dei lavori (1).
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   (1) Ha ricordato la Sezione che sul punto si sono registrati diversi orientamenti.
Secondo un primo orientamento (Cons, St., sez. V, 02.07.2018, n. 4036; id. 22.08.2016, n. 3666; id, 25.02.2016, n. 786) la mancanza del requisito di qualificazione in misura corrispondente alla quota di lavori cui si era impegnata una delle imprese costituenti il raggruppamento in sede di presentazione dell’offerta è causa di esclusione dell’intero raggruppamento, anche se, per ipotesi, il raggruppamento nel suo insieme sia in possesso del requisito di qualificazione sufficiente all’esecuzione dell’intera quota dei lavori.
Tale orientamento muove dalla distinzione tra requisiti di qualificazione, quote di partecipazione e quote di esecuzione.
I requisiti di qualificazione attengono alle caratteristiche soggettive del concorrente che aspira all’aggiudicazione e consentono alla stazione appaltante di valutare la capacità imprenditoriale del concorrente a realizzare quella parte di lavoro che gli sarà poi eventualmente aggiudicata. La quota di partecipazione, invece, altro non è che la percentuale di “presenza” all’interno del raggruppamento e ha riflessi sulla responsabilità del componente all’interno del raggruppamento stesso. La quota di esecuzione è infine la parte di lavoro, servizio o fornitura che verrà effettivamente realizzata nel caso di affidamento.
Così definiti questi tre elementi, si esclude che il requisito di qualificazione possa essere preso in considerazione per il raggruppamento nel suo complesso, dovendo necessariamente riguardare il singolo componente del raggruppamento. Si precisa peraltro che questo non significa reintrodurre surrettiziamente il principio della triplice corrispondenza, ma soltanto rendere necessaria la corrispondenza tra la quota di esecuzione e quella di qualificazione, in applicazione del dettato normativo.
Secondo altro orientamento (Cons. St., sez. V, 08.11.2017, n. 5160; id., sez. IV, 12.03.2015, n. 1293) non è consentita l’esclusione dell’operatore economico dalla procedura, in presenza di tre condizioni: che lo scostamento tra il requisito di qualificazione dichiarato e la quota di lavori per la quale l’operatore si è impegnato non sia eccessivo; che il raggruppamento nel suo complesso sia comunque in possesso dei requisiti sufficienti a coprire l’intero ammontare dell’appalto; che il raggruppamento abbia la forma di raggruppamento orizzontale. A sostegno della tesi della non esclusione del raggruppamento, è stato addotto, prima di tutto, il principio del favor partecipationis, che risulterebbe frustrato dall’esclusione di un raggruppamento che, nel suo complesso, possegga i requisiti di partecipazione.
Ha quindi chiarito il Tar che i due orientamenti richiamati accolgono una diversa concezione del requisito di qualificazione.
Il primo orientamento lo ritiene “personale”, ossia riferito alla singola impresa facente parte del raggruppamento; il secondo orientamento invece lo ritiene riferibile al raggruppamento nel suo complesso, con la conseguenza che non costituisce motivo di esclusione il caso in cui il singolo componente non possieda un requisito di qualificazione sufficiente per l’esecuzione della propria quota di lavori, se il raggruppamento nel suo complesso è “sovrabbondante” rispetto al requisito richiesto dal bando.
Ha quindi rilevato la Sezione che a seconda della soluzione che si intenda dare al contrasto tra opposti orientamenti sottoposto all’Adunanza plenaria, altra questione viene a porsi in via subordinata.
Qualora si consenta all’impresa, che ha assunto una quota di lavori eccessiva rispetto al requisito di qualificazione posseduto, la modifica in corso di procedura (per essere nella fase successiva a quella di presentazione delle offerte) della quota di esecuzione dei lavori, così da impedire l’esclusione del raggruppamento, occorre definire le condizioni in presenza delle quali detta modifica può ammettersi. Le sentenze richiamate nel secondo orientamento, infatti, hanno posto la condizione che lo scostamento (tra quota di esecuzione assunta e requisito di qualificazione posseduto) sia minimo, al punto da poter qualificare lo stesso alla stregua di un errore materiale (Cons. St., sez. V, 06.03.2017, n. 1041).
Ove si voglia dar seguito a tale impostazione, sarà necessario determinare la soglia, superata la quale, lo scostamento non possa più essere considerato “minimo”.
Sempre nell’ipotesi in cui si sposi il secondo orientamento che, mediante la modifica della quota di esecuzione dichiarata, evita l’esclusione del raggruppamento, è opportuno chiarire se la stazione appaltante, che lo scostamento riconosca, debba ricorrere al soccorso istruttorio (opzione esclusa da Cons. St., sez. V, 02.07.2018, n. 4036) per concedere al raggruppamento di operare la modifica consentita, o possa farne a meno procedendo direttamente alla valutazione dell’offerta, per avere essa stessa –si potrebbe dire “d’ufficio”– accertato che la riduzione della quota di esecuzione in capo ad una delle imprese è compensata dal maggior requisito di qualificazione posseduto da altro componente (Consiglio di Stato, Sez. V, ordinanza 18.10.2018 n. 5957 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
7. Con l’unico motivo di appello proposto Pe.Gi. s.p.a. rileva che il giudice di primo grado si è posto in consapevole contrasto con l’orientamento della giurisprudenza amministrativa per il quale, ferma la doverosa e necessaria corrispondenza tra i requisiti di partecipazione di ciascun raggruppamento e il valore dei lavori da eseguire, nel caso di scostamento tra la quota di lavori da eseguire dal singolo partecipante al raggruppamento e il requisito di partecipazione da questi posseduto non v’è ragione di esclusione se: a) lo scostamento non è di rilevante entità; b) il raggruppamento sia nel complesso in possesso dei requisiti necessari all’esecuzione dei lavori; c) il raggruppamento abbia natura orizzontale.
L’orientamento esposto, aggiunge l’appellante, è conforme alle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea di disporre l’esclusione dalla procedura come sanzione massima solo in caso di violazioni gravemente conculcanti i canoni che regolano il settore dei contratti pubblici, per il necessario bilanciamento tra il principio del libero accesso alle gare e quello della necessaria affidabilità degli offerenti.
Conclude l’appellante che la stazione appaltante avrebbe dovuto, pertanto, avviare un dialogo con il raggruppamento per consentirle di modificare le quote di esecuzione dei lavori dei partecipanti così da ripartire tra gli altri la parte mancante ad una di essi.
8. Rileva il Collegio che la questione posta dall’unico motivo di appello proposto ha dato luogo a contrastanti orientamenti nella giurisprudenza di questo Consiglio di Stato e deve, per questo, essere rimessa all’Adunanza plenaria ex art. 99, comma 1, Cod. proc. amm.
9. Prima di esporre i termini del contrasto, è opportuno precisare che l’appalto oggetto di causa è disciplinato dal nuovo codice dei contratti pubblici, d.lgs. 05.04.2016, n. 50, in quanto il bando è pubblicato il 03.08.2017.
L’art. 217, comma 1, lett. u), d.lgs. 05.04.2016, n. 50 ha disposto l’abrogazione del d.p.r. 05.10.2010, n. 207, regolamento di attuazione ed esecuzione del vecchio codice dei contratti pubblici, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, specificando, però, quali disposizioni sono immediatamente abrogate (a far data dalla sua entrata in vigore) e quali, invece, restano in vigore in attesa dell’adozione degli atti attuativi del nuovo codice.
Tra queste ultime rientrano le disposizioni di cui alla Parte II, Titolo III, Capo IV, rilevanti nel presente giudizio.
9.1. L’art. 92, comma 2, d.P.R. 05.10.2010, n. 207 prevede che: “Le quote di partecipazione al raggruppamento o consorzio, indicate in sede di offerta, possono essere liberamente stabilite entro i limiti consentiti dai requisiti di qualificazione posseduti dall'associato o dal consorziato”; la norma sancisce il principio di necessaria corrispondenza tra le quote di partecipazione al raggruppamento e i requisiti di qualificazione posseduti.
Tale principio è rafforzato dalla previsione contenuta nell’ultima parte del 2° comma dell’art. 92, per la quale: “I lavori sono eseguiti dai concorrenti riuniti secondo le quote indicate in sede di offerta, fatta salva la facoltà di modifica delle stesse, previa autorizzazione della stazione appaltante che ne verifica la compatibilità con i requisiti di qualificazione posseduti dalle imprese interessate”.
9.2. In precedenza, era richiesta una triplice corrispondenza tra quota di partecipazione, quota di esecuzione e requisito di qualificazione.
L’art. 37, comma 13, d.lgs. 12.04.2006 n. 163 prevedeva, infatti, che “i concorrenti riuniti in raggruppamento temporaneo devono eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamento”.
Successivamente, la triplice corrispondenza fu limitata agli appalti di lavori (dall’art. 1, comma 2-bis, lettera a), del d.l. 06.07.2012 n. 95 conv. in l. 07.08.2012, n. 135), per poi essere definitivamente superata dall’art. 12, comma 8, d.l. 28.03.2014, n. 47 conv. in l. 23.05.2014, n. 80 che ha abrogato la disposizione contenuta nell’art. 37, comma 13, d.lgs. 12.04.2006, n. 163.
Il d.lgs. 05.04.2016 n. 50, attualmente vigente, non prevede la triplice corrispondenza, bensì soltanto l’obbligo, nel caso di lavori, forniture o servizi di specificare nell’offerta “le categorie di lavori o le parti del servizio o della fornitura che saranno eseguite dai singoli operatori economici riuniti o consorziati” (art. 48, comma 4).
9.3. Pur essendo venuto meno l’obbligo di corrispondenza tra quote di partecipazione al raggruppamento e quote di esecuzione dei lavori, costituisce orientamento consolidato che se le imprese componenti il raggruppamento dichiarano, in sede di offerta, una quota di partecipazione corrispondente alla quota di lavori da eseguire, è necessario che il requisito di qualificazione sia coerente con entrambi (cfr. Cons. Stato, sez. V, 02.07.2018, n. 4036; V, 13.06.2018, n. 3623; V, 05.02.2018, n. 730; V, 25.02.2016 n. 786).
10. E’ sorta, allora, la questione se sia consentito ad un’impresa componente il raggruppamento, che possegga il requisito di qualificazione in misura insufficiente per la quota di lavori dichiarata in sede di presentazione dell’offerta, di ridurre la propria quota di esecuzione, così da renderla coerente con il requisito di qualificazione effettivamente posseduto, nel caso in cui il raggruppamento nel suo insieme sia in possesso di requisiti di qualificazione sufficienti a coprire l’intera quota di esecuzione dei lavori.
Su tale questione si registra il contrasto giurisprudenziale che si intende rimettere all’Adunanza plenaria.
11. Secondo un primo orientamento, la mancanza del requisito di qualificazione in misura corrispondente alla quota di lavori cui si era impegnata una delle imprese costituenti il raggruppamento in sede di presentazione dell’offerta è causa di esclusione dell’intero raggruppamento, anche se, per ipotesi, il raggruppamento nel suo insieme sia in possesso del requisito di qualificazione sufficiente all’esecuzione dell’intera quota dei lavori.
11.1. In tal senso si è recentemente espressa la sentenza di questo Consiglio di Stato, sez. V, 02.07.2018, n. 4036.
La sentenza muove dalla distinzione tra requisiti di qualificazione, quote di partecipazione e quote di esecuzione.
I requisiti di qualificazione attengono alle caratteristiche soggettive del concorrente che aspira all’aggiudicazione e consentono alla stazione appaltante di valutare la capacità imprenditoriale del concorrente a realizzare quella parte di lavoro che gli sarà poi eventualmente aggiudicata.
La quota di partecipazione, invece, altro non è che la percentuale di “presenza” all’interno del raggruppamento e ha riflessi sulla responsabilità del componente all’interno del raggruppamento stesso.
La quota di esecuzione è infine la parte di lavoro, servizio o fornitura che verrà effettivamente realizzata nel caso di affidamento.
Così definiti questi tre elementi, la sentenza esclude che il requisito di qualificazione possa essere preso in considerazione per il raggruppamento nel suo complesso, dovendo necessariamente riguardare il singolo componente del raggruppamento (si legge: “Né può ritenersi che il possesso dei requisiti di qualificazione prescritti dalla legge di gara potesse essere soddisfatto dal raggruppamento complessivamente considerato, come sostiene parte appellante, dovendo invece ciascuna impresa del raggruppamento essere adeguatamente qualificata in relazione alla specifica parte del servizio che assume: condizione questa non soddisfatta per le due mandanti che, compilando il modulo predisposto dalla Stazione appaltante, hanno attestato di non essere qualificate per eseguire le parti di servizio assunte.”).
Conclude la sentenza che questo non significa reintrodurre surrettiziamente il principio della triplice corrispondenza, ma soltanto rendere necessaria la corrispondenza tra la quota di esecuzione e quella di qualificazione, in applicazione del dettato normativo.
11.2. Sono riconducibili all’orientamento appena descritto anche Cons. Stato, sez. V, 22.08.2016, n. 3666; sez. V, 22.02.2016, n. 786.
11.3. Un secondo orientamento invece ritiene non consentita l’esclusione dell’operatore economico dalla procedura, in presenza di tre condizioni: che lo scostamento tra il requisito di qualificazione dichiarato e la quota di lavori per la quale l’operatore si è impegnato non sia eccessivo; che il raggruppamento nel suo complesso sia comunque in possesso dei requisiti sufficienti a coprire l’intero ammontare dell’appalto; che il raggruppamento abbia la forma di raggruppamento orizzontale.
A sostegno della tesi della non esclusione del raggruppamento, è stato addotto, prima di tutto, il principio del favor partecipationis, che risulterebbe frustrato dall’esclusione di un raggruppamento che, nel suo complesso, possegga i requisiti di partecipazione (cfr. Cons. St., sez. V, 08.11.2017, n. 5160).
A ciò è aggiunta la considerazione che una modesta rettifica delle quote di partecipazione non è idonea a incidere sull’affidabilità del raggruppamento, né è in grado di modificare il regime della responsabilità dello stesso, soprattutto nei casi di raggruppamento orizzontale, nel quale la suddivisione delle quote attiene solo al profilo quantitativo. In altre parole, nei raggruppamenti orizzontali, per essere la responsabilità delle imprese consociate è paritaria e solidale (come si ricava dall’art. 48 d.lgs. 18.04.2016, n. 50), non v’è rischio per la stazione appaltante di ricevere una prestazione non adeguata all’impegno assunto dall’aggiudicatario.
Non viene peraltro messo in discussione il principio della par condicio o la serietà ed affidabilità dell’offerta, che viene posta in linea con i requisiti di qualificazione effettivi di ogni impresa riunita.
Del resto, la ripartizione delle quote nelle A.t.i. orizzontali può essere la più varia, e pertanto non si vede perché, atteso il possesso dei requisiti da parte dell’ATI nel suo complesso, si debba vietare la modifica delle quote di esecuzione (Cons. St., sez. V, 06.03.2017, n. 1041).
11.4. Si iscrive a questo orientamento anche la sentenza Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2015 n. 1293.
12.
Appare, dunque, al Collegio che i due orientamenti richiamati accolgono una diversa concezione del requisito di qualificazione.
Il primo orientamento lo ritiene “personale”, ossia riferito alla singola impresa facente parte del raggruppamento; il secondo orientamento invece lo ritiene riferibile al raggruppamento nel suo complesso, con la conseguenza che non costituisce motivo di esclusione il caso in cui il singolo componente non possieda un requisito di qualificazione sufficiente per l’esecuzione della propria quota di lavori, se il raggruppamento nel suo complesso è “sovrabbondante” rispetto al requisito richiesto dal bando.
12.1. È bene precisare che, in questo contesto, il riferimento al concetto di raggruppamento sovrabbondante ha un significato diverso rispetto a quello assunto in altre pronunce di questo Consiglio di Stato (Cons. St., sez. V, 08.02.2017, n. 560).
In particolare, la giurisprudenza amministrativa ha utilizzato tale espressione con riferimento ai raggruppamenti nei quali ogni impresa componente possiede autonomamente il requisito di partecipazione alla gara ma, nonostante questo, decida di dar vita ad una forma associativa per l’esecuzione dell’appalto.
Il Consiglio di Stato ha escluso che il carattere “sovrabbondante” costituisca di per sé un motivo di esclusione del raggruppamento, invitando il giudice a verificare caso per caso se vi sia un intento elusivo della disciplina della concorrenza (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 29.12.2010, n. 9577).
Nel caso oggetto del presente giudizio invece, il termine “sovrabbondante” va inteso come riferito solo al requisito di qualificazione di una delle consociate, vale a dire nel senso che quel requisito mancante, per essere posseduto da altre imprese, in misura maggiore alla quota di esecuzione da quest’ultima assunta, risulta essere per essa sovrabbondante.
13. A seconda della soluzione che si intenda dare al contrasto tra opposti orientamenti sottoposto all’Adunanza plenaria, altra questione viene a porsi in via subordinata.
13.1. Qualora si consenta all’impresa, che ha assunto una quota di lavori eccessiva rispetto al requisito di qualificazione posseduto, la modifica in corso di procedura (per essere nella fase successiva a quella di presentazione delle offerte) della quota di esecuzione dei lavori, così da impedire l’esclusione del raggruppamento, occorre definire le condizioni in presenza delle quali detta modifica può ammettersi.
Le sentenze richiamate nel secondo orientamento, infatti, hanno posto la condizione che lo scostamento (tra quota di esecuzione assunta e requisito di qualificazione posseduto) sia minimo, al punto da poter qualificare lo stesso alla stregua di un errore materiale (come sostenuto da Cons. St., sez. V, 06.03.2017, n. 1041).
Ove si voglia dar seguito a tale impostazione, sarà necessario determinare la soglia, superata la quale, lo scostamento non possa più essere considerato “minimo”.
13.2. Sempre nell’ipotesi in cui si sposi il secondo orientamento che, mediante la modifica della quota di esecuzione dichiarata, evita l’esclusione del raggruppamento, è opportuno chiarire se la stazione appaltante, che lo scostamento riconosca, debba ricorrere al soccorso istruttorio (opzione esclusa da Cons. St., sez. V, 02.07.2018, n. 4036) per concedere al raggruppamento di operare la modifica consentita, o possa farne a meno procedendo direttamente alla valutazione dell’offerta, per avere essa stessa –si potrebbe dire “d’ufficio”– accertato che la riduzione della quota di esecuzione in capo ad una delle imprese è compensata dal maggior requisito di qualificazione posseduto da altro componente.
Il Consiglio di Stato, con riferimento al diverso caso in cui la quota di qualificazione dichiarata era inferiore a quella realmente posseduta ha affermato che “l’errata specificazione delle quote di partecipazione non determina di per sé l’esclusione dalla procedura selettiva, potendo al più indurre l’amministrazione ad esercitare il potere di soccorso istruttorio per l’acquisizione degli eventuali chiarimenti, con l’ulteriore precisazione per cui laddove la legge di gara preveda misure espulsive per le predette ipotesi di irregolarità, queste, essendo in contrasto con il principio di tassatività delle cause di esclusione sancito dall’art. 46, comma 1-bis, c.c.p. sono da considerare nulle e improduttive di effetti” (Cons. St., sez. V, 19.02.2018, n. 1026).
Se è vero che i principi delineati dal Consiglio di Stato riguardano un caso diverso da quello in esame, essi potrebbero considerarsi validi per tutti i casi di erronea indicazione delle quote, anche a fronte di un diverso requisito di qualificazione.
14. La questione posta con l’odierna ordinanza è decisiva ai fini della risoluzione dell’odierna controversia.
14.1. E’ ammesso dallo stesso appellante che una delle imprese componenti il raggruppamento, la Ad.Bi. s.p.a. non era in possesso del requisito di qualificazione utile all’esecuzione della quota di lavori assunta (per una quota di € 4.144.000,00 aveva dichiarato il possesso della classifica IVbis che consente l’esecuzione di lavori fino a € 3.500.000,00).
14.2. D’altra parte, però, è da dire che non è dal raggruppamento data fornita alcuna ragionevole motivazione per la quale lo scostamento tra requisiti di qualificazione e quota di lavori da eseguire possa essere considerata quale “errore materiale” nel quale è incorso l’operatore al momento della compilazione dell’offerta.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), non definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, ne dispone il deferimento all'adunanza plenaria del Consiglio di Stato.

EDILIZIA PRIVATA: Circa la realizzazione di una recinzione in mattoni e l’apposizione di tre cancelli, non v'è dubbio che tali opere, avendo natura permanente ed essendo idonee ad incidere in modo durevole sull’assetto edilizio del territorio, abbisognano del previo rilascio del permesso di costruzione. La mancanza ne giustifica la sanzione demolitoria ai sensi dell’art. 31 del d.p.r. 380/2001.
Invero, “è necessario il permesso di costruire quando la recinzione costituisca opera di carattere permanente, incidendo in modo durevole e non precario sull'assetto edilizio del territorio, come ad esempio se è costituita da un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete metallica o da opera muraria”.
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3. Il ricorso è infondato.
3.1. Deve anzitutto osservarsi che la vicenda in esame riguarda una recinzione in mattoni e l’apposizione di tre cancelli, sicché non vi è dubbio che tali opere, avendo natura permanente ed essendo idonee ad incidere in modo durevole sull’assetto edilizio del territorio avrebbero dovuto essere realizzate previo rilascio del permesso di costruzione, ciò che giustifica la sanzione demolitoria ai sensi dell’art. 31 del d.p.r. 380/2001: “è necessario il permesso di costruire quando la recinzione costituisca opera di carattere permanente, incidendo in modo durevole e non precario sull'assetto edilizio del territorio, come ad esempio se è costituita da un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete metallica o da opera muraria” (cfr. TAR Lombardia Milano, Sez. II, 25.10.2017 n. 2022).
Né le cose cambiano in ragione del fatto che, a detta del perito di parte, la realizzazione delle opere risalirebbe ad epoca anteriore al 1996, ciò che ne avrebbe consentito la realizzazione in forza di DIA, dal momento che, a prescindere da ogni considerazione sulla normativa applicabile ratione temporis, è decisivo considerare che, allo stato, le opere in questione non risultano assistite da alcun titolo edilizio (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 18.10.2018 n. 1773 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Trattandosi di attività vincolata, le violazioni formali non consentono l’annullamento del provvedimento impugnato: “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell'abuso neanche nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell'abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell'onere di ripristino”.
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3.2. Trattandosi di attività vincolata, le violazioni formali pure denunciate con il ricorso non consentono l’annullamento del provvedimento impugnato: “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell'abuso neanche nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell'abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell'onere di ripristino” (Cons. Stato, Ad. Plen., 17.10.2017 n. 9).
3.3. L’ordinanza di demolizione non è stata notificata alla sig.ra Gi.Se. a titolo personale, ma quale amministratrice del condominio, in quanto tale sicuramente legittimata ai sensi dell’art. 1131, co. 2, c.c. a ricevere i provvedimenti dell’autorità concernenti le parti comuni.
3.4. Il riferimento alla sussistenza del deposito di rifiuti deve ritenersi neutro ai fini dell’ingiunzione demolitoria, essendo questa sufficientemente motivata in ragione della riscontrata abusività delle opere (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 18.10.2018 n. 1773 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Alla domanda "se la speciale disciplina contenuta nell’art. 53 del D.Lgs. n. 50/2016 (ed in particolare l’espresso richiamo all’applicabilità delle regole in materia di diritto di accesso “ordinario”) debba considerarsi come un caso di esclusione della disciplina dell’accesso civico ai sensi dell’art. 5-bis, comma 3, del D.Lgs. n. 33/2013" la risposta è affermativa, in base ad un duplice ordine di considerazioni.
Dal punto di vista testuale, l’art. 5-bis, comma 3, del D.Lgs. n. 33/2013 è inequivocabile nello stabilire che il diritto di accesso civico generalizzato “…è escluso…” nei casi in cui l'accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti. E non c’è dubbio che l’accesso agli atti delle procedure ad evidenza pubblica sia soggetto al rispetto di particolari condizioni e limiti.
In effetti, l’art. 53 del D.Lgs. n. 50/2016 detta espressamente una disciplina sull’accesso in parte derogatoria rispetto alle ordinarie regole, prevedendo però, a monte, che il diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici è disciplinato dalle pertinenti norme della L. n. 241/1990.
Dal punto di vista della successione delle leggi nel tempo se è vero che alla data dell’entrata in vigore del nuovo codice dei contratti pubblici l’accesso pubblico generalizzato non era stato ancora introdotto nell’ordinamento, è altrettanto vero che è lo stesso legislatore del D.Lgs. n. 97/2016 a regolamentare l’ipotesi di discipline sottratte per voluntas legis, anche se precedente all’introduzione del nuovo istituto, alla possibilità di accesso generalizzato.
Dal punto di vista interpretativo, si rileva invece che gli atti delle procedure di affidamento ed esecuzione di contratti pubblici sono formati e depositati all’interno di una disciplina del tutto speciale e a sé stante, che costituisce un complesso chiuso nel cui ambito vengono contemperati interessi di varia e contrapposta natura, di talché risulta del tutto giustificata la scelta del legislatore volta ad impedire a soggetti non qualificati la possibilità indiscriminata di accesso alla documentazione di gara e post-gara;
   - tale documentazione -si sottolinea- da un lato è soggetta a penetranti controlli pubblicistici da parte dell’ANAC e dall’altro coinvolge interessi privati di natura economica e imprenditoriale di per sé sensibili (e quindi astrattamente riconducibili alla causa di esclusione di cui al comma 2, lett. c), dell’art. 5-bis del D.Lgs. n. 33/2013);
   - nulla esclude che il legislatore possa in futuro compiere una scelta diversa, ma tale scelta, proprio in ragione del quadro normativo dianzi esposto, dovrà essere espressa ed inequivoca.
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Si ritiene di dover aggiungere che:
   - il c.d. diritto di accesso civico –mutuato dal Freedom of Information Act statunitense– è istituto che si aggiunge a quelli da tempo previsti nel nostro ordinamento a tutela della trasparenza dell’azione amministrativa;
   - non va infatti dimenticato che già dal 1990 il nostro legislatore ha disciplinato il diritto di accesso tout court (e, per la verità, già dal 1985 era stato introdotto il diritto di accesso agli atti degli enti locali) e che, anche in applicazione di specifiche direttive comunitarie, sono state introdotte ulteriori, seppure settoriali, disposizioni tese ad incrementare il livello di trasparenza dell’azione amministrativa (si pensi, ad esempio, al diritto di accesso alle informazioni in materia ambientale o al diritto di accesso dei consiglieri comunali, regionali, etc.).
Va poi ulteriormente ricordato che per la gran parte dei procedimenti amministrativi è ormai previsto il modulo della conferenza dei servizi (nell’ambito della quale qualunque soggetto interessato può presentare memorie e documenti e richiedere ovviamente l’accesso agli atti della procedura) e che, in generale, gli artt. 7 e ss. e 10-bis della L. n. 241/1990 impongono alla P.A. di non adottare provvedimenti “a sorpresa”.
Da ultimo, il legislatore ha introdotto un obbligo pressoché generalizzato di pubblicazione degli atti amministrativi nella sezione “Amministrazione trasparente” del sito informatico di ciascuna amministrazione;
   - da tutto ciò consegue che, in disparte la specifica materia delle pubbliche commesse (per cui valgono le considerazioni espresse dal TAR Parma e a cui il Collegio ritiene di aderire), nei casi non coperti dal compendio normativo di cui si è cercato di operare una rapida ricognizione debbono pur sempre sussistere le ragioni fondative del diritto di accesso civico generalizzato (ossia, come dispone l’art. 5, comma 2, del D.Lgs. n. 33/2013 “… favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e … promuovere la partecipazione al dibattito pubblico….”).
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Va premesso che, ad onta di quanto risulta dall’epigrafe del ricorso (in cui è richiamato solo l’art. 116 cod. proc. amm.), in realtà parte ricorrente introduce due distinte domande, la prima finalizzata a denunciare l’illegittimità del silenzio serbato dal Comune sull’istanza di accesso, la seconda finalizzata invece ad ottenere una sentenza di accertamento (del diritto di accesso) e di condanna (all’esibizione degli atti in questione).
Ciò non pone peraltro alcun problema di ordine processuale, visto che i giudizi di cui, rispettivamente, agli artt. 31 e 117 cod. proc. amm. e 116 cod. proc. amm., seguono entrambi il rito camerale e sono dunque parimenti soggetti alle disposizioni dell’art. 87 del codice processuale amministrativo.
5. Con riguardo al contenuto della presente sentenza va però osservato che nella specie il rito sull’accesso “assorbe” evidentemente anche quello sul silenzio, visto che nel giudizio sull’accesso al giudice amministrativo viene chiesto di pronunciarsi comunque sulla fondatezza della pretesa sostanziale, id est sul riconoscimento o meno del diritto di accesso.
In ogni caso, nella specie non si pone alcun problema di eventuale sconfinamento dai limiti esterni della giurisdizione o di violazione dell’art. 31, comma 3, cod. proc. amm., in quanto, per stessa prospettazione di parte ricorrente, nel caso di accesso civico generalizzato l’amministrazione destinataria della richiesta non dispone di alcun potere discrezionale circa l’accoglimento o meno della domanda, avendo già il legislatore stabilito a monte quali sono le categorie di documenti sottratti all’accesso civico.
6. Ciò detto, il Tribunale ritiene che il ricorso non sia meritevole di accoglimento, e questo, sostanzialmente, per le medesime ragioni evidenziate dal TAR Parma nella suddetta sentenza n. 197/2018.
Questi i passaggi principali del percorso argomentativo che il Tribunale emiliano ha seguito per pervenire al rigetto del ricorso:
   - la documentazione richiesta dal ricorrente concerneva, per una parte, i documenti di una gara di appalto già espletata e dalla quale lo stesso ricorrente era stato escluso, per la restante parte, una serie di dati inerenti ad aspetti relativi all’esecuzione del rapporto contrattuale scaturito da tale gara (rapporto anch’esso allo stato esaurito).
Tale documentazione poteva pertanto essere ricompresa nella sua globalità nel concetto più generale di “….atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici….” di cui al comma 1 dell’art. 53 del D.Lgs. n. 50/2016;
   - l’art. 53 reca una disciplina speciale per l’accesso agli atti afferenti alle procedure ad evidenza pubblica. La prima regola stabilita da questa norma è quella per cui “….il diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici, ivi comprese le candidature e le offerte, è disciplinato dagli articoli 22 e seguenti della legge 07.08.1990, n. 241…”;
   - a sua volta, l’art. 5-bis, comma 3, del D.Lgs. n. 33/2013 stabilisce che “…il diritto di cui all'articolo 5, comma 2, è escluso nei casi di segreto di Stato e negli altri casi di divieti di accesso o divulgazione previsti dalla legge, ivi compresi i casi in cui l'accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti, inclusi quelli di cui all'articolo 24, comma 1, della legge n. 241 del 1990…”. Tale disposizione stabilisce i casi di “esclusione assoluta”, nei quali cioè è lo stesso legislatore ad avere indicato i casi nel quali il diritto di accesso civico generalizzato non può essere azionato, per cui l’amministrazione che detiene i documenti richiesti non conserva alcuna possibilità di comparazione discrezionale degli interessi coinvolti;
   - ci si deve quindi domandare –si osserva nella sentenza- se la speciale disciplina contenuta nell’art. 53 del D.Lgs. n. 50/2016 (ed in particolare l’espresso richiamo all’applicabilità delle regole in materia di diritto di accesso “ordinario”) debba considerarsi come un caso di esclusione della disciplina dell’accesso civico ai sensi dell’art. 5-bis, comma 3, del D.Lgs. n. 33/2013;
   - la risposta al quesito, secondo il TAR Parma, è affermativa, in base ad un duplice ordine di considerazioni.
Dal punto di vista testuale, l’art. 5-bis, comma 3, del D.Lgs. n. 33/2013 è inequivocabile nello stabilire che il diritto di accesso civico generalizzato “…è escluso…” nei casi in cui l'accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti. E non c’è dubbio che l’accesso agli atti delle procedure ad evidenza pubblica sia soggetto al rispetto di particolari condizioni e limiti.
In effetti, l’art. 53 del D.Lgs. n. 50/2016 detta espressamente una disciplina sull’accesso in parte derogatoria rispetto alle ordinarie regole, prevedendo però, a monte, che il diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici è disciplinato dalle pertinenti norme della L. n. 241/1990.
Dal punto di vista della successione delle leggi nel tempo –si rileva ancora nella sentenza- se è vero che alla data dell’entrata in vigore del nuovo codice dei contratti pubblici l’accesso pubblico generalizzato non era stato ancora introdotto nell’ordinamento, è altrettanto vero che è lo stesso legislatore del D.Lgs. n. 97/2016 a regolamentare l’ipotesi di discipline sottratte per voluntas legis, anche se precedente all’introduzione del nuovo istituto, alla possibilità di accesso generalizzato.
Dal punto di vista interpretativo, si rileva invece che gli atti delle procedure di affidamento ed esecuzione di contratti pubblici sono formati e depositati all’interno di una disciplina del tutto speciale e a sé stante, che costituisce un complesso chiuso nel cui ambito vengono contemperati interessi di varia e contrapposta natura, di talché risulta del tutto giustificata la scelta del legislatore volta ad impedire a soggetti non qualificati la possibilità indiscriminata di accesso alla documentazione di gara e post-gara;
   - tale documentazione -si sottolinea- da un lato è soggetta a penetranti controlli pubblicistici da parte dell’ANAC e dall’altro coinvolge interessi privati di natura economica e imprenditoriale di per sé sensibili (e quindi astrattamente riconducibili alla causa di esclusione di cui al comma 2, lett. c), dell’art. 5-bis del D.Lgs. n. 33/2013);
   - nulla esclude -conclude il TAR Parma- che il legislatore possa in futuro compiere una scelta diversa, ma tale scelta, proprio in ragione del quadro normativo dianzi esposto, dovrà essere espressa ed inequivoca.
7. Rispetto a tali condivisibili argomenti, il Collegio ritiene di dover aggiungere che:
   - il c.d. diritto di accesso civico –mutuato dal Freedom of Information Act statunitense– è istituto che si aggiunge a quelli da tempo previsti nel nostro ordinamento a tutela della trasparenza dell’azione amministrativa;
   - non va infatti dimenticato che già dal 1990 il nostro legislatore ha disciplinato il diritto di accesso tout court (e, per la verità, già dal 1985 era stato introdotto il diritto di accesso agli atti degli enti locali) e che, anche in applicazione di specifiche direttive comunitarie, sono state introdotte ulteriori, seppure settoriali, disposizioni tese ad incrementare il livello di trasparenza dell’azione amministrativa (si pensi, ad esempio, al diritto di accesso alle informazioni in materia ambientale o al diritto di accesso dei consiglieri comunali, regionali, etc.).
Va poi ulteriormente ricordato che per la gran parte dei procedimenti amministrativi è ormai previsto il modulo della conferenza dei servizi (nell’ambito della quale qualunque soggetto interessato può presentare memorie e documenti e richiedere ovviamente l’accesso agli atti della procedura) e che, in generale, gli artt. 7 e ss. e 10-bis della L. n. 241/1990 impongono alla P.A. di non adottare provvedimenti “a sorpresa”.
Da ultimo, il legislatore ha introdotto un obbligo pressoché generalizzato di pubblicazione degli atti amministrativi nella sezione “Amministrazione trasparente” del sito informatico di ciascuna amministrazione;
   - da tutto ciò consegue che, in disparte la specifica materia delle pubbliche commesse (per cui valgono le considerazioni espresse dal TAR Parma e a cui il Collegio ritiene di aderire), nei casi non coperti dal compendio normativo di cui si è cercato di operare una rapida ricognizione debbono pur sempre sussistere le ragioni fondative del diritto di accesso civico generalizzato (ossia, come dispone l’art. 5, comma 2, del D.Lgs. n. 33/2013 “… favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e … promuovere la partecipazione al dibattito pubblico….”).
8. Ora, con riguardo al caso di specie, risulta evidente che l’istanza del Consorzio ricorrente sia stata proposta in stretta correlazione con la nuova gara indetta dal Comune di Porto Recanati e che sia finalizzata, non ad un controllo sul perseguimento di funzioni istituzionali o sull'utilizzo di risorse pubbliche, ma ad acquisire informazioni utili con riguardo all’esecuzione del precedente appalto (per esempio, al fine di verificare se la ditta controinteressata -che quasi certamente parteciperà alla nuova selezione- abbia commesso errori professionali gravi, tali da determinarne l’esclusione dalla nuova procedura).
Va infatti rilevato che il servizio in parola (come questo Tribunale ha ritenuto nella sentenza n. 45/2018) presenta caratteristiche di standardizzazione tali per cui sembra da escludere che la domanda presentata dal Consorzio sia finalizzata a conoscere quali soluzioni tecniche innovative la ditta controinteressata abbia offerto al fine di aggiudicarsi la commessa (ma in questo caso potrebbero eventualmente rilevare ragioni ostative inerenti la tutela del know-how industriale).
Deve dunque ritenersi che il diritto alla visione ed estrazione di copia della documentazione in parola possa essere esercitato secondo la disciplina generale dettata dal Capo V della legge n. 241 del 1990 (“Accesso ai documenti amministrativi”) la quale richiede, tra l’altro, l’indicazione dello specifico interesse che giustifica l’istanza (art. 22, comma 1, lett. a e b).
9. Per tutte queste ragioni il ricorso va respinto (TAR Marche, sentenza 18.10.2018 n. 677 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Tutela delle bellezze naturali - Nozione di paesaggio - Difesa del complessivo equilibrio estetico e culturale in un determinato ambito - Autorizzazione paesaggistica rilasciata in sanatoria - C.d. interventi minori - Fattispecie: unità produttiva, interventi di potenziamento e di rimaneggiamento in difetto di autorizzazione - Artt. 146, 167 e 181, d.lgs. n. 42/2004.
In tema di protezione delle bellezze naturali, il paesaggio deve essere inteso come complesso di valori estetici e naturali considerati unitariamente in una determinata area, e la modificazione del territorio, oggetto del divieto penalmente sanzionato, può essere attuata attraverso qualsiasi opera non soltanto edilizia (cfr. Sez. 3, n. 10484 del 12/11/2014, dep. 2015, Grue).
La tutela del paesaggio, quindi, non può essere limitata alla verifica della compatibilità del singolo bene ma come difesa del complessivo equilibrio estetico e culturale in un determinato ambito, sicché, la deroga al principio generale per il quale l'autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi, fissata dall'art. 146, comma dodicesimo, del d.lgs. 22.01.2004, n. 42, è limitata agli interventi minori individuati dall'art. 181, comma 1-ter, del d.lgs. n. 42/2004, per i quali soltanto non si applicano le sanzioni penali di cui al comma primo del medesimo art. 181, ferme restando quelle amministrative di cui all'art. 167 del predetto d.lgs. (Sez. 3, n. 35965 del 05/02/2015, Seratoni Gualdoni e altro).
Fattispecie: unità produttiva collocata in zona vincolata paesaggisticamente, con l'iniziale attività di escavazione sostituita da un'attività di frantoio per la produzione e commercializzazione di sabbia e ghiaie, in assenza di autorizzazione ambientale dell'impianto nella sua interezza. Inoltre, impianto non compatibile col Piano Regolatore Generale Comunale, trovandosi all'interno di area riconosciuta a rischio alluvionale ed essendo stati ammessi solamente siti per le attività estrattive.

BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Protezione delle bellezze naturali - Rilascio postumo dell'autorizzazione paesaggistica in sede di rilascio del permesso di costruire in sanatoria - Effetti - Inibiscono la demolizione o/e la remissione in pristino - Estinzione del reato ex 181, d.lgs. n. 42/2004 - Esclusione.
Il rilascio postumo dell'autorizzazione paesaggistica da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo, nonché il parere favorevole espresso in sede di rilascio del permesso di costruire in sanatoria, non estinguono il reato previsto dall'art. 181 del d.lgs. n. 42 del 2004, ma inibiscono la demolizione o la remissione in pristino dello stato dei luoghi, atteso che tali provvedimenti comportano una qualificata ricognizione dell'assenza di conseguenze dannose o pericolose per l'ambiente (Sez. 3, n. 24410 del 09/02/2016, Pezzuto e altro).
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Edificazione in area vincolata - Difetto della preventiva autorizzazione paesaggistica ex d.lgs. n. 42/2004 - Rilascio di concessione in sanatoria ex artt. 36, 44 e 45 d.P.R. n. 380/2001 - Limiti - Autonomia strutturale dei due provvedimenti - Giurisprudenza.
Nel caso di interventi edilizi eseguiti in zona vincolata, l'esistenza dell'autorizzazione paesaggistica non può desumersi dall'intervenuto rilascio di concessione in sanatoria ex artt. 36 e 44 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, non soltanto per l'autonomia strutturale dei due provvedimenti, ma anche perché l'interesse paesaggistico è funzionalmente differenziato da quello urbanistico (Sez. 3, n. 47331 del 16/11/2007, Minaudo e altr).
Nella specie, inoltre, la realizzazione di una cava in difetto della preventiva autorizzazione paesaggistica è tuttora condotta penalmente rilevante ai sensi dell'art. 181 d.lgs. n. 42 del 2004, disposizione nella quale è stata trasfusa la precedente fonte dell'incriminazione, costituita dall'abrogato art. 163 del d.lgs. n. 490 del 1999 (Sez. 4, n. 1781 del 02/12/2008, dep. 2009, Boscacci; Sez. 3, n. 20195 del 19/04/2006, Ciullo; cfr. anche Sez. 3, n. 34102 del 12/04/2005, Nardilli, nonché Sez. 3, n. 28080 del 22/03/2017, Dileo).

DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Differenza tra autorizzazione paesaggistica e permesso urbanistico ex art. 36 d.P.R. n. 380/2001 - Accertamento di conformità e visione unitaria e complessiva.
L'autorizzazione paesistica di cui all'art. 151 del d.lgs. n. 490 del 1999 è finalizzata alla salvaguardia del paesaggio -bene costituzionalmente protetto non soltanto sotto l'aspetto estetico-culturale, ma anche sotto il profilo di risorsa economica- ed è pertanto un provvedimento distinto ed autonomo rispetto alla concessione edilizia, la quale è invece volta ad assicurare la corretta gestione del territorio, sotto il profilo dell'uso e della trasformazione programmata di esso in una visione unitaria e complessiva (cfr. Sez. 3, n. 23230 del 22/04/2004, Verdelocco).
Infatti la concessione rilasciata a seguito di accertamento di conformità (art. 36 d.P.R. 06.06.2001, n. 380) estingue i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti, ma non i reati paesaggistici previsti dal d.lgs. 22.01.2004, n. 42, che sono soggetti ad una disciplina difforme e differenziata, legittimamente e costituzionalmente distinta, avente oggettività giuridica diversa, rispetto a quella che riguarda l'assetto del territorio sotto il profilo edilizio (Sez. 3, n. 40375 del 09/09/2015, Casalanguida e altro; cfr. altresì Sez. 7, n. 11254 del 20/10/2017, dep. 2018, Franchino e altri, che ha appunto osservato come l'art. 45, comma 3, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, si riferisce ai soli reati contravvenzionali previsti dal medesimo d.P.R. n. 380 del 2001, in cui sono contemplate le ipotesi suscettibili di sanatoria, quali gli interventi in assenza di permesso di costruire o in difformità da esso).

DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Opere ultimate in zone vincolate paesaggisticamente - Ordinanza di sequestro preventivo - Presupposto del periculum in mora.
In tema di sequestro preventivo per reati paesaggistici, il presupposto del periculum in mora non può essere desunto solo dalla esistenza delle opere ultimate, ma è necessario dimostrare che l'effettiva disponibilità materiale o giuridica del bene, da parte del soggetto indagato o di terzi, possa ulteriormente deteriorare l'ecosistema protetto dal vincolo paesaggistico, dovendo valutarsi l'incidenza degli abusi sulle diverse matrici ambientali ovvero il loro impatto sulle zone oggetto di particolare tutela (Sez. 3, n. 2001 del 24/11/2017, dep. 2018, Dessi e altri; Sez. 3, n. 50336 del 05/07/2016, Del Gaizo) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.10.2018 n. 46997 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: La sanzione demolitoria di cui all’art. 31 D.P.R. 380/2001 ha natura ripristinatoria e prescinde dalla responsabilità personale del destinatario nella commissione dell’illecito, essendo invece rivolta ai soggetti che, trovandosi in rapporto con la res, abbiano il potere di rimuovere concretamente l’abuso.
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Il ricorso è infondato.
Non è condivisibile la prima censura, secondo cui i proprietari sarebbero estranei alla realizzazione dell’abuso edilizio, avendo acquistato l’immobile dopo la sua edificazione (censura qualificata dai ricorrenti come “difetto di legittimazione passiva”).
Come ripetutamente osservato dalla giurisprudenza anche di questa Sezione (TAR Napoli, n. 1501/2018) la sanzione demolitoria di cui all’art. 31 D.P.R. 380/2001 ha natura ripristinatoria e prescinde dalla responsabilità personale del destinatario nella commissione dell’illecito, essendo invece rivolta ai soggetti che, trovandosi in rapporto con la res, abbiano il potere di rimuovere concretamente l’abuso (cfr. da ultimo Cons. St., Ad plen. 9/2017).
Peraltro va aggiunto, con riguardo al caso concreto, che in forza delle clausole del contratto di compravendita sopra richiamato, gli acquirenti erano stati resi edotti del cambiamento d’uso del fabbricato, originariamente rurale, in abitazione ad uso residenziale e della circostanza che tale cambiamento costituiva oggetto da parte della venditrice di una Dichiarazione Inizio Attività, sul cui esito procedimentale era pienamente esigibile, secondo un principio di ordinaria diligenza, una verifica da parte degli odierni ricorrenti (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 15.10.2018 n. 5974 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non si può applicare a un fatto illecito (l’abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione dell’interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa ipotesi dell’autotutela decisoria.
Non sarebbe in alcun modo concepibile l’idea stessa di connettere al decorso del tempo e all’inerzia dell’amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare il grave fenomeno dell’abusivismo edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura l’edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una siffatta –e inammissibile– forma di sanatoria automatica o praeter legem.

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Non sussiste
l'illegittimità del provvedimento di demolizione per la mancata indicazione del bene da acquisire al patrimonio comunale.
Invero, il manufatto è sufficientemente descritto sia nella conformazione fisica che con i riferimento catastali, così da non risultare lese le esigenze difensive degli interessati.
Ogni ulteriore analitica descrizione, anche dell’area di sedime, afferisce alla successiva eventuale fase di accertamento dell’avvenuta acquisizione al patrimonio comunale ex art. 31, co. 3, DPR 380/2001, effetto che la legge connette automaticamente dal decorso del tempo e alla inottemperanza dell’ordine di demolizione.

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Non è fondata la seconda doglianza, con cui si contesta la insufficienza della motivazione in relazione al decorso del tempo e alla violazione del legittimo affidamento.
La questione -invero controversa al momento dell’introduzione del giudizio, (in senso contrario a quanto dedotto da parte ricorrente, cfr. peraltro Consiglio di Stato, Sez. VI, 27.03.2017 n. 1386 e 28.02.2017 n. 908; Consiglio di Stato, Sez. IV, 12.10.2016 n. 4205 e 31.08.2016 n. 3750)– è stata come è noto oggetto di una recente pronuncia dell’Adunanza Plenaria (Cons. St., A.P., 17.10.2017, n. 9); pertanto il principio di sinteticità ex art. 3 c.p.a. consente di richiamare quanto ivi affermato, secondo cui “non si può applicare a un fatto illecito (l’abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione dell’interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa ipotesi dell’autotutela decisoria. Non sarebbe in alcun modo concepibile l’idea stessa di connettere al decorso del tempo e all’inerzia dell’amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare il grave fenomeno dell’abusivismo edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura l’edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una siffatta –e inammissibile– forma di sanatoria automatica o praeter legem”.
E ciò a prescindere dalla specifica cognizione degli aventi causa circa la regolarità urbanistica dell’immobile, evincibile dal contratto di acquisto.
Infine, non può essere condivisa la terza censura, con cui i ricorrenti si dolgono della illegittimità del provvedimento di demolizione per la mancata indicazione del bene da acquisire al patrimonio comunale.
Il manufatto –sulla cui abusività non vi è contestazione– è sufficientemente descritto sia nella conformazione fisica che con i riferimento catastali, così da non risultare lese le esigenze difensive degli interessati.
Ogni ulteriore analitica descrizione, anche dell’area di sedime, afferisce alla successiva eventuale fase di accertamento dell’avvenuta acquisizione al patrimonio comunale ex art. 31, co. 3, DPR 380/2001, effetto che la legge connette automaticamente dal decorso del tempo e alla inottemperanza dell’ordine di demolizione (cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sez. V, 07.07.2014 n. 3438; TAR Campania Napoli, Sez II, 09.07.2018, n. 4530; TAR Campania Napoli, Sez. VII, 09.01.2015 n. 68) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 15.10.2018 n. 5974 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di vincolo cimiteriale.
La consolidata giurisprudenza di questo Consiglio è nel senso che:
   - il vincolo cimiteriale determina una situazione di inedificabilità ex lege e integra una limitazione legale della proprietà a carattere assoluto, direttamente incidente sul valore del bene e non suscettibile di deroghe di fatto, tale da configurare in maniera obbiettiva e rispetto alla totalità dei soggetti il regime di appartenenza di una pluralità indifferenziata di immobili che si trovino in un particolare rapporto di vicinanza o contiguità con i suddetti beni pubblici;
   - il vincolo ha carattere assoluto e non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un’area di possibile espansione della cinta cimiteriale;
   - il vincolo, d’indole conformativa, è sganciato dalle esigenze immediate della pianificazione urbanistica, nel senso che esso si impone di per sé, con efficacia diretta, indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro natura, ad incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti;
   - la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni specificate nell'art. 338, quinto comma;
   - l’art. 338, quinto comma, non presidia interessi privati e non può legittimare interventi edilizi futuri su un'area indisponibile per ragioni di ordine igienico-sanitario, nonché per la sacralità dei luoghi di sepoltura;
   - il procedimento attivabile dai singoli proprietari all’interno della zona di rispetto è soltanto quello finalizzato agli interventi di cui al settimo comma dell’art. 338, settimo comma (recupero o cambio di destinazione d’uso di edificazioni preesistenti); mentre resta attivabile nel solo interesse pubblico, come valutato dal legislatore nell’elencazione, al quinto comma, delle opere ammissibili ai fini della riduzione, la procedura di riduzione della fascia inedificabile.
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1.‒ L’appello è infondato.
2.‒ Va innanzitutto considerato che l’ordine demolitorio trova autonomo fondamento giuridico nella norma speciale che prescrive il vincolo c.d. “cimiteriale”.
Come è noto, nel caso in cui il provvedimento impugnato si fondi su una pluralità di ragioni autonome, il giudice, qualora registri l’infondatezza delle censure indirizzate verso uno dei motivi assunti a base dell’atto controverso, idoneo, di per sé, a comprovarne la legittimità e a sostenerne il dispositivo, ha la potestà di respingere il ricorso sulla sola base di tale rilievo, con assorbimento delle censure dedotte avverso altri capi del provvedimento, in quanto la conservazione dell’atto implica la perdita di interesse del ricorrente all’esame delle altre doglianze.
3.– L’art. 338 del regio-decreto 27.07.1934, n. 1265 (Approvazione del testo unico delle leggi sanitarie), prevede che: «I cimiteri devono essere collocati alla distanza di almeno 200 metri dal centro abitato. È vietato costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal perimetro dell'impianto cimiteriale, quale risultante dagli strumenti urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di essi, comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed eccezioni previste dalla legge.
Le disposizioni di cui al comma precedente non si applicano ai cimiteri militari di guerra quando siano trascorsi 10 anni dal seppellimento dell'ultima salma.
Il contravventore è punito con la sanzione amministrativa fino a lire 200.000 e deve inoltre, a sue spese, demolire l'edificio o la parte di nuova costruzione, salvi i provvedimenti di ufficio in caso di inadempienza.
Il consiglio comunale può approvare, previo parere favorevole della competente azienda sanitaria locale, la costruzione di nuovi cimiteri o l’ampliamento di quelli già esistenti ad una distanza inferiore a 200 metri dal centro abitato, purché non oltre il limite di 50 metri, quando ricorrano, anche alternativamente, le seguenti condizioni:
   a) risulti accertato dal medesimo consiglio comunale che, per particolari condizioni locali, non sia possibile provvedere altrimenti;
   b) l’impianto cimiteriale sia separato dal centro urbano da strade pubbliche almeno di livello comunale, sulla base della classificazione prevista ai sensi della legislazione vigente, o da fiumi, laghi o dislivelli naturali rilevanti, ovvero da ponti o da impianti ferroviari.
Per dare esecuzione ad un’opera pubblica o all'attuazione di un intervento urbanistico, purché non vi ostino ragioni igienico-sanitarie, il consiglio comunale può consentire, previo parere favorevole della competente azienda sanitaria locale, la riduzione della zona di rispetto tenendo conto degli elementi ambientali di pregio dell'area, autorizzando l'ampliamento di edifici preesistenti o la costruzione di nuovi edifici. La riduzione di cui al periodo precedente si applica con identica procedura anche per la realizzazione di parchi, giardini e annessi, parcheggi pubblici e privati, attrezzature sportive, locali tecnici e serre.
Al fine dell’acquisizione del parere della competente azienda sanitaria locale, previsto dal presente articolo, decorsi inutilmente due mesi dalla richiesta, il parere si ritiene espresso favorevolmente.
All’interno della zona di rispetto per gli edifici esistenti sono consentiti interventi di recupero ovvero interventi funzionali all’utilizzo dell’edificio stesso, tra cui l’ampliamento nella percentuale massima del 10 per cento e i cambi di destinazione d’uso, oltre a quelli previsti dalle lettere a), b), c) e d) del primo comma dell’articolo 31 della legge 05.08.1978, n. 457
» (comma quest’ultimo così sostituito dall’articolo 28, comma 1, lettera b), della legge 01.08.2002, n. 166).
3.1.– La consolidata giurisprudenza di questo Consiglio è nel senso che:
   - il vincolo cimiteriale determina una situazione di inedificabilità ex lege e integra una limitazione legale della proprietà a carattere assoluto, direttamente incidente sul valore del bene e non suscettibile di deroghe di fatto, tale da configurare in maniera obbiettiva e rispetto alla totalità dei soggetti il regime di appartenenza di una pluralità indifferenziata di immobili che si trovino in un particolare rapporto di vicinanza o contiguità con i suddetti beni pubblici;
   - il vincolo ha carattere assoluto e non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un’area di possibile espansione della cinta cimiteriale (Cons. Stato, sez. VI, 09.03.2016, n. 949);
   - il vincolo, d’indole conformativa, è sganciato dalle esigenze immediate della pianificazione urbanistica, nel senso che esso si impone di per sé, con efficacia diretta, indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro natura, ad incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti (Cons. Stato, sez. IV, 22.11.2013, n. 5544);
   - la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni specificate nell'art. 338, quinto comma;
   - l’art. 338, quinto comma, non presidia interessi privati e non può legittimare interventi edilizi futuri su un'area indisponibile per ragioni di ordine igienico-sanitario, nonché per la sacralità dei luoghi di sepoltura;
   - il procedimento attivabile dai singoli proprietari all’interno della zona di rispetto è soltanto quello finalizzato agli interventi di cui al settimo comma dell’art. 338, settimo comma (recupero o cambio di destinazione d’uso di edificazioni preesistenti); mentre resta attivabile nel solo interesse pubblico, come valutato dal legislatore nell’elencazione, al quinto comma, delle opere ammissibili ai fini della riduzione, la procedura di riduzione della fascia inedificabile (cfr. da ultimo Cons. Stato, sez. VI, 04.07.2014, n. 3410; sez. VI, 27.07.2015, n. 3667; ivi riferimenti ulteriori).
4.– Su questa premessa ricostruttiva, la doglianza del ricorrente, secondo cui il limite della percentuale di ampliamento (prescritta dall’ultimo comma dell’art. 338 del t.u.l.s.) dovrebbe essere riferita all’intero edifico e non già alla singola unità abitativa, non può essere accolta, sia pure con le seguenti precisazioni rispetto a quanto affermato dal giudice di prime cure.
La disposizione invocata ricollega il limite percentuale della facoltà di ampliamento all’edificio nel suo complesso.
Tuttavia, per evitare facili elusioni della suddetta prescrizione –segnatamente: in caso di proprietà divisa, ove fosse consentito a ciascun proprietario di realizzare sulla singola unità abitativa l’incremento percentuale assoluto, si otterrebbe il risultato o di ammettere, in relazione all’edificio, complessivamente considerato, un ampliamento eccedente la percentuale ammessa, ovvero di privare gli altri proprietari di analoga facoltà– deve ritenersi che il singolo condomino sia legittimato a chiedere l’ampliamento volumetrico nei soli limiti percentuali calcolati in relazione alle dimensioni della propria unità immobiliare.
Restano, tuttavia, salve le ipotesi (nessuna delle quali ricorrenti nel caso in esame) in cui: l’istanza sia proposta congiuntamente da tutti i proprietari, con progetto relativo all’intero immobile; ovvero, il singolo condomino corredi la propria istanza con un atto d’obbligo degli altri comproprietari (si osserva che l’atto d’obbligo, tradizionalmente qualificato in termini di servitù obbligatoria, dovrebbe oggi integrare la fattispecie, ora prevista dall’art. 2643, n. 2-bis, c.c., di contratto che trasferisce o modifica i «diritti edificatori comunque denominati, previsti da normative statali o regionali, ovvero da strumenti di pianificazione territoriale») (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 15.10.2018 n. 5911 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il potere di sospensione dei lavori edili in corso, attribuito all’autorità comunale dall’art. 27, comma 3, del d.P.R. n. 380/2001, è di tipo cautelare, in quanto destinato ad evitare che la prosecuzione dei lavori determini un aggravarsi del danno urbanistico, e alla descritta natura interinale del potere segue che il provvedimento emanato nel suo esercizio ha la caratteristica della provvisorietà, fino all’adozione dei provvedimenti definitivi.
Ne discende che, a seguito dello spirare del termine di 45 giorni, ove l’amministrazione non abbia emanato alcun provvedimento sanzionatorio definitivo, l’ordine di sospensione dei lavori perde ogni efficacia, mentre, nell’ipotesi di emissione del definitivo provvedimento sanzionatorio, è in virtù di quest’ultimo che viene a determinarsi la lesione della sfera giuridica del destinatario, con conseguente assorbimento della disposta misura sospensiva.
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1. Con il gravame in trattazione, la ricorrente, che espone di essere proprietaria di un fabbricato di due piani fuori terra, oltre a piano seminterrato, ubicato in Striano alla Via ... e concesso in locazione a fini produttivo-artigianali, impugna l’ordinanza dirigenziale del Comune di Arzano n. 19 del 02.05.2017, con la quale le è stata ingiunta, ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, il ripristino della destinazione residenziale originaria, come risultante dal certificato di agibilità prot. n. 5495 del 16.06.2016.
In particolare, con la predetta ordinanza le è stata contestata la realizzazione, in assenza di permesso di costruire, di un cambio di destinazione d’uso del piano terra e del piano seminterrato, che avrebbero visto rispettivamente la trasformazione da locale ad uso residenziale in locale ad uso produttivo-artigianale e da locale autorimessa (servente la residenza) in locale deposito dell’attività artigianale; inoltre, è stato posto a base dell’ordinanza, come motivo ulteriore del dovere di ripristino, il contrasto della trasformazione edilizia posta in essere con l’art. 4, comma 5, della legge regionale n. 19/2009 (cd. legge piano casa), che così recita: “Per gli edifici e loro frazionamento, sui quali sia stato realizzato l’ampliamento ai sensi della presente legge, non può essere modificata la destinazione d’uso se non siano decorsi almeno cinque anni dalla comunicazione di ultimazione dei lavori.”.
La ricorrente aggiunge al riguardo di aver prodotto, in data 11.07.2016, CILA ai fini del cambio di destinazione d’uso del piano terra in locale ad uso produttivo-artigianale (seguito dalla relativa SCA del 28.07.2016) e che il suo inquilino, prima di avviare l’attività artigianale, presentava regolarmente SCIA commerciale in data 02.09.2016.
L’impugnativa ricomprende la comunicazione di avvio del procedimento di ripristino e la disposizione dirigenziale sospensiva dell’intervento di cambio di destinazione d’uso, entrambi atti meglio in epigrafe individuati.
L’intimata amministrazione comunale conclude nella sua memoria di costituzione per il rigetto del gravame.
Parte ricorrente insiste nelle sue ragioni con ulteriore memoria difensiva.
L’istanza cautelare è stata respinta con ordinanza n. 1261 del 13.09.2017, poi riformata in appello dal Consiglio di Stato con ordinanza n. 4600 del 20.10.2017, che ha ritenuto di accordare tutela cautelare sulla scorta della seguente motivazione: “Considerato che, ad un primo esame, l’impugnato ordine di ripristino non appare un’implicita rimozione degli effetti favorevoli della CILA, né per questi ultimi sarebbe potuta bastare la mera sospensione disposta dal Comune (misura cautelare che scade decorso inutilmente il termine di cui all’art. 19, c. 3, della l. 241/1990: al più gg. 45 dalla sua emanazione, ai sensi dell’art. 27, c. 3, del DPR 380/2001), quand’anche detto Comune la volesse intendere a guisa di presupposto della statuizione ripristinatoria; Considerato infatti che l’art. 19, c. 6-bis, II per. della l. 241/1990 fa sì salvi i poteri repressivi ex DPR 380/2001, ma nei limiti di cui ai precedenti commi 3 e 4, onde occorre pur sempre l’esercizio espresso dell’autotutela prima dell’emanazione d’ogni misura repressiva o ripristinatoria; Considerato quindi che, allo stato, va accolto l’appello cautelare.”.
La causa, infine, è stata trattenuta in decisione all’udienza pubblica del 05.06.2018.
2. Il più approfondito esame dell’intera vicenda contenziosa, proprio del merito, fa propendere il Collegio per la complessiva infondatezza del ricorso, sebbene con motivazioni alquanto diverse da quelle esposte in prima battuta in sede cautelare.
3. In via preliminare, va chiarito che l’unico provvedimento passibile di cognizione è l’ordinanza di ripristino n. 29/2017, dal momento che sui rimanenti atti gravati non può intervenire alcuna pronuncia di merito, essendo le relative impugnative inammissibili, irricevibili e/o improcedibili per le ragioni che si andranno di seguito sinteticamente ad esporre con riferimento ad ogni singola determinazione:
   1) comunicazione di avvio del procedimento prot. n. 739 del 27.01.2017: inammissibilità per carenza di interesse, perché nella specie si tratta di mero atto endoprocedimentale destinato ad essere recepito nel provvedimento ripristinatorio finale e, quindi, di atto privo di autonoma lesività;
   2) disposizione dirigenziale prot. n. 7315 del 22.08.2016, recante la sospensione dell’intervento di cambio di destinazione d’uso: irricevibilità per tardività, essendo il presente ricorso stato portato alla notifica (a mezzo ufficiale giudiziario) il 20.06.2017, mentre la disposizione in parola è entrata nella piena cognizione della ricorrente –come dalla stessa ammesso e documentalmente provato in atti– almeno a far data dall’08.09.2016, con conseguente sforamento del termine perentorio di sessanta giorni per proporre impugnativa.
Ad ogni modo, atteggiandosi tale provvedimento come un sostanziale ordine di sospensione lavori, l’impugnativa è anche improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, essendo decorso il termine di efficacia di 45 giorni previsto dall’art. 27, comma 3, del d.P.R. n. 380/2001.
Invero, il potere di sospensione dei lavori edili in corso, attribuito all’autorità comunale dalla suddetta disposizione normativa, è di tipo cautelare, in quanto destinato ad evitare che la prosecuzione dei lavori determini un aggravarsi del danno urbanistico, e alla descritta natura interinale del potere segue che il provvedimento emanato nel suo esercizio ha la caratteristica della provvisorietà, fino all’adozione dei provvedimenti definitivi.
Ne discende che, a seguito dello spirare del termine di 45 giorni, ove l’amministrazione non abbia emanato alcun provvedimento sanzionatorio definitivo, l’ordine di sospensione dei lavori perde ogni efficacia, mentre, nell’ipotesi di emissione del definitivo provvedimento sanzionatorio, è in virtù di quest’ultimo che viene a determinarsi la lesione della sfera giuridica del destinatario, con conseguente assorbimento della disposta misura sospensiva (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 22.06.2016 n. 2758; TAR Lazio Roma, Sez. II, 04.04.2017 n. 4225; TAR Sicilia Catania, Sez. I, 24.01.2017 n. 173; TAR Campania Napoli, Sez. VIII, 05.05.2016 n. 2282) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 15.10.2018 n. 5964 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il cambio di destinazione d’uso posto in essere, con passaggio dalla categoria residenziale a quella produttiva, è giuridicamente rilevante e non può essere eseguito liberamente ma necessita del rilascio del permesso di costruire.
Al riguardo, l’art. 23-ter, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001, alla cui stregua deve essere letto anche il successivo art. 32, comma 1, lett. a), in tema di variazioni essenziali al permesso di costruire, così dispone: “Salva diversa previsione da parte delle leggi regionali, costituisce mutamento rilevante della destinazione d’uso ogni forma di utilizzo dell’immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall’esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l’assegnazione dell’immobile o dell’unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale.”.
Ne discende, ai sensi della disposizione in commento, che il mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante, assentibile solo mediante permesso di costruire sia in presenza che in assenza di opere edilizie, è quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico ed influisce, in via conseguenziale e automatica, sul carico urbanistico senza necessità di ulteriori accertamenti in concreto, poiché la semplificazione delle attività voluta dal legislatore non si è spinta fino al punto di rendere tra loro omogenee tutte le categorie funzionali, le quali rimangono consustanzialmente non assimilabili anche in caso di mancato incremento degli standard urbanistici, a conferma della scelta già operata con il decreto ministeriale n. 1444/1968.
Pertanto, la trasformazione, avvenuta nella specie, di unità immobiliari da locali residenziali a locali ad uso produttivo-artigianale, configurando un passaggio tra categorie funzionali autonome, costituisce per espressa qualificazione di legge un mutamento giuridicamente rilevante della destinazione d’uso.
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In definitiva, perché si abbia mutamento rilevante della destinazione d’uso basta appurare il solo passaggio di categoria funzionale, essendo ultroneo (e non richiesto) ogni accertamento sul maggior peso urbanistico determinato dalla trasformazione edilizia posta in essere.
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L’acquisizione gratuita al patrimonio comunale consegue automaticamente ad ogni ipotesi di inottemperanza all’ordine di demolizione/ripristino, non prevedendo l’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001 eccezioni all’operatività di tale istituto connesse al mancato incremento degli standard urbanistici a seguito di cambio di destinazione d’uso.
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4. Perimetrato l’ambito del giudizio al su indicato provvedimento di ripristino, si può dare corso allo scrutinio di un primo gruppo di censure articolate avverso quest’ultimo, le quali sono così riassumibili:
   a) l’effettuato cambio di destinazione d’uso era “liberamente eseguibile” e non assoggettabile a permesso di costruire, in virtù del combinato disposto degli artt. 23-ter e 32, comma 1, lett. a), del d.P.R. n. 380/2001, non avendo giuridica rilevanza per mancato apporto di aggravio urbanistico in termini di ulteriori standard. L’inesistenza del maggior peso urbanistico è comprovata dai seguenti indici:
i) “prima di avere una destinazione residenziale, la porzione di immobile della sig.ra Storno aveva già una destinazione produttiva, sicché l’odierna ricorrente non ha fatto altro che ripristinare l’originaria destinazione d’uso produttiva impressa ad una parte dell’immobile fin dalla sua costruzione”;
ii) “proprio la destinazione d’uso produttiva dell’immobile era stata presa in considerazione dal Comune al momento dell’adozione del P.R.G., sicché lo strumento urbanistico già tiene conto dell’impatto della destinazione produttiva (originaria) dell’immobile della sig.ra Storno ed ha previsto degli standard urbanistici adeguati e correlati direttamente all’utilizzo produttivo dell’immobile”;
iii) “il mutamento di destinazione d’uso concerne una porzione di un edificio che è inserito in un contesto già ampiamente urbanizzato (strade, illuminazione) e dotato altresì di allacci idrici e fognari”;
   b) il cambio di destinazione d’uso in questione “oltre a non avere alcun impatto urbanistico, è anche funzionale all’esercizio di un’attività artigianale, sicché non può omettersi di rilevare che ai sensi dell’art. 6, comma 2, lett. e-bis), del D.P.R. n. 380/2001 rientrano tra l’attività di edilizia libera anche “le modifiche interne di carattere edilizio sulla superficie coperta dei fabbricati adibiti ad esercizio d’impresa, sempre che non riguardino le parti strutturali, ovvero le modifiche della destinazione d’uso dei locali adibiti ad esercizio d’impresa””;
   c) la legittimità del cambio di destinazione d’uso era comunque asseverata dalla CILA dell’11.07.2016 e dalla SCIA commerciale del 02.09.2016, con la conseguenza che l’amministrazione non avrebbe potuto adottare l’ordine di ripristino senza prima annullare in autotutela i suddetti titoli abilitativi;
   d) l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale prospettata nell’ordinanza di ripristino in caso di inottemperanza non può trovare applicazione a casi, come quello di specie, in cui il cambio di destinazione d’uso da residenziale a produttivo non comporti incremento degli standard urbanistici.
Tutte le prefate censure non meritano condivisione per le ragioni di seguito esplicitate.
5. Il cambio di destinazione d’uso posto in essere dalla ricorrente, con passaggio dalla categoria residenziale a quella produttiva, era giuridicamente rilevante e non poteva essere eseguito liberamente, anche previa CILA come nello specifico, ma necessitava del rilascio del permesso di costruire.
Al riguardo, l’art. 23-ter, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001 (introdotto dal decreto legge n. 133/2014, convertito nella legge n. 164/2014), alla cui stregua deve essere letto anche il successivo art. 32, comma 1, lett. a), in tema di variazioni essenziali al permesso di costruire, così dispone: “Salva diversa previsione da parte delle leggi regionali, costituisce mutamento rilevante della destinazione d’uso ogni forma di utilizzo dell’immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall’esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l’assegnazione dell’immobile o dell’unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale.”.
Ne discende, ai sensi della disposizione in commento, che il mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante, assentibile solo mediante permesso di costruire sia in presenza che in assenza di opere edilizie, è quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico ed influisce, in via conseguenziale e automatica, sul carico urbanistico senza necessità di ulteriori accertamenti in concreto, poiché la semplificazione delle attività voluta dal legislatore non si è spinta fino al punto di rendere tra loro omogenee tutte le categorie funzionali, le quali rimangono consustanzialmente non assimilabili anche in caso di mancato incremento degli standard urbanistici, a conferma della scelta già operata con il decreto ministeriale n. 1444/1968.
Pertanto, la trasformazione, avvenuta nella specie, di unità immobiliari da locali residenziali a locali ad uso produttivo-artigianale, configurando un passaggio tra categorie funzionali autonome, costituisce per espressa qualificazione di legge un mutamento giuridicamente rilevante della destinazione d’uso (cfr. Cass. Pen., Sez. III, 22.09.2017 n. 5770; Consiglio di Stato, Sez. VI, 13.05.2016 n. 1951; Consiglio di Stato, Sez. IV, 26.02.2015 n. 974; Cass. Pen., Sez. III, 03.12.2015 n. 12904; TAR Campania Napoli, Sez. III, 05.09.2017 n. 4249; TAR Lombardia Milano, Sez. II, 17.02.2016 n. 344).
5.1 Né può ritenersi, come sostiene parte ricorrente richiamando un orientamento giurisprudenziale ormai minoritario (cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sez. V, 03.05.2016 n. 1684), che per aversi mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante occorrerebbe appurare, in aggiunta al passaggio tra categorie funzionali diverse, l’effettivo aggravio urbanistico incidente sul tessuto edilizio in termini di incremento degli standard urbanistici (nella specie, parte ricorrente rimarca per l’appunto l’inesistenza di tale maggior peso urbanistico).
Tale tesi merita di essere disattesa perché contrastante sia con la lettera sia con la ratio dell’art. 23-ter del d.P.R. n. 380/2001.
Infatti, nell’enunciato della disposizione in parola non si rinviene alcun riferimento all’accertamento in concreto dell’aggravio urbanistico, ma semplicemente si ricollega il concetto di rilevanza del mutamento di destinazione d’uso ad una diversa assegnazione della categoria funzionale di appartenenza, la quale di per sé impatterebbe sul carico urbanistico, inteso come rapporto di proporzione quali-quantitativa tra insediamenti e standard per servizi di una determinata zona territoriale.
Inoltre, inserendosi l’intervento di trasformazione funzionale nell’ambito di un preesistente piano urbanistico, è evidente, in considerazione della differenziazione infrastrutturale tra le singole zone, che la ratio perseguita dalla norma riposa sulla salvaguardia del corretto ed ordinato assetto del territorio piuttosto che sul mero contrasto di eventuali aggravi urbanistici, avendo la finalità di mantenere inalterato il carico urbanistico di ogni zona e di impedire lo stravolgimento degli equilibri prefigurati dalla strumentazione urbanistica mediante appositi standard (cfr. Cass. Pen., Sez. III, n. 5770/2017 cit.).
In definitiva, perché si abbia mutamento rilevante della destinazione d’uso basta appurare il solo passaggio di categoria funzionale, essendo ultroneo (e non richiesto) ogni accertamento sul maggior peso urbanistico determinato dalla trasformazione edilizia posta in essere.
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8. Infine, l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale consegue automaticamente ad ogni ipotesi di inottemperanza all’ordine di demolizione/ripristino, non prevedendo l’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001 eccezioni all’operatività di tale istituto connesse al mancato incremento degli standard urbanistici a seguito di cambio di destinazione d’uso (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 15.10.2018 n. 5964 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La CILA, a differenza della SCIA, si configura come un mero atto di comunicazione privo di effetti abilitativi propri, che viceversa derivano direttamente dalla legge in forza della libera eseguibilità di determinate attività edilizie.
Ne costituisce conferma il fatto che l’atto con cui l’amministrazione comunale respinge (archiviando o dichiarando irricevibile/improponibile) una CILA presentata per l’effettuazione di alcuni lavori non ha valore provvedimentale, bensì di semplice avviso, privo di esecutorietà, circa la (non) regolarità delle opere oggetto di comunicazione, vertendosi appunto in ambito di attività di edilizia libera e non essendo, peraltro, legislativamente previsto che il comune debba riscontrare le comunicazioni di attività di tal fatta con provvedimenti di assenso o di diniego.
Resta, beninteso, fermo l’esercizio del potere sanzionatorio nel caso in cui l’attività libera non coincida con l’attività ammessa, come avvenuto nella specie.
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7. Nemmeno l’amministrazione era tenuta ad esercitare preventivamente i poteri di autotutela per rimuovere gli effetti della CILA e della SCIA commerciale, e ciò per le seguenti dirimenti ragioni:
   i) la CILA, a differenza della SCIA, si configura come un mero atto di comunicazione privo di effetti abilitativi propri, che viceversa derivano direttamente dalla legge in forza della libera eseguibilità di determinate attività edilizie. Ne costituisce conferma il fatto che l’atto con cui l’amministrazione comunale respinge (archiviando o dichiarando irricevibile/improponibile) una CILA presentata per l’effettuazione di alcuni lavori non ha valore provvedimentale, bensì di semplice avviso, privo di esecutorietà, circa la (non) regolarità delle opere oggetto di comunicazione, vertendosi appunto in ambito di attività di edilizia libera e non essendo, peraltro, legislativamente previsto che il comune debba riscontrare le comunicazioni di attività di tal fatta con provvedimenti di assenso o di diniego. Resta, beninteso, fermo l’esercizio del potere sanzionatorio nel caso in cui l’attività libera non coincida con l’attività ammessa, come avvenuto nella specie (cfr. TAR Campania Napoli, Sez. II, 17.09.2018 n. 5516; TAR Veneto, Sez. II, 15.04.2015 n. 415);
   ii) gli effetti della SCIA commerciale, presentata dall’inquilino della ricorrente, erano stati già inibiti con provvedimento comunale del 27.01.2017 (cfr. documentazione allegata alla memoria di costituzione dell’amministrazione), ben prima dell’emanazione dell’ordinanza di ripristino (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 15.10.2018 n. 5964 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Decorrenza del termine per impugnare l’esclusione dalla gara.
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Processo amministrativo – Rito appalti – Esclusioni – Dies a quo – Dalla piena conoscenza – Quando si verifica – Individuazione.
L’art. 120, comma 2-bis, c.p.a. non implica l’assoluta inapplicabilità del generale principio sancito dagli artt. 41, comma 2 e 120, comma 5, ultima parte, c.p.a., per cui, in difetto della formale comunicazione dell’atto o in mancanza di pubblicazione di un autonomo atto di esclusione sulla piattaforma telematica della stazione appaltante il termine decorre, comunque, dal momento dell’intervenuta piena conoscenza del provvedimento da impugnare, conoscenza che per i provvedimenti di esclusione è insita nella percezione della sua adozione da parte dell’impresa esclusa, tanto più se acquisita congiuntamente a quella delle relative ragioni determinanti (1).
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   (1) Sebbene il comma 2-bis dell’art. 120 c.p.a., inserito dall’art. 204, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 50 del 2016, nella disciplina del c.d. rito super-speciale previsto per l’impugnazione degli atti di esclusione e di ammissione (d)alle procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture, faccia riferimento, ai fini della decorrenza dell’ivi previsto termine d’impugnazione di trenta giorni, esclusivamente alla pubblicazione del provvedimento di ammissione o esclusione sul profilo telematico della stazione appaltante ai sensi dell’art. 29, comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016, ciò non implica l’inapplicabilità del generale principio sancito dall’art. 41, comma 2, c.p.a. e riaffermato nel comma 5, ultima parte, dell’art. 120 c.p.a., per cui, in difetto della formale comunicazione dell’atto -o, per quanto qui interessa, in difetto di pubblicazione dell’atto di ammissione sulla piattaforma telematica della stazione appaltante-, il termine decorre dal momento dell’avvenuta conoscenza dell’atto stesso, purché siano percepibili i profili che ne rendano evidente la lesività per la sfera giuridica dell’interessato in rapporto al tipo di rimedio apprestato dall’ordinamento processuale.
In altri termini, in difetto di un’espressa e univoca correlativa espressa previsione legislativa a valenza derogatoria e in assenza di un rapporto di incompatibilità, deve escludersi che il comma 2-bis dell’art. 120 c.p.a. abbia apportato una deroga all’art. 41, comma 2, c.p.a. e al principio generale della decorrenza del termine di impugnazione dalla conoscenza completa dell’atto.
La piena conoscenza dell’atto di ammissione della controinteressata, acquisita prima o in assenza della sua pubblicazione sul profilo telematico della stazione appaltante, può dunque provenire da qualsiasi fonte e determina la decorrenza del termine decadenziale per la proposizione del ricorso (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 15.10.2018 n. 1297 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
Rilevato, a tal riguardo, che:
   - Il cd. rito super accelerato di cui all’art. 120, comma 2-bis, cod. proc. amm. -secondo la più recente giurisprudenza amministrativa- non comporta l’inapplicabilità del generale principio sancito dall’art. 41, comma 2, cod. proc. amm. secondo cui il termine per l’impugnazione dei provvedimenti amministrativi decorre in ogni caso dal momento dell’avvenuta conoscenza degli stessi, purché siano immediatamente percepibili i profili che ne rendano evidente la lesività per la sfera giuridica dell’interessato.
Infatti, sul punto specifico Cons. Stato, Sez. VI, 13.12.2017, n. 5870 ha rimarcato: «… S
ebbene il comma 2-bis dell’art. 120 cod. proc. amm., inserito dall’art. 204, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 50/2016 (a decorrere dal 19.04.2016, ai sensi di quanto disposto dall’art. 220 d.lgs. n. 50/2016), nella disciplina del c.d. rito super-speciale previsto per l’impugnazione degli atti di esclusione e di ammissione (d)alle procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture, faccia riferimento, ai fini della decorrenza dell’ivi previsto termine d’impugnazione di trenta giorni, esclusivamente alla pubblicazione del provvedimento di ammissione o esclusione sul profilo telematico della stazione appaltante ai sensi dell’art. 29, comma 1, d.lgs. n. 50/2016, ritiene il Collegio che ciò non implichi l’inapplicabilità del generale principio sancito dall’art. 41, comma 2, cod. proc. amm. e riaffermato nel comma 5, ultima parte, dell’art. 120 cod. proc. amm., per cui, in difetto della formale comunicazione dell’atto -o, per quanto qui interessa, in difetto di pubblicazione dell’atto di ammissione sulla piattaforma telematica della stazione appaltante-, il termine decorre dal momento dell’avvenuta conoscenza dell’atto stesso, purché siano percepibili i profili che ne rendano evidente la lesività per la sfera giuridica dell’interessato in rapporto al tipo di rimedio apprestato dall’ordinamento processuale.
In altri termini,
in difetto di un’espressa e univoca correlativa espressa previsione legislativa a valenza derogatoria e in assenza di un rapporto di incompatibilità, deve escludersi che il comma 2-bis dell’art. 120 cod. proc. amm. abbia apportato una deroga all’art. 41, comma 2, cod. proc. amm. e al principio generale della decorrenza del termine di impugnazione dalla conoscenza completa dell’atto. La piena conoscenza dell’atto di ammissione della controinteressata, acquisita prima o in assenza della sua pubblicazione sul profilo telematico della stazione appaltante, può dunque provenire da qualsiasi fonte e determina la decorrenza del termine decadenziale per la proposizione del ricorso. …
».
   - La regola in esame è stata recentemente riaffermata dal Consiglio di Stato (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 17.09.2018, n. 5434) proprio con riferimento ad una vicenda sovrapponibile a quella per cui è causa, ove il ricorso era stata proposto, come nel caso di specie, per l’impugnazione di un provvedimento che si limitava a recepire e confermare l’esclusione da una procedura di gara (rectius declaratoria della “non accettabilità” dell’offerta) in realtà già disposta dalla Commissione nell’ambito di seduta pubblica ove era presente un rappresentante dell’impresa, il quale era dunque pienamente a conoscenza delle ragioni poste a fondamento del provvedimento di esclusione.
La fattispecie è stata decisa dal Consiglio di Stato con la seguente motivazione: «… Rilevato infatti che alla seduta della commissione del 30.03.2018, alla quale era presente un rappresentante dell’impresa appellante, è stata data lettura integrale dei precedenti verbali, compreso di quello del 15.02.2018, recante la motivata declaratoria della “non accettabilità” delle offerte della medesima appellante, che la stazione appaltante, con l’impugnata determina n. 584 del 26.04.2018, si è limitata a recepire e confermare;
Rilevato infatti che, come recentemente evidenziato da questo giudice (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 4180 del 09.07.2018), “la disposizione in parola (art. 120, comma 2-bis, cod. proc. amm.: n.d.e.) non implica l’assoluta inapplicabilità del generale principio sancito dagli artt. 41, comma 2 e 120, comma 5, ultima parte, del cod. proc. amm., per cui, in difetto della formale comunicazione dell’atto -o, per quanto qui interessa, in mancanza di pubblicazione di un autonomo atto di ammissione sulla piattaforma telematica della stazione appaltante- il termine decorre, comunque, dal momento dell’intervenuta piena conoscenza del provvedimento da impugnare, ma ciò a patto che l’interessato sia in grado di percepire i profili che ne rendano evidente la lesività per la propria sfera giuridica in rapporto al tipo di rimedio apprestato dall’ordinamento processuale. In altri termini, “la piena conoscenza dell’atto di ammissione della controinteressata, acquisita prima o in assenza della sua pubblicazione sul profilo telematico della stazione appaltante, può dunque provenire da qualsiasi fonte e determina la decorrenza del termine decadenziale per la proposizione del ricorso” (Cons. St. 5870 del 2017)”;
Evidenziato che, laddove si tratti -come nella specie- della impugnazione di un provvedimento di esclusione, la conoscenza dei relativi profili lesivi deve ritenersi insita nella percezione della sua adozione da parte dell’impresa esclusa, tanto più se acquisita congiuntamente a quella delle relative ragioni determinanti;
Evidenziato conseguentemente che il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, proposto dalla parte ricorrente solo in data 25.05.2018, non può che essere considerato tardivo, nella parte in cui si rivolge avverso il provvedimento di esclusione, di fatto adottato dalla commissione di gara in occasione della seduta del 15.02.2018 e portato a conoscenza dell’impresa appellante (per il tramite del suo rappresentante) alla seduta del 30.03.2018 …
».
È pur vero che questo Collegio con sentenza n. 340 del 05.04.2017 (citata nella memoria di parte ricorrente del 05.10.2018) ha evidenziato, con riferimento ad una fattispecie in cui veniva in contestazione la differente ipotesi della omessa tempestiva impugnazione di una ammissione, che: «… Per tutto quanto rilevato, il Collegio ritiene che, nel caso di specie, essendo mancata la pubblicazione sul profilo del committente, soltanto dalla data di invio della pec decorra il termine dei trenta giorni previsto per l’impugnativa dell’unico provvedimento che ha reso noto l’elenco delle ditte ammesse e di quella risultata aggiudicataria.
In tal senso depone quanto da ultimo ribadito dal Consiglio di Stato (sez. Cons. Sato, sez. III, sent. 4994 del 25.11.2016, richiamata anche dal ricorrente e riferita all’applicazione dell’art. 120, comma 6-bis, c.p.a, introdotto dall’art. 204 D.Lgs. n. 50 del 2016, seppure con riferimento al diverso profilo del regime temporale di applicazione delle nuove regole processuali) ai sensi del quale “in difetto del (contestuale) funzionamento delle regole che assicurano la pubblicità e la comunicazione dei provvedimenti di cui si introduce l’onere di immediata impugnazione -che devono, perciò, intendersi legate da un vincolo funzionale inscindibile- la relativa prescrizione processuale si rivela del tutto inattuabile, per la mancanza del presupposto logico della sua operatività e, cioè, la predisposizione di un apparato regolativo che garantisca la tempestiva informazione degli interessati circa il contenuto del provvedimento da gravare nel ristretto termine di decadenza ivi stabilito” e che i dubbi circa l’applicazione delle nuove regole processuali debbono “essere risolti preferendo l’opzione ermeneutica meno sfavorevole per l’esercizio del diritto di difesa (e, quindi, maggiormente conforme ai principi costituzionali espressi dagli artt. 24 e 113)”.
Tale orientamento, del resto, risulta conforme ai principi più volte ribaditi in ambito comunitario (il riferimento è alle più recenti sentenze della Corte di Giustizia 26.11.2015, C-166/14 e 08.05.2014, C-161/13 che evidenziano la violazione del principio di effettività laddove la normativa nazionale obbliga alla proposizione di determinati ricorsi senza consentire una previa completa conoscenza degli atti). …
».
Tuttavia, la fattispecie in esame -come si illustrerà di qui a breve- si caratterizza per una immediata e piena cognizione, da parte della impresa interessata, delle ragioni della esclusione fin dalla data del 09.03.2018 quando il delegato della Na. era presente nel corso della seduta pubblica in cui si decideva l’esclusione della stessa ditta.
Inoltre, quelle stesse ragioni di esclusione confluiscono nel successivo provvedimento del 27.04.2018 ed attorno ad esse (in particolare la carenza, in capo alla società istante, del requisito di capacità tecnico-professionale di cui al punto III.1.3 del bando ed al par. 2.2.3 del disciplinare di gara) ruota l’intero impianto del ricorso introduttivo notificato solo in data 28.05.2018.
Ne consegue che se il dies a quo di cui al combinato disposto degli artt. 120, comma 2-bis cod. proc. amm. e 29, comma 1, dlgs n. 50/2016 come novellato sul punto dal dlgs 19.04.2017, n. 56 (“Il termine per l’impugnativa di cui al citato articolo 120, comma 2-bis, decorre dal momento in cui gli atti di cui al secondo periodo sono resi in concreto disponibili, corredati di motivazione”) ha una ratio garantista nel senso di affermare l’impugnabilità del provvedimento sin dal momento in cui si può avere piena conoscenza dei relativi vizi, nel caso di specie non è possibile mettere in discussione che sin dalla data del 09.03.2018 il delegato dell’impresa e quindi l’impresa stessa avessero piena consapevolezza dei vizi della esclusione medesima.
Pertanto, non vi è giustificazione alcuna nella fattispecie de qua per derogare ai principi generali sanciti dall’art. 41, comma 2, cod. proc. amm., se non a patto di consentire alla impresa ricorrente una ingiustificata remissione in termini rispetto al termine decadenziale per impugnare, a fronte di un comportamento indubbiamente negligente della stessa ditta e quindi non meritevole di tutela sul piano giuridico.
Peraltro, sul punto specifico dell’onere di immediata impugnazione del provvedimento di esclusione si può ritenere che l’art. 120, comma 2-bis, primo periodo cod. proc. amm. non abbia portata innovativa rispetto al precedente quadro normativo, come interpretato dalla giurisprudenza amministrativa dell’epoca, diversamente da quanto affermato da questo Collegio con le ordinanze n. 903 del 20.06.2018 e n. 1097 del 20.07.2018 con riferimento al “provvedimento di ammissione”.
Infatti, in precedenza (i.e. in epoca antecedente all’entrata in vigore del dlgs n. 50/2016 che ha introdotto la previsione di cui al comma 2-bis, primo periodo dell’art. 120 cod. proc. amm.), la necessità della immediata impugnazione di un atto endoprocedimentale era stata affermata dal Consiglio di Stato con riguardo al provvedimento di esclusione adottato dalla Commissione nel corso di una seduta alla quale avesse partecipato un rappresentante della concorrente esclusa (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 23.02.2015, n. 856: “… Il termine decadenziale per impugnare gli atti delle procedure di affidamento di appalti pubblici, ed in particolare l’aggiudicazione definitiva in favore di terzi, decorre dalla conoscenza di quest’ultima comunque acquisita dall’impresa partecipante alla gara (da ultimo: Sez. IV, 20.01.2015, n. 143 e Sez. III, 07.01.2015, n. 25; in precedenza: Ad. plen. 31.07.2012, n. 31). A questo principio di diritto, ripetutamente affermato dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, fa unica eccezione il caso in cui sia impugnato il provvedimento di esclusione dalla gara adottato dalla commissione nel corso della stessa ed in una seduta alla quale abbia partecipato un rappresentante della concorrente esclusa. Trattandosi infatti di determinazione immediatamente lesiva, malgrado il suo carattere endoprocedimentale, la giurisprudenza fissa la decorrenza del termine decadenziale ex art. 29 cod. proc. amm. in tale momento (in questi termini: Sez. III, 22.08.2012, n. 4593; Sez. IV, 17.02.2014, n. 740; Sez. V, 22.12.2014, n. 6264, 14.05.2013, n. 2614; Sez. VI, 13.12.2011, n. 6531). …”).
Quindi, la regola applicabile nel caso concreto all’esame di questo Giudice non costituisce reale deviazione rispetto alla giurisprudenza, in precedenza formatasi, del Consiglio di Stato (Cons. Stato, Sez. III, sent. 4994 del 25.11.2016) e di questo TAR (sent. n. 340/2017) in ordine alla generale affermazione della operatività del dies a quo ex art. 120, comma 2-bis, cod. proc. amm. unicamente se è attivo il meccanismo di pubblicazione (dell’elenco di ammessi ed esclusi) sul sito internet della stazione appaltante.
Invero, la giurisprudenza amministrativa menzionata (Cons. Stato, Sez. III, 25.11.2016, n. 4994 e TAR Puglia, Bari, Sez. III, 05.04.2017, n. 340) è comunque temporalmente antecedente rispetto al correttivo al codice dei contratti pubblici di cui al decreto legislativo n. 57 del 19.04.2017 in forza del quale (cfr. novellato art. 29, comma 1, dlgs n. 50/2016) il dies a quo per impugnare il provvedimento di ammissione/esclusione ai sensi dell’art. 120, comma 2-bis, cod. proc. amm. non è più dato puramente e semplicemente dalla pubblicazione sul profilo internet del committente dei suddetti provvedimenti, bensì è costituito dal momento (posticipato rispetto al primo) in cui gli atti di cui al secondo periodo del citato art. 29, comma 1 (i.e. documentazione attestante l’assenza dei motivi di esclusione di cui all’art. 80 dlgs n. 50/2016, nonché la sussistenza dei requisiti economico-finanziari e tecnico-professionali) sono resi in concreto disponibili, corredati di motivazione.
È quindi evidente -come rilevato in precedenza- che la ratio garantista della nuova formulazione del citato art. 29, comma 1, dlgs n. 50/2016 (rectius dies a quo per impugnare decorrente dalla piena conoscenza o conoscibilità dei vizi dell’atto) si rinviene parimenti nella affermazione della permanente validità del tradizionale orientamento che onera l’impresa concorrente dall’impugnare immediatamente il verbale di esclusione se reso nel corso di una seduta pubblica ove era presente il delegato di detta impresa, come appunto accaduto nella vicenda per cui è causa.
   - Dunque, i suesposti principi possono -come anticipato- trovare applicazione nel caso di specie.

EDILIZIA PRIVATA: DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Reati urbanistici - Opere edilizie in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire - Responsabilità del progettista e del direttore dei lavori - Individuazione del dies a quo per la decorrenza della prescrizione - Giurisprudenza - Art. 44, d.P.R. n. 380/2001 - Fattispecie: piano seminterrato palesemente non era ancora ultimato.
In tema di reati edilizi, la valutazione dell'opera ai fini della individuazione del dies a quo per la decorrenza della prescrizione deve riguardare la stessa nella sua unitarietà, senza che sia consentito considerare separatamente i suoi singoli componenti (Sez. 3, n. 30147 del 19/04/2017, Tomasulo).
Inoltre, ai fini del decorso del termine di prescrizione del reato, di cui all'art. 44, primo comma, lett. b), d.P.R. 380/2001, l'uso effettivo dell'immobile, accompagnato dall'attivazione delle utenze e dalla presenza di persone al suo interno, non è sufficiente al fine di ritenere "ultimato" l'immobile abusivamente realizzato, coincidendo l'ultimazione con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni, quali gli intonaci e gli infissi (Sez. 3, n. 39733 del 18/10/2011, Ventura; Sez. 3, n. 48002 del 17/09/2014, Surano, che ha specificato essere onere del ricorrente che voglia retrodatare la consumazione del reato dimostrare di avere non solo sospeso l'attività edilizia, ma anche di aver inteso lasciare volutamente l'opera abusiva nello stato in cui è stata rinvenuta). L'ultimazione dei lavori, coincidente con la realizzazione delle rifiniture, deve riferirsi anche per le parti che costituiscono annessi dell'abitazione, come i locali destinati a magazzino e garage (Sez. 3, n. 8172 del 27/01/2010, Vitali).
Del resto, nel caso di specie, le difformità dal permesso di costruire rilasciato concernevano non tanto il piano abitativo dell'edificio -in effetti già occupato- quanto il sottostante piano seminterrato, vale a dire proprio quello che, secondo la non contestata ricostruzione della sentenza impugnata, palesemente non era ancora ultimato al momento del sopralluogo
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.10.2018 n. 46215 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli atti vincolati (ndr: di demolizione) devono intendersi congruamente motivati con la mera giustificazione del potere esercitato, mediante la sola indicazione dei presupposti normativi e fattuali.
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Più in generale, va detto che i provvedimenti di repressione degli abusi edilizi sono atti dovuti con carattere essenzialmente vincolato e privi di margini discrezionali, per cui è da escludere la necessità di una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico concreto ed attuale o di una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati.
Ne discende che essi sono sufficientemente motivati con riguardo all’oggettivo riscontro dell’abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime dei titoli abilitativi edilizi e del corrispondente trattamento sanzionatorio, non rivelandosi necessario alcun ulteriore obbligo motivazionale.
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4. La disposizione impugnata indica in motivazione, in maniera sufficientemente chiara e precisa, sia la normativa urbanistico-edilizia ritenuta violata (disciplina urbanistica comunale), sia la tipologia dell’illecito commesso (costruzione di sottotetto ad uso abitativo non assoggettabile a sanatoria); ne consegue che, trattandosi nella specie di attività vincolata tesa alla repressione di illeciti, il corredo motivazionale appare sicuramente adeguato nonché conforme al consolidato principio secondo il quale gli atti vincolati devono intendersi congruamente motivati con la mera giustificazione del potere esercitato, mediante la sola indicazione dei presupposti normativi e fattuali (cfr. TAR Lazio Roma, Sez. II-bis, 23.04.2008 n. 3498).
4.1 Più in generale, va detto che i provvedimenti di repressione degli abusi edilizi sono atti dovuti con carattere essenzialmente vincolato e privi di margini discrezionali, per cui è da escludere la necessità di una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico concreto ed attuale o di una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati; ne discende che essi sono sufficientemente motivati con riguardo all’oggettivo riscontro dell’abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime dei titoli abilitativi edilizi e del corrispondente trattamento sanzionatorio, non rivelandosi necessario alcun ulteriore obbligo motivazionale (cfr. Consiglio di Stato, A.P., 17.10.2017 n. 9; Consiglio di Stato, Sez. VI, 27.03.2017 n. 1386 e 28.02.2017 n. 908; Consiglio di Stato, Sez. IV, 12.10.2016 n. 4205 e 31.08.2016 n. 3750).
5. Né è rinvenibile il denunciato difetto di istruttoria, soffermandosi diffusamente il provvedimento impugnato sulle concrete ragioni che non rendevano praticabile la sanabilità del sottotetto (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 12.10.2018 n. 5900 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Vale osservare come anche il permesso di costruire in sanatoria (emesso a seguito di istanza di accertamento di conformità) abbia carattere vincolato, dal momento che, ai sensi dell’art. 36 d.P.R. n. 380/2001, esso può essere rilasciato solo laddove sia constatata la conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda (cd. requisito della doppia conformità urbanistico-edilizia).
Ebbene, sulla scorta dell’enunciato di cui all’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 e del principio dei cosiddetti vizi non invalidanti, la violazione delle norme sul procedimento nei provvedimenti vincolati assume una connotazione di tipo sostanziale e sussiste ogni qualvolta l’amministrazione possa effettivamente beneficiare degli apporti procedimentali mediante l’acquisizione di un contributo rappresentativo degli interessi contrapposti, e non anche nelle ipotesi in cui il provvedimento sarebbe stato in ogni caso emanato in quanto atto in concreto necessitato.
Infatti, l’eventuale intermediazione del preavviso di rigetto ex art. 10-bis della legge n. 241/1990 comunque non avrebbe fatto sortire all’istanza di accertamento di conformità in questione un esito diverso, atteso il suo innegabile contrasto con la disciplina urbanistica comunale.

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5.1 Infine, quanto alla lamentata violazione delle garanzie procedimentali, vale osservare come anche il permesso di costruire in sanatoria (emesso a seguito di istanza di accertamento di conformità) abbia carattere vincolato, dal momento che, ai sensi dell’art. 36 d.P.R. n. 380/2001, esso può essere rilasciato solo laddove sia constatata la conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda (cd. requisito della doppia conformità urbanistico-edilizia).
Ebbene, sulla scorta dell’enunciato di cui all’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 e del principio dei cosiddetti vizi non invalidanti, la violazione delle norme sul procedimento nei provvedimenti vincolati assume una connotazione di tipo sostanziale e sussiste ogni qualvolta l’amministrazione possa effettivamente beneficiare degli apporti procedimentali mediante l’acquisizione di un contributo rappresentativo degli interessi contrapposti, e non anche nelle ipotesi, come quella di specie, in cui il provvedimento sarebbe stato in ogni caso emanato in quanto atto in concreto necessitato (orientamento consolidato: cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sez. IV, 27.01.2011 n. 609); infatti, l’eventuale intermediazione del preavviso di rigetto ex art. 10-bis della legge n. 241/1990 comunque non avrebbe fatto sortire all’istanza di accertamento di conformità in questione un esito diverso, atteso il suo innegabile contrasto con la disciplina urbanistica comunale, come già rimarcato al precedente paragrafo 3 (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 12.10.2018 n. 5900 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di sanzioni amministrative (nella specie, quelle urbanistico-edilizie), non vige il principio di irretroattività della legge, che la Costituzione pone solo per le norme penali, per cui per determinare la sfera di applicabilità della disciplina sanzionatoria edilizia occorre aver riguardo non alla data della costruzione abusiva, ma al momento in cui la pubblica amministrazione accerta l’esistenza dell’illecito.
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La doglianza è infondata.
Infatti, questa Sezione ha più volte affermato che in materia di sanzioni amministrative (nella specie, quelle urbanistico-edilizie), non vige il principio di irretroattività della legge, che la Costituzione pone solo per le norme penali (cfr. Cons. Stato, VI, 31.05.1982, n. 275; V, 30.09.1980, n. 800), per cui per determinare la sfera di applicabilità della disciplina sanzionatoria edilizia occorre aver riguardo non alla data della costruzione abusiva, ma al momento in cui la pubblica amministrazione accerta l’esistenza dell’illecito (Cons. Stato, V, 29.04.2000, n. 2544 e 09.02.1996, n. 152).
La riferita conclusione trova una specifica conferma negli artt. 32, comma 3, 33, comma 3, e 40, comma 1, della citata legge n. 47 del 1985, che assoggettano alla demolizione le opere abusive realizzate prima dell’entrata in vigore della legge non suscettibili di sanatoria.
Va comunque rilevato che la sanzione demolitoria non è stata introdotta per la prima volta dalla legge n. 47 del 1985, ma era già prevista dall'articolo 32 della legge urbanistica del 1942 (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.10.2018 n. 5887 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non ha alcuna rilevanza che dalla motivazione dell’ordinanza di demolizione non emerga una valutazione unitaria e complessiva degli interventi sanzionati; ciò che conta è, infatti, che oggettivamente esista tra loro quell’intrinseco collegamento funzionale che ne impone una considerazione unitaria.
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Un consolidato orientamento giurisprudenziale, da cui la Sezione non ritiene di doversi discostare, esclude che l'ordine di demolizione di opere abusive debba essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, avendo la misura sanzionatoria carattere vincolato.
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Il decorso del tempo non può incidere sull'ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l'illecito attraverso l'emanazione di provvedimenti doverosi per legge.
Conseguentemente deve escludersi che l'ordinanza di demolizione di un immobile abusivo richieda una particolare esposizione delle ragioni che la sorreggono risultando la stessa adeguatamente motivata mercé il richiamo al comprovato carattere abusivo delle opere, senza che si impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali.
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Col secondo motivo si deduce che il giudice di prime cure avrebbe errato a respingere la doglianza con cui si era lamentato che il Sindaco non avrebbe potuto ingiungere la demolizione delle opere accessorie rispetto alla piscina (vialetto, solarium e pavimentazione esterna) non essendo la detta sanzione applicabile agli interventi soggetti a semplice autorizzazione come quelli di specie.
Il Tribunale ha motivato la reiezione affermando che “Tali opere sono state ritenute, nel loro insieme, contrastanti rispetto al vincolo idrogeologico.
Coerentemente il diniego di sanatoria ha interessato tali interventi unitariamente considerati.
L’impugnato ordine di demolizione ha considerato gli stessi, nel loro complesso, assoggettati a regime concessorio, trattandosi di abusi edilizi rispondenti ad un disegno unitario, ovvero costituenti l’uno il completamento dell’altro, stante la stretta connessione tra piscina, relativi accessi, solarium, e volumi tecnici …. Non è quindi dato scorporare le opere di trasformazione del territorio nei singoli interventi che le compongono, onde valutarne l’impatto e la disciplina isolandone l’una dall’altra, trattandosi di manufatti che rilevano, sul piano degli effetti lesivi per il territorio, nel loro insieme. Inoltre, va esclusa l’applicabilità del regime autorizzatorio proprio delle pertinenze laddove l’opera accessoria acceda ad un manufatto principale abusivo assoggettabile alla sanzione demolitoria …, estendendosi l’esigenza ripristinatoria al complesso dei beni realizzati abusivamente, compresi quelli accessori al manufatto principale abusivo
”.
Tuttavia, per un verso tale motivazione risulterebbe estranea al provvedimento impugnato, per altro verso le opere in questione, seppur correlate alla piscina, da essa si distinguerebbero “per le ridotte dimensioni, per l’ubicazione, per il modesto valore economico, per l’assenza di carico urbanistico”.
La censura non merita accoglimento.
Diversamente da quanto l’appellante sostiene non ha alcuna rilevanza che dalla motivazione dell’ordinanza di demolizione non emerga una valutazione unitaria e complessiva degli interventi sanzionati, ciò che conta è, infatti, che oggettivamente esista tra loro quell’intrinseco collegamento funzionale che ne impone una considerazione unitaria.
Nella fattispecie non è dubbio che vialetto, solarium e pavimentazione esterna siano opere a servizio della piscina che, assieme ad essa danno luogo, dal punto di vista urbanistico-edilizio, a un unitario intervento, senza che, in contrario, possano rilevare le caratteristiche delle dette opere accessorie invocate dall’appellante: “ridotte dimensioni, … ubicazione, … modesto valore economico, … assenza di carico urbanistico”.
Col terzo motivo si denuncia l’errore commesso dal giudice di prime cure nel disattendere la censura con la quale era stata dedotta l’omessa comunicazione di avvio del procedimento.
Il mezzo di gravame è infondato.
Un consolidato orientamento giurisprudenziale, da cui la Sezione non ritiene di doversi discostare, esclude che l'ordine di demolizione di opere abusive debba essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, avendo la misura sanzionatoria carattere vincolato (ex plurimis Cons. Stato, IV, 31.08.2018, n. 5123; 19.03.2018, n. 1717 e 29.11.2017, n. 5595; VI, 16.03.2018, n. 1688).
Col quarto motivo si lamenta che il Tribunale avrebbe errato a respingere la censura con cui era stato dedotto che in considerazione del lungo tempo trascorso dalla commissione dell’abuso, l’ordine di demolizione avrebbe dovuto essere sorretto da adeguata motivazione.
La doglianza è infondata.
Il decorso del tempo non può incidere sull'ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l'illecito attraverso l'emanazione di provvedimenti doverosi per legge.
Conseguentemente deve escludersi che l'ordinanza di demolizione di un immobile abusivo richieda una particolare esposizione delle ragioni che la sorreggono risultando la stessa adeguatamente motivata mercé il richiamo al comprovato carattere abusivo delle opere, senza che si impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali (Cons. Stato, Cons. Stato, Ad. Plen. 17.10.2017, n. 9; VI, 06.07.2018, n. 4135; 19.06.2018, n. 3773; 02.05.2018, n. 2612 e 26.03.2018, n. 1887) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.10.2018 n. 5887 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: PROCESSO AMMINISTRATIVO - Responsabilità precontrattuale del privato - Violazione degli obblighi di buona fede e correttezza - Domanda risarcitoria della P.A. - Giurisdizione del giudice ordinario.
L’attrazione della tutela risarcitoria dinanzi al giudice amministrativo può verificarsi soltanto qualora il danno patito dal soggetto che agisce nei confronti della pubblica amministrazione sia conseguenza immediata e diretta della dedotta illegittimità del provvedimento che ha impugnato (cfr. Cass. civ. S.U. ordinanze nn. 17586 del 04.09.2015, 12799 del 22.05.2017, 1654 del 23.01.2018, Cass. civ. sez. I n. 25644 del 27.10.2017 e Cass. sez. Lavoro n. 2327 del 05.02.2016).
In relazione a fattispecie vertenti su una domanda risarcitoria avanzata dall’Amministrazione nei confronti di un privato a titolo di responsabilità precontrattuale, imperniata sulla violazione di obblighi di buona fede e correttezza e sull’assenza di un provvedimento da caducare, la Suprema Corte ha affermato l’attrazione nella giurisdizione dell’A.G.O. (cfr. Sez. un., 04.07.2017, n. 16419).
In senso analogo si è espressa anche la giurisprudenza amministrativa, sul presupposto che la giurisdizione amministrativa esclusiva trova il suo limite e la sua giustificazione nelle situazioni connotate dall’esercizio di un potere pubblicistico nelle quali l’intreccio tra interessi legittimi e diritti soggettivi rende difficile individuare di volta in volta il plesso giurisdizionale competente, sicché ove l’Amministrazione si reclama danneggiata da un comportamento attuato da privati, senza alcuna inerenza ad un potere pubblico deve essere declinata la giurisdizione a favore del giudice ordinario
(cfr. TAR Toscana, I Sezione, sentenza 12/05/2011, n. 818) (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 12.10.2018 n. 2267 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: Responsabilità precontrattuale dell’offerente e giurisdizione giudice ordinario.
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Giurisdizione - Risarcimento danni – Responsabilità precontrattuale – Dell’offerente che ha coinvolto la stazione appaltante in trattative inutili – Giurisdizione giudice ordinario.
La domanda risarcitoria proposta in via riconvenzionale dall’Amministrazione, facendo valere la responsabilità precontrattuale del privato per i danni da essa sofferti in conseguenza del coinvolgimento in trattative rivelatesi inutili -avendo partecipato ad una gara senza verificare, alla stregua di elementi che dovevano già essere conosciuti o conoscibili, la propria possibilità di impegnarsi contrattualmente- si colloca al di fuori della giurisdizione del giudice adito, rientrando in quella del giudice ordinario (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che l’attrazione della tutela risarcitoria dinanzi al giudice amministrativo può verificarsi soltanto qualora il danno patito dal soggetto che agisce nei confronti della pubblica amministrazione sia conseguenza immediata e diretta della dedotta illegittimità del provvedimento che ha impugnato (Cass. civ., S.U., ordd. nn. 17586 del 04.09.2015, 12799 del 22.05.2017, 1654 del 23.01.2018).
Con la recente ordinanza delle Sezioni unite civili del 24.09.2018, n. 22435, poi, la Suprema Corte ha ribadito che “si è al di fuori della giurisdizione amministrativa se viene in rilievo una fattispecie complessa in cui l’emanazione di un provvedimento favorevole, che venga successivamente annullato in quanto illegittimo, si configura solo come uno dei presupposti dell’azione risarcitoria che si fonda altresì sulla capacità del provvedimento di determinare l’affidamento dell’interessato e la lesione del suo patrimonio che consegue a tale affidamento e alla sopravvenuta caducazione del provvedimento favorevole”.
Di particolare rilievo è l’ulteriore osservazione, svolta nell’ordinanza n. 22435, a proposito delle materie attribuite alla giurisdizione esclusiva del G.A., rispetto alle quali si afferma che “permane la linea di discrimine fra azioni risarcitorie dipendenti dall’illegittimità dell’atto e azioni risarcitorie dipendenti dall’affidamento derivato dal comportamento della pubblica amministrazione, rimanendo privo di rilievo che tale comportamento sia più o meno direttamente connesso all’esercizio dell’attività appartenente al settore di competenza esclusiva. Nel secondo caso il soggetto leso denuncia non già la lesione del suo interesse legittimo pretensivo bensì quella della sua integrità patrimoniale derivata dall’affidamento incolpevole sulla legittimità dell’attribuzione favorevole poi caducata. Viene quindi in rilievo in questa ipotesi non solo la situazione lesa, che peraltro è riferibile a un diritto soggettivo e non a un interesse legittimo, ma anche la natura stessa del comportamento lesivo che non consiste tanto ed esclusivamente nella illegittimità dell’agire della p.a. ma piuttosto nella violazione del principio generale del neminem laedere”.
Anche in precedenza, in relazione a fattispecie vertenti, come quella in esame, su una domanda risarcitoria avanzata dall’Amministrazione nei confronti di un privato a titolo di responsabilità precontrattuale, imperniata sulla violazione di obblighi di buona fede e correttezza e sull’assenza di un provvedimento da caducare, la Suprema Corte ne aveva affermato l’attrazione nella giurisdizione dell’A.G.O. (Cass. civ., S.U., 04.07.2017, n. 16419).
In senso analogo, del resto, si è espressa anche la giurisprudenza amministrativa, sul presupposto che la giurisdizione amministrativa esclusiva, come chiarito dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 204/2004, trova “il suo limite e la sua giustificazione nelle situazioni connotate dall’esercizio di un potere pubblicistico nelle quali l’intreccio tra interessi legittimi e diritti soggettivi rende difficile individuare di volta in volta il plesso giurisdizionale competente”, sicché ove l’Amministrazione “si reclama danneggiata da un comportamento attuato da privati, senza alcuna inerenza ad un potere pubblico” deve essere declinata la giurisdizione a favore del giudice ordinario (Tar Toscana, sez. I, 12.05.2011, n. 818) (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 12.10.2018 n. 2267 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
9) Sempre in via preliminare, si rende necessario, per la soluzione della controversia in esame, qualificare il titolo di responsabilità invocato da parte ricorrente.
9.1) A tale scopo,
il Collegio rammenta che la giurisprudenza, sia civile che amministrativa, ha in più occasioni affermato come, anche nello svolgimento dell’attività autoritativa, l’amministrazione sia tenuta a rispettare, non soltanto, le norme di diritto pubblico (la cui violazione implica, di regola, l’invalidità del provvedimento e l’eventuale responsabilità da provvedimento per lesione dell’interesse legittimo), ma, anche le norme generali dell’ordinamento civile, che impongono di agire con lealtà e correttezza; la violazione di queste ultime, quindi, può far nascere una responsabilità da comportamento scorretto, che incide non sull’interesse legittimo ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illegittime frutto dell’altrui scorrettezza (cfr., fra le altre, Cons. Stato, sez. VI, 06.02.2013, n. 633; id., sez. IV, 06.03.2015, n. 1142; id., Ad. plen., 05.09.2005, n. 6; Cass. civ., Sez. un., 12.05.2008, n. 11656; Cass. civ., sez. I, 12.05.2015, n. 9636; Cass. civ., sez. I, 03.07.2014, n. 15250).
Recentemente, anche il Consiglio di Stato, in Adunanza Plenaria, ha ribadito che: “
Le regole di diritto pubblico hanno ad oggetto il provvedimento (l’esercizio diretto ed immediato del potere) e la loro violazione determina, di regola, l’invalidità del provvedimento adottato. Al contrario, la regole di diritto privato hanno ad oggetto il comportamento (collegato in via indiretta e mediata all’esercizio del potere) complessivamente tenuto dalla stazione appaltante nel corso della gara. La loro violazione non dà vita ad invalidità provvedimentale, ma a responsabilità. Non diversamente da quanto accade nei rapporti tra privati, anche per la P.A. le regole di correttezza e buona fede non sono regole di validità (del provvedimento), ma regole di responsabilità (per il comportamento complessivamente tenuto)” (così, sentenza 04/05/2018, n. 5).
9.2) Ebbene, applicando le suesposte coordinate ermeneutiche al caso di specie, è agevole ricavare come l’esponente alleghi e argomenti, in concreto, una responsabilità dell’intimato Comune da provvedimento illegittimo, la revoca, che, tuttavia, non ha impugnato, provocandone così la inoppugnabilità.
9.3) In siffatte evenienze, reputa il Collegio che, pur non essendovi preclusioni in rito in ordine all’ammissibilità dell’azione risarcitoria per lesione dell’interesse legittimo non accompagnata dall’impugnazione del provvedimento asseritamente causativo dei danni, nondimeno, occorre fare applicazione dell’art. 30, co. 3 c.p.a., a tenore del quale “
Nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti”.
La disposizione, pur non evocando in modo esplicito il disposto dell'art. 1227, comma 2, cod. civ., afferma che l'omessa attivazione degli strumenti di tutela previsti costituisce, nel quadro del comportamento complessivo delle parti, dato valutabile, alla stregua del canone di buona fede e del principio di solidarietà, ai fini dell'esclusione o della mitigazione del danno evitabile con l'ordinaria diligenza (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., Sent. 23.03.2011, n. 3, per cui “
… il codice del processo amministrativo sancisce la regola secondo cui la tenuta, da parte del danneggiato, di una condotta, attiva od omissiva, contraria al principio di buona fede ed al parametro della diligenza, che consenta la produzione di danni che altrimenti sarebbero stati evitati secondo il canone della causalità civile imperniato sulla probabilità relativa (secondo il criterio del "più probabilmente che non": Cass., sezioni unite, 11.01.1008, n. 577; sez. III, 12.03.2010, n. 6045), recide, in tutto o in parte, il nesso casuale che, ai sensi dell'art. 1223 c.c., deve legare la condotta antigiuridica alle conseguenze dannose risarcibili. Di qui la rilevanza sostanziale, sul versante prettamente causale, dell'omessa o tardiva impugnazione come fatto che preclude la risarcibilità di danni che sarebbero stati presumibilmente evitati in caso di rituale utilizzazione dello strumento di tutela specifica predisposto dall'ordinamento a protezione delle posizioni di interesse legittimo onde evitare la consolidazione di effetti dannosi).
9.4) Ebbene, nella specie, rileva il Collegio che l’esponente, che aveva già avviato d’urgenza il servizio sin dal 12.09.2011, ricevuta la revoca del 09.11.2011, i cui effetti erano differiti al successivo 14.11.2011, ben avrebbe potuto, onde evitare danni, promuovere tempestivamente la domanda annullatoria, con annessa tutela cautelare, anche monocratica, allo scopo di impedire –se del caso– l’interruzione del servizio, dalla stessa già in corso di espletamento.
Di contro, la scelta di rimanere inerte e di attendere, dopo quasi quattro mesi dal provvedimento asseritamente lesivo, l’attivazione della tutela risarcitoria, non risulta rispettosa delle ordinarie regole di diligenza. Ciò, tanto più in quanto, come si legge nel ricorso, il predetto provvedimento assume un rilievo pregnante nella descrizione degli elementi costitutivi dell’illecito, così come operata da parte esponente, che non si premura neppure di provare l’elemento soggettivo a carico dell’Amministrazione, ritenendolo insito nell’illegittimità dell’atto non impugnato.
Risulta allora evidente, in siffatte evenienze, la mancanza del prescritto nesso eziologico fra la revoca e l’asserito danno. Detto collegamento causale, infatti, è stato irrimediabilmente reciso dal comportamento dell’esponente che, omettendo colposamente l’esperimento dei mezzi di tutela all’uopo previsti e in precedenza richiamati, non ha evitato, come avrebbe potuto, i danni qui lamentati come conseguenti alla predetta revoca.
10) Per le considerazioni sin qui esposte, il ricorso introduttivo va respinto stante l’insussistenza degli elementi costitutivi della domanda risarcitoria, come in epigrafe formulata.
11) Si può così passare all’esame della domanda riconvenzionale del Comune, sulla quale si osserva quanto segue.
11.1) La resistente fa valere la responsabilità precontrattuale del ricorrente poiché “dapprima ha colposamente coinvolto in trattative inutili la P.A., avendo partecipato ad una gara senza verificare, alla stregua di elementi che dovevano già essere conosciuti o conoscibili, la propria possibilità di impegnarsi contrattualmente e successivamente ha colposamente posto in essere comportamenti determinanti un danno ingiusto per l’amministrazione e gli utenti del servizio di trasporto scolastico di cui è causa” (cfr. domanda riconvenzionale, pagine 14-15, in atti).
Ebbene, già in sede di udienza pubblica sono stati rappresentati all’attrice riconvenzionale i possibili profili di inammissibilità della formulata domanda, per estraneità della stessa dalla giurisdizione esclusiva del Giudice adito.
Al riguardo,
è noto, essendo stato ripetutamente affermato dalla Corte di Cassazione, a partire dalle ordinanze nn. 6594-6596 del 23.03.2011, che l’attrazione della tutela risarcitoria dinanzi al giudice amministrativo può verificarsi soltanto qualora il danno patito dal soggetto che agisce nei confronti della pubblica amministrazione sia conseguenza immediata e diretta della dedotta illegittimità del provvedimento che ha impugnato (cfr. Cass. civ. S.U. ordinanze nn. 17586 del 04.09.2015, 12799 del 22.05.2017, 1654 del 23.01.2018, Cass. civ. sez. I n. 25644 del 27.10.2017 e Cass. sez. Lavoro n. 2327 del 05.02.2016).
Con la recente ordinanza delle Sezioni unite civili del 24.09.2018, n. 22435, poi, la Suprema Corte ha ribadito che “
si è al di fuori della giurisdizione amministrativa se viene in rilievo una fattispecie complessa in cui l’emanazione di un provvedimento favorevole, che venga successivamente annullato in quanto illegittimo, si configura solo come uno dei presupposti dell’azione risarcitoria che si fonda altresì sulla capacità del provvedimento di determinare l’affidamento dell’interessato e la lesione del suo patrimonio che consegue a tale affidamento e alla sopravvenuta caducazione del provvedimento favorevole”.
Di particolare rilievo, in relazione al caso in esame, si presenta l’ulteriore osservazione, svolta nell’ordinanza n. 22435, a proposito delle materie attribuite alla giurisdizione esclusiva del G.A., rispetto alle quali si afferma che “
permane la linea di discrimine fra azioni risarcitorie dipendenti dall’illegittimità dell’atto e azioni risarcitorie dipendenti dall’affidamento derivato dal comportamento della pubblica amministrazione, rimanendo privo di rilievo che tale comportamento sia più o meno direttamente connesso all’esercizio dell’attività appartenente al settore di competenza esclusiva. Nel secondo caso il soggetto leso denuncia non già la lesione del suo interesse legittimo pretensivo bensì quella della sua integrità patrimoniale derivata dall’affidamento incolpevole sulla legittimità dell’attribuzione favorevole poi caducata. Viene quindi in rilievo in questa ipotesi non solo la situazione lesa, che peraltro è riferibile a un diritto soggettivo e non a un interesse legittimo, ma anche la natura stessa del comportamento lesivo che non consiste tanto ed esclusivamente nella illegittimità dell’agire della p.a. ma piuttosto nella violazione del principio generale del neminem laedere”.
Anche in precedenza, in relazione a fattispecie vertenti, come quella in esame, su una domanda risarcitoria avanzata dall’Amministrazione nei confronti di un privato a titolo di responsabilità precontrattuale, imperniata sulla violazione di obblighi di buona fede e correttezza e sull’assenza di un provvedimento da caducare, la Suprema Corte ne aveva affermato l’attrazione nella giurisdizione dell’A.G.O. (cfr. Sez. un., 04.07.2017, n. 16419).
In senso analogo, del resto, si è espressa anche la giurisprudenza amministrativa, sul presupposto che
la giurisdizione amministrativa esclusiva, come chiarito dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 204/2004, trova “il suo limite e la sua giustificazione nelle situazioni connotate dall’esercizio di un potere pubblicistico nelle quali l’intreccio tra interessi legittimi e diritti soggettivi rende difficile individuare di volta in volta il plesso giurisdizionale competente”, sicché ove l’Amministrazione “si reclama danneggiata da un comportamento attuato da privati, senza alcuna inerenza ad un potere pubblico” deve essere declinata la giurisdizione a favore del giudice ordinario (cfr. TAR Toscana, I Sezione, sentenza 12/05/2011, n. 818).
11.2) Da quanto sin qui esposto si ricava che,
la domanda risarcitoria proposta in via riconvenzionale dall’Amministrazione, facendo valere la responsabilità precontrattuale del privato per i danni da essa sofferti in conseguenza del coinvolgimento in trattative rivelatesi inutili, si colloca al di fuori della giurisdizione del giudice adito, rientrando in quella dell’A.G.O..
12) Conclusivamente, quindi, il ricorso introduttivo va respinto mentre la domanda riconvenzionale va dichiarata inammissibile per difetto di giurisdizione del G.A. adito, rientrando la stessa nella giurisdizione dell’A.G.O., dinanzi al quale potrà essere riproposta, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 11 c.p.a..

URBANISTICA: La tradizionale giurisprudenza opera una distinzione tra i casi di retrocessione totale e di retrocessione parziale, collocando la prima ipotesi nell’alveo della giurisdizione ordinaria e la seconda in quello della giurisdizione amministrativa.
Tale distinzione trova fondamento nella circostanza che, in caso di retrocessione totale, sussiste un diritto soggettivo immediatamente azionabile; nei casi di retrocessione parziale tale diritto è invece destinato a sorgere, come detto, solo a seguito dell’eventuale dichiarazione di inservibilità del bene, mentre prima di allora la situazione soggettiva del privato è qualificabile in termini di interesse legittimo.
Va, tuttavia, considerato che la Corte regolatrice afferma la giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo “nell’ipotesi in cui siano proposte, dopo l'espropriazione di un'area, due azioni congiunte o alternative dall'espropriato, di retrocessione totale per la parte delle superfici acquisite rimasta inutilizzata e parziale per quella su cui si sia realizzata un'opera di pubblica utilità diversa da quella per cui si era proceduto all'esproprio”.
Un decisivo revirement dell’intera materia si registra con la sentenza delle Sezioni unite n. 1092 del 2017 secondo cui “è fuorviante la prospettiva tradizionale del carattere parziale o totale della retrocessione e della connessa configurazione, in capo al soggetto espropriato, di una posizione di interesse legittimo ovvero di diritto soggettivo a seconda della sussistenza o meno di un potere discrezionale di disporre la retrocessione stessa da parte dell'amministrazione. La materia, infatti, trova attualmente una specifica disciplina nel codice del processo amministrativo approvato con D.Lgs. 02.07.2010, n. 104 […] che all'art. 133, comma 1, lett. g), contempla, tra le ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, quella delle "controversie aventi ad oggetto (...) i comportamenti, riconducibili, anche mediatamente, all'esercizio di un pubblico potere, delle pubbliche amministrazioni in materia di espropriazione per pubblica utilità, ferma restando la giurisdizione del giudice ordinario per quelle riguardanti la determinazione e la corresponsione dell'indennità in conseguenza dell'adozione di atti di natura espropriativa o ablativa".
Invero, le Sezioni unite chiariscono che “una situazione di "mediata" riconducibilità del comportamento della pubblica amministrazione all'esercizio di un potere si verifica anche nel caso di protrazione dell'occupazione di un suolo pur dopo la sopraggiunta inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità, ricorrendo anche in tale ipotesi l'elemento decisivo -per l'affermazione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo- del concreto esercizio del potere ablatorio, riconoscibile per tale in base al procedimento svolto ed alle forme adottate, in consonanza con le norme che lo regolano, pur se poi l'ingerenza nella proprietà privata e la sua utilizzazione siano avvenute senza alcun titolo che le consentiva: infatti il comportamento dell'amministrazione, che omette di restituire il terreno occupato in virtù di decreto di occupazione, nonostante quest'ultimo sia stato travolto dalla sopravvenuta inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità, deve ritenersi connesso, ancorché in via mediata, a quel provvedimento, senza il quale non vi sarebbe stata apprensione e, quindi, neppure la mancata restituzione”.
Del pari, nel caso di retrocessione si assiste ad un comportamento dell’Amministrazione speculare al potere espropriativo a base del proprio agire. Infatti, “si è dinanzi al concreto esercizio di un potere ablatorio, culminato nel decreto di espropriazione, e un comportamento ad esso collegato (che non si sarebbe verificato se non vi fosse stato l'esproprio) della pubblica amministrazione, la quale omette la retrocessione del bene nonostante la sussistenza dei presupposti di legge”.
Pertanto, la domanda articolata con il secondo ricorso per motivi aggiunti e volta ad ottenere la retrocessione totale del bene deve ritenersi, comunque, attratta alla giurisdizione del Giudice amministrativo, fatte salve le precisazioni in ordine al quantum debeatur su cui si dirà nel prosieguo della presente sentenza.
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1. Parte ricorrente censura la deliberazione del Consiglio Comunale di Livigno n. 63 del 29.09.2014 con la quale l’Ente provvede a prorogare i termini di efficacia del Piano di Lottizzazione approvato con le delibere n. 27 del 01.06.2004 e n. 48 del 29.09.2004 e finalizzato alla realizzazione di un insediamento a destinazione industriale idoneo a soddisfare le richieste di nuovi insediamenti produttivi e di trasferimento degli insediamenti esistenti in Livigno.
Articola due motivi di ricorso facendo valere l’illegittimità della proroga per violazione della normativa richiamata che imporrebbe un termine di efficacia pari a dieci anni e per mancata esplicitazione delle ragioni fattuali e giuridiche a sostegno della proroga.
Con il primo ricorso per motivi aggiunti la sig.ra Ga. impugna la delibera della Giunta comunale n. 51 del 20.05.2017 per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione primaria del PLU, e chiede, inoltre, che sia dichiarati nulli e/o inefficaci:
   a) la convenzione di lottizzazione stipulata tra il Comune di Livigno e la Co.Ar.Li.;
   b) l’atto di ricomposizione fondiaria di pari data;
   c) l’accordo per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione primaria previsto dagli atti impugnati. Con tale atto la ricorrente deduce, in primo luogo, l’invalidità derivata del provvedimento impugnato richiamando i motivi articolati nel ricorso principale. Propone, inoltre, un unico motivo di ricorso per invalidità propria del provvedimento impugnato rubricato: “Violazione dell’articolo 78, comma 2, del d.lgs. 267/2000”.
Con l’ultimo ricorso per motivi aggiunti la sig.ra Ga. chiede a questo Tribunale di accertare e dichiarare il diritto alla retrocessione del terreno identificato catastalmente al foglio 49, mappale 475 del N.C.T. del Comune di Livigno, previa eventuale concessione di “un termine per la chiedere alla Commissione provinciale espropri la determinazione dell’indennità di cui all’articolo 46, comma 1, del D.P.R. 327/2001 e con deposito o pagamento diretto (in caso di accettazione) della predetta indennità, da effettuarsi nei modi, nei termini [ritenuti] di giustizia”.
1.1. Individuato l’intero thema decidendum, il Collegio ritiene di affrontare, in via preliminare, le varie questioni processuali involte nel giudizio, incentrando la successiva disamina sul merito del ricorso introduttivo e dei due ricorsi per motivi aggiunti.
1.2. A tal fine, occorre esaminare, in primo luogo, la questione di giurisdizione sulla domanda di retrocessione fatta valere con il secondo ricorso per motivi aggiunti che sorregge –secondo la prospettiva della ricorrente- anche l’interesse all’impugnazione della delibera impugnata con il ricorso introduttivo.
Sul punto, osserva il Collegio come la tradizionale giurisprudenza operi una distinzione tra i casi di retrocessione totale e di retrocessione parziale, collocando la prima ipotesi nell’alveo della giurisdizione ordinaria e la seconda in quello della giurisdizione amministrativa.
Tale distinzione trova fondamento nella circostanza che, in caso di retrocessione totale, sussiste un diritto soggettivo immediatamente azionabile; nei casi di retrocessione parziale tale diritto è invece destinato a sorgere, come detto, solo a seguito dell’eventuale dichiarazione di inservibilità del bene, mentre prima di allora la situazione soggettiva del privato è qualificabile in termini di interesse legittimo (cfr., da ultimo, TAR per il Lazio – sede di Roma, sezione II, 06.09.2018, n. 9190).
Va, tuttavia, considerato che la Corte regolatrice, già con sentenza n. 14805 del 2009, afferma la giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo “nell’ipotesi in cui siano proposte, dopo l'espropriazione di un'area, due azioni congiunte o alternative dall'espropriato, di retrocessione totale per la parte delle superfici acquisite rimasta inutilizzata e parziale per quella su cui si sia realizzata un'opera di pubblica utilità diversa da quella per cui si era proceduto all'esproprio” (cfr., inoltre, Corte di Cassazione, sezioni unite, 27.01.2014, n. 1520).
Un decisivo revirement dell’intera materia si registra con la sentenza delle Sezioni unite n. 1092 del 2017 secondo cui “è fuorviante la prospettiva tradizionale del carattere parziale o totale della retrocessione e della connessa configurazione, in capo al soggetto espropriato, di una posizione di interesse legittimo ovvero di diritto soggettivo a seconda della sussistenza o meno di un potere discrezionale di disporre la retrocessione stessa da parte dell'amministrazione. La materia, infatti, trova attualmente una specifica disciplina nel codice del processo amministrativo approvato con D.Lgs. 02.07.2010, n. 104 […] che all'art. 133, comma 1, lett. g), contempla, tra le ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, quella delle "controversie aventi ad oggetto (...) i comportamenti, riconducibili, anche mediatamente, all'esercizio di un pubblico potere, delle pubbliche amministrazioni in materia di espropriazione per pubblica utilità, ferma restando la giurisdizione del giudice ordinario per quelle riguardanti la determinazione e la corresponsione dell'indennità in conseguenza dell'adozione di atti di natura espropriativa o ablativa".
Invero, le Sezioni unite, già con le ordinanze nn. 10879 e 12179 del 2015 chiariscono che “una situazione di "mediata" riconducibilità del comportamento della pubblica amministrazione all'esercizio di un potere si verifica anche nel caso di protrazione dell'occupazione di un suolo pur dopo la sopraggiunta inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità, ricorrendo anche in tale ipotesi l'elemento decisivo -per l'affermazione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo- del concreto esercizio del potere ablatorio, riconoscibile per tale in base al procedimento svolto ed alle forme adottate, in consonanza con le norme che lo regolano, pur se poi l'ingerenza nella proprietà privata e la sua utilizzazione siano avvenute senza alcun titolo che le consentiva: infatti il comportamento dell'amministrazione, che omette di restituire il terreno occupato in virtù di decreto di occupazione, nonostante quest'ultimo sia stato travolto dalla sopravvenuta inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità, deve ritenersi connesso, ancorché in via mediata, a quel provvedimento, senza il quale non vi sarebbe stata apprensione e, quindi, neppure la mancata restituzione”.
Del pari, nel caso di retrocessione si assiste ad un comportamento dell’Amministrazione speculare al potere espropriativo a base del proprio agire. Infatti, “si è dinanzi al concreto esercizio di un potere ablatorio, culminato nel decreto di espropriazione, e un comportamento ad esso collegato (che non si sarebbe verificato se non vi fosse stato l'esproprio) della pubblica amministrazione, la quale omette la retrocessione del bene nonostante la sussistenza dei presupposti di legge”.
Pertanto, la domanda articolata con il secondo ricorso per motivi aggiunti e volta ad ottenere la retrocessione totale del bene deve ritenersi, comunque, attratta alla giurisdizione del Giudice amministrativo, fatte salve le precisazioni in ordine al quantum debeatur su cui si dirà nel prosieguo della presente sentenza
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 12.10.2018 n. 2265 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La mancata realizzazione delle opere previste nel permesso di costruire determina l’inesistenza del presupposto dell’obbligo di corrispondere gli oneri di urbanizzazione e il contributo per costo di costruzione. Invero, tale obbligo economico trova la propria causa nell’attività di trasformazione del territorio eseguita in forza del titolo edilizio rilasciato.
Pertanto nel caso di specie, essendo l’opera oggetto del permesso di costruire non realizzabile, stante la pacifica impossibilità dell’allaccio alla rete idrica, il Comune è tenuto a restituire le somme incassate quale contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione.
L’azione della ricorrente costituisce quindi un’azione di ripetizione dell’indebito oggettivo, legittimamente fondata sull’assenza dei presupposti del pagamento effettuato.
L’Amministrazione è quindi tenuta a restituire quanto pagato dalla società istante, in forza dell’art. 2033 cod. civ.. Sulla somma da restituire maturano gli interessi legali previsti dalla suddetta norma, con decorrenza dalla domanda di restituzione dell’importo corrisposto in relazione al permesso di costruire (inutilizzato).
Non spetta invece la rivalutazione monetaria o il maggior danno previsto dall’art. 1224, comma 2, cod. civ., trattandosi di pagamento di indebito oggettivo, il quale genera la sola obbligazione di restituzione con gli interessi ex art. 2033 c.c., stante la buona fede del Comune.
Peraltro, la ricorrente non ha fornito alcun principio di prova in ordine all’esistenza di un nocumento superiore all’importo corrispondente agli interessi legali.
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Il Collegio osserva che, come riconosciuto dalla stessa difesa del Comune, la mancata realizzazione delle opere previste nel permesso di costruire determina l’inesistenza del presupposto dell’obbligo di corrispondere gli oneri di urbanizzazione e il contributo per costo di costruzione. Invero, tale obbligo economico trova la propria causa nell’attività di trasformazione del territorio eseguita in forza del titolo edilizio rilasciato.
Pertanto nel caso di specie, essendo l’opera oggetto del permesso di costruire non realizzabile, stante la pacifica impossibilità dell’allaccio alla rete idrica, il Comune era tenuto a restituire le somme incassate quale contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione.
L’azione della ricorrente costituisce quindi un’azione di ripetizione dell’indebito oggettivo, legittimamente fondata sull’assenza dei presupposti del pagamento effettuato.
L’Amministrazione è quindi tenuta a restituire quanto pagato dalla società istante, in forza dell’art. 2033 cod. civ.. Sulla somma da restituire maturano gli interessi legali previsti dalla suddetta norma, con decorrenza dalla domanda di restituzione dell’importo corrisposto in relazione al permesso di costruire n. 6/2007, ovvero dal 21.10.2010 (si vedano la pagina 5 del ricorso e la pagina 4 della memoria difensiva depositata in giudizio dal Comune).
Non spetta invece la rivalutazione monetaria o il maggior danno previsto dall’art. 1224, comma 2, cod. civ., trattandosi di pagamento di indebito oggettivo, il quale genera la sola obbligazione di restituzione con gli interessi ex art. 2033 c.c., stante la buona fede del Comune (TAR Lombardia, Milano, II, 18.09.2013, n. 2172). Peraltro, la ricorrente non ha fornito alcun principio di prova in ordine all’esistenza di un nocumento superiore all’importo corrispondente agli interessi legali.
In conclusione, il ricorso va accolto quanto alla domanda di ripetizione dell’indebito e di pagamento degli interessi legali (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 12.10.2018 n. 1312 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Al fine di impedire la decadenza del permesso di costruire, l'avvio delle opere deve essere reale ed effettivo ovvero manifestazione di un serio e comprovato intento di esercitare il diritto ad edificare, e non solo apparente o fittizio, volto al solo scopo di evitare la temuta perdita di efficacia del titolo, con conseguente irrilevanza di operazioni quali la ripulitura del sito, l'approntamento del cantiere e dei materiali occorrenti per l'esecuzione dei lavori nell'immobile, lo sbancamento del terreno.
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In ogni caso, ad evitare la decadenza del permesso di costruire tanto la normativa nazionale che quella regionale chiariscono che la proroga del termine di inizio e fine lavori “…può essere accordata, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti, estranei alla volontà del titolare del permesso”, ma evidentemente prima della scadenza del termine di validità del titolo e comunque solo con un provvedimento espresso e motivato, fondato sulla verifica dell'idoneità delle condizioni oggettive che giustificano la richiesta.
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E’ pacifico che la decadenza del permesso di costruire costituisce l'effetto automatico dell'inutile decorso del termine entro cui i lavori si sarebbero dovuti iniziare e concludere; pertanto, essa ha natura non già costitutiva, bensì dichiarativa con efficacia ex tunc di un effetto verificatosi ex se e direttamente e in tal modo va letto l'art. 15, comma 2, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, in virtù del quale, inutilmente decorsi detti termini, il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza, venga richiesta una proroga.
Di qui l’evidente ultroneità della comunicazione di avvio del procedimento dal momento che la partecipazione dell’interessata non avrebbe comunque potuto determinare alcun effetto in relazione all’oggettivo decorso del termine.
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2. Con il primo dei gravami all’esame la società ricorrente contesta il provvedimento con cui il Comune di Siena ha dichiarato la decadenza del permesso di costruire n. 22/2016 rilasciato il 05.04.2016, “per la esecuzione dei lavori di realizzazione nuovo complesso per varie attività in Strada Massetana Romana” oltre a opere di urbanizzazione (viabilità e parcheggi) per circa 6.925 mq., ordinando la rimozione di quanto occorrente all’impianto del cantiere.
Il ricorso è infondato.
3. Con il primo e secondo motivo la società lamenta la violazione dell'art. 15 del D.P.R. 380/2001 e dell'art. 133 della L.R. Toscana 65/2014 giacché, a seguito del rilascio del titolo edilizio, avrebbe posto in essere tutte le attività che era possibile avviare, allestendo il cantiere, depositando i materiali necessari all'esecuzione dei lavori e sistemando il piazzale con materiale di cava.
Dopo di che l’esecuzione dei lavori sarebbe stata interrotta da cause di forza maggiore sopravvenute, identificate in primo luogo nella necessità di spostamento della fognatura pubblica che sarebbe stata eseguibile solo a mezzo di una preventiva intesa con il Comune (attesa la natura pubblica dell’infrastruttura) per la quale quest’ultimo sarebbe stato interpellato con le note del 16-17.06.2016, senza tuttavia ottenere alcun riscontro.
In secondo luogo, atteso che l’area è sita in fregio alla strada statale n. 674, si riteneva necessario acquisire l’autorizzazione dell’ANAS per l’occupazione di un terreno ai margini del lotto e della strada, con i materiali ed i mezzi d’opera, oltre che per aprire un varco di accesso necessario per raggiungere l’area di costruzione.
3.1. La tesi non merita adesione.
E’ indubbio (e del resto neppure contestato dall’interessata) che le attività preliminari poste in essere dalla società sulla porzione di terreno interessata dalla nuova edificazione non potevano ritenersi sufficienti ad integrare il presupposto dell’effettivo inizio dei lavori entro l’anno dal rilascio del permesso.
In tal senso la giurisprudenza è unanime nel ritenere che al fine di impedire la decadenza del permesso di costruire, l'avvio delle opere deve essere reale ed effettivo ovvero manifestazione di un serio e comprovato intento di esercitare il diritto ad edificare, e non solo apparente o fittizio, volto al solo scopo di evitare la temuta perdita di efficacia del titolo, con conseguente irrilevanza di operazioni quali la ripulitura del sito, l'approntamento del cantiere e dei materiali occorrenti per l'esecuzione dei lavori nell'immobile, lo sbancamento del terreno (Cons. St., sez. VI, 19.09.2017 n. 4381; id., sez. V, 31.08.2017 n. 4150; TAR Campania Salerno, sez. II, 15.06.2018 n. 961).
3.2. Quanto ai fatti che avrebbero impedito in assenza della volontà della ricorrente, e quindi per forza maggiore, l’effettivo avvio dei lavori, in relazione alla problematica della traslazione della condotta fognaria si rileva come dagli atti di causa emerga che il titolo edificatorio era stato rilasciato in conformità al progetto esecutivo, parte integrante e sostanziale dello stesso, dopo l’adeguamento a tutte le prescrizioni indicate nella premessa e quindi anche a quelle inerenti al tracciato del tratto di fognatura bianca. Non era perciò necessaria alcuna ulteriore intesa o autorizzazione da parte del Comune.
In relazione poi all’autorizzazione richiesta ad ANAS è la stessa ricorrente ad ammettere che detta Azienda, riscontrando l’istanza, aveva comunicato che non era necessaria alcuna autorizzazione, competendo semmai al Comune di Siena il rilascio di eventuali permessi, peraltro mai richiesti dall’interessata.
3.3. In ogni caso, ad evitare la decadenza del permesso di costruire, tanto la normativa nazionale che quella regionale chiariscono che la proroga del termine di inizio e fine lavori “…può essere accordata, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti, estranei alla volontà del titolare del permesso”, ma evidentemente prima della scadenza del termine di validità del titolo e comunque solo con un provvedimento espresso e motivato, fondato sulla verifica dell'idoneità delle condizioni oggettive che giustificano la richiesta.
4. Con il terzo motivo parte ricorrente si duole che il Comune abbia adottato la decadenza del permesso di costruire senza comunicazione dell’avvio del relativo procedimento.
La doglianza è infondata.
E’ pacifico, infatti, che la decadenza del permesso di costruire costituisce l'effetto automatico dell'inutile decorso del termine entro cui i lavori si sarebbero dovuti iniziare e concludere; pertanto, essa ha natura non già costitutiva, bensì dichiarativa con efficacia ex tunc di un effetto verificatosi ex se e direttamente e in tal modo va letto l'art. 15, comma 2, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, in virtù del quale, inutilmente decorsi detti termini, il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza, venga richiesta una proroga (Cons. St., sez. IV, 04.03.2014, n. 1013; id., sez. IV, 15.04.2016 n. 1520).
Di qui l’evidente ultroneità della comunicazione di avvio del procedimento dal momento che la partecipazione dell’interessata non avrebbe comunque potuto determinare alcun effetto in relazione all’oggettivo decorso del termine.
In conclusione per quanto appena esposto il ricorso va rigettato (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 12.10.2018 n. 1309 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Come è noto, le condizioni dell'azione giurisdizionale amministrativa sono rinvenibili nella legittimazione ad agire e nell'interesse a ricorrere, la prima intesa come titolarità di una situazione soggettiva qualificata, la seconda come vantaggio dall'accoglimento del ricorso ex art. 100 c.p.c., il che vale a qualificare la posizione dell'istante distinguendola da quella, indifferenziata, del quisque de populo.
Nel caso di specie, se può convenirsi in merito all’esistenza di un interesse della società che in tale senso argomenta in ordine al pregiudizio che assume possa derivarne alla propria posizione di promissario acquirente, tale posizione si qualifica come interesse di mero fatto.
Non è infatti sufficiente che dalla proposizione del gravame il ricorrente si proponga di conseguire una utilità o posizione di vantaggio che attiene ad uno specifico bene della vita, ma occorre anche, sul presupposto piano sostanziale, che l’interessato sia titolare di una posizione personale differenziata che lo ponga in relazione diretta con l’atto che intende contestare tale da collocarlo in una situazione differente dall'aspirazione alla mera ed astratta legittimità dell'azione amministrativa genericamente riferibile a tutti i consociati.

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5. Con il ricorso rubricato al n. RG 336/2018 le società La Pr. e Op. S.r.l. (promissaria acquirente del terreno di cui la prima è proprietaria) contestano il provvedimento del 28.12.2017 con cui il Comune di Siena ha respinto l’istanza di permesso di costruire nuovamente presentata.
6. Preliminarmente va esaminata l’eccezione, avanzata dalla difesa del Comune, di difetto di legittimazione attiva a ricorrere della Op. s.r.l. in quanto non titolare di alcuna posizione sostanziale che ne sorregga in giudizio l’azione proposta.
L’eccezione è fondata.
Come è noto, le condizioni dell'azione giurisdizionale amministrativa sono rinvenibili nella legittimazione ad agire e nell'interesse a ricorrere, la prima intesa come titolarità di una situazione soggettiva qualificata, la seconda come vantaggio dall'accoglimento del ricorso ex art. 100 c.p.c., il che vale a qualificare la posizione dell'istante distinguendola da quella, indifferenziata, del quisque de populo (Cons. Stato, sez. V, 29.03.2011 n. 1928; id., sez. IV n. 8364/2010; id., sez. VI n. 413/2010).
Nel caso di specie, se può convenirsi in merito all’esistenza di un interesse della società che in tale senso argomenta in ordine al pregiudizio che assume possa derivarne alla propria posizione di promissario acquirente, tale posizione si qualifica come interesse di mero fatto.
Non è infatti sufficiente che dalla proposizione del gravame il ricorrente si proponga di conseguire una utilità o posizione di vantaggio che attiene ad uno specifico bene della vita, ma occorre anche, sul presupposto piano sostanziale, che l’interessato sia titolare di una posizione personale differenziata che lo ponga in relazione diretta con l’atto che intende contestare tale da collocarlo in una situazione differente dall'aspirazione alla mera ed astratta legittimità dell'azione amministrativa genericamente riferibile a tutti i consociati (Cons. Stato, sez. IV, 22.01.2018 n. 389).
Ne segue che va dichiarato il difetto di legittimazione attiva della società Op. s.r.l. (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 12.10.2018 n. 1309 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Legittimazione del creditore ipotecario ad impugnare il provvedimento di acquisizione al patrimonio comunale di un immobile abusivo.
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Processo amministrativo – Legittimazione attiva - Acquisizione al patrimonio comunale di un immobile abusivo – Impugnazione – Creditore ipotecario – Non è legittimato
E’ inammissibile il ricorso proposto da un istituto bancario avverso il provvedimento di acquisizione al patrimonio comunale di un immobile sul quale è stato realizzato un abuso da un terzo destinatario di un mutuo ipotecario, sul rilievo che l’eventuale mancata inottemperanza comporti l’acquisizione dell’immobile al patrimonio comunale con perdita del credito ipotecario (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che il creditore ipotecario, non rientrando tra i soggetti che possono disporre giuridicamente e materialmente del bene in modo da rimuovere le difformità edilizie, non può ritenersi inciso in via diretta dal provvedimento in esame.
La legittimazione ad impugnare un provvedimento amministrativo deve essere direttamente correlata alla situazione giuridica sostanziale che si assume lesa dal provvedimento e postula l'esistenza di un interesse attuale e concreto all'annullamento dell'atto; altrimenti l'impugnativa verrebbe degradata al rango di azione popolare a tutela dell'oggettiva legittimità dell'azione amministrativa, con conseguente ampliamento della legittimazione attiva al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, in insanabile contrasto con il carattere di giurisdizione soggettiva che la normativa legislativa e quella costituzionale hanno attribuito al vigente sistema di giustizia amministrativa (Cons. St., sez. IV, 13.12.2012, n. 6411).
Non solo, ma un interesse, perché possa essere tutelabile con un'azione giurisdizionale amministrativa, deve essere, oltre che attuale, personale, ossia differenziato dall'interesse generico di ogni cittadino alla legalità dell'azione amministrativa, ed anche la lesione, da cui discende l'interesse all'impugnativa, oltre che attuale, deve essere diretta, nel senso che incide in maniera immediata sull'interesse legittimo della parte ricorrente; di conseguenza un soggetto giuridico, pur dotato di interesse di fatto, può essere privo di giuridica legittimazione a proporre un'azione giudiziaria, qualora la stessa, sia pure strumentalmente, sia volta a provocare effetti giuridici (ancorché indiretti e mediati) nella sfera di un altro soggetto, in quanto l'esercizio nell'ambito del giudizio amministrativo dell'azione non può essere delegato fuori da una espressa previsione di legge, né surrogato dall'azione sostitutoria di un altro soggetto, ancorché portatore di interessi convergenti o connessi (Cons. St., sez. V, 13.05.2014, n. 2439).
Quindi, anche se si potesse valorizzare il riferimento al successivo, e solo eventuale, provvedimento di acquisizione del bene al patrimonio comunale, rimane ferma l’impossibilità per il creditore ipotecario a ricorrere in via diretta ed autonoma avverso l’ordinanza di demolizione, posto che, altrimenti, finirebbe, sostanzialmente, per surrogarsi nelle azioni che avrebbe dovuto azionare il destinatario dei provvedimenti ex art. 31, d.P.R. n. 380 del 2001 (TAR Valle d’Aosta, sentenza 12.10.2018 n. 48 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
2. Ciò detto, il ricorso è inammissibile.
2.1.
E’ indubbio che laddove l’ordine di demolizione delle opere abusive non venga adempiuto, il Comune potrà procedere all’acquisizione dell’immobile sul quale insiste l’opera abusiva, alle condizioni di cui all’art. 31 d.p.r. 380/2001.
D’altronde, ai fini della legittimazione ad impugnare l'ordine di demolizione, deve considerarsi come l'art. 31, d.P.R. n. 380 del 2001, nell'individuare i soggetti destinatari delle misure repressive nel proprietario e nel responsabile dell'abuso, considera quale soggetto passivo della demolizione il soggetto che ha il potere di rimuovere concretamente l'abuso, potere che compete indubbiamente al proprietario, anche se non responsabile in via diretta (TAR Roma, (Lazio), sez. II, 01/12/2017, n. 11903).
Per contro,
il creditore ipotecario, non rientrando tra i soggetti che possono disporre giuridicamente e materialmente del bene in modo da rimuovere le difformità edilizie, non può ritenersi inciso in via diretta dal provvedimento in esame.
La legittimazione ad impugnare un provvedimento amministrativo deve essere direttamente correlata alla situazione giuridica sostanziale che si assume lesa dal provvedimento e postula l'esistenza di un interesse attuale e concreto all'annullamento dell'atto; altrimenti l'impugnativa verrebbe degradata al rango di azione popolare a tutela dell'oggettiva legittimità dell'azione amministrativa, con conseguente ampliamento della legittimazione attiva al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, in insanabile contrasto con il carattere di giurisdizione soggettiva che la normativa legislativa e quella costituzionale hanno attribuito al vigente sistema di giustizia amministrativa (Cons. Stato, sez. IV, 13/12/2012, n. 6411).
Non solo, ma
un interesse, perché possa essere tutelabile con un'azione giurisdizionale amministrativa, deve essere, oltre che attuale, personale, ossia differenziato dall'interesse generico di ogni cittadino alla legalità dell'azione amministrativa, ed anche la lesione, da cui discende l'interesse all'impugnativa, oltre che attuale, deve essere diretta, nel senso che incide in maniera immediata sull'interesse legittimo della parte ricorrente; di conseguenza un soggetto giuridico, pur dotato di interesse di fatto, può essere privo di giuridica legittimazione a proporre un'azione giudiziaria, qualora la stessa, sia pure strumentalmente, sia volta a provocare effetti giuridici (ancorché indiretti e mediati) nella sfera di un altro soggetto, in quanto l'esercizio nell'ambito del giudizio amministrativo dell'azione non può essere delegato fuori da una espressa previsione di legge, né surrogato dall'azione sostitutoria di un altro soggetto, ancorché portatore di interessi convergenti o connessi (Cons. Stato, sez. V, 13/05/2014, n. 2439).
Quindi,
anche se si potesse valorizzare il riferimento al successivo, e solo eventuale, provvedimento di acquisizione del bene al patrimonio comunale, rimane ferma l’impossibilità per il creditore ipotecario a ricorrere in via diretta ed autonoma avverso l’ordinanza di demolizione, posto che, altrimenti, finirebbe, sostanzialmente, per surrogarsi nelle azioni che avrebbe dovuto azionare il destinatario dei provvedimenti ex art. 31 d.p.r. 380/2001.
In questo senso,
è certamente ammissibile per il creditore ipotecario intervenire ad adiuvandum nel caso di impugnazione proposta dal destinatario dell’ordine di demolizione (o del successivo provvedimento dichiarativo dell’acquisizione al patrimonio comunale), ma, al contrario, laddove quest’ultimo rimanga inerte e, quindi, lasci spirare il termine decadenziale per l’impugnazione dei provvedimenti di diffida e di ordine di demolizione, un ricorso autonomo da parte del creditore pignorante non può ritenersi ammissibile perché chiaramente avente natura “surrogatoria” e comunque inconciliabile con la già intervenuta definitività degli accertamenti relativamente al carattere abusivo delle opere e, quindi, alla necessità di procedere con la demolizione.
Pertanto,
in via generale, il creditore ipotecario deve ritenersi privo di legittimazione ad agire con riguardo all’intera serie dei provvedimenti contemplati dall’art 31 T.U. edilizia.
2.2. La conferma di quanto sopra emerge chiaramente anche dall’esame della disciplina civilistica dell’ipoteca.
Pur trattandosi di un diritto che, secondo l’opinione prevalente, ha natura “reale”, la caratteristica principale dello stesso è che non conferisce poteri o facoltà di godimento del bene ipotecato, ma si limita, da un lato, ad attribuire al titolare un diritto potestativo di duplice contenuto (espropriare e far vendere la cosa e poi soddisfarsi sul ricavato con preferenza sugli altri creditori) e, dall’altro lato, a vincolare la cosa senza però impedirne o limitarne l’attuale godimento o disposizione importando soltanto una possibile espropriazione futura.
In questo senso, i poteri del creditore ipotecario a tutela della propria garanzia con riguardo all’esistenza e consistenza del bene ipotecato sono limitati.
L’art. 2813 c.c., ai sensi del quale <<qualora il debitore o un terzo compia atti da cui possa derivare il perimento o il deterioramento dei beni ipotecati, il creditore può domandare all'autorità giudiziaria che ordini la cessazione di tali atti o disponga le cautele necessarie per evitare il pregiudizio della sua garanzia>>, infatti, si riferisce ai soli pericoli di “danni materiali” (come emerge chiaramente anche dall’esame della relazione al codice civile).
Per contro, l’art. 2878, n. 4 c.c. prevede, quale causa di estinzione dell’ipoteca, il “perimento del bene ipotecato”.

Al riguardo, la Corte di Cassazione ha sottolineato che
l'ordinanza di acquisizione gratuita al patrimonio indisponibile del Comune dell'immobile costruito in totale difformità o assenza della concessione, emessa dal Sindaco ai sensi dell'art. 7 della legge n. 47 del 1985, che si connota per la duplice funzione di sanzionare comportamenti illeciti e di prevenire perduranti effetti dannosi di essi, dà luogo ad acquisto a titolo originario, con la conseguenza che l'ipoteca e gli altri eventuali pesi e vincoli preesistenti vengono caducati unitamente al precedente diritto dominicale, senza che rilevi l'eventuale anteriorità della relativa trascrizione o iscrizione.
La fattispecie è assimilabile al perimento del bene, ipotesi nella quale si estingue l'ipoteca, giacché l'immobile abusivo è destinato al "perimento giuridico", normalmente conseguente alla demolizione, salva la eccezionale acquisizione al patrimonio comunale, che lo trasforma irreversibilmente in "res extra commercium" sotto il profilo dei diritti del debitore e dei terzi che vantino diritti reali limitati sul bene (così, Cass., ord. n. 23453 del 06/10/2017).
E’ evidente, allora, che
il provvedimento di acquisizione gratuita si pone come un evento esterno alla sfera di controllo e al potere di intervento del creditore ipotecario che ne subisce le conseguenze senza poter concretamente opporsi allo stesso.
2.3. Sotto altro profilo, poi, laddove si ammettesse la legittimazione e l’interesse ad agire in capo a parte ricorrente avverso l’ordinanza di demolizione, si dovrebbe, altresì, affermare la medesima situazione con riguardo al precedente provvedimento di diffida a demolire.
Ma, in tal caso, il ricorso in esame risulterebbe comunque inammissibile in quanto Banca Sella per un verso, non ha impugnato in questa sede anche le diffide a demolire nn. 1/17 e 2/17 e, dall’altro lato, ha dedotto la difformità tra l’ordine di demolizione e la diffida 1/17, quando l’ordinanza di demolizione consegue alla diffida n. 2/17, che è motivata specificamente con riguardo all’art. 78 e non 80 d.p.r. 380/2001.
Al riguardo, occorre rammentare che, secondo la giurisprudenza di questo TAR,
la diffida a demolire è idonea a produrre un doppio effetto lesivo a carico del destinatario dell'atto atteso che, in primo luogo, qualifica come abusivi manufatti aventi rilievo edilizio che il Comune assume essere stati realizzati in assenza o in difformità dal titolo abilitativo; in secondo luogo, mette in mora il destinatario a dare esecuzione all'ordine entro il termine previsto dalla legge, pena l'esecuzione in danno e l'applicazione di eventuali sanzioni accessorie; ne consegue che la diffida a demolire va impugnata tempestivamente, onde impedire il consolidamento quantomeno del primo effetto lesivo (ossia la qualificazione delle opere come abusive)…. (TAR Valle d'Aosta, sez. I, 17/04/2018, n. 25).
Il procedimento di repressione degli abusi edilizi delineato dall'art. 77, l.reg. Valle d'Aosta n. 11 del 1998, infatti, è articolato in due fasi che danno luogo a distinti sub procedimenti; il primo si conclude con la diffida a demolire e il secondo, nel presupposto di quest'ultima, con l'ordinanza di demolizione; i due atti sono autonomi ed entrambi impugnabili per i vizi loro propri, dato che incidono in modo pregiudizievole sugli interessi del destinatario; la diffida è un necessario presupposto dell'ordinanza di demolizione (e infatti quest’ultima è illegittima se emanata in difetto della prima) cosicché il suo annullamento facendo venir meno il presupposto necessario dell’ordinanza di demolizione determina l’automatica caducazione di quest’ultima (secondo lo schema della c.d. invalidità caducante) (TAR Valle d'Aosta, sez. I, 10/07/2013, n. 46).
2.4. Conclusivamente, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: In tema di abuso d'ufficio, la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie di cui all'art. 323 cod. pen., prescinde dall'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende favorire, potendo essere desunta anche dalla macroscopica illegittimità dell'atto, sempre che tale valutazione non discenda in modo apodittico e parziale dal comportamento non iure dell'agente, ma risulti anche da elementi ulteriori concordemente dimostrativi dell'intento di conseguire un vantaggio patrimoniale o di cagionare un danno ingiusto, profilo questo che nel caso di specie è stato adeguatamente approfondito dai giudici di merito, attraverso il richiamo alla reiterazione dei provvedimenti palesemente illegittimi, nonostante le plurime "anomalie" della procedura amministrativa, da parte di un funzionario che, anche in considerazione della contenuta estensione del Comune dove sono avvenuti i fatti, avrebbe avuto tutti gli strumenti per poter porre rimedio alle carenze e alle contraddizioni di una istanza insuscettibile di essere accolta, per come formulata, non essendo di per sé dirimente in senso contrario il conseguimento di pareri interlocutori favorevoli da parte di altri Enti, alla luce del ruolo maggiormente incisivo riconosciuto al titolare del potere di rilasciare il provvedimento finale.
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4. Passando infine al ricorso proposto nell'interesse di Mo., occorre iniziare dai primi due motivi, che possono essere trattati congiuntamente, inerendo entrambi il giudizio sulla sussistenza del delitto di abuso d'ufficio.
Al riguardo, le due conformi sentenze di merito hanno ricostruito i singoli passaggi dell'iter amministrativo che ha portato al rilascio, da parte di Mo., Responsabile dell'Ufficio Tecnico del Comune di Patù, del permesso di costruire n. 14 del 06.03.2008 in favore della Mi., con il quale veniva assentito l'intervento richiesto, cioè il recupero di un vecchio fabbricato rurale, da destinare ad abitazione, mentre nell'area interessata non era mai preesistito alcun fabbricato rurale e doveva parlarsi non di manutenzione straordinaria, ma di una vera e propria "nuova costruzione", non assentibile nel caso concreto.
Come correttamente osservato nella sentenza impugnata, stante la pochezza di informazioni presenti negli atti forniti dai richiedenti e anzi in presenza di una foto eloquente dell'immobile preesistente, di cui era stata omessa l'indicazione di qualsiasi dimensione, l'imputato avrebbe potuto e dovuto sciogliere le evidenti perplessità derivanti dal contenuto ambiguo degli atti a sua disposizione attivando i suoi poteri di controllo, anche mediante un eventuale sopralluogo.
Se è vero infatti che il sopralluogo del tecnico comunale nella prassi non costituisce un'evenienza frequente, è altrettanto innegabile che lo stesso si rende doveroso, in alternativa al rigetto allo stato dell'istanza, qualora la pratica amministrativa presenti incongruenze meritevoli di necessari approfondimenti.
E nel caso di specie, ribadito lo scarso valore probatorio delle già richiamate dichiarazioni dei testi della difesa, non c'è dubbio che l'intera procedura è risultata scandita da profonde anomalie: l'assenza nell'istanza di riferimenti alla volumetria, la falsa rappresentazione di un immobile preesistente, l'omessa comunicazione dei tecnici e della ditta appaltatrice dei lavori, la mancata allegazione del Durc, la reiterazione della condotte, stante il rilascio del permesso in sanatoria, e la circostanza che, rispetto al tratturo, per il quale vi era solo una comunicazione di inizio lavori, erano state sequestrate delle bozze dei provvedimenti di sospensione dei predetti lavori prive di data certa e inviate sei mesi dopo la comunicazione e l'invito del Sindaco di eseguire un sopralluogo.
Tutte queste circostanze hanno ragionevolmente indotto i giudici di merito a ritenere ravvisabile una macroscopica violazione della normativa urbanistica, che ha consentito alla Mi. di conseguire un titolo abilitativo cui non aveva diritto, a seguito di un'istruttoria palesemente lacunosa, nonostante la presenza di plurimi indizi di illegittimità della tipologia dell'intervento edilizio oggetto della richiesta.
A fronte di tali elementi, correttamente è stata ritenuta non necessaria ai fini della sussistenza del reato contestato la prova di un vero e proprio patto collusivo tra la Mi. e Mo., dovendosi richiamare al riguardo la costante affermazione di questa Corte (cfr. ex multis Sez. 3, n. 57914 del 28/09/2017, Rv. 272331), secondo cui, in tema di abuso d'ufficio, la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie di cui all'art. 323 cod. pen., prescinde dall'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende favorire, potendo essere desunta anche dalla macroscopica illegittimità dell'atto, sempre che tale valutazione non discenda in modo apodittico e parziale dal comportamento non iure dell'agente, ma risulti anche da elementi ulteriori concordemente dimostrativi dell'intento di conseguire un vantaggio patrimoniale o di cagionare un danno ingiusto, profilo questo che nel caso di specie è stato adeguatamente approfondito dai giudici di merito, attraverso il richiamo alla reiterazione dei provvedimenti palesemente illegittimi, nonostante le plurime "anomalie" della procedura amministrativa, da parte di un funzionario che, anche in considerazione della contenuta estensione del Comune dove sono avvenuti i fatti, avrebbe avuto tutti gli strumenti per poter porre rimedio alle carenze e alle contraddizioni di una istanza insuscettibile di essere accolta, per come formulata, non essendo di per sé dirimente in senso contrario il conseguimento di pareri interlocutori favorevoli da parte di altri Enti, alla luce del ruolo maggiormente incisivo riconosciuto al titolare del potere di rilasciare il provvedimento finale.
In definitiva, la motivazione della sentenza impugnata, in quanto aderente alle risultanze probatorie acquisite e in linea con le coordinate interpretative prima richiamate, resiste ampiamente alle censure difensive, che si limitano a riproporre temi già trattati ed efficacemente superati dai giudici di appello con arg omenti privi di elementi di illogicità e dunque non censurabili in questa sede (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.10.2018 n. 46080).

EDILIZIA PRIVATA: DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Realizzazione di insediamenti civili e ad attività produttive in zone boscate - INCENDI BOSCHIVI - Edificazione in aree percorse dal fuoco - BOSCHI E MACCHIA MEDITERRANEA - Destinazione dell'area e vincoli - Art. 10 L. n. 353/2000 - Art. 44, d.P.R. n. 380/2001 - Giurisprudenza.
La realizzazione di edifici, strutture ed infrastrutture, finalizzati ad insediamenti civili e ad attività produttive in zone boscate o di pascolo, i cui soprassuoli siano stati percorsi dal fuoco, è consentita nei casi in cui tale possibilità sia stata prevista prima dell'incendio dagli strumenti urbanistici all'epoca vigenti, e richiede altresì che l'area sia già stata riservata a tale scopo dallo strumento urbanistico (irrilevante essendo la generica compatibilità dell'intervento con la destinazione dell'area) (Sez. 3, n. 32807 del 23/04/2013, Timori; Sez. 3, n. 16592 del 31/03/2011, Siracusa; Sez. 3, n. 36106 del 22/09/2011, Canedi).
In proposito, si riporta il tenore della norma di cui all'art. 10, comma 1, della legge 21.11.2000, n. 353, Legge quadro in materia di incendi boschivi ("Le zone boscate ed i pascoli i cui soprassuoli siano stati percorsi dal fuoco non possono avere una destinazione diversa da quella preesistente all'incendio per almeno quindici anni [ ... ] E' inoltre vietata per dieci anni, sui predetti soprassuoli, la realizzazione di edifici nonché di strutture e infrastrutture finalizzate ad insediamenti civili ed attività produttive, fatti salvi i casi in cui detta realizzazione sia stata prevista in data precedente l'incendio dagli strumenti urbanistici vigenti a tale data")
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.10.2018 n. 46042 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' ben noto che per consolidata giurisprudenza civile ed amministrativa “l’iscrizione di una strada nell'elenco delle vie pubbliche o gravate da uso pubblico riveste funzione puramente dichiarativa della pretesa del comune, ponendo una semplice presunzione di pubblicità dell’uso, superabile con la prova contraria della natura della strada e dell’inesistenza di un diritto di godimento da parte della collettività mediante un’azione negatoria di servitù".
Tal iscrizione è quindi superabile con la prova contraria della sua natura privata e dell'inesistenza di un diritto di godimento da parte della collettività.
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Senza alcuna pretesa di completezza, si rammenta in proposito che costituirebbero principi consolidati quelli secondo cui:
  
"per l'attribuzione del carattere di demanialità comunale ad una via privata è necessario che con la destinazione della strada all'uso pubblico concorra l'intervenuto acquisto, da parte dell'ente locale, della proprietà del suolo relativo (per effetto di un contratto, in conseguenza di un procedimento d'esproprio, per effetto di usucapione o dicatio ad patriam, ecc.), non valendo, in difetto dell'appartenenza della sede viaria al Comune, l'iscrizione della via negli elenchi delle strade comunali, giacché tale iscrizione non può pregiudicare le situazioni giuridiche attinenti alla proprietà del terreno e connesse con il regime giuridico della medesima, né la natura pubblica di una strada può essere desunta dalla prospettazione della mera previsione programmatica di tale destinazione, dall'espletamento su di essa, di fatto, del pubblico transito per un periodo infraventennale, o dall'intervento di atti di riconoscimento dell'amministrazione medesima circa la funzione assolta da una determinata strada". Invero:
- "affinché un'area assuma la natura di strada pubblica, non basta né che vi si esplichi di fatto il transito del pubblico (con la sua concreta, effettiva ed attuale destinazione al pubblico transito e la occupazione sine titulo dell'area da parte della p.a.) né l'intervento di atti di riconoscimento da parte dell'Amministrazione medesima circa la funzione da essa assolta, ma è invece necessario, ai sensi dell'art. 824 c.c., che la strada risulti di proprietà di un ente pubblico territoriale in base ad un atto o fatto (fra cui anche l'usucapione) idoneo a trasferire il dominio, ovvero che su di essa sia stata costituita a favore dell'Ente una servitù di uso pubblico e che essa venga destinata, con una manifestazione di volontà espressa o tacita, all'uso pubblico, ossia per soddisfare le esigenze di una collettività di persone qualificate dall'appartenenza ad una comunità territoriale";
  
ulteriore necessaria precisazione sarebbe che "una strada rientra nella categoria delle vie vicinali pubbliche se sussistono i requisiti del passaggio esercitato jure servitutis publicae da una collettività di persone qualificate dall'appartenenza ad una comunità territoriale, della concreta idoneità della strada a soddisfare esigenze di generale interesse, anche per il collegamento con la pubblica via, e dell'esistenza di un titolo valido a sorreggere l'affermazione del diritto di uso pubblico";
  
del resto, "l'adibizione ad uso pubblico di una strada è desumibile quando il tratto viario, per le sue caratteristiche, assuma una esplicita finalità di collegamento, essendo destinato al transito di un numero indifferenziato di persone oppure quando vi sia stato, con la cosiddetta dicatio ad patriam, l'asservimento del bene da parte del proprietario all'uso pubblico di una comunità, di talché il bene stesso viene ad assumere le caratteristiche analoghe a quelle dí un bene demaniale". Invero:
- "affinché un'area possa ritenersi sottoposta ad un uso pubblico è necessario oltre che l'intrinseca idoneità del bene, che l'uso avvenga ad opera di una collettività indeterminata di persone e per soddisfare un pubblico, generale interesse";
- "ai fini della qualificazione di una strada come vicinale pubblica, occorre avere riguardo alle sue condizioni effettive, [...], la concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di carattere generale, anche per il collegamento con la pubblica via e un titolo valido a sorreggere l'affermazione del diritto di uso pubblico, che può anche identificarsi nella protrazione dell'uso da tempo immemorabile. Qualora difetti l'iscrizione della strada nell'elenco delle strade vicinali di uso pubblico (iscrizione costituente presunzione iuris tantum, superabile con la prova contraria, dell'esistenza di un diritto di uso o di godimento della strada da parte della collettività), è l'Amministrazione che ha l'onere di accertare, con rigorosa istruttoria, la sussistenza dei sopra indicati requisiti";
  
peraltro "la sdemanializzazione di un bene pubblico -ed a fortiori la sottrazione di un bene patrimoniale indisponibile alla sua originaria destinazione- oltre che frutto di una esplicita determinazione, può essere il portato di comportamenti univoci tenuti dall'Amministrazione proprietaria che si appalesano in modo concludente [incompatibili con la volontà di conservare la destinazione del bene all'uso pubblico]".

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2. Nel merito, (e considerato che il capo con il quale il Tar ha affermato la propria giurisdizione è rimasto inimpugnato) come in premessa anticipato l’appello è infondato in quanto:
   a) è ben noto che per consolidata giurisprudenza civile ed amministrativa (tra le tante, Cassazione civile, sez. un., 23/12/2016, n. 26897 Cons. di Stato sez. IV, n. 1515 del 19.03.2015; Cons. di Stato sez, VI, n. 4952 dell'08.10.2013; Cass. Civ. n. 21125 del 19.10.2015 TAR Napoli, (Campania), sez. VIII, 10/10/2016, n. 4640 “l’iscrizione di una strada nell'elenco delle vie pubbliche o gravate da uso pubblico riveste funzione puramente dichiarativa della pretesa del comune, ponendo una semplice presunzione di pubblicità dell’uso, superabile con la prova contraria della natura della strada e dell’inesistenza di un diritto di godimento da parte della collettività mediante un’azione negatoria di servitù;”;
   b) tale iscrizione è quindi superabile con la prova contraria della sua natura privata e dell'inesistenza di un diritto di godimento da parte della collettività;
   c) sennonché, nel caso di specie, tale prova non è stata fornita, ed anzi l’appellante continua a fare riferimento al proprio atto di acquisto, ma non apporta alcun elemento atto a contestare la tesi del comune.
   d) come è noto, la questione concernente la riconducibilità di una strada ad uso pubblico è stata assai sovente esaminata dalla giurisprudenza amministrativa e civile.
Senza alcuna pretesa di completezza, si rammenta in proposito che costituirebbero principi consolidati quelli secondo cui:
  
"per l'attribuzione del carattere di demanialità comunale ad una via privata è necessario che con la destinazione della strada all'uso pubblico concorra l'intervenuto acquisto, da parte dell'ente locale, della proprietà del suolo relativo (per effetto di un contratto, in conseguenza di un procedimento d'esproprio, per effetto di usucapione o dicatio ad patriam, ecc.), non valendo, in difetto dell'appartenenza della sede viaria al Comune, l'iscrizione della via negli elenchi delle strade comunali, giacché tale iscrizione non può pregiudicare le situazioni giuridiche attinenti alla proprietà del terreno e connesse con il regime giuridico della medesima, né la natura pubblica di una strada può essere desunta dalla prospettazione della mera previsione programmatica di tale destinazione, dall'espletamento su di essa, di fatto, del pubblico transito per un periodo infraventennale, o dall'intervento di atti di riconoscimento dell'amministrazione medesima circa la funzione assolta da una determinata strada" [v. Cons. Stato, sez. VI, 08.10.2013, n. 4952; v., altresì, TAR Trento, sez. 1, 21.11.2012, n. 341, per cui "affinché un'area assuma la natura di strada pubblica, non basta né che vi si esplichi di fatto il transito del pubblico (con la sua concreta, effettiva ed attuale destinazione al pubblico transito e la occupazione sine titulo dell'area da parte della p.a.) né l'intervento di atti di riconoscimento da parte dell'Amministrazione medesima circa la funzione da essa assolta, ma è invece necessario, ai sensi dell'art. 824 c.c., che la strada risulti di proprietà di un ente pubblico territoriale in base ad un atto o fatto (fra cui anche l'usucapione) idoneo a trasferire il dominio, ovvero che su di essa sia stata costituita a favore dell'Ente una servitù di uso pubblico e che essa venga destinata, con una manifestazione di volontà espressa o tacita, all'uso pubblico, ossia per soddisfare le esigenze di una collettività di persone qualificate dall'appartenenza ad una comunità territoriale"];
  
ulteriore necessaria precisazione sarebbe che "una strada rientra nella categoria delle vie vicinali pubbliche se sussistono i requisiti del passaggio esercitato jure servitutis publicae da una collettività di persone qualificate dall'appartenenza ad una comunità territoriale, della concreta idoneità della strada a soddisfare esigenze di generale interesse, anche per il collegamento con la pubblica via, e dell'esistenza di un titolo valido a sorreggere l'affermazione del diritto di uso pubblico" (v. Cass. 05.07.2013, n. 16864);
  
del resto, "l'adibizione ad uso pubblico di una strada è desumibile quando il tratto viario, per le sue caratteristiche, assuma una esplicita finalità di collegamento, essendo destinato al transito di un numero indifferenziato di persone oppure quando vi sia stato, con la cosiddetta dicatio ad patriam, l'asservimento del bene da parte del proprietario all'uso pubblico di una comunità, di talché il bene stesso viene ad assumere le caratteristiche analoghe a quelle dí un bene demaniale" (v. Cons. Stato, sez. IV, 21.10.2013, n. 5116; v., altresì, Cons. Stato, sez. IV, 25.06.2012, n. 3531, per la quale "affinché un'area possa ritenersi sottoposta ad un uso pubblico è necessario oltre che l'intrinseca idoneità del bene, che l'uso avvenga ad opera di una collettività indeterminata di persone e per soddisfare un pubblico, generale interesse"; TAR Milano, sez. Il, 09.01.2013, n. 42; v. TAR Lecce, sez. I, 11.02.2013, n. 297 "ai fini della qualificazione di una strada come vicinale pubblica, occorre avere riguardo alle sue condizioni effettive, [...], la concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di carattere generale, anche per il collegamento con la pubblica via e un titolo valido a sorreggere l'affermazione del diritto di uso pubblico, che può anche identificarsi nella protrazione dell'uso da tempo immemorabile. Qualora difetti l'iscrizione della strada nell'elenco delle strade vicinali di uso pubblico (iscrizione costituente presunzione iuris tantum, superabile con la prova contraria, dell'esistenza di un diritto di uso o di godimento della strada da parte della collettività), è l'Amministrazione che ha l'onere di accertare, con rigorosa istruttoria, la sussistenza dei sopra indicati requisiti" (v. TAR Napoli, sez. VIII, 19.12.2012, n. 5250; v., altresì, TAR Napoli, sez. II, 17.07.2008, n. 8869);
  
peraltro "la sdemanializzazione di un bene pubblico -ed a fortiori la sottrazione di un bene patrimoniale indisponibile alla sua originaria destinazione- oltre che frutto di una esplicita determinazione, può essere il portato di comportamenti univoci tenuti dall'Amministrazione proprietaria che si appalesano in modo concludente [incompatibili con la volontà di conservare la destinazione del bene all'uso pubblico]" (v. Cons. Stato, sez. VI, 27.11.2002, n. 6597; TAR Pescara 17.10.2005, n. 580).
3.1. Nel caso di specie, la vicenda è connotata dalle seguenti emergenze processuali:
   a) l’inclusione della via sulla cui natura si controverte nell’elenco delle strade comunali ai sensi della L. 12.02.1958 n. 126 con correlativa presunzione (seppur iuris tantum) della natura pubblicistica della stessa;
   b) l’ulteriore dato della insistenza, sulla predetta via della pubblica illuminazione (così la giurisprudenza sin da tempo risalente TAR, Lazio, sez. II, 19/03/1990, n. 729 “l'insistenza di segnaletica stradale, la percorrenza di linee pubbliche urbane, l'illuminazione, la funzione di raccordo con altre strade ed a sbocco su piazza e su pubbliche vie sono tutti elementi univoci per il riconoscimento della qualità di strada comunale all'interno degli abitati ai sensi dell'art. 7 sub c) l. 12.02.1958 n. 126.”);
   c) l’assenza di prove di segno contrario prospettate da parte appellante, tali non potendo considerarsi le apodittiche affermazioni in punto di insussistenza di un interesse della collettività all’utilizzo della detta via.
4.Alla stregua dei superiori dati, l’appello deve essere quindi in parte dichiarato inammissibile, ed in parte respinto (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.10.2018 n. 5820 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - VARI: Sulla vendita di pane -non confezionato- sulla pubblica via esposto agli agenti atmosferici in grado di alternarne le proprietà intrinseche.
Ai fini della configurabilità della contravvenzione prevista dall'art. 5, lett. b, della legge 30.04.1962 n. 283, che vieta l'impiego nella produzione di alimenti, la vendita, la detenzione per la vendita, la somministrazione, o comunque la distribuzione per il consumo, di sostanze alimentari in cattivo stato di conservazione, non è necessario che quest'ultimo si riferisca alle caratteristiche intrinseche di dette sostanze, ma è sufficiente che esso concerna le modalità estrinseche con cui si realizza, le quali devono uniformarsi alle prescrizioni normative, se sussistenti, ovvero, in caso contrario, a regole di comune esperienza.
In questo senso,
lo stato di cattiva conservazione riguarda quelle situazioni in cui le sostanze alimentari, pur potendo essere ancora genuine e sane, si presentano mal conservate, e cioè preparate, confezionate o messe in vendita senza l'osservanza delle prescrizioni dirette a prevenire il pericolo di una loro precoce degradazione contaminazione o comunque alterazione del prodotto.
In particolare,
il termine "stato di conservazione", seppur ambiguo, nella maggior parte delle ipotesi indica l'insieme della attività volte al mantenimento delle caratteristiche originarie di una cosa.
A sostegno di questa ricostruzione milita anche un altro aspetto di carattere sistematico: diversamente ragionando nessuno spazio di operatività avrebbe la disposizione di cui all'art. 5, lett. b, a fronte delle lett. a, c, d, le quali, nell'arco che va dalla privazione degli elementi nutritivi all'alterazione degli stessi, abbracciano tutti gli aspetti oggettivamente rilevabili di degenerazione delle caratteristiche intrinseche degli alimenti.
Da qui la conclusione che
il cattivo stato di conservazione della lett. b riguarda quelle situazioni in cui le sostanze alimentari, pur potendo essere ancora perfettamente genuine e sane, si presentano mal conservate e cioè preparate o confezionate o messe in vendita senza l'osservanza di quelle prescrizioni di leggi, regolamenti o atti amministrativi generali che sono dettate a garanzia della buona conservazione al fine di prevenire il pericolo di una loro precoce degradazione, contaminazione o comunque alterazione (scatolame bombato, arrugginito, involucri forati, intaccati, unti, bagnati, esposizione prolungata ai raggi solari di vino e olio, latte lasciato a temperature inadeguate, alimenti collocati in prossimità di insetti e simili).
Dunque,
ai fini dell'integrazione della contravvenzione in esame si deve ritenere sufficiente l'inosservanza delle prescrizioni igienico-sanitarie volte a garantire la buona conservazione del prodotto.
Tale è il caso della messa in vendita di pane non confezionato sulla pubblica via esposto, perciò, agli agenti atmosferici in grado di alternarne le proprietà intrinseche.

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1. Con sentenza in data 12.06.2015, il Tribunale di Napoli ha condannato Sa.Ca., alla pena di € 206,00 di ammenda, con il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, per il reato di cui agli artt. 5, lett. b), e 6 della legge n. 283 del 1962 perché, in forma ambulante, deteneva per la vendita Kg 10 di pane in cattivo stato di conservazione sotto il profilo igienico-sanitario, in quanto privo di protezione ed esposto ad inquinamento ambientale.
...
4. Il ricorso è manifestamente infondato.
Va osservato che costituisce orientamento consolidato nella giurisprudenza di legittimità quello secondo cui, ai fini della configurabilità della contravvenzione prevista dall'art. 5, lett. b, della legge 30.04.1962 n. 283, che vieta l'impiego nella produzione di alimenti, la vendita, la detenzione per la vendita, la somministrazione, o comunque la distribuzione per il consumo, di sostanze alimentari in cattivo stato di conservazione, non è necessario che quest'ultimo si riferisca alle caratteristiche intrinseche di dette sostanze, ma è sufficiente che esso concerna le modalità estrinseche con cui si realizza, le quali devono uniformarsi alle prescrizioni normative, se sussistenti, ovvero, in caso contrario, a regole di comune esperienza (Sez. U, n. 443 del 19/12/2001, Butti, Rv. 220716; Sez. 3, n. 44927 del 14/06/2016, Ballico, Rv. 268715; Sez. 3, n. 15094 del 11/03/2010, Greco, Rv. 246970).
In questo senso, lo stato di cattiva conservazione riguarda quelle situazioni in cui le sostanze alimentari, pur potendo essere ancora genuine e sane, si presentano mal conservate, e cioè preparate, confezionate o messe in vendita senza l'osservanza delle prescrizioni dirette a prevenire il pericolo di una loro precoce degradazione contaminazione o comunque alterazione del prodotto (Sez. 3, n. 33313 del 28/11/2012, Maretto, Rv. 257130; Sez. 3, n. 35234 del 28/06/2007, Lepori, Rv. 237519).
In particolare, secondo l'arresto delle S.U. Butti il termine "stato di conservazione", seppur ambiguo, nella maggior parte delle ipotesi indica l'insieme della attività volte al mantenimento delle caratteristiche originarie di una cosa.
Si è poi sottolineato che a sostegno di questa ricostruzione milita anche un altro aspetto di carattere sistematico: diversamente ragionando nessuno spazio di operatività avrebbe la disposizione di cui all'art. 5, lett. b, a fronte delle lett. a, c, d, le quali, nell'arco che va dalla privazione degli elementi nutritivi all'alterazione degli stessi, abbracciano tutti gli aspetti oggettivamente rilevabili di degenerazione delle caratteristiche intrinseche degli alimenti.
Da qui la conclusione che il cattivo stato di conservazione della lett. b riguarda quelle situazioni in cui le sostanze alimentari, pur potendo essere ancora perfettamente genuine e sane, si presentano mal conservate e cioè preparate o confezionate o messe in vendita senza l'osservanza di quelle prescrizioni di leggi, regolamenti o atti amministrativi generali che sono dettate a garanzia della buona conservazione al fine di prevenire il pericolo di una loro precoce degradazione, contaminazione o comunque alterazione (scatolame bombato, arrugginito, involucri forati, intaccati, unti, bagnati, esposizione prolungata ai raggi solari di vino e olio, latte lasciato a temperature inadeguate, alimenti collocati in prossimità di insetti e simili).
Dunque, ai fini dell'integrazione della contravvenzione in esame si deve ritenere sufficiente l'inosservanza delle prescrizioni igienico-sanitarie volte a garantire la buona conservazione del prodotto.
5. Tale è il caso della messa in vendita di pane non confezionato sulla pubblica via esposto, perciò, agli agenti atmosferici in grado di alternarne le proprietà intrinseche.
Il Tribunale ha fatto buon governo dei principi qui rammentati e con motivazione congrua e tutt'altro che illogica, oltre che corretta in diritto, ha confermato la responsabilità dell'imputato per il reato contestato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.10.2018 n. 45274).

EDILIZIA PRIVATA: Le controversie attinenti alla determinazione e liquidazione degli oneri concessori sono riconducibili a quegli aspetti dell’uso del territorio costituenti prerogativa della P.A., e per questo riservate alla giurisdizione esclusiva del G.A., nel rispetto dell’indirizzo legislativo previsto in origine dall’art. 16 L. 10/1977, confermato poi dall’art. 34 Decr. Leg.vo 80/1998 (come sostituito dalla L. 205/2000), rimodulato in seguito dall’intervento correttivo della Corte Cost. n. 204/2004, e da ultimo fissato dall’art. 133, co. 1, lett. f), cpa (alla stregua del quale sono devolute appunto alla giurisdizione esclusiva del G.A. “le controversie aventi ad oggetto gli atti e i provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in materia di urbanistica ed edilizia, concernenti tutti gli aspetti dell’uso del territorio”.
Sempre alla giurisdizione esclusiva del G.A. risulta, altresì, ascrivibile la controversia introdotta a mezzo del ricorso per motivi aggiunti, avente ad oggetto la restituzione di somme versate a titolo di oneri concessori connessi ad un P.d.c. poi non utilizzato, ancorché si versi in ipotesi di indebito oggettivo, a seguito del venire meno dell’originaria obbligazione legale.
Peraltro, ai sensi dell'art. 133, comma 1, lett. f), cod. proc. amm., rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo anche la controversia avente ad oggetto la cartella di pagamento emessa da Equitalia Servizi di Riscossione spa ed avente ad oggetto somme dovute per oneri concessori, nel corso della quale non vengano dedotte censure derivanti da atti generali autoritativi relativi alla determinazione degli oneri presupposti di quello impugnato; atteso anche che detti oneri non hanno natura tributaria, bensì costituiscono un corrispettivo di diritto pubblico avente la funzione di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione.
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Le controversie in materia di determinazione e pagamento degli oneri concessori, investendo l’esistenza o l’entità di un’obbligazione legale, concernono diritti soggettivi, con la conseguenza che la relativa domanda non soggiace al regime di decadenza proprio del processo di impugnazione, ma può essere proposta nel termine di prescrizione ordinaria ed indipendentemente dall’impugnazione di eventuali atti.
In particolare, va osservato che gli atti emessi nella materia degli oneri concessori dal Comune non presentano carattere autoritativo, e, quindi, attitudine a divenire incontestabili se non impugnati nel termine decadenziale di gg. 60 (come accade, invece, per i provvedimenti amministrativi), tanto più che non ha natura tributaria l’obbligazione riguardante gli oneri in parola, per cui sul punto non può neppure parlarsi di atti di accertamento (suscettibili di far divenire incontestabile la pretesa, se non impugnati nei termini), ancorché vi sia stata emissione di ordinanza ingiunzione ex R.D. 14.04.1910 n. 639 (posto che, comunque, la giurisdizione viene determinata sulla base della tipologia della pretesa fatta valere con tale mezzo di riscossione, per cui si applicano in definitiva le regole del giudice fornito di giurisdizione: ma nella fattispecie vi è giurisdizione esclusiva e le posizioni sono di diritto/obbligo, cosicché il termine per impugnare l’ingiunzione –cui è riconoscibile valore di atto amministrativo paritetico– è quello decennale di prescrizione ordinaria.
Quindi, va sottolineato come l’azione volta alla declaratoria di insussistenza o diversa entità del debito contributivo per oneri concessori possa essere intentata a prescindere dalla impugnazione o esistenza dell’atto con il quale viene richiesto il pagamento, trattandosi di un giudizio di accertamento di un rapporto obbligatorio pecuniario proponibile nel termine di prescrizione, e pur dopo decorsi i termini per opporsi all’ingiunzione ex R.D. 14.04.1910 n. 639, ovvero ad una cartella di pagamento (essendo questi meri strumenti per procedere ad esecuzione coattiva).
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Le sanzioni irrogabili per il ritardato pagamento del contributo di costruzione soggiaciono al termine prescrizionale di cinque anni.
Sempre in relazione alla somma di cui si discute, sono dovuti gli interessi di mora maturati nel periodo tra la scadenza dei singoli ratei e la data del pagamento. E sugli stessi è applicabile il diverso termine prescrizionale di dieci anni.
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La presente controversia è incentrata sulle contestazioni mosse dalla Im.Sa.St. srl alla richiesta del Comune di Telese Terme di avere la corresponsione di una cospicua somma di denaro, che gli sarebbe dovuta a titolo di oneri concessori (contributo di costruzione e oneri di urbanizzazione), nonché di sanzioni e interessi per ritardato pagamento di questi, in dipendenza del rilascio, in tempi diversi, di più permessi di costruire appunto in favore della odierna ricorrente; richiesta infine concretatasi nella notifica, in data 16.2.2017, a cura della Equitalia Servizi di Riscossione spa (quale concessionario per la riscossione) della cartella n. 07120170016377737, contenente l’ingiunzione alla società ricorrente a pagare entro gg. 60 dalla notifica la complessiva somma di euro 185.894,73, in forza del ruolo n. 2017/000863 reso esecutivo in data 11.11.2016.
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Ciò posto, va preliminarmente osservato che le controversie –quale la presente– attinenti alla determinazione e liquidazione degli oneri concessori sono riconducibili a quegli aspetti dell’uso del territorio costituenti prerogativa della P.A., e per questo riservate alla giurisdizione esclusiva del G.A., nel rispetto dell’indirizzo legislativo previsto in origine dall’art. 16 L. 10/1977, confermato poi dall’art. 34 Decr. Leg.vo 80/1998 (come sostituito dalla L. 205/2000), rimodulato in seguito dall’intervento correttivo della Corte Cost. n. 204/2004, e da ultimo fissato dall’art. 133, co. 1, lett. f), cpa (alla stregua del quale sono devolute appunto alla giurisdizione esclusiva del G.A. “le controversie aventi ad oggetto gli atti e i provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in materia di urbanistica ed edilizia, concernenti tutti gli aspetti dell’uso del territorio” – cfr. Cons. di Stato sez. IV, n. 2960 del 10.06.2014; TAR Campania-Napoli n. 2170 del 16.04.2014, TAR Liguria n. 552 del 28.03.2013; TAR Campania-Salerno n. 1676 del 24.09.2012; TAR Campania-Napoli n. 2136 del 09.05.2012).
Sempre alla giurisdizione esclusiva del G.A. risulta, altresì, ascrivibile la controversia introdotta a mezzo del ricorso per motivi aggiunti, avente ad oggetto la restituzione di somme versate a titolo di oneri concessori connessi ad un P.d.c. poi non utilizzato, ancorché si versi in ipotesi di indebito oggettivo, a seguito del venire meno dell’originaria obbligazione legale (cfr. Cons. di Stato sez. V, n. 894 del 12.06.1995; TAR Sicilia-Catania n. 189 del 27.01.2017; TAR Sicilia-Catania n. 159 del 18.01.2013).
Peraltro, ai sensi dell'art. 133, comma 1, lett. f), cod. proc. amm., rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo anche la controversia avente ad oggetto la cartella di pagamento emessa da Equitalia Servizi di Riscossione spa ed avente ad oggetto somme dovute per oneri concessori, nel corso della quale non vengano dedotte censure derivanti da atti generali autoritativi relativi alla determinazione degli oneri presupposti di quello impugnato (così Cons. di Stato sez. IV, n. 4208 del 21.08.2013; nonché Cass. SS.UU. n. 22514 del 20.10.2006; TAR Sicilia-Catania n. 2531 dell’11.10.2016; TAR Sicilia Palermo n. 1730 del 12.07.2016; TAR Toscana n. 265 dell’11.02.2011); atteso anche che detti oneri non hanno natura tributaria, bensì costituiscono un corrispettivo di diritto pubblico avente la funzione di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione (così Cons. di Stato sez. IV, n. 4208 del 21.08.2013; nonché TAR Campania-Napoli n. 19792 del 18.11.2008).
Ancora, deve osservarsi che le controversie in materia di determinazione e pagamento degli oneri concessori, investendo l’esistenza o l’entità di un’obbligazione legale, concernono diritti soggettivi, con la conseguenza che la relativa domanda non soggiace al regime di decadenza proprio del processo di impugnazione, ma può essere proposta nel termine di prescrizione ordinaria ed indipendentemente dall’impugnazione di eventuali atti (cfr. Cons. di Stato sez. IV, n. 4208 del 21.08.2013; TAR Sicilia-Catania n. 189 del 27.01.2017; TAR Sicilia-Palermo n. 2581 del 10.11.2016; TAR Puglia-Bari n. 1596 del 03.12.2015TAR Puglia-Lecce n. 3114 del 30.10.2015; TAR Sicilia-Catania n. 1881 del 09.07.2015).
In particolare, va osservato che gli atti emessi nella materia degli oneri concessori dal Comune non presentano carattere autoritativo, e, quindi, attitudine a divenire incontestabili se non impugnati nel termine decadenziale di gg. 60 (come accade, invece, per i provvedimenti amministrativi), tanto più che –come già detto– non ha natura tributaria l’obbligazione riguardante gli oneri in parola, per cui sul punto non può neppure parlarsi di atti di accertamento (suscettibili di far divenire incontestabile la pretesa, se non impugnati nei termini), ancorché vi sia stata emissione di ordinanza ingiunzione ex R.D. 14.04.1910 n. 639 (posto che, comunque, la giurisdizione viene determinata sulla base della tipologia della pretesa fatta valere con tale mezzo di riscossione –cfr. Cass. SS.UU. 29 del 05.01.2016; TAR Emilia Romagna, Parma, n. 134 del 18.04.2016; TAR Sicilia, Catania, n. 109 del 15.01.2015-, per cui si applicano in definitiva le regole del giudice fornito di giurisdizione: ma nella fattispecie vi è giurisdizione esclusiva e le posizioni sono di diritto/obbligo, cosicché il termine per impugnare l’ingiunzione –cui è riconoscibile valore di atto amministrativo paritetico; cfr. Cass. Civ. n. 29653 del 12.12.2017– è quello decennale di prescrizione ordinaria; su quest’ultimo punto cfr. TAR Calabria, Catanzaro, n. 1976 del 10.12.2007).
Quindi, va sottolineato come (cfr. Cons. di Stato sez. V, n. 810 del 04.12.1990; nonché Cons. di Stato sez. IV, n. 4208 del 21.08.2013) l’azione volta alla declaratoria di insussistenza o diversa entità del debito contributivo per oneri concessori possa essere intentata a prescindere dalla impugnazione o esistenza dell’atto con il quale viene richiesto il pagamento, trattandosi di un giudizio di accertamento di un rapporto obbligatorio pecuniario proponibile nel termine di prescrizione, e pur dopo decorsi i termini per opporsi all’ingiunzione ex R.D. 14.04.1910 n. 639, ovvero ad una cartella di pagamento (essendo questi meri strumenti per procedere ad esecuzione coattiva).
Pertanto, va disattesa l’eccezione di inammissibilità del presente gravame, sollevata in limine litis dalla difesa del Comune di Telese Terme, poiché le ingiunzioni e le richieste di pagamento (nonché la cartella di pagamento notificata) cui viene fatto riferimento, possono, in definitiva, valere nella specie soltanto ad interrompere il termine prescrizionale decorrente in favore del debitore.
Nel merito, va detto che la prima pretesa creditoria del Comune di Telese Terme si riferisce all’asserito omesso versamento di € 22.598,50 dovuti a titolo di oneri di urbanizzazione (e non di costo di costruzione, come erroneamente riportato nella cartella di pagamento n. 07120170016377737 – cfr. documentazione in atti) in relazione all’intervento edilizio assentito con il P.d.C. n. 44/2005 (rilasciato a Pellegrino Raffaele, e poi volturato, in data 20.10.2005, in favore della Im.Sa.St. srl).
Per tale credito, il Comune di Telese Terme ha emesso dapprima un invito al pagamento in data 30.10.2008 – prot. n. 15401 (spedito a mezzo racc. a/r, di cui non è stata però fornita la prova del recapito, ancorché nella relazione tecnica a firma dell’arch. Al.Pe. si faccia riferimento all’a/r di racc. n. 13226606266-9); e comunque, successivamente, l’ingiunzione di pagamento prot. n. 1210 del 27.1.2009, ricevuta in data 10.2.2009 dai destinatari (come da a/r di racc. versato in atti).
Sennonché, la società ricorrente sostiene di aver provveduto al pagamento della somma suddetta nell’anno 2009, ed a sostegno di tale asserzione ha prodotto una bolletta di versamento dell’importo in parola, per il tramite della Banca Popolare di Novara e in favore del Comune Telese Terme, riportante la seguente causale “saldo costi di urbanizzazione concessione 44/05 rate 2-3-5-4”.
Dal suo canto, il Comune di Telese Terme ha, tuttavia, affermato di non aver mai ricevuto il detto pagamento; ma risolutiva sul punto appare la documentazione acquisita dall’Im.Sa.St. srl a mezzo di procedura di accesso agli atti del Comune interessato, e poi prodotta in giudizio in data 30.04.2018, ovvero una certificazione a firma del responsabile dell’Area Economico/Finanziaria dell’ente, in cui viene attestato che tra le somme dallo stesso incassate a seguito di pagamenti effettuati dalla Im.Sa.St. srl (“mediante bonifici pervenuti sul c/c di Tesoreria Comunale e introitate con le Reversali di incasso di seguito riportate…”), figura anche la “Reversale n. 1102/2009 di importo pari ad € 22.598,50”, evidentemente riferibile al rapporto in questione, in mancanza di diversa spiegazione: perciò deve concludersi che la suddetta somma non è più dovuta, in quanto pagata in data 23.06.2009.
Neppure, poi, risultano dovute le sanzioni irrogabili per il ritardato pagamento della somma in parola, poiché, applicandosi nella specie il termine prescrizionale di cinque anni (cfr. sul punto TAR Campania-Napoli, sez. VIII, n. 2170 del 16.04.2014), lo stesso risulta ormai decorso dall’ultimo atto interruttivo, costituito dalla sopra ricordata ingiunzione di pagamento n. 1210 del 27.01.2009, notificata il 10.02.2009 (posto che la successiva cartella di pagamento è stata notificata solo in data 16.02.2017).
Viceversa, sempre in relazione alla somma di cui si discute, sono dovuti gli interessi di mora maturati nel periodo tra la scadenza dei singoli ratei e il 23.06.2009, ovvero la data del pagamento: ciò in quanto per gli interessi è applicabile il diverso termine prescrizionale di dieci anni (cfr. sul punto TAR Campania-Salerno, nn. 2599 e 2600 del 30.12.2003), che, per quanto prima evidenziato, non risultava ancora decorso al momento della notifica della cartella di pagamento, dopo l’interruzione operata con l’ingiunzione n. 1210 del 27.01.2009.
Quanto alle somme richieste per oneri concessori in relazione ai P.d.C. n. 102/2007 e n. 103/2007 (in variante al P.d.C. n. 93/2006), risultano dovute le sorti capitale (in mancanza di prova del loro pagamento), mentre sono prescritte le sanzioni irrogabili per il loro tardivo pagamento (e sul punto concorda anche il responsabile dell’Area Tecnica del Comune di Telese Terme, secondo la ricostruzione nella relazione a sua firma), per essere maturato il relativo termine quinquennale, ancorché in proposito fossero stati inoltrati solo nell’anno 2015 gli avvisi di avvio del procedimento di riscossione coattiva n. 9422/2015 e n. 9421/2015 (dei quali, peraltro, non risulta provato il recapito a destinazione).
Viceversa, non è maturata la prescrizione decennale (atteso che il rilascio dei P.d.C. 102/2007 e 103/2007 si è avuto il 03.12.2007) riguardante gli interessi moratori, perciò dovuti a partire dalle date di scadenza dei vari ratei eventualmente concordati, fino all’estinzione dell’obbligazione per compensazione legale, secondo quanto si dirà più avanti.
E’, infatti, fondata anche la richiesta formulata dalla ricorrente di restituzione degli importi versati a titolo di oneri concessori per il rilascio, in data 20.01.2009, del P.d.C. n. 4/2009; ed ancor prima l’eccezione sollevata sul punto in via sostanziale, sulla scorta delle argomentazioni svolte già con il ricorso introduttivo.
Invero, risulta incontestato (e anche ammesso dallo stesso ente territoriale, sempre nella ricordata relazione a firma dell’arch. Al.Pe.), che, in riferimento a tale P.d.C., la società ricorrente ha versato al Comune di Telese Terme complessivi euro 72.307,76 (di cui, euro 47.322,58, a titolo di oneri di urbanizzazione; euro 2.324,00, a titolo di diritti di segreteria; ed euro 22.661,18, a titolo di costo di costruzione); e che l’intervento così assentito non è poi stato realizzato, per non essere i lavori iniziati nel prescritto termine di un anno dal rilascio (con conseguente decadenza “di diritto” del titolo, ai sensi dell’art. 15 D.P.R. 380/2001): tanto ha determinato una situazione di indebito oggettivo ex art. 2033 c.c., e perciò il sorgere, con decorrenza dalla data di decadenza del rilasciato titolo edilizio, dell’obbligo del Comune di restituire quanto percepito a titolo di oneri concessori, ancorché con esclusione dei versati diritti di segreteria (trattandosi di attribuzione patrimoniale giustificata appunto dall’attività di segreteria comunque svolta per pervenire al rilascio del P.d.C., e indipendente dal successivo effettivo utilizzo di questo).
La contemporanea pendenza, di tale credito della Im.Sa.St. srl nei confronti del Comune di Telese Terme (comprendente anche gli interessi compensativi, decorrenti dal giorno della domanda ripetitiva dell’indebito nella ipotesi di buona fede del percettore, che deve ritenersi nel caso di specie ricorrere – cfr. TAR Lazio-Roma n. 2294 del 12.03.2008), e del credito di detto Comune verso l’odierna ricorrente, ha fatto sì che, sussistendo i presupposti richiesti dall’art. 1241 c.c., si verificasse la compensazione legale dei due debiti, fino alla concorrenza di quello di minore importo (ovvero quello vantato dalla Im.Sa.St. srl): di tanto va dato atto in questa sede, cosicché non può farsi luogo alla restituzione chiesta con i motivi aggiunti.
Pertanto, in definitiva, la domanda complessivamente proposta in questa sede va accolta nei sensi e nei limiti di quanto fin qui esposto, e va, altresì, annullata l’impugnata cartella di pagamento.
Quanto alla posizione della Equitalia Riscossioni spa, seppure effettivamente deve dirsi estranea al rapporto intercorrente tra la Im.Sa.St. srl e il Comune di Telese Terme, tuttavia risulta essere stata correttamente intimata in questo giudizio, poiché soggetto che aveva emesso la contestata cartella di pagamento, per cui non può essere disposta la sua estromissione, come da essa richiesto (cfr. TAR Sardegna n. 82 dell’8.2.2007; TAR Campania-Salerno n. 766 dell’1.7.2003) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 09.10.2018 n. 5835 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nel settore paesaggistico, la motivazione può ritenersi adeguata quando risponde ad un modello che contempli, in modo dettagliato, la descrizione:
   i) dell’edificio mediante indicazione delle dimensioni, delle forme, dei colori e dei materiali impiegati;
   ii) del contesto paesaggistico in cui esso si colloca, anche mediante indicazione di eventuali altri immobili esistenti, della loro posizione e dimensioni;
   iii) del rapporto tra edificio e contesto, anche mediante l'indicazione dell'impatto visivo al fine di stabilire se esso si inserisca in maniera armonica nel paesaggio.

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1. È appellata la sentenza del Tar Lazio, sezione staccata di Latina, sez. I, di reiezione del ricorso proposto dalla sig.ra An.Gr. avverso il diniego opposto dal comune di Gaeta sull’istanza di concessione edilizia a sanatoria avente ad oggetto la realizzazione di una veranda di mq 4,50 su un immobile di proprietà in via ... n. 26.
Il gravame è stato esteso al parere negativo a fini ambientali espresso ai sensi dell’art. 32 l. 28.02.1985, n. 47.
...
6. Il motivo è fondato.
Nel parere negativo si legge che “la vetrata in trattazione si inserisce come elemento isolato nella facciata dell’edificio inserendo elementi estranei per materiali e forme all’ordinaria composizione determinando contrasti e disomogeneità”.
6.1 Lungi dal riferirsi al contesto ambientale, il contrasto e la disomogeneità è parametrata all’edificio, considerato come avulso dal profilo paesaggistico.
Semanticamente il parere –nell’ambito della sintattica complessiva delle proposizioni adoperate– è testualmente riferito al manufatto, senza affatto considerare il pregiudizio arrecato al paesaggio dalla vetrata posizionata sulla terrazza di casa della ricorrente.
6.2 Né supplisce al difetto di motivazione il richiamo dell’art. 37 del testo coordinato delle n.t.a. del P.T.P. relativo all’ambito territoriale n. 14 approvate dalla legge regionale 06.07.1998, n. 24.
La norma è entrata in vigore in epoca successiva alla realizzazione della vetrata; in aggiunta, non è specificato il contrasto di un’opera precaria priva d’impatto edilizio con la norma regolamentare a carattere generale ed astratto.
7. Sicché va data continuità all’indirizzo giurisprudenziale qui condiviso a mente “
nel settore paesaggistico, la motivazione può ritenersi adeguata quando risponde ad un modello che contempli, in modo dettagliato, la descrizione:
   i) dell’edificio mediante indicazione delle dimensioni, delle forme, dei colori e dei materiali impiegati;
   ii) del contesto paesaggistico in cui esso si colloca, anche mediante indicazione di eventuali altri immobili esistenti, della loro posizione e dimensioni;
   iii) del rapporto tra edificio e contesto, anche mediante l'indicazione dell'impatto visivo al fine di stabilire se esso si inserisca in maniera armonica nel paesaggio
" (cfr., Cons. Stato, sez. VI, 23.12.2013, n. 6223; Cons. Stato, sez. VI, 04.10.2013, n. 4899; Cons. Stato, sez. VI, 10.05.2013, n. 2535).
7.1 Nella fattispecie in esame è stato omesso del tutto il riscontro dell’opera con il contesto paesaggistico tutelato ai fini dell’effettiva valutazione della compromissione all’ambiente causato dall’opera (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 09.10.2018 n. 5807 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le verande realizzate sulla balconata di un appartamento, in quanto determinano una variazione planovolumetrica ed architettonica dell’immobile nel quale vengono realizzate, sono senza dubbio soggette al preventivo rilascio di permesso di costruire.
Si tratta, infatti, di strutture fissate in maniera stabile al pavimento che comportano la chiusura di una parte del balcone, con conseguente aumento di volumetria e modifica del prospetto. Né può assumere rilievo la natura dei materiali utilizzati, in quanto la chiusura, anche ove realizzata (come nella specie) con pannelli in alluminio, costituisce comunque un aumento volumetrico.
In proposito, va ricordato che, nell’Intesa sottoscritta il 20.10.2016, ai sensi dell’articolo 8, comma 6, della legge 05.06.2003, n. 131, tra il Governo, le Regioni e i Comuni, concernente l’adozione del regolamento edilizio-tipo di cui all’articolo 4, comma 1-sexies, del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, la veranda è stata definita (nell’Allegato A) «Locale o spazio coperto avente le caratteristiche di loggiato, balcone, terrazza o portico, chiuso sui lati da superfici vetrate o con elementi trasparenti e impermeabili, parzialmente o totalmente apribili».
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Deve anche escludersi che la trasformazione di un balcone o di un terrazzo in veranda costituisca una «pertinenza» in senso urbanistico.
La veranda integra, infatti, un nuovo locale autonomamente utilizzabile, il quale viene ad aggregarsi ad un preesistente organismo edilizio, per ciò solo trasformandolo in termini di sagoma, volume e superficie.
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1.‒ L’appello è fondato.
2.‒ Va premesso che, ai sensi dell’art. 10, comma 1, lettera c), del testo unico dell’edilizia (d.P.R. n. 380 del 2001), le opere di ristrutturazione edilizia necessitano di permesso di costruire se consistenti in interventi che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino, modifiche del volume, dei prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso (ristrutturazione edilizia).
In via residuale, la SCIA assiste invece i restanti interventi di ristrutturazione c.d. «leggera» (compresi gli interventi di demolizione e ricostruzione che non rispettino la sagoma dell’edificio preesistente).
Ebbene, le verande realizzate sulla balconata di un appartamento, in quanto determinano una variazione planovolumetrica ed architettonica dell’immobile nel quale vengono realizzate, sono senza dubbio soggette al preventivo rilascio di permesso di costruire.
Si tratta, infatti, di strutture fissate in maniera stabile al pavimento che comportano la chiusura di una parte del balcone, con conseguente aumento di volumetria e modifica del prospetto. Né può assumere rilievo la natura dei materiali utilizzati, in quanto la chiusura, anche ove realizzata (come nella specie) con pannelli in alluminio, costituisce comunque un aumento volumetrico.
In proposito, va ricordato che, nell’Intesa sottoscritta il 20.10.2016, ai sensi dell’articolo 8, comma 6, della legge 05.06.2003, n. 131, tra il Governo, le Regioni e i Comuni, concernente l’adozione del regolamento edilizio-tipo di cui all’articolo 4, comma 1-sexies, del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, la veranda è stata definita (nell’Allegato A) «Locale o spazio coperto avente le caratteristiche di loggiato, balcone, terrazza o portico, chiuso sui lati da superfici vetrate o con elementi trasparenti e impermeabili, parzialmente o totalmente apribili».
Deve anche escludersi che la trasformazione di un balcone o di un terrazzo in veranda costituisca una «pertinenza» in senso urbanistico. La veranda integra, infatti, un nuovo locale autonomamente utilizzabile, il quale viene ad aggregarsi ad un preesistente organismo edilizio, per ciò solo trasformandolo in termini di sagoma, volume e superficie.
3.‒ Su queste basi, correttamente l’Amministrazione comunale ha ritenuto che la realizzazione del manufatto in contestazione  consistente nell’«ampliamento volumetrico dell’unità immobiliare eseguito con la realizzazione di una struttura in cemento armato (costituita da pilastri e travi) sui lati nord e ovest della tettoia, tamponature laterali in vetro, con l’allungamento della trasanna della copertura sovrastante sostenuta da travi doppio T, e con la realizzazione»‒ rendesse necessario il preventivo rilascio del permesso di costruire (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 09.10.2018 n. 5801 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Caratteri dell’interdittiva prefettizia antimafia.
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Informativa antimafia – Finalità – Individuazione.
  
Informativa antimafia – Presupposti – Fatti risalenti nel tempo - Possibilità.
  
Informativa antimafia – Presupposti – Attualità del fatto di reato – Non occorre.
  
La c.d. interdittiva prefettizia antimafia, di cui agli artt. 91 e ss., d.lgs. 06.09.2011, n. 159, costituisce una misura preventiva volta ad impedire i rapporti contrattuali con la P.A. di società, formalmente estranee ma, direttamente o indirettamente, comunque collegate con la criminalità organizzata; l'interdittiva antimafia è cioè diretta ad impedire che possa essere titolare di rapporti, specie contrattuali, con le pubbliche Amministrazioni un imprenditore sia comunque coinvolto, colluso o condizionato dalla delinquenza organizzata (1).
  
L'interdittiva antimafia può legittimamente fondarsi anche su fatti risalenti nel tempo, purché dall'analisi del complesso delle vicende esaminate emerga, comunque, un quadro indiziario idoneo a giustificare il necessario giudizio di attualità e di concretezza del pericolo di infiltrazione mafiosa nella gestione dell'attività di impresa (2).
  
I tentativi d'infiltrazione mafiosa, che danno luogo all'adozione dell'informativa antimafia interdittiva, possono essere desunti anche da una sentenza penale che, ancorché intervenuta tempo prima ed ancora oggetto d'impugnazione, ha condannato l'interessato per il delitto di usura di cui all'art. 644 c.p., atteso che ritenere che detta sentenza è irrilevante solo perché ha ad oggetto fatti risalenti nel tempo, significa introdurre un elemento della fattispecie —l'attualità del fatto di reato, oggetto di condanna— che non è previsto dalla disposizione, la quale si limita a prevedere che la condanna per uno dei delitti-spia, quale che sia il tempo in cui è intervenuta, debba essere presa in considerazione dal Prefetto ai fini del rilascio dell'informativa (3).
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   (1) Cons. St., sez. III, 09.05.2016, n. 1846.
Ha ricordato la Sezione che l’introduzione della c.d. interdittiva prefettizia antimafia è stata la risposta cardine dell’Ordinamento per attuare un contrasto all’inquinamento dell’economia sana da parte delle imprese che sono strumentalizzate o condizionate dalla criminalità organizzata.
In tale direzione la valutazione della legittimità dell’informativa deve essere effettuata sulla base di una valutazione unitaria degli elementi e di fatti che, valutati nel loro complesso, possono costituire un’ipotesi ragionevole e probabile di permeabilità della singola impresa ad ingerenze della criminalità organizzata di stampo mafioso sulla base della regola causale del “più probabile che non”, integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali (qual è quello mafioso), e che risente della estraneità al sistema delle informazioni antimafia di qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio (Cons. St., sez. III, 18.04.2018, n. 2343).
Ai fini della sua adozione, da un lato, occorre non già provare l'intervenuta infiltrazione mafiosa, bensì soltanto la sussistenza di elementi sintomatico-presuntivi dai quali –secondo un giudizio prognostico latamente discrezionale– sia deducibile il pericolo di ingerenza da parte della criminalità organizzata; d’altro lato, detti elementi vanno considerati in modo unitario, e non atomistico, cosicché ciascuno di essi acquisti valenza nella sua connessione con gli altri (Cons. St., sez. III, 18.04.2018, n. 2343).
Ha ancora affermato la Sezione che la violazione del divieto di discriminazione di cui all’art. 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (firmata a Roma il 04.11.1950, ratificata e resa esecutiva con legge 04.08.1955, n. 848), e del divieto dell’abuso di diritto di cui agli artt. 17 e 18 della predetta CEDU, nonché eccesso di potere per difetto di proporzionalità, si fa presente, in primo luogo, che il comma 2 dell’art. 1 ”Protezione della proprietà” espressamente prevede che: “Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende.”
In tale ottica va inquadrato proprio l’invocato art. 18, per cui "Le restrizioni che, in base alla presente convenzione, sono posti a detti diritti e libertà possono essere applicate solo allo scopo per cui sono state previste". È dunque fatta salva la possibilità degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso di di beni in modo conforme all’interesse generale.
In sostanza, la legge nazionale può porre restrizioni ai predetti diritti per scopi comunque determinati, leciti e di interesse pubblico generale.
In tale scia ricostruttiva, a conferma delle predette conclusioni, si deve ancora ricordare che, sia pure in un differente ambito oggettivo, l’art. 2, commi 3 e 4 del Protocollo n. 4 estrinsecano il principio di non discriminazione specificando che: “3. L’esercizio di tali diritti non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono previste dalla legge e che costituiscono, in una società democratica, misure necessarie alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al mantenimento dell’ordine pubblico, alla prevenzione delle infrazioni penali, alla protezione della salute o della morale o alla protezione dei diritti e libertà altrui.
4. I diritti riconosciuti al paragrafo 1 possono anche, in alcune zone determinate, essere oggetto di restrizioni previste dalla legge e giustificate dall’interesse pubblico in una società democratica
.”
La normativa dell’antimafia è infatti espressione della potestà di cui all’art. 117 lett. h) ordine pubblico e sicurezza ed “e) …tutela della concorrenza…” in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale 1 alla CEDU, sul presupposto che la formula elastica adottata dal legislatore per la disciplina delle interdittive antimafia –che consente di procedere in tal senso anche solo su base indiziaria– deve ritenersi quale corretto bilanciamento dei valori coinvolti. Infatti, se da una parte è opportuno fornire adeguata tutela alla libertà di esercizio dell’attività imprenditoriale, dall’altra non può che considerarsi preminente l’esigenza di salvaguardare l’interesse pubblico al presidio del sistema socio-economico da qualsivoglia inquinamento mafioso.
Non vi sono dubbi che l’esigenza di tutela della libertà di tutti i cittadini e di salvaguardia della convivenza democratica sono finalità perfettamente coincidenti con i principi della CEDU, ed anche la formula “elastica” adottata dal legislatore nel disciplinare l’informativa interdittiva antimafia su base indiziaria ha il suo fondamento nella ragionevole esigenza del bilanciamento tra la libertà di iniziativa economica riconosciuta dall’art. 41 Cost. e l’interesse pubblico alla salvaguardia dell’ordine pubblico e alla prevenzione dei fenomeni mafiosi che, del resto, mediante l’infiltrazione nel tessuto economico e nei mercati, compromettono anche –oltre alla sicurezza pubblica– il valore costituzionale di libertà economica, indissolubilmente legato alla trasparenza e alla corretta competizione nelle attività con cui detta libertà si manifesta in concreto nei rapporti tra soggetti dell’ordinamento.
Per quanto poi concerne la "presunzione di non colpevolezza", si deve ricordare come il giudizio, fondato secondo il criterio del "più probabile che non", costituisce un regola che si palesa "consentanea alla garanzia fondamentale della presunzione di non colpevolezza", di cui all’art. 27 Cost. , comma 2, cui è ispirato anche il p. 2 del citato art. 6 CEDU", in quanto "non attiene ad ipotesi di affermazione di responsabilità penale" ed è "estranea al peri-OMISSIS- delle garanzie innanzi ricordate" (Cass., sez. I, 30.09.2016, n. 19430).
Da molto tempo infatti le consorterie di tipo mafioso hanno esportato fuori dai tradizionali territori di origine l’uso intimidatorio della violenza, ed hanno creato vere e proprie holding.
Si tratta di quelle aree opache nelle quali notoriamente i proventi di attività illecite vengono reinvestiti in imprese formalmente estranee (perché intestate a prestanome “puliti”) e dispersi in una miriade di società collegate da vincoli di vario tipo con l’organizzazione criminale.
Il legislatore, allontanandosi dal modello della repressione penale, ha conseguentemente impostato l'interdittiva antimafia come strumento di interdizione e di controllo sociale, al fine di contrastare le forme più subdole di aggressione all'ordine pubblico economico, alla libera concorrenza ed al buon andamento della pubblica Amministrazione.
Il carattere preventivo del provvedimento, prescinde quindi dall'accertamento di singole responsabilità penali, essendo il potere esercitato dal Prefetto espressione della logica di anticipazione della soglia di difesa sociale, finalizzata ad assicurare una tutela avanzata nel campo del contrasto alle attività della criminalità organizzata (Cons. St., sez. III, 30.01.2015, n. 455; id. 23.02.2015, n. 898.
   (2) Cons. St., sez. III, 16.05.2017, n. 2327; id. 05.05.2017, n. 2085.
   (3) Cons. St., sez. III, 24.07.2015, n. 3653 (
Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 09.10.2018 n. 5784 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: APPALTI - Vizi palesi o occulti - Difformità dell'opera - Appaltatore - Denuncia tempestiva al subappaltatore - Denuncia effettuata dal committente direttamente al subappaltatore - Inidoneità ex art. 1670 c.c..
L'appaltatore è tenuto a denunciare tempestivamente al subappaltatore i vizi o le difformità dell'opera a lui contestati dal committente e, prima della formale denuncia di quest'ultimo, non ha interesse ad agire in regresso nei confronti del subappaltatore, atteso che il committente potrebbe accettare l'opera nonostante i vizi palesi, non denunciare mai i vizi occulti oppure denunciarli tardivamente.
La denuncia effettuata dal committente direttamente al subappaltatore non è idonea a raggiungere il medesimo scopo della comunicazione effettuata dall'appaltatore ai sensi dell'art. 1670 cod. civ., dovendo tale comunicazione provenire dall'appaltatore o da suo incaricato.

APPALTI - Garanzia per le difformità e i vizi dell'opera - Committente e denunzia del vizio nel termine di decadenza - Reciproca indipendenza del subappalto e dell'appalto - Art. 1667 cod. civ..
Ai fini della garanzia per le difformità e i vizi dell'opera, il riconoscimento del vizio proveniente non dall'appaltatore ma da un subappaltatore, che non abbia operato in rappresentanza o su indicazione dell'appaltatore, non esima il committente dalla denunzia del vizio nel termine di decadenza, stante la reciproca indipendenza del subappalto e dell'appalto, i quali restano distinti e autonomi, nonostante il nesso di derivazione dell'uno dall'altro, sicché nessuna diretta relazione si instaura tra il committente e il subappaltatore; ne consegue che l'eventuale ammissione da parte del subappaltatore dell'esistenza di difformità o vizi dell'opera non può ritenersi equipollente al loro riconoscimento, il quale deve provenire dall'appaltatore ex art. 1667 cod. civ., per poter costituire ragione di esonero dalla denunzia che la stessa norma impone al committente di rivolgere, ugualmente all'appaltatore, entro un certo termine, a pena di decadenza dalla garanzia (Cass. n. 22344 del 21/10/2009).
APPALTI - Disciplina codicistica del subappalto - Inesistenza di rapporto diretto tra committente e subappaltatore - Autonomia dei rapporti - Norma eccezionale - Art. 1676 cod. civ..
In tema di appalti non può ritenersi che la specifica disciplina codicistica del subappalto renda possibile considerare l'appaltatore principale, direttamente o utendo iuribus, legittimato alla comunicazione diretta ex art. 1670 cod. civ. nei confronti del subappaltatore.
La disciplina stessa, infatti, per la quale il subappaltatore assume, sia nei confronti dell'appaltatore suo committente sia nei confronti dei terzi, le stesse responsabilità dell'appaltatore verso il committente e verso i terzi, è ispirata al principio per cui tra committente e subappaltatore, nonostante l'autorizzazione ex art. 1656 cod. civ., non si costituisce alcun rapporto giuridico; in tal senso, si è sottolineato -anche in base a confronto con l'art. 1676 cod. civ. quale norma eccezionale- come l'art. 1670 venga a escludere l'esistenza di qualsiasi responsabilità diretta del subappaltatore nei confronti del committente.
Ne deriva che, stante l'autonomia dei rapporti
(per l'inesistenza di rapporto diretto tra committente e subappaltatore, ad altri fini, v. Cass. n. 16917 del 02/08/2011), nessuna legittimazione può spettare all'appaltante principale - al di là di negozi autorizzativi a effettuare direttamente la comunicazione ex art. 1670 cod. civ.
(Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 08.10.2018 n. 24717 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' illegittimo il diniego opposto dal comune avverso un’istanza tendente a ottenere il rilascio di un permesso di costruire ove motivato con esclusivo riferimento al difetto, in capo al richiedente, di un titolo legittimante la richiesta di rilascio dell’atto di assenso edificatorio, nel caso in cui lo stesso sia stato tra l’altro riconosciuto, con sentenza del G.O., legittimo possessore del terreno interessato.
Il permesso di costruire non è riservato unicamente al proprietario, ma anche a chi abbia "titolo per richiederlo", espressione che si identifica con la legittima disponibilità dell'area, in base ad una relazione qualificata con la stessa di natura anche solo obbligatoria.
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Con ricorso ritualmente notificato la ricorrente ha impugnato il provvedimento di diniego dell’istanza di permesso di costruire, motivato dall’amministrazione comunale sulla scorta della mancanza di un titolo legittimante al rilascio del provvedimento abilitativo.
Con il primo motivo di ricorso, la ricorrente deduce di aver presentato un’attestazione della sussistenza del titolo, di per sé sufficiente, e di aver comunque poi integrato la documentazione richiesta anche attraverso una perizia di parte.
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1. Il primo motivo di ricorso è fondato.
Invero, per pacifica giurisprudenza del giudice amministrativo si ritiene che: “Il permesso di costruire non è riservato unicamente al proprietario, ma anche a chi abbia "titolo per richiederlo", espressione che si identifica con la legittima disponibilità dell'area, in base ad una relazione qualificata con la stessa di natura anche solo obbligatoria” (cfr. Cons. Stato Sez. VI, 22.05.2018, n. 3048).
1.2 Nel caso di specie, dalla disamina degli atti, emerge una situazione, quantomeno di fatto, se non di piena titolarità, tale da legittimare l’originaria ricorrente a richiedere il titolo edilizio.
Tra gli elementi più significativi in tal senso, è sufficiente citare la sentenza del Pretore di Vallo della Lucania, n. 96 del 1994, che riconosce la sig.ra Cl.Ma. possessore del fondo di cui al foglio 18 part. 479; la C.T.U. dell’Arch. Al., che, nel rispondere al quesito n. 2, posto proprio da questo TAR, nel giudizio n.r.g. 61 del 2005, definito con la sentenza n. 1747 del 2009, ha evidenziato che “la particella n. 479 – Foglio 18, appare essere di proprietà della sig.ra Ma.Cl. in virtù degli atti e dei documenti allo stato disponibili”; nonché, infine, la C.T.U. del Dott. Agronomo Cr., resa nel giudizio innanzi al Commissario liquidatore degli usi civici, causa n. 2 del 2013.
Né peraltro il Comune ha opposto alla Ma., che, per parte sua, ha dichiarato documentalmente di essere titolare di una situazione legittimante la richiesta, l’esistenza di possibili altri titolari del diritto che rendessero incompatibile la rappresentata volontà di esercizio dei poteri connessi alla disponibilità della res.
2. Occorre, peraltro, rilevare come colga nel segno anche la seconda delle censure proposte, considerato che, seppure l’ente locale avesse voluto contestare all’interessata la legittimazione a richiedere il titolo ad aedificandum, ciò sarebbe dovuto avvenire sulla scorta di ben altra istruttoria procedimentale, tesa a disvelare le ragioni del convincimento dell’amministrazione di una situazione proprietaria (o, comunque, legittimante) poco chiara o dubbiosa.
Analoghe statuizioni possono formularsi con riferimento alla (lacunosità della) motivazione sviluppata a sostegno del provvedimento.
2.1 Dagli atti non è però possibile evincere nessun approfondimento procedimentale di tal fatta, sicché, a fronte delle censure articolate dagli interessati, si ritiene di doversi disporre l’accoglimento del secondo motivo di ricorso.
3. Né, del resto, nel corso del presente giudizio, l’amministrazione comunale, seppure costituitasi in giudizio, ha prodotto un qualsivoglia elemento del procedimento prodromico all’atto impugnato.
4. Va invece disattesa la terza ed ultima censura del ricorso, considerato che il mero decorso del tempo non determina l’illegittimità degli atti emanati dall’amministrazione.
5. In conclusione, il ricorso va accolto limitatamente al primo e al secondo motivo di ricorso
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 08.10.2018 n. 1388 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E’ noto il consolidato indirizzo giurisprudenziale che esclude dall’ambito di applicazione della norma sulla comunicazione di avvio i procedimenti volti a esercitare i poteri repressivi in materia edilizia, mediante adozione dell’ordinanza di demolizione, trattandosi di procedimenti che mettono capo a provvedimenti di contenuto vincolato.
L’attività amministrativa è caratterizzata, in queste ipotesi, dall’accertamento di presupposti di fatto interamente tipizzati dalla norma attributiva del potere, che integrano, alla luce della disciplina urbanistico-edilizia rilevante, l’abuso; per cui gli apporti partecipativi dei destinatari dell’ordinanza non possono svolgere alcuna utile funzione al fine di orientare la decisione amministrativa, che non potrebbe avere un contenuto diverso rispetto a quello prefigurato dalla norma di repressione dell’abuso.
L’orientamento ha trovato autorevole avallo nella recente pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, n. 9 del 2017, che ha sottolineato e ribadito quanto sopra anticipato, ossia che «l’ordine di demolizione è un atto vincolato ancorato esclusivamente alla sussistenza di opere abusive e non richiede una specifica motivazione circa la ricorrenza del concreto interesse pubblico alla rimozione dell’abuso. In sostanza, verificata la sussistenza dei manufatti abusivi, l’Amministrazione ha il dovere di adottarlo, essendo la relativa ponderazione tra l'interesse pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore. In ragione della natura vincolata dell’ordine di demolizione, non è pertanto necessaria la preventiva comunicazione di avvio del procedimento […] né un'ampia motivazione».
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Non può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può in alcun modo legittimare, per il sol fatto di aver versato le imposte comunali (ICI, IMU, TARI).
Invero, diversi sono i presupposti in base ai quali si formano i predetti obblighi tributari [si veda sul punto Cass. civ., Sez. trib., 28.01.2010, n. 1850, in tema di TARSU, in cui si osserva che il «presupposto della tassa de qua ai sensi del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 62, è l'occupazione o la detenzione dì locali o aree scoperte nelle zone del territorio comunale in cui il servizio di smaltimento dei rifiuti sia attivo (e ciò -per quanto concerne l'occupazione o detenzione di locali- a prescindere dal completamento o meno del manufatto e/o dalla abusività o meno della costruzione) …»].
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1. – Con il ricorso in esame, il Sig. Sa.Pi. chiede l’annullamento dell'ordinanza del 14.04.2011, con la quale il responsabile del Servizio Edilizia Privata ed Urbanistica del Comune di Aglientu, ha ordinato all’odierno ricorrente la demolizione delle opere realizzate senza titolo, consistenti in un "...edificio di forma rettangolare adibito a casa di civile abitazione avente una superficie di mq. 79, quasi completamente fuori terra con quattro aperture di cui tre sul prospetto principale e una sul prospetto laterale ad una veranda di mq 33 con sottostante pavimentazione e coperta da travi in legno e soprastante copertura in cemento..." e in un "... muretto perimetrale in blocchetti di cemento e locale adibito a forno per la cottura degli alimenti".
...
6. - Le censure sopra esposte sono manifestamente infondate.
6.1. - In linea di fatto, occorre riprendere la motivazione dell’ordinanza di demolizione e del rapporto del 31.03.2011, del Corpo Forestale e di Vigilanza Ambientale (Stazione Forestale di Luogosanto), da cui si evince che le opere, ricadenti in zona E (agricola) e in area soggetta a vincolo paesaggistico, sono state realizzate senza autorizzazione paesaggistica; e che, sotto il profilo edilizio e urbanistico, il Sig. Pi. aveva a suo tempo ottenuto una autorizzazione edilizia (n. 625 del 17.12.1996) per la “realizzazione di una cisterna idrica interrata”.
Dai rilievi effettuati, veniva accertata, invece, la realizzazione di una casa di civile abitazione di mq 79, oltre a un muro perimetrale in blocchetti di cemento e un locale adibito a forno per la cottura di alimenti.
6.2. - Ciò posto, passando alle censure dedotte dal ricorrente, in primo luogo va rilevata la manifesta infondatezza della censura basata sull’omessa comunicazione di avvio del procedimento.
E’ noto, infatti, il consolidato indirizzo giurisprudenziale che esclude dall’ambito di applicazione della norma sulla comunicazione di avvio i procedimenti volti a esercitare i poteri repressivi in materia edilizia, mediante adozione dell’ordinanza di demolizione, trattandosi di procedimenti che mettono capo a provvedimenti di contenuto vincolato (cfr., ex multis, Cons. St., sez. III, 14.05.2015, n. 2411; da ultimo, Sez. IV, n. 5524/2018).
L’attività amministrativa è caratterizzata, in queste ipotesi, dall’accertamento di presupposti di fatto interamente tipizzati dalla norma attributiva del potere, che integrano, alla luce della disciplina urbanistico-edilizia rilevante, l’abuso; per cui gli apporti partecipativi dei destinatari dell’ordinanza non possono svolgere alcuna utile funzione al fine di orientare la decisione amministrativa, che non potrebbe avere un contenuto diverso rispetto a quello prefigurato dalla norma di repressione dell’abuso.
L’orientamento ha trovato autorevole avallo nella recente pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, n. 9 del 2017, che ha sottolineato e ribadito quanto sopra anticipato, ossia che «l’ordine di demolizione è un atto vincolato ancorato esclusivamente alla sussistenza di opere abusive e non richiede una specifica motivazione circa la ricorrenza del concreto interesse pubblico alla rimozione dell’abuso. In sostanza, verificata la sussistenza dei manufatti abusivi, l’Amministrazione ha il dovere di adottarlo, essendo la relativa ponderazione tra l'interesse pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore. In ragione della natura vincolata dell’ordine di demolizione, non è pertanto necessaria la preventiva comunicazione di avvio del procedimento […] né un'ampia motivazione».
6.3. - Nemmeno può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può in alcun modo legittimare. Anche la circostanza dell’aver versato le imposte comunali (ICI, IMU, TARI), fatta valere dal ricorrente con la memoria conclusiva, non rileva sotto questo profilo, poiché diversi sono i presupposti in base ai quali si formano i predetti obblighi tributari [si veda sul punto Cass. civ., Sez. trib., 28.01.2010, n. 1850, in tema di TARSU, in cui si osserva che il «presupposto della tassa de qua ai sensi del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 62, è l'occupazione o la detenzione dì locali o aree scoperte nelle zone del territorio comunale in cui il servizio di smaltimento dei rifiuti sia attivo (e ciò -per quanto concerne l'occupazione o detenzione di locali- a prescindere dal completamento o meno del manufatto e/o dalla abusività o meno della costruzione) …»] (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 08.10.2018 n. 840 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Divieto, in Umbria, di recinzione nelle zone agricole.
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Edilizia – Zone agricole - Recinzione – Umbria – Esclusione – Art. 89, comma 2, l.reg. n. 1 del 2015 – Violazione artt. 3. 42, 97, 117 Cost. – Rilevanza e non manifesta infondatezza.
E’ rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli artt. 3, 42, 97 e 117, commi 2, lett. l) e 3, Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 89, comma 2, l.reg. Umbria 21.01.2015, n. 1, nella parte in cui prevede che “Nelle zone agricole è esclusa ogni forma di recinzione dei terreni o interruzione di strade di uso pubblico se non espressamente previste dalla legislazione di settore o recinzioni da installare per motivi di sicurezza purché strettamente necessarie a protezione di edifici ed attrezzature funzionali, anche per attività zootecniche” (1).
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   (1) Ha preliminarmente affermato il Tar che non può accogliersi una interpretazione dell’art. 89, comma 2, l.reg. Umbria 21.01.2015, n. 1 tale da far concludere per l’espunzione delle recinzioni elettrificate dal novero delle opere a difesa della proprietà, atteso che, per costante indirizzo giurisprudenziale, “la recinzione senza opere murarie è un manufatto essenzialmente destinato a delimitare una determinata proprietà allo scopo di separarla dalle altre, di custodirla e difenderla da intrusioni, secondo la nozione elaborata dalla giurisprudenza civile in materia di muro di cinta ex art. 878 c.c.” (Tar Brescia, sez. I, 05.02.2008, n. 40).
Persino la presenza di un vincolo paesistico non costituisce un impedimento insuperabile all'introduzione ex novo di recinzioni al servizio della proprietà privata, poiché come tutti gli altri interventi edilizi, anche le recinzioni sono da considerare ammissibili quando non impediscano la fruizione delle componenti del paesaggio tutelate dal vincolo (Tar Brescia sez. I, 03.07.2017, n. 868).
Ciò significa che la recinzione “leggera” in una zona sottoposta a vincolo paesaggistico impone che l'autorità preposta esprima il proprio parere, dando conto dell’effettivo impatto del manufatto nel contesto tutelato e della sua tollerabilità nella zona destinata ad ospitarlo.
Ha aggiunto il Tar che la Corte costituzionale (nn. 231 del 2015; id. 282 del 2016; id. 05.04.2018, n. 68 quest’ultima in riferimento proprio alla legge regionale umbra n. 1 del 2015) è del tutto ferma nell’affermare che la definizione delle categorie di interventi edilizi a cui si collega il regime dei titoli abilitativi costituisce principio fondamentale della materia concorrente del «governo del territorio», vincolando la legislazione regionale di dettaglio, cosicché, pur non essendo precluso al legislatore regionale di esemplificare gli interventi edilizi che rientrano nelle definizioni statali, tale esemplificazione, per essere costituzionalmente legittima, deve essere coerente con le definizioni contenute nel testo unico dell’edilizia.
Le Regioni non possono “differenziarne il regime giuridico, dislocando diversamente gli interventi edilizi tra le attività deformalizzate, soggette a C.I.L. e C.I.L.A.” (sentenza n. 231 del 2016). La “omogeneità funzionale della comunicazione preventiva [...] rispetto alle altre forme di controllo delle costruzioni (permesso di costruire, DIA, SCIA) deve indurre a riconoscere alla norma che la prescrive -al pari di quelle che disciplinano i titoli abilitativi edilizi- la natura di principio fondamentale della materia del governo del territorio”, in quanto volto a garantire l'interesse unitario ad un corretto uso del territorio (sentenza n. 231 del 2016).
Il legislatore regionale, che è vincolato alle categorie edilizie tracciate dallo Stato, non può dunque restringere il novero degli interventi edilizi liberi fissato dalla legge statale (art. 6 T.U.) né invero introdurre fattispecie del tutto nuove (e non ulteriori) se non travalicando l’assetto delle competenze in subiecta materia (Corte cost. 21.12.2016, n. 282).
Anche poi a voler ritenere la recinzioni di che trattasi, in considerazione delle dimensioni (seppur in assenza di opere murarie) intervento sottoposto a C.I.L.A. ai sensi dell’art. 6-bis, d.P.R. n. 380 del 2001, come inserito dall'articolo 1, comma 1, lettera c), d.lgs. 25.11.2016, n. 222 (c.d. S.C.I.A. 2), permarrebbe il descritto contrasto con l’art. 117, comma 3, Cost., dal momento che alla potestà legislativa regionale è consentito di apporre ulteriori semplificazioni ma vietata la previsione di regimi più restrittivi.
Ciò, tra l’altro, suscita l’ulteriore dubbio di costituzionalità in punto di disparità di trattamento ed irragionevolezza (art. 3 Cost.) oltre che di buon andamento (art. 97 Cost.) dal momento che l’art. 118, lett. l), della stessa l.reg. n. 1 del 2015, ancorché non faccia espresso riferimento in termini di applicabilità alle zone agricole, liberalizza invece “le delimitazioni per le attività di protezione della fauna selvatica e dei territori”, consentendo all’agricoltore di realizzare liberamente recinzioni a protezione dei propri edifici ed animali, ma non anche per impedire dall’esterno l’ingresso involontario della fauna selvatica che, come i cinghiali, è notoriamente causa di ingenti danni per le coltivazioni (tanto da indurre la stessa Regione -con la l.reg. n. 17 del 2009 e relativo regolamento di attuazione- a prevedere indennizzi), se non subordinatamente, come visto, alle autorizzazioni previste nell’ambito dei piani di prevenzione predisposti dagli A.T.C.
Del resto, con riferimento alle zone agricole, è stato evidenziato che il divieto di recintare il fondo è non solo antigiuridico ma anche macroscopicamente irragionevole, essendo un elemento imprescindibile di molte coltivazioni e degli allevamenti di bestiame, attività che possono essere svolte anche in aree finitime alle abitazioni (Tar Umbria 07.04.2006, n. 218). In proposito la ricorrente ha dedotto di coltivare frutteti sull’area di proprietà, attività che sarebbe pressoché impossibile svolgere in assenza di qualsivoglia recinzione.
Appare inoltre contraddittoria ed irragionevole la stessa incentivazione contenuta nella l.reg. n. 17 del 2009 all’utilizzo degli strumenti difensivi (art. 6) per la prevenzione del danno alle colture agricole, se raffrontata al generale divieto di cui all’art. 89, l.reg. n. 1 del 2015 (TAR Umbria, ordinanza 08.10.2018 n. 521 - commento tratto da e  link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
Considerato in diritto:
1. In via preliminare deve rilevare il Collegio come non possa trovare accoglimento l’eccezione di inammissibilità per omessa impugnazione del parere della Regione Umbria del 06.07.2017 (richiamato nel provvedimento impugnato) e della direttiva regionale n. 67738 in data 11.05.2015, trattandosi il primo di atto evidentemente endoprocedimentale privo di contenuto decisorio ed il secondo di atto non immediatamente lesivo della posizione di parte ricorrente, in quanto recante la sola conferma del fatto che le recinzioni sono ammissibili se previste da leggi settoriali (elencando alcuni casi, non esaustivi, in cui la legislazione ammette la possibilità di cingere i terreni).
1.1. A medesime conclusioni deve giungersi in ordine alla dedotta mancata impugnazione dell’art. 42 delle N.T.A. del P.R.G., atteso che detta disposizione, ancorché richiamata nel provvedimento gravato, nulla prevede in ordine al divieto in contestazione ed anzi pare ammettere gli interventi di tipo manutentivo quale quello di specie, a tacer del fatto che non vi è prova dell’ubicazione dell’area in questione all’interno del “Parco culturale” ove insisterebbe l’asserito divieto.
2. Del pari infondata risulta poi anche l’altra eccezione di inammissibilità del ricorso per intempestiva impugnazione dell’ordinanza di sospensione dei lavori n. 3 del 13.04.2017 e della diffida dalla prosecuzione dei lavori ripresi prot. n. 21785 del 22.06.2016, trattandosi la prima di provvedimento che ha esaurito i suoi effetti temporali (massimo 45 giorni) prima dell’emanazione dell’ordinanza di demolizione -e dunque privo di capacità lesiva (ex multis TAR Lazio Roma sez. I, 08.06.2011, n. 5121)- e la seconda di atto che per giurisprudenza costante è insuscettibile di integrare l’interesse a ricorrere (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. V, 20.08.2015, n. 3955).
3. Per quanto riguarda il merito del ricorso, occorre premettere, in punto di fatto, come la recinzione in questione estesa per circa 3 km. senza soluzione di continuità, sia posta in area agricola non soggetta a vincolo paesaggistico e costituita da paletti metallici ad altezza massima di mt. 1,50 distanziati tra loro mt. 6 con n. 4 ordini di filo metallico elettrificato (il primo posto a circa 30 cm. da terra) e n. 8 aperture, di circa 6 metri l’una, “a molla”; tali modalità costruttive - secondo la documentazione depositata in giudizio - appaiono atte a garantire il normale passaggio di animali di piccole e medie dimensioni, fatta eccezione per gli ungulati. La recinzione elettrificata appariva in corso di realizzazione alla data del 03.04.2017 (come da verbale Comune di Orvieto) ed è utilizzata dall’impresa ricorrente unicamente a protezione dei propri frutteti.
4. Ciò premesso, deve essere esaminato in ordine logico il IV motivo di gravame, con il quale viene denunciata l’illegittimità costituzionale dell’art. 89 della legge regionale n. 1/12015, nell’ipotesi in cui detta norma debba intendersi nel senso di escludere l’ammissibilità dei sistemi di difesa passivi nei confronti degli animali selvatici; interpretazione questa che secondo la prospettazione di parte ricorrente avrebbe l’effetto di comprimere illegittimamente una libertà riconosciuta direttamente dalla Costituzione e garantita dalla legge statale quale materia esclusiva in tema di “ordinamento civile” (art. 117, comma 2, lett. l), della Costituzione).
5. A tale riguardo, ritiene anzitutto il Collegio che non possa accogliersi una interpretazione della norma in argomento tale da far concludere per l’espunzione delle recinzioni elettrificate dal novero delle opere a difesa della proprietà, atteso che per costante indirizzo giurisprudenziale -come si esporrà più avanti- “
la recinzione senza opere murarie è un manufatto essenzialmente destinato a delimitare una determinata proprietà allo scopo di separarla dalle altre, di custodirla e difenderla da intrusioni, secondo la nozione elaborata dalla giurisprudenza civile in materia di muro di cinta ex art. 878 c.c.” (cfr., ex multis TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 05.02.2008, n. 40).
Persino la presenza di un vincolo paesistico -assente nel caso di specie- non costituisce un impedimento insuperabile all'introduzione ex novo di recinzioni al servizio della proprietà privata, poiché come tutti gli altri interventi edilizi, anche le recinzioni sono da considerare ammissibili quando non impediscano la fruizione delle componenti del paesaggio tutelate dal vincolo (TAR Lombardia, Brescia sez. I, 03.07.2017, n. 868).
Ciò significa che la recinzione “leggera” in una zona sottoposta a vincolo paesaggistico impone che l'autorità preposta esprima il proprio parere, dando conto dell’effettivo impatto del manufatto nel contesto tutelato e della sua tollerabilità nella zona destinata ad ospitarlo.
6. Di qui l’evidente rilevanza, ai fini del presente giudizio, della questione di legittimità costituzionale che si intende sollevare in ordine all’art. 89, comma 2, della legge regionale n. 1 del 2015, dal momento che il provvedimento impugnato si fonda essenzialmente sul divieto ivi previsto di innalzare in zona agricola “ogni forma di recinzione dei terreni” divieto -come si vedrà- che in quanto del tutto scollegato da dimensioni e caratteristiche costruttive, appare prescindere dalla tutela di interessi ambientali, paesaggistici e/o estetici.
Pare al Collegio del tutto logico -secondo le argomentazioni che si articoleranno- come la difesa del proprio fondo dalle intrusioni discendente dagli artt. 841 e 878 c.c. sia diretta nei confronti non solo delle persone non autorizzate bensì della stessa fauna selvatica, in considerazione degli ingenti danni che notoriamente essa arreca alle colture degli agricoltori, apparendo la recinzione elemento imprescindibile delle coltivazioni oltre che degli allevamenti di bestiame.
6.1. Giova evidenziare come ai sensi della legge regionale n. 17 del 2009 “Norme per l'attuazione del fondo regionale per la prevenzione e l’indennizzo dei danni arrecati alla produzione agricola dalla fauna selvatica ed inselvatichita e dall'attività venatoria” e del regolamento regionale attuativo n. 5/2010, l’installazione di sistemi di difesa delle colture -tutt’altro che liberalizzata- è collegata alla duplice condizione della presentazione di apposita domanda di autorizzazione per emergenze agricole (art. 4, comma 1, lett. c), R.R. n. 5/2010) e della programmazione da parte degli A.T.C. nei propri piani di prevenzione (art. 2, comma 3, R.R. 5/2010). Detti piani possono comprendere, quali misure preventive dei danni alle coltivazioni, le recinzioni elettriche (art. 4. comma 2, lett. c), regolamento regionale n. 5/2010) solamente per “emergenze agricole”, predeterminandone l’estensione ed il numero.
Di qui l’impossibilità di ritenere -pur come vorrebbe parte ricorrente- la realizzazione della recinzione de qua consentita “dalla legislazione di settore” ai sensi dell’art. 89 della legge regionale n. 1 del 2005, non avendo peraltro l’A.T.C. n. 3 (competente per il territorio di Orvieto) adottato per l’anno di riferimento il prescritto piano di prevenzione né l’impresa agricola ricorrente, conseguentemente, presentato la prescritta domanda.
6.2. Sempre ai fini del parametro della rilevanza emerge l’infondatezza delle altre doglianze che presentano priorità logico-giuridica (ex multis Corte Cost. 15.07.2015, n. 161).
6.3. In necessaria sintesi, infatti, emerge quanto al II motivo di gravame il carattere non temporaneo delle opere in contestazione, dal momento che la stessa parte ricorrente ha ammesso (vedi pag. 4 del ricorso introduttivo) il posizionamento per almeno due anni (ovvero per il tempo necessario alla crescita delle piante) in palese deroga allo stesso limite temporale di 90 giorni previsto dall’art. 118, c. 2, lett. b), L.R. 1/2005; quanto alla doglianza di cui al V motivo, logicamente di natura subordinata, consistente nella invocata applicazione della sanzione pecuniaria in luogo dell’impugnata demolizione, ai sensi dell’art. 37 d.P.R. n. 380/2001, essa non è certo di per sé in grado di elidere l’interesse allo scrutinio di costituzionalità, invocando parte ricorrente, pregiudizialmente, l’indebita esclusione dell’intervento per cui è causa dal novero degli interventi edilizi liberi.
6.4. Parimenti irrilevante, ai fini della decisione nel merito, è il VI motivo in tema di asserita violazione delle distanze dalle strade di cui all’art. 25, comma 4, del regolamento regionale n. 1 del 2015, quale motivazione ulteriore a supporto dell’ordinanza gravata, dal momento che né il provvedimento impugnato né i verbali di sopralluogo riportano misurazioni di sorta né l’indicazione delle strade (comunali, vicinali) dalla cui classificazione discende la stessa misurazione della distanza.
6.5. Giova infine evidenziare, al fine di confutare l’eccezione di Italia Nostra -peraltro inammissibile in quanto nuova ed irritualmente ampliativa del “thema decidendum” (ex multis Consiglio di Stato, sez. IV, 16.12.2016, n. 5340)- l’irrilevanza nel presente giudizio del presunto ed indimostrato vincolo idrogeologico insistente sull’area di che trattasi, dal momento che detto vincolo, in ipotesi potenzialmente ostativo ex art. 6, comma 1, d.P.R. 380/2001 ai fini della liberalizzazione edilizia, non è indicato tra i motivi a fondamento del provvedimento comunale impugnato, né vi è invero prova della sua stessa esistenza.
7. Quanto alla non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità, deve in primo luogo rilevarsi, quanto al quadro normativo statale di riferimento, che
devono normalmente considerarsi attività libera, (ai sensi dell’art. 6, comma 1, lett. a), del d.P.R. n. 380/2001) le recinzioni che, come nel caso di specie, non configurino un’opera edilizia permanente, bensì manufatti di precaria installazione e di immediata asportazione (quali, ad esempio, recinzioni in rete metalliche, sorretta da paletti in ferro o di legno e senza muretto di sostegno), in quanto entro tali limiti la loro posa in essere rientra tra le manifestazioni del diritto di proprietà, comprendenti lo “ius excludendi alios”, oltre a non comportare un’apprezzabile alterazione ambientale, estetica e funzionale (ex multis Consiglio di Stato sez. IV, 14.06.2018, n. 3661; id. 15.12.2017, n. 5908; C.G.A. Sicilia, sez. consultive, 18.12.2013, n. 1548; TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 03.07.2017, n. 868; TAR Campania, Salerno, sez. II, 11.09.2015, n. 1902; TAR Umbria, 18.08.2016, n. 571).
Il titolo edilizio (SCIA o permesso di costruire) è dunque richiesto solamente ove la recinzione, per dimensioni e caratteristiche tecniche, riveli un consistente impatto sul territorio (ex multis TAR Lombardia Brescia sez. I, 05.02.2008, n. 40; TAR Sardegna sez. II, 16.01.2017, n. 18; Consiglio di Stato sez. V, 09.04.2013, n. 1922).
7.1.
Quanto alla disciplina civilistica, l’art. 841 c.c. è chiaro nel fare rientrare nelle facoltà dominicali la realizzazione di recinzioni: la recinzione è un manufatto essenzialmente destinato a delimitare una determinata proprietà allo scopo di separarla dalle altre, di custodirla e “difenderla da intrusioni”, secondo la stessa nozione elaborata dalla giurisprudenza civile in materia di muro di cinta ex art. 878 c.c. (cfr. Corte di Cassazione, sez. II civile, 03.09.1991, n. 9348; 15.11.1986, n. 6737).
7.2. Quanto invece alla normativa regionale, l’art. 118, comma 1, della legge regionale 1 del 2015, pur affermando in generale e coerentemente con il suesposto art. 6 del T.U. la riconducibilità degli interventi di manutenzione ordinaria all’attività libera, limita la realizzazione di strutture e delimitazioni per le attività di protezione (lett. l) “della fauna selvatica e dei territori, nonché per il prelievo venatorio di cui all’art. 89, comma 2, terzo periodo” lasciando così intendere come escluse le recinzioni delle colture agricole a protezione “dalla fauna selvatica”. Questa, d’altronde, è la lettura autentica offerta dalla stessa Regione nel parere del 06.07.2017 rilasciato dal Dirigente del Servizio Urbanistica (richiamato nell’ordinanza comunale impugnata) secondo cui nelle zone agricole le recinzioni sono consentite “solo a protezione di edifici ed attrezzature funzionali o per attività zootecniche” ed invece escluse se a protezione delle colture “dalla fauna selvatica”, oltre che nella stessa direttiva regionale prot. 67738 dell’11.05.2015.
Anche la lett. g) della suddetto primo comma, nel liberalizzare tra l’altro la realizzazione di “chiudende e tettoie mobili con strutture aperte di modeste dimensioni per le attività zootecniche” non pare includere le recinzioni delle coltivazioni a protezione dalla fauna selvatica.
L’art. 21, comma 3, lett. l), del regolamento regionale attuativo 18.02.2015, n. 2, a sua volta, fa rientrare nel regime delle opere pertinenziali libere “le recinzioni, i muri di cinta e le cancellate che non fronteggiano strade o spazi pubblici o che non interessino superfici superiore a metri quadrati 3.000”, norma evidentemente applicabile laddove le recinzioni siano poste a servizio di edificio già esistente.
Completano il sistema, per quanto qui rileva, la già richiamata (vedi punto 6.1) legge regionale n. 17 del 2009 e relativo regolamento attuativo n. 5/2010, in tema di indennizzi dei danni arrecati alla produzione agricola dalla fauna selvatica, la quale -come anticipato- assoggetta la realizzazione delle recinzioni elettriche ad autorizzazione secondo la programmazione da parte degli A.T.C.
Tale ultima normativa non presenta all’evidenza valenza urbanistico edilizia e non può nemmeno concretamente valere quale “norma di settore” ai fini della deroga al divieto contenuto nell’art. 89 della legge regionale n. 1 del 2015, in carenza dei prescritti piani di prevenzione predisposti dagli A.T.C.
8. Così sinteticamente descritto il quadro normativo di riferimento, ne discende che
la descritta facoltà di cui all’art. 841 c.c. è legittimamente sacrificabile mediante il potere conformativo dello “ius aedificandi” ai sensi dell’art. 42 della Costituzione, solamente quando ricorrano le condizioni previste dall’ordinamento in funzione di superiori interessi pubblici, dei quali va dato conto attraverso il loro bilanciamento con le opposte ragioni di cui sono portatori i soggetti privati coinvolti (cfr. TAR Lombardia Brescia 05.12.2006 n. 1545; id. 04.03.2015, n. 362): così il P.R.G. -in materia di recinzioni della proprietà privata- può dettare particolari prescrizioni ispirate a fini di tutela ambientale, ad esempio individuando particolari modalità costruttive da adottare e disponendo l’uso di specifici materiali, purché ciò avvenga nel rispetto del principio generale di buona amministrazione, sancito dall’art. 97 della Carta costituzionale, e dei canoni di logicità, equità, imparzialità ed economicità, nonché delle norme di diritto positivo di carattere inderogabile (TAR Friuli Venezia Giulia, 23.07.2001 n. 421).
9. Nella fattispecie in contestazione il divieto di recinzione nelle zone agricole è posto esclusivamente e direttamente da una norma regionale (l’art. 89 della legge regionale n. 1 del 2015 più volte citato), che in quanto incidente “in peius” sulle facoltà dominicali proprie del diritto di proprietà, va illegittimamente a comprimere una libertà oggetto di competenza statale esclusiva ex art. 117, comma 2, lett. l), della Costituzione in materia di “ordinamento civile”.
La Consulta ha ripetutamente ribadito che in subiecta materia la potestà legislativa è riservata allo Stato, in via esclusiva, dall'art. 117, secondo comma, lett. l), Cost. (sent nn. 18 del 2013; 19, 22, 77, 131, 137, 159, 162, 218, 225, 228 e 229 del 2013; 19, 27, 61, 126, 134, 141, 188 e 269 del 2014; 124, 180 e 245 del 2015; 1, 175, 178, 185, 186, 228, 231, 257 e 262 del 2016).
Nel caso di specie il divieto posto dal legislatore regionale, completamente scisso dalle dimensioni e dalle caratteristiche costruttive delle recinzioni e dunque da ogni apprezzabile alterazione ambientale, estetica e funzionale id est dalla salvaguardia dei valori culturali ed ambientali, non pare potersi ricondurre all’esercizio delle prerogative regionali concorrenti in materia urbanistico-edilizia.
10. E’ altresì dubbia, ad avviso del Collegio, la stessa rilevanza del suddetto divieto per la funzione sociale quale limite connaturato allo “ius aedificandi” (Corte Cost. 29.05.1968 n. 56; 04.07.1974 n. 202) con conseguente sospetto di violazione anche dell’art. 42 della Costituzione.
11. Sotto altro profilo,
il divieto in argomento -ove riconducibile a giudizio del giudice delle leggi all’esercizio delle prerogative regionali urbanistiche- appare comunque illegittimo per contrasto con l’art. 117, comma 3, della Costituzione, il quale in materia di “governo del territorio” consente alle Regioni di porre la disciplina di dettaglio nel rispetto dei principi stabiliti dalla normativa statale, che per quanto in questa sede interessa, appaiono palesemente violati ove si consideri che a norma dell’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001, le recinzioni senza opere murarie costituiscono di regola interventi edilizi liberi, nei confronti dei quali deve ritenersi precluso l’introduzione per potestà normativa regionale concorrente di regimi particolarmente restrittivi non giustificati da superiori interessi pubblici, ovvero di divieti in senso assoluto non sorretti da apprezzabili finalità ambientali, estetiche e funzionali.
12. È noto come la Corte Costituzionale è del tutto ferma nell’affermare che
la definizione delle categorie di interventi edilizi a cui si collega il regime dei titoli abilitativi costituisce principio fondamentale della materia concorrente del «governo del territorio», vincolando la legislazione regionale di dettaglio, cosicché, pur non essendo precluso al legislatore regionale di esemplificare gli interventi edilizi che rientrano nelle definizioni statali, tale esemplificazione, per essere costituzionalmente legittima, deve essere coerente con le definizioni contenute nel testo unico dell’edilizia (ex multis Corte Cost. nn. 231/2015; id. 282/2016; id. 05.04.2018, n. 68 quest’ultima in riferimento proprio alla legge regionale umbra n. 1 del 2015).
Come si è già precisato con riguardo agli interventi sottoposti a regime di edilizia libera,
le Regioni non possono “differenziarne il regime giuridico, dislocando diversamente gli interventi edilizi tra le attività deformalizzate, soggette a C.I.L. e C.I.L.A.” (sentenza n. 231 del 2016). La “omogeneità funzionale della comunicazione preventiva [...] rispetto alle altre forme di controllo delle costruzioni (permesso di costruire, DIA, SCIA) deve indurre a riconoscere alla norma che la prescrive -al pari di quelle che disciplinano i titoli abilitativi edilizi- la natura di principio fondamentale della materia del governo del territorio”, in quanto volto a garantire l'interesse unitario ad un corretto uso del territorio (sentenza n. 231 del 2016).
Il legislatore regionale, che è vincolato alle categorie edilizie tracciate dallo Stato, non può dunque restringere il novero degli interventi edilizi liberi fissato dalla legge statale (art. 6 T.U.) né invero introdurre fattispecie del tutto nuove (e non ulteriori) se non travalicando l’assetto delle competenze in subiecta materia (Corte Cost. 21.12.2016, n. 282).
12.1.
Anche poi a voler ritenere la recinzioni di che trattasi, in considerazione delle dimensioni (seppur in assenza di opere murarie) intervento sottoposto a C.I.L.A. ai sensi dell’art. 6-bis del d.P.R. 380/2001, come inserito dall'articolo 1, comma 1, lettera c), del d.Lgs. 25.11.2016, n. 222 (c.d. S.C.I.A. 2), permarrebbe il descritto contrasto con l’art. 117 comma 3, della Costituzione, dal momento che alla potestà legislativa regionale è consentito di apporre ulteriori semplificazioni ma vietata la previsione di regimi più restrittivi.
13. Ciò, tra l’altro, suscita l’ulteriore dubbio di costituzionalità in punto di disparità di trattamento ed irragionevolezza (art. 3 della Costituzione) oltre che di buon andamento (art. 97 della Costituzione) dal momento che l’art. 118, lett. l), della stessa legge regionale n. 1 del 2015, ancorché non faccia espresso riferimento in termini di applicabilità alle zone agricole, liberalizza invece “le delimitazioni per le attività di protezione della fauna selvatica e dei territori”, consentendo all’agricoltore di realizzare liberamente recinzioni a protezione dei propri edifici ed animali, ma non anche per impedire dall’esterno l’ingresso involontario della fauna selvatica che, come i cinghiali, è notoriamente causa di ingenti danni per le coltivazioni (tanto da indurre la stessa Regione -con la legge regionale n. 17 del 2009 e relativo regolamento di attuazione- a prevedere indennizzi), se non subordinatamente, come visto, alle autorizzazioni previste nell’ambito dei piani di prevenzione predisposti dagli A.T.C..
Del resto,
con riferimento alle zone agricole, è stato evidenziato che il divieto di recintare il fondo è non solo antigiuridico ma anche macroscopicamente irragionevole, essendo un elemento imprescindibile di molte coltivazioni e degli allevamenti di bestiame, attività che possono essere svolte anche in aree finitime alle abitazioni (TAR Umbria, 07.04.2006, n. 218). In proposito la ricorrente ha dedotto di coltivare frutteti sull’area di proprietà, attività che sarebbe pressoché impossibile svolgere in assenza di qualsivoglia recinzione.
Appare inoltre contraddittoria ed irragionevole la stessa incentivazione contenuta nella legge regionale n. 17 del 2009 all’utilizzo degli strumenti difensivi (art. 6) per la prevenzione del danno alle colture agricole, se raffrontata al generale divieto di cui all’art. 89 della legge regionale n. 1 del 2015.
14. Preme sottolineare, infine, quanto ancora al parametro della rilevanza (Corte Cost. 17.03.2017, n. 58) in relazione a tutti i profili di contrasto dell’art. 89 della legge regionale n. 1 del 2015 sospettato di incostituzionalità, l’impossibilità per questo giudice di risolvere in via interpretativa gli ipotizzati dubbi di compatibilità costituzionale, in relazione all’univoco tenore letterale della legge, che segna il confine in presenza del quale il tentativo interpretativo deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale (ex multis Corte Cost. sent. n. 26/2010).
Anche di recente la Consulta ha affermato che la questione di legittimità costituzionale vada esaminata anche nell’ipotesi in cui l’interpretazione conforme sia difficile pur se non impossibile (Corte Cost. 24.02.2017, n. 43).
In particolare, l’art. 89 della legge regionale n. 1 del 2015 e relativo regolamento attuativo nonché la “legislazione di settore” ivi richiamata, non consentono nella generalità delle zone agricole la realizzazione di recinzioni a protezione dalla fauna selvatica, a prescindere da qualsivoglia elemento dimensionale o estetico, secondo il c.d. diritto vivente nonché l’interpretazione autentica fornita dalla stessa Regione Umbria (come esaminato al punto 7.2).
15. Alla luce delle considerazioni sopra svolte,
deve ritenersi rilevante e non manifestamente infondata la sollevata questione di legittimità costituzionale del divieto di recinzioni in zona agricola di cui all’art. 89, comma 2, della legge della Regione Umbria n. 1 del 2015, per contrasto con gli artt. 3, 42, 97 e 117, commi 2, lett. l) e 3 della Costituzione, nella parte in cui prevede che “Nelle zone agricole è esclusa ogni forma di recinzione dei terreni o interruzione di strade di uso pubblico se non espressamente previste dalla legislazione di settore o recinzioni da installare per motivi di sicurezza purché strettamente necessarie a protezione di edifici ed attrezzature funzionali, anche per attività zootecniche e va pertanto disposta la sospensione del presente giudizio e la trasmissione degli atti di causa alla Corte Costituzionale, oltre agli ulteriori adempimenti di legge indicati in dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per l’Umbria (Sezione Prima), pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, visti l’art. 134, comma 1, della Costituzione, gli artt. 1 della legge 09.02.1948, n. 1, e 23 della legge 11.03.1953, n. 87, solleva, ritenendola rilevante e non manifestamente infondata in relazione agli artt. 3, 42, 97 e 117 commi 2, lett. l) e 3 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 89, comma 2, della legge della Regione Umbria 21.01.2015, n. 1, nella parte in cui prevede che “Nelle zone agricole è esclusa ogni forma di recinzione dei terreni o interruzione di strade di uso pubblico se non espressamente previste dalla legislazione di settore o recinzioni da installare per motivi di sicurezza purché strettamente necessarie a protezione di edifici ed attrezzature funzionali, anche per attività zootecniche e, per l’effetto, dispone la sospensione del giudizio e la rimessione degli atti alla Corte Costituzionale.

EDILIZIA PRIVATA: Recupero dei sottotetti e requisiti di altezza.
L’altezza di m. 2,40 indicata dall’art. 63 della l.r. 12/2005 -ai sensi del quale il recupero abitativo dei sottotetti è consentito purché sia assicurata per ogni singola unità immobiliare l’altezza media ponderale di metri 2,40, ulteriormente ridotta a metri 2,10 per i comuni posti a quote superiori a seicento metri di altitudine sul livello del mare, calcolata dividendo il volume della parte di sottotetto la cui altezza superi metri 1,50 per la superficie relativa- costituisce quella minima e non massima che i sottotetti debbono avere per poter essere utilizzati a fini abitativi (nella fattispecie è stato ritenuto conforme alla disciplina regionale un sottotetto di tre metri d’altezza) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 05.10.2018 n. 2220 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
2.1. Il ricorso principale è palesemente improcedibile, avendo il Comune proceduto alla revoca in autotutela del provvedimento impugnato.
2.2. Quanto al primo ricorso per motivi aggiunti, l’annullamento parziale della d.i.a. è giustificato con il presunto contrasto dell’intervento per il recupero del sottotetto (quello realizzato dal Brugi ha un’altezza di m. 3,00) con l’art. 63, commi 1-bis e 6, della l.r. 12/2005: la prima disposizione definisce “sottotetti i volumi sovrastanti l’ultimo piano degli edifici dei quali sia stato eseguito il rustico e completata la copertura”, la seconda stabilisce che “Il recupero abitativo dei sottotetti è consentito purché sia assicurata per ogni singola unità immobiliare l’altezza media ponderale di metri 2,40, ulteriormente ridotta a metri 2,10 per i comuni posti a quote superiori a seicento metri di altitudine sul livello del mare, calcolata dividendo il volume della parte di sottotetto la cui altezza superi metri 1,50 per la superficie relativa”.
2.3. Il ricorso è fondato, con riferimento al secondo motivo: all’opposto di quanto il Comune afferma, l’altezza di m. 2,40 indicata dalla disposizione costituisce quella minima e non massima che i sottotetti debbono avere per poter essere utilizzati a fini abitativi: sicché, il sottotetto di tre metri d’altezza, su cui si controverte, è pienamente conforme alla disciplina regionale.
2.4. Per l’effetto, il provvedimento di rituro in autotutela qui impugnato va senz’altro annullato, come pure il provvedimento 30.05.2011, PG 407598/2011, impugnato con i secondi motivi aggiunti, in quanto affetto da invalidità derivata.
3. Ogni ulteriore questione sollevata con i motivi aggiunti è da ritenersi assorbita, tanto più tenuto conto che un ipotetico ulteriore riesame, da parte dell’Ente, della d.i.a. in questione (in qualche modo ventilato nelle sue difese processuali) andrebbe compiuto in conformità alla disciplina sull’autotutela attualmente vigente, e alla relativa giurisprudenza.
4. Infine, nessun danno risulta aver sofferto il ricorrente, e, pertanto, nessun risarcimento in forma specifica o per equivalente (richiesti peraltro del tutto genericamente) risulta dovuto.

EDILIZIA PRIVATA: Per gli oneri concessori spettano gli interessi legali dalla data della domanda (dovendosi presumere la buona fede dell'Amministrazione percipiente, stante anche le difficoltà interpretative nella materia in questione), ma non la rivalutazione monetaria, trattandosi di pagamento di indebito oggettivo, il quale genera la sola obbligazione di restituzione con gli interessi a norma dell'art. 2033 c.c..
In altri termini, non spetta, invece, <<la rivalutazione monetaria ("la domanda di rivalutazione monetaria avanzata con riferimento all'indebito pagamento di oneri di urbanizzazione deve essere respinta tenuto conto che l'obbligazione di restituzione dell'indebito genera, ai sensi dell'art. 2033 c.c., esclusivamente l'obbligazione accessoria di interessi")>>.
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Ne consegue che il Comune deve essere condannato alla restituzione delle somme versate, così come risultante dalla stessa concessione edilizia rilasciata, detratta la rideterminazione del costo di costruzione, così come stabilito, e richiesto in via subordinata da parte ricorrente, dall’art. 10 della L. 10/1977.
Sono stati chiesti gli interessi e la rivalutazione.
Va condiviso l’orientamento della Giurisprudenza (TAR Trieste, sez. I, 12/12/2013, n. 649; TAR Firenze, sez. III, 27/11/2014, n. 1902), secondo il quale per oneri concessori spettano gli interessi legali dalla data della domanda (dovendosi presumere la buona fede dell'Amministrazione percipiente, stante anche le difficoltà interpretative nella materia in questione), ma non la rivalutazione monetaria, trattandosi di pagamento di indebito oggettivo, il quale genera la sola obbligazione di restituzione con gli interessi a norma dell'art. 2033 c.c..
In altri termini (cfr. TAR Milano, sez. II, 27/02/2017, n. 469), non spetta, invece, <<la rivalutazione monetaria ("la domanda di rivalutazione monetaria avanzata con riferimento all'indebito pagamento di oneri di urbanizzazione deve essere respinta tenuto conto che l'obbligazione di restituzione dell'indebito genera, ai sensi dell'art. 2033 c.c., esclusivamente l'obbligazione accessoria di interessi", cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 24.07.1993, n. 799; TAR Emilia Romagna-Parma, 07.04.1998, n. 149; TAR Lombardia-Brescia, 02.11.2010, n. 4519; TAR Piemonte, 01.12.2011, n. 1262)>> (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 05.10.2018 n. 1893 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Violazioni urbanistiche e reati di falso materiale e ideologico e abuso d'ufficio - Natura di atto fidefacente del permesso di costruire - Esclusione - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici - Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in certificati o in autorizzazioni amministrative - Assessore comunale con delega all'urbanistica - Formazione di un falso atto di rettifica e voltura di un permesso di costruire originariamente emanato in favore di un diverso soggetto e altre false attestazioni - Retrodatazione di atti necessaria per evitare la verificazione del silenzio-rigetto - BOSCHI - False attestazioni sulla natura non "boscata" dei terreni - Artt. 10 e ss. 36, c. 3, d.P.R. n. 380/2001 - Artt. 476, 477,478, 479 e 480 cod. pen..
La natura di atto fidefacente fino a querela di falso deve essere esclusa per il permesso di costruire di cui agli artt. 10 e ss. del d.P.R. n. 380 del 2001, perché la sua funzione non è quella di accertare uno stato di fatto, ma di garantire, attraverso un controllo preventivo sulla sussistenza dei presupposti per l'esercizio del diritto di edificazione, il corretto assetto del territorio.
Esso si colloca, cioè, al di fuori della categoria degli atti fidefacenti ai sensi degli artt. 476 e ss. cod. pen., perché non è espressione della ''funzione registratrice" dello Stato o di altri enti pubblici e non rientra, perciò, tra gli atti c.d. "probanti", che fanno fede fino ad impugnazione di falso, come, ad esempio, gli atti notori, dello stato civile, i verbali e le altre attestazioni, devoluti ai pubblici ufficiali aventi ad oggetto annotazioni, relazioni, constatazione di fatti o di accadimenti giuridicamente significativi.
E le medesime considerazioni valgono anche per la voltura del permesso di costruire e per l'attestazione di conformità in sanatoria, perché anche tali atti hanno la stessa funzione.
La voltura serve, infatti, a consentire che l'attività edilizia originariamente assentita a favore di un soggetto sia svolta da un diverso soggetto; mentre l'attestazione di conformità ha l'effetto di sanare opere eventualmente realizzate in difformità, svolgendo, ex post, la funzione normalmente svolta ex ante dal permesso di costruire
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.10.2018 n. 44104 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire - Momento consumativo del reato di abuso d'ufficio - Condotta del pubblico ufficiale - Ingiusto vantaggio patrimoniale per il soggetto beneficiato - Incremento patrimoniale dell'immobile divenuto edificabile - Giurisprudenza.
Il permesso di costruire, sebbene effettivamente suscettibile, una volta rilasciato, di generare un eventuale ulteriore incremento del patrimonio del destinatario tramite l'esecuzione dei lavori autorizzati o il trasferimento del bene immobile divenuto edificabile a terzi, costituisce già di per sé una voce attiva nell'ambito della situazione giuridica soggettiva dell'interessato, perché il riconoscimento dell'edificabilità di un terreno attribuisce a tale terreno una nuova possibilità di messa a reddito, che ne determina un fisiologico incremento di valore in relazione alle ampliate opportunità di suo utilizzo (ex plurimis, Sez. 3, n. 4140 del 13/12/2017, dep. 29/01/2018; Sez. 6, n. 37531 del 14/06/2007; Sez. 6, n. 49554 del 22/10/2003).
Può dunque affermarsi che, rispetto all'incremento patrimoniale che normalmente discende già dalla semplice emanazione di un permesso ai costruire illegittimo, l'eventuale successiva attività edificatoria -così come l'eventuale successiva alienazione del terreno divenuto edificabile- costituisce un post factum, che dipende da una condotta ulteriore del titolare del bene, rimanendo estraneo alla sfera di azione del pubblico ufficiale che ha emanato l'atto illegittimo.
Ne consegue che il momento consumativo del reato di abuso d'ufficio consistente nell'emanazione di un permesso ai costruire illegittimo coincide con l'emanazione dell'atto stesso, perché in tale momento si compie la condotta del pubblico ufficiale e si verifica l'ingiusto vantaggio patrimoniale per il soggetto beneficiato
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.10.2018 n. 44104 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Autorizzazione paesaggistica - Falso materiale e ideologico - Esclusione di una sua riconducibilità alla categoria degli atti fidefacenti - Querela di falso - Necessità.
L'autorizzazione paesaggistica oggetto di falso materiale e ideologico è assimilabile al permesso di costruire ai fini dell'esclusione di una sua riconducibilità alla categoria degli atti fidefacenti fino a querela di falso (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.10.2018 n. 44104 - link a www.ambientediritto.it).

PATRIMONIO: Immobili da sgomberare subito. OCCUPAZIONI ABUSIVE/CASSAZIONE: VIMINALE INDENNIZZI.
Gli immobili occupati abusivamente, appena la Procura ordina lo sgombero, devono essere subito liberati dalle forze dell'ordine e il ministero dell'interno non può compiere scelte "attendiste" perché altrimenti garantirebbe "non l'ordine, ma il disordine pubblico"
Immobili occupati abusivamente da sgomberare. Subito.
Gli immobili occupati abusivamente, appena la procura ordina lo sgombero, devono essere subito liberati dalle forze dell'ordine e il ministero dell'interno non può compiere scelte «attendiste» perché altrimenti garantirebbe «non l'ordine, ma il disordine pubblico» mentre «dove è più intollerabile il sopruso, là più forte deve essere la reazione dello stato di diritto». E qualora queste scelte attendiste siano compiute, l'amministrazione deve indennizzare i proprietari.

Lo sottolinea la Corte di Cassazione, Sez. III civile, con la sentenza 04.10.2018 n. 24198, dando ragione ai proprietari di 50 appartamenti occupati contro l'inerzia del Viminale che per sei anni rimandò lo sgombero.
«La politica di welfare per garantire il diritto a una casa non può compiersi a spese dei privati cittadini, i quali già sostengono un non lieve carico tributario, specie sugli immobili, per alimentare, attraverso la fiscalità generale, la spesa per lo stato sociale», sottolinea la Cassazione che ha accolto il ricorso di due società titolari di 50 appartamenti, 32 in un lotto a Firenze in via del Romito, e 18 in un lotto a Sesto Fiorentino in via Primo Maggio. Tra il dicembre 1993 e il maggio 1994, i due stabili vennero occupati da attivisti del Movimento per la casa.
Nonostante la procura fiorentina in breve avesse dato l'ordine di sgombero, il prefetto e il questore rinviarono per sei anni l'intervento «per evitare disordini e tutelare l'ordine pubblico». Contestando questa scelta, gli ermellini affermano che «se l'amministrazione intenda dare alloggio a chi non l'abbia, la via legale è l'edificazione di alloggi o l'espropriazione di private dimore secondo la legge e pagando il giusto indennizzo, e non certo garantire a dei riottosi, perché di questo si è trattato, il godimento dei beni altrui».
Per la Cassazione, le due società hanno diritto ad ottenere dall'Interno il risarcimento dei danni patiti a causa delle scelte attendiste che hanno «violato e compresso il loro diritto di proprietà», garantito dalla Carta di Nizza, dalla Corte di Strasburgo e dalla Costituzione, e ora la Corte di appello di Firenze deve calcolare i danni prodotti da questo «incredibile ritardo».
Per il presidente di Confedilizia, Giorgio Spaziani Testa, «dopo il tribunale di Roma, dalla Corte di cassazione arrivano parole chiare sulle occupazioni abusive di immobili. Ora aspettiamo il decreto sicurezza (ieri firmato dal capo dello stato, ndr) e l'applicazione senza indugi della circolare Salvini. Forse in Italia comincia a essere tutelato il diritto di proprietà»
(articolo ItaliaOggi del 05.10.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Redazione dei criteri di valutazione delle prove di concorso e motivazione della valutazione.
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Concorso – Criteri di valutazione - Genericità – Esclusione.
  
Concorso – Prove – Valutazione – Voto numerico – Sufficienza – Limiti.
   I criteri di valutazione che la Commissione di concorso redige nella prima riunione ai sensi dell’art. 12, d.P.R. 09.05.1994, n. 487, devono essere formulati non in termini generici, generali o astratti riferibili a determinate qualità e caratteristiche degli elaborati, ma dettagliati e fungere da criteri motivazionali necessari a definire quanto quelle qualità concorrano a determinare il punteggio stabilito nel bando per le singole prove; occorre pertanto che vangano formulati anche i criteri motivazionali ovvero i pesi valutativi in base ai quali attribuire il punteggio complessivo riservato alla singole prove (1).
  
Se è vero che il voto numerico è sufficiente ad esprimere il giudizio sulle prove di un pubblico concorso, allorché disposizioni specifiche e settoriali stabiliscano invece una diversa regula iuris, sancendo la necessità che venga allestito in aggiunta all’espressione di un voto numerico, anche un giudizio discorsivo, quantunque sintetico, è illegittimo l’operato della Commissione che abbia formulato la valutazione delle prove mediante l’espressione solo di un punteggio numerico (2).
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   (1) In termini v. Tar Lazio, sez. III-bis, 25.07.2018 n. 8426.
   (2) Ha ricordato il Tar che la Corte costituzionale ha sancito da tempo che nei concorsi pubblici la valutazione dei candidati è sufficientemente espressa con un voto numerico, idoneo a condensare la motivazione, avendo affermato che "il voto numerico attribuito dalle competenti commissioni alle prove scritte o orali di un concorso pubblico (o di un esame di abilitazione) esprime e sintetizza il giudizio tecnico discrezionale della commissione stessa, contenendo in sé la sua motivazione, senza bisogno di ulteriori spiegazioni e chiarimenti" (Cons. St., sez. IV,19.07.2004, n. 5175; id., sez. VI, 02.04.2012, n. 1939; id., sez. III 28.09.2015 n. 4518; id., sez. V, 30.11.2015, n. 5407).
Tale principio è stato definito "diritto vivente" dalla stessa Corte Costituzionale (cfr. sentenze 30.01.2009, n. 20, e sentenza 15.06.2011, n. 175).
Ciò posto, deve tuttavia pervenirsi a diversa ed opposta soluzione allorché disposizioni specifiche e settoriali stabiliscano invece una diversa regula iuris, sancendo, come nella specie, la necessità che venga allestito in aggiunta all’espressione di un voto numerico, anche un giudizio discorsivo, quantunque sintetico (
TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis, sentenza 03.10.2018 n. 9714 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
3. Ritiene il Collegio fondata la censura.
3.1. Osserva al riguardo come sia ormai acquisito da tempo il principio secondo cui
la commissione di valutazione degli elaborati di un concorso ovvero delle qualità di un candidato debba predeterminare nella prima riunione i criteri di valutazione ai quali si atterrà nello scrutinio delle prove e che ciò debba avvenire prima che siano conosciute le generalità di concorrenti, onde scongiurare il ischio che la confezione dei criteri predetti avvenga su misura in modo da poter favorire taluno dei competitors.
Stabilisce invero l’art. 12 del D.P.: b. 487/1994 che “Le commissioni esaminatrici, alla prima riunione, stabiliscono i criteri e le modalità di valutazione delle prove concorsuali, da formalizzare nei relativi verbali, al fine di assegnare i punteggi attribuiti alle singole prove.”.
La giurisprudenza ha fornito un’interpretazione conservativa della norma, precisando che
l’attività di predeterminazione può avvenir anche dopo lo svolgimento delle prove scritte, purché prima che si proceda alla loro correzione. Si è in tal senso puntualizzato che “La fissazione di sub-criteri per la valutazione delle prove concorsuali, ai sensi dell'art. 12 del d.P.R. n. 487 del 1994, non è soggetta a una pubblicazione antecedente allo svolgimento delle prove, avendo una simile operazione il solo scopo di scongiurare il sospetto di favoritismi verso singoli candidati, con la conseguenza che si dovrà ritenere legittima la determinazione dei predetti criteri dopo l'effettuazione delle prove concorsuali, purché prima della loro concreta valutazione, cioè antecedentemente all'effettiva correzione delle prove scritte” (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, 19.06.2015 n. 597).
Si è espresso in tal senso anche questo Tribunale (TAR Lazio-Roma, Sez. I, 10.01.2017 n. 368; TAR Lazio-Roma, Sez. III 07.05.2014 n. 4733). L’assunto è enunciato anche dal Giudice d’appello che ha al riguardo precisato che “
Il principio di preventiva fissazione dei criteri e delle modalità di valutazione delle prove concorsuali che, ai sensi dell'art. 12, d.P.R. 09.05.1994, n. 487, devono essere stabiliti dalla commissione nella sua prima riunione (o tutt'al più prima della correzione delle prove scritte), deve essere inquadrato nell'ottica della trasparenza dell'attività amministrativa perseguita dal legislatore, il quale pone l'accento sulla necessità della determinazione e verbalizzazione dei criteri stessi in un momento nel quale non possa sorgere il sospetto che questi ultimi siano volti a favorire o sfavorire alcuni concorrenti, con la conseguenza che è legittima la determinazione dei predetti criteri di valutazione delle prove concorsuali, anche dopo la loro effettuazione, purché prima della loro concreta valutazione” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 19.03.2015 n. 1411).
3.2.
La predeterminazione di adeguati criteri valutativi assurge pertanto ad elemento essenziale nello svolgimento di un concorso pubblico. La mancata predeterminazione dei criteri nel corso della prima riunione della Commissione, di per sé sola, rende illegittimo il procedimento di concorso per violazione dell’art. 12 del d.P.R. n. 487/1994 (cfr., Consiglio di Stato, sez. V, 20.04.2016, n. 1567: “Nei concorsi a pubblici impieghi, ai sensi dell’art. 12, d.P.R. 09.05.1994, n. 487, rientra nella competenza delle Commissioni esaminatrici stabilire i criteri e le modalità di valutazione delle prove concorsuali, da formalizzare nei relativi verbali al fine di assegnare i punteggi attribuiti alle singole prove”.
3.3. Nel caso di specie, per il vero, la commissione esaminatrice nella seduta del 04.08.2016 ha predisposto una serie di criteri, quali l’aderenza dell’elaborato alla traccia scelta, la chiarezza espositiva, della capacità di sintesi e completezza descrittiva, la capacità critica nell’affrontare le problematiche proposte, la capacità di valorizzazione funzionalità e applicabilità ai casi concreti.
Trattasi tuttavia, all’evidenza, di canoni di massima e generali, che non sono accompagnati dalla necessaria fissazione dei relativi pesi valutativi, finendo con l’arrestarsi a caratteristiche e qualità degli elaborati piuttosto che a criteri motivazionali.
Non è dato in altri termini conoscere ex post quanto ciascuna delle enucleate caratteristiche abbia pesato e concorso nella formazione del giudizio finale di ogni candidato.
Ha fatto infatti difetto la doverosa fissazione dei criteri motivazionali.
Va al riguardo richiamato il recente precedente della Sezione secondo il quale
i “Criteri di valutazione [che] ad avviso della Sezione devono essere formulati non in termini generici, generali o astratti riferibili a determinate qualità e caratteristiche degli elaborati, ma dettagliati e fungere da criteri motivazionali necessari a definire quanto quelle qualità concorrano a determinare il punteggio stabilito nel bando per le singole prove (TAR Lazio–Roma, Sez. III-Bis, 25.07.2018 n. 8426).
3.4. Oltretutto va soggiunto che la necessità che i criteri di valutazione siano corredati anche dei criteri motivazionali, ovvero dei criteri di attribuzione dei punteggi è sancita expressis verbis dall’art. 5, co. 4, del Regolamento del personale ASI del 13.01.2012, il quale dispone che “La valutazione verrà effettuata tramite punteggi numerici e giudizi sintetici sulla base dei criteri generali e di attribuzione di punteggi resi noti dall’interno del bando”.
Occorreva quindi che già il bando facesse menzione specifica dei criteri di valutazione nonché di quelli di attribuzione dei punteggi.
Ed invero la ricorrente lamenta illegittimità anche del bando di concorso, laddove censura al primo motivo “un bando colpevolmente silente sul punto”.
Il primo motivo di ricorso è pertanto fondato e va accolto, con annullamento del verbale della commissione del 04.08.2016 nonché di tutti quelli successivi e dello stesso bando di concorso per omessa previsione dei criteri di valutazione e dei criteri di attribuzione dei punteggi.
4. Con il secondo mezzo parte ricorrente lamenta che il voto numerico è insufficiente a motivare le ragioni della valutazione di un elaborato, atteso che l’art. 5 del regolamento del personale ASI entrato in vigore a maggio 2012 stabilisce al comma 4 secondo periodo che “la valutazione verrà effettuata tramite punteggi numerici e giudizi sintetici sulla base dei criteri generali e di attribuzione dei punteggi resi noti all’interno del bando”.
4.1. La sintetizzata censura si presta a positiva considerazione e va dunque accolta.
E’ bensì noto che la giurisprudenza amministrativa, suggellata dalla Corte Costituzionale ha in subiecta materia sancito da tempo che
nei concorsi pubblici la valutazione dei candidati è sufficientemente espressa con un voto numerico, idoneo a condensare la motivazione, avendo affermato che "il voto numerico attribuito dalle competenti commissioni alle prove scritte o orali di un concorso pubblico (o di un esame di abilitazione) esprime e sintetizza il giudizio tecnico discrezionale della commissione stessa, contenendo in sé la sua motivazione, senza bisogno di ulteriori spiegazioni e chiarimenti" (cfr., ex plurimis, Consiglio di Stato, sez. IV,19.07.2004, n. 5175 e Sez. VI, 02.04.2012, n. 1939, sez. III 28.09.2015 n. 4518; Consiglio di Stato, Sez. V, 30.11.2015, n. 5407). Tale principio è stato definito "diritto vivente" dalla stessa Corte Costituzionale (cfr. sentenze 30.01.2009, n. 20, e sentenza 15.06.2011, n. 175).
4.2. Ciò posto, deve tuttavia pervenirsi a diversa ed opposta soluzione allorché disposizioni specifiche e settoriali stabiliscano invece una diversa regula iuris, sancendo, come nella specie, la necessità che venga allestito in aggiunta all’espressione di un voto numerico, anche un giudizio discorsivo, quantunque sintetico.
E’ quanto stabilisce l’art. 5, co. 4, del Regolamento per il personale approvato dall’ASI con deliberazione del Consiglio di amministrazione del 13.01.2012 n. CdA201XII/44/2012 (estratto dal Collegio dal Sito web dell’Amministrazione alla Sezione “Leggi, norme e regolamenti ASI”, sottosezione Regolamenti interni).
Tale norma dispone infatti che “La valutazione verrà effettuata tramite punteggi numerici e giudizi sintetici sulla base dei criteri generali e di attribuzione di punteggi resi noti dall’interno del bando”.
Ciascun elaborato doveva essere dunque valutato sia mercé l’assegnazione di un punteggio numerico sia mediante l’esternazione di un giudizio ancorché sintetico.
La norma regolamentare dettante la regola del caso concreto non è stata fatta oggetto di modifica da parte dell’amministrazione che era dunque tenuta a seguirla.
Viceversa la mancata espressione anche di un giudizio sintetico da parte della Commissione ha integrato un patente violazione del disposto del riportato art. 5, co. 4, del Regolamento del personale ASI, contribuendo a colorare di illegittimità l’intera procedura di gara.
In definitiva, sulla scorta delle argomentazioni che precedono il ricorso si profila fondato e va accolto, potendosi assorbire il terzo motivo dedicato alla composizione della commissione e non potendosi scrutinare le censure svolte al quarto mezzo ed espressamente formulate dalla ricorrente in via gradata, ossia per l’ipotesi di negativo scrutinio di quelle trancianti dirette contro l’intera procedura di concorso.
L’annullamento degli atti concorsuali importa la caducazione del contratto di lavoro a tempo indeterminato stipulato il 22.12.2016 (produzione controinteressata del 27.07.2017 dall’ASI con la controinteressata Sa.Mi..

EDILIZIA PRIVATA: Dal combinato disposto degli artt. 32, 33 e 35, l. 47 del 1985 può desumersi il principio che non sono suscettibili di sanatoria tacita immobili siti in aree sottoposte a vincolo paesaggistico-ambientale, essendo all’uopo in ogni caso richiesto il parere espresso dell'Autorità competente alla gestione del vincolo, ragione per cui in tali ipotesi non è configurabile la formazione del silenzio-assenso sull'istanza di condono.
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Peraltro è noto –e condiviso dalla Sezione– l’orientamento negativo dell’ammissibilità del silenzio-assenso in caso di domande di condono edilizio relative ad abusi posti in essere su aree sottoposte a vincolo paesaggistico (Cons. Stato, sez. VI, 08.08.2014, n. 4226: “Al riguardo, un consolidato –e qui condiviso- orientamento di questo Consiglio ha stabilito che dal combinato disposto degli artt. 32, 33 e 35, l. 47 del 1985 può desumersi il principio che non sono suscettibili di sanatoria tacita immobili siti in aree sottoposte a vincolo paesaggistico-ambientale, essendo all’uopo in ogni caso richiesto il parere espresso dell'Autorità competente alla gestione del vincolo, ragione per cui in tali ipotesi non è configurabile la formazione del silenzio-assenso sull'istanza di condono (in tal senso –ex plurimis -: Cons. Stato, V, 02.05.2013, n. 2395; id., IV, 18.09.2012, n. 4945; id., VI, 14.08.2012, n. 4573”) (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 03.10.2018 n. 2278 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le risultanze delle aerofotogrammetrie, stante la loro oggettiva evidenza, non sono superabili con pretese testimonianze, come ipotizzato dal ricorrente.
Costante giurisprudenza ritiene che l’onere della prova contraria (ossia della anteriore data di ultimazione dei lavori) gravi, per regola generale, sul ricorrente che contesta la documentazione fornita dall’amministrazione, onere della prova –occorre aggiungere e precisare- che può assumere rilevanza ed efficacia ai fini della decisione solo se fondato su elementi che esprimano pari o superiore certezza e oggettività probatoria rispetto alle foto aeree del territorio fornite dall’amministrazione.
Invero, «la prova sulla realizzazione delle opere entro la data del 31.03.2003 –trattavasi in quella fattispecie del terzo condono edilizio, di cui al d.l. n. 269 del 2003- grava sul richiedente la sanatoria, che può avvalersi -se non vi è contestazione- della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, ma a fronte di elementi di prova a disposizione dell'Amministrazione che attestino il contrario -quali il rilievo aerofotogrammetrico- il responsabile dell'abuso è gravato dall'onere di provare, attraverso elementi certi, quali fotografie aeree, fatture, sopralluoghi, e così via, l'effettiva realizzazione dei lavori entro il termine previsto dalla legge per poter usufruire del beneficio, non potendo limitarsi a contestare i dati in possesso dell'Amministrazione senza fornire alcun elemento di prova a corredo della propria tesi, in quanto l'Amministrazione -in assenza di elementi di prova contrari- non può che respingere la domanda di sanatoria».
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Sotto un secondo profilo, contrariamente all’assunto di parte ricorrente, deve considerarsi idonea a sorreggere il diniego impugnato la motivazione imperniata sulle aerofotogrammetrie dell’08.07.1993 e del 07.09.1994, che comprovano la inesistenza, in quella data (il secondo condono edilizio, del 1994, si applica alle opere abusive che risultino ultimate entro il 31.12.1993), del manufatto oggetto del diniego qui impugnato (pratica “B” relativa alla costruzione della tettoia ad uso deposito artigianale).
Le risultanze delle aerofotogrammetrie, stante la loro oggettiva evidenza, non sono superabili con pretese testimonianze, come ipotizzato dal ricorrente.
Costante giurisprudenza (Cons. Stato, sez. VI, 06.05.2008, n. 2010; TAR Lecce, sez. III, 09.07.2018, n. 1132; TAR Napoli, sez. III, 25.06.2015, n. 3388; TAR Lazio, Roma, sez. II-quater, 06.12.2010, n. 35404), condivisa dalla Sezione, ritiene che l’onere della prova contraria (ossia della anteriore data di ultimazione dei lavori) gravi, per regola generale, sul ricorrente che contesta la documentazione fornita dall’amministrazione, onere della prova –occorre aggiungere e precisare- che può assumere rilevanza ed efficacia ai fini della decisione solo se fondato su elementi che esprimano pari o superiore certezza e oggettività probatoria rispetto alle foto aeree del territorio fornite dall’amministrazione (in tal senso TAR Lazio, sez. II-quater, n. 35404 del 06/12.2010 cit., ha condivisibilmente precisato che «la prova sulla realizzazione delle opere entro la data del 31.03.2003 –trattavasi in quella fattispecie del terzo condono edilizio, di cui al d.l. n. 269 del 2003- grava sul richiedente la sanatoria, che può avvalersi -se non vi è contestazione- della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, ma a fronte di elementi di prova a disposizione dell'Amministrazione che attestino il contrario -quali il rilievo aerofotogrammetrico- il responsabile dell'abuso è gravato dall'onere di provare, attraverso elementi certi, quali fotografie aeree, fatture, sopralluoghi, e così via, l'effettiva realizzazione dei lavori entro il termine previsto dalla legge per poter usufruire del beneficio, non potendo limitarsi a contestare i dati in possesso dell'Amministrazione senza fornire alcun elemento di prova a corredo della propria tesi, in quanto l'Amministrazione -in assenza di elementi di prova contrari- non può che respingere la domanda di sanatoria») (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 03.10.2018 n. 2278 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Legge 104: lecito andare a fare la spesa in permesso.
L'assistenza al disabile non deve essere intesa in senso restrittivo, ma ricomprende anche il compimento di una serie di commissioni nell'interesse dell'assistito al di fuori del suo domicilio.
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34. che neppure può trovare accoglimento il quarto motivo di ricorso atteso che la Corte territoriale non ha interpretato e applicato l'art. 33, L. n. 104 del 1992 in difformità rispetto ai principi affermati nella giurisprudenza di legittimità;
35. che secondo l'orientamento di questa Corte, che si condivide e a cui si intende dare continuità,
il comportamento del lavoratore subordinato che si avvalga del permesso di cui all'art. 33, L. n. 104 del 1992 non per l'assistenza al familiare, bensì per attendere ad altra attività, integra l'ipotesi di abuso di diritto, giacché tale condotta si palesa nei confronti del datore di lavoro come lesiva della buona fede, privandolo ingiustamente della prestazione lavorativa in violazione dell'affidamento riposto nel dipendente ed integra, nei confronti dell'Ente di previdenza erogatore del trattamento economico, un'indebita percezione dell'indennità ed uno sviamento dell'intervento assistenziale (Cass. n. 9217 del 2016; Cass. n. 4984 del 2014);
36. che
è stato parimenti sottolineato il disvalore sociale della condotta del lavoratore che usufruisce, anche solo in parte, di permessi per l'assistenza a portatori di handicap al fine di soddisfare proprie esigenze personali "scaricando il costo di tali esigenze sulla intera collettività, stante che i permessi sono retribuiti in via anticipata dal datore di lavoro, il quale poi viene sollevato dall'ente previdenziale del relativo onere anche ai fini contributivi e costringe il datore di lavoro ad organizzare ad ogni permesso diversamente il lavoro in azienda ed i propri compagni di lavoro, che lo devono sostituire, ad una maggiore penosità della prestazione lavorativa" (Cass. n. 8784 del 2015);
37. che
nel caso di specie la Corte territoriale, con valutazione in fatto non censurabile in questa sede di legittimità, ha escluso la finalizzazione a scopi personali delle ore di permesso di cui il sig. De Sa. ha usufruito avendo ricollegato, in base alle prove raccolte, le attività poste in essere dal predetto, come il fare la spesa, l'usare lo sportello Postamat, incontrare il geometra e l'architetto, a specifici interessi ed utilità dei congiunti in tal modo assistiti (Corte di cassazione, Sez. lavoro, ordinanza 02.10.2018 n. 23891).

APPALTI: Nelle gare pubbliche l’incameramento della cauzione provvisoria costituisce una conseguenza automatica del provvedimento di esclusione, conte tale non suscettibile di alcuna valutazione discrezionale con riguardo ai singoli casi concreti.
Tale misura, quindi, risulta insensibile ad eventuali valutazioni volte ad evidenziare la non imputabilità a colpa della violazione che ha comportato l’esclusione.
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In merito, poi, alla questione relativa all’escussione della cauzione provvisoria, la Sezione osserva che, come affermato dalla giurisprudenza (cfr., fra le altre, Cons. Stato, Sez. VI, 15.09.2017, n. 4349, Cons. Stato Sez. V, 28.08.2017, n. 4086, TAR Umbria Perugia Sez. I, 13.06.2017, n. 452), nelle gare pubbliche l’incameramento della cauzione provvisoria costituisce una conseguenza automatica del provvedimento di esclusione, conte tale non suscettibile di alcuna valutazione discrezionale con riguardo ai singoli casi concreti.
Tale misura, quindi, risulta insensibile ad eventuali valutazioni volte ad evidenziare la non imputabilità a colpa della violazione che ha comportato l’esclusione (TAR Sicilia-Catania, Sez. III, sentenza 02.10.2018 n. 1880 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Servizio svolto da esecutori privi del requisito purché questo sia posseduto cumulativamente dal raggruppamento.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Raggruppamento temporaneo di imprese - Appalto servizi – Requisiti speciali di partecipazione – Possesso cumulativo del Raggruppamento – Possibilità.
In relazione alle procedure di gara per l’affidamento di servizi cui partecipino raggruppamenti temporanei di imprese il possesso dei requisiti speciali di partecipazione “può”, ma non “deve” attestarsi su una soglia minima, trattandosi di scelta rimessa alla discrezionalità della stazione appaltante, con la conseguenza che in caso di mancata definizione della soglia minima da parte della stazione appaltante, il servizio oggetto di gara può essere svolto da esecutori privi del requisito purché, naturalmente, il ridetto requisito sia posseduto cumulativamente dal raggruppamento (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che in relazione alle procedure di gara per l’affidamento di servizi cui partecipino raggruppamenti temporanei di operatori economici, il d.lgs. n. 50 del 2016 si limita a prescrivere che l’offerta debba contenere l’indicazione delle specifiche parti del servizio che saranno eseguite dai singoli operatori economici (art. 48, comma 4).
Nessuna prescrizione specifica viene dettata in merito alla quota percentuale minima dei requisiti di qualificazione e/o di capacità che deve essere posseduta da ciascun operatore economico che partecipi all’appalto riunendosi in un raggruppamento temporaneo; l’art. 83, comma 8, d.lgs. n. 50 del 2016, infatti, si limita ad imporre che la mandataria possieda i requisiti ed esegua le prestazioni in misura maggioritaria, ma definisce come “eventuali” le misure in cui gli stessi requisiti debbano essere posseduti sia singoli partecipanti, rimettendone la definizione alla discrezionalità della stazione appaltante (TAR Puglia-Bari, Sezz. unite, sentenza 01.10.2018 n. 1250 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Le spese sono dimezzate se la questione è semplice.
È legittima la riduzione della liquidazione delle spese di oltre la metà quando la controversia non presenta questioni giuridiche di particolare rilievo: lo ha deciso la CORTE d'appello di Napoli nella sentenza n. 2266/2018.
Intervenuta sul ricorso di un legale per il recupero dei ratei relativi all'indennità di accompagnamento dovuti dall'Inps a un cliente, la sezione controversie di lavoro e di previdenza e assistenza del capoluogo campano ha ricordato come il compenso del professionista sia determinato con riferimento a parametri debitamente stabiliti e affermato che in tema di rifusione delle spese processuali sopportate dalla parte civile, l'abrogazione delle tariffe professionali ha svincolato il giudice dai limiti tariffari minimi e massimi, con ciò obbligandolo, per la determinazione del compenso, a far riferimento, con adeguata e specifica motivazione, ai parametri concernenti «l'impegno profuso nelle diverse fasi processuali, la natura, la complessità e la gravità del procedimento e delle contestazioni, il pregio dell'opera prestata, il numero e l'importanza delle questioni trattate, l'eventuale urgenza della prestazione, nonché i risultati e i vantaggi conseguiti dal cliente».
A ciò deve aggiungersi, continua, che in caso di «scostamento apprezzabile dai parametri medi», il giudice è tenuto a specificare i criteri di retribuzione, fermo restando il limite della legge «il quale preclude di liquidare somme praticamente simboliche, non consone al decoro della professione».
Ora, nel caso di specie era emerso che il giudizio era stato definito «in assenza di particolari questioni e che la difesa del ricorrente non era stata onerata dalla trattazione di significative problematiche giuridiche, né di particolari indagini di fatto, ma di questioni di carattere meramente ripetitivo», il che rendeva la causa particolarmente semplice e consentiva di applicare una riduzione superiore a quella del 50%.
In altre parole la fase di studio si era limitata alla mera richiesta delle somme; quella istruttoria non aveva mostrato criticità e quella decisoria era risultata estremamente ridotta. Per questi motivi la Corte ha confermato la sentenza impugnata (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.10.2018).

EDILIZIA PRIVATA: Cassazione: la speciale disciplina antisismica si applica a tutte le costruzioni.
Si applica a tutte le costruzioni la cui sicurezza possa comunque interessare la pubblica incolumità, realizzate in zone delle quali sia dichiarata la sismicità, a prescindere dai materiali e dalle relative strutture nonché dalla natura precaria o permanente dell'intervento.
La speciale disciplina antisismica si applica a tutte le costruzioni, la cui sicurezza possa comunque interessare la pubblica incolumità, realizzate in zone delle quali sia dichiarata la sismicità, a prescindere dai materiali e dalle relative strutture nonché dalla natura precaria o permanente dell'intervento, attesa la natura formale dei relativi reati ed il fine di consentire il controllo preventivo da parte della pubblica amministrazione di tutte le costruzioni realizzate in zone sismiche.
Circa la fattispecie relativa a piscina prefabbricata: "Le disposizioni antisismiche previste dagli artt. 83 e 95 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 si applicano a tutte le costruzioni la cui sicurezza possa interessare la pubblica incolumità, anche quando si impieghino per la realizzazione delle opere elementi strutturali meno solidi e duraturi rispetto alla muratura e al cemento armato".

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Ritenuto:
   - che con sentenza del 02/02/2017, il Tribunale di Foggia, all'esito del giudizio istaurato a seguito di opposizione a decreto penale di condanna, ha condannato Ev.Pa. alla pena di euro 700,00 di ammenda perché ritenuto responsabile dei reati di cui al capo a) ex artt. 83 e 95 D.P.R. 380/2001 e al capo b) ex artt. 93 e 95 D.P.R. 380/2001 (fatti accertati in Foggia in data 02/04/2014) nonché ha ordinato la demolizione del manufatto costruito in violazione delle norme citate;
   - che avverso tale sentenza l'imputato, per il tramite del proprio difensore di fiducia, ha proposto appello, qui trasmesso, perché qualificato dalla Corte di appello quale ricorso per cassazione, chiedendo:
1) l'assoluzione dell'imputato perché il fatto non costituisce reato, essendo la struttura de quo costruita con materiale prefabbricato e dunque non qualificabile come opera edilizia sottoposta alla disciplina che si adduce violata;
2) annullare l'ordine di demolizione del manufatto, sia perché l'odierno ricorrente ha depositato in fase dibattimentale la richiesta di sanatoria, sia perché il medesimo manufatto era oggetto di altro procedimento penale nel quale è stato disposto il non luogo a procedere per intervenuta prescrizione.
Considerato:
   -  che i motivi di ricorso sono manifestamente infondati in quanto propongono violazioni di legge sostanziale per la cui valutazione è tuttavia necessario un riesame in fatto, non ammissibile in sede di legittimità;
   - che giova, tuttavia, ribadire l'orientamento consolidato di questa corte in base al quale la speciale disciplina antisismica si applica a tutte le costruzioni, la cui sicurezza possa comunque interessare la pubblica incolumità, realizzate in zone delle quali sia dichiarata la sismicità, a prescindere dai materiali e dalle relative strutture nonché dalla natura precaria o permanente dell'intervento, attesa la natura formale dei relativi reati ed il fine di consentire il controllo preventivo da parte della pubblica amministrazione di tutte le costruzioni realizzate in zone sismiche (Sez. 3, n. 48950 del 04/11/2015 ud, dep. 11/12/2015, Baio, Rv. 266033 e sentenze ivi citate. Cfr. in particolare Sez. 3, n. 6591 del 24/11/2011 Ud. (dep. 17/02/2012), D'Onofrio, Rv. 252441 (Fattispecie relativa a piscina prefabbricata): "Le disposizioni antisismiche previste dagli artt. 83 e 95 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 si applicano a tutte le costruzioni la cui sicurezza possa interessare la pubblica incolumità, anche quando si impieghino per la realizzazione delle opere elementi strutturali meno solidi e duraturi rispetto alla muratura e al cemento armato");
   - che la sentenza impugnata presenta un'adeguata e non illogica motivazione circa tutti gli elementi della fattispecie delittuosa contestata all'odierno ricorrente;
   - che l'ordine di demolizione consegue alla sentenza di condanna ex art. 31, comma 9, DPR 380/2001;
   - che pertanto il ricorso va dichiarato inammissibile con la conseguente condanna del ricorrente, ex art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende (Corte di Cassazione, Sez. VII penale, ordinanza 28.09.2018 n. 42818).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATAIl committente risponde dei danni durante i lavori. Per la Cassazione resta la responsabilità del custode.
Risponde il committente in caso di danni a terzi nel corso di lavori dati in appalto che sono stati causati dalla «cosa» su cui viene fatto l'intervento.

Il principio (riferito a un contenzioso con un Comune) è stato affermato dalla Corte di Cassazione, Sez. III civile, con la sentenza 28.09.2018 n. 23442.
Nel caso affrontato dalla Cassazione il Comune aveva dato in appalto i lavori di realizzazione di una bretella stradale, provocando un allagamento a un immobile e ai beni mobili ivi contenuti di proprietà di terzi. Il Tribunale di Treviso ha ritenuto responsabile dei danni l'impresa appaltatrice e la Corte di Appello di Venezia ha confermato il rigetto della domanda nei confronti del committente.
I terzi danneggiati, allora, sono ricorsi in Cassazione, insistendo sulla responsabilità anche del committente e la Suprema Corte ha ritenuto il motivo fondato.
In particolare, la Corte di Appello di Venezia ha ritenuto che non potesse riconoscersi una responsabilità del committente in base all'articolo 2051 del Codice civile (responsabilità per cosa in custodia), in quanto l'aver affidato il cantiere all'impresa appaltatrice escludeva il rapporto di custodia sulla cosa che ha procurato il danno. Nemmeno poteva essere considerata una responsabilità oggettiva ai sensi dell'articolo 2050 del Codice civile perché l'attività pericolosa era svolta dalla società appaltatrice.
Ed è vero che di regola nei confronti dei terzi danneggiati risponde l'appaltatore in quanto quest'ultimo svolge in autonomia la sua attività. Ma, se i danni sono stati causati direttamente dalla cosa oggetto dell'appalto, ne risponde il proprietario/committente in virtù del rapporto di custodia di cui all'articolo 2051 del Codice civile, salva la prova a suo carico del caso fortuito.
Infatti, l'autonomia dell'appaltatore riguarda l'attività da porre in essere per l'esecuzione dell'appalto, non la disponibilità e la custodia del bene oggetto dei lavori.
Non si può cioè consentire che il custode si liberi della sua posizione di "garante" della cosa, affidandola a un appaltatore per l'esecuzione dei lavori. Così facendo, si verrebbe a configurare un'ulteriore ipotesi di esonero della responsabilità oggettiva sulla custodia, eludendo la legge che invece ne prevede una soltanto (il caso fortuito).
In materia condominiale, la Cassazione già in passato ha ritenuto responsabile il condominio committente quando il fatto lesivo è stato commesso dall'appaltatore in esecuzione di un ordine impartitogli dal direttore dei lavori o da altro rappresentante del committente stesso, tanto che l'appaltatore aveva perso l'autonomia che normalmente gli compete.
È stata poi riconosciuta una responsabilità del condominio committente per avere affidato il lavoro a un'impresa che palesemente difettava delle necessarie capacità tecniche. Le dinamiche del rapporto tra l'assemblea dei condòmini e l'amministratore fanno sì che, a seconda dei casi, la paternità della decisione possa attribuirsi ora alla prima ora al secondo ora ad entrambi. Si tratta, insomma, di accertare caso per caso l'ambito di autonomia di azione ed i poteri decisionali concretamente attribuiti all'amministratore (Cassazione penale, sentenza 42347/2013).
Con la sentenza 23442/2018 le cose si complicano ulteriormente: ora il condominio proprietario, in qualità di custode della cosa oggetto dell'appalto, è ritenuto direttamente responsabile dei danni cagionati a terzi o al condomino se i danni sono causati direttamente dalla cosa (come per esempio una perdita d'acqua dall'impianto comune mentre un'impresa ci sta lavorando), salvo che provi il caso fortuito, ovvero dimostri che l'attività dell'appaltatore sia riconducibile al fatto del terzo non prevedibile e non evitabile
(articolo Il Sole 24 Ore del 16.10.2018 - tratto da www.fondazionecni.it).
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MASSIMA
2.2 Va premesso, in linea generale, che
è consolidato l'indirizzo di questa Corte in base al quale, in caso di danni arrecati a terzi nel corso di esecuzione di un appalto di lavori edili:
   a) di regola risponde nei confronti dei terzi esclusivamente l'appaltatore, in quanto questi svolge in piena autonomia la sua attività;
   b) se però il danneggiato dimostra che il committente si è ingerito con specifiche direttive che hanno limitato, sebbene non del tutto escluso, l'autonomia dell'appaltatore, rispondono in concorso sia l'appaltatore che il committente;
   c) se le direttive e l'ingerenza del committente sono così specifiche da rendere l'appaltatore un nudus minister, risponde esclusivamente il committente;
   d) il committente risponde infine anche per culpa in eligendo, laddove si sia avvalso di impresa palesemente inadeguata a svolgere l'attività affidata
(cfr., in proposito, ex multis, ad cs.: Cass., Sez. 2, Sentenza n. 1234 del 25/01/2016, Rv. 638645 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 6296 del 13/03/2013, Rv. 625507 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 17697 del 29/08/2011, Rv. 619450 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 7356 del 26/03/2009, Rv. 607389 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 24320 del 30/09/2008, Rv. 604765 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 13131 del 01/06/2006, Rv. 590623 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 5133 del 09/11/1978, Rv. 394885 - 01).
D'altra parte,
secondo più recenti decisioni in tema di appalti pubblici -per quanto in affermata continuità con gli esposti principi tradizionali- gli specifici poteri di autorizzazione, controllo ed ingerenza della pubblica amministrazione nella esecuzione dei lavori, con la facoltà, a mezzo del direttore, di disporre varianti e di sospendere i lavori stessi, ove potenzialmente dannosi per i terzi, escludono ogni esenzione da responsabilità per l'ente committente (in proposito si vedano, tra le altre, Cass., Sez. 1, Sentenza n. 13266 del 05/10/2000, Rv. 540762 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 4591 del 22/02/2008, Rv. 601941 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 10588 del 23/04/2008, Rv. 603248 - 01; Sez. 6-3, Ordinanza n. 1263 del 27/01/2012, Rv. 620509 - 01).
Ai suddetti orientamenti va certamente data continuità.
Risultano peraltro necessarie alcune precisazioni, per coordinare gli esiti applicativi degli stessi, non sempre consonanti.
Ritiene infatti la Corte che vadano chiaramente distinte due diverse questioni:
   a) quella dell'eventuale concorso del committente nell'attività svolta dall'appaltatore, la quale in astratto abbia causato danni a terzi e sia quindi fonte di generica responsabilità ai sensi dell'art. 2043 c.c.;
   b) quella della responsabilità per i danni causati ai terzi direttamente dalla cosa oggetto dell'appalto, per la quale viene in rilievo la speciale ipotesi di imputazione di responsabilità prevista dall'art. 2051 c.c..

2.2.1
La responsabilità dell'appaltatore per i danni causati a terzi dall'attività svolta da quest'ultimo può essere affermata esclusivamente ai sensi dell'art. 2043 c.c. (laddove non ricorrano i presupposti di applicabilità delle disposizioni di cui all'art. 2050 c.c.): per questa tipologia di danni la concorrente responsabilità del committente potrebbe in teoria affermarsi ai sensi dell'art. 2049 c.c., ma essa è di regola esclusa (secondo un indirizzo del tutto consolidato, al quale va senz'altro data continuità) dal carattere autonomo dell'attività svolta dall'appaltatore stesso (salvi i casi di ingerenza totale del committente in tale attività, o comunque la violazione di specifici obblighi di vigilanza, che peraltro spetta al danneggiato dimostrare, ma che nel caso di specie risultano esclusi in base ad incensurabili accertamenti di fatto svolti sul punto dalla corte di appello, che ha ritenuto non provata la riconducibilità del danno ad un difetto di vigilanza da parte dell'ente appaltante).
2.2.2
Invece, per i danni causati direttamente dalla cosa oggetto dell'appalto (anche laddove essa sia stata modificata dall'appaltatore e proprio alle modifiche sia riconducibile il danno) viene in rilievo l'applicazione dell'art. 2051 c.c.. La questione della responsabilità del committente (che sia possessore o proprietario, o comunque abbia la disponibilità della cosa oggetto dei lavori commissionati con l'appalto) va pertanto diversamente impostata. Dei danni causati da cose risponde infatti di regola il proprietario o il possessore (o chi comunque si trovi nella materiale disponibilità di esse), in virtù del rapporto di custodia, salva la prova (a suo carico) del caso fortuito, ai sensi dell'art. 2051 c.c..
Orbene, il committente, che ne sia proprietario o possessore, resta certamente nel possesso, ed anche nella giuridica detenzione, del bene oggetto dell'appalto (di cui abbia comunque la disponibilità materiale, tanto da poterlo consegnare all'appaltatore per l'esecuzione dell'appalto), e ne può disporre, sia giuridicamente che materialmente, conservando sempre il potere di impartire direttive all'appaltatore in merito alle opere da eseguire ed alle modificazioni da apportare allo stesso.
L'autonomia di quest'ultimo nello svolgimento della sua attività -che costituisce la ragione per cui in taluni casi è stata esclusa la posizione di custode da parte del committente- in realtà riguarda l'attività da porre in essere per l'esecuzione dell'appalto, non la disponibilità e/o la custodia della cosa oggetto dei lavori.
Il committente, anche durante lo svolgimento dell'appalto, può infatti sempre disporre della cosa e l'appaltatore non acquista alcun diritto su di essa. In realtà, il committente, che era e resta custode della cosa, esercita tale custodia (che implica, ovviamente, anche l'onere di provvedere alla sua manutenzione, così come il diritto di operare modificazioni alla stessa, purché senza danno per i terzi) anche attraverso l'affidamento di lavori in appalto che la riguardino: ne consegue che l'appalto non esclude affatto la custodia, ma è, al contrario, un modo di esercizio di quest'ultima.
Inoltre, si deve considerare che la ratio che sta alla base dello speciale regime di responsabilità di cui all'art. 2051 c.c. consiste nella tutela dei diritti del soggetto danneggiato, posta oggettivamente a carico del custode della cosa che ha arrecato il danno, con la sola salvezza del fortuito, in coerenza con i valori di solidarietà di cui agli artt. 2 e 41 Cost., secondo le coordinate generali dell'interpretazione costituzionalmente orientata del sistema della responsabilità civile.
Non si può pertanto consentire, di regola, al custode di liberarsi della sua posizione di "garanzia" semplicemente trasferendo contrattualmente tale posizione in capo ad un terzo, senza alcun limite (se non quello, del tutto generico, della cd. culpa in eligendo), e ciò specie se si tratti del proprietario di un immobile che trasferisca tale posizione di garanzia ad un terzo che non ne è proprietario e non offra la stessa solvibilità.
Ammettendo una siffatta possibilità, si finirebbe per eludere l'effettiva funzione della disciplina della responsabilità per i danni causati dalle cose, come delineata dall'art. 2051 c.c., disciplina che consente l'esonero del custode dalla responsabilità per i danni causati dalla cosa solo laddove egli provi il caso fortuito. Con la semplice stipula di un contratto di appalto si verrebbe invece a configurare nella sostanza una ulteriore causa di esonero dalla indicata responsabilità oggettiva, molto meno rigorosa dell'unica ipotesi espressamente prevista dalla legge (e cioè il caso fortuito), così elidendo artificiosamente il rigore della regola normativa.
Escludere automaticamente la custodia del bene consegnato all'appaltatore da parte del proprietario o possessore committente costituirebbe d'altra parte una petizione di principio o comunque sarebbe una conclusione fondata su un argomento non pertinente (e cioè l'autonomia dell'appaltatore, autonomia che riguarda la sua attività di esecuzione dei lavori, non la custodia del bene oggetto dell'appalto).
Si consideri che neanche in caso di locazione (contratto che pure attribuisce al conduttore la detenzione dell'immobile locato, e quindi poteri di disponibilità materiale sullo stesso maggiori di quelli che spettano all'appaltatore) si ritiene che il locatore cessi di essere custode del bene locato (almeno per le strutture murarie e per gli impianti fissi dell'immobile: cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 4737 del 30/03/2001, Rv. 545368 - 01; Sez. 2, Sentenza n. 13881 del 09/06/2010, Rv. 613244 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 16422 del 27/07/2011, Rv. 619571 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 21788 del 27/10/2015, Rv. 637554 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 11815 del 09/06/2016, Rv. 640516 - 01)
Anche sotto questo profilo, si deve concludere che
l'appalto di lavori aventi ad oggetto una cosa non fa di per sé venir meno a carico del committente l'obbligo di custodia sulla stessa e l'obbligo di esercitare il controllo su di essa, sia pure compatibilmente con l'esistenza del contratto di appalto, in modo da impedire che essa produca danni a terzi.
Le vicende che riguardano l'utilizzazione della cosa, ed anche l'affidamento ad un appaltatore dell'attività di manutenzione e/o di esecuzione di opere di modifica sulla stessa, rientrano sempre (come è ovvio) nell'esercizio dei poteri del custode su di essa, e quindi ne possono escludere la responsabilità esclusivamente laddove ricorrano le rigorose condizioni richieste dall'art. 2051 c.c., e cioè sia provato il caso fortuito.
Naturalmente ciò non significa che il committente non potrà mai essere esonerato dalla responsabilità per i danni arrecati a terzi dalla cosa in seguito alle modifiche da questa apportate dall'attività svolta dall'appaltatore, ma esclusivamente che sarà lui a dover dimostrare che l'attività dell'appaltatore sia di fatto qualificabile come caso fortuito (in particolare sia riconducibile al fatto del terzo rientrante nel fortuito, cioè non prevedibile e/o non evitabile), senza potersi limitare ad allegare genericamente che la cosa era stata a quello affidata per l'esecuzione dell'appalto.

Va ribadito che qui non si ha riguardo ai danni causati dall'attività dell'appaltatore, ma solo a quelli derivanti direttamente dalla cosa, e cioè dall'immobile, eventualmente come modificato dall'appaltatore a seguito dell'esecuzione dei lavori ad esso affidati.
In siffatta ipotesi, il committente, per essere esonerato dalla responsabilità di cui all'art. 2051 c.c., dovrà fornire la prova liberatoria richiesta dalla suddetta norma, e cioè quella del caso fortuito. Tale prova potrà consistere anche nella dimostrazione che il danno è causalmente riconducibile esclusivamente al fatto dell'appaltatore, il quale abbia eseguito i lavori ad esso affidati in modo non conforme al contratto ed alle norme, anche tecniche, disciplinanti la sua esecuzione, ma sarà comunque il committente a dover dimostrare che la condotta difforme dalle regole di diligenza nello svolgimento dell'attività oggetto di appalto posta in essere dall'appaltatore non era ragionevolmente prevedibile ed evitabile (nonostante le adeguate misure di cautela e sicurezza in proposito poste in essere dal committente stesso, anche con riguardo alla scelta dell'appaltatore, all'imposizione allo stesso dell'adozione di condotte di cautela per i terzi, ed al controllo sulla attività da esso svolta, nei limiti di quanto è ragionevolmente esigibile), al punto che ad essa possa attribuirsi efficienza causale esclusiva nella verificazione dell'evento dannoso (il tutto in coerenza con i principi di recente ribaditi da questa stessa Corte in tema di responsabilità da cose in custodia e in particolare di caso fortuito costituito dalla condotta di terzi e/o dello stesso danneggiato: cfr., di recente: Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 1257 del 19/01/2018, Rv. 647356 - 01; Sez. 3, Ordinanze nn. 2477, 2480, 2481, 2482 del 01/02/2018).
Nell'ipotesi in cui terzi subiscano danni direttamente da una cosa di proprietà o in possesso (o nella custodia) di un determinato soggetto, interessata da un contratto di appalto, non può quindi ritenersi il danneggiato onerato di dover dimostrare -per ottenere il risarcimento dal proprietario o possessore- che questi avesse scelto un appaltatore inadeguato ovvero che avesse impartito specifiche direttive sull'esecuzione dell'appalto o che comunque disponesse di un potere di controllo assoluto sull'attività dell'appaltatore; al contrario, sarà il committente -per esonerarsi dalla propria responsabilità di custode della cosa, ai sensi dell'art. 2051 c.c.- a dover dimostrare di avere scelto un appaltatore adeguato, di avergli fornito adeguate direttive e di avere esercitato i suoi poteri di controllo e vigilanza sull'attività dello stesso con la necessaria diligenza, di modo che il danno possa ritenersi causato da una condotta dell'appaltatore non prevedibile e/o evitabile (e quindi in sostanza riconducibile all'ipotesi del caso fortuito costituito dalla condotta del terzo).
La indicata ricostruzione, oltre ad essere conforme ai principi costantemente affermati da questa Corte in tema di responsabilità da cose in custodia, costituisce altresì un equo punto di equilibrio nel bilanciamento tra la necessità di un'adeguata tutela del terzo che subisca danni derivanti da una cosa e quella del proprietario o possessore della cosa stessa, che abbia appaltato lavori aventi ad oggetto la suddetta cosa, laddove si consideri che il proprietario o possessore è il soggetto in genere più agevolmente identificabile dal danneggiato e più solvibile e che egli potrà comunque eventualmente rivalersi sull'appaltatore da lui stesso scelto.
L'assetto del regime di responsabilità appena delineato risulta altresì coerente con i già richiamati valori di solidarietà di cui agli artt. 2 e 41 Cost., e quindi in linea con le coordinate generali del sistema della responsabilità civile, secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata dello stesso.
2.3 Nella specie, la corte di appello ha in realtà escluso la responsabilità del comune committente ai sensi dell'art. 2051 c.c. (oltre che quella di cui all'art. 2043 c.c., in relazione alla quale, come già osservato, le censure dei ricorrenti non possono trovare accoglimento) sull'erroneo presupposto per cui l'esistenza di un appalto era di per sé sufficiente a far venire meno la custodia del bene (salva prova contraria), e non ha verificato invece se la predetta amministrazione committente avesse fornito la prova liberatoria del caso fortuito, su essa gravante ai sensi dell'art. 2051 c.c. (anche eventualmente in relazione al fatto dell'appaltatore, dimostrando cioè che il danno, riconducibile all'attività di quest'ultimo, non poteva essere preveduto e/o evitato).
La fattispecie dovrà pertanto essere riesaminata dalla corte di appello alla luce dei seguenti principi di diritto: «
in caso di danni subiti da terzi nel corso dell'esecuzione di un appalto, bisogna distinguere tra i danni derivanti dalla attività dell'appaltatore e i danni derivanti dalla cosa oggetto dell'appalto; per i primi si applica l'art. 2043 c.c. e ne risponde di regola esclusivamente l'appaltatore (in quanto la sua autonomia impedisce di applicare l'art. 2049 c.c. al committente), salvo il caso in cui il danneggiato provi la una concreta ingerenza del committente nell'attività stessa e/o la violazione di specifici obblighi di vigilanza e controllo; per i secondi (e cioè per i danni direttamente derivanti dalla cosa oggetto dell'appalto, anche se determinati dalle modifiche e dagli interventi su di essa posti in essere dall'appaltatore) risponde (anche) il committente ai sensi dell'art. 2051 c.c., in quanto l'appalto e l'autonomia dell'appaltatore non escludono la permanenza della qualità di custode della cosa da parte del committente; in tale ultimo caso, il committente, per essere esonerato dalla sua responsabilità nei confronti del terzo danneggiato, non può limitarsi a provare la stipulazione dell'appalto, ma deve fornire la prova liberatoria richiesta dall'art. 2051 c.c., e quindi dimostrare che il danno si è verificato esclusivamente a causa del fatto dell'appaltatore, quale fatto del terzo che egli non poteva prevedere e/o impedire (e fatto salvo il suo diritto di agire eventualmente in manleva contro l'appaltatore)».

LAVORI PUBBLICI: APPALTI - Contratto di appalto di lavori - Attività di manutenzione e/o di esecuzione di opere - RISARCIMENTO DEL DANNO - Responsabilità del committente per i danni arrecati a terzi - Risarcimento - Committente obbligo di custodia e di controllo - Posizione di "garanzia" - Trasferimento della posizione di garanzia ad un terzo - Onere della prova specifica - Art. 2051 c.c..
L'appalto di lavori aventi ad oggetto una cosa non fa di per sé venir meno a carico del committente l'obbligo di custodia sulla stessa e l'obbligo di esercitare il controllo su di essa, sia pure compatibilmente con l'esistenza del contratto di appalto, in modo da impedire che essa produca danni a terzi.
Sicché, l'utilizzazione della cosa, ed anche l'affidamento ad un appaltatore dell'attività di manutenzione e/o di esecuzione di opere di modifica sulla stessa, rientrano sempre (come è ovvio) nell'esercizio dei poteri del custode su di essa, e quindi ne possono escludere la responsabilità esclusivamente laddove ricorrano le rigorose condizioni richieste dall'art. 2051 c.c., e cioè sia provato il caso fortuito.
Naturalmente ciò non significa che il committente non potrà mai essere esonerato dalla responsabilità per i danni arrecati a terzi dalla cosa in seguito alle modifiche da questa apportate dall'attività svolta dall'appaltatore, ma esclusivamente che sarà lui a dover dimostrare che l'attività dell'appaltatore sia di fatto qualificabile come caso fortuito (in particolare sia riconducibile al fatto del terzo rientrante nel fortuito, cioè non prevedibile e/o non evitabile), senza potersi limitare ad allegare genericamente che la cosa era stata a quello affidata per l'esecuzione dell'appalto.
La ratio che sta alla base dello speciale regime di responsabilità di cui all'art. 2051 c.c. consiste nella tutela dei diritti del soggetto danneggiato, posta oggettivamente a carico del custode della cosa che ha arrecato il danno, con la sola salvezza del fortuito, in coerenza con i valori di solidarietà di cui agli artt. 2 e 41 Cost., secondo le coordinate generali dell'interpretazione costituzionalmente orientata del sistema della responsabilità civile.
Non si può pertanto consentire, di regola, al custode di liberarsi della sua posizione di "garanzia" semplicemente trasferendo contrattualmente tale posizione in capo ad un terzo, senza alcun limite (se non quello, del tutto generico, della cd. culpa in eligendo), e ciò specie se si tratti del proprietario di un immobile che trasferisca tale posizione di garanzia ad un terzo che non ne è proprietario e non offra la stessa solvibilità.

APPALTI - Affidamento di lavori in appalto e giuridica detenzione del bene oggetto dell'appalto - Committente proprietario o possessore - Custodia e onere di provvedere alla sua manutenzione - Impresa appaltatrice e della subappaltatrice - RISARCIMENTO DEL DANNO - Risarcimento per danni subiti da un immobile a seguito di un allagamento proveniente da un cantiere.
In tema di appalti, il committente, che ne sia proprietario o possessore, resta certamente nel possesso, ed anche nella giuridica detenzione, del bene oggetto dell'appalto (di cui abbia comunque la disponibilità materiale, tanto da poterlo consegnare all'appaltatore per l'esecuzione dell'appalto), e ne può disporre, sia giuridicamente che materialmente, conservando sempre il potere di impartire direttive all'appaltatore in merito alle opere da eseguire ed alle modificazioni da apportare allo stesso.
L'autonomia di quest'ultimo nello svolgimento della sua attività che costituisce la ragione per cui in taluni casi è stata esclusa la posizione di custode da parte del committente in realtà riguarda l'attività da porre in essere per l'esecuzione dell'appalto, non la disponibilità e/o la custodia della cosa oggetto dei lavori. Il committente, anche durante lo svolgimento dell'appalto, può infatti sempre disporre della cosa e l'appaltatore non acquista alcun diritto su di essa.
In realtà, il committente, che era e resta custode della cosa, esercita tale custodia (che implica, ovviamente, anche l'onere di provvedere alla sua manutenzione, così come il diritto di operare modificazioni alla stessa, purché senza danno per i terzi) anche attraverso l'affidamento di lavori in appalto che la riguardino: ne consegue che l'appalto non esclude affatto la custodia, ma è, al contrario, un modo di esercizio di quest'ultima.

APPALTI - Responsabilità dell'appaltatore per i danni causati a terzi - Presupposti di applicabilità delle disposizioni di cui all'art. 2050 c.c. - Responsabilità concorrente del committente - Casi di ingerenza del committente o violazione di specifici obblighi di vigilanza.
La responsabilità dell'appaltatore per i danni causati a terzi dall'attività svolta da quest'ultimo può essere affermata esclusivamente ai sensi dell'art. 2043 c.c. (laddove non ricorrano i presupposti di applicabilità delle disposizioni di cui all'art. 2050 c.c.): per questa tipologia di danni la concorrente responsabilità del committente potrebbe in teoria affermarsi ai sensi dell'art. 2049 c.c., ma essa è di regola esclusa dal carattere autonomo dell'attività svolta dall'appaltatore stesso (salvi i casi di ingerenza totale del committente in tale attività, o comunque la violazione di specifici obblighi di vigilanza, che peraltro spetta al danneggiato dimostrare, ma che nel caso di specie risultano esclusi in base ad incensurabili accertamenti di fatto svolti sul punto dalla corte di appello, che ha ritenuto non provata la riconducibilità del danno ad un difetto di vigilanza da parte dell'ente appaltante).
APPALTI - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Appalti pubblici - Esecuzione dei lavori - Specifici poteri di autorizzazione, controllo ed ingerenza della p.a. - Risarcimento dei danni arrecati a terzi nel corso di esecuzione di un appalto di lavori edili - Giurisprudenza.
In tema di appalti pubblici, gli specifici poteri di autorizzazione, controllo ed ingerenza della pubblica amministrazione nella esecuzione dei lavori, con la facoltà, a mezzo del direttore, di disporre varianti e di sospendere i lavori stessi, ove potenzialmente dannosi per i terzi, escludono ogni esenzione da responsabilità per l'ente committente (in proposito si vedano, tra le altre, Cass., Sez. 1, Sentenza n. 13266 del 05/10/2000; Sez. 3, Sentenza n. 4591 del 22/02/2008; Sez. 3, Sentenza n. 10588 del 23/04/2008; Sez. 6-3, Ordinanza n. 1263 del 27/01/2012).
Pertanto, in caso di danni arrecati a terzi nel corso di esecuzione di un appalto di lavori edili:
   a) di regola risponde nei confronti dei terzi esclusivamente l'appaltatore, in quanto questi svolge in piena autonomia la sua attività;
   b) se però il danneggiato dimostra che il committente si è ingerito con specifiche direttive che hanno limitato, sebbene non del tutto escluso, l'autonomia dell'appaltatore, rispondono in concorso sia l'appaltatore che il committente;
   c) se le direttive e l'ingerenza del committente sono così specifiche da rendere l'appaltatore un nudus minister, risponde esclusivamente il committente;
   d) il committente risponde infine anche per culpa in eligendo, laddove si sia avvalso di impresa palesemente inadeguata a svolgere l'attività affidata.

APPALTI - Appaltatore inadeguato - Poteri di controllo e vigilanza sull'attività - RISARCIMENTO DEL DANNO - Responsabilità da cose in custodia - Danni a terzi direttamente da una cosa di proprietà o in possesso interessata da un contratto di appalto.
In tema di responsabilità da cose in custodia, costituisce altresì un equo punto di equilibrio nel bilanciamento tra la necessità di un'adeguata tutela del terzo che subisca danni derivanti da una cosa e quella del proprietario o possessore della cosa stessa, che abbia appaltato lavori aventi ad oggetto la suddetta cosa, laddove si consideri che il proprietario o possessore è il soggetto in genere più agevolmente identificabile dal danneggiato e più solvibile e che egli potrà comunque eventualmente rivalersi sull'appaltatore da lui stesso scelto.
Sicché, nell'ipotesi in cui terzi subiscano danni direttamente da una cosa di proprietà o in possesso (o nella custodia) di un determinato soggetto, interessata da un contratto di appalto, non può quindi ritenersi il danneggiato onerato di dover dimostrare per ottenere il risarcimento dal proprietario o possessore che questi avesse scelto un appaltatore inadeguato ovvero che avesse impartito specifiche direttive sull'esecuzione dell'appalto o che comunque disponesse di un potere di controllo assoluto sull'attività dell'appaltatore; al contrario, sarà il committente per esonerarsi dalla propria responsabilità di custode della cosa, ai sensi dell'art. 2051 c.c. a dover dimostrare di avere scelto un appaltatore adeguato, di avergli fornito adeguate direttive e di avere esercitato i suoi poteri di controllo e vigilanza sull'attività dello stesso con la necessaria diligenza, di modo che il danno possa ritenersi causato da una condotta dell'appaltatore non prevedibile e/o evitabile (e quindi in sostanza riconducibile all'ipotesi del caso fortuito costituito dalla condotta del terzo)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.09.2018 n. 23442 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Limitazioni negoziali del diritto di costruire e indagini istruttorie da parte della P.A.
Il TAR Brescia, con riferimento alle limitazioni negoziali del diritto di costruire, aderisce alla più recente giurisprudenza che è oggi allineata nel senso che l'Amministrazione, quando venga a conoscenza dell'esistenza di contestazioni sul diritto del richiedente il titolo abilitativo, debba compiere le necessarie indagini istruttorie per verificare la fondatezza delle contestazioni, senza però sostituirsi a valutazioni squisitamente civilistiche (che appartengono alla competenza dell’A.G.O.), arrestandosi dal procedere solo se il richiedente non sia in grado di fornire elementi prima facie attendibili (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 28.09.2018 n. 924 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
2. Impregiudicato, ovviamente, l’esito del petitorio –in ragione della ovvia appartenenza della cognizione in ordine ad esso all’A.G.O.– il perimetro cognitivo del presente giudizio concerne esclusivamente la verifica di legittimità dell’esercizio del potere sostanziatosi nel rilascio del contestato titolo ad aedificadum in favore della parte controinteressata.
E, in particolare, riguarda la legittima adozione di un permesso di costruire pur in presenza della rappresentata contestazione della titolarità dominicale di parte dell’area sulla quale il titolo edificatorio era destinato ad incidere.
Si rinvia, in proposito, ai consolidati principi elaborati dalla giurisprudenza (cfr. da ultimo Cons. Stato, sez. IV, 20.04. 2018 n. 2397, 19.12.2016 n. 5363, 23.05.2016 n. 2116, 07.09.2016 n. 3823, 25.09.2014 n. 4818), secondo cui:
   - premesso che,
in base all'art. 11, comma 1, del T.U. edilizia di cui al D.P.R. 380/2001, il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo, la legittimazione attiva a chiedere il rilascio di un titolo abilitativo edilizio si configura in capo non solo al proprietario del terreno, ma pure al soggetto titolare di altro diritto di godimento del fondo, che lo autorizzi a disporne al riguardo (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 15.07.2010 n. 4557, 02.09.2011 n. 4968);
   -
vi è il contestuale onere della P.A. di accertare con serietà e rigore siffatta legittimazione a chiedere il titolo edilizio (arg. ex Cons. Stato, sez. IV, 07.09.2016 n. 3823), dovendo pertanto la P.A. accertare che l’istante sia il proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività edificatoria (cfr. Cons. Stato, sez. V, 04.04.2012 n. 1990);
   - al riguardo,
non si sono mai posti dubbi in ordine ai limiti legali, i quali, trovando applicazione generalizzata, concorrono a formare lo statuto generale dell'attività edilizia e non pongono problemi di conoscibilità all'amministrazione che è tenuta a considerarli sempre;
   - diversamente,
per le limitazioni negoziali del diritto di costruire, la giurisprudenza in passato ha oscillato fra la soluzione che ne esclude ogni rilevanza, nel presupposto che all'amministrazione sia inibito qualsiasi sindacato anche indiretto sulla validità ed efficacia dei rapporti giuridici dei privati (cfr. Cons. Stato, sez. V, 20.12.1993, n. 1341), e quella opposta che, invece, ammette che il Comune verifichi il rispetto dei limiti privatistici, purché siano immediatamente conoscibili, effettivamente e legittimamente conosciuti nonché del tutto incontestati, di guisa che il controllo si traduca in una semplice presa d'atto (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2007 n. 1206);
   -
la più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, superando l'indirizzo più risalente, è oggi allineata nel senso che l'Amministrazione, quando venga a conoscenza dell'esistenza di contestazioni sul diritto del richiedente il titolo abilitativo, debba compiere le necessarie indagini istruttorie per verificare la fondatezza delle contestazioni, senza però sostituirsi a valutazioni squisitamente civilistiche (che appartengono alla competenza dell’A.G.O.), arrestandosi dal procedere solo se il richiedente non sia in grado di fornire elementi prima facie attendibili.
3. Facendo applicazione dei su menzionati principi al caso di specie, è evidente che il Comune resistente ha omesso anche il minimo controllo sulla legittimazione dei richiedenti la concessione edilizia a disporre, in virtù di un titolo (legale, giudiziale ovvero negoziale), dell’intera area: compresa la porzione (insistente su una parte del mappale 1151) oggetto di formale e circostanziata opposizione all’intervento costruttivo manifestata in sede procedimentale dalla parte ricorrente.
4. In tali limiti, va dunque dato atto dell’illegittimità dell’avversato titolo edificatorio: impregiudicato, ovviamente, l’esito del giudizio petitorio pendente dinanzi alla competente A.G.O., a fronte del quale competerà comunque all’Autorità comunale nuovamente pronunziarsi in conformità dell’accertata consistenza ed estensione dominicale delle confinanti proprietà.
5. Quanto alla sospensione del titolo, gravata con motivi aggiunti in ragione della pretesa esorbitanza del provvedimento soprassessorio (concernente l’intero titolo ad aedificandum rispetto alla portata applicativa dell’ordinanza cautelare resa da a fronte dell’impugnazione di cui all’atto introduttivo del giudizio), va escluso che parte ricorrente vanti legittimazione alla sollecitazione del sindacato giurisdizionale, come, del resto, osservato con ordinanza di questa Sezione n. 288 del 04.05.2009 (con la quale si è osservato che, “sotto il profilo processuale l’utilizzo dei motivi aggiunti è improprio, in quanto la nuova controversia, pur essendo connessa a quella originaria, riguarda un provvedimento di segno opposto a quello impugnato dalla società ricorrente, con inversione della legittimazione e dell’interesse ad agire”).
I motivi aggiunti, conseguentemente, sono inammissibili.

EDILIZIA PRIVATA: APPALTI - Opere edilizie - Progetto e saggi nei terreni di fondazione - Danni e risarcimenti - Obbligo giuridico o disposizione contrattuale di impedire l'evento dannoso - Responsabilità - Geologo, progettista e direttore dei lavori.
In via generale, l'obbligo giuridico di impedire l'evento dannoso può discendere, oltre che da una norma di legge o da una disposizione contrattuale, anche da una specifica situazione che esiga una determinata attività a tutela di un diritto altrui. Nella specie è indubbio che detto obbligo giuridico gravante sul geologo e sul progettista incombe anche su chi ricopre il ruolo di direzione lavori, applicabile anche ai rapporti di committenza privata.
APPALTI - Appaltatore e dovere di diligenza stabilito dall'art. 1176 c.c. - Opere edilizie da eseguirsi su strutture o basamenti preesistenti - Difficoltà di esecuzione dell'opera manifestatesi in corso d'opera - Imprevedibili - Diritto ad un equo compenso - Realizzazione dell'opera senza difetti costruttivi - Garanzia - Art. 1664, 2° co., c.c. - Giurisprudenza.
Trattandosi di opere edilizie da eseguirsi su strutture o basamenti preesistenti o preparati dal committente o da terzi, l'appaltatore viola il dovere di diligenza stabilito dall'art. 1176 c.c. se non verifica, nei limiti delle comuni regole dell'arte, l'idoneità delle anzidette strutture a reggere l'ulteriore opera commessagli, e ad assicurare la buona riuscita della medesima, ovvero se, accertata l'inidoneità di tali strutture, procede egualmente all'esecuzione dell'opera.
Anche l'ipotesi della imprevedibilità di difficoltà di esecuzione dell'opera manifestatesi in corso d'opera derivanti da cause geologiche, idriche e simili, specificamente presa in considerazione in tema di appalto dall'art. 1664, 2° co., c.c. e legittimante se del caso il diritto ad un equo compenso in ragione della maggiore onerosità della prestazione, deve essere valutata sulla base della diligenza media in relazione al tipo di attività esercitata.
E laddove l'appaltatore svolga anche i compiti di ingegnere progettista e di direttore dei lavori, l'obbligo di diligenza è ancora più rigoroso, essendo egli tenuto, in presenza di situazioni rivelatrici di possibili fattori di rischio, ad eseguire gli opportuni interventi per accertarne la causa ed apprestare i necessari accorgimenti tecnici volti a garantire la realizzazione dell'opera senza difetti costruttivi
(Sez. 3, Sentenza n. 12995 del 31/05/2006)
(Corte di Cassazione, Sez. III civile, ordinanza 27.09.2018 n. 23174 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI SERVIZIClausole sociali, sì se non ledono libertà d’impresa. OBBLIGHI PER AGGIUDICATARI DI APPALTI.
L'obbligo, in capo all'aggiudicatario di un appalto, di riassorbire i dipendenti di un appaltatore uscente va armonizzato con l'organizzazione di impresa scelta dal soggetto che subentra nel contratto.
Lo ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. III, con la sentenza 27.09.2018 n. 5551 in una vicenda in cui era stato previsto, per lo svolgimento dei servizi del Centro unificato di prenotazione delle prestazioni sanitarie (Cup), l'adesione alla cosiddetta «clausola sociale» sull'obbligo di riassorbimento del personale. Per i giudici, la cosiddetta clausola sociale deve essere interpretata conformemente ai principi nazionali e comunitari in materia di libertà di iniziativa imprenditoriale e di concorrenza.
Diversamente, risulterebbe altrimenti lesiva della concorrenza e tale da scoraggiare la partecipazione alla gara e limitando ultroneamente la platea dei partecipanti. I giudici hanno rilevato anche che occorre evitare che sia lesa la libertà d'impresa, riconosciuta e garantita dall'art. 41 della Costituzione, che sta a fondamento dell'autogoverno dei fattori di produzione e dell'autonomia di gestione propria dell'archetipo del contratto di appalto.
Da ciò il collegio di Palazzo Spada fa discendere che la clausola deve essere interpretata in modo da non limitare la libertà di iniziativa economica e, comunque, evitando di attribuirle un effetto automaticamente e rigidamente escludente.
L'obbligo di riassorbimento dei lavoratori alle dipendenze dell'appaltatore uscente nello stesso posto di lavoro e nel contesto dello stesso appalto, deve essere armonizzato e reso compatibile con l'organizzazione di impresa prescelta dall'imprenditore subentrante dal momento che la clausola sociale funge da strumento per favorire la continuità e la stabilità occupazionale dei lavoratori.
Si rinviene prova di questa finalità, dice la sentenza, nella circostanza che oltre alla possibilità di distrarre un lavoratore, assunto in virtù della clausola sociale, in altra commessa, la giurisprudenza ha affermato che i lavoratori, che non trovano spazio nell'organigramma dell'appaltatore subentrante e che non vengano ulteriormente impiegati dall'appaltatore uscente in altri settori, sono destinatari delle misure legislative in materia di ammortizzatori sociali
(articolo ItaliaOggi del 05.10.2018).
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MASSIMA
4. Il giudice di primo grado, avendo ritenuto illegittima l’internalizzazione del servizio CUP e avendo giudicato fondato il motivo sulla non economicità del ricorso all’internalizzazione ha assorbito la questione relativa all’assunzione a tempo indeterminato dei dipendenti di Ex..
Il motivo è stato riproposto però in grado di appello da Ex., con memoria tempestivamente prodotta entro il termine per la costituzione in giudizio, ai sensi dell’art. 101, comma 2, c.p.a..
Le modalità di assunzione del personale della Ex. non sono illegittime.
Giova premettere che la giurisprudenza di questa Sezione, che il Collegio condivide e fa propria, ha affermato che
la cd. clausola sociale deve essere interpretata conformemente ai principi nazionali e comunitari in materia di libertà di iniziativa imprenditoriale e di concorrenza, risultando altrimenti essa lesiva della concorrenza, scoraggiando la partecipazione alla gara e limitando ultroneamente la platea dei partecipanti, nonché atta a ledere la libertà d’impresa, riconosciuta e garantita dall’art. 41 Cost., che sta a fondamento dell’autogoverno dei fattori di produzione e dell’autonomia di gestione propria dell’archetipo del contratto di appalto. Corollario obbligato di questa premessa è che tale clausola deve essere interpretata in modo da non limitare la libertà di iniziativa economica e, comunque, evitando di attribuirle un effetto automaticamente e rigidamente escludente; conseguentemente, l’obbligo di riassorbimento dei lavoratori alle dipendenze dell’appaltatore uscente nello stesso posto di lavoro e nel contesto dello stesso appalto, deve essere armonizzato e reso compatibile con l’organizzazione di impresa prescelta dall’imprenditore subentrante (Cons. St., sez. III, 05.05.2017, n. 2078).
Quindi, secondo questo condivisibile indirizzo, la clausola sociale funge da strumento per favorire la continuità e la stabilità occupazionale dei lavoratori (Cons. St., sez. V, 07.06.2016, n. 2433; id., sez. III, 30.03.2016, n. 1255; id. 09.12.2015, n. 5598; id. 05.04.2013, n. 1896; id., sez. V, 25.01.2016, n. 242; id., sez. VI, 27.11.2014, n. 5890).
E che tale sia la finalità precipua della previsione, ne è prova la circostanza che oltre alla possibilità di distrarre un lavoratore, assunto in virtù della clausola sociale, in altra commessa, la giurisprudenza (Cons. St., sez. III, 05.05.2017, n. 2078) ha affermato che i lavoratori, che non trovano spazio nell’organigramma dell’appaltatore subentrante e che non vengano ulteriormente impiegati dall’appaltatore uscente in altri settori, sono destinatari delle misure legislative in materia di ammortizzatori sociali (Cons. St., sez. III, 30.03.2016, n. 1255).
La clausola sociale, dunque, ha come obiettivo principale la tutela dei lavoratori della società affidataria di un appalto cessato.

EDILIZIA PRIVATA: Responsabilità del venditore-costruttore per difetti dell'opera: chiarimenti dalla Cassazione.
Il venditore può essere chiamato a rispondere dei gravi difetti dell'opera, non soltanto quando i lavori siano eseguiti in economia, ma anche nell'ipotesi in cui la realizzazione dell'opera è affidata a un terzo.

La II Sez. civile della Corte di Cassazione, nell'ordinanza n. 23132/2018 depositata il 26 settembre, ha ribadito che "la denuncia di gravi difetti di costruzione, oltre che dal committente e suoi aventi causa, può essere fatta valere anche dagli acquirenti dell'immobile, in base al principio che le disposizioni di cui all'art. 1669 cod. civ. mirano a disciplinare le conseguenze dannose di quei difetti che incidono profondamente sugli elementi essenziali dell'opera e che influiscono sulla durata e solidità della stessa, compromettendone la conservazione e configurano, quindi, una responsabilità extracontrattuale, sancita per ragioni e finalità di interesse generale" (v. da Cass. II sez., 4622/2002 e anche Cass. 8109/1997).
Quindi, il venditore può essere chiamato a rispondere dei gravi difetti dell'opera, non soltanto quando i lavori siano eseguiti in economia, ma anche nell'ipotesi in cui la realizzazione dell'opera è affidata a un terzo, al quale non sia stata lasciata completa autonomia tecnica e decisionale, in quanto il venditore abbia mantenuto il potere di impartire direttive o di sorveglianza sullo svolgimento dell'altrui attività, sicché, anche in tali casi, la costruzione dell'opera è a lui riferibile (v. anche Cass. 567/2005; 2238/2012).
Infatti, va considerato che, proprio questa attività di interferenza o di controllo, così come quella di progettazione, documentano, in generale, il coinvolgimento del venditore committente e la sua corresponsabilità, salvo che, in ipotesi limite, sia dimostrata la incolpevole estraneità (commento tratto da www.casaeclima.com).
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MASSIMA
1.= Con l'unico motivo di ricorso Fa.Pi. e il Condominio Le.Te. lamentano la violazione dell'art. 1669 cod. civ. (art. 360 primo comma, n. 3 cod. proc. civ.).
Secondo i ricorrenti, la Corte distrettuale non avrebbe tenuto conto che laddove il committente, come sarebbe pacifico sia avvenuto nel caso di specie, nomini un direttore dei lavori e predisponga il capitolato, verrà considerato, ai fini dell'applicazione dell'art. 1669 cod. civ., alla stregua dell'appaltatore. Si verificherebbe, in questo caso, un mutamento nella qualificazione delle figure coinvolte nell'affare; il venditore, formalmente committente viene considerato appaltatore, l'acquirente finale viene considerato committente e le imprese che, materialmente realizzano l'opera, assumono il rango di sub appaltatore.
Deducono, ancora, i ricorrenti, che il costruttore venditore risponde, eventualmente, anche in solido con altri soggetti in tutti i casi in cui non lasci piena autonomia tecnica e decisionale alle imprese esecutrici.
1.a) Con il secondo motivo del ricorso incidentale, il ricorrente incidentale lamenta la violazione del disposto di cui all'art. 1669 cod. civ. (art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ.). Il ricorrente incidentale, in via preliminare, specifica di aderire ai rilievi svolti dal ricorrente principale e nel sostenerli; aggiunge qualche ulteriore considerazione.
1.1.= I motivi appena richiamati sono infondati.
La questione prospettata è stata già affrontata da questa Corte, che ha avuto modo di chiarire, che: "
la denuncia di gravi difetti di costruzione, oltre che dal committente e suoi aventi causa, può essere fatta valere anche dagli acquirenti dell'immobile, in base al principio che le disposizioni di cui all'art. 1669 cod. civ. mirano a disciplinare le conseguenze dannose di quei difetti che incidono profondamente sugli elementi essenziali dell'opera e che influiscono sulla durata e solidità della stessa, compromettendone la conservazione e configurano, quindi, una responsabilità extracontrattuale, sancita per ragioni e finalità di interesse generale" (v. da Cass. II sez., 4622/2002 e anche Cass. 8109/1997).
Quindi,
il venditore può essere chiamato a rispondere dei gravi difetti dell'opera non soltanto quando i lavori siano eseguiti in economia, ma anche nell'ipotesi in cui la realizzazione dell'opera è affidata a un terzo, al quale non sia stata lasciata completa autonomia tecnica e decisionale, in quanto il venditore abbia mantenuto il potere di impartire direttive o di sorveglianza sullo svolgimento dell'altrui attività, sicché, anche in tali casi, la costruzione dell'opera è a lui riferibile (v. anche Cass. 567/2005; 2238/2012).
Infatti, va considerato che, proprio questa attività di interferenza o di controllo, così come quella di progettazione, documentano, in generale, il coinvolgimento del venditore committente e la sua corresponsabilità, salvo che, in ipotesi limite, sia dimostrata la incolpevole estraneità.
Ora, nel caso in esame, la Corte distrettuale con proprio giudizio di merito (e contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti) ha escluso che il venditore committente avesse compartecipato, in modo attivo, alla realizzazione dell'opera di cui si dice, cioè, e, al contrario, ha accertato che il committente-venditore, nell'esecuzione dell'opera di che trattasi, aveva lasciato piena autonomia tecnica e decisionale all'impresa esecutrice, o, alle imprese esecutrici.
Infatti, come afferma la Corte distrettuale "( ) non è stato assolutamente dimostrato che l'appellante (venditore) avesse anche assunto la veste di costruttore, ovvero, che si fosse ingerito nella costruzione delle opere appaltate, così da ridurre l'impresa appaltatrice alla veste di "nudus minister" ( )".
E, di più, la Corte distrettuale ha ritenuto ininfluenti (a dimostrare la compartecipazione del committente venditore alla realizzazione dell'opera oggetto del giudizio), proprio quei dati per i quali i ricorrenti ritengono che il committente venditore abbia avuto piena compartecipazione alla realizzazione dell'opera di cui si dice: "(.....) l'appellante ha giustamente contestato la decisione di primo grado che ha ritenuto di affermare la sua responsabilità ex art. 1669 cod. civ., unicamente sul fatto che avesse nominato un direttore dei lavori (circostanza da ritenersi ininfluente, poiché la nomina del direttore dei lavori può essere fatta anche dal committente) nonché nella sua partecipazione ai sopralluoghi nel corso dei quali venivano esaminate le denunce dei vizi ed eventuali interventi per la loro eliminazione (...)".
E' questa, comunque, una valutazione di merito non suscettibile di essere vagliata nel giudizio di cassazione i essendo questo deputato a verificare la legittimità in diritto della sentenza impugnata (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 26.09.2018 n. 23132).

EDILIZIA PRIVATA: Ampliamento della volumetria preesistente all’esterno della sagoma esistente - Apertura di nuove pareti finestrate - Interventi classificabili come di “nuova costruzione” - Permesso di costruire o altro titolo equipollente - Necessità - Ristrutturazione cd. "minore" - Esclusione - Artt. 3, 10, 22, 44, d.P.R. n. 380/2001 - Giurisprudenza.
Gli interventi edilizi che comportano l'ampliamento della volumetria preesistente all'esterno della sagoma esistente l'apertura di nuovi pareti finestrate, possono essere realizzati solo con permesso di costruire o altro titolo equipollente trattandosi di interventi classificabili come di "nuova costruzione" ai sensi della lettera e.1) dell'art. 3, d.P.R. n. 380 del 2001 (Sez. 3, n. 38632 del 31/05/2017, Molari) e comunque non di ristrutturazione cd. "minore" (Sez. 3, n. 30575 del 20/05/2014, Limongi, secondo cui, l'apertura di "pareti finestrate" sulla facciata di un edificio, senza il preventivo rilascio del permesso di costruire, integra il reato previsto dall'art. 44 del d.P.R.n. 380 del 2001, poiché si tratta di un intervento edilizio comportante una modifica dei prospetti non qualificabile come ristrutturazione edilizia "minore", e per il quale, quindi, non è sufficiente la mera denuncia di inizio attività; conf., Sez. 3, n. 921 del 10/10/2017, dep. 2018, Carenza; Sez. 3, n. 38853 del 05/04/2017, Zizzi) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 25.09.2018 n. 41256 - link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Licenziabile il dipendente pubblico che non si «astiene» in caso di conflitto di interessi anche potenziale.
In presenza di una situazione di conflitto di interessi, l codice di comportamento dei dipendenti pubblici impone ai responsabili del procedimento l'obbligo di segnalazione e rilevazione ma soprattutto il dovere di astensione dal procedimento.
La stessa legge 241/1990 prevede espressamente che:
«Il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale devono astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale».
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MASSIMA
28. Il terzo e il quarto motivo, da trattarsi congiuntamente, presentano profili di infondatezza e di inammissibilità.
29. Sono infondate le censure (terzo motivo) che addebitano alla sentenza di avere formulato il giudizio di rilevanza disciplinare delle condotte poste a base del licenziamento con riguardo alla sola disposizione contenuta nell'art. 6-bis della L. n. 241 del 1990.
30. Diversamente da quanto prospetta il ricorrente, la Corte territoriale, in coerenza con la contestazione disciplinare, ha ricostruito il quadro normativo che regola le situazioni di conflitto di interesse richiamando l'obbligo di astensione, di cui all'art. 3, c. 5, lett. p), del regolamento di disciplina, l'art. 6-bis della L. n. 241 del 1990 e gli artt. 6 e 7 del D.P.R. n. 62 del 2013, recante il Codice di Comportamento dei Dipendenti Pubblici (cfr. punto 6 di questa sentenza).
31. Quanto alla dedotta inapplicabilità della L. 07.08.1990, n. 241 alla fattispecie dedotta in giudizio (terzo motivo), il Collegio osserva che è innegabile che questa legge disciplini il procedimento amministrativo e il diritto di accesso ai documenti amministrativi.
32. E' altrettanto indubitabile, però, che l'art. 6-bis della L. n. 241, introdotto dall'art. 1, c. 41, della L. 06.11.2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione) ha imposto una precisa regola di condotta del pubblico dipendente che rivesta il ruolo di responsabile del procedimento, avendo previsto che "Il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale devono astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale".
33. L'obbligo di segnalazione dei conflitti di interesse anche solo "potenziale" e il dovere di astensione dalle attività di ufficio che possano coinvolgere interessi privati risultano riaffermati anche dal D.P.R. 16.04.2013, n. 62 (Regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell'articolo 54 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165).
34. Il D.P.R. innanzi richiamato impone (art. 6) al pubblico dipendente "Fermi restando gli obblighi di trasparenza previsti da leggi o regolamenti" di informare per iscritto il dirigente dell'ufficio di tutti i rapporti, diretti o indiretti, di collaborazione con soggetti privati in qualunque modo retribuiti che lo stesso abbia o abbia avuto negli ultimi tre anni, precisando:
   a) se in prima persona, o suoi parenti o affini entro il secondo grado, il coniuge o il convivente abbiano ancora rapporti finanziari con il soggetto con cui ha avuto i predetti rapporti di collaborazione;
   b) se tali rapporti siano intercorsi o intercorrano con soggetti che abbiano interessi in attività o decisioni inerenti all'ufficio, limitatamente alle pratiche a lui affidate e di astenersi "dal prendere decisioni o svolgere attività inerenti alle sue mansioni in situazioni di conflitto, anche potenziale, di interessi con interessi personali, del coniuge, di conviventi, di parenti, di affini entro il secondo grado, e precisa che "il conflitto può riguardare interessi di qualsiasi natura, anche non patrimoniali, come quelli derivanti dall'intento di voler assecondare pressioni politiche, sindacali o dei superiori gerarchici".
35. Esso prescrive al pubblico dipendente (art. 7) anche di astenersi dal partecipare all'adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi, oppure di persone con le quali abbia rapporti di frequentazione abituale, ovvero, di soggetti od organizzazioni con cui egli o il coniuge abbia causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito significativi, ovvero di soggetti od organizzazioni di cui sia tutore, curatore, procuratore o agente, ovvero di enti, associazioni anche non riconosciute, comitati, società o stabilimenti di cui sia amministratore o gerente o dirigente e di astenersi in ogni altro caso in cui esistano gravi ragioni di convenienza.
36. Il D.P.R. citato obbliga (art. 9), poi, il pubblico dipendente ad assicurare l'adempimento degli obblighi di trasparenza previsti in capo alle pubbliche amministrazioni secondo le disposizioni normative vigenti, prestando la massima collaborazione nell'elaborazione, reperimento e trasmissione dei dati sottoposti all'obbligo di pubblicazione sul sito istituzionale.
37. Nel contesto normativo, di fonte legale e regolamentare, innanzi ricostruito è corretta l'affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo cui ciò che rileva è il conflitto che in astratto (potenziale) può verificarsi e che è, di contro, ininfluente che esso si sia nel concreto realizzato, ove si consideri che gli obblighi imposti al pubblico dipendente mirano a garantire la trasparenza e l'imparzialità dell'azione amministrativa e, ad un tempo, a prevenire fenomeni di corruzione.
38. Le prospettazioni difensive (quarto motivo) che muovono dall'assunto che l'art. 16, c. 2, del D.P.R. n. 62 del 2013 esclude espressamente che per i conflitti meramente potenziali l'Ente pubblico possa adottare sanzioni espulsive sono infondate.
39. In primo luogo perché esse non si confrontano con il dato letterale e sistematico della norma.
40. L'art. 16, c. 1, dopo avere attribuito rilievo disciplinare alla violazione degli obblighi previsti Codice, prevedendo che essa integra comportamenti contrari ai doveri d'ufficio, dispone che, "ferme restando le ipotesi in cui la violazione delle disposizioni contenute nel presente Codice, nonché dei doveri e degli obblighi previsti dal piano di prevenzione della corruzione, dà luogo anche a responsabilità penale, civile, amministrativa o contabile del pubblico dipendente, essa è fonte di responsabilità disciplinare accertata all'esito del procedimento disciplinare, nel rispetto dei principi di gradualità e proporzionalità delle sanzioni".
41. L'art. 16 cit. dispone, inoltre (c. 2), che, ai fini della determinazione del tipo e dell'entità della sanzione disciplinare concretamente applicabile, la violazione è valutata in ogni singolo caso con riguardo alla gravità del comportamento e all'entità del pregiudizio, anche morale, derivatone al decoro o al prestigio dell'amministrazione di appartenenza e che le sanzioni applicabili sono quelle previste dalla legge, dai regolamenti e dai contratti collettivi "incluse quelle espulsive che possono essere applicate esclusivamente nei casi, da valutare in relazione alla gravità, di violazione delle disposizioni di cui agli articoli 4, qualora concorrano la non modicità del valore del regalo o delle altre utilità e l'immediata correlazione di questi ultimi con il compimento di un atto o di un'attività tipici dell'ufficio, 5, comma 2, 14, comma 2, primo periodo, valutata ai sensi del primo periodo. La disposizione di cui al secondo periodo si applica altresì nei casi di recidiva negli illeciti di cui agli articoli 4, comma 6, 6, comma 2, esclusi i conflitti meramente potenziali, e 13, comma 9, primo periodo".
42. Il richiamato art. 16, in conformità ed in coerenza con le disposizioni contenute negli artt. 55, c. 2, e 55-quater (nel testo applicabile "ratione temporis" risultante dalla riforma di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001) ribadisce la facoltà dei contratti collettivi di "prevedere ulteriori criteri di individuazione delle sanzioni applicabili in relazione alle tipologie di violazione del presente codice" e, con norme di chiusura, fa salvi "la comminazione del licenziamento senza preavviso per i casi già previsti dalla legge, dai regolamenti e dai contratti collettivi" (c. 3) e "gli ulteriori obblighi e le conseguenti ipotesi di responsabilità disciplinare dei pubblici dipendenti previsti da norme di legge, di regolamento o dai contratti collettivi".
43. Ebbene, non è in discussione che il licenziamento dedotto in giudizio è stato fondato anche sulla violazione del dovere di astensione imposto dall'art. 3, c. 5, lett. p), del regolamento di disciplina del Comune e degli obblighi di cui all'art. 3, c. 7, lett. i), del CCNL del Comparto Regioni ed Autonomie Locali (violazioni di doveri di comportamento non ricomprese specificamente nelle lettere precedenti di gravità tale da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro).
44. In secondo luogo, perché, rispetto all'assunto, come detto erroneo (punto 37 di questa sentenza), che il c. 2 dell'art. 16 del citato D.P.R. esclude l'applicabilità della sanzione risolutiva nei casi di conflitto potenziale, è decisiva la circostanza che la Corte territoriale ha accertato che nella fattispecie dedotta in giudizio il conflitto di interessi era stato concreto e reale e non meramente potenziale.
Tanto in ragione della responsabilità della intera attività istruttoria che ricade per legge sul pubblico dipendente responsabile del procedimento e del fatto che risultava provato che il Ro. era socio unico della Im.So. srl e titolare della quota di partecipazione del 50% della Ed. srl
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 25.09.2018 n. 22683).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza considera la canna fumaria ordinariamente un volume tecnico e, come tale, un'opera priva di autonoma rilevanza urbanistico-funzionale, per la cui realizzazione non è necessario il permesso di costruire, senza essere conseguentemente soggetta alla sanzione della demolizione, a meno che non si tratti di opere di palese evidenza rispetto alla costruzione ed alla sagoma dell'immobile, occorrendo solo in tal caso il permesso di costruire.
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Con il presente ricorso è stato impugnato il provvedimento del 31.10.2017 del Responsabile del Servizio demanio e patrimonio del Comune di Anguillara con cui è stata disposta la demolizione di una canna fumaria realizzata in assenza di titolo abilitativo, in via del Forno 1.
Il provvedimento fa riferimento a due sopralluoghi entrambi del 20.06.2017 (ma per il secondo potrebbe essere erroneamente indicata la data), nei quali è stata accertata -nel primo sopralluogo- la presenza di una canna fumaria in acciaio alta 2.5 metri realizzata in contrasto con l’art. 47 del regolamento edilizio riguardante la distanza tra i fabbricati ed in assenza del titolo edilizio e paesaggistico; nel secondo sopralluogo, al posto di quella in acciaio, la presenza di una canna fumaria “probabilmente in eternit, diversa per altezza e diametro e materiale dalla precedente, in assenza di titoli abilitativi”.
La canna fumaria in acciaio è stata oggetto di una comunicazione di avvio del procedimento in data 14.07.2017.
Il ricorrente ha esposto in fatto che, a seguito della comunicazione di avvio del procedimento, ha rimosso la canna in acciaio il 27.07.2017 (depositando la relativa comunicazione al Comune), sfilando la copertura di acciaio che ricopriva la vecchia canna fumaria, mentre quest’ultima era risalente nel tempo, essendo stato il locale destinato ad attività di ristorazione almeno dal 1973 e l’immobile comunque realizzato prima del 1967 ed ha depositato atti di compravendita e dichiarazioni di successione relativi all’immobile.
Ha dedotto, inoltre, di avere inviato il 13.11.2017 una richiesta di accesso agli atti mai evasa dal Comune e ha formulato le seguenti censure in diritto: violazione dell’art. 25 della legge n. 241 del 1990; del principio del contraddittorio; degli articoli 4, 5, 6 e 47 del Regolamento edilizio del Comune; eccesso di potere; travisamento dei fatti; difetto di istruttoria.
Nessuno si è costituito per il Comune di Anguillara Sabazia e per la controinteressata.
A seguito della camera di consiglio del 13.02.2018, è stata accolta la domanda cautelare ai fini del riesame, che non risulta successivamente effettuato dall’Amministrazione neppure a seguito della ordinanza istruttoria del 12.06.2018 con cui sono stati chiesti chiarimenti circa tale incombente.
Alla camera di consiglio del 12.09.2017, il ricorso è stato trattenuto in decisione per una pronuncia in forma semplificata.
Il ricorso è fondato.
Il provvedimento impugnato dispone la demolizione di opere edilizie “consistenti nell’aver realizzato una canna fumaria”; nelle premesse del provvedimento di demolizione si fa riferimento a due sopralluoghi entrambi del 20.06.2017, che hanno accertato l’esistenza di due canne fumarie differenti, una in acciaio (in contrasto con l’art. 47 del Regolamento edilizio comunale per la violazione della distanza minima dalla finestra della controinteressata e priva di titoli edilizi e paesaggistici); successivamente un’altra “probabilmente” in eternit, di cui si riferisce che dalla istruttoria tecnica “emerge che il manufatto è stato realizzato in assenza di titoli abilitativi” (senza più riferimento né alla violazione delle distanze né alla mancanza di titolo paesaggistico).
Il ricorrente ha affermato di avere rimosso la canna fumaria in acciaio (evidentemente una mera copertura di quella in eternit) a seguito della comunicazione di avvio del procedimento del 14.07.2017 (che faceva riferimento alla sola canna fumaria in acciaio) e di avere comunicato tale circostanza al Comune nella nota presentata agli uffici comunali il 27.07.2017.
Ne deriva che, alla data di adozione del provvedimento impugnato, il 31.10.2017, la canna fumaria in acciaio era comunque stata rimossa (non essendo stata più rilevata anche nel secondo sopralluogo della Polizia locale); pertanto il provvedimento, pur generico nella individuazione dell’opera da demolire, non può che essere rivolto alla vecchia canna fumaria.
In relazione a tale canna fumaria, il provvedimento contiene un riferimento ad una istruttoria tecnica, di cui il Comune non ha fornito alcuna documentazione né al ricorrente (che ha presentato domanda di accesso il 13.11.2017) né nel presente giudizio a seguito delle ordinanze del Tribunale.
E’, quindi, fondata la censura di difetto di istruttoria formulata in ricorso, in quanto dal provvedimento impugnato non risultano né le dimensioni della canna fumaria (che si afferma essere “probabilmente” in eternit e di dimensioni differenti da quella precedente) né la sua presumibile epoca di realizzazione, la cui risalenza nel tempo, peraltro, deve essere stata riconosciuta anche dal Comune che, oltre alla indicazione del materiale, non più utilizzabile da anni, non ha fatto più riferimento al regolamento edilizio comunale e alla violazione delle distanze, nonché alla carenza di titolo paesaggistico.
Si deve tenere presente, in primo luogo, che la giurisprudenza considera la canna fumaria ordinariamente un volume tecnico e, come tale, un'opera priva di autonoma rilevanza urbanistico-funzionale, per la cui realizzazione non è necessario il permesso di costruire, senza essere conseguentemente soggetta alla sanzione della demolizione, a meno che non si tratti di opere di palese evidenza rispetto alla costruzione ed alla sagoma dell'immobile, occorrendo solo in tal caso il permesso di costruire (TAR Campania-Napoli, 03.07.2015, n. 3612; 01.10.2012 n. 4005) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 25.09.2018 n. 9553 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini della corretta individuazione dell'abuso edilizio utile a legittimare l'intervento repressivo dell'Amministrazione anche a distanza di anni, la disamina dell'effettiva esistenza o meno del titolo abilitativo prescritto dalla legge deve essere effettuata in relazione al regime giuridico vigente -non al momento in cui il Comune adotta il provvedimento, bensì- all'epoca in cui le opere edilizie sono state realizzate.
Un'opera può essere, infatti, qualificata in termini di abuso edilizio, esclusivamente a condizione che, all'epoca in cui la stessa è stata realizzata, la normativa vigente prescrivesse l'obbligo di chiedere ed ottenere il previo rilascio della licenza edilizia o della concessione edilizia o, ancora, del permesso di costruire, a seconda delle discipline giuridiche susseguitesi nel tempo.

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Dalla fotografia depositata in giudizio dalla difesa ricorrente, la canna fumaria appare di rilevanti dimensioni, ma sia per i materiali utilizzati che per l’aspetto esteriore, deve ritenersi realizzata in tempi risalenti.
In materia edilizia, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, n. 9 del 2017, ha escluso la rilevanza dell’aspetto temporale rispetto alla legittimità del provvedimento di demolizione; nel caso di specie, tale profilo avrebbe dovuto essere considerato in relazione alla natura dell’opera realizzata e alla disciplina edilizia all’epoca vigente, ai fini della stessa qualificazione dell’abuso.
Peraltro, ai fini della corretta individuazione dell'abuso edilizio utile a legittimare l'intervento repressivo dell'Amministrazione anche a distanza di anni, la disamina dell'effettiva esistenza o meno del titolo abilitativo prescritto dalla legge deve essere effettuata in relazione al regime giuridico vigente -non al momento in cui il Comune adotta il provvedimento, bensì- all'epoca in cui le opere edilizie sono state realizzate. Un'opera può essere, infatti, qualificata in termini di abuso edilizio, esclusivamente a condizione che, all'epoca in cui la stessa è stata realizzata, la normativa vigente prescrivesse l'obbligo di chiedere ed ottenere il previo rilascio della licenza edilizia o della concessione edilizia o, ancora, del permesso di costruire, a seconda delle discipline giuridiche susseguitesi nel tempo (Tar Lazio, sezione II-bis, 10.05.2017, n. 5662).
Dal provvedimento impugnato non risulta alcun riferimento alla presumibile data di realizzazione dell’opera, pur risultando evidente sia per la natura dei materiali utilizzati (rilevati dallo stesso Comune) che per l’aspetto esteriore, in base alla fotografia depositata in giudizio dal ricorrente, che si tratta di una opera risalente nel tempo.
Inoltre, nel provvedimento impugnato non vi è alcuna indicazione circa la disciplina edilizia anteriore al 2001. Infatti, vengono richiamati il d.p.r. n. 380 del 2001 -in particolare l’art. 31- la legge regionale n. 15 del 2008, il d.lgs. n. 42 del 2004.
Il regolamento edilizio comunale approvato con delibera del 16.04.1980, all’art. 5, punto 16, richiedeva l’autorizzazione per l’installazione di canne fumarie “che comportano l’esecuzione di modifiche alle strutture e/o all’architettura esterna della costruzione”; l’art. 10 della legge n. 47 del 1985 prevedeva la sola sanzione pecuniaria per l'esecuzione di opere in assenza dell'autorizzazione prevista dalla normativa vigente o in difformità da essa (ma l’opera, in base a quanto affermato dal ricorrente, sarebbe stata realizzata anche prima del 1973 o del 1967).
In tale contesto il Comune ha completamente omesso qualsiasi indagine, dando per scontata la misura demolitoria, senza alcun riferimento né alla tipologia della canna fumaria né alla disciplina edilizia applicabile al momento di realizzazione dell’opera.
L’assoluta genericità del provvedimento impugnato sotto tali profili conduce all’accoglimento del ricorso e all’annullamento del provvedimento impugnato, salva la ulteriore attività amministrativa anche relativa alla conformità della canna fumaria esistente alle norme vigenti sotto altri profili (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 25.09.2018 n. 9553 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIl concorrente all'appalto deve garantire trasparenza.
Con la recente sentenza 24.09.2018 n. 5500, la sez. V del Consiglio di stato ha affermato che «i principi di lealtà e affidabilità professionale dell'aspirante contraente presiedono in genere ai contratti e in specifico modo, per ragioni inerenti alle finalità pubbliche dell'appalto e dunque a tutela di economia e qualità della realizzazione, alla formazione dei contratti pubblici e agli inerenti rapporti con la stazione appaltante».
Infatti, ogni concorrente all'appalto deve segnalare tutti gli eventi della propria vita professionale potenzialmente rilevanti per il giudizio della stazione appaltante in ordine alla sua affidabilità quale futuro contraente e ciò a prescindere dalla fondatezza, gravità e pertinenza di tali episodi. La mendacità (o anche la mera omissione) della dichiarazione comporta l'esclusione dalla gara ai sensi dell'art. 75, dpr n. 445/2000, e dell'art. 45, direttiva 2004/18/Ue (par. 2).
Detti principi valgono anche in caso di vicende soggettive societarie posto che l'art. 2504-bis, comma 1 c.c., sancisce che la società risultante dalla fusione o quella incorporante assume i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti anteriori alla fusione, per cui in capo all'incorporante sussistono gli obblighi dichiarativi e le possibili conseguenze espulsive previste dal dlgs n. 50/2016, anche con riferimento alle società partecipanti alla fusione.
Il collegio, quindi, ha sentenziato che un conto è l'ammissibilità del concorrente valutato sotto il profilo dei suoi precedenti penali, un conto è la sua ammissibilità valutata in base alla lealtà, all'affidabilità e al fair play con la stazione appaltante, il cui corollario principale consiste nell'anzidetto obbligo dichiarativo.
Nel caso di specie, poi, essendo intervenuta una transazione tra l'appellante e il comune resistente, posto che detta transazione non conteneva alcuna ammissione di colpa, erano impregiudicate le valutazioni del seggio di gara (articolo ItaliaOggi del 05.10.2018).
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MASSIMA
4. L’art. 38, comma 1, lett. f), stabilisce che sono esclusi, secondo motivata valutazione della stazione appaltante, i concorrenti che hanno commesso grave negligenza o malafede nell'esecuzione delle prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce la gara; o che hanno commesso un errore grave nell'esercizio della loro attività professionale, accertato con qualsiasi mezzo di prova da parte della stazione appaltante.
La Sezione con la sentenza 11.06.2018, n. 3592, pur applicata con riferimento all’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. n. 50 del 2016, ma esplicante principi applicabili a maggior ragione nel sistema antecedente, ha affermato che
sussiste in capo alla stazione appaltante un potere di apprezzamento discrezionale in ordine alla sussistenza dei requisiti di “integrità o affidabilità” dei concorrenti: costoro, al fine di rendere possibile il corretto esercizio di tale potere, sono tenuti a dichiarare qualunque circostanza che possa ragionevolmente avere influenza sul processo valutativo demandato all’Amministrazione; deve inoltre ritenersi che le condotte significative ai fini di una possibile esclusione non siano solo quelle poste in essere nell’ambito della gara all’interno della quale la valutazione di “integrità o affidabilità” dev’essere compiuta, ma anche quelle estranee a detta procedura.
5. Da ciò discende che l’odierna appellante era tenuta a dichiarare le significative carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione che ne avevano causato la risoluzione anticipata, rientrando nell'ambito dell'obbligo dichiarativo di cui si discute tutti gli eventi che, benché oggetto di contestazione ed ancora sub iudice, avessero dato corso ad azioni di risoluzione contrattuale ovvero ad azioni risarcitorie ad iniziativa del committente pubblico, in ragione della (valutata) commissione di gravi errori nell'esecuzione dell'attività professionale.
Nel caso di specie, la notificazione, nel settembre 2005, dell’atto di citazione da parte del Comune di Taranto, con cui era stata esercitata l’azione di risoluzione giudiziale, presupponeva necessariamente l'avvenuta definizione, in sede amministrativa, dell'accertamento del grave inadempimento; pertanto, non può ritenersi che si tratti di vicende sopravvenute e, come tali, irrilevanti a fini dichiarativi.
A nulla rileva al riguardo la circostanza che la commissione giudicatrice abbia qualificato come definitiva la pronuncia del Tribunale Civile di Taranto, trattandosi di espressione atecnica per significare, all’evidenza, che si tratta di definizione del giudizio di cognizione e che non trattavasi di pronuncia parziale o interlocutoria.
Del resto, come affermato da questa Sezione (da ultimo, con sentenza Consiglio di Stato, sez. V, 11.12.2017, n. 5811),
la fattispecie ex art. 38, comma 1, lett. f), d.lgs. n. 163/2006 vuole garantire la possibilità dell’Amministrazione di effettuare valutazioni e soppesare la rilevanza del fatto storico dell’inadempimento.
La tematica, infatti, esprime gli immanenti principi di lealtà e affidabilità e professionale dell’aspirante contraente che presiedono in genere ai contratti e in specifico modo –per ragioni inerenti alle finalità pubbliche dell’appalto e dunque a tutela di economia e qualità della realizzazione- alla formazione dei contratti pubblici e agli inerenti rapporti con la stazione appaltante. Non si rilevano validi motivi per non effettuare una tale dichiarazione, posto che spetta comunque all’amministrazione la valutazione dell’errore grave che può essere accertato con qualunque mezzo di prova
(cfr. Cons. Stato, V, 26.07.2016, n. 3375).
Il concorrente è perciò tenuto a segnalare tutti i fatti della propria vita professionale potenzialmente rilevanti per il giudizio della stazione appaltante in ordine alla sua affidabilità quale futuro contraente, a prescindere da considerazioni su fondatezza, gravità e pertinenza di tali episodi.
La dichiarazione mendace su di un requisito di importanza vitale non può che comportare l’esclusione della concorrente, la quale, celando un importante precedente sui gravi illeciti professionali, si è così posta al di fuori della disciplina della gara, non consentendo alla stazione appaltante potesse svolgere un vaglio adeguato e a tutto campo.
6. Pertanto, è del tutto infondato il primo motivo di appello in cui si sostiene che la sentenza impugnata sarebbe affetta dalla violazione dell’art. 112 c.p.c. e dal vizio di eccesso di potere giurisdizionale, atteso che la valutazione della stazione appaltante “si focalizza...sul venir meno di un requisito, e non certamente sulla omessa dichiarazione di una situazione antecedente alla partecipazione alla gara”, poiché per la stazione appaltante l’omessa dichiarazione sarebbe stata del tutto irrilevante ai fini dell’esclusione del concorrente.
Dalla semplice lettura del provvedimento di esclusione e dei verbali della Commissione di gara si evince espressamente che “l’intervenuta sentenza di risoluzione del Contratto del 07.08.1997 per gravissimi inadempimenti contrattuali imputabili alle imprese esecutrici e la contestuale condanna al risarcimento in favore del Comune di Taranto del danno arrecato, pronunciata dal Tribunale di Taranto, determina una insanabile incrinatura sia in relazione all’affidabilità professionale dell’impresa e, quindi, sull’opportunità di aggiudicare un nuovo appalto alla stessa; inoltre, l’assoluta mancanza di qualunque menzione/segnalazione in sede di partecipazione alla procedura di gara in oggetto di tale procedimento giudiziario all’epoca in corso, deteriora il rapporto fiduciario che deve pervadere nei rapporti tra le Amministrazioni Pubbliche e le imprese deputate all’esecuzione di appalti pubblici”.
7.
Il mancato cenno alle risoluzioni contrattuali disposte è una ragione autonoma per disporre l’esclusione dalla procedura, poiché il combinato disposto dell’art. 38, comma 1, lett. d) e dell’art. 38, comma 2, conduce alla obbligatorietà per i concorrenti di dichiarare a pena di esclusione la sussistenza dei precedenti professionali dai quali la stazione appaltante può discrezionalmente desumere l’inaffidabilità (cfr., da ultimo, Consiglio di Stato, sez. V, 16.02.2017, n. 712).
In questa prospettiva,
non rileva la gravità dell’errore commesso: non si può soppesare la rilevanza e la qualità di un fatto che era onere del concorrente rappresentare e che è stato invece espressamente celato. Una dichiarazione non veridica è di per sé causa di esclusione.
La dichiarazione mendace porta all’esclusione dalla gara anche per l’art. 75, d.P.R. n. 445 del 2000, nonché per l’art. 45, Direttiva 2004/18/UE, la quale, al paragrafo 2, espressamente statuisce che va escluso il concorrente «che si sia reso gravemente colpevole di false dichiarazioni nel fornire le informazioni che possono essere richieste a norma della presente sezione o che non abbia fornito dette informazioni».
La circostanza che si tratti di dichiarazione non veritiera (e non di omessa dichiarazione) osta al soccorso istruttorio, come emerge con chiarezza dall’art. 38, comma 2-bis, d.lgs. n. 163 del 2006, atteso che il soccorso istruttorio è utilizzabile solo in caso di mancanza, incompletezza o irregolarità delle dichiarazioni e non già a fronte di dichiarazioni non veritiere
(cfr., da ultimo, Consiglio di Stato, sez. V, 16.02.2017, n. 712).
8. In ogni caso la Stazione appaltante ha valutato, nell'esercizio della sua discrezionalità tecnica, l'incidenza ostativa alla instaurazione del nuovo rapporto contrattuale dei gravissimi inadempimenti in esame, anche in ragione della citata pronuncia del 2016, che ha accertato in sede giurisdizionale quanto già prospettato in sede amministrativa dallo stesso Comune e la cui valutazione non è inficiata da alcun profilo di manifesta irragionevolezza, illogicità o erroneità.
Le vicende soggettive dovute, prima alla fusione per incorporazione e, successivamente, per affitto del ramo di azienda non esimevano l’appellante CCC Co.Co.Co. dall’assoggettamento alla causa di esclusione in esame, attesa la continuità nel soggetto nato dalla fusione per incorporazione che prosegue sotto la nuova identità della società incorporante/affittante, poiché le predette trasformazioni societarie non determinano l’estinzione dell’originario soggetto, bensì l’integrazione reciproca delle società partecipanti all’operazione, costituendo una vicenda meramente evolutiva del medesimo soggetto, che conserva la propria identità pur in un nuovo assetto organizzativo.
Infatti, l’art. 2504-bis, comma 1, c.c., nel testo modificato dal d.lgs. n. 6/2003 (Riforma del diritto societario), sancisce che la società risultante dalla fusione o quella incorporante (nell’ipotesi di fusione per incorporazione) assume i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti anteriori alla fusione. Ed infatti non si determina l’estinzione della società incorporata, né l’istituzione di un nuovo soggetto di diritto, ma si realizza una integrazione reciproca delle società partecipanti alla fusione, dando vita ad una vicenda meramente evolutiva- modificativa del medesimo soggetto giuridico che conserva la propria identità, seppur in un nuovo assetto organizzativo.
Ciò significa che in capo all’incorporante sussistono gli obblighi dichiarativi e le possibili conseguenze espulsive di cui all’art. 38 del Codice dei Contratti, anche con riferimento alle società partecipanti alla fusione (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 26.05.2015, n. 3910).
9. Né è rilevante che il Comune di Taranto sarebbe stato a conoscenza del giudizio civile citato, atteso che l'art. 38, comma 1, lett. f), d.lgs 12.04.2006, n. 163 impone un obbligo dichiarativo a prescindere dal fatto che la stazione appaltante sia la stessa presso la quale si svolge il procedimento di scelta del contraente, giacché tale dichiarazione attiene ai principi di lealtà e affidabilità contrattuale e professionale che presiedono ai rapporti dei partecipanti con la stazione appaltante (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, Sez. V, 18.01.2016, n. 122 e 11.12.2014, n. 6105).

APPALTI: Malfunzionamento del sistema informatico in sede di presentazione di un’offerta in una gara d’appalto.
Nell’ambito di una procedura ad evidenza pubblica in cui vi è un’unica modalità di presentazione dell’offerta, predeterminata dalla stazione appaltante, senza margine di scelta per il concorrente, e il cui controllo è sottratto al concorrente stesso, il malfunzionamento del sistema di presentazione dell’offerta non può andare a danno dell’offerente.
Nella logica di leale collaborazione che informa i rapporti tra Amministrazione e amministrato, il concorrente deve farsi parte diligente nel presentare correttamente e tempestivamente la propria offerta e la stazione appaltante deve mettere l’operatore economico in condizione di partecipare alla gara.
Pertanto, a fronte di un malfunzionamento del sistema telematico di gestione della gara, deve essere data la possibilità all’operatore economico di presentare la propria offerta di modo da garantire la par condicio competitorum
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 19.09.2018 n. 2109 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
Alla luce degli elementi istruttori acquisiti in esecuzione dell’ordinanza collegiale n. 1368/2018, il ricorso è fondato.
ARCA S.p.A. ha, infatti, testualmente dichiarato che «Dalle verifiche tecniche effettuate risultano essersi verificati malfunzionamenti della piattaforma Sintel nella giornata del 17/01/2018 dalle ore 11:30 alle ore 11:55, durante le attività svolte in piattaforma dall’operatore economico RTI FA. S.p.A. - SA.CA. S.r.l.».
Nell’ambito di una procedura ad evidenza pubblica in cui vi è un’unica modalità di presentazione dell’offerta, predeterminata dalla stazione appaltante, senza margine di scelta per il concorrente, e il cui controllo è sottratto al concorrente stesso, il malfunzionamento del sistema di presentazione dell’offerta non può andare a danno dell’offerente. Nella logica di leale collaborazione che informa i rapporti tra Amministrazione e amministrato, il concorrente deve farsi parte diligente nel presentare correttamente e tempestivamente la propria offerta, e la stazione appaltante deve mettere l’operatore economico in condizione di partecipare alla gara.
Pertanto, a fronte di un malfunzionamento del sistema telematico di gestione della gara, deve essere data la possibilità all’operatore economico di presentare la propria offerta di modo da garantire la par condicio competitorum.
Né vale sostenere –secondo la tesi propugnata dalla ASST Ovest Milanese– che rientra nella diligenza del concorrente avviare le procedure di caricamento a sistema dell’offerta con congruo anticipo rispetto alla scadenza, al fine di minimizzare i rischi di un malfunzionamento della piattaforma.
È infatti palese come la valutazione di “congruità” presenti, almeno di norma, un grado di insuperabile indeterminatezza, tale che si giungerebbe ad una dequotazione del termine perentorio di presentazione delle offerte (cfr., C.d.S., Sez. V, sentenza n. 4135/2017), con una perdita di certezza delle regole della competizione.
Aderendo a tale impostazione, il rispetto del canone della diligenza professionale finirebbe, infatti, per variare caso per caso, in relazione a valutazioni non predeterminabili a priori dall’operatore economico, che non saprebbe quale sia la condotta in concreto da esso esigibile e quando incorra in negligenza.
In conclusione, il ricorso è fondato e viene accolto.
Per l’effetto gli atti, in epigrafe indicati, di diniego di riapertura del termine di presentazione delle offerte sono annullati.

EDILIZIA PRIVATA: Reati edilizi - Mutamento di destinazione d'uso senza opere - SCIA o permesso di costruire - Presupposti - Stessa categoria urbanistica - Categoria omogenea - Centri storici - Art. 44, lett. a), d.P.R. n. 380/2001 - Giurisprudenza.
In tema di reati edilizi, il mutamento di destinazione d'uso senza opere è assoggettato a SCIA, purché intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una stessa categoria omogenea (Sez. 3, n. 26455 del 05/04/2016 - dep. 24/06/2016, P.M. in proc. Stellato).
Destinazione d'uso - Funzione - Organizzazione e gestione del territorio comunale - Mutamento della destinazione d'uso - Aggravamento del carico urbanistico - Regimi urbanistico-contributivi diversi.
La destinazione d'uso è un elemento che qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione. Essa individua il bene sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona.
L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello stesso vengono, infatti, realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando appunto il complessivo assetto territoriale.
Non è, perciò, sufficiente dimostrare che il mutamento della destinazione d'uso sia stato eseguito in assenza di opere edilizie interne, ma occorre dimostrare che il cambio della destinazione presenti il requisito dell'omogeneità, nel senso che sia intervenuto tra categorie urbanistiche omogenee perché il cambio, allorquando investe categorie urbanistiche disomogenee di utilizzazione, determina un aggravamento del carico urbanistico esistente.
Pertanto, è giuridicamente rilevante solo il mutamento di destinazione d'uso tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, posto che nell'ambito delle stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma non diversi regimi urbanistico-contributivi stante le sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell'ambito della medesima categoria
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.09.2018 n. 40678 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: La destinazione d'uso è un elemento che qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione. Essa individua il bene sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona.
L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello stesso vengono, infatti, realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando appunto il complessivo assetto territoriale.
Non è, perciò, sufficiente dimostrare che il mutamento della destinazione d'uso sia stato eseguito in assenza di opere edilizie interne, ma occorre dimostrare che il cambio della destinazione presenti il requisito dell'omogeneità, nel senso che sia intervenuto tra categorie urbanistiche omogenee perché il cambio, allorquando investe categorie urbanistiche disomogenee di utilizzazione, determina, come nella specie, un aggravamento del carico urbanistico esistente.
Pertanto,
è giuridicamente rilevante solo il mutamento di destinazione d'uso tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, posto che nell'ambito delle stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma non diversi regimi urbanistico-contributivi stanti le sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell'ambito della medesima categoria.
Va, quindi, conclusivamente ribadito che,
in tema di reati edilizi, il mutamento di destinazione d'uso senza opere è assoggettato a SCIA, purché intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una stessa categoria omogenea.

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2. Il primo motivo è infondato, essendo prevalentemente articolato in fatto.
Questa Corte ha chiarito che la destinazione d'uso è un elemento che qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione. Essa individua il bene sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona (Sez. 3, n. 9894 del 20/01/2009, Tarallo).
L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello stesso vengono, infatti, realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando appunto il complessivo assetto territoriale (Sez. 3, n. 24096 del 07/03/2008, Desimine; Sez. 3, Sentenza n. 35177 del 12/07/2001, dep. 21/10/2002, Cinquegrani Rv. 222740).
Non è, perciò, sufficiente dimostrare che il mutamento della destinazione d'uso sia stato eseguito in assenza di opere edilizie interne, ma occorre dimostrare che il cambio della destinazione presenti il requisito dell'omogeneità, nel senso che sia intervenuto tra categorie urbanistiche omogenee perché il cambio, allorquando investe categorie urbanistiche disomogenee di utilizzazione, determina, come nella specie, un aggravamento del carico urbanistico esistente.
Pertanto, è giuridicamente rilevante solo il mutamento di destinazione d'uso tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, posto che nell'ambito delle stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma non diversi regimi urbanistico-contributivi stanti le sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell'ambito della medesima categoria.
Va, quindi, conclusivamente ribadito che, in tema di reati edilizi, il mutamento di destinazione d'uso senza opere è assoggettato a SCIA, purché intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una stessa categoria omogenea (Sez. 3, n. 26455 del 05/04/2016 - dep. 24/06/2016, P.M. in proc. Stellato, Rv. 267106) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.09.2018 n. 40678).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il primo Giudice ha condivisibilmente impostato i termini generali della questione muovendo dalla distinzione fra la nozione di ‘atto meramente confermativo’ e quella di ‘atto di conferma in senso proprio’, ma ha poi declinato tali presupposti in modo non corretto in relazione alla vicenda per cui è causa.
Il primo Giudice ha infatti richiamato in modo corretto il consolidato orientamento secondo cui può essere qualificato come atto di conferma in senso proprio (e in quanto tale suscettibile di determinare una nuova lesione nella sfera giuridica dei destinatari e di giustificare una autonoma impugnativa) soltanto quello adottato all'esito di una nuova istruttoria e di una rinnovata ponderazione degli interessi.
E’ stato osservato al riguardo che non può considerarsi meramente confermativo di un precedente provvedimento l'atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al primo provvedimento, giacché solo l'esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio -sia pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fase considerata- può condurre a un atto propriamente confermativo, in grado, come tale, di dare vita a un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione.
Ricorre invece l’atto meramente confermativo quando l'Amministrazione si limita a dichiarare l'esistenza di un suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione (ivi).
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Si osserva al riguardo che il primo Giudice ha condivisibilmente impostato i termini generali della questione muovendo dalla distinzione fra la nozione di ‘atto meramente confermativo’ e quella di ‘atto di conferma in senso proprio’, ma ha poi declinato tali presupposti in modo non corretto in relazione alla vicenda per cui è causa.
Il primo Giudice ha infatti richiamato in modo corretto il consolidato orientamento secondo cui può essere qualificato come atto di conferma in senso proprio (e in quanto tale suscettibile di determinare una nuova lesione nella sfera giuridica dei destinatari e di giustificare una autonoma impugnativa) soltanto quello adottato all'esito di una nuova istruttoria e di una rinnovata ponderazione degli interessi (sul punto –ex multis-: Cons. Stato, V, 22.06.2018, n. 3867; id., IV, 09.02.2018, n. 839; id., IV, 24.11.2017, n. 5481).
E’ stato osservato al riguardo che non può considerarsi meramente confermativo di un precedente provvedimento l'atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al primo provvedimento, giacché solo l'esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio -sia pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fase considerata- può condurre a un atto propriamente confermativo, in grado, come tale, di dare vita a un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione (in tal senso: Cons. Stato. V, 3807 del 2018, cit.).
Ricorre invece l’atto meramente confermativo quando l'Amministrazione si limita a dichiarare l'esistenza di un suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione (ivi)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.09.2018 n. 5364 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: Esclusione dalla gara per mancata allegazione della relazione geologica: sentenza del Consiglio di Stato.
Se l'obbligo di allegare la relazione geologica non è previsto dalla lex specialis, la mancata allegazione non comporta l’esclusione dalla gara.
Con la sentenza n. 5364/2018 depositata il 13 settembre, la V Sez. del Consiglio di Stato rammenta che “il comma 1 dell’articolo 26 del d.P.R. 207 del 2010, nell’indicare le relazioni tecniche e specialistiche da porre necessariamente a corredo del progetto definitivo, non fissa in modo assoluto il principio della necessità delle (dieci) relazioni ivi contemplate, ma fa salva in modo espresso la possibilità per il responsabile del procedimento di escludere taluna di esse attraverso una specifica determinazione”.
La sentenza di Palazzo Spada richiama inoltre “la più recente giurisprudenza della Sezione secondo cui l’obbligo di indicare un geologo tra i progettisti in sede di gara e di corredare l’offerta tecnica con la relazione geologica dipende, in concreto, dalla natura delle prestazioni affidate all’appaltatore, laddove cioè queste implichino una modificazione sostanziale delle previsioni progettuali formulate dalla stazione appaltante e a condizioni che la relativa necessità sia espressamente prefigurata nelle regole operative di gara (in tal senso: Cons. Stato, V, 21.03.2018, n. 1812)”.
La giurisprudenza in questione “ha valorizzato (con particolare riguardo alle ipotesi in cui la documentazione posta a base di gara non contemplasse in modo espresso la relazione geologica) l’esigenza di non introdurre –anche in una cornice di compatibilità eurounitaria– obblighi documentali sanzionati a pena di esclusione in assenza di una specifica e univoca previsione nell’ambito della lex specialis di gara (in tal senso: CGUE, sentenza 02.06.2016 in causa C-27/15 – Pippo Pizzo)”.
Nel caso in esame, “essendo ormai acclarato che la stazione appaltante non avesse incluso fra gli allegati al progetto definitivo posto a base di gara la relazione geologica, non può conseguentemente ritenersi che la mancata produzione di analoga relazione da parte del concorrente potesse produrre l’effetto escludente invocato dall’appellante” (commento tratto da www.casaeclima.com).

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SENTENZA
5.1 Il motivo in questione non può trovare accoglimento.
5.1.1. In punto di fatto va premesso che dall’esame degli atti di causa emerge la sicura assenza, fra gli allegati del progetto definitivo posto a base di gara, della relazione geologica.
Risulta infatti che gli allegati previsti dalla stazione appaltante fossero soltanto: i) la relazione generale al progetto; ii) la relazione geotecnica; iii) la relazione modellistica; iv) la relazione tecnica; v) la relazione paesaggistica.
Non era quindi presente agli atti la relazione geologica.
Ne risulta conseguentemente chiarito un aspetto in ordine al quale l’appellante lamenta che la stazione appaltante avesse ingenerato dubbi di sorta.
Difettando nell’ambito del progetto definitivo posto a base di gara la relazione geologica, non può conseguentemente ritenersi che tale obbligo sussistesse in attuazione del principio del c.d. ‘parallelismo’ fra i documenti tecnici predisposti dalla stazione appaltante e quelli da allegare a cura dei concorrenti (in tal senso i richiamati articoli 24, 26, 33 e 35 del d.P.R. 207 del 2010).
5.1.2. Non è irrilevante rammentare al riguardo che
il comma 1 dell’articolo 26 del d.P.R. 207 del 2010, nell’indicare le relazioni tecniche e specialistiche da porre necessariamente a corredo del progetto definitivo, non fissa in modo assoluto il principio della necessità delle (dieci) relazioni ivi contemplate, ma fa salva in modo espresso la possibilità per il responsabile del procedimento di escludere taluna di esse attraverso una specifica determinazione (e dall’esame dell’impugnato provvedimento in data 25.05.2017 emerge che il responsabile del procedimento avesse richiamato in modo espresso proprio il comma 1 dell’articolo 26, cit. a sostegno delle proprie determinazioni).
5.1.3. In disparte quanto appena rilevato, va qui richiamata la più recente giurisprudenza della Sezione secondo cui
l’obbligo di indicare un geologo tra i progettisti in sede di gara e di corredare l’offerta tecnica con la relazione geologica dipende, in concreto, dalla natura delle prestazioni affidate all’appaltatore, laddove cioè queste implichino una modificazione sostanziale delle previsioni progettuali formulate dalla stazione appaltante e a condizioni che la relativa necessità sia espressamente prefigurata nelle regole operative di gara (in tal senso: Cons. Stato, V, 21.03.2018, n. 1812).
La giurisprudenza in questione ha valorizzato (con particolare riguardo alle ipotesi in cui la documentazione posta a base di gara non contemplasse in modo espresso la relazione geologica) l’esigenza di non introdurre –anche in una cornice di compatibilità eurounitaria– obblighi documentali sanzionati a pena di esclusione in assenza di una specifica e univoca previsione nell’ambito della lex specialis di gara (in tal senso: CGUE, sentenza 02.06.2016 in causa C-27/15 – Pippo Pizzo).
Essendo ormai acclarato che la stazione appaltante non avesse incluso fra gli allegati al progetto definitivo posto a base di gara la relazione geologica, non può conseguentemente ritenersi che la mancata produzione di analoga relazione da parte del concorrente potesse produrre l’effetto escludente invocato dall’appellante (e che, pertanto, risultasse illegittima la mancata esclusione di tale concorrente).
5.2. Anche tale motivo di appello deve dunque essere respinto
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.09.2018 n. 5364 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIOAscensore, spese divise tra tutti. Inclusi nel riparto anche negozi e locali del piano terra. Una pronuncia della Cassazione in merito al rifacimento dell’impianto condominiale.
Anche i proprietari dei negozi o dei locali siti al piano terra con accesso diretto dalla strada sono tenuti a concorrere nelle spese di manutenzione straordinaria o di sostituzione dell'impianto di ascensore.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con l'ordinanza 12.09.2018 n. 22157.
Il caso concreto. Nella specie una condomina proprietaria di alcuni locali posti al piano terra e con accesso dalla pubblica via si era rifiutata di sostenere la quota di spese condominiali richiestale in occasione del rifacimento dell'impianto di ascensore. La stessa era quindi stata raggiunta da un decreto ingiuntivo ottenuto dall'amministratore, verso il quale aveva spiegato opposizione.
La condomina, richiamato il contenuto del regolamento condominiale (di natura contrattuale), il quale prevedeva l'appartenenza dell'impianto di ascensore in comproprietà pro indiviso e indivisibile a tutti i proprietari di unità immobiliari, ponendo a loro carico in proporzione dei rispettivi valori delle singole porzioni le spese per il rinnovamento o la manutenzione straordinaria, ed esonerando viceversa dalla contribuzione nelle spese ordinarie e di esercizio i condomini che non potessero servirsene, riteneva infatti che dal medesimo non si potesse desumere l'obbligo di partecipazione alle spese anche di quei condomini proprietari di soli locali aventi accesso dalla strada pubblica. In primo grado l'opposizione era stata accolta, ma la sentenza era stata prontamente appellata dal condominio, il quale era invece risultato vincitore nel giudizio di secondo grado.
La Corte di appello, infatti, aveva ritenuto legittima la ripartizione delle spese deliberata dall'assemblea per i lavori di sostituzione dell'impianto e che aveva incluso fra i debitori anche la condomina opponente. Quest'ultima aveva quindi deciso di impugnare la sentenza di secondo grado dinanzi alla Corte di cassazione.
La decisione della Suprema corte. I giudici di legittimità, nel respingere il ricorso in questione, confermando quindi il riparto delle spese operato dal condominio, hanno quindi avuto modo di chiarire meglio quali siano i criteri che presiedono alla suddivisione dei costi degli interventi sull'impianto di ascensore.
Già prima della riformulazione dell'art. 1124 c.c. a opera della legge n. 220/2012 di riforma del condominio la giurisprudenza aveva chiaramente distinto l'ipotesi dell'installazione ex novo di un impianto di ascensore nell'edificio che ne fosse privo da quella della manutenzione straordinaria e/o della sostituzione del medesimo. Mentre nella prima ipotesi la relativa spesa andava suddivisa secondo il tradizionale criterio di cui all'art. 1123 c.c., ovvero proporzionalmente al valore dei millesimi di proprietà di ciascun condomino, nel secondo caso essa andava ripartita secondo il criterio indicato dall'art. 1124 c.c. per la manutenzione straordinaria delle scale.
Ora, come si diceva, detta conclusione è stata per così dire ratificata dal legislatore, poiché il nuovo art. 1124 c.c. fin dalla sua rubrica chiarisce che la disposizione si applica sia alle scale che agli ascensori. La disposizione in questione contiene quindi una deroga al criterio generale di riparto di cui all'art. 1123 c.c., poiché dispone che la relativa spesa debba essere ripartita per metà in base ai millesimi di proprietà e per l'altra metà esclusivamente in ragione dell'altezza di ciascun piano dal suolo. La medesima disposizione chiarisce che ove l'edificio condominiale sia composto da più scale e impianti di ascensore, gli stessi debbano essere mantenuti soltanto dai condomini al servizio dei quali gli stessi sono stati previsti. L'art. 1124 c.c., inoltre, dispone espressamente che per piano debbano intendersi anche le cantine, o palchi morti, le soffitte o camere a tetto e i lastrici solari, ovviamente quando gli stessi non siano di proprietà comune.
Nell'ordinanza in questione viene evidenziato come l'impianto di ascensore debba quindi essere accomunato, per identità di funzione, alle scale, in quanto anch'esso mezzo indispensabile per accedere al tetto e al terrazzo di copertura (come anticipato, detta parificazione è ora anche di tipo normativo). Trattasi infatti di parte indiscutibilmente comune, tanto è vero che l'art. 1117 c.c. annovera espressamente detto impianto fra i beni e i servizi che si presumono comuni a tutti i condomini, salvo risulti diversamente dal titolo.
Di conseguenza l'ascensore appartiene in comproprietà anche ai condomini proprietari di negozi o locali posti al piano terreno e con accesso dalla via pubblica, poiché anche essi ne fruiscono, «quanto meno», si legge nell'ordinanza, «in ordine alla conservazione e manutenzione della copertura dell'edificio». Ne discende che anche i predetti condomini devono concorrere alle spese di manutenzione straordinaria e/o sostituzione dell'impianto in rapporto e in proporzione all'utilità che possono in ipotesi trarne, salvo esista un titolo contrario.
Come si è ripetuto più volte, la regola di cui sopra può essere derogata da un titolo contrario. «Come tutti i criteri legali di ripartizione delle spese condominiali», si legge nell'ordinanza in questione, «anche quello di ripartizione delle spese di manutenzione e sostituzione degli ascensori può essere derogato, ma la relativa convenzione modificatrice della disciplina legale deve essere contenuta o nel regolamento condominiale (che perciò si definisce di natura contrattuale) o in una deliberazione dell'assemblea che venga approvata all'unanimità, ovvero con il consenso di tutti i condomini».
Per questo motivo i giudici di legittimità hanno ritenuto corretta la decisione della corte di appello, la quale aveva valutato che nel regolamento condominiale in questione non vi era alcuna disposizione derogatoria del regime legale di ripartizione delle spese dell'impianto di ascensore. In altri termini, secondo la sesta sezione civile della Cassazione, nella specie la ricorrente era caduta in una sorta di errore di prospettiva, contestando che nel regolamento non vi fosse una disposizione sulla quale si potesse fondare il proprio obbligo di contribuzione alle spese, laddove quest'ultimo, come visto, discende direttamente dalla legge e il regolamento può se mai disporre una deroga, circostanza che comunque non ricorreva nel caso concreto.
L'opposizione al decreto ingiuntivo condominiale. Visto che nella specie si trattava di un procedimento di opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto dal condominio verso un comproprietario in mora nel pagamento delle spese comuni, i giudici di legittimità hanno avuto anche il modo di ribadire alcuni principi validi in questo tipo di contenzioso in rapporto alla perdurante efficacia della delibera condominiale sulla quale si fondi l'obbligo impositivo e che non sia stata nel frattempo giudizialmente sospesa.
In detto giudizio, infatti, il condomino che contesti l'ordine giudiziale di pagamento non può far utilmente valere questioni attinenti alla mera annullabilità della delibera assembleare di ripartizione della spesa. «Tale delibera», spiega la Cassazione, «costituisce infatti titolo sufficiente del credito del condominio e legittima non solo la concessione del decreto ingiuntivo, ma anche la condanna del condomino a pagare le somme nel processo oppositorio a cognizione piena ed esauriente, il cui ambito è dunque ristretto alla verifica della (perdurante) esistenza della deliberazione assembleare di approvazione della spesa e di ripartizione del relativo onere». Un diverso comportamento da parte del giudice dell'opposizione è dunque ammissibile soltanto ove si dia la prova che l'efficacia della predetta deliberazione sia stata giudizialmente sospesa o che la stessa sia stata addirittura annullata.
La sesta sezione civile della Suprema corte ha tuttavia a sua volta ribadito il recente orientamento di legittimità per cui, fermo quanto sopra, il giudice dell'opposizione può rilevare, anche d'ufficio, eventuali vizi di legittimità della sottostante delibera assembleare ove gli stessi ne implichino la nullità e non la semplice annullabilità, trattandosi dell'applicazione di atti la cui validità rappresenta un elemento costitutivo della domanda (articolo ItaliaOggi Sette del 24.09.2018).

EDILIZIA PRIVATA: La controversia, derivante dall’impugnazione di un permesso di costruire da parte del vicino che lamenti la violazione delle distanze legali, costituisce una disputa non già tra privati, ma tra privato e p.a., nella quale la posizione del primo –in correlazione all’atto autoritativo abilitativo lesivo- si atteggia a interesse legittimo, con conseguente spettanza della giurisdizione al giudice amministrativo.
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In materia edilizia, la vicinitas, ossia l'esistenza di uno stabile collegamento con il terreno interessato dall'intervento edilizio, è circostanza sufficiente a comprovare la sussistenza sia della legittimazione che dell'interesse a ricorrere, senza che sia necessario al ricorrente allegare e provare di subire uno specifico pregiudizio per effetto dell'attività edificatoria intrapresa sul suolo limitrofo.
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6. Con il primo motivo d’appello, si deduce l’errore di giudizio in cui sarebbero incorsi i giudici di prime cure nel respingere l’eccezione d’inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione del TAR.
L’appellante deduce che nella specie si verserebbe in ipotesi di una mera controversia fra proprietari confinanti, avente a oggetto la violazione degli obblighi civilistici in tema di distanze e di costruzioni in aderenza.
7. Il motivo è infondato.
7.1 Va data continuità all’indirizzo giurisprudenziale consolidato per il quale la controversia, derivante dall’impugnazione di un permesso di costruire da parte del vicino che lamenti la violazione delle distanze legali, costituisce una disputa non già tra privati, ma tra privato e p.a., nella quale la posizione del primo –in correlazione all’atto autoritativo abilitativo lesivo- si atteggia a interesse legittimo, con conseguente spettanza della giurisdizione al giudice amministrativo (cfr. Cass. civ., sez. un., 10.06.2004, nr. 11023; Cons. Stato, sez. IV, 06.07.2009, nr. 4300; Id., sez. V, 28.06.2004, nr. 4759; Id., sez. V, 13.01.2004, nr. 46).
8. Ad analoga conclusione deve giungersi sul secondo motivo d’appello, che ripropone l’eccezione d’inammissibilità per difetto di legittimazione attiva al ricorso del ricorrente di primo grado, parte appellata.
8.1 In materia edilizia, la vicinitas, ossia l'esistenza di uno stabile collegamento con il terreno interessato dall'intervento edilizio, è circostanza sufficiente a comprovare la sussistenza sia della legittimazione che dell'interesse a ricorrere, senza che sia necessario al ricorrente allegare e provare di subire uno specifico pregiudizio per effetto dell'attività edificatoria intrapresa sul suolo limitrofo (cfr., da ultimo, Cons. Stato, sez. VI, 06.03.2018, n. 1448).
8.2 Nel caso di specie la documentazione cartografica, fotografica e progettuale –in particolare la relazione tecnica del geom. Pa.– versata in atti attesta la vicinanza e l'identità del contesto territoriale ed urbanistico fra l’immobile del sig. Ma. e quello oggetto delle opere contestate (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.09.2018 n. 5307 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In caso d'impugnazione del titolo edilizio in sanatoria, il termine decorre dalla data in cui si abbia conoscenza che, per una determinata opera abusiva già esistente, è stata rilasciata la concessione edilizia in sanatoria.
In conformità alla natura e alla modalità d’esecuzione delle opere, in materia occorre tenere separato il regime d’impugnazione del titolo edilizio “ordinario” da quello applicabile al titolo edilizio “in sanatoria”.
Nel primo caso, il termine di decadenza decorre dal completamento dei lavori, cioè dal momento in cui sia materialmente apprezzabile la reale portata dell'intervento in precedenza assentito; nel secondo caso, il termine decorre dalla data in cui si abbia conoscenza che, per una determinata opera abusiva già esistente, è stata rilasciata la concessione edilizia in sanatoria.
Pertanto, il termine d'impugnazione di un titolo in sanatoria decorre dal momento in cui si conosca la circostanza del rilascio del medesimo atto per una determinata opera già esistente; la cui conoscenza deve essere dimostrata in giudizio al fine di far valere la tardività dell'impugnazione.
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9. Con il terzo motivo d’appello, si deduce l’errore di diritto in cui sarebbe incorso il TAR nel respingere l’eccezione di tardività del ricorso di primo grado.
Limitatamente all’impugnazione dell’autorizzazione in sanatoria n. 68 del 17.07.1998 ed agli annessi pareri favorevoli della Soprintendenza, l’appellante ribadisce la tardività dell’impugnazione.
10. Il motivo è infondato.
10.1 In caso d'impugnazione del titolo edilizio in sanatoria, il termine decorre dalla data in cui si abbia conoscenza che, per una determinata opera abusiva già esistente, è stata rilasciata la concessione edilizia in sanatoria.
10.2 In conformità alla natura e alla modalità d’esecuzione delle opere, in materia occorre tenere separato il regime d’impugnazione del titolo edilizio “ordinario” da quello applicabile al titolo edilizio “in sanatoria”.
Nel primo caso, il termine di decadenza decorre dal completamento dei lavori, cioè dal momento in cui sia materialmente apprezzabile la reale portata dell'intervento in precedenza assentito (cfr. fra le tante, Cons. St., Ad. Plen., 29.07.2011, n. 15; Cons. St., sez. VI, 10.12.2010, n. 8705); nel secondo caso, il termine decorre dalla data in cui si abbia conoscenza che, per una determinata opera abusiva già esistente, è stata rilasciata la concessione edilizia in sanatoria (cfr., Cons. Stato, sez. VI, 27.12.2007, n. 6674).
10.3 Pertanto, in continuità all’indirizzo giurisprudenziale consolidato, qui condiviso, il termine d'impugnazione di un titolo in sanatoria decorre dal momento in cui si conosca la circostanza del rilascio del medesimo atto per una determinata opera già esistente; la cui conoscenza deve essere dimostrata in giudizio al fine di far valere la tardività dell'impugnazione (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 21.12.2004, n. 8147; sez. IV, 26.03.2013, n. 1699).
10.4 Nel caso di specie, la parte appellante non ha fornito specifici elementi da cui si possa desumere la piena conoscenza in una data rispetto alla quale il ricorso originario risulterebbe tardivo (cfr., fra le tante, Cons. Stato, sez. VI, 12.11.2003, n. 7258).
Viceversa, risulta che l’originario ricorrente si è attivato nei termini richiesti dalla giurisprudenza (cfr. ad es. Cons. di Stato, sez. IV, 21.01.2013, n. 322), impugnando l’autorizzazione entro il termine di 60 giorni decorrente dall’ostensione degli atti (avvenuta in data 18.03.2016), in risposta all’istanza d’accesso formulata al Comune (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.09.2018 n. 5307 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Alla stregua della consolidata giurisprudenza, va ribadito che:
   a) il D.M. 02.04.1968, n. 1444, recante "Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell'art. 17 della legge 06.08.1967 n. 765", all’art. 9, recante "limiti di distanza tra i fabbricati", prevede, tra l'altro, che le distanze minime tra i fabbricati: "nelle altre zone, con riferimento a "nuovi edifici"... "in tutti i casi . . . di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti";
   b) le distanze sancite dall'art. 9 cit. sono tendenzialmente inderogabili, venendo in rilievo una norma imperativa avente il fine specifico di garantire l'interesse pubblico ad un ordinato sviluppo dell'edilizia ed alla protezione della salute dei cittadini (prevenendo la formazione di intercapedini malsane);
   c) le distanze previste dall'art. 9 cit. sono dunque coerenti con il perseguimento dell'interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile;
   d) coerentemente, la disciplina imperativa sancita dall’art. 9 cit., predetermina in via generale ed astratta le distanze tra le costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza.
Nello specifico, costituisce orientamento consolidato che nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art. 9 d.m. 02.04.1968, n. 1444, vadano considerati i balconi, nonché tutte le sporgenze destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono.
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La disciplina imperativa sancita dall’art. 9 cit. è applicabile anche nel caso in esame, laddove una sola delle due pareti frontistanti sia finestrata e l’altra consista nella scalettatura per una parte della facciata posta a distanza inferiore di 10 metri.
Né la distanza è derogabile nel caso in cui –con riferimento all’altra facciata fronteggiante– la sopraelevazione si trovi ad un diversa altezza rispetto all’altra costruzione.
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11. Con il quarto motivo d’appello, si deduce l’errata o falsa applicazione dell’art. 9 del d.m. 1444/1968 in ragione della tipologia delle opere realizzate, consistenti in sporti accessori, muri e balconi.
12. Il motivo d’appello è infondato.
12.1 Il fabbricato della sig.ra Am. è stato oggetto nel corso degli anni degli ampliamenti abusivi di cui alle istanze di sanatoria (domanda di sanatoria prot. n. 13175/1987 e prot. n. 4679/1995 nonché la pratica edilizia in sanatoria n. 10833/1998).
L'Amministrazione ha rilasciato in data 11.02.2016 alla sig.ra Am.Cr. due distinte concessioni in sanatoria, una ai sensi della legge n. 47/1985 e l'altra ai sensi della legge n. 724/1994, relative agli ampliamenti ed alle modifiche apportati all'immobile di Via ... 25.
L’immobile era già stato oggetto d’autorizzazione in sanatoria n. 68 del 17.06.1998, concernente “la sanatoria e il completamento delle opere relative al fabbricato”.
Le opere realizzate e condonate con le concessioni n. 6/c e 7/c consistono in ampliamenti della sagoma dell’edificio (chiusura di una scala, trasformazione di una tettoia aperta), che hanno alterato le preesistenti distanze dal confine e dal fabbricato del ricorrente.
Dalla relazione del verificatore, redatta a seguito del sopralluogo disposto dal TAR e sulla base della documentazione di causa, emerge l’ampliamento del nucleo originario dell’immobile dell’appellante, in estensione fino al muro di confine con la proprietà Massa, fino ad annullare la distanza dell’edificio dal predetto confine.
La relazione del verificatore e la perizia di parte dell’appellato- sostanzialmente corrispondente alle conclusioni dal verificatore – comprovano che l’edificio della sig.ra Am., dopo l’esecuzione dalle opere oggetto dei provvedimenti di condono, non rispetta la distanza di 10 metri dal nucleo originario del fabbricato dell’appellato.
12.2 Alla stregua della consolidata giurisprudenza (cfr., da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 14.09.2017, n. 4337; id., 23.06.2017, n. 3093; id., 08.05.2017, n. 2086; id., 03.08.2016, n. 3510; id., 29.02.2016, n. 856; Cass. civ., sez. II, 14.11.2016, n. 23136), va ribadito che:
   a) il D.M. 02.04.1968, n. 1444, recante "Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell'art. 17 della legge 06.08.1967 n. 765", all’art. 9, recante "limiti di distanza tra i fabbricati", prevede, tra l'altro, che le distanze minime tra i fabbricati: "nelle altre zone, con riferimento a "nuovi edifici"... "in tutti i casi . . . di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti";
   b) le distanze sancite dall'art. 9 cit. sono tendenzialmente inderogabili, venendo in rilievo una norma imperativa avente il fine specifico di garantire l'interesse pubblico ad un ordinato sviluppo dell'edilizia ed alla protezione della salute dei cittadini (prevenendo la formazione di intercapedini malsane);
   c) le distanze previste dall'art. 9 cit. sono dunque coerenti con il perseguimento dell'interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile;
   d) coerentemente, la disciplina imperativa sancita dall’art. 9 cit., predetermina in via generale ed astratta le distanze tra le costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza.
12.3 Nello specifico, costituisce orientamento consolidato, qui condiviso, che nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art. 9 d.m. 02.04.1968, n. 1444, vadano considerati i balconi, nonché tutte le sporgenze destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono (cfr., Cons. Stato, sez. V, 13.03.2014, n. 1272; Id, sez. IV, 21.10.2013, n. 5108).
12.4 Pertanto, la disciplina imperativa sancita dall’art. 9 cit. è applicabile anche nel caso in esame, laddove una sola delle due pareti frontistanti sia finestrata e l’altra consista nella scalettatura per una parte della facciata posta a distanza inferiore di 10 metri.
12.5 Né la distanza è derogabile, come invece ha dedotto l’appellante, nel caso in cui –con riferimento all’altra facciata fronteggiante– la sopraelevazione si trovi ad un diversa altezza rispetto all’altra costruzione (cfr., Cons. St., sez. IV, 20.07.2011, n. 4374).
13. Conclusivamente l’appello deve essere respinto, con la conseguente declaratoria d’assorbimento dei motivi di ricorso proposti in prime cure e riproposti in appello dalla parte appellata sig. Ma. (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.09.2018 n. 5307 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso.
Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino.
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11. I motivi aggiunti proposti contro l’ordinanza di demolizione n. 237 del 2016 sono, invece, infondati nel merito.
12. Non coglie nel segno, anzitutto, il primo motivo di impugnazione, con il quale si allega l’illegittimità del provvedimento impugnato per mancanza di motivazione in ordine alle ragioni di interesse pubblico a sostegno dell’adozione del provvedimento sanzionatorio.
12.1 Al riguardo, è sufficiente richiamare il principio di diritto enunciato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza n. 9 del 17.10.2017, ove si è statuito che “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino”.
E’, perciò, da escludere che il decorso di un lasso di tempo più o meno lungo dalla commissione dell’abuso possa, di per sé, condizionare l’esercizio del potere sanzionatorio, il quale è e resta vincolato al solo riscontro dell’illecito edilizio.
12.2 Da ciò il rigetto del motivo (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 06.09.2018 n. 2049 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'ampliamento di un balcone eccede i limiti della manutenzione straordinaria.
L
'ampliamento di un balcone nella misura di una maggiore larghezza di 50 centimetri, per l’intera lunghezza di 4 metri del balcone, con la conseguente realizzazione di una maggiore superficie di 2 metri quadrati, non può qualificarsi come una mera manutenzione straordinaria, atteso che in tale categoria rientrano –secondo quanto previsto dall’articolo 3, comma 1, lett. b), del d.P.R. n. 380 del 2001– i lavori necessari per “rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici”.
L’ampliamento del balcone non è invece diretto a una mera finalità conservativa, perché non consiste nel ripristino o rinnovamento di elementi dell’edificio, ma comporta la formazione di ulteriore superficie utile non residenziale, all’esterno del volume del fabbricato, rispetto a quanto previsto dal titolo.
Tale incremento è, inoltre, di entità non trascurabile in rapporto alle dimensioni del balcone originariamente progettate e determina una modifica del prospetto dell’edificio.

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13. Con il secondo mezzo viene contestata la qualificazione delle opere in termini di ristrutturazione edilizia in totale difformità rispetto al titolo, ai sensi dell’articolo 33 del d.P.R. n. 380 del 2001 e la conseguente applicazione della sanzione ripristinatoria.
13.1 Per ciò che attiene all’ampliamento del balcone, deve osservarsi che, secondo quanto risulta dal provvedimento impugnato, le opere contestate sono consistite nella realizzazione di una maggiore larghezza di 50 centimetri, per l’intera lunghezza di 4 metri del balcone, con la conseguente realizzazione di una maggiore superficie di 2 metri quadrati.
13.1.1 Contrariamente a quanto ritenuto dalla parte ricorrente, l’opera così realizzata non può qualificarsi come una mera manutenzione straordinaria, atteso che in tale categoria rientrano –secondo quanto previsto dall’articolo 3, comma 1, lett. b), del d.P.R. n. 380 del 2001– i lavori necessari per “rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici...”.
L’ampliamento del balcone non è invece diretto a una mera finalità conservativa, perché non consiste nel ripristino o rinnovamento di elementi dell’edificio, ma comporta la formazione di ulteriore superficie utile non residenziale, all’esterno del volume del fabbricato, rispetto a quanto previsto dal titolo. Tale incremento è, inoltre, di entità non trascurabile in rapporto alle dimensioni del balcone originariamente progettate e determina una modifica del prospetto dell’edificio.
Si tratta, perciò, di un’opera che eccede i limiti della manutenzione straordinaria, come correttamente ritenuto dal Comune.
13.1.2 Non può poi accedersi alla tesi della parte ricorrente, secondo la quale il predetto ampliamento sarebbe irrilevante, perché rientrerebbe nel limite di tolleranza del 2 per cento stabilito dall’articolo 34, comma 2-ter, del d.P.R. n. 380 del 2001.
In disparte ogni altra considerazione, deve rilevarsi che la suddetta previsione normativa si riferisce alle “violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta” che siano contenute nel limite del 2 per cento “per singola unità immobiliare”.
Nella relazione tecnica della parte ricorrente si afferma che l’incremento di 2 metri quadrati della superficie coperta, determinato dall’ampliamento del balcone, sarebbe irrilevante in rapporto alla superficie coperta di progetto di 5.470 metri quadrati (v. doc. 3 della parte ricorrente, alla p. 3).
Tuttavia, dalla stessa relazione tecnica si evince che la superficie coperta di 5.470 metri quadrati è quella relativa all’intero intervento di lottizzazione del quale fa parte –tra le altre– la villetta del signor La. (v. p. 2 del medesimo doc. 3 della parte ricorrente). Non è stato, perciò, allegato né dimostrato che l’incremento della superficie coperta sia contenuto nel limite del 2 per cento avuto riguardo alla singola unità immobiliare, come prescritto dal richiamato comma 2-ter dell’articolo 34 del d.P.R. n. 380 del 2001.
13.1.3 Da ciò il rigetto della censura (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 06.09.2018 n. 2049 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Abuso d’ufficio - Prova del dolo intenzionale - Accertamento - Indici fattuali - Sufficienza - Art. 323 e 481 cod. pen. - Giurisprudenza.
La prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie di cui all'art. 323 cod. pen., prescinda dall'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che si intende favorire, potendo essere desunta anche dalla macroscopica illegittimità dell'atto, sempre che tale valutazione non discenda in modo apodittico e parziale dal comportamento non iure dell'agente, ma risulti anche da ulteriori indici fattuali, concordemente dimostrativi dell'intento di conseguire un vantaggio patrimoniale o di cagionare un danno ingiusto, tra i quali assumono rilievo l'evidenza, la reiterazione e la gravità delle violazioni, la competenza dell'agente, i rapporti fra l'agente ed il soggetto favorito, l'intento di sanare le illegittimità con successive violazioni di legge, fermo restando che l'intenzionalità del vantaggio ben può prescindere dalla volontà di favorire specificamente il privato interessato alla singola vicenda amministrativa (Sez. 3, sentenza n. 57914 del 28/09/2017, Di Palma ed altri; Sez. 6, sentenza n. 31594 del 19/04/2017, Pazzaglia; Sez. 3, sentenza n. 35577 del 06/04/2016, Cella; Sez. 6, sentenza n. 36179 del 15/04/2014, Dragotta; Sez. 6, sentenza n. 21192 del 25/01/2013, Baria ed altri) (Sez. 3, sentenza n. 29251 del 05/05/2017, Vigliar ed altro; Sez. 3, sentenza n. 15228 del 31/01/2017, Cucino) (Corte di Cassazione, Sez. penale feriale, sentenza 04.09.2018 n. 39699 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Certificato amministrativo proveniente da un pubblico ufficiale e certificati di esercenti un servizio di pubblica necessità - Differenza.
In materia edilizia, al fine di individuare la differenza con il certificato amministrativo proveniente da un pubblico ufficiale, che deve essere qualificato come certificato tutelabile a norma dell'art. 481 c.p., da qualsiasi attestazione di fatti rilevanti nell'ambito del servizio di pubblica necessità esercitato dall'autore dell'atto.
E perciò i certificati di esercenti un servizio di pubblica necessità non sono certificati in senso proprio, in quanto possono anche richiedere un accertamento di fatti direttamente percepiti da parte dell'autore dell'atto. Sulla scorta di detto principio è stato, ad esempio, ritenuto integrato il reato in esame nel caso del tecnico il quale, incaricato di predisporre la documentazione da presentare a corredo di una domanda di concessione edilizia (ora permesso di costruire), pur avendo indicato, nelle tavole planimetriche, misure corrispondenti alla realtà, abbia però scientemente alterato i calcoli volumetrici, sì da far risultare, contrariamente al vero, la compatibilità dell'opera progettata con il limite della volumetria assentibile (in motivazione si è osservato che il tecnico tenuto a disporre gli atti necessari per il rilascio di una concessione edilizia, deve certamente considerarsi persona esercente un servizio di pubblica necessità, a mente dell'art. 359 n. 1), cod. pen., atteso che sia il progetto sia la relazione ad esso allegata sono atti professionali che per legge devono essere prodotti a corredo della domanda di concessione edilizia -ora del permesso-, che per legge richiedono un titolo di abilitazione e che sono vietati a chi non sia autorizzato allo esercizio della professione specifica).

DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Reati edilizi - Falsità ideologica in certificati commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità - Fattispecie: dichiarazione falsa di conformità dell'intervento edilizio alle norme urbanistiche edilizie vigenti in ambito comunale - Artt. 10, 20, 22, 36 e 37 d.p.r. 380/2001.
E' da ritenere la sussistenza del reato di falsità ideologica in certificati commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità, anche nel caso in cui i dati esposti o le relazioni dei tecnici riguardano opere già eseguite, la natura di certificato dell'atto derivando dalla funzione cui esso è deputato, di fornire alla pubblica amministrazione una esatta informazione dello stato dei luoghi per le determinazioni che le competono, con la conseguenza che anche un giudizio o una previsione possono essere ideoloqicamente falsi, al pari di un enunciato in fatto, quando i parametri di valutazione cui si riferiscono costituiscono 'misure' obiettivamente verificabili, normativamente determinate o tecnicamente accertabili, e quando tali giudizi - che si definiscono perciò tecnici o in termini classici di misura per distinguerli da quelli considerati di valore in senso stretto in quanto sviluppati su parametri che non sono né universali né esatti - provengano da soggetti cui fa legge riconosce una determinata competenza e perizia e ai quali per tale ragione ne riserva la formulazione. In tali casi, fondandosi il giudizio o la previsione sulla postulazione di criteri predeterminati, esso si risolve in una rappresentazione della realtà analoga alla descrizione o alla constatazione ed è nello stesso modo suscettibile di essere considerato un falsa certificazione quando perviene a risultati artefatti perché basati su dati predeterminati, o predeterminabili, falsati."
Nella specie, deve ritenersi del tutto irrilevante, ai fini della configurazione del reato di cui all'art. 481 cod. pen., la circostanza che la violazione edilizia abbia costituito oggetto di separato procedimento penale, e che la relazione si inserisse in un procedimento di accertamento in conformità, nell'ambito del quale non è prevista come necessaria alcuna relazione tecnica.
La condotta ascritta è consistita nell'aver dichiarato la conformità dell'intervento edilizio alle norme urbanistiche edilizie vigenti in ambito comunale, il che, indiscutibilmente, rappresenta una connotazione qualificante l'immobile, ed è destinata a fornire informazioni alla pubblica amministrazione sulla attuale condizione urbanistica dell'immobile rispetto al quale era stata formulata domanda di permesso di costruire in accertamento di conformità.

DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Falsità ideologica e bene tutelato - Affidamento dell'immediato destinatario dell'atto pubblico - Interesse protetto - Garanzia di veridicità - Qualificazione giuridica della condotta.
Il bene tutelato dalle varie disposizioni in tema di falsità ideologica non è costituito solo dall'affidamento dell'immediato destinatario dell'atto pubblico, che può anche essere a conoscenza della falsità o concorrere nella medesima, o essere indotto in errore da essa; l'interesse protetto è la fiducia che la generalità dei consociati deve a ragione riporre negli atti provenienti da certuni soggetti e la garanzia di veridicità degli stessi.
Ne discende che proprio l'attività certificativa, che sostanzia la figura professionale coinvolta, impone la veridicità delle attestazioni provenienti dal soggetto qualificato, a prescindere dalla tipologia di procedimento amministrativo in cui esse si inseriscono; quest'ultimo dato, invece, potrà rilevare ai fini della qualificazione giuridica della condotta, individuando il reato di cui all'art. 481 cod. pen., allorquando, come nel caso di specie, la condotta non faccia capo ad un'attestazione obbligatoriamente prevista dal procedimento amministrativo di riferimento, pur avendo la funzione di fornire un'esatta informazione alla P.A., piuttosto che il reato di cui all'art. 483 cod. pen., ovvero quello di cui all'art. 20, comma. 13, d.p.r. 380/2011 che, invece, sono integrati allorquando l'atto è destinato a provare la verità di quanto in esso rappresentato
(Sez. 3, sentenza n. 29251 del 05/05/2017, Vigliar ed altro; Sez. 3, sentenza n. 15228 del 31/01/2017, Cucino)
(Corte di Cassazione, Sez. penale feriale, sentenza 04.09.2018 n. 39699 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: DIRITTO DEMANIALE - Occupazione abusiva del suolo demaniale - Opere autorizzate con un permesso di costruire stagionale, realizzate sul demanio marittimo - Mancata rimozione - Art 1161 cod. nav. - DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Trasformazione di strutture precarie in permanenti - Assenza del permesso di costruire (non stagionale) - Reato urbanistico e/o paesaggistico - Art. 44, c. 1, lett. e), d.P.R. n.380/2001 - BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Provvedimento abilitativo - Scaduto o inefficace - Effetti - Art. 181, d.lgs. n. 42/2004.
L'occupazione dello spazio demaniale marittimo è "arbitraria" ed integra il reato di cui all'art. 1161 cod. nav. se non legittimata da un valido ed efficace titolo concessorio, rilasciato in precedenza e non surrogabile da altri atti, ovvero allorquando sia scaduto o inefficace il provvedimento abilitativo (Sez. 3, n. 4763 del 24/11/2017, dep. 2018, Pipitone), sicché è ben possibile che l'occupazione del demanio non sia arbitraria, perché legittimata dal prescritto provvedimento concessorio, e che sussistano però il reato urbanistico e/o quello paesaggistico per essere state realizzate (o mantenute oltre il termine) opere non autorizzate dal Comune e/o dalla competente autorità regionale.
I relativi reati, di fatti, presidiano la tutela di beni aventi diversa oggettività giuridica, sicché, se da un lato possono concorrere qualora manchi qualsiasi tipo di autorizzazione, d'altro lato la valutazione della liceità della medesima condotta naturalistica -se autorizzata su un versante, ma non su un altro- può condurre a conclusioni differenti circa la sussistenza dei diversi illeciti
(cfr. Sez. 3, n. 30171 del 04/06/2015, Serafini; Sez. 3, n. 5461 del 04/12/2013, dep. 2014, Caldaroni).
Fattispecie: demanio marittimo, rimozione delle strutture stagionale funzionali all'attività balneare di facile amovibilità, alla scadenza dell'atto concessorio, non rinnovato.

DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Autorizzazione "in precario" di un manufatto - Violazione di norme urbanistiche e paesaggistiche - Piena equivalenza ai fini della contestazione dei reati - Giurisprudenza.
Integra il reato di cui all'art. 44, comma primo, lett. b) o e), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, la mancata rimozione, alla scadenza del termine previsto nell'autorizzazione "in precario", di un manufatto installato per soddisfare esigenze stagionali (Sez. 3, n. 23645 del 12/05/2011, Frassica).
Per altro verso -con riguardo al giudizio sulla correlazione tra accusa e sentenza- vi è piena equivalenza ai fini della contestazione dei reati previsti dagli artt. 44, lett. e), d.P.R. 380 del 2001 e 181 D.Lgs. n. 42 del 2004, tra la condotta di colui che edifica un manufatto in contrasto con le norme urbanistiche e paesaggistiche e colui che, realizzando un'opera di tipo precario compatibile con il territorio per un limitato periodo di tempo, non la rimuove in spregio delle indicazioni dell'autorità amministrativa (Sez. 3, n. 50620 del 18/06/2014, Urso e a.)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.09.2018 n. 39679 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: DIRITTO DEMANIALE - Opere stagionali realizzate sul demanio marittimo - Mancata rimozione e trasformazione in strutture permanenti in assenza del permesso di costruire - BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Autorizzazione paesaggistica annuale - Art. 44, comma 1, lett. e), d.P.R. 06.06.2001, n. 380 e 181 d.lgs. 22.01.2004, n. 42.
Integra il reato di cui all'art. 44, comma primo, lett. b) o c), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, la mancata rimozione, alla scadenza del termine previsto nell'autorizzazione "in precario", di un manufatto installato per soddisfare esigenze stagionali (Sez. 3, n. 23645 del 12/05/2011, Frassica).
Per altro verso -con riguardo al giudizio sulla correlazione tra accusa e sentenza- vi è piena equivalenza ai fini della contestazione dei reati previsti dagli artt. 44, lett. e), d.P.R. 380 del 2001 e 181 D.Lgs. n. 42 del 2004, tra la condotta di colui che edifica un manufatto in contrasto con le norme urbanistiche e paesaggistiche e colui che, realizzando un'opera di tipo precario compatibile con il territorio per un limitato periodo di tempo, non la rimuove in spregio delle indicazioni dell'autorità amministrativa (Sez. 3, n. 50620 del 18/06/2014, Urso e a.)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.09.2018 n. 39677 - link a www.ambientediritto.it).

INCARICHI PROFESSIONALILa delibera di giunta non è sufficiente per riconoscere un debito fuori bilancio.
Con la sentenza 03.09.2018 n. 5138, il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sez. V, ha confermato l’orientamento secondo il quale i contratti con la Pa devono essere redatti, a pena di nullità, in forma scritta, con la conseguenza che è da escludersi l’idoneità a costituire un impegno per l’Ente la sola Delibera di Giunta comunale, priva del relativo impegno di spesa, nonché dell’indicazione dei mezzi per far fronte al compenso del professionista.
Il fatto
Il caso in esame riguarda l’atto di conferimento di un incarico tecnico, adottato con Deliberazione di Giunta, per la redazione del progetto esecutivo di una Caserma dell’Arma, asseritamente utilizzato dall’Amministrazione committente ai fini della richiesta di apposito finanziamento.
Il professionista, a seguito dell’adempimento dell’incarico, ha più volte rivendicato, previa presentazione di rituale parcella, la corresponsione delle competenze maturate con l’espletamento della propria attività, diffidando l’Ente ad inserire il credito vantato nell’elenco dei debiti fuori bilancio e richiedendo l’attivazione del potere sostitutivo, di cui all’articolo 2, comma 9-bis, della Legge n. 241/1990.
Riscontrando l’inerzia dell’Amministrazione e il mancato riconoscimento del debito fuori bilancio in sede consiliare, il tecnico ha presentato ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale per la Basilicata, la cui Sezione I, con sentenza n. 130 del 06.02.2017, ha, tuttavia, respinto il ricorso sull’assunto della infondatezza nel merito della pretesa creditoria.
Il professionista ha, pertanto, presentato appello chiedendo l’integrale riforma della citata sentenza, a suo giudizio palesemente erronea e ingiusta, per ottenere il riconoscimento, quale debito fuori bilancio, del credito maturato con l’attività professionale dispiegata a favore dell’Ente, per la refusione dell’indennizzo da ritardo e, in caso di ulteriore inerzia da parte dell’Ente, per la designazione di organo commissariale sostitutivo.
Il diritto
Il Consiglio di Stato ha, tuttavia, respinto l’appello, dichiarandolo infondato. Anzitutto, con riferimento all’asserita inerzia dell’Ente, in ordine alla richiesta di approvazione del debito fuori bilancio, la Corte ha condiviso il giudizio del Tar, che ha ritenuto idonea a interrompere validamente detta inerzia la nota di riscontro trasmessa dal comune, con la quale l’Amministrazione ha evidenziato al professionista la non ricorrenza dei presupposti per il riconoscimento del credito vantato. Altresì, ha condiviso l’apprezzamento fatto dal primo giudice sull’infondatezza della pretesa azionata.
Il Consiglio di Stato ha, poi, evidenziato come, secondo l’orientamento giurisprudenziale, i contratti con la Pubblica Amministrazione devono essere redatti, a pena di nullità, in forma scritta, con la sottoscrizione da parte dell’organo rappresentativo dell’Ente, che ha i poteri necessari per vincolare l’Amministrazione, e della controparte di un unico documento, contenente le clausole disciplinanti dettagliatamente il rapporto. Tali regole formali sono funzionali all’attuazione del principio costituzionale di buona amministrazione, in quanto agevolano l’esercizio dei controlli e rispondono all’esigenza di tutela contro il pericolo di impegni finanziari assunti senza l’adeguata copertura e senza la valutazione dell’entità delle obbligazioni da adempiere.
In ultimo, la Corte ha chiarito che in una Convenzione per la progettazione di un’opera pubblica, tra un Ente locale e un professionista, la clausola con cui il pagamento del compenso per la prestazione resa è condizionato alla concessione di un finanziamento per la realizzazione di detta opera deve qualificarsi come “condizione potestativa mista”, il cui mancato avveramento preclude l’azionabilità del credito.
Nel caso di specie, l’Amministrazione, nel riscontrare la richiesta di riconoscimento del debito fuori bilancio formulata dall’appellante, ha correttamente rilevato la mancanza dei relativi presupposti, in quanto:
   a) il contratto non era stato stipulato nelle forme di rito, trattandosi di incarico conferito sulla base della sola Delibera di Giunta comunale;
   b) il pagamento dell’eventuale corrispettivo era stato subordinato al conseguimento di un finanziamento, che non era stato mai riconosciuto, con il conseguente venir meno della relativa condizione.
Quanto rilevato appare sufficiente per confermare l’insussistenza del credito vantato in danno dell’Amministrazione e l’inesistenza dell’obbligo di attivare il procedimento per il riconoscimento del relativo debito fuori bilancio (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 01.10.2018).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Reati ambientali - Inosservanza degli obblighi - Difficoltà economiche dell'impresa - Causa di forza maggiore - Esclusione - SICUREZZA SUL LAVORO - Inosservanza di norme antinfortunistiche - Azione od omissione cosciente e volontaria dell'agente - Art. 45 cod. pen..
In tema di reati ambientali, non può rientrare tra gli eventi di forza maggiore di cui all'art. 45 cod. pen. l'inosservanza degli obblighi imposti dalla legge in materia di inquinamento delle acque per difficoltà economiche dell'impresa titolare degli scarichi dato che la forza maggiore si concreta soltanto in un evento, derivante dalla natura o da fatto dell'uomo, che non può essere preveduto o impedito (Sez. 3, n. 643 del 22/10/1984, dep. 1985, Bottura), pertanto, le difficoltà economiche in cui versa il soggetto agente non sono riconducibili al concetto di forza maggiore che postulando la individuazione di un fatto imponderabile, imprevisto ed imprevedibile, esula del tutto dalla condotta dell'agente, sì da rendere ineluttabile il verificarsi dell'evento, non potendo ricollegarsi in alcun modo ad un'azione od omissione cosciente e volontaria dell'agente (Sez. 1, Sentenza n. 18402 del 05/04/2013, Giro, relativa al reato di cui all'art. 650 cod. pen. per violazione di ordinanza sindacale in tema di smaltimento di rifiuti).
Analoghi principi sono stati affermati in materia di violazione di norme antinfortunistiche (Sez. 3, n. 9041 del 18/09/1997, Chiappa).

DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Causa di forza maggiore maggiore e condotta dell'agente- Fatto imponderabile, imprevisto ed imprevedibile - Azione od omissione volontaria - Difficoltà economiche - Giurisprudenza.
La forza maggiore postula la individuazione di un fatto imponderabile, imprevisto ed imprevedibile, che esula del tutto dalla condotta dell'agente, sì da rendere ineluttabile il verificarsi dell'evento, non potendo ricollegarsi in alcun modo ad un'azione od omissione cosciente e volontaria dell'agente, sicché, è stato sempre escluso, quando la specifica questione è stata posta, che le difficoltà economiche in cui versa il soggetto agente possano integrare la forza maggiore penalmente rilevante (Sez. 3, n. 4529 del 04/12/2007, Cairone; Sez. 1, n. 18402 del 05/04/2013, Giro; Sez 3, n. 24410 del 05/04/2011, Bolognini; Sez. 3, n. 9041 del 18/09/1997, Chiappa; Sez. 3, n. 64.3 del 22/10/1984, Bottura; Sez. 3, n. 7779 del 07/05/1984, Anderi. Costituisce corollario di queste affermazioni il fatto che nei reati omissivi integra la causa di forza maggiore l'assoluta impossibilità, non la semplice difficoltà di porre in essere il comportamento omesso (Sez. 6, n. 10116 del 23/03/1990, Iannone; Sez. 3, n. 8352 del 24/06/2014, dep. 2015, Schirosi) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.08.2018 n. 39032 - link a www.ambientediritto.it).

TRIBUTIPoste, le insegne sono esentasse.
Sono esenti dall'imposta sulla pubblicità le insegne di Poste italiane installate negli uffici postali. Le dimensioni delle diverse insegne installate nello stesso ufficio vanno sommate e considerate un unicum ai fini del riconoscimento dell'agevolazione fiscale, a condizione che non superino la misura massima di 5 metri quadrati fissata dalla legge. È invece soggetta a imposizione la pubblicità dei prodotti finanziari, quali i buoni fruttiferi postali, le polizze vita, i titoli obbligazionari e via dicendo, perché ha la finalità di reclamizzarli e promuoverli per acquisire potenziali clienti.

Lo ha stabilito la Ctr Perugia, seconda sezione, con la sentenza 09.08.2018 n. 346.
Per i giudici d'appello, le insegne di esercizio contenente l'indicazione Poste italiane non sono soggette a imposizione e vanno considerate in maniera unitaria. Dunque, la superficie finale «è data dalla sommatoria delle superfici effettive di ogni singola insegna».
La pluralità di insegne presso ogni singolo ufficio postale, che hanno lo stesso contenuto e che identificano lo stesso soggetto passivo, deve essere valutata come un «unicum», come se si trattasse di una sola insegna. E non va assoggettata a imposizione se la superficie complessiva risulta inferiore a 5 metri quadrati, poiché al di sotto del limite per il quale ex lege deve essere riconosciuta l'esenzione.
Nella sentenza, infatti, viene richiamato l'articolo 17, comma 1-bis, del decreto legislativo 507/1993, in base al quale l'imposta non è dovuta per le insegne di esercizio di attività commerciali e di produzione di beni o servizi che contraddistinguono la sede ove si svolge l'attività dell'impresa, di superficie complessiva fino a 5 metri quadrati.
Nel caso di specie, secondo la commissione regionale, le insegne riproducono la denominazione dell'impresa che svolge l'attività commerciale, e «indicano la sede ove si svolge l'attività delle ricorrenti Poste». Il trattamento agevolato va invece escluso per la pubblicità di «prodotti finanziari, quali ad es. buoni fruttiferi postali, polizze vita, titoli obbligazionari», il cui fine è quello «di far conoscere e convogliare potenziali clienti verso tali forme di investimenti» (articolo ItaliaOggi del 28.09.2018).

PUBBLICO IMPIEGO: Integra la diffamazione l'e-mail in molteplici copie.
Inviare un'e-mail con in copia numerosi destinatari integra il reato di diffamazione.

Lo spiega la quinta sezione penale della Suprema corte di Cassazione, Sez. V penale, nella sentenza 20.07.2018 n. 34484, che ha affrontato una caso in cui un uomo inviò a ben sei funzionari doganali in copia una e-mail estremamente diffamatoria indirizzata ad un collega.
Da qui la querela per ingiuria aggravata, trattandosi appunto di una e-mail plurima. Ma il tribunale riformò la definizione di reato, assolvendo l'uomo dalle accuse aggravate. E il funzionario chiese giustizia direttamente presso la cassazione, chiedendo che venisse riformata la sentenza assolutoria.
I giudici, osservando i precedenti circa il reato di diffamazione contemporaneo, hanno accolto il motivo di ricorso del funzionario equiparandolo, però, ad un concorso di ingiuria e diffamazione ed escludendo quindi la fattispecie dell'aggravante. «L'invio di e-mail a contenuto diffamatorio», spiegano gli ermellini nel dispositivo di legge, «realizzato tramite l'utilizzo di internet, integra un'ipotesi di diffamazione aggravata e l'eventualità che fra i fruitori del messaggio vi sia anche la persona a cui si rivolgono le espressioni offensive, non consente di mutare il titolo del reato nella diversa ipotesi di ingiuria
».
E ancora che la missiva a contenuto diffamatorio», proseguono i giudici di piazza Cavour, «diretta a una pluralità di destinatari, oltre l'offeso, non integra il reato di ingiuria aggravata dalla presenza di più persone, bensì quello di diffamazione, stante la non contestualità del recepimento delle offese medesime e la conseguente maggiore diffusione della stessa. Secondo questa impostazione il reato, comunque ormai depenalizzato, di ingiuria, in tal caso rimane assorbito».
E i giudici proseguono nell'argomentazione del principio di diritto secondo cui «il fatto che quando la corrispondenza con più destinatari avviene per via telematica», si legge, «se è vero che la digitazione della missiva avviene con unica azione, la sua trasmissione si realizza attraverso una pluralità di atti operati dal sistema e di cui l'agente è ben consapevole; di qui la conclusione che in ogni caso il fatto contestato integra quantomeno anche il reato di diffamazione» (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.10.2018).
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MASSIMA
1.2. Indubbiamente con l'art. 1 del d.lgs. 7/2016 il reato di ingiuria è stato integralmente depenalizzato, anche quanto alla forma aggravata di cui al quarto comma.
In suo luogo, l'ordinamento ora prevede un illecito civile, di cui all'art. 4, comma 1, lett. a), del decreto 7/2016, secondo cui soggiace alla sanzione pecuniaria civile da € 100 a € 8.000 chi offende l'onore o il decoro di una persona presente, ovvero mediante comunicazione telegrafica, telefonica, informatica o telematica, o con scritti o disegni, diretti alla persona offesa. Ai sensi dell'art. 3 del decreto tali fatti previsti, se dolosi, obbligano anche alle restituzioni e al risarcimento del danno secondo le leggi civili.
1.3. La tesi propugnata dal Tribunale non appare convincente alla luce dell'analisi testuale dell'art. 594 cod. pen., pur abrogato ma vigente all'epoca del fatto.
Il primo comma riguardava l'ipotesi dell'offesa arrecata ad una persona presente.
Il secondo comma assoggettava alla stessa sanzione l'offesa dell'onore o del decorro, arrecata «a distanza», ossia con comunicazione telegrafica o telefonica o con scritti e disegni diretti alla persona offesa.
Il quarto comma contemplava, infine, un'aggravante nel caso in cui l'offesa sia commessa in presenza di più persone.
Tale aggravante, che presuppone la presenza degli spettatori, non è riferibile in riferimento all'ipotesi di ingiuria a distanza, considerata nel ricordato comma 2 dell'art. 594.
Il concetto di «presenza» implica necessariamente la presenza fisica, in unità di tempo e di luogo, di offeso e spettatori o almeno una situazione ad essa sostanzialmente equiparabile, realizzata con l'ausilio dei moderni sistemi tecnologici (si pensi ad esempio alla call conference, audioconferenza o videoconferenza). Non è ravvisabile invece nel mero fatto di essere destinatari di una missiva, pur inoltrata con un mezzo, quello telematico, infinitamente più rapido ed efficiente dell'antico sistema postale, poiché in tale ipotesi, oltre all'insuperabile dato testuale normativo, viene a mancare la necessaria contestualità dell'effetto comunicativo, che caratterizza l'aggravante (Sez. 5, n. 18919 del 15/03/201, Laganà, Rv. 266827).
1.4.
Allorché l'offesa sia arrecata con una comunicazione scritta indirizzata sia alla persona offesa, sia a più altri destinatari, che ne vengono quindi messi a conoscenza si realizza il concorso fra il reato di ingiuria ex art. 594, comma 2, cod. pen., ormai depenalizzato, e quello di diffamazione ex art. 595 cod.pen., tuttora previsto dalla legge come reato.
Infatti
allorché l'offesa sia arrecata a mezzo di uno scritto e sia indirizzata all'interessato ed a terzi estranei, non può escludersi il concorso tra ingiuria e diffamazione, nel caso in cui la concreta fattispecie comprenda elementi costitutivi delle due distinte norme incriminatrici (Sez. 5, n. 12160 del 04/02/2002, Gaspari A, Rv. 221252): non è lo stesso fatto ad assumere rilievo ma due fatti ben distinti, ossia la trasmissione della lettera al diretto interessato e la trasmissione delle altre missive, seppur di analogo contenuto, ai terzi destinatari, per la cui realizzazione occorre porre in essere distinte condotte, sorrette dal correlativo coefficiente psicologico. 
1.5.
Tali conclusioni non mutano se alla comunicazione epistolare tradizionale si sostituisce, per effetto dell'evoluzione tecnologica, l'invio di una missiva per posta elettronica che includa fra i destinatari sia la persona offesa, sia gli ulteriori soggetti portati a conoscenza dell'offesa, trattandosi di strumento moderno che realizza, con semplicità ed efficacia esponenziali, il medesimo risultato in passato ottenuto con l'invio di una pluralità di lettere a più destinatari.
Ed anche in questo caso, occorre notare per chiarezza, l'autore pone in essere una condotta specifica rivolta a comunicare il messaggio a ciascuno dei destinatari prescelti, digitando il suo indirizzo di posta elettronica nell'apposita casella, e sorregge psicologicamente tale azione con coscienza e volontà, rappresentandosi e volendo le conseguenze della condotta realizzata.
1.5. Questa Sezione in varie occasioni ha affermato che
l'invio di e-mail a contenuto diffamatorio, realizzato tramite l'utilizzo di internet, integra un'ipotesi di diffamazione aggravata e l'eventualità che fra i fruitori del messaggio vi sia anche la persona a cui si rivolgono le espressioni offensive, non consente di mutare il titolo del reato nella diversa ipotesi di ingiuria (Sez. 5, n. 44980 del 16/10/2012, P.M. in proc. Nastro, Rv. 254044); ed ancora che la missiva a contenuto diffamatorio diretta a una pluralità di destinatari, oltre l'offeso, non integra il reato di ingiuria aggravata dalla presenza di più persone, bensì quello di diffamazione, stante la non contestualità del recepimento delle offese medesime e la conseguente maggiore diffusione della stessa (Sez. 5, n. 18919 del 15/03/2016, Laganà, Rv. 266827); secondo questa impostazione il reato, comunque ormai depenalizzato, di ingiuria, in tal caso rimane assorbito.
Secondo altro orientamento più tradizionale
si configurava il concorso tra i reati di ingiuria e diffamazione qualora le lettere offensive indirizzate a più persone fossero inviate anche alla persona offesa (tra le altre Sez. 5, n. 48651 del 22/10/2009, Nasce', Rv. 245827; Sez. 5, n. 12160 del 04/02/2002, Gaspari A, Rv. 221252); impostazione questa che farebbe residuare, mutatis mutandis, il concorso fra l'illecito civile di cui all'art. 4 d.lgs. 7/2016 e il reato di diffamazione.
Di segno apparentemente contrario appare la decisione assunta da questa Sezione 5, n. 24325 del 20/04/2015 (R. e altro, Rv. 263911) che
ha ravvisato il reato di ingiuria nell'invio a soggetti diversi dalla persona offesa di una mail contenente espressioni offensive con la consapevolezza che essa sarebbe stata comunicata al soggetto offeso; tale pronuncia risulta tuttavia esclusivamente focalizzata sulla volontà offensiva del mittente, in concreto esclusa per i pessimi rapporti fra destinatario della lettera e persona offesa, e resa in un contesto in cui non era prospettabile la diffamazione perché la lettera era stata indirizzata a una sola persona.
Un recente arresto di questa Sezione (Sez. 5, n. 12603 del 02/02/2017, Segagni) ha ribadito che
la missiva a contenuto diffamatorio diretta a una pluralità di destinatari, oltre l'offeso, integra il reato di diffamazione, stante la non contestualità del recepimento delle offese medesime e la conseguente maggiore diffusione della stessa, senza prender posizione sulla concorrente persistenza o meno dell'illecito di ingiuria.
In questa pronuncia la Corte ha posto in evidenza il fatto che quando la corrispondenza con più destinatari avviene per via telematica, se è vero che la digitazione della missiva avviene con unica azione, la sua trasmissione si realizza attraverso una pluralità di atti operati dal sistema e di cui l'agente è ben consapevole; di qui la coerente conclusione che in ogni caso il fatto contestato integra quantomeno anche il reato di diffamazione.
Tali considerazioni appaiono condivisibili, anche se appare opportuno precisare che il mittente, che pur digita la missiva uno actu, appone separatamente e consapevolmente l'indirizzo telematico di ciascun destinatario a cui vuole render nota la mail.
1.6. Le conclusioni esposte non possono essere inficiate dal fatto che la missiva sia stata inoltrata ai Dirigenti doganali «per conoscenza», poiché questa connotazione soddisfa tutti i requisiti della fattispecie incriminatrice che esige solamente che l'offesa all'altrui reputazione sia comunicata a una pluralità di destinatari, senza ascrivere alcun rilievo al titolo e alle ragioni per cui la comunicazione viene effettuata.
2. La difesa dell'imputato Ga.Ba. ha chiesto, per il caso in cui fosse rilevata l'astratta sussumibilità del fatto nell'ipotesi di diffamazione ex art. 595, comma 3, cod. pen., l'annullamento della sentenza impugnata e la trasmissione degli atti alla Procura competente
2.1. La difesa dell'imputato osserva che la condotta in contestazione era stata realizzata con unico messaggio trasmesso sia alla persona offesa, sia in copia per conoscenza ai titolari di vari Uffici.
Se fosse esatta la prospettazione, il reato, a suo dire, integrerebbe l'ipotesi di cui al terzo comma dell'art. 595, in ragione del suo aggravamento derivante da uno strumento di pubblicità di notevole capacità diffusiva.
Di qui la competenza residuale del Tribunale, ai sensi dell'art. 6 cod. proc. pen., tenuto conto della limitata investitura determinata dall'art. 4 d.lgs. 274/2000 per i soli casi di diffamazione di cui commi 1 e 2 dell'art. 595 cod. pen.
2.2. La tesi non può essere condivisa: il terzo comma dell'art. 595 riguarda il caso in cui l'offesa sia arrecata con il mezzo della stampa o comunque con mezzo pubblicitario potenzialmente diffusivo e non può essere esteso sino a ricomprendere il caso in cui l'offesa sia stata arrecata con uno scritto inoltrato per conoscenza a un numero circoscritto e limitato di destinatari, personalmente individuati e determinati, a cui la missiva è stata diretta per renderli informati del suo contenuto, sia pure per posta elettronica.
Questa Corte ha ritenuto che la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l'uso di una bacheca facebook integra un'ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell'art. 595, comma terzo, cod. pen., sotto il profilo dell'offesa arrecata «con qualsiasi altro mezzo di pubblicità» diverso dalla stampa, proprio perché la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone (Sez. 5, n. 4873 del 14/11/2016 - dep. 2017, P.M. in proc. Manduca, Rv. 269090)
Non può invece condividersi l'apparente generalizzazione espressa dalla massima che sintetizza la decisione di questa Sezione 5, n. 29221 del 06/04/2011, De Felice, Rv. 250459, secondo cui integra il reato di diffamazione aggravato ai sensi dell'art. 595, comma 3, cod. pen. (offese recate con la stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità), la diffusione delle espressioni offensive mediante il particolare e formidabile mezzo di pubblicità della posta elettronica, con lo strumento del forward a pluralità di destinatari.
Non è il ricorso alla posta elettronica, che è solo uno strumento tecnologico più agevole, comodo ed efficiente della posta tradizionale, che configura, di per sé e automaticamente, un «mezzo pubblicitario», al quale tuttavia può essere equiparato in concreto quando per le particolari modalità della condotta sia stato possibile raggiungere un gruppo indeterminato o molto elevato di destinatari: il che certamente non si è verificato nella presente fattispecie, in cui la missiva è stata inviata ad un numero determinato e contenuto di persone ben scelte (sei).
2.3. In ogni caso, il ricorso è stato proposto dalla parte civile e quindi rileva ai soli effetti civili, e non si giustificherebbe i comunque la trasmissione degli atti al Pubblico Ministero.

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Le controversie circa l'impugnazione delle note comunali di escussione della polizza fidejussoria si inseriscono nell’ambito di un rapporto privatistico che esula dalla cognizione propria del giudice amministrativo.
Come è stato osservato, “la giurisdizione esclusiva del G.A. in materia di edilizia e urbanistica non può estendersi anche all'escussione della polizza fideiussoria relativa al pagamento degli oneri di urbanizzazione. Ed invero, l'obbligazione principale e quella fideiussoria, benché fra loro collegate, mantengono una propria individualità non soltanto soggettiva (data l'estraneità del fideiussore al rapporto richiamato dalla garanzia) ma anche oggettiva, in quanto la causa fideiussoria è fissa ed uniforme, mentre l'obbligazione garantita può basarsi su qualsiasi altra causa idonea allo scopo, con la conseguenza che la disciplina dell'obbligazione garantita non influisce su quella della fideiussione, per la quale continuano a valere le normali regole, comprese quelle sulla giurisdizione”.
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L’eccezione di inammissibilità per difetto di giurisdizione dell’impugnazione dell’atto di escussione della polizza fideiussoria è fondata.
Infatti questo tipo di controversie si inseriscono nell’ambito di un rapporto privatistico che esula dalla cognizione propria del giudice amministrativo (ex pluribus cfr. Tar Abruzzo, L'Aquila, Sez. I, 05.02.2018, n. 39; Tar Molise, Sez. I, 17.05.2017 n. 184; Cass., Sez. Un. 28.07.2016 n. 15666; Tar Veneto, Sez. II, 20.07.2015, n. 839).
Come è stato osservato (cfr. Tar Lombardia, Milano, Sez. II,11.05.2015, n. 1137) “la giurisdizione esclusiva del G.A. in materia di edilizia e urbanistica non può estendersi anche all'escussione della polizza fideiussoria relativa al pagamento degli oneri di urbanizzazione. Ed invero, l'obbligazione principale e quella fideiussoria, benché fra loro collegate, mantengono una propria individualità non soltanto soggettiva (data l'estraneità del fideiussore al rapporto richiamato dalla garanzia) ma anche oggettiva, in quanto la causa fideiussoria è fissa ed uniforme, mentre l'obbligazione garantita può basarsi su qualsiasi altra causa idonea allo scopo, con la conseguenza che la disciplina dell'obbligazione garantita non influisce su quella della fideiussione, per la quale continuano a valere le normali regole, comprese quelle sulla giurisdizione”.
Pertanto l’impugnazione dell’atto prot. n. 3776 del 23.06.2014, di escussione della polizza fideiussoria deve essere dichiarata inammissibile per difetto di giurisdizione.
L’eccezione di inammissibilità del ricorso per l’omessa notifica a Ge.It.Spa non può essere condivisa perché il ricorso in realtà è stato notificato al domicilio contrattualmente eletto nelle condizioni generali del contratto e in ogni caso difettano i presupposti per qualificare il garante come controinteressato in senso sostanziale.
Infatti trattandosi di un contratto autonomo di garanzia, l’affermazione secondo la quale il garante avrebbe dovuto agire avanti al giudice ordinario per far valere l’invalidità del rapporto sottostante, è priva di riscontri.
L’eccezione di inammissibilità per omessa notifica al controinteressato deve pertanto essere respinta (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 17.07.2018 n. 764 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La fattispecie in esame, che si sostanzia nella conclusione di due atti negoziali separati ma tra loro collegati per la stessa volontà delle parti, ovvero l’atto unilaterale d’obbligo e la convenzione, è riconducibile nell’alveo degli strumenti propri della c.d. urbanistica contrattata, che non violano il principio di legalità perché trovano la loro copertura normativa nella previsione di strumenti consensuali di esercizio delle potestà amministrative di cui agli artt. 1, comma 1-bis, e 11 della legge 07.08.1990, n. 241, ed il loro fondamento nel potere pianificatorio di governo del territorio e nella possibilità di stipulare accordi sostitutivi di provvedimenti ed è pertanto “la natura facoltativa degli istituti perequativi de quibus, nel senso che la loro applicazione è rimessa a una libera scelta degli interessati, a escludere che negli stessi possa ravvisarsi una forzosa ablazione della proprietà nonché, nel caso del contributo straordinario, che si tratti di prestazione patrimoniale imposta in violazione della riserva di legge ex art. 23 Cost.”.
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Peraltro un tale accordo non sarebbe neppure censurabile sostenendo che il valore delle opere da realizzare eccede quello previsto per gli oneri di urbanizzazione.
Infatti nelle convenzioni urbanistiche non è ravvisabile una necessaria corrispondenza biunivoca e sinallagmatica tra il valore delle prestazioni assunte, e che il privato è pertanto obbligato ad eseguire puntualmente tutte le prestazioni previste dalla Convenzione senza che abbia alcun rilievo la circostanza che queste possano eccedere, originariamente o successivamente, gli oneri di urbanizzazione.
Sul punto sembra pertanto sufficiente richiamare i principi espressi in proposito dalla giurisprudenza proprio con riguardo ad una censura di nullità di una convenzione urbanistica, ai sensi degli artt. 1325 e 1418 c.c., nella parte in cui prevedeva a carico del soggetto attuatore opere per un valore eccedente quello degli oneri di urbanizzazione, laddove ha affermato che “quanto a quest’ultimo profilo, ed in via conclusiva, può richiamarsi un breve passaggio motivazionale contenuto in una recente decisione della Sezione che il Collegio condivide pienamente e che ben si attaglia alla fattispecie in esame, essendosi ivi precisato che la giurisprudenza si è oramai orientata nell’affermare, all’interno delle convenzioni di urbanizzazione, la prevalenza del profilo della libera negoziazione.
Infatti, si è affermato che, sebbene sia innegabile che la convenzione di lottizzazione, a causa dei profili di stampo giuspubblicistico che si accompagnano allo strumento dichiaratamente contrattuale, rappresenti un istituto di complessa ricostruzione, non può negarsi che in questo si assista all’incontro di volontà delle parti contraenti nell'esercizio dell'autonomia negoziale retta dal codice civile.
Ne deriva che l’argomento sostenuto nel ricorso in primo grado, ossia che le clausole convenute, in quanto aggiuntive rispetto agli oneri di urbanizzazione, riferiti ad opere e servizi menzionati dalla normativa, non siano consentite, con conseguente nullità delle stesse, non può essere sostenuto, trattandosi di determinazione pattizia rimessa alla contrattazione tra i due diversi soggetti coinvolti”.
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Così delimitato il giudizio all’esame delle censure di nullità dell’atto unilaterale d’obbligo e della convenzione, e di annullamento dell’elenco annuale e del programma triennale delle opere pubbliche, nel merito il ricorso è infondato e deve essere respinto.
In fatto è necessario premettere che dalla documentazione versata in atti l’affermazione delle ricorrenti secondo la quale le stesse sarebbero state in sostanza costrette dal Comune ad accettare l’obbligo di progettare e realizzare la piazza della frazione di Mosnigo per poter realizzare il piano attuativo relativo alle proprie aree risulta priva di riscontri.
Lo strumento urbanistico generale prevede un’apposita scheda norma denominata PND16 per l’ambito di interesse delle ricorrenti che nella versione originaria prevedeva in modo dettagliato con apposite tavole prescrittive una predeterminata configurazione insediativa ed infrastrutturale.
Con deliberazione consiliare n. 11 del 06.07.2009, il Comune, su iniziativa dei provati interessati, ha approvato una variante con la quale a determinate condizioni è stata ammessa la derogabilità di tali rigide previsioni ferme restando le quantità minime e massime dei parametri urbanistici ed edilizi.
L’art. 48 delle norme tecniche di attuazione allegate al piano regolatore, nel testo modificato, ha previsto quindi che “le aree indicate nelle tavole 13.3 di progetto con le lettere PND e numerate dalla 1 alla 16 sono disciplinate dalle norme contenute nell’allegato testo denominato: regolamento urbanistico – progetti norma per le aree produttive (…). Nella comprovata impossibilità tecnica di realizzare i Progetti Norma o parte degli stessi in base alle prescrizioni indicazioni del Regolamento Urbanistico o qualora, in relazione ad approfondimenti connessi alla pianificazione attuativa, ciò appaia corrispondente al pubblico interesse, in sede di approvazione dello Strumento Urbanistico Attuativo da parte del Consiglio Comunale, è possibile, in deroga a tali prescrizioni indicazioni, apportare motivate modifiche non sostanziali alla posizione delle aree pubbliche e/o degli accessi carrabili, delle viabilità, delle forme e del posizionamento delle sagome, ferme restando le quantità minime e massime e tutti i parametri urbanistici e edilizi previsti dal Progetto Norma, secondo quanto disposto dal precedente art. 9, comma 2, lett. c), punto 1” (cfr. doc. 5 allegato alle difese del Comune).
Il progetto norma PND16 prevedeva che nella nuova area produttiva dovessero trovare spazio, secondo una logica polifunzionale, attività artigianali ed industriali con la presenza di più sub-unità autonome e di spazi promiscui ad uso delle realtà potenzialmente insediabili, mediante la costruzione di più edifici con una sorta di corte interna (cfr. la tavola C 2 di cui al doc. 4 allegato alle difese del Comune).
La proposta progettuale presentata dalle ricorrenti prevede invece due soli fabbricati densi e compatti a servizio delle stesse proponenti che sono obiettivamente diverse dalle previsioni prescrittive della specifica scheda norma, e che possono essere realizzate solo beneficando della deroga ammessa dal progetto norma a seguito delle modifiche introdotte dalla variante urbanistica approvata con deliberazione consiliare n. 11 del 06.07.2009.
Tale diverso assetto presenta dei vantaggi per le ricorrenti sia dal punto di vista funzionale, in quanto permette di soddisfare le esigenze di ampliamento delle attività produttive, sia per i minori oneri necessari alla realizzazione delle opere infrastrutturali.
Infatti, rispetto al progetto previsto dallo strumento urbanistico che contempla una presenza articolata di aree a verde, parcheggi e viabilità, la diversa impostazione contenuta nel progetto presentato può beneficiare delle infrastrutture già presenti.
Ciò premesso, può ritenersi acclarato che attraverso l’approvazione del progetto presentato dalle ricorrenti, le stesse hanno conseguito dei vantaggi derivanti da risparmi nella progettazione e realizzazione delle opere di urbanizzazione (le superfici a strade e parcheggi privati ad uso pubblico), nel recupero, all’interno dei lotti, di superfici in uso esclusivo privato, nell’eliminazione delle aree private comuni originariamente ipotizzate, nei minori costi di gestione per la razionalizzazione della gestione delle superfici coperte.
Un preciso riscontro in questo senso è rinvenibile nella nota del 25.03.2010 inviata dal tecnico incaricato dalle ricorrenti al Comune, che dimostra che l’iniziativa per ottenere i vantaggi derivanti dall’approvazione del piano secondo il nuovo assetto progettuale è stata assunta dalle ricorrenti, e che nel corso delle trattative intercorse tra le parti tali vantaggi sono stati quantificati in € 829.000,00 per la differenza derivante dalle opere di viabilità non realizzata, per l’aumento della superficie fondiaria e per la plusvalenza del terreno (cfr. doc. 6 allegato alle difese del Comune).
Dal punto di vista documentale risulta pertanto che, come sostiene il Comune nelle proprie difese, la proposta di progettare e realizzare la piazza della frazione di Mosnigo è stata avanzata dalle ricorrenti quale forma di beneficio pubblico volta a compensare i benefici economici ritraibili dalle stesse dall’approvazione della variante che ha introdotto margini di flessibilità rispetto alle originarie previsioni del piano regolatore generale, e dall’approvazione del piano attuativo che, in deroga all’assetto progettuale contenuto nello strumento urbanistico generale, ha beneficiato di tali margini di flessibilità.
Alla luce di tali premesse, il primo motivo con il quale le ricorrenti lamentano la nullità della convenzione e degli atti connessi nella parte in cui prevedono l’obbligo delle lottizzanti del rifacimento della Piazza di Mosnigo per violazione di norme imperative, per mancanza di causa e per la contrarietà a norme urbanistiche imperative, nonché la violazione degli artt. 1322, 1325, 1343 e 1418 c.c., in relazione agli artt. 1 e 11 della legge 07.08.1990, n. 241, l’indebita imposizione di prestazioni patrimoniali e la violazione dell’art. 23 della Costituzione, deve essere respinto.
Infatti dalla documentazione versata in atti risulta che la fattispecie in esame, che si sostanzia nella conclusione di due atti negoziali separati ma tra loro collegati per la stessa volontà delle parti, ovvero l’atto unilaterale d’obbligo e la convenzione, è riconducibile nell’alveo degli strumenti propri della c.d. urbanistica contrattata, che non violano il principio di legalità perché trovano la loro copertura normativa nella previsione di strumenti consensuali di esercizio delle potestà amministrative di cui agli artt. 1, comma 1-bis, e 11 della legge 07.08.1990, n. 241, ed il loro fondamento nel potere pianificatorio di governo del territorio e nella possibilità di stipulare accordi sostitutivi di provvedimenti (cfr. Corte Costituzionale, 17.07.2017, n. 209; Consiglio di Stato, Sez. IV, 13.07.2010, n. 4545) ed è pertanto “la natura facoltativa degli istituti perequativi de quibus, nel senso che la loro applicazione è rimessa a una libera scelta degli interessati, a escludere che negli stessi possa ravvisarsi una forzosa ablazione della proprietà nonché, nel caso del contributo straordinario, che si tratti di prestazione patrimoniale imposta in violazione della riserva di legge ex art. 23 Cost.” (in questi termini la sentenza del Consiglio di Stato, Sez. IV 13.07.2010, n. 4545; nello stesso senso si vedano anche le sentenze del Consiglio di Stato, Sez. V, 14.10.2014, n. 5072; Consiglio di Stato, Sez. IV, 07.03.2018, n. 1475).
La tesi della nullità dell’atto unilaterale d’obbligo e della convenzione perché l’obbligo di progettare e realizzare la piazza di Mosnigo sarebbe priva di causa o priva di fondamento normativo, deve pertanto essere respinta, in quanto dalla documentazione versata in atti risulta che vi è stata la consensuale e consapevole assunzione di tale obbligo per una finalità perequativa connessa ai benefici conseguenti all’accoglimento della nuova ipotesi progettuale che ha beneficiato dei margini di flessibilità introdotti dalla variante urbanistica approvata con deliberazione consiliare n. 11 del 06.07.2009, e dell’approvazione del piano attuativo in deroga alle previsioni del piano regolatore che originariamente avevano un valore prescrittivo inderogabile.
Peraltro un tale accordo non sarebbe neppure censurabile sostenendo che il valore delle opere da realizzare eccede quello previsto per gli oneri di urbanizzazione.
Infatti nelle convenzioni urbanistiche non è ravvisabile una necessaria corrispondenza biunivoca e sinallagmatica tra il valore delle prestazioni assunte, e che il privato è pertanto obbligato ad eseguire puntualmente tutte le prestazioni previste dalla Convenzione (cfr. Tar Lombardia, Brescia, 25.07.2005, n. 784) senza che abbia alcun rilievo la circostanza che queste possano eccedere, originariamente o successivamente, gli oneri di urbanizzazione (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 10.01.2003, n. 33; Tar Sicilia, Catania, III, 14.04.2011, n. 934).
Sul punto sembra pertanto sufficiente richiamare i principi espressi in proposito dalla giurisprudenza proprio con riguardo ad una censura di nullità di una convenzione urbanistica, ai sensi degli artt. 1325 e 1418 c.c., nella parte in cui prevedeva a carico del soggetto attuatore opere per un valore eccedente quello degli oneri di urbanizzazione (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 22.01.2013, n. 351), laddove ha affermato che “quanto a quest’ultimo profilo, ed in via conclusiva, può richiamarsi un breve passaggio motivazionale contenuto in una recente decisione della Sezione (n. 2040/2011) che il Collegio condivide pienamente e che ben si attaglia alla fattispecie in esame, essendosi ivi precisato che la giurisprudenza si è oramai orientata nell’affermare, all’interno delle convenzioni di urbanizzazione, la prevalenza del profilo della libera negoziazione. Infatti, si è affermato (Consiglio di Stato, sez. V, 10.01.2003, n. 33; Consiglio di Stato, sez. IV, 28.07.2005, n. 4015) che, sebbene sia innegabile che la convenzione di lottizzazione, a causa dei profili di stampo giuspubblicistico che si accompagnano allo strumento dichiaratamente contrattuale, rappresenti un istituto di complessa ricostruzione, non può negarsi che in questo si assista all’incontro di volontà delle parti contraenti nell'esercizio dell'autonomia negoziale retta dal codice civile.
Ne deriva che l’argomento sostenuto nel ricorso in primo grado, ossia che le clausole convenute, in quanto aggiuntive rispetto agli oneri di urbanizzazione, riferiti ad opere e servizi menzionati dalla normativa, non siano consentite, con conseguente nullità delle stesse, non può essere sostenuto, trattandosi di determinazione pattizia rimessa alla contrattazione tra i due diversi soggetti coinvolti
” (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 17.07.2018 n. 764 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Reati ambientali - Nozione di rifiuto - Gestione non autorizzata e rilevanza della condotta assolutamente occasionale - Artt. 183 e 256 d. lgs. n. 152/2006 - Giurisprudenza.
Ai sensi dell'art. 183, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 152 del 2006, per "rifiuto" si intende "qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione o abbia l'obbligo di disfarsi".
Sicché, la rilevanza della "assoluta occasionalità", ai fini dell'esclusione della tipicità del fatto in esame, deriva non già da una arbitraria delimitazione interpretativa della norma, bensì dal tenore della fattispecie penale, che, punendo la "attività" di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione, concentra il disvalore d'azione su un complesso di azioni, che, dunque, non può coincidere con la condotta assolutamente occasionale
(in tal senso, già Sez. 3, n. 5031 del 17/01/2012, Granata, secondo cui "con il termine "attività" deve intendersi ogni condotta che non sia caratterizzata da assoluta occasionalità, mentre la norma non richiede ulteriori requisiti di carattere soggettivo o oggettivo perché sia integrata la fattispecie criminosa).
È dunque la descrizione normativa ad escludere dall'area di rilevanza penale le condotte di assoluta occasionalità.

RIFIUTI - Gestione dei rifiuti - Assoluta occasionalità della condotta e natura giuridica del soggetto agente (privato, imprenditore, ecc.) - Effetti - Presupposti per la configurabilità del reato - Valutazione di fatto rimessa al giudice del merito.
In tema di gestione dei rifiuti, l'assoluta occasionalità non può essere ricavata esclusivamente dalla natura giuridica del soggetto agente (privato, imprenditore, ecc.), dovendo, invece, ritenersi non integrata in presenza di una serie di indici dai quali poter desumere un minimum di organizzazione che escluda la natura solipsistica della condotta.
In particolare, ai fini della configurabilità del reato previsto dall'art. 256 del d.lgs. 03.04.2006 n. 152, il carattere non occasionale della condotta di trasporto illecito di rifiuti può essere desunto da indici sintomatici, quali la provenienza del rifiuto da una attività imprenditoriale esercitata da chi effettua o dispone l'abusiva gestione, la eterogeneità dei rifiuti gestiti, la loro quantità, le caratteristiche del rifiuto indicative di precedenti attività preliminari di prelievo, raggruppamento, cernita, deposito
(Sez. 3, n. 36819 del 04/07/2017 - dep. 25/07/2017, Ricevuti; in senso conforme, Sez. 3, n. 8193 del 11/02/2016 - dep. 29/02/2016, P.M. in proc. Revello, la quale ha escluso l'occasionalità della condotta atteso che, pur essendo stato effettuato il trasporto in un'unica occasione, l'ingente quantità di rifiuti denotava lo svolgimento di un'attività commerciale implicante un minimum di organizzazione necessaria alla preliminare raccolta e cernita dei materiali); altri elementi indicativi per valutare l'occasionalità o meno del trasporto possono trarsi dal dato ponderale dei rifiuti oggetto di gestione, dalla disponibilità di un veicolo adeguato e funzionale al trasporto di rifiuti, dal fine di profitto perseguito.
Evidentemente, il profilo dell'assoluta occasionalità della condotta è oggetto precipuo della valutazione di fatto rimessa al giudice del merito, e dunque questione essenzialmente probatoria, che, ove congruamente motivata, non è suscettibile di censura in sede di legittimità
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.07.2018 n. 32180 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Secondo costante e condiviso orientamento giurisprudenziale:
   a) “la condanna del proprietario del suolo agli adempimenti previsti dall'art. 192 del D.Lgs n. 152/2006 necessita di un serio accertamento della sua responsabilità da effettuarsi in contraddittorio, ancorché fondato su presunzioni e nei limiti della esigibilità ove si ravvisi il titolo colposo di tale responsabilità, non potendosi configurare, in assenza di una apposita previsione di legge nazionale, alla stregua del diritto europeo, una responsabilità del proprietario da posizione”;
   b) ed invero, “in tema di abbandono di rifiuti, la titolarità del diritto di proprietà non vale, in tali ipotesi, a fondare una responsabilità oggettiva o per fatto altrui del proprietario”, “con conseguente esclusione della natura di obbligazione propter rem dell'obbligo di ripristino del fondo a carico del titolare di un diritto di godimento sul bene”;
   c) pertanto, ai sensi dell'art. 192, comma 3, d.lgs. n. 152 del 2006, nell'individuazione degli obblighi di rimozione e smaltimento di rifiuti abbandonati su area di proprietà, è “necessario che la responsabilità a titolo di dolo o di colpa, sia accertata dai soggetti istituzionalmente preposti al controllo, in particolare dal Comune, in contraddittorio con i soggetti interessati”;
   d) “non è, quindi, consentito di ritenere automaticamente responsabile il proprietario dell'area su cui sono stati abbandonati i rifiuti, salvo l'emersione di una colpa dello stesso che può anche essere vista nella trascuratezza, superficialità o anche indifferenza dello stesso che nulla abbia fatto e non abbia adottato alcuna cautela volta ad evitare che vi sia in concreto l'abbandono dei rifiuti”.
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V.2.1. E’ fondata, con valore assorbente, la censura relativa al difetto di istruttoria e di motivazione viziante l’ordinanza gravata quanto al mancato accertamento dell’imputabilità a titolo di dolo o colpa dell’incontrollato sversamento.
V.2.2. In primo luogo, dalla documentazione fotografica in atti e dalla planimetria allegata, emerge che i rifiuti risultano allocati all’esterno del fondo in proprietà della ricorrente, in prossimità del bordo stradale, sicché opportuno, oltre che necessario, secondo il richiamato disposto normativo, proprio ai fini dell’individuazione della legittimazione passiva del destinatario dell’ordine, sarebbe stato l’accertamento in contraddittorio sulla effettiva ubicazione dei rifiuti, sulla proprietà della strada interpoderale e sul suo effettivo utilizzo, esclusivo o di uso pubblico, onde definire la spettanza degli oneri di manutenzione.
V.2.3. Nell’atto impugnato non risulta, comunque, dimostrata, a prescindere dall’accertamento del precedente aspetto, l’imputabilità necessaria, quanto meno sotto il profilo della colpa, a titolo di concorso, per l’imposizione dell’obbligo di rimozione in capo all’odierna proprietaria. L’Amministrazione intimata si è infatti limitata a riportare le mere circostanze fattuali secondo le quali non è stato possibile risalire all’autore dell’illecito sversamento e che l’attuale ricorrente risulta essere proprietaria catastale dell’area che sarebbe interessata dallo sversamento.
Nella parte motiva, lo stesso organo procedente ha, per inciso, meramente specificato che non competa ad esso ente locale, “adottare misure preclusive all'accesso, senza le quali potranno comunque continuare gli abbandoni dei rifiuti”, ricorrendo, però, poi, ad una mera presunzione, in assenza dell’allegazione di qualsiasi elemento anche di natura indiziaria, circa l’attribuibilità, sotto il profilo psicologico, dell’abusivo abbandono dei rifiuti de quibus, in capo all’odierna ricorrente.
Né, a tale fine, può ritenersi idonea ad integrare, per relationem, la motivazione del gravato provvedimento la previa comunicazione di avvio del procedimento finalizzato all’adozione della misura di natura sanzionatoria, non contenendo nemmeno questa elementi circa l’accertamento della responsabilità dell’odierna ricorrente, essendo riportata la sola circostanza del deposito incontrollato dei suddetti rifiuti (cf. nota prot. n. 78613 del 26.10.2016, con richiamo al verbale dei VV.UU – Polizia Ambientale del 10.10.2016).
La garanzia della partecipazione procedimentale non esime, in ogni caso, l’Amministrazione, cui compete la vigilanza sul territorio e l’adozione delle conseguenti misure repressive e ripristinatorie, dall’accertamento, in materia ambientale, delle effettive responsabilità quanto all’illegittimo abbandono dei materiali in oggetto.
V.2.4. Orbene, secondo costante e condiviso orientamento giurisprudenziale, infatti:
   a) “la condanna del proprietario del suolo agli adempimenti previsti dall'art. 192 del D.Lgs n. 152/2006 necessita di un serio accertamento della sua responsabilità da effettuarsi in contraddittorio, ancorché fondato su presunzioni e nei limiti della esigibilità ove si ravvisi il titolo colposo di tale responsabilità, non potendosi configurare, in assenza di una apposita previsione di legge nazionale, alla stregua del diritto europeo, una responsabilità del proprietario da posizione” (Cons. di St., sez. IV, 07.06.2018, n. 3430);
   b) ed invero, “in tema di abbandono di rifiuti, la titolarità del diritto di proprietà non vale, in tali ipotesi, a fondare una responsabilità oggettiva o per fatto altrui del proprietario” (TAR Calabria, Reggio Calabria, 05.06.2018, n. 303), “con conseguente esclusione della natura di obbligazione propter rem dell'obbligo di ripristino del fondo a carico del titolare di un diritto di godimento sul bene” (TAR Campania, Napoli, sez. V, 06.02.2018, n. 752);
   c) pertanto, ai sensi dell'art. 192, comma 3, d.lgs. n. 152 del 2006, nell'individuazione degli obblighi di rimozione e smaltimento di rifiuti abbandonati su area di proprietà, è “necessario che la responsabilità a titolo di dolo o di colpa, sia accertata dai soggetti istituzionalmente preposti al controllo, in particolare dal Comune, in contraddittorio con i soggetti interessati” (TAR Sicilia, Palermo, sez. I, 28.05.2018, n. 1203);
   d) “non è, quindi, consentito di ritenere automaticamente responsabile il proprietario dell'area su cui sono stati abbandonati i rifiuti, salvo l'emersione di una colpa dello stesso che può anche essere vista nella trascuratezza, superficialità o anche indifferenza dello stesso che nulla abbia fatto e non abbia adottato alcuna cautela volta ad evitare che vi sia in concreto l'abbandono dei rifiuti” (TAR Campania, Napoli, Sez. V, 06.02.2018, n. 752; TAR Lombardia, Milano, sez. III, 08.03.2018 n. 651) (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 11.07.2018 n. 4599 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Gestione abusiva di rifiuti (rottami ferrosi) - Iscrizione all'albo dei gestori ambientali - Assenza - Attività di raccolta e trasporto di rifiuti urbani e speciali prodotti da terzi - articoli 208, 209, 211, 212, 214, 215 e 216 256 d.lgs. n. 152/2006 - Giurisprudenza.
La condotta sanzionata dall'art. 256, comma 1, d.lgs. n. 152/2006, è riferibile a chiunque svolga, in assenza del prescritto titolo abilitativo, una attività rientrante tra quelle assentibili ai sensi degli articoli 208, 209, 211, 212, 214, 215 e 216 del medesimo decreto, anche di fatto o in modo secondario o consequenziale all'esercizio di una attività primaria diversa, che richieda, per il suo esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati e che non sia caratterizzata da assoluta occasionalità.
Pertanto, ai fini della configurabilità del reato di gestione abusiva di rifiuti, non rileva la qualifica soggettiva dell'agente, bensì la concreta attività posta in essere in assenza dei prescritti titoli abilitativi, che può essere svolta anche di fatto o in modo secondario, purché non sia caratterizzata da assoluta occasionalità, da escludersi in ragione dell'esistenza di una minima organizzazione dell'attività, del quantitativo dei rifiuti gestiti, della predisposizione di un veicolo adeguato e funzionale al loro trasporto, dello svolgimento in più occasioni delle operazioni preliminari di raccolta, raggruppamento e cernita dei soli metalli, della successiva vendita e del fine di profitto perseguito dall'imputato.

RIFIUTI - Gestione abusiva - Reato istantaneo - Elementi per escludere l’occasionalità - Giurisprudenza.
In tema di rifiuti la violazione dell'art. 256, comma 1, d.lgs. 152/2006, ha natura di reato istantaneo, sicché, è sufficiente anche una sola condotta integrante una delle ipotesi alternative previste dalla norma, potendosi tuttavia escludere l'occasionalità della condotta da dati significativi, quali l'ingente quantità di rifiuti, denotanti lo svolgimento di un'attività implicante un "minimum" di organizzazione necessaria alla preliminare raccolta e cernita dei materiali.
Pertanto, agli elementi significativi utili per individuare la natura non occasionale dell'attività di trasporto, vanno considerati, anche alternativamente, altri elementi univocamente sintomatici, quali, ad esempio, la provenienza del rifiuto da una determinata attività imprenditoriale esercitata da colui che effettua o dispone l'abusiva gestione, la eterogeneità dei rifiuti gestiti, la loro quantità. le caratteristiche del rifiuto quando risultino indicative di precedenti attività preliminari, quali prelievo, raggruppamento, cernita, deposito
(Cass. Sez. 3, n. 36819 del 4/7/2017, Ricevuti) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.07.2018 n. 31396 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Scarico di acque reflue di prima pioggia e/o di dilavamento - Autorizzazione dell'ente competente - Effetti e limiti della disciplina regionale - Gestione delle acque di prima pioggia e di lavaggio da aree esterne - Fattispecie: distributore carburanti, area utilizzata come stallo o parcheggio - Artt. 137 d.lgs. n. 152/2006.
L'art. 137, comma 9 d.lgs. 152/2006 con le sanzioni stabilite dal primo comma, punisce, chiunque non ottempera alla disciplina dettata dalle regioni ai sensi dell'articolo 113, comma 3, il quale, a sua volta, prevede che le regioni disciplinino i casi in cui può essere richiesto che le acque di prima pioggia e di lavaggio delle aree esterne siano convogliate e opportunamente trattate in impianti di depurazione per particolari condizioni nelle quali, in relazione alle attività svolte, vi sia il rischio di dilavamento da superfici impermeabili scoperte di sostanze pericolose o di sostanze che creano pregiudizio per il raggiungimento degli obiettivi di qualità dei corpi idrici.
Nella specie, tuttavia, il Tribunale pur dando atto del contenuto della deliberazione, (della giunta regionale dell'Emilia Romagna 14.02.2005, n. 286 "Direttiva concernente indirizzi per la gestione delle acque di prima pioggia e di lavaggio da aree esterne"), e segnatamente delle esenzioni in essa previste, nonché della dimostrata destinazione dell'area a mero stallo o parcheggio, perviene poi a conclusioni che con tale disposizioni risultano porsi in evidente contrasto, valorizzando una "destinazione a pertinenza di altre attività principali" dell'area in questione che non trova riscontro nelle precedenti affermazioni nelle quali detta area si assume essere destinata esclusivamente a parcheggio, circostanza questa, che avrebbe comportato l'esenzione dagli obblighi ritenuti violati
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.07.2018 n. 31389 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Gestione abusiva - Condotta sanzionata - Natura di reato istantaneo - Presupposti che escludono l’occasionalità del trasporto e dati indicativi della non occasionalità - Poteri del giudice - Artt. 208, 209, 211, 212, 214, 215, 216 e 256 d.lgs. n. 152/2006 - Giurisprudenza.
La condotta sanzionata dall'art. 256, comma 1, d.lgs. 152/2006, è riferibile a chiunque svolga, in assenza del prescritto titolo abilitativo, una attività rientrante tra quelle assentibili ai sensi degli articoli 208, 209, 211, 212, 214, 215 e 216 del medesimo decreto, anche di fatto o in modo secondario o consequenziale all'esercizio di una attività primaria diversa che richieda, per il suo esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati e che non sia caratterizzata da assoluta occasionalità.
Trattandosi, nel caso dell'art. 256, comma 1, d.lgs. 152/2006, di reato istantaneo, è sufficiente anche una sola condotta integrante una delle ipotesi alternative previste dalla norma, potendosi tuttavia escludere l'occasionalità della condotta da dati significativi, quali l'ingente quantità di rifiuti, denotanti lo svolgimento di un'attività implicante un "minimum" di organizzazione necessaria alla preliminare raccolta e cernita dei materiali
(Sez. 3, n. 8193 del 11/02/2016, P.M. in proc. Revello).
L'occasionalità è stata esclusa, oltre che sulla base dell'esistenza di una minima organizzazione dell'attività, anche considerando il quantitativo dei rifiuti gestiti, la predisposizione di un veicolo adeguato e funzionale al loro trasporto, lo svolgimento in tre distinte occasioni delle operazioni preliminari di raccolta, raggruppamento e cernita dei soli metalli, la successiva vendita ed il fine di profitto perseguito dall'imputato (Sez. 3, n. 5716 del 07/01/2016, P M. in proc. lsoardi).
Pertanto, agli elementi significativi indicati per individuare la natura non occasionale del trasporto vanno considerati, anche alternativamente, altri elementi univocamente sintomatici, quali, ad esempio, la provenienza del rifiuto da una determinata attività imprenditoriale esercitata da colui che effettua o dispone l'abusiva gestione, la eterogeneità dei rifiuti gestiti, la loro quantità, le caratteristiche del rifiuto quando risultino indicative di precedenti attività preliminari, quali prelievo, raggruppamento, cernita, deposito (Sez. 3, n. 36819 del 04/07/2017, Ricevuti).
L'indicazione dei dati indicativi della non occasionalità della condotta precedentemente elencati non sono, ovviamente, esaustivi, ben potendo il giudice far ricorso ad altri elementi obiettivamente significativi in relazione al caso concreto
(Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.07.2018 n. 31387 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli oneri di urbanizzazione hanno natura di corrispettivo di diritto pubblico e sono commisurati al costo delle opere da realizzare nella zona, in quanto rappresentano un corrispettivo delle spese che la collettività affronta per il conferimento al soggetto privato del diritto all'edificazione.
Tali oneri hanno, in sostanza, la funzione di recuperare le spese sostenute dalla collettività comunale per la trasformazione del territorio a seguito della concessione del diritto di edificazione al privato, il quale ha l'onere di partecipare ai costi delle opere di urbanizzazione connessi all'edificazione, proporzionalmente all'insieme dei benefici che la nuova costruzione ne trae.
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Osserva preliminarmente il Collegio che gli oneri di urbanizzazione hanno natura di corrispettivo di diritto pubblico e sono commisurati al costo delle opere da realizzare nella zona, in quanto rappresentano un corrispettivo delle spese che la collettività affronta per il conferimento al soggetto privato del diritto all'edificazione; tali oneri hanno, in sostanza, la funzione di recuperare le spese sostenute dalla collettività comunale per la trasformazione del territorio a seguito della concessione del diritto di edificazione al privato, il quale ha l'onere di partecipare ai costi delle opere di urbanizzazione connessi all'edificazione, proporzionalmente all'insieme dei benefici che la nuova costruzione ne trae (V. Tar Piemonte–Torino, sez. II, 04.04.2018, n. 416) (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 09.07.2018 n. 1475 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Tanto in caso di ampliamento e ristrutturazione edilizia quanto in caso di mutamento d'uso “urbanisticamente rilevante” il titolare del permesso di costruire è soggetto ad un obbligo contributivo solo “differenziale”, ossia parametrato sul conguaglio tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per l'edificio preesistente e quelli dell'edificio rinnovato ovvero (in caso di cambio d'uso) sulla differenza tra gli oneri dovuti per la destinazione originaria e quelli più elevati del nuovo uso.
Invero, il cambio di destinazione d'uso oggetto di concessione edilizia, per di più se accompagnato da interventi edilizi interni, comporta l'imposizione di oneri integrativi di urbanizzazione. Infatti, una diversa utilizzazione dell'area interessata, determina una variazione quantitativa e qualitativa del carico urbanistico.
Il “criterio differenziale” opera anche se per la costruzione dell'immobile non venne originariamente corrisposto alcun onere, trattandosi di costruzione (e concessione edilizia) anteriore all’entrata in vigore della l. n. 10/1977.
La questione è stata oggetto di più ampio approfondimento da parte del Cons. di Stato, ove si afferma che qualora la costruzione dell’immobile sia avvenuta in un’epoca in cui non vigeva ancora l’istituto del contributo concessorio, “il relativo onere deve ritenersi assolto virtualmente, giacché, in difetto di un’imputazione virtuale del pregresso, alla sopravvenuta disciplina impositiva verrebbe data un’inammissibile applicazione retroattiva”.

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Pur avendo gli oneri di urbanizzazione natura di obbligazioni propter rem, il contributo afferente all’originario permesso di costruire è dovuto dall'intestatario del titolo edilizio, da colui al quale esso è volturato e da chi concretamente esegue le opere di trasformazione urbana, ma non anche dall'acquirente dell'edificio già costruito che non abbia partecipato all'attività edificatoria e quindi, ad avviso del Collegio, nemmeno da colui che abbia acquisito la disponibilità dell’immobile mediante in locazione finanziaria e abbia ottenuto un nuovo permesso di costruire per effettuare lavori funzionali alla modifica della destinazione d’uso dell’immobile.
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Secondo il prevalente orientamento della giurisprudenza amministrativa, che il Collegio ritiene di condividere, tanto in caso di ampliamento e ristrutturazione edilizia quanto in caso di mutamento d'uso “urbanisticamente rilevante” il titolare del permesso di costruire è soggetto ad un obbligo contributivo solo “differenziale”, ossia parametrato sul conguaglio tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per l'edificio preesistente e quelli dell'edificio rinnovato ovvero (in caso di cambio d'uso) sulla differenza tra gli oneri dovuti per la destinazione originaria e quelli più elevati del nuovo uso; invero, il cambio di destinazione d'uso oggetto di concessione edilizia, per di più se accompagnato da interventi edilizi interni, comporta l'imposizione di oneri integrativi di urbanizzazione. Infatti, una diversa utilizzazione dell'area interessata, determina una variazione quantitativa e qualitativa del carico urbanistico (v. Cons. Stato, Sez. V, 23.05.1997 n. 529; Cons. St., Sez. V, 13.05.2014, n. 2437; Tar Sicilia–Palermo, sez. II, 09.04.2014, n. 976; Tar Emilia Romagna-Parma, 12.11.2013 n. 329).
D’altra parte, nel caso di specie risulta incontestato tra le parti che l’immobile di cui trattasi è stato realizzato anteriormente all’entrata in vigore della l. n. 10/1977 e quindi, non è stato soggetto ad alcun onere concessorio.
Sotto tale profilo questo Tar (v. sentenza sez. I, 06.11.2015, n. 2587) ha già avuto modo di affermare che il “criterio differenziale” opera anche se per la costruzione dell'immobile non venne originariamente corrisposto alcun onere, trattandosi di costruzione (e concessione edilizia) anteriore all’entrata in vigore della l. n. 10/1977.
La questione è stata oggetto di più ampio approfondimento da parte del Cons. di Stato (v. sentenza, sez. VI, 02.07.2015, n. 3298), ove si afferma che qualora la costruzione dell’immobile sia avvenuta in un’epoca in cui non vigeva ancora l’istituto del contributo concessorio, “il relativo onere deve ritenersi assolto virtualmente, giacché, in difetto di un’imputazione virtuale del pregresso, alla sopravvenuta disciplina impositiva verrebbe data un’inammissibile applicazione retroattiva”.
Peraltro, pur avendo gli oneri di urbanizzazione natura di obbligazioni propter rem, il contributo afferente all’originario permesso di costruire è dovuto dall'intestatario del titolo edilizio, da colui al quale esso è volturato e da chi concretamente esegue le opere di trasformazione urbana, ma non anche dall'acquirente dell'edificio già costruito che non abbia partecipato all'attività edificatoria (v. Tar Salerno, Campania, sez. I, 19/11/2015, n. 2453) e quindi, ad avviso del Collegio, nemmeno da colui che, come è avvenuto nel caso di specie, abbia acquisito la disponibilità dell’immobile mediante in locazione finanziaria e abbia ottenuto un nuovo permesso di costruire per effettuare lavori funzionali alla modifica della destinazione d’uso dell’immobile (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 09.07.2018 n. 1475 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Gestione abusiva di rifiuti - Attività in concorso di raccolta e trasporto di rifiuti non occasionale - Partecipazione morale e materiale - Realizzazione di una discarica non autorizzata - Fattispecie: trasporti non occasionali di rifiuti effettuati in concorso - Art. 256 d.lgs. n. 152/2006.
Configura il reato di cui all'art. 256, comma 1, lettera A), (e comma 3), d.lgs. 152/2006, l'attività non occasionale di raccolta e trasporto di rifiuti non pericolosi senza la prevista autorizzazione. Fattispecie: trasporti effettuati in concorso, a volte dal ricorrente e altre volte da altro soggetto con l'accordo del ricorrente e con la spartizione del pagamento (dato fattuale la piena partecipazione morale e materiale dell'appellante ai trasporti effettuate dall'altro soggetto fornendo il veicolo per gli illeciti trasporti e dividendo il prezzo del reato commesso).
I rifiuti infatti, sono stati «trasportati in modo permanente ed organizzato da più persone a scopo di lucro, realizzando così una discarica non autorizzata, e dunque, in specie, con tutta evidenza non sussiste alcuna occasionalità nella condotta»
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.07.2018 n. 30627 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: RIFIUTI - Combustione di residui vegetali - Reato di smaltimento non autorizzato di rifiuti speciali non pericolosi - Onere della prova della liceità - INCENDI BOSCHIVI - Abbruciamento in periodo vietato - Alto rischio di incendi boschivi - Art. 182, 185, 256-bis d.lgs. n. 152/2006 - Giurisprudenza.
In tema di gestione dei rifiuti, l'onere della prova relativa alla sussistenza delle condizioni di liceità delle attività di raggruppamento ed incenerimento di residui vegetali previste dall'art. 182, comma sesto bis, primo e secondo periodo, d.lgs. 03.04.2006 n. 152 incombe su colui che ne invoca l'applicazione» (Sez. 3, n. 5504 del 12/01/2016 - dep. 10/02/2016, Lazzarini).
Pertanto, integra il reato di smaltimento non autorizzato di rifiuti speciali non pericolosi, di cui all'art. 256, comma, lett. a), d.lgs. 03.04.2006 n. 152, la combustione di residui vegetali effettuata senza titolo abilitativo nel luogo di produzione oppure di materiale agricolo o forestale naturale, anche derivato da verde pubblico o privato, se commessa al di fuori delle condizioni previste dall'articolo 182, comma 6-bis, primo e secondo periodo; viceversa la combustione di rifiuti urbani vegetali, abbandonati o depositati in modo incontrollato, provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi e aree cimiteriali, è punita esclusivamente in via amministrativa, ai sensi dell'art. 255 del citato d.lgs. n. 152» (Sez. 3, n. 38658 del 15/06/2017 - dep. 02/08/2017, Pizzo).

RIFIUTI - AGRICOLTURA - Abbruciamento di materiale agricolo forestale naturale - Nuova disciplina - Combustione di residui vegetali - Criteri e limiti.
La normativa applicabile al settore agricolo, con la legge 11.08.2014, n. 116, ha subito una modifica mediante l'introduzione di ipotesi di esclusione della punibilità, con l'aggiunta del comma 6-bis, all'art. 182 e con la modifica del comma 6, dell'art. 256-bis, d.lgs. 152/2006.
Le sanzioni penali per la combustione illecita di rifiuti non si applicano, pertanto, all'abbruciamento di materiale agricolo forestale naturale, anche derivato dal verde pubblico o privato.
Le stesse costituiscono normali pratiche agricole consentite per il reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti, e non attività di gestione di rifiuti, purché relativa ad una quantità giornaliera non superiore a 3 metri steri, per ettaro.
Inoltre, è la stessa norma dell'art. 182, comma 6-bis, d.lgs. 152/2006 a prevedere espressamente il divieto di combustione nei periodi di massimo rischio per gli incendi; periodo dichiarato dalle Regioni, nel caso la regione Campania ha determinato il periodo del divieto dal 22 luglio al 30.09.2013, con il Decreto Presidenziale n. 157 del 18.07.2013.

INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Getto pericoloso di cose art. 674 c.p. - Presupposti ed accertamento del reato - Convincimento del giudice fondato su qualsiasi mezzo di prova.
Il reato di cui all'articolo 674, cod. pen. sussiste laddove le emissioni di gas, vapore o fumo siano atte ad offendere o molestare le persone, dovendo farsi rientrare nel concetto di molestia tutte le situazioni di fastidio, disagio, disturbo e comunque di turbamento della tranquillità e della quiete.
Sicché, per l'accertamento del reato di cui all'art. 674, cod. pen. non è necessaria nessuna perizia, ma il giudice può fondare il proprio convincimento sulla base di altre prove, nel caso di specie le dichiarazioni testimoniali della P.G. che ha riferito del «tanto fumo»
(Sez. 3, n. 5504 del 12/01/2016 - dep. 10/02/2016, Lazzarini)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.07.2018 n. 30625 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Realizzazione di un deposito incontrollato di rifiuti speciali pericolosi - Abbandono di rifiuti - Produzione e deposito di terzi all'insaputa del proprietario - APPALTI - Contratto di appalto per lo smaltimento di rifiuti - Ditta Inadempiente - Effetti - Responsabilità colposa dell'appaltante - Artt. 192, 256 d.lgs. n. 152/2006 - Art. 40 c.p..
In materia di rifiuti, l'esclusione dell'applicazione dell'art. 40, cod. pen. è relativa alla produzione e deposito di terzi all'insaputa del proprietario.
Pertanto, non è configurabile in forma omissiva il reato di cui all'art. 256, comma secondo, D.Lgs. n. 152 del 2006, nei confronti del comproprietario di un terreno sul quale il coniuge abbia abbandonato o depositato rifiuti in modo incontrollato, anche nel caso in cui non si attivi per la rimozione dei rifiuti (in motivazione, la Corte ha affermato che tale responsabilità sussiste solo in presenza di un obbligo giuridico di impedire la realizzazione o il mantenimento dell'evento lesivo, che il proprietario può assumere solo ove compia atti di gestione o movimentazione dei rifiuti e che non può invece fondarsi sull'esistenza del rapporto di coniugio)
(Sez. 3, n. 28704 del 05/04/2017 - dep. 09/06/2017, Andrisani e altro).
Nella specie: il fatto che l'impresa incaricata allo smaltimento nel giugno 2009 (dunque circa nove mesi prima l'accertamento del reato) sia stata (asseritamente) inadempiente (circostanza questa peraltro solo dedotta, ma non adeguatamente provata), tale inadempimento non fa in ogni caso venir meno la responsabilità colposa del'appellante, il quale ha evidentemente quantomeno omesso con imprudenza, negligenza ed imperizia, di verificare per almeno nove mesi lo smaltimento asserita mente richiesto.
Sicché, l'eventuale colpa della ditta incaricata per lo smaltimento (inadempiente), non esenta da responsabilità il ricorrente (appaltante) per una sua colpa (in vigilando), pur risultando solo accessoria alla già individuata responsabilità diretta, e comunque non illogica o errata giuridicamente
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.07.2018 n. 30624 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Gestione abusiva di rifiuti - Qualifica soggettiva del soggetto agente - Irrilevanza - Concreta attività posta in essere in assenza dei prescritti titoli abilitativi - Trasporto non autorizzato - Reato istantaneo - Elementi per escludere l'assoluta occasionalità - Art. 256 d.lgs. n. n. 152/2006.
Ai fini della configurabilità del reato di gestione abusiva di rifiuti, non rileva la qualifica soggettiva del soggetto agente, bensì la concreta attività posta in essere in assenza dei prescritti titoli abilitativi, che può essere svolta anche di fatto o in modo secondario, purché non sia caratterizzata da assoluta occasionalità, da escludersi in ragione dell'esistenza di una minima organizzazione dell'attività, del quantitativo dei rifiuti gestiti, della predisposizione di un veicolo adeguato e funzionale al loro trasporto, dello svolgimento in più occasioni delle operazioni preliminari di raccolta, raggruppamento e cernita dei soli metalli, della successiva vendita e dal fine di profitto perseguito dall'imputato (Sez. 3, n. 5716 del 711/2016, P.M. in proc. lsoardi).
Nel caso dell'art 256, comma 1, d.lgs. n. 152/2006, di reato istantaneo, è sufficiente anche una sola condotta integrante una delle ipotesi alternative previste dalla norma, potendosi tuttavia escludere l'occasionalità della condotta da dati significativi, quali l'ingente quantità di rifiuti, denotanti lo svolgimento di un'attività implicante un "minimum" di organizzazione necessaria alla preliminare raccolta e cernita dei materiali (Sez. 3, n. 8193 del 11/02/2016, P.M. in proc. Revello).
Sicché, oltre agli elementi significativi indicati per individuare la natura non occasionale dell'attività di trasporto vanno considerati, anche alternativamente, altri dati univocamente sintomatici, quali, ad esempio, la provenienza del rifiuto da una determinata attività imprenditoriale esercitata da colui che effettua o dispone l'abusiva gestione, la eterogeneità dei rifiuti gestiti, la loro quantità, le caratteristiche del rifiuto quando risultino indicative di precedenti attività preliminari, quali prelievo, raggruppamento, cernita, deposito (Sez. 3, n. 36819 del 04/07/2017, Ricevuti).

RIFIUTI - Attività di gestione di rifiuti non autorizzata - Condotta sanzionata - Assenza del prescritto titolo abilitativo e assoluta occasionalità - Artt. 208, 209, 211, 212, 214, 215 e 216 D.lgs. n. n. 152/2006.
Ai sensi dell'art. 256, comma 1, d.lgs. 152/2006, la condotta sanzionata è riferibile a chiunque svolga, in assenza del prescritto titolo abilitativo, una attività rientrante tra quelle assentibili ai sensi degli articoli 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216 del medesimo decreto, anche di fatto o in modo secondario o consequenziale all'esercizio di una attività primaria diversa che richieda, per il suo esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati e che non sia caratterizzata da assoluta occasionalità (Cass. Sez. 3, n. 29992 del 24/06/2014, P.M. in proc. Lazzaro) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.07.2018 n. 30180 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Attività di raccolta e trasporto in forma ambulante di rifiuti (pezzi di motore ed i pneumatici) - Operabilità e limiti del regime derogatorio - Iscrizione all'albo speciale - Artt. 181, 188, 208, 256, 266, d.lgs. 152/2006.
In tema di rifiuti, il reato di cui all'art. 256 D.Lgs. 03.04.2006, n. 152 è configurabile anche in relazione alle condotte non autorizzate di raccolta e trasporto di rifiuti metallici esercitate in forma ambulante, pur se poste in essere prima dell'entrata in vigore del comma 1-bis dell'art. 188 del predetto D.Lgs., introdotto dalla L. n. 221 del 2015.
Pertanto, a seguito di tale modifica normativa -che ha escluso l'applicabilità, per le attività ambulanti di raccolta e trasporto di rifiuti metallici, dell'esenzione dagli ordinari obblighi gravanti sui gestori ambientali, prevista dall'art. 266, comma quinto, D.Lgs. n. 152- la valutazione della rilevanza penale delle condotte anteriori alla novella richiede tuttora l'accertamento dell'esistenza e validità del titolo abilitativo al commercio e della riconducibilità del rifiuto all'attività autorizzata, mentre tale verifica non occorre per le condotte successive, avuto riguardo all'inapplicabilità "tout court" della deroga di cui al citato comma quinto dell'art. 266
(Cass. Sez. 3, n. 23908 del 19/04/2016 - dep. 09/06/2016, P.M. in proc. Butera e altri; Cass. Sez. 3, n. 19209 del 16/03/2017 - dep. 21/04/2017, Tutone e altri).
Nella specie: in particolare per i pezzi di motore ed i pneumatici, trattandosi di rifiuti specificamente regolamentati deve escludersi la liceità della condotta, relativamente alla sussistenza del titolo abilitativo di commercio ambulante
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.07.2018 n. 30167 - link a www.ambientediritto.it).

SICUREZZA LAVORO: SICUREZZA SUL LAVORO - Datore di lavoro - Responsabilità - Prevenzione delle condizioni di rischio insite nella possibile negligenza, imprudenza o imperizia degli stessi lavoratori - Obblighi e limiti - Oneri probatori posti a carico del datore di lavoro - Individuazione dei presupposti del c.d. rischio elettivo - Nesso eziologico tra prestazione ed attività assicurata - Giurisprudenza - DIRITTO PROCESSUALE CIVILE - Erronea intitolazione - Causa di inammissibilità - Esclusione - Art. 2087 c.c. - Art. 360, c.1 n.3, c.p.c. - Fattispecie: infortunio mortale occorso prima dell'orario fissato per l'intervento.
Il datore di lavoro è tenuto a prevenire anche le condizioni di rischio insite nella possibile negligenza, imprudenza o imperizia degli stessi lavoratori, quali destinatari della tutela (Cass. 04/12/2013, n. 27127; Cass. 25/02/2011, n. 4656), dimostrando, secondo l'assetto giuridico posto dall'art. 2087 c.c., di aver messo in atto ogni mezzo preventivo idoneo a scongiurare che, alla base di eventi infortunistici, possano esservi comportamenti colposi dei lavoratori.
Unico limite, all'art. 2087 c.c., è quello del comportamento del lavoratore -c.d. rischio elettivo- che ponga in essere una "condotta personalissima... avulsa dall'esercizio della prestazione lavorativa o ad essa riconducibile, esercitata ed intrapresa volontariamente in base a ragioni e a motivazioni del tutto personali, al di fuori dell'attività lavorativa e prescindendo da essa, come tale idonea ad interrompere il nesso eziologico tra prestazione ed attività assicurata
(Cass. 05/09/2014, n. 18786; Cass. 22/02/2012, n. 2642; Cass. 24/09/2010, n. 20221).
Infine, l'erronea intitolazione non è causa di inammissibilità qualora dall'articolazione argomentativa siano chiaramente individuabili i tipi di vizio denunciato nei termini della denuncia di errori di diritto (art. 360, primo comma n. 3, c.p.c.). Fattispecie: infortunio mortale occorso al lavoratore, investito da un treno allorquando stava operando un controllo, prima dell'orario fissato per l'intervento, sugli scambi ferroviari che, dopo l'interruzione della circolazione dei treni, sarebbero dovuti servire per far passare carrelli e motoscale di una ditta da un binario all'altro per operazioni di sostituzione dei cavi della linea elettrica
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro, ordinanza 18.06.2018 n. 16026 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: La chiusura delle finestre che risulta negli elaborati grafici e nelle fotografie allegati alla richiesta di permesso di costruire per la realizzazione di un ascensore, costituisce una variazione del prospetto dell’edificio, che rileva come intervento di ristrutturazione edilizia, ai sensi della lett. c) dell’art. 10, d.P.R. n. 380 del 2001.
Tali interventi possono essere realizzati, in base all’art. 23, comma 1, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001, anche mediante SCIA, in alternativa al permesso di costruire.
Ne deriva l’applicazione dell’art. 33 del citato d.P.R. n. 380, come espressamente previsto dal comma 6-bis del medesimo art. 33, con conseguente applicazione del comma 2 dell’art. 33, per cui, qualora, sulla base di motivato accertamento dell’Ufficio Tecnico comunale, il ripristino dello stato dei luoghi non sia possibile, il dirigente o il responsabile dell’ufficio irroga una sanzione pecuniaria pari al doppio dell’aumento di valore dell’immobile, conseguente alla realizzazione delle opere.
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Le conclusioni sopra raggiunte lasciano fuori, per ciò che concerne gli abusi riscontrati, dal Comune, al piano terra e al piano primo dell’edificio di proprietà dei ricorrenti, soltanto la “variazione delle aperture in prospetto” al piano terra e al piano primo, nonché la realizzazione del balcone al piano primo – lato strada (originariamente previsto lungo tutto il fronte del fabbricato, ma realizzato in due porzioni, separate tra loro); variazioni dei prospetti per le quali, analogamente, l’Amministrazione ha ritenuto necessario –nel provvedimento gravato– il previo rilascio del p. di c.
Relativamente a tali variazioni dei prospetti, parte ricorrente, onde escludere la possibilità d’ordinarne la demolizione, ha negato –nel terzo motivo di gravame– che ci si trovi in presenza di variazioni essenziali, come sopra delineate.
La tesi non convince.
La norma (art. 32 cpv. T.U.Ed.), che esclude dal novero delle variazioni essenziali “quelle che incidono sulla entità delle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna delle singole unità abitative”, non pare, infatti, applicabile alla specie (trattandosi di modifiche al prospetto dell’edificio).
Piuttosto, va tenuta presente la massima seguente (“La chiusura delle finestre che risulta negli elaborati grafici e nelle fotografie allegati alla richiesta di permesso di costruire per la realizzazione di un ascensore, costituisce una variazione del prospetto dell’edificio, che rileva come intervento di ristrutturazione edilizia, ai sensi della lett. c) dell’art. 10, d.P.R. n. 380 del 2001. Tali interventi possono essere realizzati, in base all’art. 23, comma 1, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001, anche mediante SCIA, in alternativa al permesso di costruire. Ne deriva l’applicazione dell’art. 33 del citato d.P.R. n. 380, come espressamente previsto dal comma 6-bis del medesimo art. 33, con conseguente applicazione del comma 2 dell’art. 33, per cui, qualora, sulla base di motivato accertamento dell’Ufficio Tecnico comunale, il ripristino dello stato dei luoghi non sia possibile, il dirigente o il responsabile dell’ufficio irroga una sanzione pecuniaria pari al doppio dell’aumento di valore dell’immobile, conseguente alla realizzazione delle opere” – TAR Lazio–Roma, Sez. II, 06/12/2017, n. 12096).
Pertanto, per tali variazioni prospettiche, ferma restando la loro illegittimità nei sensi, specificati nella massima citata, la questione si sposta sul piano applicativo, essendo necessario, in chiave conformativa, un accertamento dell’Ufficio Tecnico Comunale, circa la possibilità o meno del ripristino dello stato dei luoghi, con conseguente monetizzazione dell’illecito edilizio, ove il ripristino non sia valutato come possibile.
L’esito della valutazione di cui sopra, del resto, senza voler incidere su poteri amministrativi, non ancora esercitati, pare al Tribunale piuttosto scontato, nel senso dell’impossibilità materiale del ripristino dello stato originario dei luoghi, se solo si pone mente alla circostanza che le variazioni “delle aperture in prospetto”, al piano terra e al piano primo, è conseguente (testuale) alla “diversa distribuzione degli spazi interni”, la quale –per ammissione dello stesso Comune– è realizzabile mediante semplice c.i.l.a.: non si vede, allora, come potrebbe legittimarsi detta differente distribuzione degli spazi interni, ma contestualmente ordinare il ripristino delle (correlativamente differenti) aperture sui prospetti, che ne sono derivate.
Quanto, invece, al balcone al piano primo, lato strada, realizzato in due parti separate piuttosto che lungo tutto il fronte del fabbricato, francamente non si vede cosa potrebbe opporsi ad una monetizzazione dell’illecito edilizio, alternativo al ripristino dello stato di progetto (tenendo presente che, in linea generale, il più contiene il meno)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 13.06.2018 n. 930 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di autorimesse e parcheggi, ai sensi dell’art. 9, comma 1, l. n. 122 del 1989, condizionata dal fatto che questi siano realizzati nel sottosuolo per l’intera altezza, opera solo nel caso in cui i parcheggi da destinare a pertinenza di singole unità immobiliari siano totalmente al di sotto dell’originario piano naturale di campagna.
Qualora, invece, non si rispetti tale condizione, la realizzazione di un’autorimessa non può dirsi realizzata nel sottosuolo, per cui in tali casi si applica la disciplina urbanistica dettata per le ordinarie nuove costruzioni fuori terra dal P.R.G., anche per quanto concerne il pagamento dei contributi concessori.
Tale approdo è stato condiviso dalla uniforme giurisprudenza di merito e non si pone alcuna problematica di interpretazione «restrittiva della norma»

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Il concetto di pertinenza, previsto dal diritto civile, va distinto dal più ristretto concetto di pertinenza inteso in senso edilizio e urbanistico, che non trova applicazione in relazione a quelle costruzioni che, pur potendo essere qualificate come beni pertinenziali secondo la normativa privatistica, assumono tuttavia una funzione autonoma rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime del permesso di costruire, come nel caso di una tettoia in ferro di rilevanti dimensioni.
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Resta, a questo punto, soltanto da esaminare, relativamente alla “sistemazione esterna” del fabbricato, escluse le opere per le quali lo stesso Comune ha ritenuto non necessario il p. di c., la sorte delle due tettoie, la prima in ferro a una falda e la seconda, sempre in ferro, a due falde, realizzate dai ricorrenti quali “accessori” del fabbricato principale (così, testualmente, nell’ordinanza impugnata).
Al riguardo, i ricorrenti medesimi, pur riservandosi di presentare istanza di sanatoria al riguardo, hanno patrocinato –segnatamente, nella quinta censura dell’atto introduttivo del giudizio– la riconduzione di entrambe le tettoie de quibus alla nozione di parcheggi pertinenziali (la prima per auto; la seconda per motorini), ex art. 9, commi 1 e 2, della legge Tognoli (l. 122/1989), il quale dispone: "1. I proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti. Tali parcheggi possono essere realizzati, ad uso esclusivo dei residenti, anche nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato, purché non in contrasto con i piani urbani del traffico, tenuto conto dell’uso della superficie sovrastante e compatibilmente con la tutela dei corpi idrici. Restano in ogni caso fermi i vincoli previsti dalla legislazione in materia paesaggistica ed ambientale ed i poteri attribuiti dalla medesima legislazione alle regioni e ai Ministeri dell’ambiente e per i beni culturali ed ambientali da esercitare motivatamente nel termine di 90 giorni. I parcheggi stessi, ove i piani urbani del traffico non siano stati redatti, potranno comunque essere realizzati nel rispetto delle indicazioni di cui al periodo precedente.
2. L’esecuzione delle opere e degli interventi previsti dal comma 1 è soggetta a segnalazione certificata di inizio attività
”.
La tesi non può essere accolta.
La fermissima giurisprudenza dei G.A., infatti, ha statuito, al riguardo, che: “La realizzazione di autorimesse e parcheggi, ai sensi dell’art. 9, comma 1, l. n. 122 del 1989, condizionata dal fatto che questi siano realizzati nel sottosuolo per l’intera altezza, opera solo nel caso in cui i parcheggi da destinare a pertinenza di singole unità immobiliari siano totalmente al di sotto dell’originario piano naturale di campagna. Qualora, invece, non si rispetti tale condizione, la realizzazione di un’autorimessa non può dirsi realizzata nel sottosuolo, per cui in tali casi si applica la disciplina urbanistica dettata per le ordinarie nuove costruzioni fuori terra dal P.R.G., anche per quanto concerne il pagamento dei contributi concessori. Tale approdo è stato condiviso dalla uniforme giurisprudenza di merito e non si pone alcuna problematica di interpretazione «restrittiva della norma»” (TAR Lombardia–Milano, Sez. II, 31/01/2018, n. 274).
Nella specie, quindi, trattandosi di tettoie, edificate –evidentemente– fuori terra, e di non irrilevanti dimensioni (la prima di mt. 4,25 per 5,80; la seconda di mt. 5,00 per 5,00), non può condividersi la ricostruzione dogmatica, proposta dai ricorrenti, con conseguente necessità –per le stesse– del rilascio di permesso di costruire (in giurisprudenza: “Il concetto di pertinenza, previsto dal diritto civile, va distinto dal più ristretto concetto di pertinenza inteso in senso edilizio e urbanistico, che non trova applicazione in relazione a quelle costruzioni che, pur potendo essere qualificate come beni pertinenziali secondo la normativa privatistica, assumono tuttavia una funzione autonoma rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime del permesso di costruire, come nel caso di una tettoia in ferro di rilevanti dimensioni” – TAR Campania–Napoli, Sez. II, 30/01/2015, n. 601).
Per tale parte, quindi, l’ordinanza di demolizione resta in vigore (ferma restando, ovviamente, la possibilità, per i ricorrenti, ove non l’abbiano già fatto, di presentare al riguardo richiesta di sanatoria, se naturalmente ne sussistano i presupposti)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 13.06.2018 n. 930 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Espropriazione per pubblico utilità - Determinazione dell'indennità di espropriazione - Procedimento di liquidazione - Fattispecie: Terreno espropriato - Inclusione in fascia di rispetto stradale - Non edificabilità - Fondamento - Limitazione legale della proprietà - Giurisprudenza - Art. 37 del d.P.R. n. 327/2001.
In tema di espropriazione per pubblica utilità, l'inclusione del terreno espropriato in una fascia di rispetto stradale vale a qualificarlo come non edificabile, ai fini della determinazione dell'indennità di espropriazione, trattandosi di una limitazione legale della proprietà, avente carattere generale, in quanto concernente, sotto il profilo soggettivo, tutti i cittadini proprietari di determinati beni che si trovino nella medesima situazione e, sotto il profilo oggettivo, beni immobili individuati a priori per categoria derivante dalla loro posizione o localizzazione rispetto a un'opera pubblica stradale o ferroviaria, non rilevando in senso contrario che il terreno sia collocato all'interno di un piano di insediamento industriale (P.I.P.) o di un piano di edilizia economica e popolare (P.E.E.P.). Rammentando altresì che «la determinazione dell'indennità di espropriazione deve avvenire sulla base dell'accertamento delle possibilità legali di edificazione al momento del decreto espropriativo e non della contrapposizione tra vincoli conformativi ed espropriativi.
Ove la natura edificatoria sia del tutto esclusa in applicazione del parametro stabilito dall'art. 37 del d.P.R. n. 327 del 2001, perché l'area risulti sottoposta ad un vincolo di inedificabilità assoluta previsto dalla normativa statale o regionale od alle previsioni di qualsiasi atto di programmazione o di pianificazione del territorio che abbia precluso il rilascio di atti abilitativi della realizzazione di edifici manufatti di natura privata, deve essere applicato, in virtù dello ius superveniens costituito dalla sentenza della Corte cost. n. 181 del 2011, il criterio del valore venale pieno considerando, a tale fine, le possibilità di utilizzazioni intermedie tra l'agricola e l'edificatoria -parcheggi, depositi, chioschi, ecc.-, purché assentite dalla normativa vigente.»
(Sez. 1, 13/10/2017, n. 24150).

Espropriazione per pubblico utilità - Determinazione dell'indennità - Potere-dovere del giudice - Individuazione del criterio legale applicabile alla procedura ablatoria.
Nei giudizi per la determinazione dell'indennità di esproprio, il giudice ha il potere-dovere di individuare il criterio legale applicabile alla procedura ablatoria sulla base delle caratteristiche del fondo espropriato, senza essere vincolato dalle prospettazioni delle parti, né alla quantificazione della somma contenuta nell'atto di citazione, dovendo questa essere liquidata in riferimento a detti criteri, con conseguente accoglimento o rigetto della domanda a seconda che venga accertata come dovuta un'indennità maggiore o minore di quella censurata (Corte di Cassazione, Sez. I civile, ordinanza 06.06.2018 n. 14632 - link a www.ambientediritto.it).

URBANISTICA: Piani regolatori delle aree e dei nuclei di sviluppo industriale (P.R. A.S.I.) - Funzione di strutture idonee per le localizzazioni industriali e diritto di proprietà sui suoli interessati.
I piani regolatori delle aree e dei nuclei di sviluppo industriale, in genere, non hanno per oggetto la disciplina del territorio in funzione di tutta la gamma di interessi che gravitano sul territorio, ma in funzione dell'interesse di dotarlo di strutture idonee per le localizzazioni industriali, producendo, una volta approvati, gli stessi effetti giuridici del piano territoriale di coordinamento, con obbligo di adeguamento degli strumenti urbanistici, ai quali soli peraltro -pur vincolati all'adeguamento predetto- pertiene la qualificazione urbanistica della zona e la conformazione normativa del diritto di proprietà sui suoli interessati (Corte di Cassazione, Sez. I civile, ordinanza 06.06.2018 n. 14632 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Prg e vincoli paesaggistici - Qualifica di oneri non apparenti gravanti sull'immobile - DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Previsioni del piano regolatore generale - Contenuto normativo con efficacia "erga omnes" - Effetti - Presunzione legale di conoscenza da parte dei destinatari - Configurabilità - Riferimenti normativi - Art. 1489 c.c. - Giurisprudenza.
I vincoli paesaggistici, inseriti nelle previsioni del piano regolatore generale, una volta approvati e pubblicati, hanno valore di prescrizione di ordine generale a contenuto normativo con efficacia "erga omnes", come tale assistita da una presunzione legale di conoscenza assoluta da parte dei destinatari, sicché i vincoli così imposti, a differenza di quelli introdotti con specifici provvedimenti amministrativi a carattere particolare, non possono qualificarsi come oneri non apparenti gravanti sull'immobile, ai sensi dell'art. 1489 c.c., e non sono, conseguentemente, invocabili dal compratore quale fonte di responsabilità del venditore che non li abbia eventualmente dichiarati nel contratto (Massime precedenti Conformi: Sez. 2, n. 2737, 23/02/2012; conf., Sez. 2, n. 5561, 19/03/2015).
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Presunzione assoluta di conoscenza del vincolo di inedificabilità gravante su un immobile e certificato di destinazione urbanistica - Vincoli imposti da specifico provvedimento amministrativo - Differenza.
La presunzione assoluta di conoscenza del vincolo di inedificabilità gravante su un immobile ha efficacia "erga omnes" quando esso sia stato imposto dalla legge o da un atto avente portata normativa, quale il piano regolatore, nel quale il vincolo sia stato inserito.
Quando invece il vincolo risulti imposto in forza di uno specifico provvedimento amministrativo, stante il carattere particolare, e non generale e normativo, dell'atto impositivo, può presumersene la conoscenza solo da parte del proprietario del bene, che, quale soggetto interessato, può venirne a conoscenza con l'ordinaria diligenza, ma non anche da parte del compratore, il quale quindi può far valere nei confronti del venditore l'obbligo di garanzia derivante dall'art. 1489 cod. civ..
Sicché, si deve escludersi la conoscenza per presunzione di legge, su quei vincoli apposti ai beni da provvedimenti amministrativi specifici, privi di portata generale.
Nella specie, la circostanza che nel certificato di destinazione urbanistica fosse segnata sommariamente l'esistenza dei predetti, perciò solo, non ne muta la natura: non può, invero, che trattarsi di una annotazione pro memoria, che non può reputarsi scaturigine di fonte di produzione
(Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 04.06.2018 n. 14289 - link a www.ambientediritto.it).

VARI: DIRITTO PROCESSUALE CIVILE - Interpretazione data dal giudice di merito ad un contratto - Ricorso in cassazione - Limiti.
Per sottrarsi al sindacato di legittimità, l'interpretazione data dal giudice di merito ad un contratto non deve essere l'unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni; sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l'interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l'altra (Sez. 3, n. 24539, 20/11/2009; conformi: Sez. 1, n. 16254, 25/09/2012; Sez. 1, n. 6125, 17/03/2014; Sez. 1, n. 27136, 15/11/2017).
In altri termini, deve affermarsi che: non può essere in sede di legittimità censurato il risultato opinabile, ma non implausibile, dell'interpretazione del negozio operato dal giudice, bensì gli strumenti ermeneutici utilizzati, i quali debbono conformarsi alle indicazioni di legge.

DIRITTO PROCESSUALE CIVILE - Ermeneutica del negozio o clausola contrattuale - Clausole generiche o di mero stile e canone della buona fede - Criterio di autoresponsabilità e principio dell'affidamento - Natura di oneri non apparenti ex art. 1489 c.c. - Esclusione.
Il contratto d'acquisto di un bene immobile gravato da oneri o da diritti, non solo reali, ma anche personali, non percepibili mediante l'ordinario esercizio sensoriale (non apparenti), <<che ne diminuiscono il libero godimento>>, non dichiarati e non conosciuti dal compratore, può essere risolto su domanda di quest'ultimo (art. 1489, cod. civ.).
Pertanto, l'espressa dichiarazione del venditore che il bene compravenduto è libero da oneri o diritti reali o personali di godimento esonera l'acquirente dall'onere di qualsiasi indagine, operando a suo favore il principio dell'affidamento nell'altrui dichiarazione, con l'effetto che se la dichiarazione è contraria al vero, il venditore è responsabile nei confronti della controparte tanto se i pesi sul bene erano dalla stessa facilmente conoscibili, quanto, a maggior ragione, se essi non erano apparenti.
Di conseguenza, resta irrilevante anche la trascrizione del vincolo non dichiarato, per conoscere il quale l'acquirente, a dispetto della mancata contemplazione negoziale, che dovrebbe metterlo al sicuro, si deve attivare attraverso una specifica indagine. Di talché, ai fini della responsabilità per garanzia ex art. 1489 c.c., è irrilevante che l'acquirente sia stato in grado di conoscere, mediante l'esame dei registri immobiliari, l'esistenza di trascrizioni ed iscrizioni pregiudizievoli, quando il venditore abbia affermato, contro il vero, l'inesistenza di diritti altrui e di oneri sulla cosa alienata, ovvero ne abbia taciuto l'esistenza.
Diversamente deve concludersi, nel differente caso in cui si tratti di oneri e diritti apparenti, che risultino cioè da opere visibili e permanenti destinate al loro esercizio, senza che rilevi la dichiarazione del venditore della inesistenza di pesi od oneri sul bene medesimo, non operando, in tal caso, il principio dell'affidamento giacché il compratore, avendo la possibilità di esaminare la cosa prima dell'acquisto, ove abbia ignorato ciò che poteva ben conoscere in quanto esteriormente visibile, deve subire le conseguenze della propria negligenza, secondo il criterio di autoresponsabilità
(Sez. 2, n. 57, 04/01/2018, Rv. 646615).

DIRITTO PROCESSUALE CIVILE - Risoluzione per inadempimento di un contratto - Obbligazione risarcitoria e risarcimento del danno - Onere della prova da parte richiedente.
In caso di risoluzione per inadempimento di un contratto, le restituzioni a favore della parte adempiente non ineriscono ad un'obbligazione risarcitoria, derivando dal venir meno, per effetto della pronuncia costitutiva di risoluzione, della causa delle reciproche obbligazioni e, quando attengono a somme di danaro, danno luogo a debiti non di valore ma di valuta, non soggetti a rivalutazione monetaria, se non nei termini del maggior danno rispetto a quello ristorato con gli interessi legali, ai sensi dell'art. 1224 cod. civ.; danno che va, peraltro, provato dalla parte richiedente (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 04.06.2018 n. 14289 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Come la giurisprudenza ha evidenziato in numerose occasioni, già nel vigore della precedente disciplina, in caso di rinvenimento di rifiuti depositati da parte di terzi ignoti, il proprietario non può essere chiamato a rispondere della fattispecie di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti sulla propria area se non viene individuato a suo carico l’elemento soggettivo del dolo o della colpa, per cui lo stesso soggetto non può essere destinatario di ordinanza sindacale di rimozione e rimessione in pristino.
Tanto perché l’art. 14 D.L.vo 05.02.1997, n. 22, in tema di divieto di abbandono incontrollato sul suolo e nel suolo, oltre a chiamare a rispondere dell’illecito ambientale l’eventuale “responsabile dell’inquinamento”, accolla in solido anche al proprietario dell’area la rimozione, l’avvio a recupero o lo smaltimento dei rifiuti ed il ripristino dello stato dei luoghi, ma ciò solo nel caso in cui la violazione sia imputabile a titolo di dolo o di colpa.
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Tale rigorosa disciplina trova conferma nel sistema normativo attualmente vigente, quale quello del D.L.vo n. 152/2006, segnatamente del disposto di cui all’art. 192, in tema di ambiente, con la conseguente illegittimità degli ordini di smaltimento dei rifiuti indiscriminatamente rivolti al proprietario di un fondo in ragione della sua mera qualità ed in mancanza di adeguata dimostrazione da parte dell’Amministrazione procedente, sulla base di un’istruttoria completa e di un’esauriente motivazione, dell’imputabilità soggettiva della condotta.
In siffatto disposto normativo, tutto incentrato su una rigorosa tipicità dell’illecito ambientale, alcun spazio v’è per una responsabilità oggettiva, nel senso che -ai sensi dell’art. 192 cit.- per essere ritenuti responsabili della violazione dalla quale è scaturita la situazione di inquinamento, occorre quantomeno la colpa. E tale regola di imputabilità a titolo di dolo o colpa non ammette eccezioni, anche in relazione ad un’eventuale responsabilità solidale del proprietario dell’area ove si è verificato l’abbandono ed il deposito incontrollato di rifiuti sul suolo e nel suolo.
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Si è altresì evidenziato che il dovere di diligenza che fa carico al titolare del fondo, non può arrivare al punto di richiedere un costante vigilanza, da esercitarsi giorno e notte, per impedire ad estranei di invadere l’area e, per quanto riguarda la fattispecie regolata dall’art. 14, comma 3, del D.L.vo n. 22 del 1997 (ora art. 192 del D.L.vo n. 152 del 2006) di abbandonarvi rifiuti. La richiesta di un impegno di tale entità travalicherebbe oltremodo gli ordinari canoni della diligenza media (e del buon padre di famiglia) che è alla base della nozione di colpa.
Ne deriva che ove non sia comprovata l’esistenza di un nesso causale tra la condotta del proprietario e l’abusiva immissione di rifiuti nell’ambiente, un concreto obbligo di garanzia a carico del medesimo, per la mera qualità di proprietaria/custode, è inesigibile, in quanto riconducibile ad una responsabilità oggettiva che, però, esula anche dal dovere di custodia di cui all’art. 2051 cod. civ., il quale consente sempre la prova liberatoria in presenza di caso fortuito (da intendersi in senso ampio, comprensiva anche del fatto del terzo e della colpa esclusiva del danneggiato).
La responsabilità del proprietario del fondo o del titolare di altro diritto reale o personale non è infatti una responsabilità oggettiva, presupponendo il dolo o la colpa del coobbligato solidale e l'accertamento in contraddittorio con i soggetti interessati dei presupposti di questa forma di responsabilità.
La Sezione peraltro non ignora che secondo altro orientamento giurisprudenziale "l'art. 192 del testo unico n. 152 del 2006 attribuisca rilievo alla negligenza del proprietario, che -a parte i casi di connivenza o di complicità negli illeciti- si disinteressi del proprio bene per una qualsiasi ragione e resti inerte, senza affrontare concretamente la situazione, ovvero la affronti con misure palesemente inadeguate”; per cui “il requisito della colpa postulato da detta norma ben può consistere proprio nell'omissione degli accorgimenti e delle cautele che l'ordinaria diligenza suggerisce per realizzare un'efficace custodia e protezione dell'area, così impedendo che possano essere in essa indebitamente depositati rifiuti nocivi”.
Peraltro l’accertamento dell’elemento soggettivo, anche sotto il profilo della sufficienza dell’adozione da parte del proprietario delle normali misure di diligenza, quale ad esempio la recinzione del fondo, profilo questo neppure menzionato nella gravata ordinanza, presuppone, per espresso dettato dell’art. 192, comma 3, D.lgs. 152/2006 “l’accertamento in contraddittorio”.
Ed invero, come di recente osservato, “L’obbligo di diligenza va valutato secondo criteri di ragionevole esigibilità, con la conseguenza che va esclusa la responsabilità per colpa anche quando sarebbe stato possibile evitare il fatto solo sopportando un sacrificio obiettivamente sproporzionato.
In tale ottica si è pertanto affermato che anche la mancata recinzione del fondo -con effetto contenitivo dubitabile, atteso che non sempre la presenza di una recinzione è di ostacolo allo sversamento dei rifiuti- non potrebbe comunque costituire di per sé prova della colpevolezza del proprietario, rappresentando la recinzione una facoltà e non un obbligo.
Insomma è ben diverso il mantenere in stato di corretta manutenzione e di pulizia le opere gestite dal rimuovere gli effetti prodotti sulle opere gestite da atti illeciti commessi da terzi ignoti”.
Pertanto dai principi desumibili expressis verbis dall’art. 192 D.lgs. 152/2006 si evince, quale corollario:
   a) l’insufficienza, ai fini degli obblighi di rimozione e smaltimento, della sola titolarità del diritto reale o di godimento sulle aree interessate dall’abbandono dei rifiuti, atteso che la disposizione richiede la sussistenza dell’elemento psicologico;
   b) la necessità dell’accertamento della responsabilità soggettiva, in contraddittorio con i soggetti interessati, da parte dei soggetti preposti al controllo.
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Ineludibile pertanto si rileva, nel dettato dell’art. 192, comma 3, D.L.vo n. 152/2006, il ricorso all’accertamento in contraddittorio, quale presupposto per l’adozione delle relative ordinanze.
Al riguardo, mentre l’art. 7 della legge n. 241/1990, con previsione di carattere generale, prescrive la doverosa comunicazione dell’avvio del procedimento agli interessati, l’art. 192, comma 3, D.L.vo n. 152/2006, nella specifica materia ambientale, prescrive che i controlli svolti dall’Amministrazione riguardo all’abbandono di rifiuti debbano essere effettuati in contraddittorio con i soggetti interessati, con la conseguente osservanza delle regole che garantiscono la partecipazione dell’interessato all’istruttoria amministrativa.
Pertanto, deve ritenersi la necessità, nella specifica materia ambientale, dell’accertamento in contraddittorio della condizione dei luoghi, prospettato dalla legge come specifico dovere dell'Amministrazione che si aggiunge, in subiecta materia, al generale dovere di comunicare l'avvio del procedimento, postulando la necessità che al proprietario o al titolare di altro diritto reale o di godimento sull’area oggetto dell’abbandono dei rifiuti sia data la possibilità di partecipare attivamente alla stessa istruttoria amministrativa e ai sopralluoghi volti ad accertare la prospettata situazione di abbandono di rifiuti, oltre che, più in generale, lo stato dei luoghi.
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Ai fini dell’adozione dell’ordinanza ex art. 192 Dlgs. 152/2006 occorre la precisa individuazione del titolo di responsabilità ed in particolare occorre che il soggetto destinatario sia esattamente individuato:
   - o quale soggetto responsabile dell’abbandono dei rifiuti,
   - ovvero che lo stesso sia ritenuto responsabile perché proprietario, titolare di altro diritto reale o il titolare di un rapporto anche di fatto con il fondo, al quale l’abbandono dei rifiuti da parte di terzi sia imputabile a titolo di dolo (per conoscenza e connivenza nell’abbandono) ovvero a titolo di colpa (per trascuratezza nella cura del bene, tale da rendere possibile detto abbandono).
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L’accertamento in contradditorio costituisce, ai sensi del più volte richiamato art. 192, comma 3, Dlgs. 152/2006, elemento costitutivo per la nascita dell’obbligo di ripristino, in assenza della quale non può dirsi sorta alcuna obbligazione trasmissibile iure hereditario.
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8. I motivi di ricorso, in quanto strettamente connessi e fondati sul rilievo del difetto dei presupposti per l’adozione dell’ordinanza ex art. 192 Dlgs. 152/2006, avuto riguardo ai profili di responsabilità individuati nell’ordinanza in capo ai ricorrenti -in proprio e quali eredi della proprietaria del fondo sig.ra Ad.Pi. e sia a titolo commissivo che quale proprietaria o titolari di un rapporto di fatto con il fondo cui l’abbandono dei rifiuti da parte di altri sia ascrivibile per dolo e/o colpa- possono essere esaminati congiuntamente ed in ordine logico.
9. Al riguardo si rileva che, come la giurisprudenza ha evidenziato in numerose occasioni, già nel vigore della precedente disciplina (ex multis, Cfr.: TAR Campania, sez. V, 06.10.2008, n. 13004), in caso di rinvenimento di rifiuti depositati da parte di terzi ignoti, il proprietario non può essere chiamato a rispondere della fattispecie di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti sulla propria area se non viene individuato a suo carico l’elemento soggettivo del dolo o della colpa, per cui lo stesso soggetto non può essere destinatario di ordinanza sindacale di rimozione e rimessione in pristino (Cfr.: TAR Campania, Sez. I; 19.03.2004, n. 3042, TAR Toscana, 12.05.2003, n. 1548, C. di S., IV Sez. 20.01.2003, n. 168).
Tanto perché l’art. 14 D.L.vo 05.02.1997, n. 22, in tema di divieto di abbandono incontrollato sul suolo e nel suolo, oltre a chiamare a rispondere dell’illecito ambientale l’eventuale “responsabile dell’inquinamento”, accolla in solido anche al proprietario dell’area la rimozione, l’avvio a recupero o lo smaltimento dei rifiuti ed il ripristino dello stato dei luoghi, ma ciò solo nel caso in cui la violazione sia imputabile a titolo di dolo o di colpa (Cfr.: TAR Lombardia, Sez. I, 26.01.2000, n. 292 e TAR Umbria 10.03.2000, n. 253).
9.1. Tale rigorosa disciplina trova conferma nel sistema normativo attualmente vigente, quale quello del D.L.vo n. 152/2006, segnatamente del disposto di cui all’art. 192, in tema di ambiente, con la conseguente illegittimità degli ordini di smaltimento dei rifiuti indiscriminatamente rivolti al proprietario di un fondo in ragione della sua mera qualità ed in mancanza di adeguata dimostrazione da parte dell’Amministrazione procedente, sulla base di un’istruttoria completa e di un’esauriente motivazione, dell’imputabilità soggettiva della condotta (Cfr. C. di S., V, 19.03.2009, n. 1612, 25.08.2008, n. 4061).
In siffatto disposto normativo, tutto incentrato su una rigorosa tipicità dell’illecito ambientale, alcun spazio v’è per una responsabilità oggettiva, nel senso che -ai sensi dell’art. 192 cit.- per essere ritenuti responsabili della violazione dalla quale è scaturita la situazione di inquinamento, occorre quantomeno la colpa. E tale regola di imputabilità a titolo di dolo o colpa non ammette eccezioni, anche in relazione ad un’eventuale responsabilità solidale del proprietario dell’area ove si è verificato l’abbandono ed il deposito incontrollato di rifiuti sul suolo e nel suolo (TAR Campania, sez. V 03/03/2014 n. 1294).
9.2. Si è altresì evidenziato che il dovere di diligenza che fa carico al titolare del fondo, non può arrivare al punto di richiedere un costante vigilanza, da esercitarsi giorno e notte, per impedire ad estranei di invadere l’area e, per quanto riguarda la fattispecie regolata dall’art. 14, comma 3, del D.L.vo n. 22 del 1997 (ora art. 192 del D.L.vo n. 152 del 2006) di abbandonarvi rifiuti. La richiesta di un impegno di tale entità travalicherebbe oltremodo gli ordinari canoni della diligenza media (e del buon padre di famiglia) che è alla base della nozione di colpa (Cfr., ex plurimis: C. di S., Sez. V, 08.03.2005, n. 935; TAR Campania, Sez. V, 05.08.2008, n. 9795; TAR Campania, sez. V 03/03/2014 n. 1294 cit.).
9.3. Ne deriva che ove non sia comprovata l’esistenza di un nesso causale tra la condotta del proprietario e l’abusiva immissione di rifiuti nell’ambiente, un concreto obbligo di garanzia a carico del medesimo, per la mera qualità di proprietaria/custode, è inesigibile, in quanto riconducibile ad una responsabilità oggettiva che, però, esula anche dal dovere di custodia di cui all’art. 2051 cod. civ., il quale consente sempre la prova liberatoria in presenza di caso fortuito (da intendersi in senso ampio, comprensiva anche del fatto del terzo e della colpa esclusiva del danneggiato). La responsabilità del proprietario del fondo o del titolare di altro diritto reale o personale non è infatti una responsabilità oggettiva, presupponendo il dolo o la colpa del coobbligato solidale e l'accertamento in contraddittorio con i soggetti interessati dei presupposti di questa forma di responsabilità (TAR Napoli, sez. V, 15/06/2017, n. 3307).
La Sezione peraltro non ignora che secondo altro orientamento giurisprudenziale "l'art. 192 del testo unico n. 152 del 2006 attribuisca rilievo alla negligenza del proprietario, che -a parte i casi di connivenza o di complicità negli illeciti- si disinteressi del proprio bene per una qualsiasi ragione e resti inerte, senza affrontare concretamente la situazione, ovvero la affronti con misure palesemente inadeguate” (Cons. di St., sez. V, 10.06.2014 n. 2977); per cui “il requisito della colpa postulato da detta norma ben può consistere proprio nell'omissione degli accorgimenti e delle cautele che l'ordinaria diligenza suggerisce per realizzare un'efficace custodia e protezione dell'area, così impedendo che possano essere in essa indebitamente depositati rifiuti nocivi” (TAR Calabria, Reggio Calabria, sez. I, 03.08.2015 n. 809; nello stesso senso, TAR Campania, Napoli, Sez. V, 23.03.2015, n. 1692; TAR Marche, Ancona, sez. I, 06.03.2015, n. 189).
Peraltro l’accertamento dell’elemento soggettivo, anche sotto il profilo della sufficienza dell’adozione da parte del proprietario delle normali misure di diligenza, quale ad esempio la recinzione del fondo, profilo questo neppure menzionato nella gravata ordinanza, presuppone, per espresso dettato dell’art. 192, comma 3, D.lgs. 152/2006 “l’accertamento in contraddittorio”.
Ed invero, come di recente osservato (TAR Bari, sez. I, 24/03/2017, n. 287) “L’obbligo di diligenza va valutato secondo criteri di ragionevole esigibilità, con la conseguenza che va esclusa la responsabilità per colpa anche quando sarebbe stato possibile evitare il fatto solo sopportando un sacrificio obiettivamente sproporzionato.
In tale ottica si è pertanto affermato che anche la mancata recinzione del fondo -con effetto contenitivo dubitabile, atteso che non sempre la presenza di una recinzione è di ostacolo allo sversamento dei rifiuti- non potrebbe comunque costituire di per sé prova della colpevolezza del proprietario, rappresentando la recinzione una facoltà e non un obbligo.
Insomma è ben diverso il mantenere in stato di corretta manutenzione e di pulizia le opere gestite dal rimuovere gli effetti prodotti sulle opere gestite da atti illeciti commessi da terzi ignoti (Cons. Stato n. 705/2016)
”.
Pertanto dai principi desumibili expressis verbis dall’art. 192 D.lgs. 152/2006 si evince, quale corollario (TAR Bari, sez. I, 24/03/2017, n. 287):
   a) l’insufficienza, ai fini degli obblighi di rimozione e smaltimento, della sola titolarità del diritto reale o di godimento sulle aree interessate dall’abbandono dei rifiuti, atteso che la disposizione richiede la sussistenza dell’elemento psicologico;
   b) la necessità dell’accertamento della responsabilità soggettiva, in contraddittorio con i soggetti interessati, da parte dei soggetti preposti al controllo (Cons. Stato, Sez. V, n. 705/2016; in termini cfr. Tar Campania Napoli Sez. V, n. 12/2016; Tar Puglia-Lecce, Sez. I, nn. 1023/2016; 945/2016; Tar Sardegna, Sez. I, n. 253/2016; Tar Toscana, Sez. II, n. 1068/2016).
Ineludibile pertanto si rileva, nel dettato dell’art. 192, comma 3, D.L.vo n. 152/2006, il ricorso all’accertamento in contraddittorio, quale presupposto per l’adozione delle relative ordinanze.
Al riguardo, mentre l’art. 7 della legge n. 241/1990, con previsione di carattere generale, prescrive la doverosa comunicazione dell’avvio del procedimento agli interessati, l’art. 192, comma 3, D.L.vo n. 152/2006, nella specifica materia ambientale, prescrive che i controlli svolti dall’Amministrazione riguardo all’abbandono di rifiuti debbano essere effettuati in contraddittorio con i soggetti interessati, con la conseguente osservanza delle regole che garantiscono la partecipazione dell’interessato all’istruttoria amministrativa (ex multis TAR Campania, sez. V 03/03/2014 n. 1294).
Pertanto, come osservato dal Consiglio di Stato (ordinanza, sez. IV, n. 2000 del 12.05.2017), deve ritenersi la necessità, nella specifica materia ambientale, dell’accertamento in contraddittorio della condizione dei luoghi, prospettato dalla legge come specifico dovere dell'Amministrazione che si aggiunge, in subiecta materia, al generale dovere di comunicare l'avvio del procedimento, postulando la necessità che al proprietario o al titolare di altro diritto reale o di godimento sull’area oggetto dell’abbandono dei rifiuti sia data la possibilità di partecipare attivamente alla stessa istruttoria amministrativa e ai sopralluoghi volti ad accertare la prospettata situazione di abbandono di rifiuti, oltre che, più in generale, lo stato dei luoghi.
10. Ciò posto, i motivi di ricorso sono fondati alla stregua di quanto di seguito precisato.
11. In primo luogo vi è da osservare che la responsabilità dei ricorrenti, sia in proprio che quali eredi della proprietaria del fondo, per contro mai entrato nel loro patrimonio in quanto venduto prima del decesso dalla de cuius, viene desunta sulla base del dato -ritenuto dal Comune come certo- che l’interramento dei rifiuti, sulla base degli accertamenti svolti dall’ARPAC, risalirebbe al 1994 epoca in cui la disponibilità del fondo era in capo alla proprietaria sig.ra Pi. (avendo il Comune proceduto alla restituzione del suolo nell’anno 1991, dopo averlo utilizzato a titolo momentaneo quale discarica dei rifiuti) e per essa anche dei ricorrenti, in quanto conviventi con la loro genitrice.
11.1. Sennonché vi è da evidenziare che giammai i citati accertamenti dal quale viene desunto il dato ritenuto dal Comune certo -interramento risalente al 1994- possono essere opposti ai ricorrenti trattandosi di accertamenti non svolti in contraddittorio con i medesimi, in palese violazione del disposto dell’art. 192, comma 3, D.lgs. 152/2006 che, come innanzi evidenziato, postula non solo che ai soggetti sia data comunicazione di avvio del procedimento, ma un quid pluris, ovvero che gli stessi accertamenti, sulla cui base viene desunta la responsabilità per l’adozione dell’ordinanza di rimozione dei rifiuti, siano effettuati in contraddittorio, laddove i ricorrenti per contro non sono stati chiamati a partecipare al sopralluogo effettuato dall’ARPAC, che, come desumibile dal relativo verbale, è stato svolto in contradditorio con il solo proprietario attuale dell’area de qua, Lu.Or., ritenuto poi estraneo alla vicenda e quindi non destinatario dell’ordinanza impugnata nella presente sede.
Da ciò la fondatezza di quanto evidenziato al riguardo nel primo, nel secondo e nel quarto motivo di ricorso, circa l’assenza di contradditorio sugli eventuali accertamenti svolti, sia in relazione alla datazione dell’interramento che al possesso dell’area da parte dei ricorrenti, motivi che di per sé solo potrebbero portare all’accoglimento del ricorso.
12. Peraltro, al di là di tali rilievi assorbenti, è da evidenziarsi innanzitutto la contraddittorietà della gravata ordinanza la quale si fonda sul duplice presupposto della responsabilità, sia della genitrice dei ricorrenti, proprietaria dell’area all’epoca dell’interramento, che dei ricorrenti medesimi, quali soggetti aventi la disponibilità di fatto dell’area medesima (in quanto conviventi con la loro madre), sia per l’interramento dei rifiuti (responsabilità a titolo commissivo) sia a titolo di dolo e colpa, per conoscenza o conoscibilità dell’interramento da altri effettuati, avuto riguardo alla titolarità del diritto reale (in capo alla Pi.) e alla disponibilità di fatto dell’area (in capo ai ricorrenti).
Ed invero ai fini dell’adozione dell’ordinanza ex art. 192 Dlgs. 152/2006 occorre la precisa individuazione del titolo di responsabilità ed in particolare occorre che il soggetto destinatario sia esattamente individuato o quale soggetto responsabile dell’abbandono dei rifiuti, ovvero che lo stesso sia ritenuto responsabile perché proprietario, titolare di altro diritto reale o il titolare di un rapporto anche di fatto con il fondo, al quale l’abbandono dei rifiuti da parte di terzi sia imputabile a titolo di dolo (per conoscenza e connivenza nell’abbandono) ovvero a titolo di colpa (per trascuratezza nella cura del bene, tale da rendere possibile detto abbandono).
12.1. Per contro nell’ordinanza gravata non è individuato un preciso titolo di responsabilità, sovrapponendo i due piani della responsabilità, quello derivante dall’abbandono diretto dei rifiuti e quello della responsabilità a titolo di dolo o colpa per l’abbandono compiuto da terzi, piani per contro del tutto distinti nella disciplina dell’art. 192, comma 3, Dlgs. 152/2006.
Da ciò anche la fondatezza del secondo motivo di ricorso nella parte in cui si denuncia tale contraddittorietà dell’ordinanza gravata.
12.2. Ciò senza mancare di rilevare che l’ordinanza de qua postula che (anche in assenza della responsabilità dei ricorrenti, sotto il duplice profilo innanzi evidenziato) stante la (sicura) responsabilità in capo alla loro genitrice, di cui gli stessi sarebbero eredi universali, l’obbligazione di rimozione dei rifiuti, in quanto obbligazione ex lege, trasmissibile iure hereditario, si sarebbe trasferita nel loro patrimonio, profilo questo che sarà affrontato nella disamina del terzo motivo di ricorso.
13. Parimenti fondato è il primo motivo di ricorso in relazione a quella parte dell’ordinanza in cui si prospetta una responsabilità diretta dei ricorrenti, sulla base del mero rilievo che gli stessi, in quanto conviventi con la loro genitrice, proprietaria dell’area, erano nella disponibilità di fatto del bene.
Ed invero il presupposto di detta forma di responsabilità, a prescindere dall’imputabilità di tipo soggettivo, implica che il soggetto chiamato a rispondere dell’abbandono di rifiuti effettuato da terzi sia titolare di un rapporto di godimento e di gestione assimilabile a quello del proprietario; nell’ipotesi di specie detto rapporto, in quanto non ancorato alla dominicalità del bene, è stato tratto in via meramente presuntiva, senza lo svolgimento di alcuna indagine ed in particolare di una istruttoria svolta in contraddittorio, in violazione come detto del disposto dell’art. 192, comma 3, Dlgs. 152/2006.
14. Parimenti fondato è il secondo motivo di ricorso laddove si denuncia il difetto di motivazione e di istruttoria del gravato provvedimento nella parte in cui affermerebbe la responsabilità dello stesso interramento dei rifiuti in capo alla sig,ra Pi., sulla base del mero riferimento all’id quoad plerumque accidit, tratto dal mero dato della dominicalità del bene e del dato temporale dell’interramento e della stessa corresponsabilità dei ricorrenti, in quanto conviventi con la genitrice e quindi soggetti che “non potevano non sapere”.
14.1. Vi è infatti da evidenziare come anche detta responsabilità non sia supportata da alcun dato probatorio e da alcun accertamento in contraddittorio -in palese violazione come detto del disposto dell’art. 192, comma 3, Dlgs. 152/2006- e sia motivata sulla base di considerazioni apodittiche e contraddittorie tra il piano della responsabilità di tipo commissivo -motivata sul solo rilievo della dominicalità del bene- che sembra postulare una responsabilità oggettiva -in uno con l’id quoad plerumque accidit (laddove detto elemento presuntivo generico non può essere posto alla base di un giudizio di responsabilità di tipo commissivo) e quello della responsabilità rispetto all’abbandono dei rifiuti ascrivibile ad altri, per dolo e colpa, sulla base (anche qui) del rilievo della dominicalità del bene, quanto alla genitrice dei ricorrenti, ovvero della disponibilità di fatto del bene medesimo, da parte dei ricorrenti e del “non potevano non sapere”.
14.2. Ciò senza mancare di rilevare che il profilo colposo, lungi dall’essere individuato in una specifica e identificata forma di incuria nella gestione del bene che abbia agevolato l’altrui abbandono dei rifiuti, viene individuato, tanto in capo ai ricorrenti, quanto in capo alla Pi., nella mera conoscibilità (che potrebbe anche essere successiva) di detto interramento laddove, secondo la costante giurisprudenza richiamata al punto 9.3, deve sussistere un nesso eziologico tra la condotta doloso e/o colposa del proprietario e/o del titolare del diritto reale e del rapporto di fatto con il fondo e l’abbandono dei rifiuti da parte dei terzi, nesso eziologico per contro non evincibile dalla motivazione della gravata ordinanza.
Da ciò anche la fondatezza dell’ultimo motivo di ricorso.
15. Del pari fondato è il terzo motivo di ricorso con cui si denuncia l’illegittimità della gravata ordinanza laddove -facendo leva sulla mera responsabilità della genitrice dei ricorrenti, cui gli stessi sarebbero succeduti iure hereditario senza succedere nella proprietà del fondo, come più volte detto alienato prima della morte- postula la trasmissione dell’obbligazione nascente ope legis dall’interramento dei rifiuti, in quanto obbligazione di carattere permanente, nel patrimonio dei ricorrenti.
15.1. Si tratta invero di profilo questo che è stato più volte posto in luce nelle difese del Comune come punto di forza della gravata ordinanza, che al riguardo richiama Cons. St., Sez. II, 06.03.2013, n. 2417 e Cons. Stato, sez. V, 25.02.2016, n. 765 evidenziando che l'ordine di rimozione, avvio a smaltimento o recupero e ripristino (nonché di bonifica) costituirebbe obbligazione patrimoniale trasmissibile iure hereditario.
15.2. Sennonché il richiamo ai precedenti giurisprudenziali evidenziati dal Comune non appare pertinente e quindi anche detto punto di vista motivazionale dell’ordinanza deve ritenersi illegittimo.
15.3. Ed invero, la fattispecie presa in considerazione nella pronuncia dell’Adunanza del Consiglio di Stato, Sezione II del 06.03.2013 n. 2417 (numero affare 00263/2013) e fatta oggetto di un mero richiamo ad opera della sentenza Cons. Stato, sez. V, 25.02.2016, n. 765 è del tutto distinta da quella che viene qui in discussione; in detta fattispecie, infatti, il procedimento volto alla rimessione in pristino era stato avviato già a carico del de cuius della ricorrente (destinatario anche di un ordine di sospensione dei lavori) che era stato presente sia ad un primo sopralluogo, che ad un secondo sopralluogo (al secondo sopralluogo aveva partecipato anche la ricorrente), nel pieno rispetto pertanto del disposto dell’art. 192, comma 3, Dlgs. 152/2006, che postula che l’accertamento della responsabilità del proprietario o del titolare del diritto reale avvenga in contradditorio, per cui l’ordinanza in contestazione si era limitata ad estendere alla ricorrente, in qualità di erede, la responsabilità già accertata in contraddittorio in capo al de cuius, già destinatario dell’avvio del procedimento.
Pertanto è da disattendere il punto di diritto affermato nella gravata ordinanza, che postula la possibilità di trasmissione iure hereditario di un obbligo di ripristino, derivante ope legis dall’abbandono dei rifiuti, laddove presupposto per l’adozione dell’ordinanza ex art. 192, comma 3, Dlgs. 152/2006 è l’accertamento in contraddittorio della responsabilità del proprietario o titolare di un diritto reale, per cui in assenza di detto accertamento non può nascere alcuna obbligazione suscettibile di essere trasmessa nel patrimonio ereditario.
Infatti l’accertamento in contradditorio costituisce, ai sensi del più volte richiamato art. 192, comma 3, Dlgs. 152/2006, elemento costitutivo per la nascita dell’obbligo di ripristino, in assenza della quale non può dirsi sorta alcuna obbligazione trasmissibile iure hereditario.
Nell’ipotesi di specie, per contro, non solo non vi è stato alcun accertamento in contradditorio nei confronti della de cuius dei ricorrenti -il cui asserito obbligo ripristinatorio si sarebbe trasferito nel patrimonio dei ricorrenti iure hereditario- e la sua responsabilità è stata accertata post mortem -con la conseguente impossibilità di trasmissione di un’obbligazione che in mancanza del dovuto accertamento non può dirsi sorta- ma il contraddittorio, anche a ritenere possibile l’accertamento della responsabilità post mortem, ipotesi da escludersi - è stato omesso anche nei confronti dei ricorrenti, che, come detto, non sono stati partecipi al sopralluogo effettuato dall’ARPAC.
Peraltro l’accertamento in contraddittorio con i ricorrenti, giova rimarcarlo, sarebbe stato sufficiente solo ai fini dell’affermazione di una loro diretta responsabilità e non ai fini dell’accertamento post mortem della responsabilità della loro de cuius, dovendo il contraddittorio, per ovvie esigenze del giusto procedimento, oltre che stando al tenore letterale del disposto dell’art. 192, comma 3, Dlgs. 152/2006, svolgersi con il soggetto che, in quanto diretto interessato (in qualità di proprietario o titolare di diritto reale o di godimento), sia in grado di difendersi.
15.4. La sentenza Cons. Stato, sez. V, 25.02.2016, n. 765 dal canto suo si limita a richiamare, come detto, ad abundantiam l’indicato precedente, ma è del pari relativa a fattispecie del tutto diversa, ovvero ad ipotesi in cui i ricorrenti erano succeduti iure hereditario nella proprietà del bene, per cui la loro responsabilità è stata ritenuta iure proprio, non avendo gli stessi ostacolato, una volta succeduti nella titolarità del bene, lo sversamento dei rifiuti (cfr. quelle parti della sentenza nelle quali si afferma “Tanto premesso va chiarito che nella fattispecie in esame, contrariamente a quanto affermato dal primo giudice, sono ravvisabili elementi di imputazione in capo agli originari ricorrenti degli obblighi di bonifica e di ripristino discendenti dal loro comportamento colposo”…
Quanto, invece, agli obblighi di bonifica posto che è accertata anche all’indomani dell’acquisizione in proprietà del bene da parte degli odierni appellati l’attività di sversamento di rifiuti nel fondo in questione, da un lato, è irrilevante la circostanza che sia intervenuto un contratto di locazione…” nonché l’ultima parte della sentenza laddove si afferma “Nella fattispecie, infatti, gli atti amministrativi acquisiti al fascicolo di causa danno atto del verificarsi dei fenomeni di inquinamento nell’arco di oltre trent’anni e della loro riconducibilità agli odierni appellati ed al loro dante causa, che in alcun modo hanno impedito lo sversamento dei rifiuti sui loro suoli, né hanno provveduto alla rimozione degli stessi, non attivandosi per impedire che l’attività di devastazione delle aree oggetto dell’ordinanza impugnata proseguisse nel corso degli anni”).
16. Il ricorso va dunque accolto, con conseguente annullamento dell’atto gravato (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 15.05.2018 n. 3204 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione di una istanza di accertamento di conformità ha automatico effetto caducante sull’ordinanza di demolizione, rendendola inefficace.
La presentazione di una domanda di accertamento di conformità in epoca successiva all’adozione dell’ordinanza di demolizione (o, comunque, del provvedimento di irrogazione di altre sanzioni per abusi edilizi), produce l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione contro l’atto sanzionatorio per sopravvenuta carenza di interesse, posto che il riesame dell’abusività dell’opera, provocato dall’istanza, sia pure al fine di verificarne l’eventuale sanabilità, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell’impugnativa.

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1) Il ricorso principale e il primo ricorso per motivi aggiunti si rivelano improcedibili.
In particolare, in seguito all’intervenuta ordinanza sindacale contingibile e urgente n. 23/2016, Prot. 5614 del 09.09.2016, impugnata con il secondo ricorso per motivi aggiunti -con cui è stata ordinata la riapertura al pubblico transito della strada vicinale- e all’intervenuta presentazione dell’istanza di accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001, è venuto meno l’interesse alla prosecuzione del ricorso nei confronti delle precedenti impugnative della diffida prot. n. 766/2016 e dell'ordinanza n. 2 del 09.02.2016, aventi ad oggetto la rimozione della sbarra in acciaio di interdizione della strada e sui relativi atti presupposti.
L’ordinanza sindacale contingibile e urgente n. 23/2016 si pone, infatti, come successivo atto sostitutivo rispetto ai precedenti atti di rimozione della sbarra d’acciaio per i profili inerenti all’interdizione dell’accesso, mentre il profilo relativo all’assenza del titolo abilitativo edilizio -indicato nell'ordinanza n. 2 del 09.02.2016- risulta superato dall’introduzione dell’istanza di sanatoria presentata.
Il Collegio aderisce, infatti, all’orientamento giurisprudenziale secondo cui la presentazione di una istanza di accertamento di conformità ha automatico effetto caducante sull’ordinanza di demolizione, rendendola inefficace.
La presentazione di una domanda di accertamento di conformità in epoca successiva all’adozione dell’ordinanza di demolizione (o, comunque, del provvedimento di irrogazione di altre sanzioni per abusi edilizi), produce l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione contro l’atto sanzionatorio per sopravvenuta carenza di interesse, posto che il riesame dell’abusività dell’opera, provocato dall’istanza, sia pure al fine di verificarne l’eventuale sanabilità, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell’impugnativa (Cons. Stato, Sez. IV, 28.11.2013, n. 5704; TAR Piemonte Torino, Sez. II, 18.01.2013, n. 48; Cons. Stato, Sez. IV, 12.05.2010, n. 2844; Cons. Stato, 31.05.2006 n. 7884) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 06.03.2017 n. 1289 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: La dibattuta questione inerente la responsabilità del proprietario del suolo sul quale siano stati abbandonati rifiuti è stata rimessa alla Corte di Giustizia UE la quale ha escluso che al medesimo possano essere addebitati obblighi di bonifica e di ripristino, discendenti dalla mera qualifica di titolare di un diritto reale sul bene, sancendo così l’incompatibilità comunitaria di una disciplina nazionale che preveda una responsabilità oggettiva, discendente dalla mera qualifica di titolare di un diritto reale sul bene.
Ai fini della definizione della presente controversia è pertanto necessario concretamente accertare la misura della diligenza richiesta alla ricorrente, al fine di qualificare o meno il suo comportamento come colposo.
Sul punto, la giurisprudenza sostiene che, “ai fini della rimozione di rifiuti abbandonati su terreni di proprietà privata, il requisito della colpa può consistere nell'omissione delle cautele e degli accorgimenti che l'ordinaria diligenza suggerisce ai fini di un'efficace custodia a tutela della salute pubblica”, precisando tuttavia che “il dovere di diligenza che fa capo al titolare del fondo non può spingersi sino al punto da richiedere una costante vigilanza, da esercitarsi giorno e notte, per impedire ad estranei di invadere l'area e di abbandonarvi rifiuti”, eccedendo un impegno di tale entità gli ordinari canoni della diligenza media e del buon padre di famiglia, alla base della stessa nozione di colpa, nei casi in cui, come quello di specie, questa è indicata in modo generico, senza ulteriori specificazioni.
Conseguentemente, l'obbligo di diligenza deve essere valutato secondo criteri di ragionevole esigibilità, dovendosi perciò circoscrivere la responsabilità colposa in capo al proprietario non autore dello sversamento quando il medesimo avrebbe potuto evitare il fatto sopportando un sacrificio obiettivamente proporzionato.
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II) Quanto al merito, con il secondo motivo la ricorrente deduce la violazione dell’art. 192 del D.Lgs. 03.04.2006 n. 152, ritenendo che l’abbandono di rifiuti che ha dato luogo al provvedimento impugnato nel presente giudizio, non sia imputabile alla stessa a titolo di colpa, diversamente da quanto invece richiesto dalla citata norma che assume violata.
In via preliminare, osserva il Collegio che la dibattuta questione inerente la responsabilità del proprietario del suolo sul quale siano stati abbandonati rifiuti è stata rimessa alla Corte di Giustizia UE che, con sentenza 04.03.2015, C-534/13, ha escluso che al medesimo possano essere addebitati obblighi di bonifica e di ripristino, discendenti dalla mera qualifica di titolare di un diritto reale sul bene, sancendo così l’incompatibilità comunitaria di una disciplina nazionale che preveda una responsabilità oggettiva, discendente dalla mera qualifica di titolare di un diritto reale sul bene.
Ai fini della definizione della presente controversia è pertanto necessario concretamente accertare la misura della diligenza richiesta alla ricorrente, al fine di qualificare o meno il suo comportamento come colposo.
Sul punto, la giurisprudenza sostiene che, “ai fini della rimozione di rifiuti abbandonati su terreni di proprietà privata, il requisito della colpa può consistere nell'omissione delle cautele e degli accorgimenti che l'ordinaria diligenza suggerisce ai fini di un'efficace custodia a tutela della salute pubblica” (C.S., Sez. V, 18.12.2015, n. 5757), precisando tuttavia che “il dovere di diligenza che fa capo al titolare del fondo non può spingersi sino al punto da richiedere una costante vigilanza, da esercitarsi giorno e notte, per impedire ad estranei di invadere l'area e di abbandonarvi rifiuti”, eccedendo un impegno di tale entità gli ordinari canoni della diligenza media e del buon padre di famiglia, alla base della stessa nozione di colpa, nei casi in cui, come quello di specie, questa è indicata in modo generico, senza ulteriori specificazioni (TAR Lazio, Roma, Sez. II, 12.5.2014 n. 4898, TAR Campania, Napoli, Sez. V, 10.04.2012 n. 1706).
Conseguentemente, l'obbligo di diligenza deve essere valutato secondo criteri di ragionevole esigibilità, dovendosi perciò circoscrivere la responsabilità colposa in capo al proprietario non autore dello sversamento quando il medesimo avrebbe potuto evitare il fatto sopportando un sacrificio obiettivamente proporzionato (TAR Puglia, Lecce, Sez. I, 09.10.2014, n. 2452).
III) Venendo al caso di specie, la ricorrente ha documentato di aver delimitato l’area di che trattasi con una rete, sostenuta da pali metallici, ponendo sulla sua sommità filo spinato, e di aver posto, in prossimità della porta di accesso, una sbarra in ferro, avente una lunghezza pari circa alla distanza intercorrente tra due pali, collegata per l’apertura ad un lucchetto (docc. nn. 3-5).
Ritiene il Collegio che, mediante l’adozione delle sopra descritte cautele, che hanno delimitato e protetto l’accesso all’area di sua proprietà, la ricorrente abbia adempiuto ai propri doveri di diligenza, non potendo la stessa essere ritenuta oggettivamente responsabile dei comportamenti criminali di terzi, peraltro tempestivamente denunciati alle Forze dell’Ordine.
IV) Né in contrario rileva la giurisprudenza invocata dalla difesa comunale, che essendo riferita ad una casistica non analoga a quella per cui è causa, depone in realtà in favore dell’accoglimento del ricorso.
TAR Lombardia, Milano, Sez. I, 24.02.2014 n. 571, ha infatti ritenuto provata la “culpa in vigilando”, oltre che a fronte della mancata predisposizione delle opportune misure per impedire l’ingresso di soggetti intenzionati ad abbandonare rifiuti nell’area, soprattutto, in relazione agli inadempimenti agli obblighi che, sin dal 1989, erano stati ritenuti necessari dall’autorità per limitare il progressivo degrado ambientale dell’area, ciò che differenza significativamente detta fattispecie da quella per cui è causa.
Inoltre, nella citata sentenza n. 571/2014, il TAR aveva ritenuto che la sbarra posta all’ingresso della proprietà fosse “del tutto inadeguata, se non proprio inesistente, a ciò dovendosi aggiungere che manca qualsiasi struttura di delimitazione del confine di proprietà”, non essendo pertanto tale precedente invocabile nel caso di specie, in cui, come, detto, l’attuale ricorrente ha provveduto a delimitare l’area, ed a proteggere la stessa dagli accessi.
Parimenti, C.S., Sez. V, 10.06.2014 n. 2977, diversamente da quanto ritenuto dalla difesa comunale, non è pertinente alla fattispecie per cui è causa.
Detta sentenza, pur ritenendo effettivamente “inadeguato” il “rafforzamento” di una sbarra posta sulla stradina di accesso all'area, ha tuttavia affermato ciò tenendo conto che la stessa, diversamente da quella per cui è causa, era “da tempo adibita a discarica”, e soprattutto stigmatizzando come, in quel caso, la proprietà avesse iniziato a proteggere detta area solo “ex post”, nel corso del giudizio, a seguito dell'ordinanza cautelare nel medesimo emanata.
Ad abundantiam, osserva il Collegio che la fattispecie decisa da C.S. n. 2977/2014 cit. è caratterizzata da numerose e rilevanti peculiarità che la differenziano da quella oggetto del presente giudizio, sia in relazione alla natura pubblica del proprietario (Regione Campania), che dal rilievo rivestito, in quella vicenda, dalle “realtà locali, caratterizzate dalla perduranza di situazioni emergenziali, dalla assenza diffusa di senso civico delle cittadinanze, da una diffusa omertà e dalla presenza di organizzazioni criminali proprio nel settore del trasporto e dello smaltimento dei rifiuti”.
V) In conclusione, malgrado nell’area di che trattasi, nell’anno 2006, erano già stati abbandonati rifiuti, ciò non consente di ritenerla “in stato di abbandono”, come invece erroneamente sostenuto dalla difesa comunale, essendo la stessa delimitata e protetta, sebbene ciò non sia rivelato sufficiente ad impedire il perpetrarsi di condotte criminali, come detto tempestivamente denunciate dalla ricorrente, la cui prevenzione non può tuttavia gravare sulla stessa, mediante un ininterrotto obbligo di vigilanza della propria area, che risulterebbe sproporzionato rispetto agli ordinari canoni di diligenza.
Il ricorso va pertanto accolto, dovendosi per l’effetto annullare il provvedimento in epigrafe impugnato (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 20.01.2017 n. 144 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - VARI: Ai fini della configurabilità della contravvenzione prevista dall'art. 5, lett. b, della legge 30.04.1962 n. 283, che vieta l'impiego nella produzione di alimenti, la vendita, la detenzione per la vendita, la somministrazione, o comunque la distribuzione per il consumo, di sostanze alimentari in cattivo stato di conservazione, non è necessario che quest'ultimo si riferisca alle caratteristiche intrinseche di dette sostanze, ma è sufficiente che esso concerna le modalità estrinseche con cui si realizza, le quali devono uniformarsi alle prescrizioni normative, se sussistenti, ovvero, in caso contrario, a regole di comune esperienza.
In questo senso anche la custodia in locali sporchi e quindi igienicamente inidonei alla conservazione determina la violazione del divieto di commercializzazione del prodotto.
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1.11 sig. Gi.Ba., nei cui confronti si procede per i reati di cui agli artt. 444 e 515, cod. pen. per aver detenuto in luoghi non autorizzati dal punto di vista sanitario forme di formaggio prodotte in modo non conforme ai regolamenti CEE che disciplinano la produzione di "Fontina DOP" e in locali dove erano presenti sostanze pericolose per la salute quali topicidi e disinfestanti, ricorre per l'annullamento dell'ordinanza del 21/12/2015 del G.i.p. del Tribunale di Aosta che, all'esito di udienza camerale, ha parzialmente accolto l'opposizione proposta avverso il decreto del 27/11/2015 del Procuratore della Repubblica presso quel Tribunale che aveva autorizzato la distruzione di 499 forme di formaggio sequestrate a fini probatori e custodite parte (251) in località Pl., parte (248) in località Vayoux di Nus.
In particolare, il G.i.p. ha accolto l'opposizione relativamente alle 248 forme di formaggio detenute in Vayoux di Nus, respingendola per le altre.
...
2.11 ricorso è infondato.
3. L'alienazione o la distruzione di beni sottoposti a sequestro probatorio penale costituisce forma anticipata di ablazione dei beni stessi adottata in assenza di un accertamento di responsabilità del loro titolare. Sicché, quando sorga controversia sui presupposti applicativi della norma essi devono essere valutati in maniera rigorosa, senza sconfinare in anticipazioni sul giudizio di responsabilità ma salvaguardando il più possibile il diritto dell'indagato/imputato alla conservazione del bene e dunque il suo diritto di proprietà.
3.1. Non a caso l'art. 260, comma 3-bis, cod. proc. pen., limita la possibilità di procedere alla distruzione delle merci di cui sono comunque vietati la fabbricazione, il possesso, la detenzione o la commercializzazione alle seguenti ipotesi ben delimitate e alternative tra loro: a) la custodia difficile o particolarmente nerosa; b) la custodia pericolosa per la sicurezza, la salute o l'igiene pubblica; c) l'evidente violazione dei divieti di fabbricazione, possesso, detenzione e commercializzazione.
3.2. Nel caso in esame, il G.i.p., richiamando la relazione del Dipartimento di Prevenzione della locale ASL, ha autorizzato la distruzione delle forme di formaggio detenute presso il magazzino di Pl. sul rilievo che nei relativi locali «erano presenti notevoli quantitativi di topicida e insetticida in prossimità dei formaggi, veleni impiegati direttamente nell'ambiente di stagionatura, costituenti un grave pericolo per la salute del consumatore (v. r
elazione citata). L'esposizione diretta a contaminazione di veleni è circostanza che rende assoluti il divieto di consumo alimentare e, a fortiori, anche a prescindere dall'esistenza della preventiva autorizzazione sanitaria».
3.3.11 Giudice ha dunque ritenuto la violazione evidente dei divieti di possesso, detenzione e commercializzazione degli alimenti che giustifica da sola la possibilità di distruggerli.
3.4. Non è inopportuno al riguardo sottolineare che secondo l'autorevole insegnamento di questa Corte, ai fini della configurabilità della contravvenzione prevista dall'art. 5, lett. b, della legge 30.04.1962 n. 283, che vieta l'impiego nella produzione di alimenti, la vendita, la detenzione per la vendita, la somministrazione, o comunque la distribuzione per il consumo, di sostanze alimentari in cattivo stato di conservazione, non è necessario che quest'ultimo si riferisca alle caratteristiche intrinseche di dette sostanze, ma è sufficiente che esso concerna le modalità estrinseche con cui si realizza, le quali devono uniformarsi alle prescrizioni normative, se sussistenti, ovvero, in caso contrario, a regole di comune esperienza (Sez. U, n. 443 del 19/12/2001, dep. il 09/01/2002, Butti, Rv. 220716). In questo senso anche la custodia in locali sporchi e quindi igienicamente inidonei alla conservazione determina la violazione del divieto di commercializzazione del prodotto (Sez. 3, n. 9477 del 21/01/2005, Ciccariello).
3.5. Non era dunque necessario alcun accertamento sulle caratteristiche intrinseche degli alimenti, essendo sufficiente l'esame visivo dei luoghi in cui essi erano conservati, la cui descrizione non è oggetto di critica puntuale da parte del ricorrente che, senza eccepire il travisamento della relazione della ASL (documento pubblico di cui non eccepisce nemmeno la falsità), si limita a contestare in modo del tutto generico e fattuale la ritenuta contaminazione delle forme di formaggio con il veleno e ad escludere che, in ogni caso, essa riguardi indiscriminatamente tutte le forme.
3.6. Questi, inoltre, si lamenta che l'accertamento non è stato compiuto in contraddittorio ma è agevole osservare che l'art. 260, comma 3-bis, cod. proc. pen., prevede tale modalità solo come eventuale.
3.7. E' quindi infondata, alla luce delle considerazioni che precedono, anche l'eccezione relativa alla mancata motivazione avendo il Giudice indicato in modo più che adeguato i fatti che legittimano la immediata distruzione degli alimenti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 25.10.2016 n. 44927).

ATTI AMMINISTRATIVI: La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha da tempo evidenziato come nessuna disposizione di legge abbia elevato il termine per la conclusione del procedimento amministrativo a requisito di validità dell'atto amministrativo, rimanendo dunque lo stesso confinato sul piano dei comportamenti dell'amministrazione.
E ciò è agevolmente spiegabile ricordando che l'esercizio della funzione pubblica è connotato dai requisiti della doverosità e della continuità, cosicché i termini fissati per il suo svolgimento hanno giocoforza carattere acceleratorio, in funzione del rispetto dei principi di buon andamento (97 Cost.), efficienza ed efficacia dell'azione amministrativa (art. 1, comma 1, l. n. 241/1990), e non già perentorio. Conseguentemente, la loro scadenza non priva l'amministrazione del dovere di curare l'interesse pubblico, né rende l'atto sopravvenuto di per sé invalido.
E, si osserva conclusivamente, il mancato esercizio delle attribuzioni da parte dell’amministrazione entro il termine per provvedere non comporta, per ciò solo, e in difetto di espressa previsione, la decadenza del potere o il venir meno dell’efficacia dell’originario vincolo.

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3. Venendo al merito delle questioni sollevate dalla ricorrente, devono essere preliminarmente disattese le doglianze sulla tardiva rideterminazione della sanzione, con la quale la ricorrente lamenta che il procedimento sarebbe stato avviato dopo quattro anni della definizione del giudizio, in tal modo contravvenendo ai principi di buon andamento della P.A..
In proposito rileva il Collegio che l'obbligo di ottemperare alla pronuncia giudiziale non è in sé soggetto ad alcun termine, mentre, nella specie, per l’esercizio del potere di rideterminare la sanzione risulta comunque rispettato il termine di prescrizione quinquennale fissato in via generale dall'art. 28 della legge 689/1981.
Come affermato dalla Corte di Giustizia Europea con riferimento al corrispondente termine (quinquennale) di prescrizione previsto dagli artt. 25 e 26 del Regolamento (CE) n. 1/2003, qualora l'azione venga attivata entro lo stesso termine, a nulla vale eccepire la pretesa tardività del procedimento avviato dalla Commissione per l'applicazione di una sanzione (Corte di Giustizia, 05.12.2013, causa C-447/11P, Caffaro).
Più in generale, la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha da tempo evidenziato come nessuna disposizione di legge abbia elevato il termine per la conclusione del procedimento amministrativo a requisito di validità dell'atto amministrativo (Cons. Stato, IV, 12.06.2012, n. 2264; id., 10.06.2010 n. 3695; VI, 01.12.2010, n. 8371; 14.01.2009, n. 140; 25.06.2008 n. 3215), rimanendo dunque lo stesso confinato sul piano dei comportamenti dell'amministrazione. E ciò è agevolmente spiegabile ricordando che l'esercizio della funzione pubblica è connotato dai requisiti della doverosità e della continuità, cosicché i termini fissati per il suo svolgimento hanno giocoforza carattere acceleratorio, in funzione del rispetto dei principi di buon andamento (97 Cost.), efficienza ed efficacia dell'azione amministrativa (art. 1, comma 1, l. n. 241/1990), e non già perentorio. Conseguentemente, la loro scadenza non priva l'amministrazione del dovere di curare l'interesse pubblico, né rende l'atto sopravvenuto di per sé invalido (Cons. Stato, V, 11.10.2013, n. 4980).
E, si osserva conclusivamente, il mancato esercizio delle attribuzioni da parte dell’amministrazione entro il termine per provvedere non comporta, per ciò solo, e in difetto di espressa previsione, la decadenza del potere o il venir meno dell’efficacia dell’originario vincolo (Corte Costituzionale, sentenze 23.07.1997, n. 262 e 17.06.2002, n. 355) (TAR Lazio-Roma, Sez. I, sentenza 25.02.2015 n. 3342 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di denuncia di inizio attività (DIA), come disciplinata dall’art. 22 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, in effetti, sussistono tuttora diversi indirizzi giurisprudenziali, che investono sia la natura giuridica dell’istituto, sia gli effetti del decorso del termine, che consente al dichiarante di effettuare gli interventi edilizi oggetto di denuncia:
  
in alcune pronunce, in particolare, si ravvisa in esito alla procedura in questione la formazione di un provvedimento tacito, abilitativo dell’intervento;
  
in altre decisioni si identifica la DIA come atto privato di autocertificazione, che pur non costituendo espressione di potestà pubblicistica resta oggetto di poteri di controllo ed inibitori, anche dopo la scadenza del predetto termine, sempre comunque nel rispetto degli articoli quinquies e nonies della legge n. 241/1990.
Le esigenze di protezione dell’affidamento del privato, cui sono finalizzati i principi garantistici dell’autotutela, tuttavia, richiedono la sussistenza di alcuni requisiti minimi, in assenza dei quali la DIA deve ritenersi inefficace, con conseguente sottoposizione delle opere realizzate –in quanto prive di titolo abilitativo– agli ordinari poteri repressivi dell’Amministrazione.
Detti requisiti sono precisati, oltre che nell’art. 22 sotto il profilo oggettivo, nell’art. 23 del citato d.P.R. n. 380/2001:
   - al comma n. 1 di quest’ultimo, per quanto riguarda le modalità della domanda ed i requisiti soggettivi richiesti per la relativa presentazione, e
   - nel comma 4 in presenza di vincoli ambientali, paesaggistici o culturali, la cui tutela non competa, come nel caso di specie, all’Amministrazione comunale.
E’ poi chiarito al comma 5 del medesimo articolo 23 che, per comprovare il carattere non abusivo delle opere realizzate, gli interessati debbano esibire non solo la domanda, ma anche “gli atti di assenso eventualmente necessari”.
E’ vero che il ricordato quarto comma dell’art. 23 prevede la convocazione, da parte del Comune, di una conferenza di servizi, quando non risulti allegato alla DIA il “parere favorevole del soggetto preposto alla tutela” del bene (con inefficacia della stessa DIA in caso di esito non favorevole della conferenza), ma la formulazione della norma indica chiaramente che detto parere debba essere stato quanto meno richiesto, benché non ancora ottenuto.
L’assenza di tale fondamentale adempimento –per un’istanza che deve riguardare interventi “conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente”– non può non ritenersi ostativa dell’efficacia della medesima DIA alla scadenza del termine, in astratto previsto per l’esecuzione delle opere oggetto della domanda: non a caso, il comma 6 dell’art. 22 del più volte citato d.P.R. n. 380/2001 subordina la realizzazione degli interventi edilizi, per gli immobili vincolati, al “preventivo rilascio del parere o dell’autorizzazione richiesti dalle relative previsioni normative” (con evidente riferimento alla non decorrenza del termine, previsto per l’inizio dei lavori, in assenza di detti pareri o autorizzazioni).
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Va ricordato come –anche per le opere soggette a DIA, specificate nel citato art. 22 del d.P.R. n. 380/2001– l’art. 37 del medesimo d.P.R. preveda la rimessa in pristino stato dei luoghi, in presenza di interventi effettuati su immobili vincolati.
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A diverse conclusioni si deve pervenire, invece, per quanto riguarda la struttura in profilati metallici, destinata secondo la parte appellante ad assicurare l’ombreggiatura e la protezione del sottostante parcheggio. Tale struttura, come evidenziato dalla documentazione fotografica in atti, appariva per dimensioni e caratteristiche di sicuro e non indifferente impatto visivo sull’area protetta, con evidente necessità di apposito titolo abilitativo.
A tale riguardo gli appellanti sottolineano l’avvenuta presentazione, da svariati anni, di due denunce di inizio attività, in presenza delle quali le installazioni di cui trattasi non avrebbero potuto ritenersi abusive, con conseguente necessità che l’Amministrazione procedesse –prima di emettere eventuali provvedimenti repressivi– a rimuovere il predetto titolo abilitativo, tacitamente formatosi, in via di autotutela. L’ordine di demolizione impugnato, in quanto privo di qualsiasi riferimento al riguardo, sarebbe stato quindi illegittimo.
Il Collegio non condivide tale prospettazione.
In materia di denuncia di inizio attività (DIA), come disciplinata dall’art. 22 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, in effetti, sussistono tuttora diversi indirizzi giurisprudenziali, che investono sia la natura giuridica dell’istituto, sia gli effetti del decorso del termine, che consente al dichiarante di effettuare gli interventi edilizi oggetto di denuncia (in alcune pronunce, in particolare, si ravvisa in esito alla procedura in questione la formazione di un provvedimento tacito, abilitativo dell’intervento: cfr. in tal senso, fra le tante, Cons. St., sez. VI, 05.04.2007, n. 1550; Cons. St., sez. IV, 12.03.2009, n. 1474 e 25.11.2008, n. 5811; Cons. St., sez. II, 28.05.2010, parere n. 1990; in altre decisioni si identifica la DIA come atto privato di autocertificazione, che pur non costituendo espressione di potestà pubblicistica resta oggetto di poteri di controllo ed inibitori, anche dopo la scadenza del predetto termine, sempre comunque nel rispetto degli articoli quinquies e nonies della legge n. 241/1990: cfr. in tal senso Cons. St., sez. VI, 09.02.2009, n. 717 e 14.11.2012, n. 5751); le esigenze di protezione dell’affidamento del privato, cui sono finalizzati i principi garantistici dell’autotutela, tuttavia, richiedono la sussistenza di alcuni requisiti minimi, in assenza dei quali la DIA deve ritenersi inefficace, con conseguente sottoposizione delle opere realizzate –in quanto prive di titolo abilitativo– agli ordinari poteri repressivi dell’Amministrazione.
Detti requisiti sono precisati, oltre che nell’art. 22 sotto il profilo oggettivo, nell’art. 23 del citato d.P.R. n. 380/2001: al comma n. 1 di quest’ultimo, per quanto riguarda le modalità della domanda ed i requisiti soggettivi richiesti per la relativa presentazione, e nel comma 4 in presenza di vincoli ambientali, paesaggistici o culturali, la cui tutela non competa, come nel caso di specie, all’Amministrazione comunale. E’ poi chiarito al comma 5 del medesimo articolo 23 che, per comprovare il carattere non abusivo delle opere realizzate, gli interessati debbano esibire non solo la domanda, ma anche “gli atti di assenso eventualmente necessari”.
E’ vero che il ricordato quarto comma dell’art. 23 prevede la convocazione, da parte del Comune, di una conferenza di servizi, quando non risulti allegato alla DIA il “parere favorevole del soggetto preposto alla tutela” del bene (con inefficacia della stessa DIA in caso di esito non favorevole della conferenza), ma la formulazione della norma indica chiaramente che detto parere debba essere stato quanto meno richiesto, benché non ancora ottenuto.
L’assenza di tale fondamentale adempimento –per un’istanza che deve riguardare interventi “conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente”– non può non ritenersi ostativa dell’efficacia della medesima DIA alla scadenza del termine, in astratto previsto per l’esecuzione delle opere oggetto della domanda: non a caso, il comma 6 dell’art. 22 del più volte citato d.P.R. n. 380/2001 subordina la realizzazione degli interventi edilizi, per gli immobili vincolati, al “preventivo rilascio del parere o dell’autorizzazione richiesti dalle relative previsioni normative” (con evidente riferimento alla non decorrenza del termine, previsto per l’inizio dei lavori, in assenza di detti pareri o autorizzazioni).
Nella situazione in esame, gli interessati hanno documentato l’avvenuta presentazione di istanza di accertamento di compatibilità paesistica alla Regione Lazio il 28.06.2013 e, quindi, successivamente all’emissione dell’ordine di demolizione impugnato (da considerare assorbente rispetto al precedente ordine di sospensione dei lavori).
Detta istanza non può considerarsi, tuttavia, oggetto del presente giudizio, pur potendo la stessa risultare prodromica ad una procedura di sanatoria, incidente sull’esecutività, ma non anche sulla legittimità della sanzione, da valutare –quest’ultima– in base ai presupposti di fatto e di diritto, sussistenti alla data della relativa emanazione.
In tale ottica, l’ordine di demolizione impugnato appare emesso, per quanto riguarda la struttura in profilati metallici, in conformità alle disposizioni legislative, di cui nel secondo ordine di censure si prospettava la violazione (articoli 10, 22 e 23 del d.P.R. n. 380/2001, legge della Regione Lazio n. 15/2008).
Ugualmente infondate appaiono le argomentazioni, che nel medesimo ordine di censure vengono riferite alla riconducibilità delle installazioni di cui trattasi ad interventi non incidenti sullo stato dei luoghi, tanto da non richiedere l’intervento dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo. Come già in precedenza chiarito, infatti, dette installazioni presentano caratteristiche di visibilità e stabilità, tali da produrre l’effettiva trasformazione di un’area in precedenza inedificata, con conseguente non rispondenza dell’intervento a finalità meramente manutentive o conservative dell’assetto esistente, tali da escludere il necessario apprezzamento di detta Autorità.
Considerazioni analoghe inducono a respingere anche il terzo ed ultimo motivo di gravame, riferito alla natura della sanzione: fermo restando, infatti, che l’inefficacia della DIA lascia comunque aperta la qualificazione dell’intervento (non effettuato su opere preesistenti, ma in area non edificata e soggetta a regime vincolistico), va comunque ricordato come –anche per le opere soggette a DIA, specificate nel citato art. 22 del d.P.R. n. 380/2001– l’art. 37 del medesimo d.P.R. preveda la rimessa in pristino stato dei luoghi, in presenza di interventi effettuati su immobili vincolati (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 20.11.2013 n. 5513 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASono considerati volumi edilizi gli spazi costituiti da almeno un piano di base e due superfici verticali contigue, così da ottenere una superficie chiusa su un minimo di tre lati, di modo che la chiusura del porticato, realizzato con pareti fisse, è intervento idoneo a creare un nuovo volume all’interno del perimetro originariamente aperto.
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I nuovi volumi, realizzati in assenza di titolo edilizio, non possono considerarsi volumi tecnici, come tali non rilevanti ai fini del computo della volumetria dell’immobile, atteso che nella nozione di volume tecnico rientrano, per costante giurisprudenza, esclusivamente quei volumi destinati alla allocazione degli impianti necessari all’utilizzo della abitazione principale e che non possono utilmente essere collocati al suo interno.
Tale natura non può ragionevolmente riconoscersi al un porticato chiuso e destinato in parte a locale garage ed in parte a locale lavanderia perché ne risulta evidente la destinazione a finalità differenti da quelle proprie dei volumi tecnici come sopra descritti.
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Con il provvedimento n. 9432 del 29.08.2012 il Comune di Maruggio ha rigettato la richiesta presentata dalla sig. ra Co.Ro. volta a ottenere il permesso di costruire in relazione agli “interventi eseguiti in assenza di Permesso di Costruire e per l’installazione di una sbarra in metallo di delimitazione accesso alla proprietà, nonché per la nuova realizzazione di una recinzione con relativi accessi” sulla base delle seguenti argomentazioni:
   - esaminato l’elaborato progettuale di rilievo del Piano terra con riferimento alla parte di copertura priva di tamponamento, già autorizzata con concessione edilizia in sanatoria n. 177/2001,
   - premesso che la stessa deve considerarsi come portico, vista la mancanza di una diversa e precisa indicazione di destinazione;
   - se è vero che l’art. 18 del Regolamento Edilizio Comunale vigente, recante norme per la misurazione delle altezze e dei volumi dei fabbricati, prescrive che nel calcolo del volume non vengano computati i portici, è anche vero che, nel caso in esame, gli interventi realizzati dall’istante hanno determinato un mutamento di destinazione d’uso da porticato-garage a cantina e lavanderia;
   - mediante la realizzazione di opere murarie aggiuntive, si è determinato un incremento della volumetria, non consentito nella zona “F4.2- Verde pubblico e attrezzature collettive” in cui l’immobile ricade, in quanto le norme tecniche di attuazione prescrivono che nelle aree a verde pubblico è consentita unicamente la creazione di impianti sportivi e per lo svago, di stazioni di servizio, campeggi, autoparcheggi, negozi, chioschi ed altri impianti similari di uso pubblico;.
   – la disposizione di cui all’art. 32 del D.P.R. n. 380/2001, secondo cui non possono comunque ritenersi variazioni essenziali quelle che incidono sulla entità delle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna delle singole unità abitative, non trova applicazione al caso in esame in quanto i nuovi locali realizzati (cantina e lavanderia) non possono qualificarsi quali volumi tecnici;
   - l’apposizione della barra metallica all’ingresso della strada privata gravata da servitù di passaggio deve qualificarsi come “opera di recinzione” ai sensi dell’art. 49, comma 4-bis, della legge n. 122/2010 e deve considerarsi come intervento assentibile mediante Scia, la cui mancanza determina l’applicazione della sole sanzioni previste dall’art. 37 del D.P.R. n. 380/2001;
   - negli stessi termini, la realizzazione della recinzione in muratura costituisce “opera di recinzione” assentibile mediante Scia, per la quale, così come per la sanatoria della sbarra metallica, dovrà pervenire all’Ufficio competente nuova e separata richiesta corredata da tutta la documentazione tecnica prevista dalla normativa vigente a firma di un tecnico abilitato.
Con un unico motivo di ricorso la ricorrente ha impugnato il provvedimento denunciandone l’illegittimità per eccesso di potere, violazione e/o falsa applicazione della legge e/o violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 380/2001 e/eccesso di potere per difetto di motivazione e/o contraddittorietà ed illogicità, violazione del giusto procedimento e/o violazione del principio di legalità e buon andamento dell’attività amministrativa e/o irrazionalità ed illogicità dell’azione amministrativa e/o eccesso di potere ed erronea valutazione dei presupposti di fatto e di diritto e/o illogicità dell’azione amministrativa.
Il provvedimento di diniego, infatti, sarebbe illegittimo in quanto, a detta di parte ricorrente:
   - la planimetria della concessione in sanatoria n. 177/2001 indicava la destinazione di utilizzo del porticato in piano garage;
   - gli artt. 136 e 137 del D.P.R. 380/2001 mantengono in vigore la legge 05.08.1978 n. 457 ad eccezione dell’art. 48;
   - il porticato è stato condonato come piano garage e non è, pertanto, applicabile l’art. 18 del Regolamento Edilizio Comunale di Maruggio;
   - l’art. 27 della citata legge non è applicabile al caso in esame per assenza dei piani di recupero;
   - la richiesta di costruire del 23.02.2012 riguarda interventi di ristrutturazione edilizia ammissibili di cui all’art. 31 della legge n. 457/1978, trasfuso nell’art. 3 del D.P.R. n. 380/2001;
   - l’art. 31 della legge n. 457/1978 prevede che sono ammissibili le opere necessarie per realizzare ed integrare servizi igienico-sanitari e tecnologici;
   - l’uso del porticato con destinazione garage è pienamente compatibile con l’uso a cantina e lavatoio, e che la cantina/lavanderia, integrando mere cubature accessorie, e non volumi tecnici,
   - la sbarra metallica, posta su una strada privata, così come la recinzione in muratura costituiscono un’attività libera per la quale non è richiesto alcun permesso di costruire e per le quali, in ogni modo, è fatta salvo, per il privato, richiedere al Comune il permesso di costruire, con conseguente obbligo dall’Amministrazione di accogliere siffatta richiesta.
I motivi di ricorso così proposti sono infondati.
La sig. ra Co.Ro., infatti, ha proceduto a realizzare, in assenza di valido titolo edilizio, una serie di interventi, consistenti, in primo luogo, nella chiusura dei due lati aperti del porticato- mediante muratura di conci tufacei- ottenendo un vano adibito a cantina di m. 3,65 per m. 8,15 ed uno stanzino di m. 2,00 x m. 2,50 adibito a lavanderia-bucatoio, entrambi per una altezza di m. 2,10 ed, in secondo luogo, nella apposizione di una sbarra metallica e nella realizzazione di una recinzione atte a delimitazione l’area di pertinenza esclusiva del fabbricato di sua proprietà da quella adibita a servitù di passaggio.
L’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 consente, in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire o in sua difformità, il rilascio del permesso in sanatoria ove l’intervento edilizio risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della sua realizzazione sia al momento della presentazione della domanda di accertamento di conformità.
Ciò premesso, a differenza di quanto sostenuto dalla ricorrente -secondo la quale i vani ottenuti mediante la chiusura del predetto porticato non comporterebbero aumento della superficie e della volumetria già sanate con concessione in sanatoria n. 177/2001, in quanto contenuti nella sagoma e nella planovolumetria esistenti- deve condividersi quanto assunto dal Comune di Maruggio nel provvedimento impugnato e rilevarsi che la realizzazione di siffatti locali ha prodotto, nell’immobile in questione, un aumento di volumetria.
Sono, infatti, considerati volumi edilizi gli spazi costituiti da almeno un piano di base e due superfici verticali contigue, così da ottenere una superficie chiusa su un minimo di tre lati, di modo che la chiusura del porticato, realizzato con pareti fisse, è intervento idoneo a creare un nuovo volume all’interno del perimetro originariamente aperto (TAR Liguria, Genova, sez. I, 09.10.2008 n. 1769; TAR Liguria, Genova, sez. I, 01.02.2012 n. 238).
Nel caso di specie, l’aumento di volumetria così ottenuto non risulta consentito dall’art. 18 del Regolamento Edilizio Comunale a mente del quale “nel volume generalmente non vengono computati i portici, i loggiati, i balconi aperti, la altane a giorno, gli aggetti di carattere strutturale e ornamentale fino a cm 20, il sottotetto purché contenuto nella massima pendenza del 35%, il torrino della scala e la sola macchina dell’impianto di ascensore. ….Nel computo della superficie coperta va considerata la superficie dei portici, degli aggetti scoperti che superino lo sporto i metri 1,20 e dei bow-windows qualunque sia il loro sporto” e ricadendo, altresì, l’immobile in questione, nella zona omogenea “F 4.2- Verde pubblico e attrezzature collettive” per la quale il vigente P.D.F. del Comune di Maruggio prescrive che “sono consentite unicamente impianti sportivi e per lo svago, stazioni di servizio, campeggi, autoparcheggi, negozi, chioschi, ed impianti similari di uso pubblico. Le attrezzature dovranno essere circondate da spazi liberi e alberi all’intorno e non potranno coprire più del 10% dell’area disponibile, né superare i due piani, col massimo di mt. 8,00 di altezza…”.
Si aggiunga che i nuovi volumi, realizzati in assenza di titolo edilizio, non possono considerarsi volumi tecnici, come tali non rilevanti ai fini del computo della volumetria dell’immobile, atteso che nella nozione di volume tecnico rientrano, per costante giurisprudenza, esclusivamente quei volumi destinati alla allocazione degli impianti necessari all’utilizzo della abitazione principale e che non possono utilmente essere collocati al suo interno (Cons. Stato, sez. V, 04.03.2008 n. 918).
Tale natura non può ragionevolmente riconoscersi al un porticato chiuso e destinato in parte a locale garage ed in parte a locale lavanderia perché ne risulta evidente la destinazione a finalità differenti da quelle proprie dei volumi tecnici come sopra descritti.
Né può valere, a legittimare l’intervento così realizzato, il pagamento di quanto versato dalla ricorrente in sede di condono edilizio, relativo alla concessione in sanatoria n. 177/2001, atteso che i locali a suo tempo condonati non possono ritenersi, per ciò solo, suscettibili di produrre nuovo volume.
Deve aggiungersi che la nuova destinazione impressa ai vani, da piano-garage a cantina-lavatoio, ha determinato un cambio di destinazione d’uso dell’originario locale non compatibile con la sua destinazione primaria, conferendo al manufatto caratteristiche diverse rispetto a quelle già oggetto di condono edilizio (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 27.08.2013 n. 1801 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza è costante nel negare che possa configurarsi un affidamento alla conservazione di una situazione di fatto illecita, oppure un effetto sanante, in ragione del tempo trascorso dal momento della commissione dell'abuso.
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Parimenti, va respinta la collegata censura di carenza di motivazione delle ingiunzioni impugnate, in violazione dell'art. 3 l. n. 241/1990 e dell'art. 4 l.p. n. 23/1992.
Viene lamentato che se l'abuso si colloca a notevole distanza di tempo dall'intervento repressivo dell'amministrazione, occorrerebbe una motivazione “rafforzata”, cioè non esclusivamente fondata sull'accertato illecito ma che dia conto anche delle ragioni di interesse pubblico al ripristino ed alla loro prevalenza rispetto all'interesse del privato alla conservazione dell'opera.
Tale assunto non può essere condiviso: il decorso del tempo non può elidere l'obbligo di motivazione, ma neppure aggravarlo. Essendo infatti l'ordinanza di demolizione un atto vincolato all'accertamento dei relativi presupposti, non sono richieste valutazioni (e pertanto nemmeno motivazioni) di natura comparativa in ordine ai contrapposti interessi in gioco o giudizi circa la sussistenza di un interesse pubblico all'eliminazione dell'opera abusiva. Non sussistendo nessun legittimo affidamento del privato che possa dirsi tutelato, non è necessario individuare un interesse pubblico prevalente che possa giustificarne il sacrificio.
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La ricorrente, insieme agli altri destinatari dei provvedimenti repressivi impugnati (non costituiti in giudizio), sono proprietari di fondi rustici con annessi fabbricati situati in C.C. Daone (pp.ff. nn. 2193/4 e 2193/1, 2201, 2210/2, 2210/08 e 2210/2, nonché 2450/1) asserviti da una vecchia strada che li attraversa, costeggiando il fiume Chiese, utilizzata anche dal Servizio Forestale della PAT per i necessari interventi di polizia idraulica.
Col ricorso in epigrafe la ricorrente espone che il Sindaco di Daone, con due distinti provvedimenti, ha ingiunto ad essa, congiuntamente agli altri proprietari, la rimessa in pristino dello stato dei luoghi sul presupposto che, come risulta dal sopralluogo effettuato in data 30.05.2012, la suddetta strada fosse stata oggetto di interventi abusivi consistenti nell'installazione di una sbarra in metallo all'ingresso e di riporto di materiale stabilizzato (ord. n. 22/12) e di ampliamento mediante realizzazione di un nuovo tratto, con modifica del tracciato preesistente (ord. n. 23/12) in assenza dei prescritti titoli edilizi.
...
A sostegno del presente ricorso viene dedotto:
  a) che non è stato comunicato l'avvio del procedimento, in violazione dell'art. 7 della l. n. 241 del 1990;
   b) che non vi sarebbe stato un sufficiente accertamento circa la consistenza quantitativa e/o qualitativa dell'abuso realizzato, concretandosi così il difetto di istruttoria e la violazione degli artt. 1, 3, 6 della l. n. 241/1990;
   c) che mancherebbero i presupposti di emanazione delle ordinanze gravate, stante il carattere non abusivo degli interventi realizzati che, in quanto di mero ripristino e non comportanti rilevante alterazione dello stato dei luoghi, non avrebbero abbisognato di titolo edilizio (terzo e quarto motivo di ricorso);
   d) che dette ordinanze sarebbero illegittime in quanto emanate in aperta lesione del legittimo affidamento che si sarebbe ingenerato nella ricorrente a fronte dell'inerzia e dei ritardi dell'amministrazione nell'accertare gli abusi, non colpiti dalle ord. nn. 64 e 71 del 2004, sebbene all'epoca già realizzati, e che comunque i provvedimenti gravati sarebbero privi della motivazione “rafforzata” necessaria, a detta della ricorrente, per perseguire abusi risalenti nel tempo, in violazione dell'art. 3 l. n. 241/1990 e del corrispondente art. 4 l. n. 23/1992;
   e) che sarebbe ravvisabile sviamento di potere nel fatto che la reiterata attività di vigilanza dell'Amministrazione sarebbe stata motivata, non dalle esigenze di repressione degli abusi edilizi ed urbanistici ma dall'intento di favorire la controinteressata, autrice della denuncia che ha determinato il sopralluogo del 30.05.2012.
...
Con il quinto motivo, la ricorrente lamenta che entrambe le ordinanze gravate sarebbero state emanate in aperta lesione del principio del legittimo affidamento, che sarebbe stato ingenerato dal fatto che l'Amministrazione non avrebbe, nelle precedenti ordinanze del 2004, contestato gli abusi relativi all'installazione della sbarra ed all'ampliamento del tracciato sulle pp.ff. nn. 2210/8 e 2210/2 di sua proprietà, anch'essi risalenti agli anni ottanta.
Anche tale motivo è infondato.
La giurisprudenza, infatti, è costante nel negare che possa configurarsi un affidamento alla conservazione di una situazione di fatto illecita, oppure un effetto sanante, in ragione del tempo trascorso dal momento della commissione dell'abuso (cfr., ad es.: Cons. Stato, sez. VI, n. 496/2013).
Parimenti, va respinta la collegata censura di carenza di motivazione delle ingiunzioni impugnate, in violazione dell'art. 3 l. n. 241/1990 e dell'art. 4 l.p. n. 23/1992. Viene lamentato che se l'abuso si colloca a notevole distanza di tempo dall'intervento repressivo dell'amministrazione, occorrerebbe una motivazione “rafforzata”, cioè non esclusivamente fondata sull'accertato illecito ma che dia conto anche delle ragioni di interesse pubblico al ripristino ed alla loro prevalenza rispetto all'interesse del privato alla conservazione dell'opera.
Tale assunto non può essere condiviso: il decorso del tempo non può elidere l'obbligo di motivazione, ma neppure aggravarlo. Essendo infatti l'ordinanza di demolizione un atto vincolato all'accertamento dei relativi presupposti, non sono richieste valutazioni (e pertanto nemmeno motivazioni) di natura comparativa in ordine ai contrapposti interessi in gioco o giudizi circa la sussistenza di un interesse pubblico all'eliminazione dell'opera abusiva. Non sussistendo nessun legittimo affidamento del privato che possa dirsi tutelato, non è necessario individuare un interesse pubblico prevalente che possa giustificarne il sacrificio (cfr., ad es.: Cons. Stato, sez. VI, n. 1268/2013) (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 20.06.2013 n. 210 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini del conseguimento della sanatoria per costruzioni abusive, l’onere di fornire la prova in ordine alla ricorrenza del presupposto temporale richiesto per la concessione del beneficio in questione incombe sul soggetto che ha compiuto l’abuso edilizio, mentre sull’Amministrazione grava l’onere di controllare l’attendibilità dei fatti dedotti ex adverso, compiendo ogni opportuna verifica istruttoria ed, eventualmente, contrapponendo ad essi le risultanze di proprie verifiche ed accertamenti d’ufficio.
La dichiarazione sostitutiva di notorietà dell’intervenuta ultimazione delle opere entro la data di scadenza non ha alcuna valenza privilegiata. Ai fini della condonabilità delle opere abusive la stessa rappresenta solo un principio di prova potenzialmente idoneo e sufficiente a dimostrare la data di ultimazione delle opere; detta dichiarazione sostitutiva non preclude all’Amministrazione, in sede di esame della stessa, la possibilità di raccogliere nel corso del procedimento elementi a contrario e pervenire a risultanze diverse, senza che ciò faccia ricadere su quest’ultima l’onere di fornire la prova dell’ultimazione dei lavori in data successiva a quella dichiarata dall’interessato.
E’ stato quindi ritenuto in giurisprudenza che “la dichiarazione sostitutiva di atto notorio può essere posta a fondamento dell'istanza di condono quale principio di prova idoneo e sufficiente a dimostrare la data di ultimazione della costruzione ciò non esclude che, a contrastare tale valenza probatoria, possa essere posto qualsiasi altro elemento in possesso dell'Amministrazione e tale da inficiare la valenza suddetta tra cui le risultanze provenienti da terzi e specificamente il rilievo aerofotogrammetrico che comprovi lo stato di inedificazione del suolo ove è stata poi realizzata la costruzione”.
In estrema sintesi, quindi, la prova sulla realizzazione delle opere entro la data del 31.03.2003 grava sul richiedente la sanatoria, che può avvalersi –se non vi è contestazione– della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, ma a fronte di elementi di prova a disposizione dell’Amministrazione che attestino il contrario –quali il rilievo aerofotogrammetrico- il responsabile dell’abuso è gravato dall’onere di provare, attraverso elementi certi, quali fotografie aeree, fatture, sopralluoghi, e così via, l’effettiva realizzazione dei lavori entro il termine previsto dalla legge per poter usufruire del beneficio, non potendo limitarsi a contestare i dati in possesso dell’Amministrazione senza fornire alcun elemento di prova a corredo della propria tesi, in quanto l’Amministrazione -in assenza di elementi di prova contrari- non può che respingere la domanda di sanatoria.
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La censura è infondata.
Occorre innanzitutto rilevare che ai fini del conseguimento della sanatoria per costruzioni abusive, l’onere di fornire la prova in ordine alla ricorrenza del presupposto temporale richiesto per la concessione del beneficio in questione incombe sul soggetto che ha compiuto l’abuso edilizio, mentre sull’Amministrazione grava l’onere di controllare l’attendibilità dei fatti dedotti ex adverso, compiendo ogni opportuna verifica istruttoria ed, eventualmente, contrapponendo ad essi le risultanze di proprie verifiche ed accertamenti d’ufficio (TAR Marche 11/03/1995 n. 118).
La dichiarazione sostitutiva di notorietà dell’intervenuta ultimazione delle opere entro la data di scadenza non ha alcuna valenza privilegiata. Ai fini della condonabilità delle opere abusive la stessa rappresenta solo un principio di prova potenzialmente idoneo e sufficiente a dimostrare la data di ultimazione delle opere (TAR Campania Napoli Sez. VI 02/01/2006 n. 7); detta dichiarazione sostitutiva non preclude all’Amministrazione, in sede di esame della stessa, la possibilità di raccogliere nel corso del procedimento elementi a contrario e pervenire a risultanze diverse, senza che ciò faccia ricadere su quest’ultima l’onere di fornire la prova dell’ultimazione dei lavori in data successiva a quella dichiarata dall’interessato (TAR Lazio Sez. Latina 29/07/2003 n. 675).
E’ stato quindi ritenuto in giurisprudenza che “la dichiarazione sostitutiva di atto notorio può essere posta a fondamento dell'istanza di condono quale principio di prova idoneo e sufficiente a dimostrare la data di ultimazione della costruzione ciò non esclude che, a contrastare tale valenza probatoria, possa essere posto qualsiasi altro elemento in possesso dell'Amministrazione e tale da inficiare la valenza suddetta tra cui le risultanze provenienti da terzi e specificamente il rilievo aerofotogrammetrico che comprovi lo stato di inedificazione del suolo ove è stata poi realizzata la costruzione” (TAR Puglia Bari, sez. II, 10.09.2003, n. 3248).
In estrema sintesi, quindi, la prova sulla realizzazione delle opere entro la data del 31.03.2003 grava sul richiedente la sanatoria, che può avvalersi –se non vi è contestazione– della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, ma a fronte di elementi di prova a disposizione dell’Amministrazione che attestino il contrario –quali il rilievo aerofotogrammetrico- il responsabile dell’abuso è gravato dall’onere di provare, attraverso elementi certi, quali fotografie aeree, fatture, sopralluoghi, e così via, l’effettiva realizzazione dei lavori entro il termine previsto dalla legge per poter usufruire del beneficio, non potendo limitarsi a contestare i dati in possesso dell’Amministrazione senza fornire alcun elemento di prova a corredo della propria tesi, in quanto l’Amministrazione -in assenza di elementi di prova contrari- non può che respingere la domanda di sanatoria.
Nel caso di specie, la ricorrente non ha prodotto né in sede procedimentale, né processuale, alcun elemento di prova in merito al rispetto del termine di scadenza del 31.03.2003, limitandosi a sostenere che i rilievi della Compagnia Generale Riprese Aree non avrebbero alcun valore probatorio.
Peraltro, la tesi della ricorrente diretta a sostenere l’irrilevanza delle riprese aeree, è destituita di fondamento in quanto la Compagnia Generale Riprese Aeree è munita di autorizzazione ENAC e di licenza da parte del Ministero dei Trasporti che le consente di effettuare riprese aeree per tutti gli Enti istituzionali, ivi compresi quelli Cartografici (Istituto Geografico Militare, Agenzia per il Territorio, Istituto Idrografico della Marina, ecc)., e la stessa Compagnia Generale Riprese Aeree ha certificato di aver effettuato la ripresa in questione (nella quale il manufatto non è presente) il giorno 12/07/2003 (il manufatto è invece visibile in riprese effettuate in data più recente); in ogni caso –in presenza di risultanze istruttorie attestanti la realizzazione del fabbricato oltre il termine del 31/03/2003 e la totale assenza di elementi di prova contrari– il diniego di condono appare pienamente legittimo, tenuto conto del mancato adempimento all’onere probatorio gravante sul richiedente.
Il ricorso avverso il diniego di condono deve essere quindi respinto tenuto conto che non è ravvisabile neppure la violazione procedimentale, atteso che l’Amministrazione ha inviato il preavviso di diniego ex art. 10-bis della L. 241/1990 ed ha esaminato le osservazioni presentate dalla ricorrente premurandosi anche di acquisire ulteriori chiarimenti da parte della società che ha effettuato i rilievi aerofotogrammetrici (cfr. doc. n. 8 fascicolo del Comune) al fine di fugare eventuali dubbi nascenti proprio dalle osservazioni svolte in sede procedimentale, il che consente di respingere anche il terzo motivo di impugnazione (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 06.12.2010 n. 35404 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: In presenza di un provvedimento sostenuto da più motivi, ciascuno autonomamente idoneo a darne giustificazione, è sufficiente che sia verificata la legittimità di uno di essi per escludere che l'atto possa essere annullato in sede giurisdizionale.
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Il provvedimento di diniego risulta quindi legittimamente adottato sulla base del primo presupposto sul quale si fonda (mancata realizzazione delle opere entro il termine del 31/03/2003).
In presenza di un provvedimento sostenuto da più motivi, ciascuno autonomamente idoneo a darne giustificazione, è sufficiente che sia verificata la legittimità di uno di essi per escludere che l'atto possa essere annullato in sede giurisdizionale (TAR Campania Napoli, sez. IV, 29.07.2010, n. 17066); il giudicante, in tal caso, è esonerato dall'onere di esaminare le censure residue (TAR Lazio Roma, sez. II, 15.07.2010, n. 26067).
Il Collegio può quindi esimersi dall’esaminare il secondo motivo di impugnazione (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 06.12.2010 n. 35404 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: A fronte del diniego di sanatoria l’ordinanza di demolizione si appalesa come atto meramente consequenziale al diniego.
L'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e, quindi, non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione. Non può ammettersi alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il tempo non può avere legittimato.
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La mancata comunicazione di avvio del procedimento volto all'adozione di un provvedimento di demolizione, ai sensi dell'art. 21-octies, l. n. 241 del 1990, non determina l'annullamento del provvedimento impugnato relativamente all'ordine di demolizione, rispetto al quale assurge a mero vizio formale, non potendo sovvertire l’esito del procedimento.
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In presenza di un atto vincolato qualunque violazione procedimentale deve considerarsi vizio meramente formale tale da non poter comportare l’annullamento dell’atto.
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Nell'ordinanza di demolizione è sufficiente che sia riportata l'indicazione delle conseguenze della mancata demolizione, mentre la misura dell'area da acquisire deve reputarsi meramente indicativa, in quanto la corretta determinazione potrà avvenire soltanto dopo il rituale accertamento, da parte del Comune, dell'inottemperanza all'ingiunzione; allorché sarà avviato, nell'ambito del procedimento sanzionatorio di cui all'art. 31 del Testo Unico, un sub-procedimento specificamente finalizzato alla precisa individuazione delle aree da acquisirsi gratuitamente ai sensi del comma 3.
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Devono essere invece esaminati i motivi aggiunti proposti avverso l’ordinanza di demolizione.
Occorre preventivamente rilevare che a fronte del diniego di sanatoria l’ordinanza di demolizione si appalesa come atto meramente consequenziale al diniego (TAR Toscana Sez. III 06/02/2008 n. 102).
L'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e, quindi, non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione. Non può ammettersi alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il tempo non può avere legittimato” (cfr., tra le tante, Consiglio Stato , sez. IV, 31.08.2010, n. 3955; TAR Campania Napoli, sez. VI, 26.08.2010, n. 17238; 29.07.2010 n. 17066).
Occorre poi rilevare, sempre in via preliminare, prima della disamina delle singole censure, che la mancata comunicazione di avvio del procedimento volto all'adozione di un provvedimento di demolizione, ai sensi dell'art. 21-octies, l. n. 241 del 1990, non determina l'annullamento del provvedimento impugnato relativamente all'ordine di demolizione, rispetto al quale assurge a mero vizio formale, non potendo sovvertire l’esito del procedimento (TAR Lazio Roma, sez. I, 03.08.2010, n. 2967; TAR Campania Napoli, sez. VI, 26.08.2010 , n. 17238).
Completate queste premesse, possono esaminarsi i motivi aggiunti.
Con la prima censura lamenta la ricorrente la mancata valutazione del suo apporto procedimentale.
La censura è infondata.
Innanzitutto –come già rilevato- in presenza di un atto vincolato qualunque violazione procedimentale deve considerarsi vizio meramente formale tale da non poter comportare l’annullamento dell’atto; inoltre, nel caso di specie, l’osservazione della ricorrente non avrebbe mai potuto sovvertire l’esito del procedimento, trattandosi di mero rilievo sulla pendenza dinanzi al TAR Lazio del ricorso avverso il diniego di condono (questione peraltro già nota all’Amministrazione), elemento, questo, che contrariamente a quanto ritenuto dalla ricorrente, non impedisce di certo al Comune di adottare i provvedimenti sanzionatori consequenziali al diniego di condono.
Altrettanto infondato è vizio di difetto di motivazione, atteso che l’Amministrazione aveva già esaminato le osservazioni della ricorrente prima di adottare il provvedimento di diniego di condono, e non era tenuta a rivalutarle in sede di adozione dell’ordinanza di demolizione, atto meramente consequenziale al diniego di sanatoria.
Con il terzo motivo la ricorrente lamenta l’omessa indicazione dei criteri utilizzati dal comune per la determinazione dell’area oggetto di acquisizione gratuita al patrimonio del Comune.
La censura è infondata.
Nell'ordinanza di demolizione è sufficiente che sia riportata l'indicazione delle conseguenze della mancata demolizione, mentre la misura dell'area da acquisire deve reputarsi meramente indicativa, in quanto la corretta determinazione potrà avvenire soltanto dopo il rituale accertamento, da parte del Comune, dell'inottemperanza all'ingiunzione; allorché sarà avviato, nell'ambito del procedimento sanzionatorio di cui all'art. 31 del Testo Unico, un sub-procedimento specificamente finalizzato alla precisa individuazione delle aree da acquisirsi gratuitamente ai sensi del comma 3 (TAR Lombardia Milano, sez. II, 26.01.2010, n. 175).
Correttamente, quindi, il comune si è limitato a richiamare i criteri previsti dalla legge (art. 31, comma 3, D.P.R. 380/2001) (cfr. TAR Toscana Firenze, sez. III, 18.01.2010, n. 35) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 06.12.2010 n. 35404 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO ALL'08.10.2018

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Non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante il cambio di destinazione d'uso di un garage, di un magazzino o di una soffitta in un locale abitabile (anche senza opere edilizie).

EDILIZIA PRIVATA: Cambio di destinazione d’uso senza permesso, demolizione solo in caso di lavori «pesanti». Sulla necessità del permesso di costruire in caso di mutamento di destinazione d'uso di rilevanza urbanistica.
Sulla demolizione di opere edilizie abusive che hanno comportato il mutamento della destinazione d'uso di una soffitta-lavatoio–stenditoio ad uso abitativo residenziale.
Non è controversa l’avvenuta destinazione del complesso soffitta-lavatoio-stenditoio ad uso abitativo, Si tratta, con ogni evidenza, di un mutamento di destinazione d’uso con opere, in quanto anche la semplice realizzazione degli impianti tecnologici e sanitari è sufficiente, per costante giurisprudenza, a tal fine.
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La disposta demolizione presuppone la classificazione del mutamento di destinazione d’uso con opere nell’ambito della ristrutturazione edilizia cd. “pesante” o “maggiore”, alla quale fanno riferimento l’art. 33 del D.P.R. n. 380/2001 e l’art. 16 della L.R. n. 15/2008.
Tale classificazione è stata adottata dalla giurisprudenza della Corte di cassazione in numerose sentenze.
Invero, la Suprema Corte ha avuto modo di precisare, per quanto qui interessa, quanto segue:
   - “la destinazione d'uso è un elemento che qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione.
Essa individua il bene sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona. L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello stesso vengono realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando appunto il complessivo assetto territoriale”;
   - “quanto al mutamento di destinazione di uso di un immobile attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie, deve ricordarsi che, qualora esso venga realizzato dopo l'ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza…. si configura in ogni caso un'ipotesi di ristrutturazione edilizia secondo la definizione fornita dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. d), in quanto l'esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione di "un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente".
L'intervento rimane assoggettato, pertanto, al previo rilascio del permesso di costruire con pagamento del contributo di costruzione dovuto per la diversa destinazione”;
   - “un delicato problema di coordinamento interpretativo si correla alla disposizione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 10, comma 1, lett. c), secondo la quale sono subordinati a permesso di costruire "gli interventi di ristrutturazione edilizia che ..., limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A), comportino mutamenti della destinazione d'uso". Il che potrebbe portare ad affermare che, fuori delle zone omogenee A), la ristrutturazione edilizia (purché non comporti aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici) sarebbe sottratta al regime del permesso di costruire e realizzabile mediante denuncia di inizio dell'attività anche se si accompagni alla modifica della destinazione d'uso.
Una conclusione siffatta, però, si porrebbe in contrasto con l'assoggettamento al permesso di costruire, anche fuori dei centri storici, delle opere di manutenzione straordinaria e di restauro e risanamento conservativo (interventi di minore portata rispetto alla ristrutturazione edilizia) qualora comportino modifiche delle destinazioni d'uso.
Un'interpretazione coerente della disposizione […], conseguentemente, può aversi soltanto allorché si ritenga che in essa il legislatore si è riferito alle "destinazioni d'uso compatibili" già considerate dallo stesso D.P.R., art. 3, comma 1, lett. c) (nella descrizione della tipologia del restauro e risanamento conservativo).
Gli interventi di ristrutturazione edilizia, in sostanza, alla stessa stregua degli interventi di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo:
   - necessitano sempre di permesso di costruire, qualora comportino mutamento di destinazione d'uso tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico;
   - fuori dei centri storici sono realizzabili mediante denunzia di attività qualora comportino il mutamento della destinazione d'uso all'interno di una stessa categoria omogenea;
   - nei centri storici non possono essere realizzati mediante denunzia di attività neppure qualora comportino il mero mutamento della destinazione d'uso all'interno di una stessa categoria omogenea”.
Tale linea interpretativa è stata confermata dalla successiva giurisprudenza.
In particolare, ha precisato che la “imprescindibile necessità di mantenere l'originaria destinazione d'uso caratterizza ancor oggi gli "interventi di manutenzione straordinaria", non avendo alcun rilievo il fatto che, in conseguenza delle modifiche introdotte dal D.L. 12.09.2014, n. 133, art. 17, comma 1, lett. a), nn. 1 e 2, convertito, con modificazioni, dalla L. 11.11.2014, n. 164, sia oggi consentito nell'ambito di detti interventi procedere al frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari con esecuzione di opere anche se comportanti la variazione delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico”.
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Nel caso di trasformazione di vani accessori in vani abitabili in un edificio residenziale, è da ritenersi -in generale- che non vi sia il rispetto degli elementi formali/strutturali dell’organismo edilizio.
La Corte di cassazione ritiene che gli "
elementi formali" attengono alla disposizione dei volumi, elementi architettonici che distinguono in modo peculiare il manufatto, configurando la sua immagine caratteristica; mentre gli "elementi strutturali" sono quelli che materialmente compongono la struttura dell'organismo edilizio.
Ad avviso del Collegio, detti requisiti non vanno giustapposti, bensì considerati sinteticamente come espressivi dell’identità dell’edificio residenziale, che è connotato non solo tipologicamente, ma anche come individualità che include una determinata proporzione di elementi accessori, la cui eliminazione trascende l’ambito della mera conservazione, sia pur intesa dinamicamente.
Inoltre, il Collegio ritiene decisivo osservare che la qualificazione dell’intervento in questione quale restauro e risanamento conservativo è radicalmente preclusa dal testo dell’art. 16, comma 1, della L.R. 11.08.2008, n. 15 (applicato nella fattispecie dall’Amministrazione), il quale accomuna espressamente agli interventi di ristrutturazione edilizia di cui all’art. 10, comma 1, lett. c) del D.P.R. n. 380/2001 i “cambi di destinazione d’uso da una categoria generale ad un’altra…in assenza di permesso di costruire o di denuncia di inizio attività nei casi previsti dall’art. 22, comma 3, lett. a), del D.P.R. n. 380/2001”, senza limitarne la portata applicativa alle Zone A.
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La questione è connessa a quella del carattere urbanisticamente rilevante di questo tipo di mutamento (da locale accessorio o pertinenza a vano abitabile).
Si tratta, in realtà, di un mutamento del tutto assimilabile a un cambio di categoria rilevante ai sensi dell’art. 23-ter, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001 e come tale avente rilevanza urbanistica ai sensi del punto 38 della Tabella A - Edilizia allegata al decreto SCIA 2 (D.Lgs. 222/2016).
Questo Tribunale ha affermato al riguardo che “nell’ambito di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono distinguersi i locali abitabili in senso stretto dagli spazi “accessori” o adibiti a servizi che, secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno valore di superficie edificabile e non sono presi in considerazione come superficie residenziale all’atto del rilascio del permesso di costruire: autorimesse, cantine, soffitte e locali di servizio rientrano, di norma, in questa categoria. Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante la trasformazione di un garage, di un magazzino o di una soffitta in un locale abitabile; senza considerare i profili igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni caso si configura, infatti, un ampliamento della superficie residenziale e della relativa volumetria autorizzate con l’originario permesso di costruire”.
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1. La società ricorrente impugna l'ordinanza prot. n. 1954 n. 9/2017 del 01.02.2017 del Comune di Rignano Flaminio avente ad oggetto la demolizione opere edilizie abusive ai sensi dell’art. 31 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, unitamente al presupposto verbale di sopralluogo della Polizia Locale.
Le opere in questione riguardano una unità immobiliare collocata nell'immobile censito nel N.C.E.U. al Foglio 4, Particella 1014, Subalterno 568, edificato sul terreno in Catasto al Foglio 4, Particella 1014 (edificio B) e situato in Zona B di P.R.G., in area non vincolata paesaggisticamente.
Esse hanno comportato il mutamento della destinazione d'uso a soffitta-lavatoio-stenditoio, risultante dagli elaborati progettuali dei Permessi di Costruire, in destinazione residenziale, a seguito di un insieme sistematico di opere accessorie realizzate per rendere i vari ambienti dell'unità immobiliare adatti ad un uso abitativo, le quali sono così descritte:
   - Installazione di un termosifone e fornitura del gas nel vano denominato "soffitta C1" adibito a cucina con gli appositi arredi.
   - Installazione di due termosifoni, realizzazione di una presa TV e telefono nonché di prese della corrente nel vano principale denominato "soffitta C" ora adibito a soggiorno.
   - Installazione di un termosifone, realizzazione di una presa TV nonché di prese della corrente, nel vano denominato "Soffitta C2" ora adibito a camera da letto matrimoniale con armadio.
   - Installazione di un termosifone, realizzazione di un wc, doccia e prese della corrente nel vano denominato “lavatoio” ora adibito a bagno.
   - Realizzazione di una presa TV e della corrente nello stenditoio scoperto lato sud.
   - Realizzazione di un vano caldaia nello stenditoio scoperto lato est.
...
6. Il terzo motivo di ricorso attiene alla disciplina del mutamento di destinazione d'uso, che necessita di permesso di costruire soltanto in caso di rilevanza urbanistica.
Secondo il ricorrrente, ove non si verifichi il passaggio da una categoria all’altra, di cui all’art. 23-bis del T.U. Ed., è sufficiente una semplice DIA (ora SCIA), la cui omissione non è passibile di ordinanza di demolizione, ma solamente della sanzione pecuniaria di cui all’art. 37 T.U. cit., che fa salve le ipotesi, qui non ricorrenti, degli interventi eseguiti su beni culturali ovvero in zona tipizzata come “A” dallo strumento urbanistico.
6.1 Il motivo è infondato.
6.1.1 In punto di fatto, non è controversa l’avvenuta destinazione del complesso soffitta-lavatoio-stenditoio ad uso abitativo, come risulta anche dai rilievi fotografici acquisiti agli atti del giudizio.
Si tratta inoltre, con ogni evidenza, di un mutamento di destinazione d’uso con opere, in quanto anche la semplice realizzazione degli impianti tecnologici e sanitari è sufficiente, per costante giurisprudenza, a tal fine.
6.1.2 In punto di diritto, va anzitutto osservato che la disposta demolizione presuppone la classificazione del mutamento di destinazione d’uso con opere nell’ambito della ristrutturazione edilizia cd. “pesante” o “maggiore”, alla quale fanno riferimento l’art. 33 del D.P.R. n. 380/2001 e l’art. 16 della L.R. n. 15/2008.
Tale classificazione è stata adottata dalla giurisprudenza della Corte di cassazione in numerose sentenze.
Già con la sentenza 05.03.2009 n. 9894 della III sezione penale, la Suprema Corte ha avuto modo di precisare, per quanto qui interessa, quanto segue:
   - “la destinazione d'uso è un elemento che qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione.
Essa individua il bene sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona. L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello stesso vengono realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando appunto il complessivo assetto territoriale
”;
   - “quanto al mutamento di destinazione di uso di un immobile attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie, deve ricordarsi che, qualora esso venga realizzato dopo l'ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza…. si configura in ogni caso un'ipotesi di ristrutturazione edilizia secondo la definizione fornita dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. d), in quanto l'esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione di "un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente".
L'intervento rimane assoggettato, pertanto, al previo rilascio del permesso di costruire con pagamento del contributo di costruzione dovuto per la diversa destinazione
”;
   - “un delicato problema di coordinamento interpretativo si correla alla disposizione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 10, comma 1, lett. c), secondo la quale sono subordinati a permesso di costruire "gli interventi di ristrutturazione edilizia che ..., limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A), comportino mutamenti della destinazione d'uso". Il che potrebbe portare ad affermare che, fuori delle zone omogenee A), la ristrutturazione edilizia (purché non comporti aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici) sarebbe sottratta al regime del permesso di costruire e realizzabile mediante denuncia di inizio dell'attività anche se si accompagni alla modifica della destinazione d'uso.
Una conclusione siffatta, però, si porrebbe in contrasto con l'assoggettamento al permesso di costruire, anche fuori dei centri storici, delle opere di manutenzione straordinaria e di restauro e risanamento conservativo (interventi di minore portata rispetto alla ristrutturazione edilizia) qualora comportino modifiche delle destinazioni d'uso.
Un'interpretazione coerente della disposizione […], conseguentemente, può aversi soltanto allorché si ritenga che in essa il legislatore si è riferito alle "destinazioni d'uso compatibili" già considerate dallo stesso D.P.R., art. 3, comma 1, lett. c) (nella descrizione della tipologia del restauro e risanamento conservativo).
Gli interventi di ristrutturazione edilizia, in sostanza, alla stessa stregua degli interventi di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo:
   - necessitano sempre di permesso di costruire, qualora comportino mutamento di destinazione d'uso tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico;
   - fuori dei centri storici sono realizzabili mediante denunzia di attività qualora comportino il mutamento della destinazione d'uso all'interno di una stessa categoria omogenea;
   - nei centri storici non possono essere realizzati mediante denunzia di attività neppure qualora comportino il mero mutamento della destinazione d'uso all'interno di una stessa categoria omogenea
”.
Tale linea interpretativa è stata confermata dalla successiva giurisprudenza (cfr. ex multis Cass. pen, sez. III, 28.01.2015, n. 3953). In particolare, Cass. pen, sez. III, 14.02.2017, n. 6873, ha precisato che la “imprescindibile necessità di mantenere l'originaria destinazione d'uso caratterizza ancor oggi gli "interventi di manutenzione straordinaria", non avendo alcun rilievo il fatto che, in conseguenza delle modifiche introdotte dal D.L. 12.09.2014, n. 133, art. 17, comma 1, lett. a), nn. 1 e 2, convertito, con modificazioni, dalla L. 11.11.2014, n. 164, sia oggi consentito nell'ambito di detti interventi procedere al frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari con esecuzione di opere anche se comportanti la variazione delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico”.
Dalla ricostruzione della disciplina normativa successiva alle riforme del 2014-2017 potrebbe trarsi, secondo una diversa ipotesi, anche l'interpretazione per cui il mutamento di destinazione d’uso potrebbe essere ricompreso -almeno in alcuni casi- nella definizione di restauro e risanamento conservativo (secondo la linea interpretativa adottata da TAR Toscana, sez. III, 28.07.2017, n. 1009).
Ad avviso del Collegio, tuttavia, questa classificazione (la quale comporterebbe un diverso regime sanzionatorio edilizio, conformemente alla prospettazione della parte ricorrente) non può essere recepita.
In realtà la sentenza della Cassazione da ultimo menzionata, richiamando la giurisprudenza anteriore, ha anche precisato sul punto che nella categoria del restauro e risanamento conservativopossono essere annoverate soltanto le opere di recupero abitativo, che mantengono in essere le preesistenti strutture, alle quali apportano un consolidamento, un rinnovo o l'inserimento di nuovi elementi costitutivi, a condizione che siano complessivamente rispettate tipologia, forma e struttura dell'edificio”.
La diversa opinione fa leva, oggi, sulla nuova definizione di restauro e risanamento conservativo introdotta nell’art. 3, comma 1, lett. c), del D.P.R. n. 380/2001, ad opera dell’art. 65-bis della L. n. 96/2017: “gli interventi edilizi rivolti a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell'organismo stesso, ne consentano anche il mutamento delle destinazioni d'uso purché con tali elementi compatibili, nonché conformi a quelle previste dallo strumento urbanistico generale e dai relativi piani attuativi. Tali interventi comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso, l'eliminazione degli elementi estranei all'organismo edilizio”.
Pur tuttavia, anche questa versione della norma prevede sempre il requisito della compatibilità con gli elementi tipologici, formali e strutturali dell'organismo edilizio (su cui cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 30.09.2013, n. 4851).
Ora, nel caso di trasformazione di vani accessori in vani abitabili in un edificio residenziale, è da ritenersi -in generale- che non vi sia il rispetto degli elementi formali/strutturali dell’organismo edilizio.
La Corte di cassazione ritiene che gli "elementi formali" attengono alla disposizione dei volumi, elementi architettonici che distinguono in modo peculiare il manufatto, configurando la sua immagine caratteristica; mentre gli "elementi strutturali" sono quelli che materialmente compongono la struttura dell'organismo edilizio (Cass. pen., sez. III, 26.11.2014, n. 49221).
Ad avviso del Collegio, detti requisiti non vanno giustapposti, bensì considerati sinteticamente come espressivi dell’identità dell’edificio residenziale, che è connotato non solo tipologicamente, ma anche come individualità che include una determinata proporzione di elementi accessori, la cui eliminazione trascende l’ambito della mera conservazione, sia pur intesa dinamicamente.
Inoltre, il Collegio ritiene decisivo osservare che la qualificazione dell’intervento in questione quale restauro e risanamento conservativo è radicalmente preclusa dal testo dell’art. 16, comma 1, della L.R. 11.08.2008, n. 15 (applicato nella fattispecie dall’Amministrazione), il quale accomuna espressamente agli interventi di ristrutturazione edilizia di cui all’art. 10, comma 1, lett. c) del D.P.R. n. 380/2001 i “cambi di destinazione d’uso da una categoria generale ad un’altra…in assenza di permesso di costruire o di denuncia di inizio attività nei casi previsti dall’art. 22, comma 3, lett. a), del D.P.R. n. 380/2001”, senza limitarne la portata applicativa alle Zone A.
In piena continuità con questa impostazione si colloca, da ultimo, la recente L.R. 18.07.2017, n. 7 (“Disposizioni per la rigenerazione urbana e il recupero edilizio”), la quale così dispone all’art. 4, comma 1: “I comuni, con apposita deliberazione di consiglio comunale da approvare mediante le procedure di cui all'articolo 1, comma 3, della L.R. n. 36/1987, possono prevedere nei propri strumenti urbanistici generali, previa acquisizione di idoneo titolo abilitativo di cui al D.P.R. n. 380/2001, l'ammissibilità di interventi di ristrutturazione edilizia, compresa la demolizione e ricostruzione, di singoli edifici aventi una superficie lorda complessiva fino ad un massimo di 10.000 mq, con mutamento della destinazione d'uso tra le categorie funzionali individuate all'articolo 23-ter del D.P.R. 380/2001 con esclusione di quella rurale”.
La questione è connessa a quella del carattere urbanisticamente rilevante di questo tipo di mutamento (da locale accessorio o pertinenza a vano abitabile).
Si tratta, in realtà, di un mutamento del tutto assimilabile a un cambio di categoria rilevante ai sensi dell’art. 23-ter, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001 e come tale avente rilevanza urbanistica ai sensi del punto 38 della Tabella A - Edilizia allegata al decreto SCIA 2 (D.Lgs. 222/2016).
Questo Tribunale ha affermato al riguardo che “nell’ambito di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono distinguersi i locali abitabili in senso stretto dagli spazi “accessori” o adibiti a servizi che, secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno valore di superficie edificabile e non sono presi in considerazione come superficie residenziale all’atto del rilascio del permesso di costruire: autorimesse, cantine, soffitte e locali di servizio rientrano, di norma, in questa categoria. Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante la trasformazione di un garage, di un magazzino o di una soffitta in un locale abitabile; senza considerare i profili igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni caso si configura, infatti, un ampliamento della superficie residenziale e della relativa volumetria autorizzate con l’originario permesso di costruire” (cfr. TAR Lazio, sez. II-bis, 11.07.2018, n. 7739; cfr. altresì sez. II-bis, 04.04.2017, n. 4225; sez. II-bis, 30.01.2017, n. 1439; nonché Cass. pen., sez. fer., 05.10.2015, n. 39907).
Per mera completezza va anche osservato che nessun rilievo riveste, nella specie, il profilo di cui all’art. 23-ter, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 (“La destinazione d'uso di un fabbricato o di una unità immobiliare è quella prevalente in termini di superficie utile”): secondo la Cassazione penale, sez. III, 29.11.2016, n. 50503, l’accertamento sulla prevalenza della destinazione d'uso del fondo riguarda solamente il caso di una destinazione mista, allo scopo di stabilire quale sia la destinazione d'uso da considerare prevalente, per verificare se vi sia stato un mutamento rispetto ad essa; mentre nel caso dei locali accessori non si discute della destinazione residenziale complessiva dell’opera, che è certa ed è unitaria, ma della diversa questione della ripartizione dei volumi principali e accessori, secondo le considerazioni poc’anzi esposte.
...
9. Conclusivamente il ricorso va respinto (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 30.08.2018 n. 9074 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulle opere realizzate volte a trasformare i locali adibiti a servizi (soffitta, lavatoio, stenditoio ed essiccatoio) in abitazione.
Le opere realizzate dalla ricorrente, volte a trasformare i locali adibiti a servizi (soffitta, lavatoio, stenditoio ed essiccatoio) in abitazione, con la modifica dei prospetti, sono, in verità, idonee a mutare radicalmente la destinazione d’uso dell’immobile in questione in locale residenziale, incidendo in modo determinate sul carico urbanistico e non appaiono legittimate dalla presentata DIA.
Per la normativa edilizia [art. 3, comma 1, lett. a) e c), del Testo Unico numero 380 del 2001, in combinato disposto con l’art. 10, comma 1, lett. c), e con l’art. 23-ter dello stesso Testo Unico] le opere interne e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo, necessitano, infatti, del preventivo rilascio del permesso di costruire, e non di semplice DIA, ogni qual volta comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie funzionalmente autonome.
Sono, dunque, errate le deduzioni della ricorrente circa la valenza solo interna e “neutra” della modificazione dell’uso del terzo piano del fabbricato -originariamente destinato a soffitta- che, ai fini dell’art. 23-ter T.U. Edilizia non poteva considerarsi semplicemente già tutto a destinazione abitativa.
In realtà, nell’ambito di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono distinguersi i locali abitabili in senso stretto dagli spazi “
accessori” o adibiti a servizi che, secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno valore di superficie edificabile e non sono presi in considerazione come superficie residenziale all’atto del rilascio del permesso di costruire: autorimesse, cantine, soffitte e locali di servizio rientrano, di norma, in questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante la trasformazione di un garage, di un magazzino o di una soffitta in un locale abitabile; senza considerare i profili igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni caso si configura, infatti, un ampliamento della superficie residenziale e della relativa volumetria autorizzate con l’originario permesso di costruire.
Aderendo, quindi, al costante orientamento della giurisprudenza, deve ritenersi che “solo il cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico) mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, così come tra locali accessori e vani ad uso residenziale, ciò integra una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del permesso di costruire, indipendentemente dall'esecuzione di opere che, comunque, nel caso in esame sono presenti”.
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Il provvedimento di demolizione delle opere abusive si rivela frutto di una sufficiente istruttoria e congruamente motivato con il richiamo alle risultanze dell’accertamento del 27.11.2017, nonché del tutto vincolato, senza che la partecipazione della ricorrente, volta a rappresentare elementi, in realtà, ininfluenti sui fatti di causa, potesse apportare alcun elemento utile ad una diversa determinazione dell’Amministrazione.
Come evidenziato, del resto, dalla giurisprudenza amministrativa prevalente, “è legittima l'ordinanza di demolizione che non sia stata preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento, sia per la natura vincolata dell'attività amministrativa volta alla repressione degli abusi edilizi, sia per l'operatività dell'art. 21-octies, l. 07.08.1990, n. 241 atteso che, in base a tale ultima disposizione, l'omissione non comporta comunque conseguenze sul piano della legittimità dei provvedimenti adottati, qualora il contenuto dispositivo di essi non avrebbe potuto essere diverso, anche a fronte della partecipazione degli interessati".
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Con il ricorso in epigrafe la Ed.Pe. s.r.l. ha chiesto al Tribunale di annullare, previa sospensione dell’efficacia, la determinazione dirigenziale di Roma Capitale dell’11.01.2018, avente ad oggetto “Ingiunzione a rimuovere o demolire gli interventi di ristrutturazione edilizia abusivamente realizzati in via del Pergolato n. 84 (art. 16 Legge Regione Lazio n. 15/2008 e s.m.i.) fasc. UDE 117/17” e qualsiasi altro atto presupposto e/o conseguente del procedimento.
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Il ricorso non è fondato e deve essere respinto.
Le opere realizzate dalla ricorrente, volte, come anticipato, a trasformare i locali adibiti a servizi (soffitta, lavatoio, stenditoio ed essiccatoio) in abitazione, con la modifica dei prospetti, sono, in verità, idonee a mutare radicalmente la destinazione d’uso dell’immobile in questione in locale residenziale, incidendo in modo determinate sul carico urbanistico e non appaiono legittimate dalla DIA del 16.05.2006.
Per la normativa edilizia [articolo 3, comma 1, lettere a) e c), del Testo Unico numero 380 del 2001, in combinato disposto con l’articolo 10, comma 1, lettera c), e con l’articolo 23-ter dello stesso Testo Unico] le opere interne e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo, necessitano, infatti, del preventivo rilascio del permesso di costruire, e non di semplice DIA, ogni qual volta comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie funzionalmente autonome.
Sono, dunque, errate le deduzioni della ricorrente circa la valenza solo interna e “neutra” della modificazione dell’uso del terzo piano del fabbricato -originariamente destinato a soffitta- che, ai fini dell’art. 23-ter T.U. Edilizia non poteva considerarsi semplicemente già tutto a destinazione abitativa.
In realtà, nell’ambito di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono distinguersi i locali abitabili in senso stretto dagli spazi “accessori” o adibiti a servizi che, secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno valore di superficie edificabile e non sono presi in considerazione come superficie residenziale all’atto del rilascio del permesso di costruire: autorimesse, cantine, soffitte e locali di servizio rientrano, di norma, in questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante la trasformazione di un garage, di un magazzino o di una soffitta in un locale abitabile; senza considerare i profili igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni caso si configura, infatti, un ampliamento della superficie residenziale e della relativa volumetria autorizzate con l’originario permesso di costruire.
Aderendo, quindi, al costante orientamento della giurisprudenza, di recente ribadito da questa stessa Sezione (cfr. da ultimo TAR Lazio, Roma, Sez. II-bis, 04.04.2017 n. 4225 e 30.01.2017 n. 1439) deve ritenersi che “solo il cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico) mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, così come tra locali accessori e vani ad uso residenziale, ciò integra una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del permesso di costruire, indipendentemente dall'esecuzione di opere che, comunque, nel caso in esame sono presenti”.
Alla luce di tali argomentazioni, il provvedimento di demolizione delle opere abusive si rivela frutto di una sufficiente istruttoria e congruamente motivato con il richiamo alle risultanze dell’accertamento del 27.11.2017, nonché del tutto vincolato, senza che la partecipazione della ricorrente, volta a rappresentare elementi, in realtà, ininfluenti sui fatti di causa, potesse apportare alcun elemento utile ad una diversa determinazione dell’Amministrazione.
Come evidenziato, del resto, dalla giurisprudenza amministrativa prevalente, “è legittima l'ordinanza di demolizione che non sia stata preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento, sia per la natura vincolata dell'attività amministrativa volta alla repressione degli abusi edilizi, sia per l'operatività dell'art. 21-octies, l. 07.08.1990, n. 241 atteso che, in base a tale ultima disposizione, l'omissione non comporta comunque conseguenze sul piano della legittimità dei provvedimenti adottati, qualora il contenuto dispositivo di essi non avrebbe potuto essere diverso, anche a fronte della partecipazione degli interessati” (cfr. ex multis, TAR Marche, Sez. I, 28.09.2017 n. 750 TAR Campania, Napoli, Sez. III, 12.02.2018 n. 898).
In conclusione, il ricorso non può, come detto, che essere integralmente rigettato (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 11.07.2018 n. 7739 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sul mutamento di destinazione d'uso (senza esecuzione di opere o aumento di volumi) del fabbricato posto in zona classificata come D2, ricomprendente aree commerciali e terziarie di completamento, in attività di preghiera o di culto.
La destinazione d'uso è un elemento che qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione. Essa individua il bene sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona.
L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello stesso vengono realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando appunto il complessivo assetto territoriale.
Il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante è dunque solo quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, tenuto conto che nell'ambito delle stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma non diversi regimi urbanistico-contributivi, stanti le sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell'ambito della medesima categoria.
Il Consiglio di Stato ha affermato, al riguardo, che "la richiesta di cambio della destinazione d'uso di un fabbricato, qualora non inerisca all'ambito delle modificazioni astrattamente possibili in una determinata zona urbanistica, ma sia volta a realizzare un uso del tutto difforme da quelli ammessi, si pone in insanabile contrasto con lo strumento urbanistico, posto che, in tal caso, si tratta non di una mera modificazione formale destinata a muoversi tra i possibili usi del territorio consentiti dal piano, bensì in un'alternazione idonea ad incidere significativamente sulla destinazione funzionale ammessa dal piano regolatore e tale, quindi, da alterare gli equilibri prefigurati in quella sede".
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Quanto al mutamento di destinazione d'uso realizzato, come nel caso in esame, senza l'esecuzione di opere edilizie, è stato chiarito che il mutamento di destinazione d'uso senza opere è attualmente assoggettato a S.C.I.A., purché intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una stessa categoria omogenea.
Dunque deve ritenersi consentita la modifica di destinazione d'uso funzionale che non comporti una oggettiva modificazione dell'assetto urbanistico ed edilizio del territorio e non incida sugli indici di edificabilità, che non determini, cioè, un aggravio del carico urbanistico, inteso come maggiore richiesta di servizi cosiddetti secondari, come ad esempio gli spazi pubblici destinati a parcheggio e le esigenze di trasporto, smaltimento di rifiuti e viabilità, derivante dalla diversa destinazione impressa al bene.
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Per quanto riguarda la destinazione a luogo di culto, la stessa non è astrattamente incompatibile con le categorie funzionali di cui all'art. 23-ter d.P.R. n. 380 del 2001, e cioè quella residenziale, quella turistico-ricettiva, quella produttiva e direzionale, quella commerciale e quella rurale, in quanto può coesistere con tali destinazioni, a condizione che non determini l'assegnazione dell'immobile a una diversa categoria funzionale tra quelle suddette e non comporti, ancorché tale destinazione non sia accompagnata dalla esecuzione di opere edilizie, un aggravio del carico urbanistico nel senso anzidetto.
L'attività di culto non rientra in alcuna delle suddette categorie funzionali, sicché il suo svolgimento, di per sé, non determina l'assegnazione dell'immobile a una di esse diversa da quella originaria, salvo che ciò venga in concreto accertato, unitamente, ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 44, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001, all'aggravio del carico urbanistico.
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1. Il ricorso, come peraltro sottolineato anche dal Procuratore Generale nella sua requisitoria scritta, è fondato in relazione al primo e al terzo motivo, essendo del tutto mancante la motivazione riguardo all'aggravio del carico urbanistico conseguente alla diversa destinazione d'uso impressa all'immobile senza esecuzione di opere o aumento di volumi.
2. Il sequestro oggetto delle censure proposte dal ricorrente è stato disposto in relazione al mutamento di destinazione d'uso del fabbricato condotto in locazione dallo stesso Da., nella sua veste di Presidente di una associazione culturale, posto in zona classificata come D2, ricomprendente aree commerciali e terziarie di completamento, sulla base del rilievo che all'interno di tale fabbricato sarebbe stata svolta attività di preghiera o di culto, determinante mutamento della destinazione d'uso del bene.
Al riguardo va dunque ricordato che questa Corte ha già chiarito (cfr. Sez. 3, n. 9894 del 20/01/2009, Tarallo, Rv. 243102; conf. Sez. 3, n. 5712 del 13/12/2013, Tortora, Rv. 258686; Sez. 3, n. 39897 del 24/06/2014, Filippi, Rv. 260422; Sez. 3, n. 26455 del 05/04/2016, Stellato, Rv. 267106) che la destinazione d'uso è un elemento che qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione. Essa individua il bene sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona.
L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello stesso vengono realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando appunto il complessivo assetto territoriale.
Il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante è dunque solo quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, tenuto conto che nell'ambito delle stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma non diversi regimi urbanistico-contributivi, stanti le sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell'ambito della medesima categoria.
Il Consiglio di Stato (Sez. 5, n. 24 del 03/01/1998, Comune di Ostuni c. Mo. S.r.l.) ha affermato, al riguardo, che "la richiesta di cambio della destinazione d'uso di un fabbricato, qualora non inerisca all'ambito delle modificazioni astrattamente possibili in una determinata zona urbanistica, ma sia volta a realizzare un uso del tutto difforme da quelli ammessi, si pone in insanabile contrasto con lo strumento urbanistico, posto che, in tal caso, si tratta non di una mera modificazione formale destinata a muoversi tra i possibili usi del territorio consentiti dal piano, bensì in un'alternazione idonea ad incidere significativamente sulla destinazione funzionale ammessa dal piano regolatore e tale, quindi, da alterare gli equilibri prefigurati in quella sede".
Quanto al mutamento di destinazione d'uso realizzato, come nel caso in esame, senza l'esecuzione di opere edilizie, è stato chiarito (cfr. Sez. 3, n. 5712 del 13/12/2013, cit., e successive conformi, tra cui Sez. 3, n. 39897 del 24/06/2014, e Sez. 3, n. 26455 del 05/04/2016, citate) che il mutamento di destinazione d'uso senza opere è attualmente assoggettato a S.C.I.A., purché intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una stessa categoria omogenea. Dunque deve ritenersi consentita la modifica di destinazione d'uso funzionale che non comporti una oggettiva modificazione dell'assetto urbanistico ed edilizio del territorio e non incida sugli indici di edificabilità, che non determini, cioè, un aggravio del carico urbanistico, inteso come maggiore richiesta di servizi cosiddetti secondari, come ad esempio gli spazi pubblici destinati a parcheggio e le esigenze di trasporto, smaltimento di rifiuti e viabilità (cfr., Sez. 3, n. 24852 del 08/05/2013, Pace, non massimata), derivante dalla diversa destinazione impressa al bene.
3. Per quanto riguarda la destinazione a luogo di culto, la stessa non è astrattamente incompatibile con le categorie funzionali di cui all'art. 23-ter d.P.R. n. 380 del 2001, e cioè quella residenziale, quella turistico-ricettiva, quella produttiva e direzionale, quella commerciale e quella rurale, in quanto può coesistere con tali destinazioni, a condizione che non determini l'assegnazione dell'immobile a una diversa categoria funzionale tra quelle suddette e non comporti, ancorché tale destinazione non sia accompagnata dalla esecuzione di opere edilizie, un aggravio del carico urbanistico nel senso anzidetto.
L'attività di culto non rientra in alcuna delle suddette categorie funzionali, sicché il suo svolgimento, di per sé, non determina l'assegnazione dell'immobile a una di esse diversa da quella originaria, salvo che ciò venga in concreto accertato, unitamente, ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 44, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001, all'aggravio del carico urbanistico (cfr., in proposito, Sez. 3, n. 4943 del 17/01/2012, Bittesini, Rv. 251984; Sez. 3, n. 19378 del 15/03/2002, Catalano, Rv. 221951; Sez. 3, n. 26209 del 30/04/2003, Censullo, Rv. 225515).
4. Ora, nella vicenda in esame, il Tribunale ha fondato il rigetto della richiesta di riesame sulle dichiarazioni rese a una dipendente del Comune di Coccaglio dalla figlia di uno dei partecipanti alla associazione culturale di cui il ricorrente è il presidente, che avrebbe riferito che nell'immobile condotto in locazione da detta associazione i fedeli si trovano quotidianamente a pregare; il Tribunale ha, però, omesso, oltre a qualsiasi riferimento alla imputazione di cui all'art. 681 cod. pen. (essendo stato disposto il sequestro anche in relazione a essa, che il Tribunale non ha, tuttavia, considerato), anche di accertare l'entità e l'incidenza di tale attività di culto, il suo riflesso sulla destinazione del bene e, soprattutto, sul carico urbanistico nel senso anzidetto: non è stato, in particolare, analizzato in alcun modo, nonostante la formulazione di una espressa censura sul punto da parte del richiedente, il mutamento, conseguente allo svolgimento di tale attività, dell'insieme delle esigenze urbanistiche valutate in sede di pianificazione, con particolare riferimento agli standard fissati dal D.M. 1444/1968 (cfr. Sez. 3, n. 36104 del 22/09/2011, Armelaní, Rv. 251251; Sez. 3, n. 6599 del 24/11/2011 (dep. 2012), Susinno, Rv. 252016), né accertato se tale eventuale mutamento abbia determinato anche un aggravio del carico urbanistico, inteso come maggiore richiesta di servizi cosiddetti secondari, come ad esempio gli spazi pubblici destinati a parcheggio e le esigenze di trasporto, smaltimento di rifiuti e viabilità (cfr., Sez. 3, n. 24852 del 08/05/2013, Pace, non massimata).
Ne consegue la sussistenza del vizio di violazione di legge denunciato dal ricorrente con il primo e il terzo motivo, risultando del tutto mancante l'accertamento in fatto e la relativa motivazione a proposito della entità della attività svolta nell'immobile condotto in locazione e oggetto del provvedimento di sequestro (se tale, cioè, da determinare un mutamento di destinazione da una categoria funzionale all'altra tra quelle indicate nell'art. 23-ter d.P.R. n. 380 del 2001), e riguardo alla incidenza della stessa sugli standard urbanistici (in misura tale da determinare un aggravio del carico urbanistico e quindi da consentire di ritenere configurabile il reato di cui all'art. 44 d.P.R. 380 del 2001): a tale ultimo riguardo la motivazione dell'ordinanza impugnata risulta priva di riferimenti concreti, in quanto è sganciata da qualsiasi riferimento alla attività svolta nell'immobile, a quella precedente, al raffronto tra esse, e alla incidenza di quella da ultimo svolta sui servizi cosiddetti secondari, in guisa tale da determinare un aggravio del carico urbanistico.
5. L'ordinanza impugnata deve, pertanto, essere annullata, con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Brescia, rimanendo con ciò assorbiti gli altri motivi di ricorso (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.07.2017 n. 34812).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla trasformare da autorimessa e magazzino in abitazione.
Sono errate le deduzioni circa la valenza solo interna e “neutra” della modificazione dell’uso del piano terra - originariamente destinato ad autorimessa e a magazzino, che, ai fini dell’art. 23-ter T.U. Edilizia non può considerarsi semplicemente già tutto a destinazione abitativa in quanto “pertinenza” di un edificio residenziale.
In realtà, nell’ambito di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono distinguersi i locali abitabili in senso stretto dagli spazi “accessori” che, secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno valore di superficie edificabile e non sono presi in considerazione come superficie residenziale all’atto del rilascio del permesso di costruire: autorimesse, cantine e locali di servizio rientrano, di norma, in questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante la trasformazione di un garage, di un magazzino o di una soffitta in un locale abitabile; senza considerare i profili igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni caso si configura, infatti, un ampliamento della superficie residenziale e della relativa volumetria autorizzate con l’originario permesso di costruire.
Sicché, deve ritenersi che “solo il cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico) mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, così come tra locali accessori e vani ad uso residenziale, integra una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del permesso di costruire e ciò indipendentemente dall'esecuzione di opere che, comunque, nel caso in esame sono presenti”.

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Il ricorso non è fondato e deve essere respinto.
Le opere di cui alla DIA del 19.07.2016, volte, come anticipato, a trasformare autorimessa e magazzino in abitazione con la modifica dei prospetti e la realizzazione di “n. 4 U.I. di SUL maggiore di mq 45” sono, in verità, idonee a mutare radicalmente la destinazione d’uso degli immobili in questione in locali residenziali, incidendo in modo determinate sul carico urbanistico.
Per la normativa edilizia [articolo 3, comma 1, lettere a) e c) del Testo Unico numero 380 del 2001, in combinato disposto con l’articolo 10, comma 1, lettera c e con l’articolo 23-ter dello stesso Testo Unico] le opere interne e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo, necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire, e non di semplice DIA, ogni qual volta comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie funzionalmente autonome.
Sono, dunque, errate le deduzioni del ricorrente circa la valenza solo interna e “neutra” della modificazione dell’uso del piano terra - originariamente destinato ad autorimessa e a magazzino, che, ai fini dell’art. 23-ter T.U. Edilizia non può considerarsi semplicemente già tutto a destinazione abitativa in quanto “pertinenza” di un edificio residenziale.
In realtà, nell’ambito di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono distinguersi i locali abitabili in senso stretto dagli spazi “accessori” che, secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno valore di superficie edificabile e non sono presi in considerazione come superficie residenziale all’atto del rilascio del permesso di costruire: autorimesse, cantine e locali di servizio rientrano, di norma, in questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante la trasformazione di un garage, di un magazzino o di una soffitta in un locale abitabile; senza considerare i profili igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni caso si configura, infatti, un ampliamento della superficie residenziale e della relativa volumetria autorizzate con l’originario permesso di costruire.
Aderendo, quindi, al costante orientamento della giurisprudenza, di recente ribadito da questa stessa Sezione (cfr. da ultimo TAR Lazio, Roma, Sez. II-bis, 4.04.2017 n. 4225 e 30.01.2017 n. 1439) deve ritenersi che “solo il cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico) mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, così come tra locali accessori e vani ad uso residenziale, integra una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del permesso di costruire e ciò indipendentemente dall'esecuzione di opere che, comunque, nel caso in esame sono presenti” (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 13.04.2017 n. 4577 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulle opere eseguite idonee a trasformare il piano interrato originariamente costituito da cantina e garage, in un locale abitabile, con cucina, sala studio e bagno.
Per la normativa edilizia [art. 3, comma 1, lett. a) e c), del Testo Unico numero 380 del 2001, in combinato disposto con l’art. 10, comma 1, lett. c) e con l’art. 23-ter dello stesso Testo Unico] le opere interne e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo, necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qual volta comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie funzionalmente autonome.
Nella fattispecie, non può essere negato che le opere eseguite siano risultate idonee a trasformare il piano interrato (peraltro oggetto di ampliamento senza titolo) originariamente costituito da cantina e garage, in un locale abitabile, con cucina, sala studio e bagno, incidendo, in misura lieve ma rilevante, sul carico urbanistico dell’immobile.
Sono, dunque, errate le deduzioni della ricorrente circa la valenza solo interna e “neutra” della modificazione dell’uso del piano seminterrato, che, potendosi considerare tutta ricompresa nelle categorie funzionali omogenee di cui all’art. 23-ter T.U. Edilizia finirebbe per risultare “urbanisticamente irrilevante”.
In realtà, nell’ambito di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono distinguersi i locali abitabili in senso stretto dagli spazi “
accessori” che, secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno valore di superficie edificabile e non sono presi in considerazione come superficie residenziale all’atto del rilascio del permesso di costruire: autorimesse, cantine e locali di servizio rientrano, di norma, in questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante la trasformazione di un garage o di una soffitta in un locale abitabile; senza considerare i profili igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni caso si configura, infatti, un ampliamento della superficie residenziale e della relativa volumetria autorizzate con l’originario permesso di costruire.
Aderendo, quindi, al costante orientamento della giurisprudenza, deve ritenersi che “solo il cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico) mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, così come tra locali accessori e vani ad uso residenziale, integra una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del permesso di costruire e ciò indipendentemente dall'esecuzione di opere che, comunque, nel caso in esame sono presenti”.
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Con il ricorso in epigrafe la sig.ra Zu.El. ha chiesto al Tribunale di annullare la determinazione dirigenziale di Roma Capitale n. 551 del 19.09.2013 con cui era stata respinta la sua domanda di condono del 09.12.2004 per l’avvenuta realizzazione al piano seminterrato dell’immobile di via ... n. 70 di un locale non residenziale (cantina) annesso al fabbricato principale per una superficie complessiva di mq 30, nonché tutti gli atti presupposti, conseguenti o comunque connessi e, in particolare, la circolare della Regione Lazio n. 65993/2S/02 del 19.04.2006, il parere della Regione Lazio n. 5224 del 30.04.2010 in merito al condono nelle aree vincolate e la d.d. di Roma Capitale n. 14 del 29.03.2012, richiamate nel provvedimento n. 551/2013.
...
Con i motivi aggiunti la ricorrente ha, inoltre, dedotto, come anticipato, l’illegittimità dell’ordine di ripristino asserendo che nel caso in questione le opere realizzate non avrebbero integrato una ristrutturazione edilizia, bensì di un mero cambio di destinazione d’uso, consentito dalla novella legislativa recata dal cosiddetto “Decreto Sblocca Italia”, mediante l’inserimento dell’articolo 23-ter nel Testo Unico dell’edilizia; con tale intervento normativo il legislatore avrebbe introdotto nel sistema il concetto di “mutamento d’uso urbanisticamente rilevante”, tale solo in caso di passaggio tra le diverse categorie funzionali, espressamente individuate dalla norma; ne conseguirebbe che, essendo il mutamento di destinazione d’uso interno alle categorie funzionali omogenee consentito, nella fattispecie in questione non si sarebbe verificato, quindi, alcun abuso, essendo stata modificata solo la distribuzione interna degli spazi.
Anche tale doglianza non può essere condivisa.
Per la normativa edilizia [articolo 3, comma 1, lettere a) e c), del Testo Unico numero 380 del 2001, in combinato disposto con l’articolo 10, comma 1, lettera c) e con l’articolo 23-ter dello stesso Testo Unico] le opere interne e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo, necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qual volta comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie funzionalmente autonome.
Nella fattispecie, non può essere negato che le opere eseguite siano risultate idonee a trasformare il piano interrato (peraltro oggetto di ampliamento senza titolo) originariamente costituito da cantina e garage, in un locale abitabile, con cucina, sala studio e bagno, incidendo, in misura lieve ma rilevante, sul carico urbanistico dell’immobile.
Sono, dunque, errate le deduzioni della ricorrente circa la valenza solo interna e “neutra” della modificazione dell’uso del piano seminterrato, che, potendosi considerare tutta ricompresa nelle categorie funzionali omogenee di cui all’art. 23-ter T.U. Edilizia finirebbe per risultare “urbanisticamente irrilevante”.
In realtà, nell’ambito di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono distinguersi i locali abitabili in senso stretto dagli spazi “accessori” che, secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno valore di superficie edificabile e non sono presi in considerazione come superficie residenziale all’atto del rilascio del permesso di costruire: autorimesse, cantine e locali di servizio rientrano, di norma, in questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante la trasformazione di un garage o di una soffitta in un locale abitabile; senza considerare i profili igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni caso si configura, infatti, un ampliamento della superficie residenziale e della relativa volumetria autorizzate con l’originario permesso di costruire.
Aderendo, quindi, al costante orientamento della giurisprudenza, di recente ribadito da questa stessa Sezione (cfr. da ultimo TAR Lazio, Roma, Sez. II-bis, 30.01.2017 n. 1439) deve ritenersi che “solo il cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico) mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, così come tra locali accessori e vani ad uso residenziale, integra una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del permesso di costruire e ciò indipendentemente dall'esecuzione di opere che, comunque, nel caso in esame sono presenti” (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 04.04.2017 n. 4225 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn materia urbanistica ed edilizia, quando sia contestata l'esecuzione di opere in assenza di un valido titolo edilizio, il giudice deve prima di ogni altra cosa accertare l'intervento nella sua integrale sussistenza e consistenza, qualificarlo ai sensi degli artt. 3 e 6, d.P.R. n. 380 del 2001, verificare di conseguenza se per esso è necessario un titolo edilizio e, in caso positivo, individuare quale (permesso di costruire o d.i.a. sostitutiva, ovvero una semplice d.i.a.).
Alla fine di questo percorso ricostruttivo, se accerta che per l'opera, così come realizzata, è necessario il permesso di costruire il giudice non deve "disapplicare" la dichiarazione di inizio attività, perché non è di questo che si tratta; è sufficiente che prenda atto del fatto che l'intervento è stato realizzato in assenza dell'unico titolo che lo consente.
Né rileva l'eventualità che l'opera, così come realizzata, possa esser conforme a quella oggetto della dichiarazione di inizio attività. Allo stesso modo, eventuali mancate osservazioni dei tecnici comunali o di altre autorità non possono escludere la natura illecita della costruzione che in sede penale solo il giudice può e deve autonomamente accertare; eventuali silenzi possono costituire argomento d'accusa per concorsi dolosi o colposi, ma non possono rendere lecito quel che tale non è.
Sicché le numerose pagine della sentenza dedicate alla possibilità per il giudice di disapplicare il permesso di costruire e all'incidenza del rilascio del permesso stesso sulla consapevolezza della natura abusiva dell'opera da parte dei privati, sono del tutto irrilevanti.
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Q
uesta Suprema Corte ha avuto modo di pronunciare alcuni principi -che devono essere qui ribaditi perché in linea con il consolidato orientamento della S.C.- che possono essere così riassunti:
   - «
La realizzazione di opere edilizie necessita di titolo abilitativo riferito all'intervento complessivo e non può essere autorizzata con artificiosa parcellizzazione. Il regime dei titoli abilitativi edilizi non può essere eluso, infatti attraverso la suddivisione dell'attività edificatoria finale nelle singole opere che concorrono a realizzarla, astrattamente suscettibili di forme di controllo preventivo più limitate per la loro più modesta incisività sull'assetto territoriale. L'opera deve essere considerata unitariamente nel suo complesso, senza che sia consentito scindere e considerare separatamente i suoi singoli componenti (...) mentre non risulta che, nella specie, la To. s.r.l., si sia lecitamente determinata, in tempi successivi, ad eseguire singole opere, non programmate sin dall'inizio»;
   - «
La categoria "ristrutturazione edilizia" a fronte del più ristretto ambito di quelle del "risanamento conservativo" e del "restauro" come configurate dal D.P.R. n. 380 del 2001 e dal D.Lgs. n. 42 del 2004, [comporta] la radicale ed integrale trasformazione dei componenti dell'intero edificio, con mutamento della qualificazione tipologica e degli elementi formali di esso, comportanti l'aumento delle unità immobiliari nonché l'alterazione dell'originale impianto tipologico - distributivo e dei caratteri architettonici»;
   - «
Quanto al mutamento di destinazione di uso di un immobile attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie, deve ricordarsi che, qualora esso venga realizzato dopo l'ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza (ipotesi ricorrente nella vicenda in esame), si configura in ogni caso un'ipotesi di ristrutturazione edilizia secondo la definizione fornita dall'art. 3, comma 1, lett. d), del cit. T.U., in quanto l'esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione di "un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente". L'intervento rimane assoggettato, pertanto, al previo rilascio del permesso di costruire con pagamento del contributo di costruzione dovuto per la diversa destinazione»;
   - «
Non ha rilievo l'entità delle opere eseguite, allorché si consideri che la necessità del permesso di costruire permane per gli interventi:
- di manutenzione straordinaria, qualora comportino modifiche delle destinazioni d'uso (art. 3, comma 1, lett. b, del cit. T.U.);
- di restauro e risanamento conservativo, qualora comportino il mutamento degli "elementi tipologia" dell'edificio, cioè di quei caratteri non soltanto architettonici ma anche funzionali che ne consentano la qualificazione in base alle tipologie edilizie (art. 3, comma 1, lett. c, cit. T.U.).
Gli interventi anzidetti, invero, devono considerarsi "di nuova costruzione", ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. e, cit. T.U.. Ove il necessario permesso di costruire non sia stato rilasciato, sono applicabili le sanzioni amministrative di cui all'art. 31, cit.  T.U. e quella penale di cui all'art. 44, lett. b)
»;
   - «
Ai fini della individuazione della destinazione turistico-alberghiera di una struttura immobiliare non si deve tenere conto della titolarità della proprietà della stessa, che indifferentemente può appartenere ad un solo soggetto proprietario oppure ad una pluralità di soggetti. Ciò che rileva, invece, è la configurazione della struttura (anche se appartenente a più proprietari) come albergo o residenza turistico-ricettiva».
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Il palazzo, come detto, è immobile di rilevante interesse storico-artistico, soggetto a vincolo per i suoi rilevanti caratteri tipologici e perché di particolare interesse documentario ed ambientale. L'area di sedime ricade in zona omogenea A del Comune, centro storico, di interesse culturale ed ambientale.
Le varie D.i.a. che si sono succedute nel tempo (ben 18), hanno comportato la modifica di destinazione d'uso di gran parte dell'imponente immobile (che occupa un intero isolato) da "residenziale e direzionale" a "commerciale, direzionale, residenziale".
Il che comportava senz'altro la necessità, ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001, del rilascio del permesso di costruire o, in alternativa, della d.i.a. sostitutiva di cui all'art. 22, comma 3, lett. a), stesso d.P.R..
L'ulteriore errore nel quale cade il Tribunale è di ritenere sostanzialmente fungibili la d.i.a. di cui all'art. 22, comma 1, d.P.R. n. 380, cit., con quella sostitutiva del permesso di costruire di cui al successivo comma 3 (dal quale quest'ultima ripete natura e funzione).
La cd. Superdia è fungibile ed alternativa al permesso di costruire, non alla semplice DIA (oggi SCIA), rispetto alla quale si pone in rapporto di totale diversità, che ai fini della sussistenza del reato ipotizzato. Seguendo il ragionamento del Tribunale, infatti, il reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001 non sarebbe per assurdo mai configurabile in caso di opere soggette a permesso di costruire realizzate in costanza di d.i.a. non sostitutiva, ancor più non lo sarebbe quello di cui cui al successivo comma 2-bis, che richiama espressamente ed esclusivamente la denuncia di inizio attività di cui all'art. 22, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001.
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6. Tanto premesso, i primi tre motivi, in essi assorbito il quarto, sono fondati.
6.1. Il caso in esame ha ad oggetto il Palazzo Tornabuoni-Corsi-Sestini di Firenze (dichiarato di rilevante interesse storico artistico dal Ministro della Pubblica Istruzione il 03/04/1918) e si segnala per il fatto che le opere in contestazione sono state effettuate in base ad titoli edilizi (D.i.a.) che, secondo l'impostazione accusatoria, non lo consentivano.
6.2. Il Tribunale, invertendo completamente i poli del ragionamento ed utilizzando principi di diritto elaborati da questa Suprema Corte in tema, tutt'affatto diverso, di illegittimità del permesso di costruire (titolo del quale invece è contestata proprio la mancanza), trascurando inoltre completamente la sentenza di questa Sezione, n. 8495 del 2012 (di cui oltre si dirà), compie un inammissibile atto di fede nei confronti degli imputati (ma anche degli organismi preposti al controllo della regolarità urbanistica e ambientale degli interventi progettati ed eseguiti) ed abdicando all'irrinunciabile dovere del giudice di controllare la legalità degli atti amministrativi, giunge sostanzialmente ad affermare che le opere potevano essere realizzate in base a semplice d.i.a. sol perché così sostanzialmente avevano attestato i professionisti che avevano redatto gli elaborati tecnici ad essa allegati, con l'autorevole avallo del Comune di Firenze (i cui tecnici, però, sono stati chiamati a rispondere del concorso nel reato ai sensi dell'art. 40, cpv., cod. pen.) e della Soprintendenza che avevano condiviso la qualificazione come "restauro" dei singoli interventi oggetto delle varie dichiarazioni.
6.3. Metodo, come detto, totalmente errato perché, in materia urbanistica ed edilizia, quando sia contestata l'esecuzione di opere in assenza di un valido titolo edilizio, il giudice deve prima di ogni altra cosa accertare l'intervento nella sua integrale sussistenza e consistenza, qualificarlo ai sensi degli artt. 3 e 6, d.P.R. n. 380 del 2001, verificare di conseguenza se per esso è necessario un titolo edilizio e, in caso positivo, individuare quale (permesso di costruire o d.i.a. sostitutiva, ovvero una semplice d.i.a.). Alla fine di questo percorso ricostruttivo, se accerta che per l'opera, così come realizzata, è necessario il permesso di costruire il giudice non deve "disapplicare" la dichiarazione di inizio attività, perché non è di questo che si tratta; è sufficiente che prenda atto del fatto che l'intervento è stato realizzato in assenza dell'unico titolo che lo consente.
Né rileva l'eventualità che l'opera, così come realizzata, possa esser conforme a quella oggetto della dichiarazione di inizio attività. Allo stesso modo, eventuali mancate osservazioni dei tecnici comunali o di altre autorità non possono escludere la natura illecita della costruzione che in sede penale solo il giudice può e deve autonomamente accertare; eventuali silenzi possono costituire argomento d'accusa per concorsi dolosi o colposi, ma non possono rendere lecito quel che tale non è.
6.4. Sicché le numerose pagine della sentenza dedicate alla possibilità per il giudice di disapplicare il permesso di costruire e all'incidenza del rilascio del permesso stesso sulla consapevolezza della natura abusiva dell'opera da parte dei privati, sono del tutto irrilevanti.
6.5. Quanto alla qualificazione dell'intervento è francamente singolare che il Tribunale non accenni nemmeno, quantomeno per confutarli motivatamente, ai principi che, in relazione al medesimo immobile e al medesimo intervento, questa Suprema Corte, investita in sede cautelare dal medesimo PM, pronunciò con la citata sentenza n. 8945 del 20/10/2011 (dep. il 07/03/2012).
6.6. Tali principi -che devono essere qui ribaditi perché in linea con il consolidato orientamento della S.C., totalmente negletto dal Tribunale- possono essere così riassunti:
   6.6.1. <<La realizzazione di opere edilizie necessita di titolo abilitativo riferito all'intervento complessivo e non può essere autorizzata con artificiosa parcellizzazione. Il regime dei titoli abilitativi edilizi non può essere eluso, infatti attraverso la suddivisione dell'attività edificatoria finale nelle singole opere che concorrono a realizzarla, astrattamente suscettibili di forme di controllo preventivo più limitate per la loro più modesta incisività sull'assetto territoriale. L'opera deve essere considerata unitariamente nel suo complesso, senza che sia consentito scindere e considerare separatamente i suoi singoli componenti (...) mentre non risulta che, nella specie, la To. s.r.l., si sia lecitamente determinata, in tempi successivi, ad eseguire singole opere, non programmate sin dall'inizio»;
   6.6.2. «L
a categoria "ristrutturazione edilizia" a fronte del più ristretto ambito di quelle del "risanamento conservativo" e del "restauro" come configurate dal D.P.R. n. 380 del 2001 e dal D.Lgs. n. 42 del 2004, [comporta] la radicale ed integrale trasformazione dei componenti dell'intero edificio, con mutamento della qualificazione tipologica e degli elementi formali di esso, comportanti l'aumento delle unità immobiliari nonché l'alterazione dell'originale impianto tipologico - distributivo e dei caratteri architettonici»;
   6.6.3. <<Quanto al mutamento di destinazione di uso di un immobile attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie, deve ricordarsi che, qualora esso venga realizzato dopo l'ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza (ipotesi ricorrente nella vicenda in esame), si configura in ogni caso un'ipotesi di ristrutturazione edilizia secondo la definizione fornita dall'art. 3, comma 1, lett. d), del cit. T.U., in quanto l'esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione di "un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente". L'intervento rimane assoggettato, pertanto, al previo rilascio del permesso di costruire con pagamento del contributo di costruzione dovuto per la diversa destinazione»;
   6.6.4. «Non ha rilievo l'entità delle opere eseguite, allorché si consideri che la necessità del permesso di costruire permane per gli interventi:
- di manutenzione straordinaria, qualora comportino modifiche delle destinazioni d'uso (art. 3, comma 1, lett. b, del cit. T.U.);
- di restauro e risanamento conservativo, qualora comportino il mutamento degli "elementi tipologia" dell'edificio, cioè di quei caratteri non soltanto architettonici ma anche funzionali che ne consentano la qualificazione in base alle tipologie edilizie (art. 3, comma 1, lett. c, cit. T.U.).
Gli interventi anzidetti, invero, devono considerarsi "di nuova costruzione", ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. e, cit. T.U.. Ove il necessario permesso di costruire non sia stato rilasciato, sono applicabili le sanzioni amministrative di cui all'art. 31, cit.  T.U. e quella penale di cui all'art. 44, lett. b)
»;
   6.6.5. <<Ai fini della individuazione della destinazione turistico-alberghiera di una struttura immobiliare non si deve tenere conto della titolarità della proprietà della stessa, che indifferentemente può appartenere ad un solo soggetto proprietario oppure ad una pluralità di soggetti. Ciò che rileva, invece, è la configurazione della struttura (anche se appartenente a più proprietari) come albergo o residenza turistico-ricettiva».
6.7. La imprescindibile necessità di mantenere l'originaria destinazione d'uso caratterizza ancor oggi gli "interventi di manutenzione straordinaria", non avendo alcun rilievo il fatto che, in conseguenza delle modifiche introdotte dall'art. 17, comma 1, lett. a), nn. 1 e 2, d.l. 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164, sia oggi consentito nell'ambito di detti interventi procedere al frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari con esecuzione di opere anche se comportanti la variazione delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico.
6.8. Altrettanto si dica per gli interventi di "restauro e risanamento conservativo".
6.9. Sorvolando sulle personali opinioni del Tribunale in ordine al concetto di restauro, rileva innanzitutto l'errore di diritto che il Giudice compie allorquando, nello sforzo di supportare giuridicamente tali opinioni, trae dal contenuto dell'art. 21, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 42 del 2004, argomento sistematico per affermare che il "restauro", così come definito dal successivo art. 29, comma 4, consente la rimozione o la demolizione, anche con successiva ricostituzione, dei beni culturali, sminuendone però la funzione essenzialmente conservativa e ripristinatoria del bene da restaurare (cfr., sul punto, Sez. 3, n. 1978 del 18/06/2014, Sgalannbro, Rv. 262002, secondo cui nella categoria degli "interventi di restauro o di risanamento conservativo", per i quali non occorre il permesso di costruire, possono essere annoverate soltanto le opere di recupero abitativo, che mantengono in essere le preesistenti strutture, alle quali apportano un consolidamento, un rinnovo o l'inserimento di nuovi elementi costitutivi, a condizione che siano complessivamente rispettate tipologia, forma e struttura dell'edificio).
Resta, in ogni caso, il fatto che gli interventi di restauro e risanamento conservativo richiedono sempre il permesso di costruire quando riguardano immobili ricadenti in zona omogenea A dei quali venga mutata la destinazione d'uso anche all'interno della medesima categoria funzionale.
6.10. Il tema accusatorio, articolato e complesso, imponeva dunque al Giudice di spingere l'indagine ben oltre la semplice conformità delle opere alle d.i.a di volta in volta presentate per il (formale) restauro e risanamento dell'immobile, non mancando mai di perdere di vista il risultato finale, nella sua interezza.
6.11. Il Palazzo Tornabuoni, come detto, è immobile di rilevante interesse storico-artistico, soggetto a vincolo per i suoi rilevanti caratteri tipologici e perché di particolare interesse documentario ed ambientale. L'area di sedime ricade in zona omogenea A del Comune di Firenze, centro storico, di interesse culturale ed ambientale.
6.12. Come riconosce lo stesso Tribunale, le varie D.i.a. che si sono succedute nel tempo (ben 18), hanno comportato la modifica di destinazione d'uso di gran parte dell'imponente immobile (che occupa un intero isolato) da "residenziale e direzionale" a "commerciale, direzionale, residenziale".
6.13. Il che comportava senz'altro la necessità, ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001, del rilascio del permesso di costruire o, in alternativa, della d.i.a. sostitutiva di cui all'art. 22, comma 3, lett. a), stesso d.P.R..
6.14. L'ulteriore errore nel quale cade il Tribunale è di ritenere sostanzialmente fungibili la d.i.a. di cui all'art. 22, comma 1, d.P.R. n. 380, cit., con quella sostitutiva del permesso di costruire di cui al successivo comma 3 (dal quale quest'ultima ripete natura e funzione). La cd. Superdia è fungibile ed alternativa al permesso di costruire, non alla semplice DIA (oggi SCIA), rispetto alla quale si pone in rapporto di totale diversità, che ai fini della sussistenza del reato ipotizzato. Seguendo il ragionamento del Tribunale, infatti, il reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001 non sarebbe per assurdo mai configurabile in caso di opere soggette a permesso di costruire realizzate in costanza di d.i.a. non sostitutiva, ancor più non lo sarebbe quello di cui cui al successivo comma 2-bis, che richiama espressamente ed esclusivamente la denuncia di inizio attività di cui all'art. 22, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001.
6.15. La sentenza deve perciò essere annullata in relazione al capo A della rubrica (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.02.2017 n. 6873).

EDILIZIA PRIVATA: Questa Corte ha già avuto modo di definire la destinazione d'uso quale elemento che qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione, precisando, altresì, che essa individua il bene sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona. L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello stesso vengono realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando, appunto, il complessivo assetto territoriale.
E' dunque evidente quale sia l'impatto sul carico urbanistico determinato dalla modifica della destinazione d'uso degli edifici.
Il d.P.R. 380/2001, nell'articolo 10, comma 2, attribuisce alle Regioni il potere di stabilire con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti, sono subordinate a permesso di costruire o a segnalazione certificata di inizio attività, pur dovendo tali enti territoriali tenere conto delle disposizioni di principio poste dalla legge statale.
Si è ulteriormente precisato che assume rilevanza, sotto il profilo giuridico, il solo mutamento di destinazione d'uso tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, in quanto nell'ambito delle stesse categorie si possono riscontrare mutamenti di fatto, ma non diversi regimi urbanistico-contributivi, in considerazione delle sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell'ambito della medesima categoria.
Va altresì tenuto conto di quanto disposto dall'art. 23-ter del d.P.R. 380/2001 (introdotto dalla legge n. 164 del 2014), che individua, quale mutamento rilevante della destinazione d'uso, ogni forma di utilizzo di un immobile o di una singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità immobiliare ad una diversa categoria funzionale tra quelle elencate nella medesima disposizione: residenziale; turistico-ricettiva; produttiva e direzionale; commerciale e rurale.
Lo stesso articolo chiarisce che la destinazione d'uso di un fabbricato o di una unità immobiliare è quella prevalente in termini di superficie utile e che, salva diversa previsione da parte delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici comunali, il mutamento della destinazione d'uso all'interno della stessa categoria funzionale è sempre consentito.
Quanto alle modalità di attuazione, la modifica della destinazione d'uso può essere effettuata mediante l'esecuzione di opere (modificazione materiale) o senza esecuzione di opere (modificazione funzionale). Essa, inoltre, può intervenire nella fase di costruzione del manufatto, ovvero su un manufatto già esistente, con conseguenze diverse sotto il profilo sanzionatorio.

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L'art. 23-ter DPR 380/2001 individua come autonoma la categoria "commerciale" rispetto a quella "produttiva—direzionale" nella quale rientrano, oltre, ovviamente, agli insediamenti produttivi propriamente detti, anche gli edifici destinati ad uffici, sedi di enti e simili e non anche le attività prettamente commerciali, perché altrimenti la specifica categoria non avrebbe ragione di esistere.
Tra queste ultime si ritiene debba rientrare quella di "fiera" o "fiera espositiva" in quanto, sebbene nel caso in esame non sia stato specificato in cosa essa effettivamente consista, considerando il significato letterale dell'espressione, quale incontro abituale di venditori e comparatori finalizzati alla vendita o alla pubblicizzazione di eventuali prodotti, essa indubbiamente si colloca nell'ambito delle attività commerciali e non anche in quelle produttive o di prestazione di servizi in genere.
Soccorre in tal senso anche l'opinione espressa dalla giurisprudenza amministrativa, seppure in tema di oneri concessori, laddove ha osservato che "(...) l'attività fieristica espositiva è autonoma e non strettamente asservita o connessa a specifici edifici destinati alla produzione; la medesima attività ha una connotazione prettamente "commerciale" per l'incidenza che determina sul carico urbanistico complessivo in ragione delle conseguenze che comporta la sua presenza sul tessuto urbano in connessione ai flussi di traffico e clientela generati, che sono diversi da quelli propri di un'attività industriale e del tutto corrispondenti a quelli di un'attività commerciale; anche nella disciplina sul commercio la superficie espositiva è a tutti gli effetti equiparata a quella commerciale nell'evidente considerazione dell'assimilabilità tra le superfici sulle quali si svolge l'attività di vendita vera e propria e quelle utilizzate invece a fini espositivi (l'art. 4, comma 7, lett. f), del Dlgs. 31.03.1998, n. 114, reca una definizione completa di superficie di vendita, in quanto ne viene espresso, in positivo l'ambito come "area destinata alla vendita, compresa quella occupata da banchi, scaffalature e simili", ma anche, in negativo, ciò che non costituisce superficie di vendita, ovvero "quella destinata a magazzini, depositi, locali di lavorazione, uffici e servizi", con la conseguenza che anche "la zona di esposizione dei prodotti commercializzati dall'esercizio va inclusa nella superfici di vendita"..
Tali affermazioni vanno pienamente condivise, dovendosi conseguentemente affermare che, ai fini della individuazione della relativa categoria funzionale di cui all'art. 23-ter d.P.R. 380/2001 l'attività fieristica va individuata quale attività commerciale, con la conseguenza che la modifica di destinazione d'uso, mediante opere, di un preesistente complesso immobiliare desinato ad insediamento produttivo richiede il preventivo rilascio del permesso di costruire.
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Riguardo al momento consumativo del reato urbanistico, se ci si riferisce, in generale, all'esecuzione di opere, può certamente affermarsi che esso ha natura permanente e la sua consumazione ha inizio con l'avvio dei lavori di costruzione, che assumono rilevanza, indipendentemente dal tipo ed entità delle opere, per l'oggettiva destinazione alla realizzazione di un manufatto e perdura fino alla cessazione dell'attività edificatoria abusiva o con la sospensione dei lavori volontaria o imposta (ad esempio, mediante sequestro penale), con la sentenza di primo grado, se i lavori continuano dopo l'accertamento del reato e sino alla data del giudizio.
Con specifico riferimento alla modifica della destinazione d'uso può dirsi, sempre in linea generale, che la consumazione del reato cessa, nel caso in cui non sia attuata mediante l'esecuzione di opere, con il completamento funzionale dell'intervento, quando, cioè, l'immobile è pienamente utilizzabile secondo a nuova destinazione attribuitagli.
Non può invece essere condivisa l'affermazione del Tribunale laddove sembra voglia sostenere che la permanenza del reato è correlata alla sua successiva utilizzazione.
Invero, non costituiscono nuova autonoma manifestazione antigiuridica di mutamento di destinazione, penalmente rilevante, la utilizzazione o gli atti di disposizione del manufatto già realizzato in modo difforme o in assenza di concessione. Tali atti rientrano nella sfera del "post factum" impunibile e degli effetti permanenti di una condotta antigiuridica o consumazione conclusa.
Al contrario, l'utilizzazione dell'immobile successiva alla consumazione del reato assume rilievo ai fini cautelari reali laddove comporti un aggravio del carico urbanistico che deve essere considerata con riferimento all'aspetto strutturale e funzionale dell'opera ed è rilevabile anche nel caso di una concreta alterazione della originaria consistenza sostanziale di un manufatto in relazione alla volumetria, alla destinazione o alla effettiva utilizzazione tale da determinare un mutamento dell'insieme delle esigenze urbanistiche valutate in sede di pianificazione con particolare riferimento agli standard fissati dal D.M. 1444/1968.
Tale orientamento si conforma alla nota decisione delle Sezioni Unite nella quale, ammettendosi la possibilità del sequestro anche a reato urbanistico ormai perfezionato -"purché il pericolo della libera disponibilità della cosa stessa -che va accertato dal giudice con adeguata motivazione- presenti i requisiti della concretezza e dell'attualità e le conseguenze del reato, ulteriori rispetto alla sua consumazione, abbiano connotazione di antigiuridicità, consistano nel volontario aggravarsi o protrarsi dell'offesa al bene protetto che sia in rapporto di stretta connessione con la condotta penalmente illecita e possano essere definitivamente rimosse con l'accertamento irrevocabile del reato"- si individuano, a titolo esemplificativo, quali conseguenze determinate dalla libera disponibilità del manufatto illecitamente edificato, oltre all'aggravio del carico urbanistico, la perpetrazione dell'illecito amministrativo prevista dall'articolo 221 Testo unico leggi sanitarie che, pur depenalizzato, costituisce una situazione illecita ulteriore prodotta dalla libera utilizzazione della cosa che il provvedimento cautelare è finalizzato ad inibire ed il pregiudizio arrecato alle esigenze di vigilanza e controllo del territorio mediante l'adeguato governo pubblico degli usi e delle trasformazioni dello stesso a causa delle alterazioni dell'ordinato ed equilibrato assetto e sviluppo territoriale in danno del benessere complessivo della collettività e della sua attività, il cui parametro di legalità è dato dalla disciplina degli strumenti urbanistici e dalla normativa vigente.
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2. Ciò posto, va ricordato, con riferimento al primo motivo di ricorso che questa Corte ha già avuto modo di definire la destinazione d'uso quale elemento che qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione, precisando, altresì, che essa individua il bene sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona. L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello stesso vengono realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando, appunto, il complessivo assetto territoriale (così, testualmente, Sez. 3, n. 9894 del 20/01/2009, Tarallo, Rv. 24310001).
E' dunque evidente quale sia l'impatto sul carico urbanistico determinato dalla modifica della destinazione d'uso degli edifici.
Il d.P.R. 380/2001, nell'articolo 10, comma 2, attribuisce alle Regioni il potere di stabilire con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti, sono subordinate a permesso di costruire o a segnalazione certificata di inizio attività, pur dovendo tali enti territoriali tenere conto delle disposizioni di principio poste dalla legge statale (cfr. Sez. 3, n. 43807 del 05/11/2008, Pollone, non massimata).
Si è ulteriormente precisato (Sez. 3 n. 9894/2009, cit.) che assume rilevanza, sotto il profilo giuridico, il solo mutamento di destinazione d'uso tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, in quanto nell'ambito delle stesse categorie si possono riscontrare mutamenti di fatto, ma non diversi regimi urbanistico-contributivi, in considerazione delle sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell'ambito della medesima categoria.
Va altresì tenuto conto di quanto disposto dall'art. 23-ter del d.P.R. 380/2001 (introdotto dalla legge n. 164 del 2014), che individua, quale mutamento rilevante della destinazione d'uso, ogni forma di utilizzo di un immobile o di una singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità immobiliare ad una diversa categoria funzionale tra quelle elencate nella medesima disposizione: residenziale; turistico-ricettiva; produttiva e direzionale; commerciale e rurale.
Lo stesso articolo chiarisce che la destinazione d'uso di un fabbricato o di una unità immobiliare è quella prevalente in termini di superficie utile e che, salva diversa previsione da parte delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici comunali, il mutamento della destinazione d'uso all'interno della stessa categoria funzionale è sempre consentito.
Quanto alle modalità di attuazione, la modifica della destinazione d'uso può essere effettuata mediante l'esecuzione di opere (modificazione materiale) o senza esecuzione di opere (modificazione funzionale). Essa, inoltre, può intervenire nella fase di costruzione del manufatto, ovvero su un manufatto già esistente, con conseguenze diverse sotto il profilo sanzionatorio.
...
5. L'ordinanza impugnata risulta però cogliere nel segno laddove qualifica la modifica di destinazione come operata tra categorie tra loro autonome.
Va a tale proposito rilevato che tale affermazione non viene smentita dal richiamo, operato in ricorso, all'art. 25 del Regolamento Edilizio del Comune di Pastorano, e, segnatamente, alla frase, evidenziata in neretto dalla ricorrente, che con riferimento alla "Zona D industriale ed esistente di progetto" specifica "(...) in tale zona è altresì consentita la costruzione di complessi produttivi di varia natura, di edifici destinati ad uffici amministrativi o commerciali e di edifici per abitazioni purché utilizzati dal solo personale di custodia (...)" risultando, dal tenore letterale della disposizione, che l'aggettivo "commerciali" è chiaramente riferito agli edifici destinati ad uffici, come l'altro "amministrativi", con funzione evidentemente complementare al complesso produttivo, così come le abitazioni, pure realizzabili se destinate al solo personale di custodia.
Neppure risulta condivisibile l'altra affermazione della ricorrente, secondo la quale l'intervento realizzato andrebbe collocato nella categoria produttiva-direzionale prevista dall'art. 23-ter d.P.R. 380/2001, con la conseguenza che non vi sarebbe stata alcuna modificazione penalmente rilevante.
Invero l'art. 23-ter, come si è detto, individua come autonoma la categoria "commerciale" rispetto a quella "produttiva—direzionale" nella quale rientrano, oltre, ovviamente, agli insediamenti produttivi propriamente detti, anche gli edifici destinati ad uffici, sedi di enti e simili e non anche le attività prettamente commerciali, perché altrimenti la specifica categoria non avrebbe ragione di esistere.
Tra queste ultime si ritiene debba rientrare quella di "fiera" o "fiera espositiva" in quanto, sebbene nel caso in esame non sia stato specificato in cosa essa effettivamente consista, considerando il significato letterale dell'espressione, quale incontro abituale di venditori e comparatori finalizzati alla vendita o alla pubblicizzazione di eventuali prodotti, essa indubbiamente si colloca nell'ambito delle attività commerciali e non anche in quelle produttive o di prestazione di servizi in genere.
Soccorre in tal senso anche l'opinione espressa dalla giurisprudenza amministrativa, seppure in tema di oneri concessori, laddove ha osservato che "(...) l'attività fieristica espositiva è autonoma e non strettamente asservita o connessa a specifici edifici destinati alla produzione; la medesima attività ha una connotazione prettamente "commerciale" per l'incidenza che determina sul carico urbanistico complessivo in ragione delle conseguenze che comporta la sua presenza sul tessuto urbano in connessione ai flussi di traffico e clientela generati, che sono diversi da quelli propri di un'attività industriale e del tutto corrispondenti a quelli di un'attività commerciale; anche nella disciplina sul commercio la superficie espositiva è a tutti gli effetti equiparata a quella commerciale nell'evidente considerazione dell'assimilabilità tra le superfici sulle quali si svolge l'attività di vendita vera e propria e quelle utilizzate invece a fini espositivi (l'art. 4, comma 7, lett. f), del Dlgs. 31.03.1998, n. 114, reca una definizione completa di superficie di vendita, in quanto ne viene espresso, in positivo l'ambito come "area destinata alla vendita, compresa quella occupata da banchi, scaffalature e simili", ma anche, in negativo, ciò che non costituisce superficie di vendita, ovvero "quella destinata a magazzini, depositi, locali di lavorazione, uffici e servizi", con la conseguenza che anche "la zona di esposizione dei prodotti commercializzati dall'esercizio va inclusa nella superfici di vendita: cfr. Tar Abruzzo, Pescara, 09.04.2008, n. 387; Tar Veneto, Sez. III, 03.11.2004 n. 3825 (...)" (TAR Veneto, Sez. II, 13/05/2016, n. 479).
6. Tali affermazioni vanno pienamente condivise, dovendosi conseguentemente affermare che, ai fini della individuazione della relativa categoria funzionale di cui all'art. 23-ter d.P.R. 380/2001 l'attività fieristica va individuata quale attività commerciale, con la conseguenza che la modifica di destinazione d'uso, mediante opere, di un preesistente complesso immobiliare desinato ad insediamento produttivo richiede il preventivo rilascio del permesso di costruire.
Il motivo di ricorso è, pertanto infondato.
7. Per ciò che concerne, invece, il secondo motivo di ricorso la ricorrente, come si è detto, incentra la sua censura sul fatto che il Tribunale non avrebbe accertato l'incidenza dell'intervento sul carico urbanistico, incidenza che si assume irrilevante, considerata l'originaria destinazione dei fabbricati che, in alcuni periodi, avevano visto la presenza quotidiana di tremila persone tra operai ed impiegati, secondo quanto rilevato dallo stesso Tribunale.
In effetti tale valutazione manca, avendo il Tribunale ritenuto la sussistenza del periculum in mora in considerazione della natura permanente del reato e della conseguente situazione di illiceità "(...) legata alla diversa destinazione attribuita all'area che permane e rivive ogni volta si organizzi una fiera a nulla rilevando che le opere siano ultimate (...)".
Tale affermazione impone alcune considerazioni, anche in considerazione di quanto prospettato nei motivi nuovi.
8. Riguardo al momento consumativo del reato urbanistico, se ci si riferisce, in generale, all'esecuzione di opere, può certamente affermarsi che esso ha natura permanente e la sua consumazione ha inizio con l'avvio dei lavori di costruzione, che assumono rilevanza, indipendentemente dal tipo ed entità delle opere, per l'oggettiva destinazione alla realizzazione di un manufatto e perdura fino alla cessazione dell'attività edificatoria abusiva o con la sospensione dei lavori volontaria o imposta (ad esempio, mediante sequestro penale), con la sentenza di primo grado, se i lavori continuano dopo l'accertamento del reato e sino alla data del giudizio.
Con specifico riferimento alla modifica della destinazione d'uso può dirsi, sempre in linea generale, che la consumazione del reato cessa, nel caso in cui non sia attuata mediante l'esecuzione di opere, con il completamento funzionale dell'intervento, quando, cioè, l'immobile è pienamente utilizzabile secondo a nuova destinazione attribuitagli.
9. Non può invece essere condivisa l'affermazione del Tribunale laddove sembra voglia sostenere che la permanenza del reato è correlata alla sua successiva utilizzazione.
Invero, come questa Corte ha avuto modo di affermare, seppure in un unica pronuncia ormai risalente nel tempo, non costituiscono nuova autonoma manifestazione antigiuridica di mutamento di destinazione, penalmente rilevante, la utilizzazione o gli atti di disposizione del manufatto già realizzato in modo difforme o in assenza di concessione. Tali atti rientrano nella sfera del "post factum" impunibile e degli effetti permanenti di una condotta antigiuridica o consumazione conclusa (Sez. 3, n. 4179 del 20/02/1985, Sciacca, Rv. 16896501).
Al contrario, l'utilizzazione dell'immobile successiva alla consumazione del reato assume rilievo ai fini cautelari reali laddove comporti un aggravio del carico urbanistico che, come questa Corte ha già avuto modo di osservare, deve essere considerata con riferimento all'aspetto strutturale e funzionale dell'opera ed è rilevabile anche nel caso di una concreta alterazione della originaria consistenza sostanziale di un manufatto in relazione alla volumetria, alla destinazione o alla effettiva utilizzazione tale da determinare un mutamento dell'insieme delle esigenze urbanistiche valutate in sede di pianificazione con particolare riferimento agli standard fissati dal D.M. 1444/1968 (Sez. 3, n. 36104 del 22/09/2011, P.M. in proc. Armelani, Rv. 25125101. Conf. Sez. 3, n. 6599 del 24/11/2011 (dep. 2012), Susinno, Rv. 25201601).
Tale orientamento, che va qui ribadito, si conforma alla nota decisione delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 12878 del 29/01/2003, P.M. in proc. Innocenti, Rv. 22372101) nella quale, ammettendosi la possibilità del sequestro anche a reato urbanistico ormai perfezionato -"purché il pericolo della libera disponibilità della cosa stessa -che va accertato dal giudice con adeguata motivazione- presenti i requisiti della concretezza e dell'attualità e le conseguenze del reato, ulteriori rispetto alla sua consumazione, abbiano connotazione di antigiuridicità, consistano nel volontario aggravarsi o protrarsi dell'offesa al bene protetto che sia in rapporto di stretta connessione con la condotta penalmente illecita e possano essere definitivamente rimosse con l'accertamento irrevocabile del reato"- si individuano, a titolo esemplificativo, quali conseguenze determinate dalla libera disponibilità del manufatto illecitamente edificato, oltre all'aggravio del carico urbanistico, la perpetrazione dell'illecito amministrativo prevista dall'articolo 221 Testo unico leggi sanitarie che, pur depenalizzato, costituisce una situazione illecita ulteriore prodotta dalla libera utilizzazione della cosa che il provvedimento cautelare è finalizzato ad inibire ed il pregiudizio arrecato alle esigenze di vigilanza e controllo del territorio mediante l'adeguato governo pubblico degli usi e delle trasformazioni dello stesso a causa delle alterazioni dell'ordinato ed equilibrato assetto e sviluppo territoriale in danno del benessere complessivo della collettività e della sua attività, il cui parametro di legalità è dato dalla disciplina degli strumenti urbanistici e dalla normativa vigente.
Entro tale ambito avrebbe dovuto quindi orientarsi il giudizio del Tribunale, verificando, in primo luogo, se le opere ritenute abusive erano ancora in corso di esecuzione, il che avrebbe, di per sé, giustificato la misura reale al fine di interrompere la consumazione del reato ancora in atto e, in caso di ultimazione delle opere, se l'utilizzazione delle stesse determini le conseguenze indicate nelle pronunce in precedenza richiamate, fatta salva l'ipotesi dell'intervenuta prescrizione del reato ipotizzata nei motivi nuovi
(Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.02.2017 n. 6060).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla trasformazione del piano soffitta in superficie residenziale, formata da una camera con bagno, rifiniti e abitati, collegati all’abitazione sottostante mediante una scala interna.
Per la normativa edilizia [art. 3, comma 1, lett. b) e c), del Testo Unico numero 380 del 2001, in combinato disposto con l’art. 10, comma 1, lett. c) e con l’art. 23-ter dello stesso Testo Unico] le opere interne e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo, necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qual volta comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie funzionalmente autonome.
Nella fattispecie, non può essere negato che le opere eseguite siano risultate idonee a trasformare la soffitta in un locale abitabile, con camera da letto e bagno, incidendo, in misura lieve ma rilevante, sul carico urbanistico dell’immobile.
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Sono errate le deduzioni dei ricorrenti secondo cui la modificazione dell’uso della soffitta sarebbe interna alle categorie funzionali omogenee di cui all’art. 23-ter T.U. Edilizia e quindi urbanisticamente irrilevante.
In realtà, nell’ambito di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono distinguersi i locali abitabili in senso stretto dagli spazi “
accessori” che, secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno valore di superficie edificabile e non sono presi in considerazione come superficie residenziale all’atto del rilascio del permesso di costruire: autorimesse, cantine e locali di servizio rientrano, di norma, in questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante la trasformazione di un garage o di una soffitta in un locale abitabile; senza considerare i profili igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni caso si configura un ampliamento della superficie residenziale e della relativa volumetria autorizzate con l’originario permesso di costruire.
Aderendo quindi al costante orientamento della giurisprudenza, deve ritenersi che solo il cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico) mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, così come tra locali accessori e vani ad uso residenziale, integra una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del permesso di costruire e ciò indipendentemente dall'esecuzione di opere che, comunque, nel caso in esame sono presenti.

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Con ricorso notificato a Roma Capitale il 17.03.2016 e depositato il 01.04.2016 i ricorrenti impugnano la determinazione dirigenziale del municipio 6º di Roma numero 2625 del 2015, notificata il 28.01.2016, con cui è stata disposta la rimozione o demolizione delle opere abusive di ristrutturazione edilizia e cambio di destinazione d’uso da una categoria all’altra, eseguite in assenza del titolo abilitativo.
I ricorrenti espongono di aver acquistato nel 2013 la proprietà di una villa con giardino, composta da un piano terra e un locale sopraelevato dove già era presente un lavatoio con sanitari.
Essi si sono visti notificare la comunicazione di avvio di un procedimento amministrativo in quanto il piano soffitta era stato trasformato in superficie residenziale, formata da una camera con bagno, rifiniti e abitati, collegati all’abitazione mediante una scala interna.
Il procedimento veniva definito con D.D. del 15.04.2015, notificata il 27.04.2015, mediante la quale veniva ingiunta la demolizione degli interventi edilizi abusivi.
...
Il provvedimento impugnato è stato adottato in esito all’accertamento, in data 13.10.2015, da parte di agenti della polizia municipale, della inottemperanza alla ingiunzione di demolizione numero 74 del 15.04.2015, notificata il 27.04.2015, riferita a interventi edilizi abusivi consistenti in una ristrutturazione eseguita in assenza del necessario titolo abilitativo.
Si trattava, ad avviso dell’Amministrazione procedente, di un cambio di destinazione d’uso tra diverse categorie generali di cui all’articolo 7, III comma, della legge regionale del Lazio numero 36 del 1987.
In particolare, risulta che nell’unità immobiliare distinta in catasto al foglio 1018, particella 742, subalterno 507, il piano soffitta è stato trasformato in superficie residenziale, formata da una camera, da un bagno, il tutto rifinito e abitato, collegata all’abitazione sottostante mediante una scala interna.
Con il provvedimento impugnato, quindi, è stata disposta la demolizione d’ufficio delle opere di ristrutturazione edilizia abusivamente realizzate, con spese a carico dei proprietari.
...
Con il 2º motivo i ricorrenti deducono la illegittimità del procedimento amministrativo ripristinatorio perché non si tratterebbe di ristrutturazione edilizia, bensì di un mero cambio di destinazione d’uso, consentito dalla novella legislativa recata dal cosiddetto “decreto sblocca Italia”, mediante l’inserimento dell’articolo 23-ter nel Testo Unico dell’edilizia, con cui è stato introdotto il concetto di mutamento d’uso urbanisticamente rilevante, tale solo in caso di passaggio tra le diverse categorie funzionali, espressamente individuate dalla norma; ne conseguirebbe che il mutamento di destinazione d’uso interno alle categorie funzionali omogenee sarebbe consentito; il comma 3 del citato articolo di legge, inoltre, dispone che le Regioni adeguino la propria legislazione ai principi recati dall’articolo 23-ter entro 90 giorni; decorso tale termine trovano applicazione diretta le disposizioni dell’articolo 23-ter; non avendo la regione Lazio legiferato al riguardo, il cambio di destinazione d’uso all’interno della stessa categoria funzionale sarebbe ammesso.
Nella fattispecie, quindi, non si sarebbe verificato alcun abuso, essendo stata modificata solo la distribuzione interna degli spazi, illegittimamente contestata con un provvedimento, oltretutto, carente di motivazione.
Anche il 2º motivo è infondato.
Per la normativa edilizia [articolo 3, comma 1, lettere b) e c), del Testo Unico numero 380 del 2001, in combinato disposto con l’articolo 10, comma 1, lettera c) e con l’articolo 23-ter dello stesso Testo Unico] le opere interne e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo, necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qual volta comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie funzionalmente autonome.
Nella fattispecie, non può essere negato che le opere eseguite siano risultate idonee a trasformare la soffitta in un locale abitabile, con camera da letto e bagno, incidendo, in misura lieve ma rilevante, sul carico urbanistico dell’immobile.
Sono errate le deduzioni dei ricorrenti secondo cui la modificazione dell’uso della soffitta sarebbe interna alle categorie funzionali omogenee di cui all’art. 23-ter T.U. Edilizia e quindi urbanisticamente irrilevante.
In realtà, nell’ambito di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono distinguersi i locali abitabili in senso stretto dagli spazi “accessori” che, secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno valore di superficie edificabile e non sono presi in considerazione come superficie residenziale all’atto del rilascio del permesso di costruire: autorimesse, cantine e locali di servizio rientrano, di norma, in questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante la trasformazione di un garage o di una soffitta in un locale abitabile; senza considerare i profili igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni caso si configura un ampliamento della superficie residenziale e della relativa volumetria autorizzate con l’originario permesso di costruire.
Aderendo quindi al costante orientamento della giurisprudenza, di recente espresso da questo stesso Tribunale amministrativo regionale, deve ritenersi che solo il cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico) mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, così come tra locali accessori e vani ad uso residenziale, integra una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del permesso di costruire e ciò indipendentemente dall'esecuzione di opere che, comunque, nel caso in esame sono presenti (cfr. TAR Lazio, sez. I, 11/09/2015, n. 11216).
Anche il secondo motivo di impugnazione, quindi, è privo di fondamento.
Ne deriva la reiezione del ricorso, fermo restando che l’Amministrazione, prima di eseguire il provvedimento di demolizione d’ufficio, dovrà valutare se le operazioni di ripristino eseguite dagli interessati siano sufficienti a restituire al locale soffitta la destinazione d’uso originaria (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 30.01.2017 n. 1439 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl mutamento di destinazione d'uso senza opere è assoggettato a D.I.A. (ora SCIA), ma a condizione che intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di destinazione che comportino, come nel caso in esame, il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una stessa categoria omogenea.
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1. Il ricorso è infondato.
2. Per quanto riguarda il primo motivo, mediante il quale è stata denunciata violazione dell'art. 23-ter d.P.R. 380/2001, per l'erronea affermazione da parte del Tribunale della prevalenza del mutamento di destinazione impresso al fondo agricolo del ricorrente destinandolo a deposito ed esposizione di automobili in mancanza del permesso di costruire, in quanto ad avviso del ricorrente il Tribunale avrebbe dovuto considerare l'estensione complessiva dell'appezzamento di terreno di sua proprietà, e non la singola particella catastale destinata a deposito ed esposizione di autoveicoli, con la conseguente esclusione del necessario requisito della prevalenza del mutamento, va osservato che l'art. 23-ter d.P.R. 380/2001 stabilisce in proposito che "1. Salva diversa previsione da parte delle leggi regionali, costituisce mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unita' immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale.
2. La destinazione d'uso di un fabbricato o di una unità immobiliare è quella prevalente in termini di superficie utile.
3. Le regioni adeguano la propria legislazione ai principi di cui al presente articolo entro novanta giorni dalla data della sua entrata in vigore. Decorso tale termine, trovano applicazione diretta le disposizioni del presente articolo. Salva diversa previsione da parte delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici comunali, il mutamento della destinazione d'uso all'interno della stessa categoria funzionale è sempre consentito
".
Ne consegue l'irrilevanza, nella specie, della indagine sulla prevalenza della destinazione d'uso del fondo, giacché tale accertamento deve essere eseguito solamente in caso di destinazione mista, allo scopo di stabilire quale sia la destinazione d'uso da considerare prevalente, per verificare se vi sia stato un mutamento rispetto ad essa.
Allorquando (come nel caso di specie, nel quale, pacificamente, tutti i fondi di proprietà del ricorrente, avevano destinazione agricola) si sia verificato un mutamento rilevante della originaria univoca destinazione d'uso, in conseguenza di un utilizzo del fondo diverso rispetto a quello originario, tale da assegnare l'immobile ad una diversa categoria funzionale tra quelle elencate nel primo comma dell'art. 23-ter d.P.R. 380/2001, non occorre compiere alcuna indagine sulla prevalenza della destinazione d'uso dell'immobile, essendo sufficiente, in presenza di destinazione univoca, l'utilizzo diverso del fondo.
Poiché nella vicenda in esame tale mutamento vi è stato, in quanto una porzione, corrispondente a quella sottoposta a sequestro, dei fondi a destinazione agricola di proprietà del ricorrente è stata da questi destinata a deposito ed esposizione di autoveicoli, comportante, evidentemente, l'assegnazione di tale porzione di fondo alla categoria funzionale commerciale, non sussiste la violazione di legge lamentata dal ricorrente, essendo per effetto di tale condotta configurabile il reato di cui all'art. 44, lett. a), d.P.R. 380/2001, in conseguenza del suddetto mutamento della destinazione di fondi solo agricoli, tale da assegnarli ad una diversa categoria funzionale (nella specie quella commerciale), in mancanza del permesso di costruire.
Il mutamento di destinazione d'uso senza opere è assoggettato a D.I.A. (ora SCIA), ma a condizione che intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di destinazione che comportino, come nel caso in esame, il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una stessa categoria omogenea (Sez. 3, n. 26455 del 24/06/2016, Stellato, Rv. 267106; Sez. 3, n. 39897 del 24/06/2014, Filippi, Rv. 260422; Sez. 3, n. 5712 del 13/12/2013, Tortora, Rv. 258686) (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.11.2016 n. 50503).

EDILIZIA PRIVATA: Sul cambio di destinazione d'uso da cantina-garage ad abitazione.
Nel caso di specie si è verificato un cambio di destinazione d'uso, realizzato mediante opere edilizie, di alcuni locali da cantina-garage ad abitazione, ovvero dalla categoria d'uso non residenziale alla diversa categoria d'uso residenziale.
Un tale cambio di destinazione, pacificamente realizzato in difformità rispetto alla d.i.a. presentata, configura il reato contestato  -ex art. 44, comma 1, lett. b), del d.P.R. n. 380/2001-
trattandosi di un'opera di ristrutturazione edilizia presa in considerazione dalla legislazione della Regione Lazio ai sensi del comma 2 dell'art. 10 del d.P.R n. 380 del 2001. Tale ultima disposizione prevede, infatti, che «le regioni stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a segnalazione certificata di inizio attività».
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Il mutamento di destinazione d'uso senza opere è assoggettato a d.i.a. (ora SCIA), purché intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una stessa categoria omogenea.
E, come sottolineato dalla richiamata giurisprudenza di questa Corte, le sanzioni previste per il cambio di destinazione d'uso risultano giustificate dall'esigenza di scongiurare il pericolo di compromissione degli equilibri prefigurati dagli strumenti urbanistici in relazione al corretto e ordinato assetto del territorio.
Ne deriva, quanto al caso in esame, che l'intervento edilizio oggetto dell'imputazione avrebbe dovuto essere eseguito con permesso di costruire.
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1. - Con ordinanza del 07.10.2015, il Tribunale di Roma ha annullato il decreto di sequestro preventivo emesso dal Gip dello stesso Tribunale ed avente ad oggetto un immobile, in relazione al reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b), del d.P.R. n. 380 del 2001.
Il Tribunale ha rilevato, in particolare, che le opere edilizie realizzate in difformità dalla d.i.a. presentata, consistenti nel cambio di destinazione d'uso di due locali, rientrano tra quelle per le quali è richiesta la sola d.i.a. Ad avviso dello stesso Tribunale, il permesso di costruire è necessario per il cambio di destinazione d'uso solo se gli immobili sono ricompresi nelle zone omogenee A, mentre l'immobile in questione è sito in località non sottoposta a vincoli è inserita in zona O dallo strumento urbanistico.
2. - Avverso l'ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma.
Ad avviso del ricorrente, il Tribunale avrebbe omesso di considerare che il cambio di destinazione d'uso da cantina-garage ad abitazione è avvenuto tra due categorie diverse, da non residenziale a residenziale, ed è dunque inquadrabile tra le ristrutturazioni edilizie "pesanti", tuttora soggetti alla disciplina del permesso di costruire.
...
3. - Il ricorso è fondato.
Nel caso di specie si è verificato un cambio di destinazione d'uso, realizzato mediante opere edilizie, di alcuni locali da cantina-garage ad abitazione, ovvero dalla categoria d'uso non residenziale alla diversa categoria d'uso residenziale. Un tale cambio di destinazione, pacificamente realizzato in difformità rispetto alla d.i.a. presentata dall'interessata, configura il reato contestato, trattandosi di un'opera di ristrutturazione edilizia presa in considerazione dalla legislazione della Regione Lazio ai sensi del comma 2 dell'art. 10 del d.P.R n. 380 del 2001. Tale ultima disposizione prevede, infatti, che «le regioni stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a segnalazione certificata di inizio attività».
E la Regione Lazio, con l'art. 7, terzo comma, della legge regionale n. 36 del 1987, nella sua formulazione attualmente vigente, ha stabilito che «le modifiche di destinazione d'uso con o senza opere a ciò preordinate, quando hanno per oggetto le categorie stabilite dallo strumento urbanistico generale, sono subordinate al rilascio di apposita permesso di costruire, mentre quando riguardano gli ambiti di una stessa categoria sono soggette a denuncia di inizio attività da parte del sindaco».
La disciplina regionale, adottata ai sensi del richiamato comma 2 dell'art. 10 del d.P.R. n. 380 del 2001, nel richiedere il permesso di costruire per il mutamento di destinazione d'uso con passaggio dall'una all'altra categoria urbanistica, non fa alcun riferimento alla necessaria inclusione degli immobili in una particolare zona omogenea dello strumento urbanistico. Ed essa prevale, in ogni caso, sulla disciplina generale di cui al precedente comma 1, lett. c), del richiamato art. 10 del d.pr. n. 380 del 2001, a norma del quale sono subordinati al permesso di costruire gli interventi di ristrutturazione edilizia che comportino mutamenti della destinazione d'uso, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A.
Si tratta di una disciplina che, nel suo complesso, si pone in armonia con quanto costantemente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte in tema di reati edilizi, nel senso che il mutamento di destinazione d'uso senza opere è assoggettato a d.i.a. (ora SCIA), purché intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una stessa categoria omogenea (sez. 3, 24.06.2014, n. 39897, rv. 260422; sez. 3, 13.12.2013, rv. 258686; in senso analogo, sez. 3, 07.05.2015, n. 42453, rv. 265191; sez. 3, 16.10.2014, n. 3953, rv. 262018).
E, come sottolineato dalla richiamata giurisprudenza di questa Corte, le sanzioni previste per il cambio di destinazione d'uso risultano giustificate dall'esigenza di scongiurare il pericolo di compromissione degli equilibri prefigurati dagli strumenti urbanistici in relazione al corretto e ordinato assetto del territorio.
Ne deriva, quanto al caso in esame, che l'intervento edilizio oggetto dell'imputazione avrebbe dovuto essere eseguito con permesso di costruire (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.06.2016 n. 26455).

EDILIZIA PRIVATA: Sul mutamento di destinazione d'uso del sottotetto.
In tema di reati edilizi, la modifica di destinazione d'uso è integrata anche dalla realizzazione di sole opere interne.
Il principio è stato successivamente ribadito sul rilievo che le cosiddette "opere interne" non sono più previste nel d.P.R. 06.06.2001, n. 380, come categoria autonoma di intervento edilizio sugli edifici esistenti, e rientrano negli interventi di ristrutturazione edilizia quando comportino aumento di unità immobiliari o modifiche dei volumi, dei prospetti e delle superfici ovvero mutamento di destinazione d'uso, precisando che l'esecuzione di opere di aumento della superficie e dei volumi o comunque di realizzazione di impianti tecnologici comportanti una modifica della destinazione d'uso richiede il permesso di costruire.
La ragione di ciò risiede nel fatto che la destinazione d'uso è un elemento che caratterizza il bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione, individuando il bene sotto l'aspetto funzionale e specificando le singole destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici.
Quando il mutamento della destinazione d'uso viene realizzato dopo l'ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza, si configura un'ipotesi di ristrutturazione edilizia secondo la definizione fornita dall'art. 3, comma 1, d.p.r. 06.06.2001, n. 380 in quanto l'esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione di "un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente".
Sotto tale profilo, non ha rilievo l'entità delle opere eseguite allorché si consideri che la necessità del permesso di costruire permane tanto per gli interventi di manutenzione straordinaria, qualora comportino modifiche delle destinazioni d'uso (articolo 3, comma 1, lettera b), d.p.r. n. 380 del 2001), quanto per gli interventi di restauro e risanamento conservativo, qualora comportino il mutamento degli "
elementi tipologici" dell'edificio, cioè di quei caratteri non soltanto architettonici ma anche funzionali che ne consentano la qualificazione in base alle tipologie edilizie (art. 3, comma 1, lett. c), d.p.r. n. 380 del 2001).
Ne consegue che gli interventi anzidetti devono considerarsi "di nuova costruzione", ai sensi dell'arti. 3, comma 1, lett. e), d.p.r. n. 380 del 2001.
Perciò, il mutamento di destinazione d'uso di un immobile attuato attraverso l'esecuzione di opere edilizie e realizzato dopo la sua ultimazione configura un'ipotesi di ristrutturazione edilizia che integra il reato di esecuzione di lavori in assenza di permesso di costruire (art. 44, lett. b), d.P.R. 06.06.2001, n. 380), in quanto l'esecuzione di lavori, anche se di modesta entità, porta alla creazione di un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente.
In particolare, la trasformazione di un sottotetto in mansarda, che è caratterizzata per sua naturale destinazione ad abitazione, costituisce mutamento della destinazione d'uso dell'immobile per il quale è necessario il rilascio del permesso di costruire, in assenza della quale il fatto integra l'ipotesi di reato di cui all'art. 44, lett. b), d.p.r. n. 380 del 2001.
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In tema di reati urbanistici, non ricorrono gli estremi della buona fede, idonea ad integrare la condizione soggettiva d'ignoranza inevitabile della legge penale (Corte cost. n. 364 del 1988), quando l'imputato abbia eseguito un intervento edilizio in assenza del necessario permesso di costruire in conseguenza di una erronea interpretazione di una pur chiara disposizione di legge ed omettendo di consultare il competente ufficio.
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3.2. A prescindere, poi, dalla novità della doglianza sollevata dal Ma., il tema centrale e risolutivo, al quale sfuggono i ricorrenti, è costituito dal mutamento di destinazione d'uso del sottotetto in conseguenza dei lavori abusivi eseguiti e delle difformità realizzate, in ordine alle quali, nella loro storicità, non vi è neppure contestazione.
Questa Corte ha affermato che, in tema di reati edilizi, la modifica di destinazione d'uso è integrata anche dalla realizzazione di sole opere interne (Sez. 3, n. 27713 del 20/05/2010, P.M. in proc. Olivieri ed altri, Rv. 247919).
Il principio è stato successivamente ribadito sul rilievo che le cosiddette "opere interne" non sono più previste nel d.P.R. 06.06.2001, n. 380, come categoria autonoma di intervento edilizio sugli edifici esistenti, e rientrano negli interventi di ristrutturazione edilizia quando comportino aumento di unità immobiliari o modifiche dei volumi, dei prospetti e delle superfici ovvero mutamento di destinazione d'uso (Sez. 3, n. 47438 del 24/11/2011, Truppi, Rv. 251637), precisando che l'esecuzione di opere di aumento della superficie e dei volumi o comunque di realizzazione di impianti tecnologici comportanti una modifica della destinazione d'uso richiede il permesso di costruire (Sez. 3, n. 37862 del 16/06/2014, PMT in proc. Duranti ed altri, non mass.).
La ragione di ciò risiede nel fatto che la destinazione d'uso è un elemento che caratterizza il bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione, individuando il bene sotto l'aspetto funzionale e specificando le singole destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici.
Quando il mutamento della destinazione d'uso viene realizzato dopo l'ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza, si configura un'ipotesi di ristrutturazione edilizia secondo la definizione fornita dall'articolo 3, comma 1, d.p.r. 06.06.2001, n. 380 in quanto l'esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione di "un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente".
Sotto tale profilo, non ha rilievo l'entità delle opere eseguite allorché si consideri che la necessità del permesso di costruire permane tanto per gli interventi di manutenzione straordinaria, qualora comportino modifiche delle destinazioni d'uso (articolo 3, comma 1, lett. b), d.p.r. n. 380 del 2001), quanto per gli interventi di restauro e risanamento conservativo, qualora comportino il mutamento degli "elementi tipologici" dell'edificio, cioè di quei caratteri non soltanto architettonici ma anche funzionali che ne consentano la qualificazione in base alle tipologie edilizie (articolo 3, comma 1, lettera c), d.p.r. n. 380 del 2001).
Ne consegue che gli interventi anzidetti devono considerarsi "di nuova costruzione", ai sensi dell'articolo 3, comma 1, lett. e), d.p.r. n. 380 del 2001.
Perciò, il mutamento di destinazione d'uso di un immobile attuato attraverso l'esecuzione di opere edilizie e realizzato dopo la sua ultimazione configura un'ipotesi di ristrutturazione edilizia che integra il reato di esecuzione di lavori in assenza di permesso di costruire (art. 44, lett. b), d.P.R. 06.06.2001, n. 380), in quanto l'esecuzione di lavori, anche se di modesta entità, porta alla creazione di un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente (Sez. 3, n. 9894 del 20/01/2009, Tarallo, Rv. 243101).
In particolare, secondo giurisprudenza costante di questa Corte, la trasformazione di un sottotetto in mansarda, che è caratterizzata per sua naturale destinazione ad abitazione, costituisce mutamento della destinazione d'uso dell'immobile per il quale è necessario il rilascio del permesso di costruire, in assenza della quale il fatto integra l'ipotesi di reato di cui all'art. 44, lett. b), d.p.r. n. 380 del 2001 (Sez. 3, n. 6581 del 19/12/2000, dep. 19/02/2001, Muccio, Rv. 218702; Sez. 3, n. 17359 del 08/03/2007, P.M. in proc. Vazza, Rv. 236493).
I ricorrenti obiettano come tale destinazione non si fosse in concreto realizzata, in quanto non voluta, ma a parte l'istanza di sanatoria tendente a regolarizzare il pregresso abuso, dimostrativa della perpetrazione di esso ed anche della direzione finalistica della condotta, la destinazione della soffitta ad uso abitativo è stata desunta dalla divisione del locale in stanze mediante tre metrature, dall'inserimento di un bagno di grandi dimensioni e munito addirittura vasca idromassaggio e di finiture di pregio, inidonee per un locale di sgombero, dall'apertura di finestre che ne aumentavano la luminosità, dalla modifica dell'impianto elettrico e di quello idrico preesistenti, dall'inserimento addirittura di termosifoni per il riscaldamento, dalla realizzazione di una scala di ampie dimensioni per accedervi, sicché non si comprende cosa altro occorra per dedurre, sulla base di massime di esperienze generalizzate, l'esecuzione di lavori diretti ad assegnare all'immobile una destinazione d'uso diversa da quella originaria.
Né poteva ipotizzarsi la presentazione di qualsiasi variante posto che, al cospetto di una modifica della destinazione d'uso dell'immobile, non sono ammesse varianti stante la chiara preclusione in tal senso desumibile dall'art. 22, comma 2, d.p.r. n. 380 del 2001.
I Giudici del merito hanno pertanto correttamente applicato la normativa urbanistica pervenendo alla conclusione di ritenere ampiamente configurati i reati ascritti anche con riferimento alle altre ipotesi di abuso edilizio indicate nel capo di imputazione e tutte sostanzialmente finalizzate alla modifica della destinazione d'uso del sottotetto, violazione già di per sé autosufficiente per l'affermazione della responsabilità penale e compiuta nell'esclusivo interesse della proprietaria dell'immobile, circostanza che esclude, come sarà più chiaro in seguito, la sua buona fede.
3.2. I ricorrenti hanno eccepito che la responsabilità penale non poteva essere affermata per difetto dell'elemento soggettivo del reato e la proprietaria, committente dei lavori, ha in particolare sostenuto di aver agito in assenza di colpa perché inconsapevole di commettere gli abusi, avendola il direttore dei lavori sempre rassicurata in merito alla esecuzione delle opere non previste nella Dia, dicendole che si trattava di lavori legittimi e regolarizzabili mediante una variante finale, ma tale asserzione non è stata convalidata dalla Corte territoriale che ha osservato che l'imputata, se anche avesse agito fidandosi delle assicurazioni del direttore dei lavori, aveva comunque l'onere di accertare, con la necessaria diligenza, se davvero le opere difformi e non previste nella Dia, di cui ella era ampiamente consapevole, stante la loro macroscopica diversità rispetto al progetto allegato alla Dia stessa, fossero legittime e assentibili.
Dalla testimonianza della figlia della ricorrente si è appreso infatti che la Ra. chiedeva spiegazioni al direttore dei lavori circa le difformità riscontrate sentendosi rispondere che in effetti si trattava di lavori non regolari che però sarebbero stati regolarizzati in seguito.
L'imputata, di fronte alla palese violazione dell'atto abilitativo presentato in Comune (violazioni apprese proprio dal direttore dei lavori), aveva allora il dovere e la concreta possibilità di verificare la correttezza di quanto veniva eseguito rivolgendosi direttamente ai tecnici comunali preposti al controllo dell'attività edilizia.
La Corte distrettuale ha perciò ritenuto provato che l'imputata ha agito in modo negligente anche se il coimputato l'aveva rassicurata ed il fatto che quest'ultimo, a dibattimento, abbia confermato di aver tranquillizzato la Ra. circa la regolarità della procedura che aveva deciso di intraprendere, cioè eseguire delle opere non previste dalla Dia confidando di poterle regolarizzare con una variante finale, non esonera la ricorrente da responsabilità per colpa ed esclude che si sia potuto verificare, in capo ad entrambi i ricorrenti, qualsiasi errore di fatto o errore sulla violazione di norme extrapenali, essendo entrambi perfettamente consapevoli della difformità dei lavori eseguiti rispetto alla Dia presentata.
Questa Corte ha stabilito che, in tema di reati urbanistici, non ricorrono gli estremi della buona fede, idonea ad integrare la condizione soggettiva d'ignoranza inevitabile della legge penale (Corte cost. n. 364 del 1988), quando l'imputato abbia eseguito un intervento edilizio in assenza del necessario permesso di costruire in conseguenza di una erronea interpretazione di una pur chiara disposizione di legge ed omettendo di consultare il competente ufficio (Sez. 3, n. 36852 del 10/06/2014, Messina, Rv. 259950).
Nel caso di specie, entrambi i ricorrenti erano consapevoli dell'illegittimità dei lavori eseguiti e la Ra. ha inosservato l'obbligo di richiedere un'adeguata informazione per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia (Corte di Cassazione, Sez. penale feriale, sentenza 05.10.2015 n. 39907).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla serie di opere sistematicamente volte a determinare il cambio di destinazione d’uso da soffitta ad abitativo.
La realizzazione di un abbaino, munito di finestra sul tetto del fabbricato, oltre a determinare un aumento di volumetria, incide sulla sagoma dell'edificio e rientra quindi nella tipologia della ristrutturazione con mutamento di sagoma, che è subordinata a permesso di costruire, giusta quanto dispone l'art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. 06.06.2001 n. 380.
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Le opere eseguite e in corso di esecuzione (quanto alla parte impiantistica) sono idonee a modificare radicalmente la destinazione d’uso della soffitta in locale abitabile, incidendo in modo determinate sul carico urbanistico.
Sicché, in materia edilizia le opere interne e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo, necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qual volta comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie funzionalmente autonome (mutamento d'uso che nella specie si deduce dall’approntamento di opere tese a rendere abitabile uno spazio destinato a soffitta).
Ed invero, solo il cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico), mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, si integra in questa ipotesi una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del permesso di costruire, e ciò, indipendentemente dall'esecuzione di opere (che, invece, nel caso in esame sono presenti).
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La sig.ra Ta., proprietaria di un immobile sito in Roma, via ... n. 14, impugna l’ordinanza n. 1316 del 24.10.2007, notificata il successivo 30 ottobre, recante l’ingiunzione a demolire le seguenti opere eseguite senza permesso di costruire: “Modifica delle quote d’imposta sia al colmo, sia alla gronda, per m. 0,35 circa. Realizzazione, in epoca imprecisata, di un solaio a forma di “L” delle dimensioni di m. 5,00x1,20 e m. 1,00x1,20. Lavori d’impiantistica in corso, Chiusura porta d’accesso dal pianerottolo e apertura nuova porta all’interno della soffitta. Apertura finestra-abbaino di m. 0,30x1,80”.
Premesso che le opere in questione riguardano il piano di copertura, consistente in un locale soffitta di mq. 29 sempre di esclusiva proprietà della ricorrente, espone in fatto che le opere oggetto dell’ordine di demolizione sono consistite in riparazioni per infiltrazioni idriche provocate dalla preesistenza in loco di un manufatto–lucernaio e, in specie, nella sostituzione dello stesso con una finestra–abbaino, a bocca di lupo e con l’installazione di tegole in guaina isolante e sostituzione di travi in legno.
Contesta, pertanto, che sia stata realizzata una sopraelevazione e che l’opera comprenda l’installazione di impianti idrici, non essendo intenzione della ricorrente di destinare il bene ad uso abitativo.
...
Come accennato in narrativa, è oggetto di controversia la determinazione dirigenziale con cui il Comune di Roma ha ordinato la demolizione di talune opere eseguita senza permesso di costruire su immobile di proprietà della ricorrente, comportanti modifiche delle quote di imposta (sia al colmo che alla gronda), realizzazione di un solaio a forma di “L”, chiusura di porta d’accesso dal pianerottolo, con contestuale apertura di una nuova porta all’interno della soffitta, apertura di finestra–abbaino, lavori di impiantistica.
Sostiene la ricorrente che, essendosi limitata ad eseguire meri interventi di risanamento, tesi alla conservazione del manufatto deterioratosi nel tempo, è illegittimo il provvedimento repressivo, emanato senza tenere in debita considerazione della sufficienza, quale titolo abilitativo, l’avvenuta presentazione di DIA.
Il ricorso è infondato.
Il provvedimento in esame è stato emesso sulla base di accertamenti tecnici eseguiti dal resistente Comune a seguito della presentazione di DIA per l’esecuzione di lavori edili in locale con destinazione d’uso soffitta, nel corso dei quali è emerso che, oltre ai dichiarati interventi di sostituzione della copertura, senza modifica delle quote d’imposta, di posa in opera di una rampa di scale di accesso alla soffitta e di diversa distribuzione interna, sono state eseguite una serie di opere sistematicamente volte a determinare in cambio di destinazione d’uso da soffitta ad abitativo, e comunque determinanti, anche singolarmente considerate, aumento volumetrico e modifica della sagoma dell’edificio.
Ed invero, è la stessa relazione tecnica di parte, depositata in atti dalla ricorrente, che evidenzia come a seguito degli interventi ulteriori si sia determinato un incremento volumetrico, con la conseguenza che non può essere qualificato quale opera di ristrutturazione quella parte di interventi edilizi, realizzata in difformità dalla DIA e, dunque, in assenza del prescritto permesso di costruire, avendo comportato un maggiore ingombro a terra e maggiore altezza al piano, con conseguente aumento di volumetria.
Per altrettanto, non è inquadrabile nelle suddette opere di ristrutturazione la realizzazione dell’abbaino munito di finestra sul tetto del fabbricato in quanto, oltre a determinare un aumento di volumetria, incide sulla sagoma dell'edificio e rientra quindi nella tipologia della ristrutturazione con mutamento di sagoma, che è subordinata a permesso di costruire, giusta quanto dispone l'art. 10, comma 1, lett. c). d.P.R. 06.06.2001 n. 380.
In ogni caso, non può sottacersi che le opere eseguite e in corso di esecuzione (quanto alla parte impiantistica) sono idonee a modificare radicalmente la destinazione d’uso della soffitta in locale abitabile, incidendo in modo determinate sul carico urbanistico.
Ritiene il Collegio che, in materia edilizia, le opere interne e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo, necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qual volta comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie funzionalmente autonome (mutamento d'uso che nella specie si deduce dall’approntamento di opere tese a rendere abitabile uno spazio destinato a soffitta).
Ed invero, solo il cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico), mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, si integra in questa ipotesi una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del permesso di costruire, e ciò, indipendentemente dall'esecuzione di opere (che, invece, nel caso in esame sono presenti).
In conclusione, è legittimo il provvedimento impugnato con cui, in applicazione dell’art. 33, comma 1, d.p.r. n. 380/2001, è stata ordinata la demolizione delle opere di ristrutturazione edilizia di cui all’articolo 10, comma 1, lett. c), siccome eseguite in assenza di permesso di costruire, ed il ricorso deve essere respinto (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 11.09.2015 n. 11216 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: Le procedure informatiche, finanche ove pervengano al loro maggior grado di precisione e addirittura alla perfezione, non possano mai soppiantare, sostituendola davvero appieno, l’attività cognitiva, acquisitiva e di giudizio che solo un’istruttoria affidata ad un funzionario persona fisica è in grado di svolgere.
Gli istituti di partecipazione, di trasparenza e di accesso, in sintesi, di relazione del privato con i pubblici poteri non possono essere legittimamente mortificate e compresse soppiantando l’attività umana con quella impersonale, che poi non è attività, ossia prodotto delle azioni dell’uomo, che può essere svolta in applicazione di regole o procedure informatiche o matematiche.
Ad essere inoltre vulnerato non è solo il canone di trasparenza e di partecipazione procedimentale, ma anche l’obbligo di motivazione delle decisioni amministrative, con il risultato di una frustrazione anche delle correlate garanzie processuali che declinano sul versante del diritto di azione e difesa in giudizio di cui all’art. 24 Cost., diritto che risulta compromesso tutte le volte in cui l’assenza della motivazione non permette inizialmente all’interessato e successivamente, su impulso di questi, al Giudice, di percepire l’iter logico–giuridico seguito dall’amministrazione per giungere ad un determinato approdo provvedimentale.

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In proposito può utilmente essere richiamato e si ritiene di proporre per analogia alla soggetta questione, quanto di recente è stato affermato dalla giurisprudenza, sia pure nel caso esiziale di esclusione da una procedura concorsuale per problematiche discendenti dall’impiego della modalità informatica prescritta dalla lex specialis per la presentazione della domanda di partecipazione.
Si è condivisibilmente precisato sul punto che “nel caso di specie, si è giunti invece ad un sostanziale provvedimento di esclusione, senza alcun procedimento, senza alcuna motivazione, senza alcun funzionario della Pubblica Amministrazione che abbia valutato il caso in esame ed abbia correttamente esternato le relative determinazioni provvedimentali potendosi inoltre rinviare alle motivazioni espresse dallo specifico precedente conforme di questa sezione, con cui si è evidenziata “la manifesta irragionevolezza, ingiustizia ed irrazionalità di un sistema di presentazione delle domande di partecipazione ad un concorso che, a causa di meri malfunzionamenti tecnici, giunga ad esercitare impersonalmente attività amministrativa sostanziale, disponendo esclusioni de facto riconducibili a mere anomalie informatiche” e che “pro futuro ed in un’ottica conformativa del potere, l’Amministrazione debba predisporre, unitamente a strumenti telematici di semplificazione dei flussi documentali in caso di procedure concorsuali di massa, altresì procedure amministrative parallele di tipo tradizionale ed attivabili in via di emergenza, in caso di non corretto funzionamento dei sistemi informatici predisposti per il fisiologico inoltro della domanda”.
Più di recente questa Sezione in chiave più generale ha riproposto, in materia di azione avverso il silenzio serbato sulla pretesa di ammissione al completamento di una procedura di concessione di finanziamenti pubblici inibita per anomalie della piattaforma informatica contemplata quale esclusiva modalità di confezionamento e inoltro dell’istanza, l’ermeneusi già espressa nei medesimi sensi con il precedente di cui a TAR Lazio–Roma, Sez. III-bis, n. 8312/2016, affermando che: “Va al riguardo ribadito, invero, quanto già sancito dalla giurisprudenza della Sezione in tema di ruolo conferibile all’impiego dello strumento informatico in seno al procedimento, ossia il principio generale secondo il quale “le procedure informatiche applicate ai procedimenti amministrativi devono collocarsi in una posizione necessariamente servente rispetto agli stessi, non essendo concepibile che, per problematiche di tipo tecnico, sia ostacolato l’ordinato svolgimento dei rapporti tra privato e Pubblica Amministrazione e fra Pubbliche Amministrazioni nei reciproci rapporti".
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Il Collegio è del parere che le procedure informatiche, finanche ove pervengano al loro maggior grado di precisione e addirittura alla perfezione, non possano mai soppiantare, sostituendola davvero appieno, l’attività cognitiva, acquisitiva e di giudizio che solo un’istruttoria affidata ad un funzionario persona fisica è in grado di svolgere e che pertanto, al fine di assicurare l’osservanza degli istituti di partecipazione, di interlocuzione procedimentale, di acquisizione degli apporti collaborativi del privato e degli interessi coinvolti nel procedimento, deve seguitare ad essere il dominus del procedimento stesso, all’uopo dominando le stesse procedure informatiche predisposte in funzione servente e alle quali va dunque riservato tutt’oggi un ruolo strumentale e meramente ausiliario in seno al procedimento amministrativo e giammai dominante o surrogatorio dell’attività dell’uomo.
Ostando alla deleteria prospettiva orwelliana di dismissione delle redini della funzione istruttoria e di abdicazione a quella provvedimentale, il presidio costituito dal baluardo dei valori costituzionali scolpiti negli artt. 3, 24, 97 della Costituzione oltre che all’art. 6 della Convezione europea dei diritti dell’uomo.

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3.1. Dirimente si profila in punto di diritto l’argomento secondo cui è mancata nella fattispecie una vera e propria attività amministrativa, essendosi demandato ad un impersonale algoritmo lo svolgimento dell’intera procedura di assegnazione dei docenti alle sedi disponibili nell’organico dell’autonomia della scuola.
Al riguardo ritiene la Sezione che alcuna complicatezza o ampiezza, in termini di numero di soggetti coinvolti ed ambiti territoriali interessati, di una procedura amministrativa, può legittimare la sua devoluzione ad un meccanismo informatico o matematico del tutto impersonale e orfano di capacità valutazionali delle singole fattispecie concrete, tipiche invece della tradizionale e garantistica istruttoria procedimentale che deve informare l’attività amministrativa, specie ove sfociante in atti provvedimentali incisivi di posizioni giuridiche soggettive di soggetti privati e di conseguenziali ovvie ricadute anche sugli apparati e gli assetti della pubblica amministrazione.
Un algoritmo, quantunque, preimpostato in guisa da tener conto di posizioni personali, di titoli e punteggi, giammai può assicurare la salvaguardia delle guarentigie procedimentali che gli artt. 2, 6, 7, 8, 9, 10 della legge 07.08.1990 n. 241 hanno apprestato, tra l’altro in recepimento di un inveterato percorso giurisprudenziale e dottrinario.
3.2. Invero, anticipando conclusioni cui a breve si perverrà seguendo l’iter argomentativo di seguito sviluppato, può sin da ora affermarsi che gli istituti di partecipazione, di trasparenza e di accesso, in sintesi, di relazione del privato con i pubblici poteri non possono essere legittimamente mortificate e compresse soppiantando l’attività umana con quella impersonale, che poi non è attività, ossia prodotto delle azioni dell’uomo, che può essere svolta in applicazione di regole o procedure informatiche o matematiche.
Ad essere inoltre vulnerato non è solo il canone di trasparenza e di partecipazione procedimentale, ma anche l’obbligo di motivazione delle decisioni amministrative, con il risultato di una frustrazione anche delle correlate garanzie processuali che declinano sul versante del diritto di azione e difesa in giudizio di cui all’art. 24 Cost., diritto che risulta compromesso tutte le volte in cui l’assenza della motivazione non permette inizialmente all’interessato e successivamente, su impulso di questi, al Giudice, di percepire l’iter logico–giuridico seguito dall’amministrazione per giungere ad un determinato approdo provvedimentale.
4. In proposito può utilmente essere richiamato e si ritiene di proporre per analogia alla soggetta questione, quanto di recente è stato affermato dalla giurisprudenza, sia pure nel caso esiziale di esclusione da una procedura concorsuale per problematiche discendenti dall’impiego della modalità informatica prescritta dalla lex specialis per la presentazione della domanda di partecipazione.
Si è condivisibilmente precisato sul punto che “nel caso di specie, si è giunti invece ad un sostanziale provvedimento di esclusione, senza alcun procedimento, senza alcuna motivazione, senza alcun funzionario della Pubblica Amministrazione che abbia valutato il caso in esame ed abbia correttamente esternato le relative determinazioni provvedimentali potendosi inoltre rinviare alle motivazioni espresse dallo specifico precedente conforme di questa sezione del 27.06.2016, n. 806/2016, con cui si è evidenziata “la manifesta irragionevolezza, ingiustizia ed irrazionalità di un sistema di presentazione delle domande di partecipazione ad un concorso che, a causa di meri malfunzionamenti tecnici, giunga ad esercitare impersonalmente attività amministrativa sostanziale, disponendo esclusioni de facto riconducibili a mere anomalie informatiche” e che “pro futuro ed in un’ottica conformativa del potere, l’Amministrazione debba predisporre, unitamente a strumenti telematici di semplificazione dei flussi documentali in caso di procedure concorsuali di massa, altresì procedure amministrative parallele di tipo tradizionale ed attivabili in via di emergenza, in caso di non corretto funzionamento dei sistemi informatici predisposti per il fisiologico inoltro della domanda” (TAR Puglia-Bari, n. 896/2016).
4.1. Più di recente questa Sezione in chiave più generale ha riproposto, in materia di azione avverso il silenzio serbato sulla pretesa di ammissione al completamento di una procedura di concessione di finanziamenti pubblici inibita per anomalie della piattaforma informatica contemplata quale esclusiva modalità di confezionamento e inoltro dell’istanza, l’ermeneusi già espressa nei medesimi sensi con il precedente di cui a TAR Lazio–Roma, Sez. III-bis, n. 8312/2016, affermando che: “3.2.1. Va al riguardo ribadito, invero, quanto già sancito dalla giurisprudenza della Sezione in tema di ruolo conferibile all’impiego dello strumento informatico in seno al procedimento, ossia il principio generale secondo il quale “le procedure informatiche applicate ai procedimenti amministrativi devono collocarsi in una posizione necessariamente servente rispetto agli stessi, non essendo concepibile che, per problematiche di tipo tecnico, sia ostacolato l’ordinato svolgimento dei rapporti tra privato e Pubblica Amministrazione e fra Pubbliche Amministrazioni nei reciproci rapporti (TAR Lazio–Roma, Sez. III-bis, n. 8312/2016; in termini cfr. anche Cons. Stato, Sez. VI, 07.11.2017 n. 5136” (TAR Lazio–Roma, Sez. III-bis, 08.08.2018, n. 8902).
4.2. Si segnala inoltre che con la decisione d’appello richiamata in quest’ultima pronuncia della Sezione, il Consiglio ha annullato un diniego di incentivo per la realizzazione di un impianto fotovoltaico assunto dal G.S.E. perché l’istanza, per il cui inoltro il relativo D.M. del 2007 stabiliva l’impiego unicamente della piattaforma informatica (ai sensi dell’art. 5, comma 10, del d.m. 19.02.2007 «Il soggetto attuatore predispone una piattaforma informatica per le comunicazioni tra i soggetti responsabili e lo stesso soggetto attuatore
») era stata inviata correttamente qualche giorno dopo la scadenza del termine ultimo, entro il quale l’aspirante aveva tentato di inoltrarla tempestivamente, tuttavia non riuscendoci a causa di un malfunzionamento, comprovato in giudizio, del sistema informatico.
Il Consiglio di Stato ha annullato il diniego opposto per l’illustrata violazione del temine di invio telematico dell’istanza sancendo che “Ne consegue l’illegittimità, per violazione dei principi di correttezza e di buon andamento dell’azione amministrativa, del diniego opposto dal GSE, essendo l’inoltro tardivo della domanda (peraltro, solo di pochi giorni) imputabile alla sfera di responsabilità dello stesso GSE, ed avendo la richiedente assolto a tutte le incombenze da essa esigibili in una situazione di malfunzionamento della piattaforma telematica del GSE” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 07.11.2017, n. 5136).
5. Rammentati i segnalati precedenti, resi peraltro in fattispecie afferenti all’illegittima esclusione da procedure concorsuali in dipendenza dell’intempestiva presentazione delle domande di partecipazione cagionata da malfunzionamenti o anomalie delle piattaforme telematiche all’uopo allestite, ma espressivi di principi estensibili all’odierna controversia, con riguardo al ruolo che lo strumento informatico può legittimamente rivestire nell’ambito di procedimenti amministrativi, il Collegio è più in particolare del meditato avviso secondo cui non è conforme al vigente plesso normativo complessivo e ai dettami dell’art. 97 della Costituzione, ai principi ad esso sottesi, agli istituti di partecipazione procedimentale definiti agli artt. 7, 8, 10 e 10–bis della L. 07.08.1990, n. 241, all’obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi sancito dall’art. 3, stessa legge, al principio ineludibile dell’interlocuzione personale intessuto nell’art. 6 della legge sul procedimento e a quello ad esso presupposto di istituzione della figura del responsabile del procedimento, affidare all’attivazione di meccanismi e sistemi informatici e al conseguente loro impersonale funzionamento, il dipanarsi di procedimenti amministrativi, sovente incidenti su interessi, se non diritti, di rilievo costituzionale, che invece postulano, onde approdare al corretto esito provvedimentale conclusivo, il disimpegno di attività istruttoria, acquisitiva di rappresentazioni di circostanze di fatto e situazioni personali degli interessati destinatari del provvedimento finale, attività, talora ponderativa e comparativa di interessi e conseguentemente necessariamente motivazionale, che solo l’opera e l’attività dianoetica dell’uomo può svolgere.
5.1. Invero Il Collegio è del parere che le procedure informatiche, finanche ove pervengano al loro maggior grado di precisione e addirittura alla perfezione, non possano mai soppiantare, sostituendola davvero appieno, l’attività cognitiva, acquisitiva e di giudizio che solo un’istruttoria affidata ad un funzionario persona fisica è in grado di svolgere e che pertanto, al fine di assicurare l’osservanza degli istituti di partecipazione, di interlocuzione procedimentale, di acquisizione degli apporti collaborativi del privato e degli interessi coinvolti nel procedimento, deve seguitare ad essere il dominus del procedimento stesso, all’uopo dominando le stesse procedure informatiche predisposte in funzione servente e alle quali va dunque riservato tutt’oggi un ruolo strumentale e meramente ausiliario in seno al procedimento amministrativo e giammai dominante o surrogatorio dell’attività dell’uomo; ostando alla deleteria prospettiva orwelliana di dismissione delle redini della funzione istruttoria e di abdicazione a quella provvedimentale, il presidio costituito dal baluardo dei valori costituzionali scolpiti negli artt. 3, 24, 97 della Costituzione oltre che all’art. 6 della Convezione europea dei diritti dell’uomo (
TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis, sentenza 10.09.2018 n. 9230 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: A a fronte di procedimenti amministrativi interamente telematizzati, specie quando la presentazione della domanda sia ancorata a rigidi termini di decadenza e la compilazione della stessa si riveli di particolare complessità, l’amministrazione, anche a non voler prevedere modalità ulteriori di presentazione della stessa, non può prescindere dal c.d. soccorso istruttorio ex art. 6 l. n. 241/1990.
Nell’ambito di un procedimento tenuto con modalità telematiche la scadenza del termine di presentazione della domanda non può essere considerata alla stessa stregua della scadenza del termine di presentazione nell’ambito di un tradizionale procedimento cartaceo, in cui eventuali problematiche (ad esempio, scioperi aerei, incidenti etc.) vanno ricondotte nella comune sfera di diligenza dell’interessato.
Nel caso di domande telematiche, invece, il rispetto del termine di presentazione della domanda dipende da variabili assolutamente imprevedibili e non “quantificabili” in termini di tempo, e cioè dalle concrete modalità di configurazione del Sistema Informativo, anche qualora, come nel caso in esame, la compilazione sia affidata a soggetti più che competenti.
Va al riguardo ribadito, invero, quanto già sancito dalla giurisprudenza della Sezione in tema di ruolo conferibile all’impiego dello strumento informatico in seno al procedimento, ossia il principio generale secondo il quale “le procedure informatiche applicate ai procedimenti amministrativi devono collocarsi in una posizione necessariamente servente rispetto agli stessi, non essendo concepibile che, per problematiche di tipo tecnico, sia ostacolato l’ordinato svolgimento dei rapporti tra privato e Pubblica Amministrazione e fra Pubbliche Amministrazioni nei reciproci rapporti”.
In sensi analoghi ed anzi maggiormente pertinenti al caso all’esame vertendosi in fattispecie di non ammissione a o esclusione da procedure ad evidenza amministrativa, si è espresso anche il TAR Puglia, secondo cui “nel caso di specie, si è giunti invece ad un sostanziale provvedimento di esclusione, senza alcun procedimento, senza alcuna motivazione, senza alcun funzionario della Pubblica Amministrazione che abbia valutato il caso in esame ed abbia correttamente esternato le relative determinazioni provvedimentali potendosi inoltre rinviare alle motivazioni espresse dallo specifico precedente conforme di questa sezione, con cui si è evidenziata “la manifesta irragionevolezza, ingiustizia ed irrazionalità di un sistema di presentazione delle domande di partecipazione ad un concorso che, a causa di meri malfunzionamenti tecnici, giunga ad esercitare impersonalmente attività amministrativa sostanziale, disponendo esclusioni de facto riconducibili a mere anomalie informatiche” e che “pro futuro ed in un’ottica conformativa del potere, l’Amministrazione debba predisporre, unitamente a strumenti telematici di semplificazione dei flussi documentali in caso di procedure concorsuali di massa, altresì procedure amministrative parallele di tipo tradizionale ed attivabili in via di emergenza, in caso di non corretto funzionamento dei sistemi informatici predisposti per il fisiologico inoltro della domanda”.
Ne deriva che, pur a fronte di procedimenti amministrativi interamente telematizzati, specie quando la presentazione della domanda sia ancorata a rigidi termini di decadenza e la compilazione della stessa si riveli di particolare complessità, l’amministrazione, anche a non voler prevedere modalità ulteriori di presentazione della stessa, non può prescindere dal c.d. soccorso istruttorio ex art. 6 l. n. 241/1990.
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3. Sintetizzando quanto dianzi precisato, può esporsi che la ricorrente argomenta di avere intrapreso l’iter telematico necessario a presentare domanda di partecipazione alla procedura di selezione, ma che la procedura di perfezionamento e invio informatico della domanda non poteva essere completata nel termine previsto per via dei malfunzionamenti della piattaforma telematica SIRIO, eletta dall’Avviso come unica modalità di presentazione e invio delle domande.
3.1. Tanto premesso, il ricorso deve essere accolto, in considerazione dell’illegittimo diniego della riapertura dei termini per completare la domanda telematicamente o comunque consentire la presentazione della domanda con modalità cartacea, in attivazione del c.d. “dovere di soccorso procedimentale” di cui all’art. 6 della L. n. 241/1990, avuto riguardo alla previsione dell’avviso (art. 16) secondo cui la domanda doveva essere presentata, a pena di esclusione “esclusivamente” con modalità telematica tramite i servizi dello sportello telematico SIRIO e all’acclarato riscontro di malfunzionamenti, o comunque rallentamenti, del Sistema Sirio in prossimità della scadenza del termine di presentazione della domanda –senza che alle segnalazioni dell’utente abbia fatto riscontro l’intervento del CINECA al fine di assicurare un tempestivo superamento delle problematiche tecniche- che hanno impedito il completamento delle domande nel termine previsto dall’Avviso.
3.2. Osserva, in proposito, il Collegio che nell’ambito di un procedimento tenuto con modalità telematiche la scadenza del termine di presentazione della domanda non può essere considerata alla stessa stregua della scadenza del termine di presentazione nell’ambito di un tradizionale procedimento cartaceo, in cui eventuali problematiche (ad esempio, scioperi aerei, incidenti etc.) vanno ricondotte nella comune sfera di diligenza dell’interessato.
Nel caso di domande telematiche, invece, il rispetto del termine di presentazione della domanda dipende da variabili assolutamente imprevedibili e non “quantificabili” in termini di tempo, e cioè dalle concrete modalità di configurazione del Sistema Informativo, anche qualora, come nel caso in esame, la compilazione sia affidata a soggetti più che competenti.
3.2.1. Va al riguardo ribadito, invero, quanto già sancito dalla giurisprudenza della Sezione in tema di ruolo conferibile all’impiego dello strumento informatico in seno al procedimento, ossia il principio generale secondo il quale “le procedure informatiche applicate ai procedimenti amministrativi devono collocarsi in una posizione necessariamente servente rispetto agli stessi, non essendo concepibile che, per problematiche di tipo tecnico, sia ostacolato l’ordinato svolgimento dei rapporti tra privato e Pubblica Amministrazione e fra Pubbliche Amministrazioni nei reciproci rapporti” (TAR Lazio–Roma, Sez. III-bis, n. 8312/2016; in termini cfr. anche Cons. Stato, Sez. VI, 07.11.2017 n. 5136).
3.2.2. In sensi analoghi ed anzi maggiormente pertinenti al caso all’esame vertendosi in fattispecie di non ammissione a o esclusione da procedure ad evidenza amministrativa, si è espresso anche il TAR Puglia, secondo cui “nel caso di specie, si è giunti invece ad un sostanziale provvedimento di esclusione, senza alcun procedimento, senza alcuna motivazione, senza alcun funzionario della Pubblica Amministrazione che abbia valutato il caso in esame ed abbia correttamente esternato le relative determinazioni provvedimentali potendosi inoltre rinviare alle motivazioni espresse dallo specifico precedente conforme di questa sezione del 27.06.2016, n. 806/2016, con cui si è evidenziata “la manifesta irragionevolezza, ingiustizia ed irrazionalità di un sistema di presentazione delle domande di partecipazione ad un concorso che, a causa di meri malfunzionamenti tecnici, giunga ad esercitare impersonalmente attività amministrativa sostanziale, disponendo esclusioni de facto riconducibili a mere anomalie informatiche” e che “pro futuro ed in un’ottica conformativa del potere, l’Amministrazione debba predisporre, unitamente a strumenti telematici di semplificazione dei flussi documentali in caso di procedure concorsuali di massa, altresì procedure amministrative parallele di tipo tradizionale ed attivabili in via di emergenza, in caso di non corretto funzionamento dei sistemi informatici predisposti per il fisiologico inoltro della domanda” (cfr. TAR Puglia-Bari, n. 896/2016).
3.3. Ne deriva che, pur a fronte di procedimenti amministrativi interamente telematizzati, specie quando la presentazione della domanda sia ancorata a rigidi termini di decadenza e la compilazione della stessa si riveli di particolare complessità, l’amministrazione, anche a non voler prevedere modalità ulteriori di presentazione della stessa, non può prescindere dal c.d. soccorso istruttorio ex art. 6 l. n. 241/1990.
In conclusione, il ricorso deve essere accolto al fine di consentire alla ricorrente il completamento della propria domanda (
TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis, sentenza 08.08.2018 n. 8902 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Per aversi una pergotenda occorre che l’opera principale sia costituita non dalla struttura in sé, ma dalla tenda, quale elemento di protezione dal sole o dagli agenti atmosferici, con la conseguenza che la struttura deve qualificarsi in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all’estensione della tenda.
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3. L’appello è infondato e va respinto.
In base alla foto-documentazione dimessa dall’Amministrazione, nella specie, non ci si trova di fronte a due pergotende, bensì a vere e proprie tettoie, come tali interventi di ristrutturazione edilizia non rientranti nell’edilizia libera.
Per aversi una pergotenda occorrerebbe, infatti che l’opera principale sia costituita non dalla struttura in sé, ma dalla tenda, quale elemento di protezione dal sole o dagli agenti atmosferici, con la conseguenza che la struttura deve qualificarsi in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all’estensione della tenda.
Nel caso in esame, infatti, trattasi di struttura con travetti lignei di una certa consistenza che sorreggono una tenda, struttura che può essere senz’altro definita solida e permanente e, soprattutto, tale da determinare una evidente variazione di sagoma e prospetto dell’edificio. Contrariamente a quanto affermato dagli appellanti, l’elemento principale non è quindi la tenda sorretta dalla struttura in travi di legno, ma, invece, quest’ultima.
Non trattandosi nel caso in esame di pergotende non può nemmeno, diversamente da come affermato dagli appellanti, trovare applicazione l’art. 17, comma 2°, del D.P.R. n. 31/2017 che stabilisce: “Non può disporsi la rimessione in pristino nel caso di interventi e opere ricompresi nell’ambito di applicazione dell’articolo 2 del presente decreto e realizzati anteriormente alla data di entrata in vigore del presente regolamento non soggette ad altro titolo abilitativo all’infuori dell’autorizzazione paesaggistica”.
Nella specie, infatti, non si è in presenza di un intervento riconducibile nella cd. edilizia libera, per cui non è soddisfatto il presupposto per cui la struttura non necessita di alcuna autorizzazione all’infuori del vincolo paesaggistico. In base all’art. 17 del DPR 31/2017 poteva quindi essere ben emessa la determinazione dirigenziale di demolizione.
4. Conclusivamente, il gravame va respinto e la sentenza impugnata va confermata (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.10.2018 n. 5737 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Circa la misurazione dell’altezza del sottotetto, il computo di tale grandezza deve riferirsi, secondo appropriata regola tecnica, alle distanze tra gli elementi strutturali dell’edificio, quali solai e copertura, non assumendo alcun rilievo gli elementi architettonici di finitura, quali controsoffittatura, camera d’aria e massetto delle pendenze, che sono meramente eventuali e di dimensioni assolutamente non predeterminabili in ragione delle svariate esigenze della committenza.
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3. Perimetrato l’ambito del giudizio al suindicato provvedimento di demolizione, si può dare corso allo scrutinio delle censure articolate avverso quest’ultimo, le quali sono così riassumibili:
   a) non è ravvisabile la sussistenza di alcun abuso edilizio, essendo le difformità di altezza del sottotetto state erroneamente calcolate al netto di alcune opere di rifinitura ancora da realizzare, quali la controsoffittatura, la camera d’aria per l’isolamento termico ed il massetto delle pendenze, Inoltre, l’altezza al colmo è stata indebitamente misurata “all’intradosso delle travi portanti, anziché al di sotto delle stesse così come previsto dal regolamento edilizio” ed è, comunque, inferiore di 10 cm. rispetto a quella autorizzata con il permesso di costruire;
   b) il provvedimento demolitorio è affetto da difetto di motivazione non solo in relazione alla normativa urbanistico-edilizia concretamente violata e alla qualificazione giuridica dell’intervento posto in essere, ma anche con riguardo alla prevalenza dello specifico interesse pubblico alla demolizione sul contrapposto interesse privato, tenuto conto dello scarso rilievo urbanistico dell’opera realizzata;
   c) l’amministrazione comunale è incorsa nella violazione dell’art. 36 del d.P.R. n. 380/2001, non avendo anteposto all’emissione dell’ordine demolitorio alcuna verifica in ordine all’eventuale sanabilità dell’intervento effettuato;
   d) l’ordinanza di demolizione non è stata preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento, in violazione delle prerogative partecipative garantite dall’art. 7 della legge n. 241/1990.
Tutte le prefate censure non meritano condivisione per le ragioni di seguito esplicitate.
4. Non emerge alcun palese errore di calcolo nella misurazione dell’altezza del sottotetto, dovendo il computo di tale grandezza riferirsi, come avvenuto nella specie secondo appropriata regola tecnica, alle distanze tra gli elementi strutturali dell’edificio, quali solai e copertura, non assumendo alcun rilievo gli elementi architettonici di finitura, quali controsoffittatura, camera d’aria e massetto delle pendenze, che sono meramente eventuali e di dimensioni assolutamente non predeterminabili in ragione delle svariate esigenze della committenza (cfr. in tal senso TAR Sardegna, Sez. II, 17.06.2015 n. 876) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 03.10.2018 n. 5768 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La legittimità della cessione di cubatura richiede non solo l’omogeneità d’area territoriale, ma anche la contiguità dei fondi, e che, se la giurisprudenza ha riconosciuto utilizzabili asservimenti riferiti ad aree anche se non contigue sul piano fisico, purché vicine in modo significativo, in concreto essa ha chiarito che deve ritenersi significativa già una distanza tra loro di oltre 300 metri, derivandone la non idoneità e, in definitiva, l’irrilevanza dell’atto di asservimento.
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Con un unico complesso motivo di censura la società ricorrente sostiene:
   - quanto al primo punto, di aver asservito all'area interessata, per sanare l'incremento di volumetria realizzato, fondi limitrofi con l’identica destinazione urbanistica G3 generando una superficie utile edificabile di mq. 14.554 (per effetto dall'intervenuto asservimento alle p.lle n. 2900, n. 2902 e n. 475 delle particelle n. 2042, n. 2044, n. 2050 e n. 2051, per una superficie edificatoria totale rideterminata in mq. 14.754, cui sottrarre mq 200 previsti per viabilità di progetto); a questo riguardo, l’assenza di contiguità fisica non ne impedirebbe l'accorpamento urbanistico, non essendo richiesta la diretta ed immediata vicinanza, ma l'appartenenza alla medesima zona omogenea, così come definita dalla disciplina urbanistica vigente.
   - quanto al secondo punto, di non aver affatto chiesto di sanare un cambio di destinazione d'uso mai attuato (posto che dagli atti di vendita risulterebbe che gli immobili sono stati alienati con la destinazione originaria impressa dal permesso di costruire, cioè residence), ma solo di sanare, grazie all’accorpamento urbanistico, l'incremento di volumetria determinatosi in fase costruttiva.
Il ricorso non merita accoglimento.
La società ricorrente non contesta la circostanza di fatto che i fondi asserviti distano tra loro qualche chilometro, ma ne sostiene l’irrilevanza opinando sufficiente che tra gli stessi vi sia omogeneità di destinazione urbanistica.
In senso contrario, però, va osservato che per condiviso indirizzo interpretativo la legittimità della cessione di cubatura richiede non solo l’omogeneità d’area territoriale, ma anche la contiguità dei fondi, e che, se la giurisprudenza ha riconosciuto utilizzabili asservimenti riferiti ad aree anche se non contigue sul piano fisico, purché vicine in modo significativo, in concreto essa ha chiarito che deve ritenersi significativa già una distanza tra loro di oltre 300 metri, derivandone la non idoneità e, in definitiva, l’irrilevanza dell’atto di asservimento (cfr. C.d.S., sez. VI, 14.04.2016, n. 1515).
Applicando tali principi al caso in esame, dunque, è dirimente che i fondi asserviti, pur situati nello stesso contesto territoriale, sono distanti tra loro qualche chilometro e, pertanto, privi del requisito della contiguità (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 03.10.2018 n. 5737 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La previsione di cui all’articolo 21-nonies della l. 241/1990 segna il definitivo superamento dell’originaria teorica dell’inconsumabilità del potere di autotutela (o di quella che un risalente orientamento definisce “la perennità della potestà amministrativa di annullare in via di autotutela gli atti invalidi”), invero, già ampiamente rivisitata dall’evoluzione dell’ordinamento pubblicistico che, come evidenziato da Consiglio di Stato, ad. plen. 17.10.2017, n. 8, si muove in chiave di maggiore protezione per i soggetti incisi dall’esplicazione del potere di autotutela temperando il richiamato principio di perennità e predicando, invece, la necessità che l’annullamento e la revoca intervengano entro un termine ragionevole.
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Con specifico riferimento ai titoli edilizi, la giurisprudenza declina il dato normativo sopra riportato evidenziando come i presupposti per l’esercizio del potere di annullamento d'ufficio devono individuarsi nell'illegittimità originaria del titolo e nell'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione, diverso dal mero ripristino della legalità, da compararsi con i contrapposti interessi dei privati, entro un termine ragionevole (che l’articolo 6 della l. 07.08.2015, n. 124 fissa, da ultimo, in diciotto mesi).
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In relazione alla questione relativa al termine di 18 mesi in ultimo richiamato si pone una questione di diritto intertemporale atteso che il provvedimento di annullamento in autotutela –adottato nella vigenza della nuova disposizione- si riferisce a due permessi emessi nella vigenza della precedente disposizione.
Sul punto, si evidenzia che, secondo un primo orientamento giurisprudenziale, la norma introdotta dalla legge 07.08.2015, n. 124 è applicabile in ogni caso in cui il provvedimento di autotutela sia intervenuto successivamente alla novella legislativa, ancorché riguardi un titolo abilitativo rilasciato sotto il regime precedente.
Secondo un indirizzo di segno opposto, ai fini dell’applicazione della regola del tempus regit actum (art. 11 delle preleggi), l’atto di autotutela dovrebbe considerarsi non un provvedimento autonomo bensì un atto rientrante nel procedimento aperto dall’atto di primo grado, con conseguente insensibilità del procedimento amministrativo alle norme giuridiche nel frattempo sopravvenute.
A sostegno della tesi in esame si osserva che la “modifica non ha carattere interpretativo dell’inciso che precede (“entro un termine ragionevole”) perché, se così fosse, si dovrebbe considerare comunque e sempre “ragionevole” l’autoannullamento effettuato dall’amministrazione entro 18 mesi: mentre, invece, nulla vieta di ritenere irragionevole anche un provvedimento in autotutela adottato entro il predetto termine. Ma nemmeno può attribuirsi ad esso carattere sanante dei provvedimenti illegittimi rilasciati precedentemente ai 18 mesi antecedenti all’entrata in vigore della norma, giacché un tale obiettivo mal si concilia con la dichiarata finalità di semplificazione procedimentale della norma in questione (cfr. il titolo del capo I della l. n. 124 del 2015).
La norma in esame ha, dunque, sicuramente carattere innovativo, sicché si applica solo ai provvedimenti adottati successivamente alla sua entrata in vigore: ora, tenendo conto che la disposizione riguarda soltanto provvedimenti di secondo grado e che, come evidenziato, non ha valenza sanante dei provvedimenti (di primo grado) emessi antecedentemente ai 18 mesi precedenti alla sua entrata in vigore, tale disposizione –che introduce un regime temporale rigido di annullabilità dell’atto amministrativo– non può che riferirsi ai provvedimenti in autotutela di provvedimenti di primo grado adottati successivamente alla vigenza della legge.
Depone in favore di tale interpretazione la stessa lettera della norma che, assumendo che l’annullamento in autotutela deve disporsi entro un termine “comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione”, afferma, in buona sostanza, che l’atto di secondo grado non potrà essere emanato dopo diciotto mesi dal momento dell’adozione –momento che, attesa l’innovatività della norma, non può che essere successivo alla sua entrata in vigore– del provvedimento di autorizzazione (di primo grado)”.
La prevalente giurisprudenza del Consiglio di Stato -inaugurata dalla sentenza della V sezione, del 19.01.2017, n. 250– evidenzia che il termine dei diciotto mesi non può applicarsi in via retroattiva, nel senso di computare anche il tempo decorso anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 124 del 2015, atteso che tale esegesi, oltre a porsi in contrasto con il generale principio di irretroattività della legge (art. 11 preleggi), finirebbe per limitare in maniera eccessiva ed irragionevole l’esercizio del potere di autotutela amministrativa.
Si arriverebbe infatti all’irragionevole conseguenza per cui, con riguardo ai provvedimenti adottati diciotto mesi prima dell’entrata in vigore della nuova norma, l’annullamento d’ufficio sarebbe, per ciò solo, precluso. Ne consegue che, rispetto ai provvedimenti illegittimi (di primo grado) adottati anteriormente all’attuale versione dell’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990, il termine dei diciotto mesi non può che cominciare a decorrere dalla data di entrata in vigore della nuova disposizione.
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Il Collegio ritiene di aderire all’orientamento secondo cui le nuove disposizioni trovano applicazione “solo ai provvedimenti di annullamento in autotutela che abbiano ad oggetto provvedimenti che siano, anch'essi, successivi all'entrata in vigore della nuova disposizione”.
Va, infatti, considerato che la nuova disposizione àncora l’esercizio del potere al momento di emanazione del primo atto ponendo, quindi, una limitazione temporale calibrata proprio sul provvedimento che l’atto di secondo grado rimuove.
La generalizzata applicazione del termine dalla data di entrata in vigore della legge 124 del 2015 muta il presupposto fondante su cui poggia la previsione imponendo, in ogni caso, l’adozione dell’atto di autotutela –per i provvedimenti già emessi prima del 28.08.2015– necessariamente entro i 18 mesi decorrenti da tale data. In tal modo, però, si altera la ratio della norma nella sua applicazione nella dinamica intertemporale, trasformando la stessa in un termine generale di definizione di tutti i provvedimenti di secondo grado, relativi ad atti già adottati prima della novella.
Aderendo alla tesi pur autorevolmente patrocinata da parte della giurisprudenza, l’Amministrazione risulterebbe, in sostanza, onerata di una verifica di tutti i provvedimenti già adottati da consumarsi entro un generale termine di 18 mesi onde non vedersi precludere la possibilità di successiva rimozione. In tal modo, però, per gli atti adottati prima della novella il termine di decorrenza dei 18 mesi non risulta più fondarsi sulla data di emanazione del singolo atto –come espressamente disposto dalla norma– ma, al contrario, sulla data di entrata in vigore della legge.
Si perviene, così, al risultato di negare la ratio della previsione che, come detto, intende calibrare temporalmente l’atto di esercizio del potere sul provvedimento da rimuovere. L’interpretazione che appare, pertanto, maggiormente acconcia al dato letterale e alla specifica ratio legis è quella che ancora le nuove disposizioni all’esercizio del potere su atti emanati dopo l’entrata in vigore della nuova legge.
Conclusione che, del resto, appare confermata dalla circostanza che il legislatore non ha voluto approntare una disciplina di diritto transitorio, l’unica che in tale quadro avrebbe potuto medio tempore derogare al rigido parametro temporale di riferimento ora previsto dall’ordinamento (ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit).
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3. Venendo al merito del ricorso deve procedersi all’esame del primo motivo con il quale i ricorrenti ritengono che il potere amministrativo di annullamento degli atti debba ritenersi precluso dal decorso del termine di 18 mesi di cui all’articolo 21-nonies l. 241/1990 nella versione attuale, ritenuta vigente ratione temporis anche in considerazione dell’impossibilità di far decorrente il dies a quo dalla data di emanazione dell’ultimo permesso in variante.
Replica il Comune osservando che il termine in esame non decorre in caso di falsa rappresentazione delle circostanze di fatto poste a fondamento del titolo, da individuarsi nel fatto che “le domande presentate per ottenere i titoli edilizi rilasciati […] evidenzia[no] circostanze non coerenti con quanto effettivamente progettato, non fosse altro per il fatto che l’altezza dell’edificio in progetto era indicata in mt. 8 (oppure non era neppure indicata)”.
3.1. Entrando in medias res, il Collegio osserva, in primo luogo, come la previsione di cui all’articolo 21-nonies della l. 241/1990 segni il definitivo superamento dell’originaria teorica dell’inconsumabilità del potere di autotutela (o di quella che un risalente orientamento definisce “la perennità della potestà amministrativa di annullare in via di autotutela gli atti invalidi” – in tal senso: Consiglio di Stato, sez. II, 07.06.1995, n. 2917/94), invero, già ampiamente rivisitata dall’evoluzione dell’ordinamento pubblicistico che, come evidenziato da Consiglio di Stato, ad. plen. 17.10.2017, n. 8, si muove in chiave di maggiore protezione per i soggetti incisi dall’esplicazione del potere di autotutela temperando il richiamato principio di perennità e predicando, invece, la necessità che l’annullamento e la revoca intervengano entro un termine ragionevole (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI, 15.11.1999, n. 1812; id., sez. V, 20.08.1996, n. 939).
3.2. La previsione normativa che, come spiegato, recepisce in parte le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza, prevede testualmente: “1. Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse all'adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo.
2. È fatta salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole.
2-bis. I provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall'amministrazione anche dopo la scadenza del termine di diciotto mesi di cui al comma 1, fatta salva l'applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28.12.2000, n. 445
”.
3.3. Con specifico riferimento ai titoli edilizi, la giurisprudenza declina il dato normativo sopra riportato evidenziando come i presupposti per l’esercizio del potere di annullamento d'ufficio devono individuarsi nell'illegittimità originaria del titolo e nell'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione, diverso dal mero ripristino della legalità, da compararsi con i contrapposti interessi dei privati, entro un termine ragionevole (che l’articolo 6 della l. 07.08.2015, n. 124 fissa, da ultimo, in diciotto mesi) (TAR per la Campania – sede di Napoli, sez. VIII, 28.08.2018, n. 5276).
3.4. In relazione alla questione relativa al termine di 18 mesi in ultimo richiamato si pone una questione di diritto intertemporale atteso che il provvedimento di annullamento in autotutela –adottato nella vigenza della nuova disposizione- si riferisce a due permessi emessi nella vigenza della precedente disposizione.
In particolare, sia il permesso di costruire n. 143/2014 che il permesso n. 4272015 sono adottati prima dell’entrata in vigore della modifica apportata dall’articolo 6, comma 1, lettera d), numero 1), della legge 07.08.2015, n. 124. E’, invece, emanato dopo l’entrata in vigore della modifica normativa in esame il permesso di costruire n. 92/2015 del 23.09.2015, anch’esso annullato dal provvedimento in esame.
3.5. Sul punto, si evidenzia che, secondo un primo orientamento giurisprudenziale, la norma introdotta dalla legge 07.08.2015, n. 124 è applicabile in ogni caso in cui il provvedimento di autotutela sia intervenuto successivamente alla novella legislativa, ancorché riguardi un titolo abilitativo rilasciato sotto il regime precedente (ex plurimis: TAR per la Puglia, sede di Bari, Sez. III, 17.03.2016, n. 351; TAR per la Campania, sede di Napoli, Sez. III, 22.09.2016, n. 4373; TAR per la Campania, sede di Napoli, Sez. VIII, 04.01.2017, n. 65; TAR per il Lazio, sede di Roma, Sez. I-bis, 21.02.2017, n. 2670; TAR per la Sardegna, Sez. I, 07.02.2017, n. 92).
3.6. Secondo un indirizzo di segno opposto, ai fini dell’applicazione della regola del tempus regit actum (art. 11 delle preleggi), l’atto di autotutela dovrebbe considerarsi non un provvedimento autonomo bensì un atto rientrante nel procedimento aperto dall’atto di primo grado, con conseguente insensibilità del procedimento amministrativo alle norme giuridiche nel frattempo sopravvenute.
A sostegno della tesi in esame si osserva che la “modifica non ha carattere interpretativo dell’inciso che precede (“entro un termine ragionevole”) perché, se così fosse, si dovrebbe considerare comunque e sempre “ragionevole” l’autoannullamento effettuato dall’amministrazione entro 18 mesi: mentre, invece, nulla vieta di ritenere irragionevole anche un provvedimento in autotutela adottato entro il predetto termine. Ma nemmeno può attribuirsi ad esso carattere sanante dei provvedimenti illegittimi rilasciati precedentemente ai 18 mesi antecedenti all’entrata in vigore della norma, giacché un tale obiettivo mal si concilia con la dichiarata finalità di semplificazione procedimentale della norma in questione (cfr. il titolo del capo I della l. n. 124 del 2015).
La norma in esame ha, dunque, sicuramente carattere innovativo, sicché si applica solo ai provvedimenti adottati successivamente alla sua entrata in vigore: ora, tenendo conto che la disposizione riguarda soltanto provvedimenti di secondo grado e che, come evidenziato, non ha valenza sanante dei provvedimenti (di primo grado) emessi antecedentemente ai 18 mesi precedenti alla sua entrata in vigore, tale disposizione –che introduce un regime temporale rigido di annullabilità dell’atto amministrativo– non può che riferirsi ai provvedimenti in autotutela di provvedimenti di primo grado adottati successivamente alla vigenza della legge.
Depone in favore di tale interpretazione la stessa lettera della norma che, assumendo che l’annullamento in autotutela deve disporsi entro un termine “comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione”, afferma, in buona sostanza, che l’atto di secondo grado non potrà essere emanato dopo diciotto mesi dal momento dell’adozione –momento che, attesa l’innovatività della norma, non può che essere successivo alla sua entrata in vigore– del provvedimento di autorizzazione (di primo grado)
” (TAR per la Campania – sede di Napoli, sez. II, 12.09.2016, n. 4229).
3.7. La prevalente giurisprudenza del Consiglio di Stato -inaugurata dalla sentenza della V sezione, del 19.01.2017, n. 250– evidenzia che il termine dei diciotto mesi non può applicarsi in via retroattiva, nel senso di computare anche il tempo decorso anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 124 del 2015, atteso che tale esegesi, oltre a porsi in contrasto con il generale principio di irretroattività della legge (art. 11 preleggi), finirebbe per limitare in maniera eccessiva ed irragionevole l’esercizio del potere di autotutela amministrativa.
Si arriverebbe infatti all’irragionevole conseguenza per cui, con riguardo ai provvedimenti adottati diciotto mesi prima dell’entrata in vigore della nuova norma, l’annullamento d’ufficio sarebbe, per ciò solo, precluso. Ne consegue che, rispetto ai provvedimenti illegittimi (di primo grado) adottati anteriormente all’attuale versione dell’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990, il termine dei diciotto mesi non può che cominciare a decorrere dalla data di entrata in vigore della nuova disposizione.
3.7. Il Collegio ritiene di aderire all’orientamento secondo cui le nuove disposizioni trovano applicazione “solo ai provvedimenti di annullamento in autotutela che abbiano ad oggetto provvedimenti che siano, anch'essi, successivi all'entrata in vigore della nuova disposizione” (TAR per il Lazio – sede di Roma, sez. I-bis, 02.07.2018, n. 7272).
Va, infatti, considerato che la nuova disposizione ancora l’esercizio del potere al momento di emanazione del primo atto ponendo, quindi, una limitazione temporale calibrata proprio sul provvedimento che l’atto di secondo grado rimuove. La generalizzata applicazione del termine dalla data di entrata in vigore della legge 124 del 2015 muta il presupposto fondante su cui poggia la previsione imponendo, in ogni caso, l’adozione dell’atto di autotutela –per i provvedimenti già emessi prima del 28.08.2015– necessariamente entro i 18 mesi decorrenti da tale data. In tal modo, però, si altera la ratio della norma nella sua applicazione nella dinamica intertemporale, trasformando la stessa in un termine generale di definizione di tutti i provvedimenti di secondo grado, relativi ad atti già adottati prima della novella.
Aderendo alla tesi pur autorevolmente patrocinata da parte della giurisprudenza, l’Amministrazione risulterebbe, in sostanza, onerata di una verifica di tutti i provvedimenti già adottati da consumarsi entro un generale termine di 18 mesi onde non vedersi precludere la possibilità di successiva rimozione. In tal modo, però, per gli atti adottati prima della novella il termine di decorrenza dei 18 mesi non risulta più fondarsi sulla data di emanazione del singolo atto –come espressamente disposto dalla norma– ma, al contrario, sulla data di entrata in vigore della legge.
Si perviene, così, al risultato di negare la ratio della previsione che, come detto, intende calibrare temporalmente l’atto di esercizio del potere sul provvedimento da rimuovere. L’interpretazione che appare, pertanto, maggiormente acconcia al dato letterale e alla specifica ratio legis è quella che ancora le nuove disposizioni all’esercizio del potere su atti emanati dopo l’entrata in vigore della nuova legge.
Conclusione che, del resto, appare confermata dalla circostanza che il legislatore non ha voluto approntare una disciplina di diritto transitorio, l’unica che in tale quadro avrebbe potuto medio tempore derogare al rigido parametro temporale di riferimento ora previsto dall’ordinamento (ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit).
3.8. Declinando il principio esposto al caso di specie, deve ritenersi che l’atto di annullamento in autotutela relativo al primo permesso di costruire non può ritenersi illegittimo per intervenuto superamento del termine di 18 mesi, non potendosi applicare, per le ragioni spiegate, la previsione introdotta dalla legge 124 del 2015.
3.9. Permane, ovviamente, la necessità che l’atto di annullamento sia adottato in un termine ragionevole. Circostanza, invero, non contestata da parte dei ricorrenti che fondano il primo motivo esclusivamente sulla ritenuta violazione del termine di 18 mesi.
In ogni caso, osserva il Collegio che il richiamo alla ragionevolezza del termine, non comporta che, decorso un considerevole lasso di tempo dal rilascio del titolo edilizio, sia eliso il potere di annullamento, ma si traduce nella necessità di verificare con peculiare attenzione se l’annullamento risponda ancora a un effettivo e prevalente interesse pubblico di carattere concreto e attuale anche in considerazione al complesso delle circostanze e degli interessi rilevanti.
Inoltre, come autorevolmente insegna l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 8 del 2017, la locuzione “termine ragionevole” richiama evidentemente un concetto non parametrico ma relazionale, riferito al complesso delle circostanze rilevanti nel caso di specie. Si intende con ciò rappresentare che la nozione di ragionevolezza del termine è strettamente connessa a quella di esigibilità in capo all’amministrazione, ragione per cui è del tutto congruo che il termine in questione (nella sua dimensione “ragionevole”) decorra soltanto dal momento in cui l’amministrazione è venuta concretamente a conoscenza dei profili di illegittimità dell’atto.
3.9. Nel caso di specie, l’intervento dell’Amministrazione può ritenersi esercitato in tempo ragionevole tenuto conto dell’opacità delle richieste di permesso di costruire e della documentazione ivi allegata che non chiariscono, in modo inequivoco, come l’intervento consista effettivamente nel superamento dell’altezza di 8 metri. Infatti, che l’altezza dell’edificio esistente sia pari già ad 8 metri è un dato indicato esclusivamente nella tavola n. 3 con l’apposizione di un rigo di misura accanto alla sagoma dell’edificio.
Non si espone, invece, nulla nella relazione tecnica al progetto non chiarendo, pertanto, all’Amministrazione che l’intervento che si intende realizzare comporta un’altezza complessiva superiore a tale limite. Si affida, così, ad una deduzione dell’Amministrazione l’individuazione dell’effettiva consistenza dell’intervento, da effettuarsi sulla base, come detto, di un’indicazione accennata accanto al disegno della sagoma.
Circostanze che rendono, quindi, “esigibile” l’intervento dell’Amministrazione solo all’esito di un’analitica verifica non agevolata dalla parte privata che, al contrario, omette di chiarire in modo espresso (come sarebbe imposto da quei doveri di buona fede e correttezza che permeano i rapporti con l’Amministrazione anche dal lato del privato) l’altezza che l’edifico complessivo raggiunge in caso di accoglimento delle proprie istanze.
3.10. In conclusione, il primo motivo di ricorso deve rigettarsi in quanto infondato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 03.10.2018 n. 2200 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli atti volti a sanzionare gli abusi di edilizi non debbono essere preceduti dall’avviso di avvio del procedimento, e ciò in quanto l’attività di repressione di tali abusi si caratterizza per essere urgente e strettamente vincolata.
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4.2. Parimenti infondata è la seconda censura ove si tenga conto che il provvedimento sanzionatorio è consequenziale alla rimozione parziale del titolo.
Opera, pertanto, il consolidato principio giurisprudenziale secondo cui gli atti volti a sanzionare gli abusi di edilizi non debbono essere preceduti dall’avviso di avvio del procedimento, e ciò in quanto l’attività di repressione di tali abusi si caratterizza per essere urgente e strettamente vincolata (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI, 18.01.2018, n. 289; TAR per la Campania – sede di Napoli, sez. IV, 03.05.2017, n. 2320; nella giurisprudenza di questa sezione v., da ultimo, TAR Lombardia, sede di Milano, sez. II, 15.03.2018, n. 732) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 03.10.2018 n. 2200 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Per costante giurisprudenza, l’obbligo di esame delle memorie e dei documenti difensivi presentati dagli interessati nel corso dell’iter procedimentale, non impone all’amministrazione una formale ed analitica confutazione di ogni argomento utilizzato, essendo sufficiente, alla luce dell’art. 3 della l. 241/1990, un’esternazione motivazionale che renda nella sostanza percepibile la ragione del mancato adeguamento dell’azione amministrativa alle deduzioni partecipative dei privati, come puntualmente avvenuto nella fattispecie.
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5.3. Inammissibile e, comunque, infondata risulta la deduzione secondo cui l’Amministrazione avrebbe omesso di considerare le memorie presentate dai danti causa degli attuali ricorrenti. Infatti, una simile censura pare proponibile esclusivamente da coloro che hanno presentato le osservazioni, non potendosi lamentare della loro omessa considerazione una parte estranea alla formazione delle stesse.
In ogni caso, si evidenzia come, per costante giurisprudenza, l’obbligo di esame delle memorie e dei documenti difensivi presentati dagli interessati nel corso dell’iter procedimentale, non impone all’amministrazione una formale ed analitica confutazione di ogni argomento utilizzato, essendo sufficiente, alla luce dell’art. 3 della l. 241/1990, un’esternazione motivazionale che renda nella sostanza percepibile la ragione del mancato adeguamento dell’azione amministrativa alle deduzioni partecipative dei privati, come puntualmente avvenuto nella fattispecie (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 29.05.2012, n. 3210; Consiglio di Stato, Sez. V, 13.10.2010, n. 7472; TAR per la Campania, sede di Napoli, Sez. III, 08.06.2016. n. 2885; TAR per la Campania, sede di Napoli, Sez. IV, 15.09.2011, n. 4402) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 03.10.2018 n. 2200 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’uso di un sigillo in ceralacca non può ritenersi strumento esclusivo indispensabile per impedirne la manomissione (apertura + richiusura) a plico inalterato, costituendo invero l’apposizione dei timbri e la controfirma sul lembo di chiusura –da intendersi quale imboccatura della busta soggetta ad operazione di chiusura a sé stante, talché è sufficiente che l’adempimento formale imposto alle imprese concorrenti venga limitato ai lembi della busta chiusi dall’utilizzatore, con esclusione di quelli preincollati dal fabbricante– una modalità di sigillatura di per sé idonea a prevenire eventuali manomissioni.
Soccorre al riguardo anche il principio di tassatività delle cause di esclusione dalla gara, oggi formulato nell’art. 83, comma 8, codice appalti, ed in precedenza esplicitato dall'articolo 46, comma 1-bis, del codice dei contratti che, per quanto qui interessa, nell’ipotesi di irregolare chiusura dei plichi contenenti le offerte o le domande di partecipazione, prevedeva che “(…) la stazione appaltante esclude i candidati o i concorrenti (…) in caso di non integrità del plico contenente l'offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte (…)".
Anche il giudice di appello ha avuto modo di affermare che la clausola della lex specialis va letta alla luce del criterio valutativo introdotto dal comma 1-bis dell'art. 46 del Codice dei contratti, in maniera non formalistica al fine di garantire la massima partecipazione alla gara, per cui ha ritenuto necessaria e sufficiente una modalità di sigillatura del plico tale da impedire che il plico possa essere aperto e manomesso senza che ne resti traccia visibile.
Ne deriva che, anche in caso di mancata osservanza pedissequa e cumulativa di ciascuna delle singole modalità di chiusura contemplate dal disciplinare di gara, deve ritenersi preclusa l'esclusione di un'impresa concorrente in presenza di una modalità di sigillatura comunque idonea a garantire l'ermetica e inalterabile chiusura del plico.
A tal fine, l'uso di un sigillo in ceralacca non può ritenersi strumento esclusivo indispensabile per impedirne la manomissione (apertura + richiusura) a plico inalterato, costituendo invero l'apposizione dei timbri e la controfirma sul lembo di chiusura - una modalità di sigillatura di per sé idonea a prevenire eventuali manomissioni.
Tra l’altro anche l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture con il parere n. 54 del 04/04/2012 era già intervenuta sull'argomento precisando che “la previsione da parte dell'atto di indizione di un qualsiasi procedimento di evidenza pubblica, che impone la presentazione da parte dei concorrenti del plico e/o delle buste sigillati, risponde alla ratio di garantire, oltre ogni ragionevole dubbio, la genuinità e/o integrità dell'offerta, cioè la possibilità di evitare eventuali sostituzioni dell'offerta, che può essere assicurata soltanto se la sigillatura sia tale da impedire che il plico possa essere aperto, senza che ne resti traccia visibile, e possa essere anche solo teoricamente manomesso. La disposizione di cui all’art. 83, co. 8, codice appalti vigente va letta pertanto in continuità ermeneutica con la norma di cui all’art. 46, comma 1-bis, d.lgs. n. 163 del 2006 ove si esplicitava che le irregolarità relative alla chiusura dei plichi, diverse dalla non integrità del plico contenente l’offerta o la domanda di partecipazione, sono causa di esclusione solo se sono tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte (nel caso di specie, non risulta che tale valutazione in concreto sia stata fatta ma anzi risulta che la busta sia sostanzialmente integra)".
La disposizione precitata in realtà codifica l’orientamento sostanzialista già invalso nella più recente giurisprudenza amministrativa, per cui le cause di esclusione dalla gara, in quanto limitative della libertà di concorrenza, devono essere ritenute di stretta interpretazione, senza possibilità di estensione analogica, con la conseguenza che, in caso di equivocità delle disposizioni che regolano lo svolgimento della gara, deve essere preferita quell’interpretazione che, in aderenza ai criteri di proporzionalità e ragionevolezza, eviti eccessivi formalismi e illegittime restrizioni alla partecipazione.
Infatti l’art. 83, co. 8, secondo e terzo periodo, del D.Lgs. n. 50/2016 non sembra voler introdurre una disciplina innovativa del principio di tassatività delle cause di esclusione già enunciato dall’art. 46, co. 1-bis, del D.Lgs. n. 163/2006, del quale costituisce la sostanziale riproduzione.
In riferimento al principio di tassatività delle cause di esclusione, sancito dal comma 8 dell’articolo 83 del D.Lgs. n. 50/2016, il Collegio ribadisce che la finalità di tale principio è quella di ridurre gli oneri formali gravanti sulle imprese partecipanti alle procedure di affidamento, così privando di rilievo giuridico tutte le ragioni di esclusione dalle gare incentrate non sugli aspetti qualitativi della dichiarazione negoziale, ma sulle forme con cui questa viene esternata, in quanto non ritenute conformi a quelle previste dalla stazione appaltante nella lex specialis.
Dal tenore della citata disposizione si evince che il Legislatore ha inteso con essa evitare esclusioni per violazioni meramente formali, costituendo “cause di esclusione” soltanto i vizi radicali ritenuti tali da espresse previsioni di legge, così consentendo che si possa escludere una concorrente dalla gara pubblica, solo nel caso in cui le irregolarità accertate riguardo alla chiusura dei plichi e delle buste in esso contenute siano “…tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte…”, con conseguente previsione, nei casi che si pongono al di fuori dell’ambito descritto dalla norma, di nullità delle clausole dei bandi di gara che dispongono diversamente da essa.
Ove peraltro la clausola del disciplinare dovesse intendersi tale da richiedere, a pena di esclusione, che tanto il plico esterno che le buste interne debbano essere sigillati con ceralacca, o nastro adesivo e controfirmati e timbrati su tutti i lembi di chiusura, la stessa andrebbe ritenuta nulla e da disapplicare, dovendosi intendere nel senso conforme a legge ossia nel senso che le irregolarità considerate possono determinare l’esclusione solo qualora le modalità di chiusura adoperate dal concorrente siano concretamente idonee a rendere possibile la manomissione del contenuto.
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Nella specie, ove non è contestato che l’irregolarità commessa dalla ricorrente (chiusura della busta contenente la documentazione con colla anziché mediante ceralacca o altra striscia plasticata incollata) non abbia dato adito, in concreto, a ritenere che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte, atteso che, nelle motivazioni dell’esclusione, la stessa stazione appaltante ha rilevato che l’irregolarità accertata consiste unicamente nella chiusura della busta della ricorrente mediante incollaggio, deve ritenersi conseguito il sostanziale riscontro, a contrario, in ordine all’effettiva chiusura ed integrità della busta.
La soluzione sostanzialistica della questione espressamente prevista dall’art. 46, comma 1-bis, del D.Lgs. n. 163 del 2006, e in linea di continuità ricavabile in via ermeneutica in seno all’art. 83, comma 8, nuovo codice appalti, richiede affinché possa considerarsi legittima la statuizione di esclusione dalla gara pubblica, in presenza di irregolarità riguardanti la chiusura dei plichi e delle buste da presentare alla stazione appaltante, la sussistenza di “circostanze concrete”, tali da far ritenere possibile la manomissione dell’involucro cartaceo (quali sono, ad esempio, segni tangibili di tale fatto abrasioni, lacerazioni, piegature anomale della busta).
Le considerazioni dianzi svolte risultano inoltre confermate da autorevole giurisprudenza che si è pronunciata in un caso similare, secondo cui: “…deve ritenersi necessaria e sufficiente una modalità di sigillatura del plico tale da impedire che il plico potesse essere aperto e manomesso senza che ne restasse traccia visibile. Ne deriva che, anche in caso di mancata osservanza pedissequa e cumulativa di ciascuna delle singole modalità di chiusura contemplate dal disciplinare di gara, deve ritenersi preclusa l’esclusione di un’impresa concorrente in presenza di una modalità di sigillatura comunque idonea a garantire l’ermetica e inalterabile chiusura del plico…”.
Ed ancora si è stabilito che “Il principio di tassatività delle cause di esclusione, di cui all’art. 46 D.Lgs. n. 163 del 2006, che rappresenta la specificazione dei principi di proporzionalità e del favor partecipationis, propri delle procedure ad evidenza pubblica, ha carattere cogente, con conseguente illegittimità delle clausole della lex specialis con esso contrastante".
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Come specificato nella memoria della ricorrente depositata il 22.09.2018, sussiste un interesse attuale e concreto alla decisione del presente ricorso, in quanto il verbale di gara del 11.09.2018, depositato dalla stessa in atti, ha ammesso la ricorrente con riserva al prosieguo delle operazioni di gara, in considerazione della ordinanza cautelare di questo TAR.
Peraltro detto verbale di gara contiene rilievo di ulteriori carenze della documentazione di gara prodotta dalla ricorrente, per cui attiva in proposito il meccanismo del soccorso istruttorio.
E’ appena il caso di rilevare che la presente pronuncia afferisce unicamente alla esclusione disposta in ragione della mancata sigillatura del plico esterno contenente la documentazione di gara, per cui sono salvi gli ulteriori provvedimenti che la stazione appaltante riterrà di adottare all’esito della attivazione del meccanismo del soccorso istruttorio in ragione di quanto rilevato all’esito dell’esame della documentazione contenuta nella busta A- documentazione amministrativa.
Nel merito, e nei sensi sopra chiariti, il ricorso è fondato e merita accoglimento, ritenendo il Collegio che vada confermato l’impianto motivazionale della ordinanza cautelare.
Deve rilevarsi come le irregolarità sulla produzione del plico esterno della ricorrente, ovvero le modalità di chiusura, come risultanti dal verbale della commissione del 31.05.2018, pur non conformi a quanto richiesto dal bando in termini di sigillatura, non sono apparse nel caso concreto tali da escludere l’integrità e la non manomissione del plico stesso.
A tal fine occorre procedere ad attenta ermeneutica dell’art. 12 del disciplinare di gara a mente del quale: “il plico contenente l’offerta, a pena di esclusione, deve essere sigillato e trasmesso a mezzo raccomandata… si precisa che per <<sigillatura>> deve intendersi una chiusura ermetica recante un qualsiasi segno o impronta, apposto su materiale plastico come striscia incollata o ceralacca o piombo, tale da rendere chiusi il plico e le buste, attestare l’autenticità della chiusura originaria proveniente dal mittente, nonché garantire l’integrità e la non manomissione del plico e delle buste”.
Siffatta disposizione, pur specificando le modalità della sigillatura richiesta, a pena di esclusione, va letta in una interpretazione teleologica, che pone l’accento sulla ermeticità della chiusura, ove la apposizione di segno o impronta su materiale plastico quale striscia incollata o ceralacca sono indicate quali modalità esemplificative, ma sempre finalizzate alla realizzazione dello scopo, ovvero tale da rendere chiusi il plico e le buste in modo da: ” …garantire l’integrità e la non manomissione del plico e delle buste”.
Va quindi condiviso il principio, enunciato in giurisprudenza, per cui “l’uso di un sigillo in ceralacca non può ritenersi strumento esclusivo indispensabile per impedirne la manomissione (apertura + richiusura) a plico inalterato, costituendo invero l’apposizione dei timbri e la controfirma sul lembo di chiusura –da intendersi quale imboccatura della busta soggetta ad operazione di chiusura a sé stante, talché è sufficiente che l’adempimento formale imposto alle imprese concorrenti venga limitato ai lembi della busta chiusi dall’utilizzatore, con esclusione di quelli preincollati dal fabbricante– una modalità di sigillatura di per sé idonea a prevenire eventuali manomissioni”.
Soccorre al riguardo anche il principio di tassatività delle cause di esclusione dalla gara, oggi formulato nell’art. 83, comma 8, codice appalti, ed in precedenza esplicitato dall'articolo 46, comma 1-bis, del codice dei contratti che, per quanto qui interessa, nell’ipotesi di irregolare chiusura dei plichi contenenti le offerte o le domande di partecipazione, prevedeva che “(…) la stazione appaltante esclude i candidati o i concorrenti (…) in caso di non integrità del plico contenente l'offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte (…)".
Anche il giudice di appello ha avuto modo di affermare che la clausola della lex specialis va letta alla luce del criterio valutativo introdotto dal comma 1-bis dell'art. 46 del Codice dei contratti, in maniera non formalistica al fine di garantire la massima partecipazione alla gara, per cui ha ritenuto necessaria e sufficiente una modalità di sigillatura del plico tale da impedire che il plico possa essere aperto e manomesso senza che ne resti traccia visibile.
Ne deriva che, anche in caso di mancata osservanza pedissequa e cumulativa di ciascuna delle singole modalità di chiusura contemplate dal disciplinare di gara, deve ritenersi preclusa l'esclusione di un'impresa concorrente in presenza di una modalità di sigillatura comunque idonea a garantire l'ermetica e inalterabile chiusura del plico.
A tal fine, l'uso di un sigillo in ceralacca non può ritenersi strumento esclusivo indispensabile per impedirne la manomissione (apertura + richiusura) a plico inalterato, costituendo invero l'apposizione dei timbri e la controfirma sul lembo di chiusura - una modalità di sigillatura di per sé idonea a prevenire eventuali manomissioni (Consiglio di Stato, sez. IV, n. 319 del 21.01.2013).
Tra l’altro anche l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture con il parere n. 54 del 04/04/2012 era già intervenuta sull'argomento precisando che “la previsione da parte dell'atto di indizione di un qualsiasi procedimento di evidenza pubblica, che impone la presentazione da parte dei concorrenti del plico e/o delle buste sigillati, risponde alla ratio di garantire, oltre ogni ragionevole dubbio, la genuinità e/o integrità dell'offerta, cioè la possibilità di evitare eventuali sostituzioni dell'offerta, che può essere assicurata soltanto se la sigillatura sia tale da impedire che il plico possa essere aperto, senza che ne resti traccia visibile, e possa essere anche solo teoricamente manomesso.
La disposizione di cui all’art. 83, co. 8, codice appalti vigente va letta pertanto in continuità ermeneutica con la norma di cui all’art. 46, comma 1-bis, d.lgs. n. 163 del 2006 ove si esplicitava che le irregolarità relative alla chiusura dei plichi, diverse dalla non integrità del plico contenente l’offerta o la domanda di partecipazione, sono causa di esclusione solo se sono tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte (nel caso di specie, non risulta che tale valutazione in concreto sia stata fatta ma anzi risulta che la busta sia sostanzialmente integra)
” (TAR Milano Sez. III, 02/04/2015, n. 880).
La disposizione precitata in realtà codifica l’orientamento sostanzialista già invalso nella più recente giurisprudenza amministrativa, per cui le cause di esclusione dalla gara, in quanto limitative della libertà di concorrenza, devono essere ritenute di stretta interpretazione, senza possibilità di estensione analogica (cfr., C.d.S., Sez. V, sentenza n. 2064/2013), con la conseguenza che, in caso di equivocità delle disposizioni che regolano lo svolgimento della gara, deve essere preferita quell’interpretazione che, in aderenza ai criteri di proporzionalità e ragionevolezza, eviti eccessivi formalismi e illegittime restrizioni alla partecipazione (cfr., TAR Lombardia–Milano, Sez. IV, sentenza n. 208/2017).
Infatti l’art. 83, co. 8, secondo e terzo periodo, del D.Lgs. n. 50/2016 non sembra voler introdurre una disciplina innovativa del principio di tassatività delle cause di esclusione già enunciato dall’art. 46, co. 1-bis, del D.Lgs. n. 163/2006, del quale costituisce la sostanziale riproduzione (secondo quanto ritenuto anche dalle indicazioni della commissione speciale CdS Parere 855 del 01.04.2016).
In riferimento al principio di tassatività delle cause di esclusione, sancito dal comma 8 dell’articolo 83 del D.Lgs. n. 50/2016, il Collegio ribadisce che la finalità di tale principio è quella di ridurre gli oneri formali gravanti sulle imprese partecipanti alle procedure di affidamento, così privando di rilievo giuridico tutte le ragioni di esclusione dalle gare incentrate non sugli aspetti qualitativi della dichiarazione negoziale, ma sulle forme con cui questa viene esternata, in quanto non ritenute conformi a quelle previste dalla stazione appaltante nella lex specialis (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 15/09/2017, n. 4350).
Dal tenore della citata disposizione si evince che il Legislatore ha inteso con essa evitare esclusioni per violazioni meramente formali, costituendo “cause di esclusione” soltanto i vizi radicali ritenuti tali da espresse previsioni di legge, così consentendo che si possa escludere una concorrente dalla gara pubblica, solo nel caso in cui le irregolarità accertate riguardo alla chiusura dei plichi e delle buste in esso contenute siano “…tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte…”, con conseguente previsione, nei casi che si pongono al di fuori dell’ambito descritto dalla norma, di nullità delle clausole dei bandi di gara che dispongono diversamente da essa.
Ove peraltro la clausola del disciplinare dovesse intendersi tale da richiedere, a pena di esclusione, che tanto il plico esterno che le buste interne debbano essere sigillati con ceralacca, o nastro adesivo e controfirmati e timbrati su tutti i lembi di chiusura, la stessa andrebbe ritenuta nulla e da disapplicare, dovendosi intendere nel senso conforme a legge ossia nel senso che le irregolarità considerate possono determinare l’esclusione solo qualora le modalità di chiusura adoperate dal concorrente siano concretamente idonee a rendere possibile la manomissione del contenuto (cfr, in termini TAR L’Aquila (Abruzzo), Sez. I, 05/07/2013, n. 647).
Nella specie, pertanto, ove non è contestato che l’irregolarità commessa dalla ricorrente (chiusura della busta contenente la documentazione con colla anziché mediante ceralacca o altra striscia plasticata incollata) non abbia dato adito, in concreto, a ritenere che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte, atteso che, nelle motivazioni dell’esclusione, la stessa stazione appaltante ha rilevato che l’irregolarità accertata consiste unicamente nella chiusura della busta della ricorrente mediante incollaggio, deve ritenersi conseguito il sostanziale riscontro, a contrario, in ordine all’effettiva chiusura ed integrità della busta.
La soluzione sostanzialistica della questione espressamente prevista dall’art. 46, comma 1-bis, del D.Lgs. n. 163 del 2006, e in linea di continuità ricavabile in via ermeneutica in seno all’art. 83, comma 8, nuovo codice appalti, richiede affinché possa considerarsi legittima la statuizione di esclusione dalla gara pubblica, in presenza di irregolarità riguardanti la chiusura dei plichi e delle buste da presentare alla stazione appaltante, la sussistenza di “circostanze concrete”, tali da far ritenere possibile la manomissione dell’involucro cartaceo (quali sono, ad esempio, segni tangibili di tale fatto abrasioni, lacerazioni, piegature anomale della busta) il che, come sopra rilevato, non è stato contestato.
Le considerazioni dianzi svolte risultano inoltre confermate da autorevole giurisprudenza che si è pronunciata in un caso similare, secondo cui: “…deve ritenersi necessaria e sufficiente una modalità di sigillatura del plico tale da impedire che il plico potesse essere aperto e manomesso senza che ne restasse traccia visibile. Ne deriva che, anche in caso di mancata osservanza pedissequa e cumulativa di ciascuna delle singole modalità di chiusura contemplate dal disciplinare di gara, deve ritenersi preclusa l’esclusione di un’impresa concorrente in presenza di una modalità di sigillatura comunque idonea a garantire l’ermetica e inalterabile chiusura del plico…” (v. Cons. Stato sez. VI, 22/01/2013 n. 319).
Ed ancora si è stabilito che “Il principio di tassatività delle cause di esclusione, di cui all’art. 46 D.Lgs. n. 163 del 2006, che rappresenta la specificazione dei principi di proporzionalità e del favor partecipationis, propri delle procedure ad evidenza pubblica, ha carattere cogente, con conseguente illegittimità delle clausole della lex specialis con esso contrastante" (Cons, St., sez. V, 24.10.2013, n. 5155; 09.09.2013, n. 4471).
La integrità della busta nella specie non è stata in alcun modo posta in discussione in punto di fatto, atteso che la commissione di gara, pur rilevando la mancata sigillatura del plico in violazione del paragrafo 12 del disciplinare di gara, ha proceduto alla apertura del plico stesso -dichiaratamente per mero errore materiale, secondo quanto attestato nel verbale del 31.05.2018- e solo successivamente ha rilevato il mancato rispetto della prescrizione formale del bando.
Pertanto le circostanze del caso specifico denotano da un lato la mancanza di segni prima facie tali da indurre a dubitare della integrità del plico e dall’altro hanno determinato una irreversibile apertura del plico in sede di gara, tale da rendere impraticabile una eventuale istruttoria in proposito, sì che non può predicarsi con certezza una violazione dell’obbligo di segretezza di per sé idonea a giustificare l’esclusione, e deve prevalere il principio del favor participationis.
Sussiste inoltre la lamentata violazione dell’art. 3 legge 241/1990, con riferimento al il provvedimento prot. 4076 del 14.06.2018 di rigetto del preavviso di ricorso, in quanto contenente una integrazione postuma della esclusione, con il rilievo che sul plico dell’offerta fosse stato indicato il solo nominativo della capogruppo.
Inoltre detta ulteriore motivazione, oltre ad essere illegittima in ragione della sua natura postuma, urta egualmente contro il principio di tassatività delle cause di esclusione, atteso che la prescrizione circa la necessità di indicazione dei nominativi di tutti i singoli partecipanti associati non può comportare esclusione in caso di sua inosservanza.
Il ricorso va conclusivamente accolto con annullamento della gravata esclusione (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 02.10.2018 n. 5766 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PATRIMONIO: Sull'atto di diniego della voltura del contratto locatizio.
“In tema di riparto di giurisdizione nelle controversie concernenti gli alloggi di edilizia economica e popolare, sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo quando si controverta dell'annullamento dell'assegnazione per vizi incidenti sulla fase del procedimento amministrativo, fase strumentale all'assegnazione medesima e caratterizzata dall'assenza di diritti soggettivi in capo all'aspirante al provvedimento, mentre sussiste la giurisdizione del giudice ordinario quando siano in discussione cause sopravvenute di estinzione o risoluzione del rapporto locatizio, sottratte al discrezionale apprezzamento dell'amministrazione. Ne consegue che spetta al giudice ordinario la controversia promossa dal familiare dell'assegnatario, deceduto, di alloggio di edilizia economica e popolare, al fine di far accertare il proprio diritto a succedere nel rapporto locatizio” atteso che in tale fase del rapporto sussistono unicamente diritti soggettivi.
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Allorquando si fa riferimento alla fase del rapporto locatizio già insorto dunque dopo la fase pubblicistica questo Tribunale ha sovente declinato la giurisdizione come nel caso di decadenza dalla assegnazione, di subentro, di rilascio e come osservato nella sentenza 26.02.2014, n. 2248 dove è ben chiarito che “… -in base alla disciplina di cui all'art. 33 del d.lgs. 31.03.1998 n. 80, nel testo sostituito dall'art. 7 della legge n. 205 del 2000, come risulta a seguito della sentenza di illegittimità costituzionale parziale n. 204 del 2004- nella materia dell'edilizia residenziale pubblica (pure ricompresa per la finalità sociale che la connota in quella dei servizi pubblici) la giurisdizione del giudice amministrativo non è configurabile nella fase successiva al provvedimento di assegnazione nella quale l'amministrazione opera nell'ambito di un rapporto privatistico di locazione e non esercita poteri autoritativi”.
Nelle sentenze più recenti è stato pure chiarito che tale impostazione non è in contraddizione con l’espressa attribuzione della materia dell’edilizia residenziale pubblica alla giurisdizione del giudice amministrativo, in virtù del sottostante rapporto concessorio ai sensi dell’art. 133 comma 1, lett. b) c.p.a., sol se si ponga mente alla sentenza della Corte Costituzionale 06.07.2004, n. 204 che nel ritenere costituzionalmente illegittimo il riparto di giurisdizione fondato sulla attribuzione al giudice amministrativo di interi settori di materie, anziché sulla distinzione tra le posizioni giuridiche soggettive dell’interesse legittimo e del diritto soggettivo, anche nella materia di servizi pubblici rientranti nella giurisdizione esclusiva del TAR ha ripristinato il riparto di giurisdizione tra giudice amministrativo e giudice ordinario stabilito dalla Costituzione sulla base della posizione giuridica soggettiva lesa.
E’ stato anche approfondito il tema del rapporto che nasce tra un privato che aspira ad un alloggio pubblico ed il Comune che ne è proprietario e si è pervenuti alla conclusione che vada ricondotto alla discussa figura giuridica della concessione-contratto, nella cui tutela però i poteri del giudice amministrativo sono radicati soltanto nella prima fase della individuazione del soggetto con cui l’Amministrazione dovrà stipulare il contratto, a fronte dei quali nascono posizioni di interesse legittimo e che è caratterizzata da atti amministrativi pubblici (quali il bando recante i requisiti per l’assegnazione, la graduatoria e l’assegnazione), laddove una volta stipulato lo stesso sorgono posizioni di diritto soggettivo, con conseguente incardinamento della giurisdizione del giudice ordinario in ordine a tutte le vicende che si verificano quali il rilascio dell’alloggio, lo sgombero, la decadenza, o come nel caso in esame, il subentro.
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1. Con ricorso notificato il 12.9.2005 e depositato l’11.10.2005, parte ricorrente espone di avere presentato, in data 24.09.2002, istanza di voltura del contratto di locazione per l’immobile sito nel Comune di Roma in via ... n. 86, Ed. 5, scala 1, interno 9, di proprietà comunale, a seguito del decesso dell’originario assegnatario, ossia il nonno, Signor Fr. Di Fr., avvenuto in data 22.12.2001 e con lo stesso convivente nell’immobile dal 20.02.1999.
2. L’amministrazione avrebbe adottato il provvedimento impugnato senza un’adeguata istruttoria, sarebbe incorsa in difetto di motivazione, e avrebbe desunto la mancanza dei requisiti previsti per il subentro dall’art. 3, comma 1, lett. B) della Legge Regionale del Lazio 26.06.1987 n. 33, ma considerato che la legge individua quale requisito la “residenza anagrafica” avrebbe erroneamente dichiarato insussistente tale requisito in capo al ricorrente.
3. Il ricorrente afferma di essere residente fin dalla nascita nel Comune di Roma e, con decorrenza dal 20.02.1999, nello stesso immobile di via ... n. 86, scala 1, int. n. 9, in relazione al quale ha presentato la richiesta di voltura.
...
7. Il ricorso, in accoglimento dell’eccezione della difesa comunale, è da dichiarare inammissibile per difetto di giurisdizione del Giudice amministrativo.
8. Il Tribunale si è già occupato numerose volte della questione e specificatamente del diniego di voltura: (TAR Lazio III-quater, 23.03.2016 n. 3592, 24.02.2016 n. 2560, 29.11.2013 n. 10232, 31.10.2013 n. 9333, 24.04.2018 n. 4480/2018).
Anche la Corte di Cassazione ha chiarito che: “In tema di riparto di giurisdizione nelle controversie concernenti gli alloggi di edilizia economica e popolare, sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo quando si controverta dell'annullamento dell'assegnazione per vizi incidenti sulla fase del procedimento amministrativo, fase strumentale all'assegnazione medesima e caratterizzata dall'assenza di diritti soggettivi in capo all'aspirante al provvedimento, mentre sussiste la giurisdizione del giudice ordinario quando siano in discussione cause sopravvenute di estinzione o risoluzione del rapporto locatizio, sottratte al discrezionale apprezzamento dell'amministrazione. Ne consegue che spetta al giudice ordinario la controversia promossa dal familiare dell'assegnatario, deceduto, di alloggio di edilizia economica e popolare, al fine di far accertare il proprio diritto a succedere nel rapporto locatizio” (Cassazione, Sezioni Unite, ord. 09.10.2013, n. 22957) atteso che in tale fase del rapporto sussistono unicamente diritti soggettivi.
Allorquando si fa riferimento alla fase del rapporto locatizio già insorto dunque dopo la fase pubblicistica questo Tribunale ha sovente declinato la giurisdizione come nel caso di decadenza dalla assegnazione, di subentro, di rilascio e come osservato nella sentenza 26.02.2014, n. 2248 dove è ben chiarito che “… -in base alla disciplina di cui all'art. 33 del d.lgs. 31.03.1998 n. 80, nel testo sostituito dall'art. 7 della legge n. 205 del 2000, come risulta a seguito della sentenza di illegittimità costituzionale parziale n. 204 del 2004- nella materia dell'edilizia residenziale pubblica (pure ricompresa per la finalità sociale che la connota in quella dei servizi pubblici) la giurisdizione del giudice amministrativo non è configurabile nella fase successiva al provvedimento di assegnazione nella quale l'amministrazione opera nell'ambito di un rapporto privatistico di locazione e non esercita poteri autoritativi” (TAR Lazio, sez. III-quater, n. 2248/2014 ed anche del tutto analoga: TAR Lazio, sezione III-quater, 26.02.2014, n. 2265 e tutta la giurisprudenza ivi citata: Cons. St., sez. V, 16.05.2011, n. 2949; 11.08.2010, n. 5617; 02.10.2009, n. 5140; sez. IV, 31.03.2009, n. 2001; Cass. civ., S.U., 02.06.1997, n. 4908).
Nelle sentenze più recenti sopra citate è stato pure chiarito che tale impostazione non è in contraddizione con l’espressa attribuzione della materia dell’edilizia residenziale pubblica alla giurisdizione del giudice amministrativo, in virtù del sottostante rapporto concessorio ai sensi dell’art. 133 comma 1, lett. b) c.p.a., sol se si ponga mente alla sentenza della Corte Costituzionale 06.07.2004, n. 204 che nel ritenere costituzionalmente illegittimo il riparto di giurisdizione fondato sulla attribuzione al giudice amministrativo di interi settori di materie, anziché sulla distinzione tra le posizioni giuridiche soggettive dell’interesse legittimo e del diritto soggettivo, anche nella materia di servizi pubblici rientranti nella giurisdizione esclusiva del TAR ha ripristinato il riparto di giurisdizione tra giudice amministrativo e giudice ordinario stabilito dalla Costituzione sulla base della posizione giuridica soggettiva lesa.
E’ stato anche approfondito il tema del rapporto che nasce tra un privato che aspira ad un alloggio pubblico ed il Comune che ne è proprietario e si è pervenuti alla conclusione che vada ricondotto alla discussa figura giuridica della concessione-contratto, nella cui tutela però i poteri del giudice amministrativo sono radicati soltanto nella prima fase della individuazione del soggetto con cui l’Amministrazione dovrà stipulare il contratto, a fronte dei quali nascono posizioni di interesse legittimo e che è caratterizzata da atti amministrativi pubblici (quali il bando recante i requisiti per l’assegnazione, la graduatoria e l’assegnazione), laddove una volta stipulato lo stesso sorgono posizioni di diritto soggettivo, con conseguente incardinamento della giurisdizione del giudice ordinario in ordine a tutte le vicende che si verificano quali il rilascio dell’alloggio, lo sgombero, la decadenza, o come nel caso in esame, il subentro.
Nel caso in esame, si verte su un atto di diniego della voltura, che va, dunque, a incidere sulla fase contrattuale regolativa del rapporto intrattenuto dal dante causa del ricorrente con l’amministrazione comunale e non piuttosto sulla fase prodromica all’assegnazione dell’alloggio che incardinerebbe la giurisdizione del giudice amministrativo, atteso che in essa sono spesi poteri discrezionali dell’Amministrazione generativi di interessi legittimi.
Pertanto, ai sensi dell’art. 11 del Codice del Processo Amministrativo,
il ricorso va dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice adito e va ritenuta la giurisdizione del giudice ordinario dinanzi al quale la controversia andrà riassunta nel termine perentorio di tre mesi da passaggio in giudicato della presente sentenza, fatti salvi gli effetti processuali e sostanziali della domanda (TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 28.09.2018 n. 9648 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Nel caso di impugnazione di strumenti urbanistici, anche particolareggiati, o di loro varianti, il semplice rapporto di vicinitas, se dimostra la sussistenza di una generica legitimatio ad causam, non è però sufficiente a fondare anche l'interesse a ricorrere, occorrendo l'allegazione e la prova di uno specifico e concreto pregiudizio riveniente ai suoli in proprietà degli istanti per effetto degli atti di pianificazione impugnati, dai quali, per definizione, quei suoli non sono incisi direttamente.
Tale pregiudizio non può risolversi nel generico pregiudizio all'ordinato assetto del territorio, alla salubrità dell'ambiente e ad altri valori la cui fruizione potrebbe essere rivendicata da qualsiasi soggetto residente, anche non stabilmente, nella zona interessata dalla pianificazione.
Oltre tutto, porrebbe l'ulteriore problema di individuare il limite al di là del quale non si sia più in presenza di una lesione specifica e differenziata, ma di un pregiudizio assimilabile a quello che qualsiasi cittadino potrebbe lamentare.
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La giurisprudenza è costante nel ritenere che la decorrenza del termine per l'impugnazione delle delibere di adozione e di approvazione d'un Piano urbanistico decorra dalla conoscenza di tali provvedimenti, che si presume avvenuta mediante la pubblicazione di essi nelle forme di legge.
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8. In primo luogo ritiene il Collegio di dovere esaminare la rinuncia al ricorso di Ma. e Se.Gr.. L’atto di rinuncia ha ad oggetto solo il ricorso e non espressamente anche gli atti di motivi aggiunti. Risulta, inoltre, notificato al Comune costituito in giudizio e alla Regione Lazio, non all’ulteriore controinteressato evocato in giudizio in tutti gli atti introduttivi (Ca.Fe.) né all’Ed.Fi. a cui è stato notificato il secondo atto di motivi aggiunti.
Tale atto di rinuncia non corrisponde integralmente alle previsioni dell’art. 84 c.p.a., in particolare del comma 3 dell’art. 84 per cui “La rinuncia deve essere notificata alle altre parti almeno dieci giorni prima dell'udienza. Se le parti che hanno interesse alla prosecuzione non si oppongono, il processo si estingue”.
Deve dunque essere considerata, ai sensi dell’art. 84, comma 4, per cui, “anche in assenza delle formalità di cui ai commi precedenti il giudice può desumere dall'intervento di fatti o atti univoci dopo la proposizione del ricorso ed altresì dal comportamento delle parti argomenti di prova della sopravvenuta carenza d'interesse alla decisione della causa”.
Sulla base di tale disposizione deve esser dunque dichiarata la improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse per i ricorrenti Ma. e Se.Gr. per il ricorso introduttivo e per i due atti di motivi aggiunti.
9. In via preliminare, devono essere esaminate la varie eccezioni di irricevibilità e inammissibilità proposte dalla difesa comunale avverso il ricorso introduttivo e i due atti di motivi aggiunti.
Si può prescindere dall’esame del concreto ed attuale interesse dei ricorrenti alle impugnazioni, avendo gli stessi, anche in relazione alla genericità delle censure, sostanzialmente fatto valere nel presente giudizio il medesimo interesse che li legittimava alla presentazione delle osservazioni nel corso del procedimento (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 12.05.2014, n. 2403, secondo cui nel caso di impugnazione di strumenti urbanistici, anche particolareggiati, o di loro varianti, il semplice rapporto di vicinitas, se dimostra la sussistenza di una generica legitimatio ad causam, non è però sufficiente a fondare anche l'interesse a ricorrere, occorrendo l'allegazione e la prova di uno specifico e concreto pregiudizio riveniente ai suoli in proprietà degli istanti per effetto degli atti di pianificazione impugnati, dai quali, per definizione, quei suoli non sono incisi direttamente; tale pregiudizio -si è aggiunto- non può risolversi nel generico pregiudizio all'ordinato assetto del territorio, alla salubrità dell'ambiente e ad altri valori la cui fruizione potrebbe essere rivendicata da qualsiasi soggetto residente, anche non stabilmente, nella zona interessata dalla pianificazione, e che, oltre tutto, porrebbe l'ulteriore problema di individuare il limite al di là del quale non si sia più in presenza di una lesione specifica e differenziata, ma di un pregiudizio assimilabile a quello che qualsiasi cittadino potrebbe lamentare).
Ciò posto, deve essere comunque dichiarata irricevibile l’impugnazione proposta con il secondo atto di motivi aggiunti avverso la delibera della Regione Lazio n. 436 del 2016, con cui è stato approvato il piano, ai sensi della legge regionale n. 36 del 1987.
La delibera è stata pubblicata sul bollettino ufficiale della Regione Lazio l’11.08.2016; il secondo atto di motivi aggiunti è stato notificato al Comune e alla Regione il 02.05.2017, più di otto mesi dopo la pubblicazione sul bollettino ufficiale della Regione.
La giurisprudenza è costante nel ritenere che la decorrenza del termine per l'impugnazione delle delibere di adozione e di approvazione d'un Piano urbanistico decorra dalla conoscenza di tali provvedimenti, che si presume avvenuta mediante la pubblicazione di essi nelle forme di legge (Consiglio di Stato, sez. IV, 15.04.2016, 10.02.2010, n. 663).
Nel caso di specie, inoltre, risulta agli atti del giudizio anche la prova effettiva della conoscenza di tale delibera; infatti, la stessa parte ricorrente ha depositato in giudizio la nota del 07.11.2016 (documento n. 35), indirizzata al Comune, in cui il difensore sollecita il recepimento delle prescrizioni regionali richiamando espressamente la delibera n. 436 del 2016.
Ne deriva la tardività della impugnazione del piano approvato dalla Regione Lazio (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 28.09.2018 n. 9643 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La deliberazione di controdeduzione alle osservazioni presentate, per costante giurisprudenza, non è un atto autonomamente impugnabile, trattandosi di un atto endoprocedimentale relativo alla fase delle osservazioni all’interno del procedimento di adozione ed approvazione del piano.
La fase delle controdeduzioni del Comune alle osservazioni dei privati è meramente interna al procedimento di adozione dello strumento urbanistico e priva di effetti immediati, con la conseguenza che l'impugnativa degli atti di questa fase risulta inammissibile, dovendo eventuali doglianze essere fatte valere solo nei confronti della delibera di approvazione del piano urbanistico generale.
Nel sistema della legislazione urbanistica statale ed in quello regionale i soli atti del procedimento di formazione del PRG dotati di rilevanza esterna, e come tali autonomamente impugnabili, sono la deliberazione comunale di adozione ed il provvedimento regionale di approvazione e non, invece, l'atto con cui il Comune controdeduce alle osservazioni, trattandosi di atto privo di contenuto provvedimentale, che assolve ad una mera funzione endoprocedimentale, ad un tempo consultiva e propositiva nei confronti della Regione, cui compete la pronunzia definitiva sulle osservazioni in sede di approvazione del piano e ciò anche quando nuove determinazioni siano state assunte in tale fase, quale risultato dell'esame delle osservazioni presentate, essendo le stesse idonee ad acquisire contenuto precettivo solo all'esito della loro assunzione nel piano definitivamente approvato dalla Regione.
Ne consegue che l'impugnazione della delibera di reiezione delle osservazioni ad una variante del PRG è inammissibile, potendo le relative doglianze essere fatte valere solo nei confronti della delibera di approvazione del piano stesso.
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10. Deve essere dichiarata inammissibile l’impugnazione proposta con il primo atto di motivi aggiunti e riproposta con nuove censure nel secondo atto di motivi aggiunti della delibera n. 7 del 17.03.2014 con cui il Consiglio comunale ha approvato le controdeduzioni alle osservazioni.
Tale delibera, per costante giurisprudenza, non è un atto autonomamente impugnabile, trattandosi di un atto endoprocedimentale relativo alla fase delle osservazioni all’interno del procedimento di adozione ed approvazione del piano. La fase delle controdeduzioni del Comune alle osservazioni dei privati è meramente interna al procedimento di adozione dello strumento urbanistico e priva di effetti immediati, con la conseguenza che l'impugnativa degli atti di questa fase risulta inammissibile, dovendo eventuali doglianze essere fatte valere solo nei confronti della delibera di approvazione del piano urbanistico generale.
Nel sistema della legislazione urbanistica statale ed in quello regionale i soli atti del procedimento di formazione del PRG dotati di rilevanza esterna, e come tali autonomamente impugnabili, sono la deliberazione comunale di adozione ed il provvedimento regionale di approvazione e non, invece, l'atto con cui il Comune controdeduce alle osservazioni, trattandosi di atto privo di contenuto provvedimentale, che assolve ad una mera funzione endoprocedimentale, ad un tempo consultiva e propositiva nei confronti della Regione, cui compete la pronunzia definitiva sulle osservazioni in sede di approvazione del piano e ciò anche quando nuove determinazioni siano state assunte in tale fase, quale risultato dell'esame delle osservazioni presentate, essendo le stesse idonee ad acquisire contenuto precettivo solo all'esito della loro assunzione nel piano definitivamente approvato dalla Regione.
Ne consegue che l'impugnazione della delibera di reiezione delle osservazioni ad una variante del PRG -come nel caso di specie- è inammissibile, potendo le relative doglianze essere fatte valere solo nei confronti della delibera di approvazione del piano stesso (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 21.08.2009, n. 5002; di recente TAR Campania-Napoli, 05.07.2016, n. 3321; TAR Lazio-Latina, 21.11.2016 n. 736, con particolare riferimento alla legge regionale n. 36 del 1987).
Le censure proposte avverso la reiezione e l’accoglimento delle osservazioni avrebbero dovuto eventualmente essere proposte al momento della tempestiva impugnazione della delibera di approvazione, mentre la delibera regionale è stata impugnata tardivamente (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 28.09.2018 n. 9643 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: La presenza di un controinteressato all'interno del procedimento amministrativo impone l'onere di notifica del ricorso a pena di inammissibilità, ai sensi del citato art. 41, comma 2, c.p.a., trattandosi di un onere minimo imprescindibile per la stessa costituzione del rapporto processuale.
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11. Nel secondo atto di motivi aggiunti vengono, poi, impugnati quali atti conseguenziali anche la delibera del Consiglio comunale n. 34 del 28.07.2015, che ha dato seguito al procedimento di approvazione del piano a seguito delle valutazioni emerse nel corso della VAS, con la redazione del rapporto ambientale e la conclusione della procedura di VAS; la delibera di giunta comunale del 13.12.2016 di approvazione dello schema di convenzione per il permesso di costruire convenzionato alla società MD.
Tali gravami, a prescindere dall’esame della tardività degli stessi per la conoscenza da parte dei ricorrenti prima del 02.03.2017 (sessanta giorni prima della notifica del gravame), sono comunque inammissibili.
La delibera del consiglio comunale n. 34 del 28.07.2015 è infatti atto meramente interno al procedimento di approvazione del piano attuativo, avendo il Comune con tale atto deliberato di adeguarsi a quanto emerso nel corso del procedimento di VAS, di predisporre il rapporto ambientale e di concludere il procedimento VAS richiesto dalla Regione Lazio per l’approvazione del piano.
L’impugnazione della delibera della giunta comunale del 13.12.2016 è inammissibile, non essendo stato notificato tale atto alla società richiedente il permesso di costruire, controinteressato direttamente individuato dal provvedimento impugnato. La presenza di un controinteressato all'interno del procedimento amministrativo impone l'onere di notifica del ricorso a pena di inammissibilità, ai sensi del citato art. 41, comma 2, c.p.a., trattandosi di un onere minimo imprescindibile per la stessa costituzione del rapporto processuale (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 27.01.2015, n. 360; 11.02.2016, n. 594, Tar Lazio, II-ter 17.10.2016, n. 10346) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 28.09.2018 n. 9643 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: In via generale, l'omessa impugnazione della deliberazione approvativa della variante di un piano regolatore generale non determina l'improcedibilità del ricorso proposto contro la delibera comunale di adozione, in quanto l'eventuale annullamento di quest'ultima esplica effetti automaticamente caducanti, e non meramente vizianti, sul successivo provvedimento di approvazione “nella parte in cui lo stesso ha confermato le previsioni già contenute nel piano adottato e fatto oggetto di impugnativa”.
L'omessa impugnazione della deliberazione approvativa della variante di un piano regolatore generale non determina l'improcedibilità del ricorso proposto contro la delibera comunale di adozione, in quanto l'eventuale annullamento di quest'ultima esplica effetti automaticamente caducanti, e non meramente vizianti, sul successivo provvedimento di approvazione. Ciò però, soltanto nella parte in cui lo stesso ha confermato le previsioni già contenute nel piano adottato e fatto oggetto di impugnativa.
Ove dette previsioni fossero state modificate, è evidente che detto effetto caducante non può verificarsi. Il principio ha una portata più generale, e si estende ad ogni fattispecie in cui, nel corso di un procedimento giurisdizionale già avviato, sopravvenga una nuova statuizione amministrativa.
Ove quest'ultima in nulla abbia modificato/innovato con riferimento alla fattispecie controversa, sarebbe inutile e senza ragione onerare il ricorrente della impugnazione dell’atto sopravvenuto, che in nulla immuta la res controversa: e di converso la sentenza intervenuta è idonea a produrre effetti anche in pregiudizio della nuova statuizione amministrativa, in parte qua rimasta immutata.
A specularmente diverse conclusioni, deve giungersi allorché, invece, l'atto sopravvenuto muti il preesistente regime giuridico che aveva dato atto al contenzioso: il mezzo originario dovrebbe essere dichiarato improcedibile, in ipotesi di omessa tempestiva impugnazione di quello superveniens che ha determinato un assetto di interessi diverso, ed in ogni caso la sentenza pronunciata in relazione all'atto pregresso, superato da quello successivo non potrebbe spiegare effetti nei confronti di quest'ultimo.
La improcedibilità insomma, non discende dal miglioramento della situazione dell'originario ricorrente (miglioramento che potrebbe anche mancare) ma dalla rivalutazione della situazione.
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Quanto al ricorso introduttivo avverso la delibera comunale di adozione del piano e alle censure successivamente proposte avverso tale delibera di adozione negli atti di motivi aggiunti (queste ultime anche tardive essendo stata pubblicata la delibera all’albo pretorio fino al 31.07.2013, mentre i motivi aggiunti sono stati inviati alla notifica il 03.06.2014), ritiene il Collegio che si possa prescindere dall’esame della eccezione relativa all’ammissibilità di tale immediata impugnazione (per costante giurisprudenza i piani urbanistici adottati e non approvati sono impugnabili nella misura in cui siano suscettibili di immediata applicazione e immediatamente lesivi della posizione dei ricorrenti, circostanze che non ricorrono nella specie anche in relazione alla genericità delle censure proposte nel ricorso introduttivo), in quanto la mancata tempestiva impugnazione della delibera regionale che ha approvato il piano con specifiche “prescrizioni condizioni e raccomandazioni” nonché la modifica dello stesso piano adottato nel corso del procedimento di approvazione rendono improcedibile il ricorso introduttivo e la censura proposta avverso la delibera di adozione nel primo atto di motivi aggiunti, irricevibile quella formulata nel secondo atto di motivi aggiunti.
Deve infatti, essere richiamato il costante orientamento giurisprudenziale, per cui, in via generale, l'omessa impugnazione della deliberazione approvativa della variante di un piano regolatore generale non determina l'improcedibilità del ricorso proposto contro la delibera comunale di adozione, in quanto l'eventuale annullamento di quest'ultima esplica effetti automaticamente caducanti, e non meramente vizianti, sul successivo provvedimento di approvazione “nella parte in cui lo stesso ha confermato le previsioni già contenute nel piano adottato e fatto oggetto di impugnativa” (Consiglio di Stato sez. IV, 14.07.2014 n. 3654; Consiglio di Stato, sez. IV, 15.02.2013, n. 921).
L'omessa impugnazione della deliberazione approvativa della variante di un piano regolatore generale non determina l'improcedibilità del ricorso proposto contro la delibera comunale di adozione, in quanto l'eventuale annullamento di quest'ultima esplica effetti automaticamente caducanti, e non meramente vizianti, sul successivo provvedimento di approvazione. Ciò però, soltanto nella parte in cui lo stesso ha confermato le previsioni già contenute nel piano adottato e fatto oggetto di impugnativa.
Ove dette previsioni fossero state modificate, è evidente che detto effetto caducante non può verificarsi. Il principio ha una portata più generale, e si estende ad ogni fattispecie in cui, nel corso di un procedimento giurisdizionale già avviato, sopravvenga una nuova statuizione amministrativa.
Ove quest'ultima in nulla abbia modificato/innovato con riferimento alla fattispecie controversa, sarebbe inutile e senza ragione onerare il ricorrente della impugnazione dell’atto sopravvenuto, che in nulla immuta la res controversa: e di converso la sentenza intervenuta è idonea a produrre effetti anche in pregiudizio della nuova statuizione amministrativa, in parte qua rimasta immutata.
A specularmente diverse conclusioni, deve giungersi allorché, invece, l'atto sopravvenuto muti il preesistente regime giuridico che aveva dato atto al contenzioso: il mezzo originario dovrebbe essere dichiarato improcedibile, in ipotesi di omessa tempestiva impugnazione di quello superveniens che ha determinato un assetto di interessi diverso, ed in ogni caso la sentenza pronunciata in relazione all'atto pregresso, superato da quello successivo non potrebbe spiegare effetti nei confronti di quest'ultimo. La improcedibilità insomma, non discende dal miglioramento della situazione dell'originario ricorrente (miglioramento che potrebbe anche mancare) ma dalla rivalutazione della situazione (Consiglio di Stato, sez. IV, 14.05.2014, n. 2499).
Nel caso di specie, il piano è stato modificato nel corso dell’approvazione, in particolare nel corso del procedimento di VAS, come risulta già dalla determina del 28.04.2014 con cui la direzione infrastrutture e ambiente della Regione Lazio ha richiesto che il piano fosse soggetto alla Valutazione ambientale strategica, in relazione alla risultanze dell’istruttoria, che aveva rilevato alcune criticità (carico urbanistico rispetto alle componenti risorse idriche, aria, rifiuti; tutela dei beni paesaggistici), anche sui punti indicati dai ricorrenti nelle osservazioni presentate a seguito dell’adozione e (pur genericamente) nel ricorso introduttivo.
Il Comune, come risulta dagli stessi documenti depositati in giudizio dalla difesa ricorrente, ha modificato gli elaborati del piano, secondo le indicazioni fornite dalla Regione in sede di VAS. La VAS si è, infatti, conclusa il 01.04.2016 con un parere condizionato. Il Comune, con la delibera del consiglio comunale n. 63 del 21.04.2016 (depositata in giudizio dalla stessa difesa ricorrente), ha preso atto dei nuovi elaborati considerandoli congruenti con il recepimento delle condizioni espresse nel parere motivato VAS e ha trasmesso alla Regione i nuovi elaborati per l’approvazione.
La delibera regionale ha approvato il piano “con raccomandazioni, prescrizioni e condizioni”, riportando integralmente anche le condizioni del parere della VAS nonché le prescrizioni del parere della Direzione territorio, urbanistica, mobilità e rifiuti della Regione del 20.07.2016, con modifiche delle NTA (risultanti dall’articolato allegato al parere della direzione regionale territorio, urbanistica e mobilità del 20.07.2016 richiamato nella delibera di approvazione).
Anzi la stessa difesa ricorrente nella già citata nota del 07.11.2016 inviata al Comune (depositata in giudizio) fa riferimento al recepimento delle prescrizioni della Direzione regionale territorio, urbanistica, mobilità e rifiuti con la revisione degli elaborati grafici da parte del Comune e alla circostanza che le raccomandazioni e prescrizioni della Regione Lazio, parte integrante della delibera n. 436 del 2016, “di fatto coincidono proprio con i rilievi mossi al piano dai cittadini che lo hanno impugnato dinanzi al Tar Lazio”.
Ne deriva che la delibera di adozione impugnata con il ricorso introduttivo, nel caso di specie, è stata superata dalla successiva attività procedimentale svolta sia dal Comune che dagli uffici regionali, con conseguente sopravvenuta carenza di interesse alla impugnazione, non essendo stata tempestivamente impugnata la delibera di approvazione del piano da parte della Regione Lazio.
Né, anche a prescindere dalla tardività della impugnazione della delibera regionale, sono state comunque formulate specifiche censure nei confronti del procedimento di approvazione regionale o delle prescrizioni contenute nella delibera di approvazione (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 28.09.2018 n. 9643 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo una consolidata giurisprudenza il proprietario confinante, nella cui sfera giuridica incida dannosamente il mancato esercizio dei poteri repressivi degli abusi edilizi da parte dell'organo preposto, è titolare di un interesse legittimo all'esercizio di detti poteri e può quindi ricorrere avverso l'inerzia dell'organo preposto alla repressione di tali abusi edilizi.
Quindi, a fronte della persistenza in capo all'ente preposto alla vigilanza sul territorio del generale potere repressivo degli abusi edilizi, il vicino che -in ragione dello stabile collegamento con il territorio oggetto dell'intervento- gode di una posizione differenziata, ben può chiedere al Comune di porre in essere i provvedimenti sanzionatori previsti dall'ordinamento, facendo ricorso, in caso di inerzia, alla procedura del silenzio-inadempimento.
Da ciò deriva che il Comune è tenuto, in ogni caso, a rispondere alla domanda con la quale i proprietari di terreni limitrofi a quello interessato da un abuso edilizio chiedono ad esso di adottare atti di accertamento delle violazioni ed i conseguenti provvedimenti repressivi e, ove sussistano le condizioni, anche ad adottare gli stessi.
Alla luce delle argomentazioni che precedono deve, dunque, essere riconosciuta l'illegittimità del silenzio serbato dal Comune sulla diffida inoltrata dal ricorrente, atteso l’obbligo dell’ente locale di concludere il procedimento, in considerazione delle numerose pronunce giurisprudenziali che attribuiscono al proprietario confinante la legittimazione a sollecitare l’adozione di provvedimenti sanzionatori relativi ad opere abusive realizzate nella vicinanza della sua proprietà.
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Il ricorso è in parte improcedibile e in parte fondato.
Stante quanto dichiarato dallo stesso ricorrente non vi è più interesse al ricorso con riferimento dalla domanda di accesso; per la restante parte il ricorso è fondato.
Il ricorrente ha inoltrato al Comune di Casalnuovo di Napoli un atto di diffida con il quale ha chiesto l’adozione degli opportuni provvedimenti sanzionatori nei confronti dei controinteressati.
In tale diffida il ricorrente ha rilevato che i suddetti, rispettivamente proprietario dell’immobile e occupante una porzione dello stesso ove viene svolta attività commerciale analoga alla sua, avrebbero illegittimamente realizzato un soppalco in cemento armato abitabile.
In particolare, tale opera non potrebbe trovare legittimazione nei grafici allegati alla SCIA n. 123 del 02.082012; a tale riguardo anche la DIA del 2001 (nella quale si riferisce di un soppalco per allocare impianti tecnologici e, dunque, non abitabile) non costituirebbe un titolo idoneo dal momento che farebbe a sua volta riferimento a dei permessi di costruire (le autorizzazioni n. 20 del 13.07.2001 e n. 41 dell’11.10.2001) andati smarriti (cfr. denuncia di smarrimento depositata in data 26.07.2018 dal Comune di Casalnuovo di Napoli).
Il Comune nelle proprie difese sostiene che non vi sarebbe alcun obbligo di provvedere sulla diffida del 15.12.2017 in quanto in data 14.09.2015 l’amministrazione avrebbe effettuato tutti i necessari accertamenti.
Osserva di contro il Collegio che, da un lato, alla diffida del 15.12.2017 (successiva all’accertamento degli organi tecnici) il Comune non ha dato alcun riscontro, dall’altro lato, al verbale di accertamento del 14.09.2015 non è seguito alcun provvedimento. Come, peraltro, evidenziato dal ricorrente la legittimità edilizia del soppalco in cemento armato abitabile non emerge dagli atti di causa visto che i permessi di costruire del 2001 sono andati smarriti e sia nella DIA del 2001 sia nella SCIA del 2012 si fa riferimento a un soppalco per allocare impianti tecnologici e non di un soppalco abitabile con un soffitto di circa 3 metri.
Deve aggiungersi che, secondo una consolidata giurisprudenza il proprietario confinante, nella cui sfera giuridica incida dannosamente il mancato esercizio dei poteri repressivi degli abusi edilizi da parte dell'organo preposto, è titolare di un interesse legittimo all'esercizio di detti poteri e può quindi ricorrere avverso l'inerzia dell'organo preposto alla repressione di tali abusi edilizi (ex multis TAR Brescia, sez. I, n. 1205 del 27.07.2011; Cons. St., Sez. IV, 05.01.2011, n. 18; TAR Lazio, Roma, sez. II, n. 6260 del 26.06.2009; Cons. St. Sez. IV, 19.10.2007 n. 5466).
Quindi, a fronte della persistenza in capo all'ente preposto alla vigilanza sul territorio del generale potere repressivo degli abusi edilizi, il vicino che -in ragione dello stabile collegamento con il territorio oggetto dell'intervento- gode di una posizione differenziata, ben può chiedere al Comune di porre in essere i provvedimenti sanzionatori previsti dall'ordinamento, facendo ricorso, in caso di inerzia, alla procedura del silenzio-inadempimento. Da ciò deriva che il Comune è tenuto, in ogni caso, a rispondere alla domanda con la quale i proprietari di terreni limitrofi a quello interessato da un abuso edilizio chiedono ad esso di adottare atti di accertamento delle violazioni ed i conseguenti provvedimenti repressivi e, ove sussistano le condizioni, anche ad adottare gli stessi (TAR Lazio Latina, 24.10.2003, n. 876).
Alla luce delle argomentazioni che precedono deve, dunque, essere riconosciuta l'illegittimità del silenzio serbato dal Comune di Casalnuovo di Napoli sulla diffida inoltrata dal ricorrente, atteso l’obbligo dell’ente locale di concludere il procedimento, in considerazione delle numerose pronunce giurisprudenziali che attribuiscono al proprietario confinante la legittimazione a sollecitare l’adozione di provvedimenti sanzionatori relativi ad opere abusive realizzate nella vicinanza della sua proprietà (ex multis TAR Campania, sez. VIII, 24.04.2009, n. 2166).
Il Collegio ritiene di non dover esercitare la facoltà di pronunciarsi sulla fondatezza nel merito dell'istanza la quale richiede l’effettuazione di accertamenti tecnici da parte del Comune.
L’amministrazione comunale dovrà pertanto concludere il procedimento con l’adozione di un provvedimento espresso nel termine di sessanta giorni dalla notifica o dalla comunicazione in via amministrativa della presente sentenza.
Nel caso di inadempienza si nomina sin da ora, quale commissario ad acta, il Prefetto di Napoli od un funzionario del suo Ufficio all’uopo da lui delegato, che si attiverà su specifica richiesta del ricorrente.
Il commissario, prima del suo insediamento, accerterà se nelle more è stato adottato il provvedimento finale e, in caso di perdurante inadempimento, lo adotterà in sostituzione; le spese relative all’eventuale compenso del commissario, da liquidarsi con separato decreto, devono essere poste a carico del Comune (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 28.09.2018 n. 5666 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La condizione di estraneità alla commissione dell'illecito, riguardata in termini di buona fede soggettiva, può assumere rilievo unicamente ai fini dell'acquisizione gratuita al patrimonio comunale, che non è stata però disposta con il provvedimento impugnato con il ricorso introduttivo.
Invero, si afferma in giurisprudenza che "ai sensi dell'art. 31, commi 2 e 3, D.P.R. n. 380 del 2001, l'ordine di demolizione va ingiunto al proprietario e al responsabile dell'abuso, sicché il proprietario è passivamente legittimato rispetto al provvedimento di demolizione, essendo tenuto alla sua esecuzione indipendentemente dall'aver materialmente concorso alla perpetrazione dell'illecito. Ne consegue che l'estraneità del proprietario agli abusi edilizi commessi sul bene da un soggetto che ne abbia la piena ed esclusiva disponibilità non implica l'illegittimità dell'ordinanza di demolizione o di riduzione in pristino dello stato dei luoghi, emessa nei suoi confronti, ma solo l'inidoneità –al ricorrere di specifici presupposti– del provvedimento repressivo a costituire titolo per l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene".
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Poiché l’adozione dell’ingiunzione di demolizione non può ascriversi al genus dell’autotutela decisoria, si deve escludere che l’ordinanza di demolizione di opere abusive debba essere motivata con riferimento alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata.
Ciò in quanto giammai il decorso del tempo può incidere sull’ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione. Allo stesso modo, il decorso del tempo non può radicare, di per sé considerato, un affidamento di carattere “legittimo” in capo ai proprietari dell’abuso.
Ed invero, la tutela del legittimo affidamento -qualificato come ‘principio fondamentale’ dell'Unione Europea dalla stessa Corte di Giustizia UE– è quello ingenerato nel privato da provvedimenti amministrativi, ed è correlato all'interesse pubblico alla certezza dei rapporti giuridici costituiti dall'atto amministrativo, nonché più in generale alla stabilità dei provvedimenti amministrativi, ipotesi, questa, che –all’evidenza- non ricorre nella fattispecie in esame, in cui non sussiste alcun provvedimento favorevole sulla cui base siano state realizzate le opere in questione, che risultano, quindi, essere prive dei prescritti titoli.
Ne consegue che nessun onere di motivazione rafforzata in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico e attuale alla demolizione delle opere grava sull’amministrazione procedente.
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Con riguardo alla dedotta mancata indicazione dell’area oggetto di acquisizione gratuita al patrimonio comunale in ipotesi di inottemperanza, il Collegio rileva che l’omessa o imprecisa indicazione non costituisce motivo di illegittimità dell’ordinanza di demolizione, atteso che, con il contenuto dispositivo di quest’ultima si commina la sanzione della demolizione del manufatto abusivo, mentre l’indicazione dell’area rappresenta piuttosto un presupposto accertativo ai fini della distinta misura sanzionatoria dell’acquisizione.
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Come affermato dall’univoca giurisprudenza (il che esime da citazioni specifiche), la funzione dell’ingiunzione a demolire è quella di provocare il tempestivo abbattimento del manufatto abusivo, rendendo noto ai destinatari che il mancato adeguamento spontaneo determina sanzioni più onerose della semplice demolizione.
A tale scopo è quindi sufficiente che l’atto indichi il tipo di sanzione che la legge collega all’abuso senza puntualizzare le aree eventualmente destinate a passare nel patrimonio comunale (che ben potranno, in termini sintetici e conclusivi, essere esattamente definite al momento della effettiva operatività del procedimento acquisitivo).
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3.1. Doverosamente e legittimamente l’amministrazione comunale ha proceduto all’adozione del provvedimento di irrogazione della sanzione demolitoria, individuando quale soggetto legittimato passivo anche la proprietaria attuale del bene.
3.2. Contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa di parte ricorrente, infatti, la condizione di estraneità alla commissione dell'illecito, riguardata in termini di buona fede soggettiva, può assumere rilievo unicamente ai fini dell'acquisizione gratuita al patrimonio comunale (v. TAR Bari Puglia sez. III, 10.05.2013, n. 710) che non è stata però disposta con il provvedimento impugnato con il ricorso introduttivo.
Invero, si afferma in giurisprudenza che "ai sensi dell'art. 31, commi 2 e 3, D.P.R. n. 380 del 2001, l'ordine di demolizione va ingiunto al proprietario e al responsabile dell'abuso, sicché il proprietario è passivamente legittimato rispetto al provvedimento di demolizione, essendo tenuto alla sua esecuzione indipendentemente dall'aver materialmente concorso alla perpetrazione dell'illecito. Ne consegue che l'estraneità del proprietario agli abusi edilizi commessi sul bene da un soggetto che ne abbia la piena ed esclusiva disponibilità non implica l'illegittimità dell'ordinanza di demolizione o di riduzione in pristino dello stato dei luoghi, emessa nei suoi confronti, ma solo l'inidoneità –al ricorrere di specifici presupposti– del provvedimento repressivo a costituire titolo per l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene" (cfr. TAR Napoli Campania sez. VIII, 26.04.2013, n. 2180).
4. Non meritano accoglimento neanche le deduzioni dirette a contestare la carenza di un adeguato substrato motivazionale del provvedimento impugnato, avendo l’amministrazione indicato puntualmente i presupposti alla base della irrogazione della sanzione demolitoria, costituiti dall’abusività delle opere, adeguatamente descritte, in quanto edificate in assenza del permesso di costruire.
4.1. Come chiarito, inoltre, dalla giurisprudenza (con orientamento che ha ottenuto l’autorevole avallo dall’Adunanza Plenaria con la sentenza n. 8 del 2017), poiché l’adozione dell’ingiunzione di demolizione non può ascriversi al genus dell’autotutela decisoria, si deve escludere che l’ordinanza di demolizione di opere abusive debba essere motivata con riferimento alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata.
Ciò in quanto giammai il decorso del tempo può incidere sull’ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione. Allo stesso modo, il decorso del tempo non può radicare, di per sé considerato, un affidamento di carattere “legittimo” in capo ai proprietari dell’abuso.
4.2. Ed invero, la tutela del legittimo affidamento -qualificato come ‘principio fondamentale’ dell'Unione Europea dalla stessa Corte di Giustizia UE– è quello ingenerato nel privato da provvedimenti amministrativi, ed è correlato all'interesse pubblico alla certezza dei rapporti giuridici costituiti dall'atto amministrativo, nonché più in generale alla stabilità dei provvedimenti amministrativi, ipotesi, questa, che –all’evidenza- non ricorre nella fattispecie in esame, in cui non sussiste alcun provvedimento favorevole sulla cui base siano state realizzate le opere in questione, che risultano, quindi, essere prive dei prescritti titoli (cfr. TAR Lazio, Roma, sez. II-bis, n. 6520 del 2018).
4.3. Ne consegue che nessun onere di motivazione rafforzata in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico e attuale alla demolizione delle opere grava sull’amministrazione procedente, fermo restando che, nella fattispecie, la descrizione delle opere contestate ed i giustificativi alla base dell’irrogazione della sanzione demolitoria emergono puntualmente ed inequivocabilmente dal provvedimento impugnato.
5. Infine, con riguardo alla dedotta mancata indicazione dell’area oggetto di acquisizione gratuita al patrimonio comunale in ipotesi di inottemperanza, il Collegio rileva che l’omessa o imprecisa indicazione non costituisce motivo di illegittimità dell’ordinanza di demolizione, atteso che, con il contenuto dispositivo di quest’ultima si commina la sanzione della demolizione del manufatto abusivo, mentre l’indicazione dell’area rappresenta piuttosto un presupposto accertativo ai fini della distinta misura sanzionatoria dell’acquisizione (cfr. Cons. Stato, VI, 05.01.2015, n. 13).
5.1. Inoltre, come affermato dall’univoca giurisprudenza (il che esime da citazioni specifiche), la funzione dell’ingiunzione a demolire è quella di provocare il tempestivo abbattimento del manufatto abusivo, rendendo noto ai destinatari che il mancato adeguamento spontaneo determina sanzioni più onerose della semplice demolizione. A tale scopo è quindi sufficiente che l’atto indichi il tipo di sanzione che la legge collega all’abuso senza puntualizzare le aree eventualmente destinate a passare nel patrimonio comunale (che ben potranno, in termini sintetici e conclusivi, essere esattamente definite al momento della effettiva operatività del procedimento acquisitivo).
6. Per tutte le suesposte considerazioni il ricorso deve essere respinto (TAR Campania-Napli, Sez. II, sentenza 28.09.2018 n. 5661 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Idoneità della pubblicazione telematica di un atto a far decorrere il termine decadenziale di impugnazione.
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Processo amministrativo – Termine per l’impugnazione – Pubblicazione telematica dell’atto – Decorrenza del termine decadenziale di impugnazione – Condizione.
La pubblicazione telematica di un atto solo quando sia prevista e prescritta da specifiche determinazioni normative costituisce una forma di pubblicità in grado di integrare di per sé gli estremi della conoscenza erga omnes dell’atto pubblicato e di far decorrere il termine decadenziale di impugnazione (1).
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   (1) Con riguardo al tema dell’integrazione di una efficace pubblicità dichiarativa valida ai fini della valutazione di piena conoscenza di un atto, come conseguenza della sua pubblicazione sul sito web dell’amministrazione, ha chiarito la Sezione che l’effetto conoscitivo opponibile erga omnes deve poggiare su una specifica disciplina di legge – sicché la pubblicazione sul sito istituzionale on line dell’ente che adotta l’atto, in mancanza di una disposizione normativa che attribuisca valore ufficiale a tale forma di ostensione, non può fondare alcuna presunzione legale di conoscenza.
In questo senso viene inteso il disposto dell’art. 32, l. n. 69 del 2009 (Cons. St., sez. V, 08.05.2018, n. 2757 e 27.08.2014, n. 4384) e del tutto conforme è la previsione generale contenuta all’articolo 54, comma 4-bis, del Codice dell’amministrazione digitale n. 82 del 2005 secondo cui “la pubblicazione telematica produce effetti di pubblicità legale nei casi e nei modi espressamente previsti dall’ordinamento”.
Ha aggiunto la Sezione che i concetti di esecutività e conoscenza legale dell’atto amministrativo non sono coincidenti e automaticamente sovrapponibili (Cons. St., sez. V, 17.11.2009, n. 7151) – il che induce a ritenere che la pubblicità funzionale all’acquisizione di esecutività dell’atto non debba necessariamente assolvere anche alla funzione di rendere opponibili ai terzi, ai fini della decorrenza del termine per impugnare, i fatti per i quali cui essa è prevista.
Le norme in tema di pubblicazione telematica degli atti devono essere applicate con particolare cautela e, quindi, sottostare ad un canone di interpretazione restrittiva, in particolare modo nel momento in cui si tratta di determinare (in via interpretativa) gli effetti di conoscenza legale associabili o meno a siffatta tipologia di esternazione comunicativa.
A favore di una regola di cautela depongono plurime considerazioni, riconducibili, essenzialmente:
   a) alla mancanza di una disposizione di carattere generale in grado di equiparare, nella loro efficacia giuridica, tutte le variegate forme di pubblicità degli atti;
   b) alla esigenza di garantire, con regole chiare e uniformi, standard tecnici di adeguata e omogenea visibilità dei dati pubblicizzati sui siti telematici, nei diversi settori e ambiti operativi dell’azione pubblica;
   c) alla constatazione di una diversa propensione al mezzo telematico che si riscontra nei differenti ambiti del diritto pubblico, anche in ragione dell’eterogeneo grado di specializzazione professionale dei soggetti che vi operano e agiscono;
   d) alla notevole rilevanza degli interessi implicati nella materia in esame, in particolar modo per quanto concerne l’incidenza che la conoscenza legale dell’atto assume ai fini della decorrenza del termine utile per l’impugnazione degli atti soggetti a pubblicità;
   e) alla conseguenza necessità di privilegiare, in presenza di dubbi esegetici aventi effetti sul regime decadenziale dall’azione impugnatoria, l’opzione meno sfavorevole per l’esercizio del diritto di difesa e, quindi, maggiormente conforme ai principi costituzionali espressi dagli artt. 24, 111 e 113 Cost., nonché al principio di effettività della tutela giurisdizionale (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 28.09.2018 n. 5570 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
2. Il motivo è fondato, in relazione al primo dei rilievi in esso contenuti.
2.1. Con riguardo al tema dell’integrazione di una efficace pubblicità dichiarativa valida ai fini della valutazione di piena conoscenza dell’atto, come conseguenza della pubblicazione della delibera n. 19/2016 sul sito web dell’amministrazione (avvenuta dal 21 gennaio al 05.02.2016) il Collegio conviene, innanzitutto, sulla premessa generale secondo la quale
l’effetto conoscitivo opponibile erga omnes deve poggiare su una specifica disciplina di legge – sicché la pubblicazione sul sito istituzionale on line dell’ente che adotta l’atto, in mancanza di una disposizione normativa che attribuisca valore ufficiale a tale forma di ostensione, non può fondare alcuna presunzione legale di conoscenza.
2.2. In questo senso viene inteso il disposto dell’art. 32 L. 69/2009 (cfr. Cons. Stato, sez. V, 08.05.2018, n. 2757 e 27.08.2014, n. 4384), e del tutto conforme è la previsione generale contenuta all’articolo 54, comma 4-bis, del Codice dell’amministrazione digitale 82 del 2005 secondo cui “la pubblicazione telematica produce effetti di pubblicità legale nei casi e nei modi espressamente previsti dall’ordinamento”.
2.3. Dunque,
la pubblicazione telematica dell'atto solo quando sia prevista e prescritta da specifiche determinazioni normative costituisce una forma di pubblicità in grado di integrare di per sé gli estremi della conoscenza erga omnes dell’atto pubblicato e di far decorrere il termine decadenziale di impugnazione (Cons. Stato, sez. V, 30.11.2015, n. 5398; Id., sez. IV, 26.04.2006, n. 2287).
2.4. Nel caso di specie, il regime di pubblicità dei provvedimenti del Direttore generale dell’Azienda ospedaliera rinviene la sua fonte nell’art. 42 della l.r. n. 40 del 2005, il quale, al comma 2, afferma l’obbligo generale di pubblicazione nell’Albo dell’azienda sanitaria di tutti gli atti dirigenziali; mentre, al comma 4, prevede -per i soli provvedimenti non sottoposti al Controllo della Giunta regionale- che la relativa esecutività consegua alla pubblicazione per almeno quindici giorni consecutivi, salva la “immediata eseguibilità dichiarata per motivi di urgenza”.
2.5. Al conseguente rilievo della parte appellata secondo cui l’effetto conoscitivo legale si fonderebbe nel caso in esame su una specifica previsione normativa, si obietta da parte appellante che la pubblicazione disciplinata dall’art. 42 avrebbe rilevanza unicamente come pubblicità notizia e ai fini del conferimento dell’esecutività all’atto pubblicato, ma non varrebbe a determinarne la conoscenza erga omnes.
2.6. L’assunto da ultimo richiamato merita condivisione.
Importa considerare, innanzitutto, che
i concetti di esecutività e conoscenza legale dell’atto amministrativo non sono coincidenti e automaticamente sovrapponibili (Cons. Stato, sez. V, 17.11.2009, n. 7151) – il che induce a ritenere che la pubblicità funzionale all’acquisizione di esecutività dell’atto non debba necessariamente assolvere anche alla funzione di rendere opponibili ai terzi, ai fini della decorrenza del termine per impugnare, i fatti per i quali cui essa è prevista.
2.7. A ciò aggiungasi che le norme in tema di pubblicazione telematica degli atti devono essere applicate con particolare cautela e, quindi, sottostare ad un canone di interpretazione restrittiva, in particolare modo nel momento in cui si tratta di determinare (in via interpretativa) gli effetti di conoscenza legale associabili o meno a siffatta tipologia di esternazione comunicativa.
A favore di una regola di cautela depongono plurime considerazioni, riconducibili, essenzialmente:
   a) alla mancanza di una disposizione di carattere generale in grado di equiparare, nella loro efficacia giuridica, tutte le variegate forme di pubblicità degli atti;
   b) alla esigenza di garantire, con regole chiare e uniformi, standard tecnici di adeguata e omogenea visibilità dei dati pubblicizzati sui siti telematici, nei diversi settori e ambiti operativi dell’azione pubblica;
   c) alla constatazione di una diversa propensione al mezzo telematico che si riscontra nei differenti ambiti del diritto pubblico, anche in ragione dell’eterogeneo grado di specializzazione professionale dei soggetti che vi operano e agiscono;
   d) alla notevole rilevanza degli interessi implicati nella materia in esame, in particolar modo per quanto concerne l’incidenza che la conoscenza legale dell’atto assume ai fini della decorrenza del termine utile per l’impugnazione degli atti soggetti a pubblicità;
   e) alla conseguenza necessità di privilegiare, in presenza di dubbi esegetici aventi effetti sul regime decadenziale dall’azione impugnatoria, l’opzione meno sfavorevole per l’esercizio del diritto di difesa e, quindi, maggiormente conforme ai principi costituzionali espressi dagli artt. 24, 111 e 113 Cost., nonché al principio di effettività della tutela giurisdizionale.

2.8. L’insieme di considerazioni sin qui richiamate fa percepire la razionalità dell’orientamento normativo inteso ad incrementare in modo selettivo l’accesso a forme innovative di pubblicità, mediante disposizioni ad hoc (quale quelle che si rinvengono, ad esempio, nella materia degli appalti pubblici), variamente calibrate in relazione allo specifico contesto disciplinare di volta in volta considerato.

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Sussiste l’obbligo dell’Amministrazione comunale di provvedere sull’istanza di repressione di abusi edilizi realizzati sul terreno confinante, formulatagli dal relativo proprietario, il quale, appunto per tale aspetto che si invera nel concetto di vicinitas, gode di una legittimazione differenziata rispetto alla collettività subendo gli effetti nocivi immediati e diretti della commissione dell’eventuale illecito edilizio non represso nell’area limitrofa alla sua proprietà, onde egli è titolare di una posizione di interesse legittimo all’esercizio di tali poteri di vigilanza e, quindi, può proporre l’azione a seguito del silenzio ai sensi dell'art. 31 cod. proc. amm..
Pertanto, il proprietario di un’area o di un fabbricato, nella cui sfera giuridica incide dannosamente il mancato esercizio dei poteri ripristinatori e repressivi relativi ad abusi edilizi da parte dell’organo preposto, può pretendere, se non vengono adottate le misure richieste, un provvedimento che ne spieghi esplicitamente le ragioni, con il risultato che il silenzio serbato sull’istanza integra gli estremi del silenzio-rifiuto, sindacabile in sede giurisdizionale quanto al mancato adempimento dell’obbligo di provvedere in modo espresso.
Del resto, ai sensi dell’art. 2 della legge n. 241 del 1990, la pubblica Amministrazione ha in generale il dovere di concludere il procedimento conseguente in modo obbligatorio ad un’istanza di parte mediante l’adozione di un provvedimento espresso.
Inoltre, è principio consolidato quello secondo cui l’obbligo di provvedere può discendere non solo da puntuali previsioni legislative o regolamentari ma anche dalla peculiarità della fattispecie, nella quale ragioni di giustizia o equità impongano l’adozione di provvedimenti espliciti, alla stregua del generale dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, ai sensi dell’art. 97 Cost., con conseguente sorgere in capo al privato di una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni amministrative, quali che esse siano.
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In ipotesi di segnalazioni circostanziate e documentate, l’Amministrazione ha comunque l’obbligo di attivare un procedimento di controllo e verifica dell’abuso della cui conclusione deve restare traccia, sia essa nel senso dell’esercizio dei poteri sanzionatori, che in quella della motivata archiviazione, dovendosi in particolare escludere che la ritenuta mancanza dei presupposti per l’esercizio dei poteri sanzionatori possa giustificare un comportamento meramente silente.
In ragione di ciò, è da dichiarare fondata la domanda giudiziale dei ricorrenti, non avendo il Comune concluso il procedimento con l’adozione del “provvedimento espresso” richiesto dall’art. 2 della legge n. 241 del 1990, così da precludere agli istanti di valutare, alla luce dei riscontri forniti dall’Amministrazione, la fondatezza o meno delle proprie doglianze e di eventualmente impugnare il provvedimento sfavorevole.
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Indipendentemente da ogni questione circa i limiti temporali per l’esercizio del relativo potere inibitorio, i ricorrenti assumono il manufatto difforme dall’opera che ne costituiva oggetto, sicché anche questo aspetto rientra nell’àmbito di indagine che compete all’ente, il cui potere di repressione degli illeciti edilizi –come è noto– può ben essere esercitato a distanza di tempo dalla violazione, in considerazione della natura permanente di simili illeciti.
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Ritenuto:
   - che, come rilevato dalla giurisprudenza, sussiste l’obbligo dell’Amministrazione comunale di provvedere sull’istanza di repressione di abusi edilizi realizzati sul terreno confinante, formulatagli dal relativo proprietario, il quale, appunto per tale aspetto che si invera nel concetto di vicinitas, gode di una legittimazione differenziata rispetto alla collettività subendo gli effetti nocivi immediati e diretti della commissione dell’eventuale illecito edilizio non represso nell’area limitrofa alla sua proprietà, onde egli è titolare di una posizione di interesse legittimo all’esercizio di tali poteri di vigilanza e, quindi, può proporre l’azione a seguito del silenzio ai sensi dell'art. 31 cod. proc. amm. (v. Cons. Stato, Sez. IV, 09.11.2015 n. 5087; e, da ultimo, Sez. VI, 07.06.2018 n. 3460);
   - che, pertanto, il proprietario di un’area o di un fabbricato, nella cui sfera giuridica incide dannosamente il mancato esercizio dei poteri ripristinatori e repressivi relativi ad abusi edilizi da parte dell’organo preposto, può pretendere, se non vengono adottate le misure richieste, un provvedimento che ne spieghi esplicitamente le ragioni, con il risultato che il silenzio serbato sull’istanza integra gli estremi del silenzio-rifiuto, sindacabile in sede giurisdizionale quanto al mancato adempimento dell’obbligo di provvedere in modo espresso;
   - che, del resto, ai sensi dell’art. 2 della legge n. 241 del 1990, la pubblica Amministrazione ha in generale il dovere di concludere il procedimento conseguente in modo obbligatorio ad un’istanza di parte mediante l’adozione di un provvedimento espresso;
   - che, inoltre, è principio consolidato quello secondo cui l’obbligo di provvedere può discendere non solo da puntuali previsioni legislative o regolamentari ma anche dalla peculiarità della fattispecie, nella quale ragioni di giustizia o equità impongano l’adozione di provvedimenti espliciti, alla stregua del generale dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, ai sensi dell’art. 97 Cost., con conseguente sorgere in capo al privato di una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni amministrative, quali che esse siano (v., tra le altre, TAR Lazio, Sez. I, 11.05.2018 n. 5233);
   - che nella fattispecie, in qualità di proprietari confinanti con l’area in cui è stato realizzato il contestato “muro”, i ricorrenti avevano addotto circostanziati profili di perplessità circa la regolarità edilizia del manufatto, sicché il Comune di Argegno aveva l’obbligo di provvedere sulla loro argomentata richiesta, effettuando le dovute verifiche e determinandosi quindi esplicitamente e motivatamente sull’istanza, in senso positivo o negativo che fosse;
   - che, al contrario, pur procedendosi ad un sopralluogo in presenza dei soggetti interessati, alla redazione del relativo verbale (riassuntivo dei rilievi effettuati) non ha fatto poi séguito l’adozione di determinazioni conclusive dell’ente che di quelle operazioni costituissero il risultato, neppure dopo che i ricorrenti avevano segnalato in modo analitico le questioni rimaste irrisolte all’esito del sopralluogo e invocato le conseguenti misure repressive, posto che, in ipotesi di segnalazioni circostanziate e documentate, l’Amministrazione ha comunque l’obbligo di attivare un procedimento di controllo e verifica dell’abuso della cui conclusione deve restare traccia, sia essa nel senso dell’esercizio dei poteri sanzionatori, che in quella della motivata archiviazione, dovendosi in particolare escludere che la ritenuta mancanza dei presupposti per l’esercizio dei poteri sanzionatori possa giustificare un comportamento meramente silente (v. Cons. Stato, Sez. IV, 04.05.2012 n. 2592);
   - che, in ragione di ciò, è da dichiarare fondata la domanda giudiziale dei ricorrenti, non avendo il Comune di Argegno concluso il procedimento con l’adozione del “provvedimento espresso” richiesto dall’art. 2 della legge n. 241 del 1990, così da precludere agli istanti di valutare, alla luce dei riscontri forniti dall’Amministrazione, la fondatezza o meno delle proprie doglianze e di eventualmente impugnare il provvedimento sfavorevole (v. Cons. Stato, Sez. VI, 07.06.2018 n. 3460);
   - che va invece disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso per intervenuto consolidamento della d.i.a. del 2005 (v. memoria difensiva della controinteressata), in quanto, indipendentemente da ogni questione circa i limiti temporali per l’esercizio del relativo potere inibitorio, i ricorrenti assumono il manufatto difforme dall’opera che ne costituiva oggetto, sicché anche questo aspetto rientra nell’àmbito di indagine che compete all’ente, il cui potere di repressione degli illeciti edilizi –come è noto– può ben essere esercitato a distanza di tempo dalla violazione, in considerazione della natura permanente di simili illeciti (v., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, n. 3460/2018 cit.);
   - che, in conclusione, va assegnato al Comune di Argegno un termine di trenta giorni dalla comunicazione o notificazione della presente sentenza affinché lo stesso provveda sulla richiesta degli interessati con atto puntualmente motivato, essendo evidente che, per l’esigenza di accertamenti istruttori di competenza dell’ente locale, il presente dictum giudiziale è circoscritto alla statuizione della sussistenza dell’obbligo di provvedere in capo all’Amministrazione e non è anche esteso all’accertamento della fondatezza della pretesa sostanziale dedotta in giudizio;
   - che, in caso di inerzia e su documentata richiesta dei ricorrenti, provvederà in via sostitutiva, nei successivi sessanta giorni, un Commissario ad acta che viene sin d’ora nominato nella persona del Prefetto di Como, con facoltà di delega ad un funzionario del medesimo ufficio;
Considerato, pertanto,
   - che il ricorso va accolto, con conseguente obbligo dell’Amministrazione comunale (e, in via sostitutiva, del Commissario ad acta) di provvedere nei termini suindicati;
   - che le spese di lite seguono la soccombenza del Comune di Argegno, mentre le stesse appaiono suscettibili di compensazione nei confronti della controinteressata
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Seconda), pronunciando sul ricorso in epigrafe, così provvede:
   - lo accoglie quanto alla pretesa formazione del silenzio-rifiuto sull’istanza in data 05.03.2018 e, per l’effetto, dichiarata l’illegittimità del silenzio, ordina all’Amministrazione comunale (e, in via sostitutiva, al Commissario ad acta) di provvedere nei termini indicati in motivazione;
   - nomina, quale Commissario ad acta, il Prefetto di Como –con facoltà di delega ad un funzionario del medesimo ufficio–, che interverrà su richiesta dei ricorrenti solo dopo l’inutile decorso del termine assegnato all’Amministrazione comunale.
Condanna il Comune di Argegno al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in complessivi € 2.000,00 (duemila/00), oltre agli accessori di legge e alla rifusione del contributo unificato (nella misura effettivamente versata). Compensa le spese nei confronti della sig.ra Mo.Ge..
Manda alla Segreteria per la trasmissione della presente pronuncia –una volta passata in giudicato– alla Corte dei conti, Procura Regionale presso la Sezione Giurisdizionale per la Regione Lombardia, ai sensi dell’art. 2, comma 8, della legge n. 241 del 1990 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 28.09.2018 n. 2171 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Un terreno soggetto a vincolo di inedificabilità assoluta, perché soggetto a fascia cimiteriale, può comunque astrattamente cedere la relativa cubatura purché l’immobile destinatario del beneficio sia compatibile con le finalità sottese al stesso vincolo, ossia “garantire la futura espansione del cimitero; garantire il decoro di un luogo di culto; assicurare una cintura sanitaria attorno a luoghi per loro natura insalubri”.
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Certamente dirimente è, nella fattispecie, l’accertamento della intervenuta violazione delle regole procedimentali, in specie quella prevista dal citato art. 10-bis in tema di preavviso di rigetto dell’istanza di concessione in sanatoria, tenuto conto che la questione giuridica sottesa –ossia l’ammissibilità della cessione dell’indice di cubatura da parte di terreno soggetto a vincolo di inedificabilità assoluta perché ricadente nella c.d. fascia di rispetto cimiteriale– risulta non univoca, per cui un contraddittorio pieno con la parte ricorrente avrebbe garantito un’istruttoria completa soprattutto alla luce degli orientamenti giurisprudenziali riportati da controparte, quali:
   1) TAR Liguria, Genova, sentenza n. 1388/2008, secondo cui “le finalità perseguite dalla normativa di tutela del vincolo cimiteriale sono sostanzialmente tre:
   - garantire la futura espansione del cimitero;
   - garantire il decoro di un luogo di culto;
   - assicurare una cintura sanitaria attorno a luoghi per loro natura insalubri (cfr. TAR Liguria, 1^, 25.03.2004 n. 290; id., 09.07.1998 n. 373; id., 06.11.1995 n. 320; da ultimo Cons. Stato, V, 03.05.2007 n. 1933). […]
Quindi l'Amministrazione è tenuta a valutare se ed in quale misura l'opera in questione venga effettivamente a concretizzare una lesione per il vincolo cimiteriale di inedificabilità e, più in particolare, se le opere da sanare possano aggravare il peso insediativo dell'area con la realizzazione di volumi edilizi tali da considerarsi nuove costruzioni
”;
   2) TAR Umbria, Perugia, sentenza n. 534/2002, secondo cui “Il vincolo cimiteriale consiste e si esaurisce nell'impedire che il suolo gravato venga direttamente edificato, ma, una volta osservato questo divieto, non impedisce che venga utilizzato in conformità alla destinazione urbanistica di zona: ad es., dandosene il caso, come area scoperta pertinenziale ad un fabbricato realizzato nella residua parte del lotto, e utile ai fini del calcolo della volumetria complessivamente realizzabile sul lotto stesso.
Allo stesso modo, la destinazione urbanistica edificatoria non esclude che talune porzioni del lotto siano inedificabili per effetto delle regole in materia di distanze tra fabbricati; mentre, per converso, l'inedificabilità de facto di quelle porzioni non esclude che la volumetria astrattamente loro spettante sia utilizzata nella residua parte del lotto
”.
Orientamenti giurisprudenziali dai quali si ricava, in combinato disposto, il principio per cui un terreno soggetto a vincolo di inedificabilità assoluta, perché soggetto a fascia cimiteriale, può comunque astrattamente cedere la relativa cubatura purché l’immobile destinatario del beneficio sia compatibile con le finalità sottese al stesso vincolo, ossia “garantire la futura espansione del cimitero; garantire il decoro di un luogo di culto; assicurare una cintura sanitaria attorno a luoghi per loro natura insalubri”.
Nel caso di specie, quindi, non coinvolgendo l’abuso tutto l’edificio ma essendo piuttosto risultata abusiva solo la maggiore ampiezza accertata rispetto alla originaria concessione, l’amministrazione avrebbe dovuto, sul piano procedimentale, sia coinvolgere l’interessato in sede di preavviso di rigetto dell’istanza di sanatoria, di cui al citato art. 10-bis; sia dare conto funditus delle ragioni motivazionali ostative al rilascio del citato provvedimento, esponendo il perché della ritenuta incompatibilità tra la maggiore volumetria e le rationes del vincolo cimiteriale, eventualmente tali da non consentire, in concreto, alcuna cessione di cubatura.
Il primo vulnus procedimentale ha ovviamente comportato, come è noto, una carenza del provvedimento di rigetto anche riguardo il secondo dei citati profili.
In definitiva, quindi, entrambi i ricorsi devono essere accolti perché fondati (TAR Sicilia-Catania, Sez. II, sentenza 28.09.2018 n. 1826 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 35 Testo Unico dell’edilizia prevede un potere repressivo di competenza del Comune in materia di repressione di interventi abusivi su suolo demaniale il quale concorre, ma è comunque distinto rispetto a quello spettante all’Autorità marittima ai sensi dell’art. 54 Cod. Nav., approvato con r.d. 30.03.1942 n. 327.
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Come più volte affermato in giurisprudenza, posto che il demanio marittimo presenta una conformazione variabile nel corso del tempo in considerazione della mutevole azione del mare sulle coste le aree demaniali marittime, per intrinseca natura, possono risultare di incerta perimetrazione, in quanto possono intervenire, con un certo margine di probabilità, modificazioni del territorio costiero che rendano non più affidabili le mappe redatte dagli uffici catastali.
L’oggettiva incertezza, in ordine all’esatto tracciato della linea di confine, rende illegittimo un procedimento istruttorio e quindi il provvedimento di demolizione reso senza la partecipazione al procedimento stesso del privato, in quanto in contrasto con le prescrizioni di cui all’art. 32 cod. nav. mentre “Le mappe catastali, avendo portata ricognitiva, sono inidonee a costituire strumento di certa definizione dei confini tra demanio marittimo e proprietà privata, infatti le mappe catastali non possono costituire uno strumento sicuro per determinare la linea di confine del demanio marittimo, che per eventi naturali è soggetta a notevoli variazioni nel corso del tempo”.
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1. Con il provvedimento del impugnato l’ente locale ordinò, ai sensi dell’art. 35 TUE la demolizione della recinzione con muro di contenimento in pietra alto mt. 4.2 circa sul presupposto della sua realizzazione su suolo demaniale marittimo per 146 mq.
Le doglianze relative all’illegittimo ed erroneo uso del potere di cui all’art. 35 d.P.R. 380/2001 hanno fondamento.
Ai sensi del primo comma dell’art. 35, intitolato interventi abusivi realizzati su suoli di proprietà dello Stato o di enti pubblici, “Qualora sia accertata la realizzazione, da parte di soggetti diversi da quelli di cui all’articolo 28, di interventi in assenza di permesso di costruire, ovvero in totale o parziale difformità dal medesimo, su suoli del demanio o del patrimonio dello Stato o di enti pubblici, il dirigente o il responsabile dell’ufficio, previa diffida non rinnovabile, ordina al responsabile dell’abuso la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi, dandone comunicazione all’ente proprietario del suolo”: la norma, quindi, consente l’emanazione del provvedimento comunale di demolizione per occupazione di suolo demaniale marittimo in quanto abusiva e dunque realizzata in assenza di permesso di costruire, ovvero in totale o parziale difformità dal medesimo.
Ha dimostrato parte ricorrente che la realizzazione del fabbricato è avvenuta pur essendoci titolo edilizio e concessione demaniale marittima emanate negli anni settanta sicché il potere esercitato per repressione degli abusi edilizi è stato utilizzato per il diverso fine della violazione delle norme che regolano l’uso dei beni demaniali da parte dei privati.
Va rammentato, infatti, che l’art. 35 Testo Unico dell’edilizia prevede un potere repressivo di competenza del Comune in materia di repressione di interventi abusivi su suolo demaniale il quale concorre, ma è comunque distinto rispetto a quello spettante all’Autorità marittima ai sensi dell’art. 54 Cod. Nav., approvato con r.d. 30.03.1942 n. 327 (in tal senso TAR Napoli, sez. III, 16.01.2012 n. 195; TAR Latina, sez. I, 23.09.2009, n. 834; Tar Napoli, 24/05/2016, n. 2638).
2. Sebbene il riscontro del primo motivo di censura sia dirimente ritiene il Collegio di affrontare anche gli ulteriori motivi
Ha lamentato, in particolare, parte ricorrente che il provvedimento sia fondato sull’erroneo presupposto in fatto della demanialità dell’area, nonché la violazione dell’obbligo partecipativo al procedimento, rilevando la contraddittorietà con atto abilitativo del Comune nella costruzione dell’abitazione e, soprattutto, con l’autorizzazione prescritta a sensi dell’art. 55 del Codice della Navigazione Capitaneria di Porto di Crotone.
Ebbene, dagli atti acquisiti risulta:
   - che “il terreno è situato all’ingresso di Soverato in una zona con notevole sviluppo urbano. Tale situazione ha determinato uno stato di fatto in cui parecchi fabbricati hanno eseguito delle recinzioni con muri in cemento armato, sconfinando nella proprietà demaniale” (verbale di ispezione 11.05.2004),
   - che la ricorrente ha proceduto ad occupazione abusiva di suolo demaniale marittimo, in loc. “Ippocampo” del Comune di Soverato, di mq. 146 circa mediante un muro di contenimento realizzato in pietra alto mt. 4,2 occupata per mq. 117 circa da un terrazzo praticabile e per mq. 98,40 da giardino.
Lateralmente al muro vi è un’area di mq. 12 circa occupata da gradini e battuto di cemento; su detta area esistono due superfici facenti parte del fabbricato adibito a civile abitazione che si estendono per ulteriori piani 4, per una superficie totale di mq 33,00 circa. Ai tre piani superiori del fabbricato vi è l’aggetto di altrettanti balconi per una superficie complessiva di mq. 10,80 circa. La rimanente area pari a mq. 29 circa risulta occupata ad uso giardino ed in parte risulta pavimentata.
Nella parte centrale di quest’ultima area esiste un cancello in ferro dal quale si accede al –predetto giardino- (verbale di ispezione del 29.11.2005 ed accertamento tecnico della medesima data). Dunque l’adozione del provvedimento risulta essere effettivamente avvenuta sul presupposto della demanialità dell’area occupata.
In punto di partecipazione, inoltre, si riscontra la violazione delle garanzie partecipative previste dall’art. 7 della Legge 241/1990 posto che parte ricorrente è stata resa edotta di un sopralluogo condotto dalla Capitaneria di Porto, diretto all’accertamento di un abuso demaniale, nell’esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria. Non vi è stata però alcuna comunicazione da parte del Comune resistente circa l’avvio del relativo procedimento amministrativo sanzionatorio per abuso edilizio.
Orbene la partecipazione, pur trattandosi di provvedimento vincolato, risultava essenziale proprio a fronte della delicatezza della verifica della demanialità e dell’avvenuta contestazione da parte del privato non superata da deduzioni dell’amministrazione ai sensi dell’art. 21-octies l. n. 241/1990.
Va, infatti, in proposito rammentato, come più volte affermato in giurisprudenza, che posto che il demanio marittimo presenta una conformazione variabile nel corso del tempo in considerazione della mutevole azione del mare sulle coste le aree demaniali marittime, per intrinseca natura, possono risultare di incerta perimetrazione, in quanto possono intervenire, con un certo margine di probabilità, modificazioni del territorio costiero che rendano non più affidabili le mappe redatte dagli uffici catastali.
L’oggettiva incertezza, in ordine all’esatto tracciato della linea di confine, rende illegittimo un procedimento istruttorio e quindi il provvedimento di demolizione reso senza la partecipazione al procedimento stesso del privato, in quanto in contrasto con le prescrizioni di cui all’art. 32 cod. nav. (v. Tar Calabria 10.07.2014, n. 1105, TAR Sardegna, sez. I 12.07.2017 n. 469; TAR Catania, (Sicilia), sez. III, 22/07/2015, n. 1970) mentre “Le mappe catastali, avendo portata ricognitiva, sono inidonee a costituire strumento di certa definizione dei confini tra demanio marittimo e proprietà privata, infatti le mappe catastali non possono costituire uno strumento sicuro per determinare la linea di confine del demanio marittimo, che per eventi naturali è soggetta a notevoli variazioni nel corso del tempo” (v. TAR Sicilia (Catania) sez. III 20.02.2008 n. 309 e Cons. St. n. 5587/2006).
Ciò premesso nel caso di specie parte ricorrente ha allegato e documentato che fin dalla data della concessione demaniale marittima l’area occupata non ricadeva nella zona demaniale, mentre l’amministrazione resistente non ha indicato il carattere sopravvenuto della modifica o il momento nel quale si sarebbe verificata la violazione rispetto alla normativa edilizia.
Ne discende che in tale ipotesi il vizio partecipativo risulta aver inciso sul procedimento ed, eventualmente, anche sul contenuto del provvedimento, non avendo l’amministrazione resistente provato nel provvedimento impugnato né negli atti depositati in seguito all’ordinanza istruttoria una diversa indicazione della linea del confine demaniale da quella allegata dal ricorrente, una modifica rispetto alla situazione di fatto preesistente ovvero altri elementi idonei a provare il carattere demaniale dell’area occupata.
Ne consegue l’accoglimento del ricorso con annullamento del provvedimento impugnato, fatti salvi gli eventuali ulteriori provvedimenti dell’amministrazione competente (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 28.09.2018 n. 1666 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Rilascio titolo edilizio e mancata preliminare verifica comunale della legittimazione a richiederlo.
In presenza di contestazione della titolarità dominicale dell’area sulla quale il titolo edificatorio è destinato ad incidere, si rinvia ai consolidati principi elaborati dalla giurisprudenza secondo cui:
   - premesso che, in base all'art. 11, comma 1, del T.U. edilizia di cui al D.P.R. 380/2001, il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo, la legittimazione attiva a chiedere il rilascio di un titolo abilitativo edilizio si configura in capo non solo al proprietario del terreno, ma pure al soggetto titolare di altro diritto di godimento del fondo, che lo autorizzi a disporne al riguardo;
   - vi è il contestuale onere della P.A. di accertare con serietà e rigore siffatta legittimazione a chiedere il titolo edilizio, dovendo pertanto la P.A. accertare che l’istante sia il proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività edificatoria;
   - al riguardo, non si sono mai posti dubbi in ordine ai limiti legali, i quali, trovando applicazione generalizzata, concorrono a formare lo statuto generale dell'attività edilizia e non pongono problemi di conoscibilità all'amministrazione che è tenuta a considerarli sempre;
   - diversamente, per le limitazioni negoziali del diritto di costruire, la giurisprudenza in passato ha oscillato fra la soluzione che ne esclude ogni rilevanza, nel presupposto che all'amministrazione sia inibito qualsiasi sindacato anche indiretto sulla validità ed efficacia dei rapporti giuridici dei privati, e quella opposta che, invece, ammette che il Comune verifichi il rispetto dei limiti privatistici, purché siano immediatamente conoscibili, effettivamente e legittimamente conosciuti nonché del tutto incontestati, di guisa che il controllo si traduca in una semplice presa d'atto;
   - la più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, superando l'indirizzo più risalente, è oggi allineata nel senso che l'Amministrazione, quando venga a conoscenza dell'esistenza di contestazioni sul diritto del richiedente il titolo abilitativo, debba compiere le necessarie indagini istruttorie per verificare la fondatezza delle contestazioni, senza però sostituirsi a valutazioni squisitamente civilistiche (che appartengono alla competenza dell’A.G.O.), arrestandosi dal procedere solo se il richiedente non sia in grado di fornire elementi prima facie attendibili.
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1. Con unico argomento di censura, parte ricorrente lamenta che l’intimata Amministrazione comunale, nel rilasciare alla controinteressata Sa.Gi.Va. il titolo edificatorio n. 182/2008, abbia omesso di verificare l’effettiva disponibilità, in capo a quest’ultima, delle aree interessate dall’attività di trasformazione; in particolare, lamentando che una porzione di esse –con estensione di mq. 10 circa; e sulla quale insistono il muro e il cancello del finitimo villaggio turistico- ricadrebbe su parte del mappale 1151, di proprietà Br.–Du.Gi..
Pur a fronte delle sollecitazioni dalla parte ricorrente indirizzate all’Amministrazione comunale –e volte a promuovere una verifica del reale assetto dominicale dell’area interessata; con conseguente esercizio del potere di autotutela– l’Amministrazione non provvedeva nel senso auspicato da Br..
Come osservato da questo Tribunale in sede cautelare –e ribadito anche dalla controinteressata (cfr. memoria depositata in atti il 19.06.2018)– la titolarità dell’area de qua è, allo stato, controversa.
Quest’ultima, nel suindicato scritto difensivo, ha precisato:
   - di aver “arretrato il proprio cancello arretrato rispetto alla posizione autorizzata in prime cure, su un’area che pacificamente è di sua proprietà” (come accertato in sede civile dal CTU nominato Arch. Pa. nel ricorso per accertamento tecnico preventivo promosso dai proprietari dell’area fratelli Ta. e dalla loro madre Co.Is.);
   - che risulta essere stato promosso giudizio petitorio per l’accertamento dei confini, lungo tutta la proprietà, e non riguardante il solo ingresso oggetto delle opere edilizie qui contestate: il relativo giudizio risultando tuttora pendente innanzi alla Corte d’Appello di Brescia, iscritto a ruolo con il n. 1139/2015 (l’udienza di precisazione delle conclusioni si è tenuta in data 09.05.2018).
2. Impregiudicato, ovviamente, l’esito del petitorio –in ragione della ovvia appartenenza della cognizione in ordine ad esso all’A.G.O.– il perimetro cognitivo del presente giudizio concerne esclusivamente la verifica di legittimità dell’esercizio del potere sostanziatosi nel rilascio del contestato titolo ad aedificadum in favore della parte controinteressata.
E, in particolare, riguarda la legittima adozione di un permesso di costruire pur in presenza della rappresentata contestazione della titolarità dominicale di parte dell’area sulla quale il titolo edificatorio era destinato ad incidere.
Si rinvia, in proposito, ai consolidati principi elaborati dalla giurisprudenza (cfr. da ultimo Cons. Stato, sez. IV, 20.04.2018 n. 2397, 19.12.2016 n. 5363, 23.05.2016 n. 2116, 07.09.2016 n. 3823, 25.09.2014 n. 4818), secondo cui:
   - premesso che, in base all'art. 11, comma 1, del T.U. edilizia di cui al D.P.R. 380/2001, il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo, la legittimazione attiva a chiedere il rilascio di un titolo abilitativo edilizio si configura in capo non solo al proprietario del terreno, ma pure al soggetto titolare di altro diritto di godimento del fondo, che lo autorizzi a disporne al riguardo (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 15.07.2010 n. 4557, 02.09.2011 n. 4968);
   - vi è il contestuale onere della P.A. di accertare con serietà e rigore siffatta legittimazione a chiedere il titolo edilizio (arg. ex Cons. Stato, sez. IV, 07.09.2016 n. 3823), dovendo pertanto la P.A. accertare che l’istante sia il proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività edificatoria (cfr. Cons. Stato, sez. V, 04.04.2012 n. 1990);
   - al riguardo, non si sono mai posti dubbi in ordine ai limiti legali, i quali, trovando applicazione generalizzata, concorrono a formare lo statuto generale dell'attività edilizia e non pongono problemi di conoscibilità all'amministrazione che è tenuta a considerarli sempre;
   - diversamente, per le limitazioni negoziali del diritto di costruire, la giurisprudenza in passato ha oscillato fra la soluzione che ne esclude ogni rilevanza, nel presupposto che all'amministrazione sia inibito qualsiasi sindacato anche indiretto sulla validità ed efficacia dei rapporti giuridici dei privati (cfr. Cons. Stato, sez. V, 20.12.1993, n. 1341), e quella opposta che, invece, ammette che il Comune verifichi il rispetto dei limiti privatistici, purché siano immediatamente conoscibili, effettivamente e legittimamente conosciuti nonché del tutto incontestati, di guisa che il controllo si traduca in una semplice presa d'atto (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2007 n. 1206);
   - la più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, superando l'indirizzo più risalente, è oggi allineata nel senso che l'Amministrazione, quando venga a conoscenza dell'esistenza di contestazioni sul diritto del richiedente il titolo abilitativo, debba compiere le necessarie indagini istruttorie per verificare la fondatezza delle contestazioni, senza però sostituirsi a valutazioni squisitamente civilistiche (che appartengono alla competenza dell’A.G.O.), arrestandosi dal procedere solo se il richiedente non sia in grado di fornire elementi prima facie attendibili.
3. Facendo applicazione dei su menzionati principi al caso di specie, è evidente che il Comune resistente ha omesso anche il minimo controllo sulla legittimazione dei richiedenti la concessione edilizia a disporre, in virtù di un titolo (legale, giudiziale ovvero negoziale), dell’intera area: compresa la porzione (insistente su una parte del mappale 1151) oggetto di formale e circostanziata opposizione all’intervento costruttivo manifestata in sede procedimentale dalla parte ricorrente.
4. In tali limiti, va dunque dato atto dell’illegittimità dell’avversato titolo edificatorio: impregiudicato, ovviamente, l’esito del giudizio petitorio pendente dinanzi alla competente A.G.O., a fronte del quale competerà comunque all’Autorità comunale nuovamente pronunziarsi in conformità dell’accertata consistenza ed estensione dominicale delle confinanti proprietà.
5. Quanto alla sospensione del titolo, gravata con motivi aggiunti in ragione della pretesa esorbitanza del provvedimento soprassessorio (concernente l’intero titolo ad aedificandum rispetto alla portata applicativa dell’ordinanza cautelare resa da a fronte dell’impugnazione di cui all’atto introduttivo del giudizio), va escluso che parte ricorrente vanti legittimazione alla sollecitazione del sindacato giurisdizionale, come, del resto, osservato con ordinanza di questa Sezione n. 288 del 04.05.2009 (con la quale si è osservato che, “sotto il profilo processuale l’utilizzo dei motivi aggiunti è improprio, in quanto la nuova controversia, pur essendo connessa a quella originaria, riguarda un provvedimento di segno opposto a quello impugnato dalla società ricorrente, con inversione della legittimazione e dell’interesse ad agire”).
I motivi aggiunti, conseguentemente, sono inammissibili (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 28.09.2018 n. 924 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla demolizione di un chiosco realizzato su suolo demaniale.
La disciplina di cui all'art. 35 del d.P.R. n. 380 del 2001 presenta diverse peculiarità rispetto a quella per così dire “ordinaria” dettata dall'art. 31 del medesimo T.U. dell'edilizia: e ciò in ragione della peculiare gravità della condotta sanzionata, che riguarda la costruzione di opere abusive su suoli pubblici.
In particolare, nei casi indicati dall’art. 35 il Comune non ha spazio per alcun tipo di valutazione discrezionale, nel senso che una volta accertata la realizzazione di interventi eseguiti in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire su suoli demaniali, deve ordinarne la demolizione al relativo responsabile. Non è ammessa la possibilità che l’immobile possa essere mantenuto e non demolito; non è ammesso altresì che l’abuso possa essere sanato.
Legittimato passivo della sanzione è unicamente “il responsabile dell’abuso”, a differenza di quanto previsto dall’art. 31 in base al quale la demolizione può essere legittimamente comminata anche al proprietario non responsabile dell’abuso.
La differenza tra l’art. 31 e l’art. 35 del T.U., circa la possibilità di sanzionare il proprietario non responsabile dell’abuso, trova la sua giustificazione nelle diverse conseguenze che discendono sul piano sanzionatorio ed esecutivo dalla mancata ottemperanza all’ordine di demolizione.
L’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001 riguarda le opere realizzate in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali rispetto allo stesso, su suoli privati e le sanziona con la demolizione nonché con la previsione che, in caso di mancata esecuzione dell’ordine di demolizione, si determina ex lege l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere, dell’area di sedime e di un’area pertinenziale sino a dieci volte la superficie abusivamente edificata.
La possibilità di essere spossessato, oltre che della titolarità dell’immobile, anche dell’area di sedime e dell’area pertinenziale, è la principale ragione che giustifica l’inclusione del proprietario, anche nel caso in cui questi non sia responsabile delle violazioni accertate, tra i soggetti passivi dell’illecito urbanistico-edilizio.
Tale coinvolgimento non ha, invece, ragion d’essere nei casi contemplati dall’art. 35 del T.U. in cui l’abuso è realizzato su suoli pubblici, considerato che l’area di sedime dell’opera non è di proprietà privata, ma della P.A. e atteso che quest’ultima è comunque destinata ad assumere la titolarità di quanto edificato al di sopra dell’area stessa, secondo la regola generale dell’accessione di cui all’art. 934 cod. civ..
Per tale ragione l’art. 35 del d.P.R. 380/2001 ha previsto come unico legittimato passivo il responsabile dell'abuso e non anche il proprietario.
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L’ordinanza di demolizione da cui origina la vertenza è stata legittimamente adottata e notificata nei confronti del solo responsabile dell'abuso (nella specie il concessionario, signor St.Ga.), ovvero di colui che ha realizzato le opere senza i necessari titoli edilizi o in difformità dagli stessi.
La demolizione del chiosco ottagonale per cui è causa, realizzato su suolo demaniale, è stata, invero, disposta dal Comune ai sensi dell’art. 35 del d.P.R. n. 380 del 2001: tale norma, che disciplina gli interventi abusivi realizzati su suoli di proprietà dello Stato o di enti pubblici, prevede che qualora sia accertata la realizzazione di interventi in assenza di permesso di costruire o di denuncia di inizio attività, ovvero in totale o parziale difformità dai medesimo, su suoli del demanio o del patrimonio dello Stato o di enti pubblici, debba essere ordinata al “responsabile dell'abuso” la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi.
La disciplina di cui all'art. 35 del d.P.R. n. 380 del 2001 presenta diverse peculiarità rispetto a quella per così dire “ordinaria” dettata dall'art. 31 del medesimo T.U. dell'edilizia, richiamata dall’odierna ricorrente: e ciò in ragione della peculiare gravità della condotta sanzionata, che riguarda la costruzione di opere abusive su suoli pubblici.
In particolare, nei casi indicati dall’art. 35 il Comune non ha spazio per alcun tipo di valutazione discrezionale, nel senso che una volta accertata la realizzazione di interventi eseguiti in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire su suoli demaniali, deve ordinarne la demolizione al relativo responsabile. Non è ammessa la possibilità che l’immobile possa essere mantenuto e non demolito; non è ammesso altresì che l’abuso possa essere sanato.
Legittimato passivo della sanzione è unicamente “il responsabile dell’abuso”, a differenza di quanto previsto dall’art. 31 in base al quale la demolizione può essere legittimamente comminata anche al proprietario non responsabile dell’abuso (cfr. TAR Napoli sez. IV n. 3935/2012; TAR Salerno 1820/2013; TAR Puglia Bari 678/2014).
La differenza tra l’art. 31 e l’art. 35 del T.U., circa la possibilità di sanzionare il proprietario non responsabile dell’abuso, trova la sua giustificazione nelle diverse conseguenze che discendono sul piano sanzionatorio ed esecutivo dalla mancata ottemperanza all’ordine di demolizione.
L’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001 riguarda le opere realizzate in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali rispetto allo stesso, su suoli privati e le sanziona con la demolizione nonché con la previsione che, in caso di mancata esecuzione dell’ordine di demolizione, si determina ex lege l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere, dell’area di sedime e di un’area pertinenziale sino a dieci volte la superficie abusivamente edificata.
La possibilità di essere spossessato, oltre che della titolarità dell’immobile, anche dell’area di sedime e dell’area pertinenziale, è la principale ragione che giustifica l’inclusione del proprietario, anche nel caso in cui questi non sia responsabile delle violazioni accertate, tra i soggetti passivi dell’illecito urbanistico-edilizio.
Tale coinvolgimento non ha, invece, ragion d’essere nei casi contemplati dall’art. 35 del T.U. in cui l’abuso è realizzato su suoli pubblici, considerato che l’area di sedime dell’opera non è di proprietà privata, ma della P.A. e atteso che quest’ultima è comunque destinata ad assumere la titolarità di quanto edificato al di sopra dell’area stessa, secondo la regola generale dell’accessione di cui all’art. 934 cod. civ..
Per tale ragione l’art. 35 del d.P.R. 380/2001 ha previsto come unico legittimato passivo il responsabile dell'abuso e non anche il proprietario.
Nel caso di specie il responsabile dell’abuso è pacificamente il sig. St.Ga., concessionario demaniale e titolare delle autorizzazioni edilizie in precario, come accertato dal Comune e ammesso dalla stessa ricorrente che, nel corso del sopralluogo del 2007, dichiarava alla Polizia Municipale che committente ed esecutore materiale del nuovo chiosco era proprio il sig. Ga.: il procedimento sanzionatorio si è, pertanto, legittimamente svolto nei suoi confronti, senza che si rendesse necessario il coinvolgimento dell’odierna ricorrente.
Ferme le considerazioni che precedono, la domanda risarcitoria è comunque infondata in quanto la ricorrente non ha provato l'ingiustizia (lesività) sostanziale dell’ordinanza di demolizione, cioè l’impossibilità per la P.A. di adottare un atto di contenuto analogo a quello affetto dal supposto vizio formale o procedimentale, dovendosi ritenere necessario per l’ammissione a risarcimento il giudizio prognostico circa la non reiterabilità dell’atto che si assume viziato da un vizio formale o procedimentale.
Risulta, inoltre, dagli atti di causa che la ricorrente è di fatto comunque venuta a conoscenza della possibilità di recuperare gli arredi del chiosco (arg. in base a doc. 49 P.A.: avviso di sgombero del chiosco da eventuali arredi, suppellettili, etc. notificato dal Comune al Ga. il 25.11.2010 e ricevuto a mani dall’odierna ricorrente, La Ro.An., convivente, prot. notifiche n. 2741; v. anche doc. 59 e 51 P.A., lettera avv. Ca., in cui si afferma che la ricorrente è di fatto venuta a conoscenza della comunicazione circa la possibilità di recuperare entro il 26.06.2011 i beni mobili presenti nel chiosco, notificata dal Comune al Ga. e ricevuta dalla figlia della ricorrente, sig.ra Al.Fe.).
La mancata tempestiva attivazione della ricorrente per il recupero dei beni mobili presenti nel chiosco, pur a fronte dell’intervenuta conoscenza delle diffide inviate dal Comune, preclude l’ammissione a risarcimento, dovendosi escludere, in base agli artt. 30 c.p.a. e 1227 cod. civ., la risarcibilità dei danni evitabili con l’ordinaria diligenza (art. 30, comma 3, c.p.a. “Il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza...”; art. 1227, comma 2, cod. civ.. “Il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza”).
Per tutto quanto sin qui esposto, il ricorso deve essere respinto (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 28.09.2018 n. 308 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il lotto edificabile è uno spazio fisico che prescinde dal profilo dominicale (ben può, cioè, il lotto edificabile essere formato da appezzamenti di terreno appartenenti a diversi proprietari e perfino tra loro non contigui), individuandosi esclusivamente sulla base degli indici edificatori previsti dalla normativa urbanistica.
Solo con il rilascio della concessione edilizia il lotto edificabile viene ad essere concretamente delimitato, con definizione delle potenzialità edificatorie del fondo, unitariamente considerato, e determinazione della cubatura ivi assentibile in relazione ai limiti imposti dalla normativa urbanistica.
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B.1 Il primo motivo di ricorso è infondato.
La giurisprudenza (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.09.2013 n. 4531) ha affermato che “il lotto edificabile è uno spazio fisico che prescinde dal profilo dominicale (ben può, cioè, il lotto edificabile essere formato da appezzamenti di terreno appartenenti a diversi proprietari e perfino tra loro non contigui), individuandosi esclusivamente sulla base degli indici edificatori previsti dalla normativa urbanistica. Solo con il rilascio della concessione edilizia il lotto edificabile viene ad essere concretamente delimitato, con definizione delle potenzialità edificatorie del fondo, unitariamente considerato, e determinazione della cubatura ivi assentibile in relazione ai limiti imposti dalla normativa urbanistica”.
Inoltre la L.R. 12/2005 ha favorito il passaggio da una urbanistica del piano ad una urbanistica del progetto, per cui molte norme attribuiscono ai piani attuativi l’individuazione dei lotti (art. 27 e 93 L.R. 12/2005). A ciò si aggiunge che l’art. 10 della legge regionale attribuisce al Piano delle regole solo l’individuazione dei lotti liberi (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 27.09.2018 n. 2163 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: E' legittimo che il PGT introduca dei limiti ai contenuti dei PII.
Invero, i Piani integrati di intervento sono stati definiti “come strumenti urbanistici di secondo livello rispetto al p.r.g., con finalità di riqualificare il tessuto urbanistico, edilizio ed ambientale del territorio, e sono caratterizzati tra l’altro, dall’integrazione di differenti tipologie di intervento, ivi comprese le opere di urbanizzazione. In particolare, essi mirano ad obiettivi di riqualificazione dei tessuti urbani, anche in relazione all’aspetto ambientale, mediante un insieme coordinato di interventi e risorse, pubblici e privati”. E secondo l’art. 91 della legge urbanistica lombarda i PII sono presentati “in attuazione dei contenuti del documento di piano di cui all’articolo 8”.
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B.2 Il secondo motivo è infondato.
I Piani integrati di intervento sono stati definiti “come strumenti urbanistici di secondo livello rispetto al p.r.g., con finalità di riqualificare il tessuto urbanistico, edilizio ed ambientale del territorio, e sono caratterizzati tra l’altro, dall’integrazione di differenti tipologie di intervento, ivi comprese le opere di urbanizzazione. In particolare, essi mirano ad obiettivi di riqualificazione dei tessuti urbani, anche in relazione all’aspetto ambientale, mediante un insieme coordinato di interventi e risorse, pubblici e privati” (Tar Lombardia, Milano, II, 28.03.2007, n. 1241).
Secondo l’art. 91 della legge urbanistica regionale i PII sono presentati “in attuazione dei contenuti del documento di piano di cui all’articolo 8”. Da ciò deriva che è legittimo che il PGT introduca dei limiti ai contenuti dei PII (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 27.09.2018 n. 2163 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Il Consiglio di stato, dopo avere evidenziato che la Valutazione ambientale strategica (Vas) non è configurata come un procedimento o un sub procedimento autonomo rispetto alla procedura di pianificazione, ha affermato che è legittima, e anzi quasi fisiologica l'evenienza che l'Autorità competente alla Valutazione ambientale strategica (Vas) sia identificata in un organo o ufficio interno alla stessa Autorità procedente.
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B.5 Il quinto motivo è infondato.
Il Tribunale regionale amministrativo (Tar) Lombardia, Milano, Sezione II, con la sentenza numero 188, del 27.01.2010, aveva riconosciuto al ricorrente portatore di un interesse strumentale all'impugnazione di uno strumento urbanistico al fine di una riedizione del potere amministrativo pianificatorio detto interesse strumentale. Detta decisione teneva presente il precedente pronunciamento del Consiglio di stato, sezione V, espresso con la sentenza del 15.11.2001, n. 5839.
Ora, il Consiglio di stato, sezione IV, con la sentenza del 12.01.2011, numero 133, dopo avere evidenziato che la Valutazione ambientale strategica (Vas) non è configurata come un procedimento o un sub procedimento autonomo rispetto alla procedura di pianificazione, ha affermato che è legittima, e anzi quasi fisiologica l'evenienza che l'Autorità competente alla Valutazione ambientale strategica (Vas) sia identificata in un organo o ufficio interno alla stessa Autorità procedente (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 27.09.2018 n. 2163 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sussiste l’obbligo del Comune di provvedere sull’istanza di repressione di abusi edilizi realizzati sul terreno confinante, formulatagli dal relativo proprietario, il quale, proprio per tal aspetto che s’invera nel concetto di vicinitas, gode d’una legittimazione differenziata rispetto alla collettività subendo gli effetti (nocivi) immediati e diretti della commissione dell’eventuale illecito edilizio non represso nell’area limitrofa alla sua proprietà, onde egli è titolare d’un interesse legittimo all’esercizio di tali poteri di vigilanza e, quindi, può proporre l’azione a seguito del silenzio ai sensi dell’art. 31 d.lgs. n. 104/2010 (CPA), che segue il rito di cui ai successivi artt. 112 e ss. c.p.a..
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S’osserva che il presente giudizio ha ad oggetto l’impugnativa del silenzio, serbato dal Comune di San Marzano sul Sarno, che si sarebbe concretizzato non riscontrando, l’ente, la diffida del ricorrente del 15.06.2017, prot. 8980 e non emanando gli atti, conseguenti all’ordinanza di demolizione degli abusi edilizi, riscontrati presso l’abitazione della controinteressata, ex art. 31 e ss. d.P.R. 380/2001, mercé l’attivazione del procedimento d’esecuzione d’ufficio dell’ordinanza in questione, rimasta inottemperata; tanto, come esplicitato nel testo della diffida in questione, stante l’intervenuto rigetto, per silentium, ex art. 36, comma 3, d.P.R. 380/2001, dell’istanza d’accertamento di conformità, relativa agli abusi suddetti, presentata dall’interessata.
Ciò posto, vanno esaminate le eccezioni d’inammissibilità del ricorso, variamente sollevate dalle difese delle resistenti Amministrazione Comunale e controinteressata.
La prima eccezione, sollevata dalla difesa di quest’ultima, è imperniata sul preteso difetto d’interesse ad agire del ricorrente, il quale alcun concreto pregiudizio subirebbe, in tesi, per effetto della mancata eliminazione delle opere edilizie abusive de quibus, per di più “interne all’abitazione della Sc.”.
L’eccezione è infondata.
Come affermato, di recente, dalla Sezione, infatti: “Sussiste l’obbligo del Comune di provvedere sull’istanza di repressione di abusi edilizi realizzati sul terreno confinante, formulatagli dal relativo proprietario, il quale, proprio per tal aspetto che s’invera nel concetto di vicinitas, gode d’una legittimazione differenziata rispetto alla collettività subendo gli effetti (nocivi) immediati e diretti della commissione dell’eventuale illecito edilizio non represso nell’area limitrofa alla sua proprietà, onde egli è titolare d’un interesse legittimo all’esercizio di tali poteri di vigilanza e, quindi, può proporre l’azione a seguito del silenzio ai sensi dell’art. 31 d.lgs. n. 104/2010 (CPA), che segue il rito di cui ai successivi artt. 112 e ss. c.p.a.” (TAR Campania–Salerno, Sez. II, 12/04/2018, n. 546) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 27.09.2018 n. 1333 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione della domanda di accertamento di conformità, ex art. 36 d.P.R. n. 380/2001, non comporta alcuna paralisi dei poteri sanzionatori già esercitati dal Comune e, dunque, non determina l’inefficacia sopravvenuta dell’ingiunzione di demolizione emessa.
L’esecuzione di tale sanzione, infatti, in pendenza del termine di decisione della domanda di sanatoria, viene solo temporaneamente sospesa, pertanto, in mancanza di tempestiva impugnazione del diniego taciuto, maturato per decorso del termine di 60 giorni dalla presentazione dell’istanza, l’ingiunzione di demolizione può essere eseguita e non è necessaria da parte dell’amministrazione comunale l’emanazione di ulteriori atti sanzionatori.
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L’ulteriore eccezione d’inammissibilità del gravame, sollevata dalla difesa della Sc., è poi fondata sul dedotto obbligo del Comune, una volta respinta l’istanza di sanatoria presentata dall’interessata, di riattivare il procedimento, volto alla repressione degli abusi edilizi, mercé l’emissione di una nuova ordinanza di demolizione dei medesimi.
Anche tale eccezione è priva di pregio, posto che la Sezione ha aderito alla diversa opzione ermeneutica, espressa, da ultimo, nella massima che segue: “La presentazione della domanda di accertamento di conformità, ex art. 36 d.P.R. n. 380/2001, non comporta alcuna paralisi dei poteri sanzionatori già esercitati dal Comune e, dunque, non determina l’inefficacia sopravvenuta dell’ingiunzione di demolizione emessa. L’esecuzione di tale sanzione, infatti, in pendenza del termine di decisione della domanda di sanatoria, viene solo temporaneamente sospesa, pertanto, in mancanza di tempestiva impugnazione del diniego taciuto, maturato per decorso del termine di 60 giorni dalla presentazione dell’istanza, l’ingiunzione di demolizione può essere eseguita e non è necessaria da parte dell’amministrazione comunale l’emanazione di ulteriori atti sanzionatori” (Consiglio di Stato, sez. VI, 06/06/2018, n. 3417).
Vero è che, nella specie, il Comune di San Marzano sul Sarno –dopo la concretizzazione del rigetto per silentium dell’istanza di accertamento di conformità– licenziava anche diniego espresso circa la stessa (provvedimento di diniego definitivo, prot. n. 1114 del 22.01.2018, notificato alla Sc. in data 24.01.2018); diniego definitivo che era gravato di ricorso, innanzi a questo Tribunale (R. G. n. 604/2018).
La circostanza, peraltro, non sposta evidentemente i termini della questione, non potendosi evidentemente ravvisare, in detta circostanza, alcuna inammissibilità del presente ricorso (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 27.09.2018 n. 1333 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Rilevazione automatica delle presenze per gli avvocati di una Azienda sanitaria, attuato mediante l’uso del cd. badge.
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Pubblico impiego privatizzato – Avvocati di Enti pubblici - Rilevazione automatica delle presenze mediante l’uso del cd. badge – Legittimità.
E’ legittima la delibera del Direttore generale del personale di una Azienda sanitaria che impone anche agli avvocati dell’Azienda di marcare con il badge l’entrata e l’uscita dal posto di lavoro, pena l’adozione di misure disciplinari (1).
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   (1) Ha chiarito la sezione che l’autonomia e l’indipendenza qualificanti l’esercizio di una determinata attività lavorativa, quale quella degli Avvocati di enti pubblici, possono assumere –e concretamente assumono– contenuti e modalità di estrinsecazione diverse, in relazione alla tipologia di prestazione che viene in rilievo ed alla connessa esigenza, avvertita e tutelata dall’ordinamento, di evitare che le stesse risultino compromesse da scelte organizzative con esse confliggenti, promananti dall’Amministrazione di appartenenza.
In particolare, con riguardo alla posizione dei cd. avvocati pubblici, ovvero quelli che sono incardinati organizzativamente presso un determinato ente pubblico ed ai quali è affidato lo ius postulandi nell’interesse dell’ente di appartenenza, deve osservarsi che le loro prerogative di indipendenza ed autonomia, proprio perché affidatari dell’interesse di una parte, attengono essenzialmente al “modo” in cui perseguire quell’interesse, ovvero alle scelte difensive da mettere in pratica per la sua migliore tutela, con la conseguenza che non rischiano di essere pregiudicate, anche nella percezione ab externo, da forme di controllo, circa le modalità anche temporali di svolgimento della loro prestazione, che con quelle scelte non siano, direttamente o indirettamente, interferenti.
Non può escludersi, tuttavia, che determinate forme di controllo, pur rivolte in via diretta a verificare le modalità temporali di assolvimento della prestazione professionale dell’avvocato pubblico, quindi attinenti agli aspetti “estrinseci” della stessa, si rivelino oggettivamente idonee ad intaccare il “nucleo essenziale” dei requisiti di indipendenza ed autonomia della sua attività lavorativa: si pensi, con riguardo al meccanismo oggetto di controversia, all’ipotesi in cui l’autorizzazione all’uscita dalla sede di servizio, per recarsi presso un ufficio giudiziario, debba essere rilasciata da un Settore dell’Amministrazione diverso da quello di inquadramento dell’avvocato (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 26.09.2018 n. 5538 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Circa le immagini presenti sul programma Google Earth, i relativi fotogrammi costituiscono prove documentali pienamente utilizzabili anche in sede penale.
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I due ricorsi sono connessi e devono essere riuniti.
Risulta in atti che, nel 1987, Cr.An. ha presentato al Comune di Catanzaro un’istanza di condono ai sensi della L. 47/1985, al fine di sanare l’immobile realizzato abusivamente alla via ... n. 135, identificato catastalmente al fl. 5, part. 333, sub. 10.
Al riguardo, il Comune ha dapprima rilasciato la concessione edilizia in sanatoria in data 27.10.2008 n. 94087, che poi ha però annullato in autotutela, con ordinanza dirigenziale 28.11.2012. n. 90422, a seguito di accertamenti successivi, effettuati a seguito di denuncia presentata da Fu.Sa..
Quindi, con ordinanza n. 44 del 12.12.2012, impugnata con motivi aggiunti, è stato fatto divieto a Cr.Al. (che nel frattempo ha acquistato l’immobile oggetto di causa) di proseguire l’attività commerciale svolta nello stesso immobile, in quanto privo di titolo edilizio.
Poiché quest’ultimo atto è stato impugnato per vizi derivati dall’illegittimità dell’annullamento in autotutela della concessione in sanatoria e del certificato di agibilità, ai fini della valutazione del merito del complessivo gravame, è preminente la trattazione sulla legittimità dell’ordinanza n. 90422/2012 (di annullamento della concessione edilizia in sanatoria), poiché la legittimità, o meno, di quest’ultima comporta la legittimità, o meno, dell’ordinanza n. 44/2012.
A tal proposito, va osservato che la domanda di condono presentata da Cr.An., per poter essere accolta, deve avere ad oggetto un’opera ultimata, sia pure abusivamente, entro la data del 01.10.1983, come prescritto dall’art. 31 della L. 47/1985, con la precisazione che “si intendono ultimati gli edifici nei quali sia stato eseguito il rustico e completata la copertura, ovvero, quanto alle opere interne agli edifici già esistenti e a quelle non destinate alla residenza, quando esse siano state completate funzionalmente”.
Dunque, il presupposto indispensabile per potersi avvalere dei benefici della legge suddetta è ravvisabile nell’ultimazione dei lavori di costruzione entro la data del 01.10.1983.
Detta circostanza è stata però confutata, con argomentazioni condivisibili, dal verificatore ing. An.Dr., il quale ha attestato che l’opera è stata realizzata addirittura dopo la presentazione della domanda di sanatoria e comunque successivamente all’anno 2001 e che l’immobile, a quell’epoca, era di dimensione differente rispetto allo stato rappresentato in progetto.
Questo, sulla scorta delle aerofotogrammetrie acquisite presso l’Amministrazione e delle immagini presenti sul programma Google Earth, i cui fotogrammi costituiscono prove documentali pienamente utilizzabili anche in sede penale (cfr. Cass. pen., Sez. III, 15.09.2017 n. 48178).
Per altro, a fronte di ciò, parte ricorrente non ha fornito alcuna dimostrazione contraria, almeno in ordine alle effettive dimensioni dell’immobile ed all’epoca del suo completamento, lamentando soltanto l’inattendibilità della verificazione suddetta; quando invece incombe sul ricorrente, che agisce e afferma, la prova documentata dell'anteriorità, rispetto alla data finale prevista dalla legge sul condono edilizio, dell'ultimazione dei lavori abusivi. In mancanza di tale prova, la tesi dell’amministrazione sorregge adeguatamente la legittimità del diniego di condono impugnato (cfr. TAR Campania Napoli, Sez. III, 20.11.2012 n. 4638).
Opera, quindi, nella fattispecie, il pacifico principio secondo cui, allorquando una concessione edilizia in sanatoria sia stata ottenuta in base ad una falsa, o comunque erronea, rappresentazione della realtà materiale, è consentito alla P.A. esercitare il proprio potere di autotutela, ritirando l’atto, senza necessità di esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse che, in tale ipotesi, deve ritenersi sussistente in re ipsa (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 08.01.2013 n. 39).
Donde, l’annullamento anche del certificato di agibilità, che non può essere rilasciato per fabbricati abusivi e non condonati (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 07.03.2018 n. 1458).
La definizione sfavorevole del ricorso principale n. 1377/2012 determina, infine, anche il rigetto del ricorso n. 1388/2014 (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 25.09.2018 n. 1604 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

SICUREZZA LAVORO: APPALTI - SICUREZZA SUL LAVORO - Appalto di lavori di tipo domestico, quali ristrutturazioni, pitturazione, ecc. - Responsabilità del committente dei lavori - Onere di vigilanza - Dovere di sicurezza gravante sul datore di lavoro - Assenza della redazione di un documento di valutazione dei rischi o della nomina di un responsabile dei lavori - Configurabilità della responsabilità - Valutazione dei rischi e organizzazione delle opere - Committente corresponsabile con l'appaltatore - Giurisprudenza - Art. 26 e 90 d.lgs. 81/2008.
In tema di sicurezza sul lavoro, dal committente non può esigersi un controllo pressante, continuo e capillare sull'organizzazione e sull'andamento dei lavori con la conseguenza che ai fini della configurazione della responsabilità del committente, occorre verificare in concreto quale sia stata l'incidenza della sua condotta nell'eziologia dell'evento, a fronte delle capacità organizzative della ditta scelta per l'esecuzione dei lavori, avuto riguardo alla specificità dei lavori da eseguire, ai criteri seguiti dallo stesso committente per la scelta dell'appaltatore o del prestatore d'opera, alla sua ingerenza nell'esecuzione dei lavori oggetto di appalto o del contratto di prestazione d'opera, nonché alla agevole ed immediata percepibilità da parte del committente di situazioni di pericolo (Cass. Sez. 4, n. 3563 del 18/01/2012 - dep. 30/01/2012, Marangio e altri; nel medesimo senso Sez. 4, Sentenza n. 44131 del 15/07/2015 Ud. (dep. 02/11/2015); Sez. 4, n. 27296 del 02/12/2016 - dep. 31/05/2017, Vettor).
Pertanto, pur dovendosi escludere che incomba sul committente -ed ancor di più su un committente che può, in qualche modo, definirsi 'non professionale', come quello che appalta lavori di tipo domestico, quali ristrutturazioni, pitturazione, ecc.- un onere di vigilanza continua sullo svolgimento delle opere, deve affermarsi che il medesimo, in assenza della redazione di un documento di valutazione dei rischi o della nomina di un responsabile dei lavori, cui sia conferito anche il compito di realizzare la sicurezza del cantiere prima della realizzazione delle opere, ha l'onere generalissimo di mettere l'appaltatore nella condizione di operare in sicurezza.
E ciò, non solo segnalando i pericoli, ma provvedendo alla loro eliminazione prima dell'inizio dell'attività, così da consentire a colui al quale siano affidati i lavori di assumere, anche in qualità di datore di lavoro (quando non operi come artigiano) i rischi proprii delle lavorazioni e non i rischi derivanti dalla conformazione dei luoghi.
Solo, infatti, nell'ipotesi in cui l'oggetto dell'incarico -dei pur minimi interventi consistenti nella pitturazione di un'abitazione- includa la messa in sicurezza dei luoghi sui quali insisterà il cantiere, così da consegnarlo agli esecutori scevro da ogni pericolo, è possibile per il committente andare esente da responsabilità, che, al contrario, resta in capo a lui quando l'incarico o gli incarichi siano conferiti per la sola esecuzione delle opere, non estendendosi espressamente all'eliminazione dei rischi preesistenti, al fine della consegna dei luoghi in piena sicurezza
(Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 24.09.2018 n. 40922 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 19, comma 4, della legge n. 241/1990 –il quale prevede che “decorso il termine per l’adozione dei provvedimenti (inibitori, ndr.) di cui al comma 3, primo periodo, ovvero di cui al comma 6-bis, l’amministrazione competente adotta comunque i provvedimenti previsti dal medesimo comma 3 in presenza delle condizioni previste dall’art. 21-nonies”– deve essere interpretato conformemente ai principi generali vigenti in materia di autotutela decisoria e, pertanto, quale fattispecie normativa che estende ai titoli abilitativi privati, come la DIA e la SCIA, il regime generale dell’annullamento d’ufficio, beninteso incidente sugli effetti discendenti da tali titoli e non sull’atto amministrativo da rimuovere, di per sé inesistente.
Del resto, non si ravvisano alcun fondamento normativo né ragioni dogmatiche che inducano a ritenere i titoli abilitativi privati, a differenza dei titoli abilitativi rilasciati dalla p.a., non soggetti al potere di annullamento in autotutela, non potendosi riconoscere all’affidamento riposto nella legittimità di una DIA o di una SCIA una tutela maggiore di quella che l’ordinamento riconosce ad analogo affidamento suscitato da un titolo di fonte provvedimentale.
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3.2 Ebbene, con una prima censura, parte ricorrente sostiene che la DIA, avendo natura di atto privato volto a comunicare l’intenzione di intraprendere un’attività direttamente ammessa dalla legge, non è assoggettabile al potere di annullamento in autotutela, che riguarderebbe solo formali provvedimenti amministrativi.
La doglianza non merita condivisione.
L’art. 19, comma 4, della legge n. 241/1990 –il quale prevede che “decorso il termine per l’adozione dei provvedimenti (inibitori, ndr.) di cui al comma 3, primo periodo, ovvero di cui al comma 6-bis, l’amministrazione competente adotta comunque i provvedimenti previsti dal medesimo comma 3 in presenza delle condizioni previste dall’art. 21-nonies”– deve essere interpretato conformemente ai principi generali vigenti in materia di autotutela decisoria e, pertanto, quale fattispecie normativa che estende ai titoli abilitativi privati, come la DIA e la SCIA, il regime generale dell’annullamento d’ufficio, beninteso incidente sugli effetti discendenti da tali titoli e non sull’atto amministrativo da rimuovere, di per sé inesistente.
Del resto, non si ravvisano alcun fondamento normativo né ragioni dogmatiche che inducano a ritenere i titoli abilitativi privati, a differenza dei titoli abilitativi rilasciati dalla p.a., non soggetti al potere di annullamento in autotutela, non potendosi riconoscere all’affidamento riposto nella legittimità di una DIA o di una SCIA una tutela maggiore di quella che l’ordinamento riconosce ad analogo affidamento suscitato da un titolo di fonte provvedimentale (cfr. TAR Puglia Bari, Sez. II, 20.02.2017 n. 158) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 24.09.2018 n. 5574 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il fattore tempo preso in considerazione dall’art. 21-nonies della legge n. 241/1990 è da intendere in un’ottica non parametrica ma relazionale, riferita al complesso delle circostanze rilevanti nella singola situazione di fatto.
E' sicuramente vero che il termine ridotto di 18 mesi si applica a tutti gli atti aventi funzione ampliativo/abilitativa della sfera giuridica privata, inclusa la DIA, e che rispetto agli atti adottati anteriormente all’attuale versione dell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990, il termine di 18 mesi va computato con decorrenza dalla data di entrata in vigore della novella introdotta dalla legge n. 124/2015 (28.08.2015) e salva, comunque, l’operatività del “termine ragionevole” già previsto dall’originaria versione dell’art. 21-nonies cit..
E’ parimenti vero ed incontrovertibile che il provvedimento di autotutela in questione è intervenuto (nel caso di specie) abbondantemente oltre sia il termine di 18 mesi dall’entrata in vigore della legge n. 124/2015 sia il termine ragionevole dall’adozione dell’atto, individuabile in 10 anni con riferimento al termine ordinario di prescrizione.
Tuttavia, lo sforamento di entrambi i suddetti termini di legge, con conseguente irragionevolezza delle modalità temporali di intervento, non implica di per sé l’illegittimità del provvedimento di autotutela, ma impone all’amministrazione procedente di munire tale provvedimento di una motivazione rafforzata circa la persistente concretezza e attualità dell’interesse pubblico alla rimozione dell’atto di primo grado.
Invero, come ha avuto modo di chiarire l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato in una recente pronuncia resa proprio in materia di autotutela in ambito edilizio, il fattore tempo preso in considerazione dall’art. 21-nonies della legge n. 241/1990 è da intendere in un’ottica non parametrica ma relazionale, riferita al complesso delle circostanze rilevanti nella singola situazione di fatto.
Ne discende, secondo tale pronuncia, che il decorso di un considerevole lasso di tempo dal rilascio del titolo edilizio, laddove comporti la violazione del criterio di ragionevolezza del termine (prefissato o meno dal legislatore nella sua misura), non esaurisce il potere di annullare in autotutela il titolo medesimo, ma piuttosto “onera l’amministrazione del compito di valutare motivatamente se l’annullamento risponda ancora a un effettivo e prevalente interesse pubblico di carattere concreto e attuale”.

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4. Con una seconda articolata censura, la ricorrente stigmatizza la tardività del provvedimento di autotutela, intervenuto a distanza di 15 anni dal perfezionamento della DIA e, quindi, oltre il termine di 18 mesi dall’entrata in vigore della legge n. 124/2015, e comunque ben dopo il termine ragionevole dall’adozione dell’atto, in violazione della tempistica fissata dall’art. 21-nonies della legge n. 241/1990.
La censura, così come formulata, non convince.
L’art. 21-nonies, comma 1, della legge n. 241/1990 così recita (per la parte di odierno interesse): “Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici (periodo introdotto dalla legge n. 124/2015, ndr.), inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell’articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge.”.
Orbene, è sicuramente vero, in virtù di ormai consolidati orientamenti, che il termine ridotto di 18 mesi si applica a tutti gli atti aventi funzione ampliativo/abilitativa della sfera giuridica privata, inclusa la DIA, e che rispetto agli atti adottati anteriormente all’attuale versione dell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990 (come quello di specie), il termine di 18 mesi va computato con decorrenza dalla data di entrata in vigore della novella introdotta dalla legge n. 124/2015 (28.08.2015) e salva, comunque, l’operatività del “termine ragionevole” già previsto dall’originaria versione dell’art. 21-nonies cit. (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 13.07.2017 n. 3462; Consiglio di Stato, Sez. V, 19.01.2017 n. 250; Consiglio di Stato, Sez. VI, 31.08.2016 n. 3762).
E’ parimenti vero ed incontrovertibile che il provvedimento di autotutela in questione è intervenuto abbondantemente oltre sia il termine di 18 mesi dall’entrata in vigore della legge n. 124/2015 sia il termine ragionevole dall’adozione dell’atto, individuabile in 10 anni con riferimento al termine ordinario di prescrizione.
Tuttavia, lo sforamento di entrambi i suddetti termini di legge, con conseguente irragionevolezza delle modalità temporali di intervento, non implica di per sé l’illegittimità del provvedimento di autotutela, ma impone all’amministrazione procedente di munire tale provvedimento di una motivazione rafforzata circa la persistente concretezza e attualità dell’interesse pubblico alla rimozione dell’atto di primo grado.
Invero, come ha avuto modo di chiarire l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato in una recente pronuncia resa proprio in materia di autotutela in ambito edilizio (sentenza n. 8 del 17.10.2017), perfettamente estensibile al caso di specie, il fattore tempo preso in considerazione dall’art. 21-nonies della legge n. 241/1990 è da intendere in un’ottica non parametrica ma relazionale, riferita al complesso delle circostanze rilevanti nella singola situazione di fatto.
Ne discende, secondo tale pronuncia, che il decorso di un considerevole lasso di tempo dal rilascio del titolo edilizio, laddove comporti la violazione del criterio di ragionevolezza del termine (prefissato o meno dal legislatore nella sua misura), non esaurisce il potere di annullare in autotutela il titolo medesimo, ma piuttosto “onera l’amministrazione del compito di valutare motivatamente se l’annullamento risponda ancora a un effettivo e prevalente interesse pubblico di carattere concreto e attuale” (nello stesso senso cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 3462/2017 cit.).
In definitiva, proprio facendo tesoro del superiore insegnamento, si deve concludere che la violazione della tempistica di intervento prevista dalla disposizione legislativa in commento non costituisce di per sé causa di illegittimità del provvedimento di annullamento in autotutela (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 24.09.2018 n. 5574 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: E' principio inveterato che nel caso di contrasto tra planimetrie/grafici e relazioni descrittive di un piano o di un titolo edilizio, deve essere accordata preminenza ai primi, dal momento che la volontà precettiva dell’amministrazione deve intendersi racchiusa nella planimetria o nel grafico, che fissano le caratteristiche tecniche dell’intervento pianificatorio o edilizio progettato, mentre la relazione descrittiva riveste solo funzione illustrativa ed integrativa dell’opera da realizzare, perché possa essere correttamente eseguita.
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5. Con altra censura, meglio sviluppata nei successivi scritti difensivi, la società ricorrente denuncia la carenza di istruttoria in cui sarebbe incorsa l’amministrazione nel qualificare la DIA come atto fondato su una falsa rappresentazione dei fatti, giacché, a suo dire, in entrambi i casi rilevati (cambio di destinazione d’uso e maggiore volumetria) non si tratterebbe di una falsa rappresentazione ma, al più, di un contrasto tra parte analitica e parte grafica del titolo edilizio.
Ad ogni modo, secondo la sua prospettazione, nemmeno sarebbe individuabile un contrasto, e ciò per le due seguenti ragioni:
   1) quanto alla destinazione d’uso alberghiera, essa era chiaramente evincibile, nonostante qualche imprecisione della relazione descrittiva, dagli elaborati grafici, tanto vero che l’amministrazione comunale non ha mai messo in discussione, nel rilascio dei successivi provvedimenti attinenti all’immobile, quali il certificato di agibilità e l’autorizzazione alberghiera, che i lavori assentiti con la DIA fossero finalizzati alla creazione di una struttura ricettiva;
   2) quanto ai dati volumetrici, gli elaborati grafici danno conto che è stata rispettata l’altezza interna originaria del piano terra pari a 3,30 metri, mentre l’altezza di 4,50 metri individuata dal Comune è quella relativa all’estradosso del piano terra stesso.
La doglianza, come complessivamente dedotta, è fondata e merita accoglimento.
Il Collegio condivide i rilievi attorei sulla insussistenza in concreto di una falsa rappresentazione dei fatti, ritenendo al riguardo dirimenti le seguenti osservazioni:
   i) l’incongruenza tra parte analitica e parte grafica della DIA –giustificabile sulla scorta della considerazione che nel 2002, prima dell’introduzione dell’art. 23-ter del d.P.R. n. 380/2001 ad opera del decreto legge n. 133/2014 (convertito nella legge n. 164/2014), non era stato ancora legislativamente sancito che la categoria funzionale turistico-ricettiva fosse distinta da quella residenziale e non costituisse una sua specificazione– era agevolmente superabile dando prevalenza agli elaborati grafici, i quali senza alcun dubbio rappresentavano una struttura alberghiera (e ciò per stessa ammissione dell’amministrazione comunale).
Invero, è principio inveterato che nel caso di contrasto tra planimetrie/grafici e relazioni descrittive di un piano o di un titolo edilizio, deve essere accordata preminenza ai primi, dal momento che la volontà precettiva dell’amministrazione deve intendersi racchiusa nella planimetria o nel grafico, che fissano le caratteristiche tecniche dell’intervento pianificatorio o edilizio progettato, mentre la relazione descrittiva riveste solo funzione illustrativa ed integrativa dell’opera da realizzare, perché possa essere correttamente eseguita (cfr. Cass. Civ., Sez. II, 04.05.1994 n. 4280; Consiglio di Stato, Sez. V, 02.04.1966 n. 563 e 26.05.1962 n. 460).
Ne discende che l’incongruenza era solo apparente e che la DIA in questione non poteva non configurarsi come finalizzata ad assentire, attraverso le opere di risistemazione previste, il cambio di destinazione d’uso da edificio residenziale in struttura ricettiva. D’altronde, lo stesso comportamento successivo dell’amministrazione comunale conferma l’irrilevanza del contrasto tra parte grafica e parte descrittiva e la circostanza, pacifica anche per l’autorità pubblica, che la DIA ricomprendesse la trasformazione del fabbricato in albergo: è a tal riguardo significativo il rilascio, nel corso del 2004, del certificato di agibilità per edificio “con destinazione d’uso ricettivo-alberghiera” e della stessa autorizzazione alberghiera;
   ii) come irrefutabilmente emerge dalla semplice visione degli elaborati grafici acclusi alla DIA e come è suffragato dalla perizia tecnica di parte depositata in atti, rimasta nello specifico incontestata, l’altezza interna del piano terra si attesta a 3,30 metri, mentre è pari a 4,55 metri (e non a 4,50, come rilevato dal Comune) l’altezza dell’estradosso del medesimo piano terra, con il che resta sconfessato per tabulas il riscontrato aumento volumetrico;
   iii) nell’inconcessa ipotesi di insuperabilità dell’incongruenza tra parte analitica e parte grafica della DIA, in ogni caso si tratterebbe di contrasto tra elaborati costitutivi di un titolo edilizio, con conseguente incertezza/contraddittorietà della portata abilitativa di quest’ultimo, contrasto giammai equiparabile alla falsa rappresentazione dei fatti, che presuppone piuttosto la coerenza intrinseca degli elaborati progettuali e la loro non conformità alla situazione reale esistente.
In definitiva, è destinato a perdere consistenza, sotto ogni punto di vista, l’assunto dell’amministrazione che la DIA in questione travisasse fraudolentemente la realtà dei fatti (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 24.09.2018 n. 5574 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Qualificazione di una sostanza o un oggetto quale rifiuto - Verifica dei dati obiettivi - Condotta del detentore o obblighi - Riutilizzazione economica - Ininfluenza - Sequestro preventivo - Artt. 183 e 256, comma 2 d.lgs.152/2006.
In tema di rifiuti, la qualificazione di una sostanza o un oggetto quale rifiuto consegue a dati obiettivi che definiscano la condotta del detentore o un obbligo al quale lo stesso è comunque tenuto, quello, appunto, di disfarsene, con conseguente esclusione della rilevanza di valutazioni soggettive ed indipendentemente da una eventuale riutilizzazione economica, potendosi tali dati ricavare anche dalla natura della sostanza o dell'oggetto, dalla sua origine, dalle condizioni, dalla conseguente necessità di successive attività di gestione e da ogni altro elemento idoneo a ricondurlo nell'ambito della definizione datane dall'art. 183, comma 1, lett. a), d.lgs. 152/2006.
RIFIUTI - Natura di rifiuto di un determinato materiale - Effetti dell'accordo di cessione a terzi - La riutilizzazione economica non esclude necessariamente la natura di rifiuto - Giurisprudenza.
Secondo la definizione fornita dall'art. 183, comma 1, lett. a), d.lgs. 152/2006, nell'attuale formulazione, deve ritenersi rifiuto «qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione o abbia l'obbligo di disfarsi». Inoltre, il fatto che una sostanza o un oggetto siano suscettibili di riutilizzazione economica non esclude necessariamente la loro natura di rifiuto.
Pertanto, la natura di rifiuto di un determinato materiale non viene meno in ragione di un accordo di cessione a terzi, né del valore economico dei beni stessi riconosciuto nel medesimo accordo, occorrendo fare riferimento alla condotta e volontà del cedente di disfarsi dei beni, e non all'utilità che potrebbe ritrarne il cessionario
(Sez. 3, n. 5442 del 15/12/2016 (dep. 2017), P.M. in proc. Zantonello).
Inoltre, nel verificare la natura di rifiuto di un determinato materiale, si deve evitare di porsi nella sola ottica del cessionario del prodotto e della valenza economica che allo stesso egli attribuisce (sì da esser disposto a pagare per ottenerlo), occorrendo, per contro, verificare "a monte" il rapporto tra il prodotto medesimo ed il suo produttore e, soprattutto, la volontà/necessità di questi di disfarsi del bene, poiché, si è aggiunto, ponendosi in un ottica diversa, verrebbero facilmente a crearsi pericolose aree di impunità, nelle quali numerose condotte, oggettivamente integranti una fattispecie di reato, ben potrebbero esser dissimulate da accordi -dolosamente preordinati- volti a privare il bene di una particolare qualità, ex se rilevante sotto il profilo penale, invero già "a monte" acquisita ed insuscettibile di essere cancellata (Sez. 3, n. 15447 del 20/01/2015, Napolitano)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.09.2018 n. 40687 - link a www.ambientediritto.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Sopraelevazioni e decoro architettonico: chiarimenti dalla Cassazione.
Sulla distinzione tra aspetto architettonico e decoro architettonico.

Con l'ordinanza 12.09.2018 n. 22156, la Corte di Cassazione (VI Sez. civile) ricorda che “l'art. 1127 c.c. sottopone il diritto di sopraelevazione del proprietario dell'ultimo piano dell'edificio ai limiti dettati dalle condizioni statiche dell'edificio che non la consentono, ovvero dall'aspetto architettonico dell'edificio stesso, oppure dalla conseguente notevole diminuzione di aria e luce per i piani sottostanti”.
L'aspetto architettonico, cui si riferisce l'art. 1127, comma 3, c.c., quale limite alle sopraelevazioni, “sottende, peraltro, una nozione sicuramente diversa da quella di decoro architettonico, contemplata dagli artt. 1120, comma 4, 1122, comma 1, e 1122-bis c.c., dovendo l'intervento edificatorio in sopraelevazione comunque rispettare lo stile del fabbricato e non rappresentare una rilevante disarmonia in rapporto al preesistente complesso, tale da pregiudicarne l'originaria fisionomia ed alterare le linee impresse dal progettista, in modo percepibile da qualunque osservatore. Il giudizio relativo all'impatto della sopraelevazione sull'aspetto architettonico dell'edificio va condotto, in ogni modo, esclusivamente in base alle caratteristiche stilistiche visivamente percepibili dell'immobile condominiale, e verificando l'esistenza di un danno economico valutabile, mediante indagine di fattodemandata al giudice del merito, il cui apprezzamento sfugge al sindacato di legittimità, se, come nel caso in esame, congruamente motivato”.
D'altro canto”, ricorda la Cassazione, “questa Corte ha anche affermato che le nozioni di aspetto architettonico ex art. 1127 c.c. e di decoro architettonico ex art. 1120 c.c., pur differenti, sono strettamente complementari e non possono prescindere l'una dall'altra, sicché anche l'intervento edificatorio in sopraelevazione deve rispettare lo stile del fabbricato, senza recare una rilevante disarmonia al complesso preesistente, sì da pregiudicarne l'originaria fisionomia ed alterarne le linee impresse dal progettista”.
Ora, “perché rilevi la tutela dell'aspetto architettonico di un fabbricato, agli effetti, come nella specie, dell'art. 1127, comma 3, c.c., non occorre che l'edificio abbia un particolare pregio artistico, ma soltanto che questo sia dotato di una propria fisionomia, sicché la sopraelevazione realizzata induca in chi guardi una chiara sensazione di disarmonia. Perciò deve considerarsi illecita ogni alterazione produttiva di tale conseguenza, anche se la fisionomia dello stabile risulti già in parte lesa da altre preesistenti modifiche, salvo che lo stesso, per le modalità costruttive o le modificazioni apportate, non si presenti in uno stato di tale degrado complessivo da rendere ininfluente allo sguardo ogni ulteriore intervento” (commento tratto da www.casaeclima.com).
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MASSIMA
E' noto come l'art. 1127 c.c. sottopone il diritto di sopraelevazione del proprietario dell'ultimo piano dell'edificio ai limiti dettati dalle condizioni statiche dell'edificio che non la consentono, ovvero dall'aspetto architettonico dell'edificio stesso, oppure dalla conseguente notevole diminuzione di aria e luce per i piani sottostanti.
L'aspetto architettonico, cui si riferisce l'art. 1127, comma 3, c.c., quale limite alle sopraelevazioni, sottende, peraltro, una nozione sicuramente diversa da quella di decoro architettonico, contemplata dagli artt. 1120, comma 4, 1122, comma 1, e 1122-bis c.c., dovendo l'intervento edificatorio in sopraelevazione comunque rispettare lo stile del fabbricato e non rappresentare una rilevante disarmonia in rapporto al preesistente complesso, tale da pregiudicarne l'originaria fisionomia ed alterare le linee impresse dal progettista, in modo percepibile da qualunque osservatore.
Il giudizio relativo all'impatto della sopraelevazione sull'aspetto architettonico dell'edificio va condotto, in ogni modo, esclusivamente in base alle caratteristiche stilistiche visivamente percepibili dell'immobile condominiale, e verificando l'esistenza di un danno economico valutabile, mediante indagine di fatto demandata al giudice del merito, il cui apprezzamento sfugge al sindacato di legittimità, se, come nel caso in esame, congruamente motivato
(cfr. Cass. Sez. 6-2, 28/06/2017, n. 16258; Cass. Sez. 2, 15/11/2016, n. 23256; Cass. Sez. 2, 24/04/2013, n. 10048; Cass. Sez. 2, 07/02/2008, n. 2865; Cass. Sez. 2, 22/01/2004, n. 1025; Cass. Sez. 2, 27/04/1989, n. 1947).
D'altro canto, questa Corte ha anche affermato che
le nozioni di aspetto architettonico ex art. 1127 c.c. e di decoro architettonico ex art. 1120 c.c., pur differenti, sono strettamente complementari e non possono prescindere l'una dall'altra, sicché anche l'intervento edificatorio in sopraelevazione deve rispettare lo stile del fabbricato, senza recare una rilevante disarmonia al complesso preesistente, sì da pregiudicarne l'originaria fisionomia ed alterarne le linee impresse dal progettista (Cass. Sez. 6 - 2, 25/08/2016, n. 17350).
Ora,
perché rilevi la tutela dell'aspetto architettonico di un fabbricato, agli effetti, come nella specie, dell'art. 1127, comma 3, c.c., non occorre che l'edificio abbia un particolare pregio artistico, ma soltanto che questo sia dotato di una propria fisionomia, sicché la sopraelevazione realizzata induca in chi guardi una chiara sensazione di disarmonia.
Perciò deve considerarsi illecita ogni alterazione produttiva di tale conseguenza, anche se la fisionomia dello stabile risulti già in parte lesa da altre preesistenti modifiche, salvo che lo stesso, per le modalità costruttive o le modificazioni apportate, non si presenti in uno stato di tale degrado complessivo da rendere ininfluente allo sguardo ogni ulteriore intervento
(Corte di Cassazione, Sez. VI civile, ordinanza 12.09.2018 n. 22156).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Tutela dell'aspetto architettonico di un fabbricato - Nozioni di aspetto architettonico e di decoro architettonico - Diversità e complementarietà - Qualifiche e limiti alle sopraelevazioni - Distonia con i ritmi architettonici del fabbricato - Fattispecie: Demolizione di una veranda costruita sul terrazzo di copertura - Giurisprudenza - Artt. 1120 e 1127 c.c..
Le nozioni di aspetto architettonico ex art. 1127 c.c. e di decoro architettonico ex art. 1120 c.c., pur differenti, sono strettamente complementari e non possono prescindere l'una dall'altra, sicché anche l'intervento edificatorio in sopraelevazione deve rispettare lo stile del fabbricato, senza recare una rilevante disarmonia al complesso preesistente, sì da pregiudicarne l'originaria fisionomia ed alterarne le linee impresse dal progettista (Cass. Sez. 6 - 2, 25/08/2016, n. 17350).
Pertanto, l'aspetto architettonico, cui si riferisce l'art. 1127, comma 3, c.c., quale limite alle sopraelevazioni, sottende, peraltro, una nozione sicuramente diversa da quella di decoro architettonico, contemplata dagli artt. 1120, comma 4, 1122, comma 1, e 1122-bis c.c., dovendo l'intervento edificatorio in sopraelevazione comunque rispettare lo stile del fabbricato e non rappresentare una rilevante disarmonia in rapporto al preesistente complesso, tale da pregiudicarne l'originaria fisionomia ed alterare le linee impresse dal progettista, in modo percepibile da qualunque osservatore.
Il giudizio relativo all'impatto della sopraelevazione sull'aspetto architettonico dell'edificio va condotto, in ogni modo, esclusivamente in base alle caratteristiche stilistiche visivamente percepibili dell'immobile condominiale, e verificando l'esistenza di un danno economico valutabile, mediante indagine di fatto demandata al giudice del merito, il cui apprezzamento sfugge al sindacato di legittimità, se, come nel caso in esame, congruamente motivato
(cfr. Cass. Sez. 6-2, 28/06/2017, n. 16258; Cass. Sez. 2, 15/11/2016, n. 23256; Cass. Sez. 2, 24/04/2013, n. 10048; Cass. Sez. 2, 07/02/2008, n. 2865; Cass. Sez. 2, 22/01/2004, n. 1025; Cass. Sez. 2, 27/04/1989, n. 1947).
Ora, perché rilevi la tutela dell'aspetto architettonico di un fabbricato, agli effetti, come nella specie, dell'art. 1127, comma 3, c.c., non occorre che l'edificio abbia un particolare pregio artistico, ma soltanto che questo sia dotato di una propria fisionomia, sicché la sopraelevazione realizzata induca in chi guardi una chiara sensazione di disarmonia. Perciò deve considerarsi illecita ogni alterazione produttiva di tale conseguenza, anche se la fisionomia dello stabile risulti già in parte lesa da altre preesistenti modifiche, salvo che lo stesso, per le modalità costruttive o le modificazioni apportate, non si presenti in uno stato di tale degrado complessivo da rendere ininfluente allo sguardo ogni ulteriore intervento
(Corte di Cassazione, Sez. VI civile, ordinanza 12.09.2018 n. 22156 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini dell'applicazione della normativa codicistica e regolamentare in materia di distanze tra edifici, per nuova costruzione deve intendere non solo la realizzazione a fundamentis di un fabbricato ma anche qualsiasi modificazione nella volumetria di un fabbricato precedente che ne comporti l'aumento della sagoma d'ingombro, in tal guisa direttamente incidendo sulla situazione degli spazi tra gli edifici esistenti, e ciò anche indipendentemente dalla realizzazione o meno d'una maggior volumetria e/o dall'utilizzabilità della stessa a fini abitativi.
Per il che si è ripetutamente ritenuto che la sopraelevazione, appunto, costituisca, a tutti gli effetti, nuova costruzione.
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Anche il secondo motivo di ricorso (con il quale è lamentata la violazione e la falsa applicazione degli artt. 9, comma 2, D.M. 02.04.1968 n. 1444 e 21 delle NTA del PRG del Comune di Aquilonia, oltre ad omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia costituito dalla transazione conclusa fra le parti il 30.11.1994, per avere la Corte di appello erroneamente qualificato come nuova la costruzione in questione, trattandosi in realtà -come emergerebbe da tutti gli elaborati tecnici, di parte e di ufficio in atti- di ricostruzione con adeguamento sismico funzionale ex legge n. 219 del 1981, per essere stata realizzata attraverso un iter particolarmente elaborato sulla scorta delle concessioni n. 13/1987, n. 16/1993, n. 4/1994 e n. 10/1995, quest'ultima in particolare avrebbe recepito in toto la transazione intervenuta fra le parti. Prosegue il ricorrente criticando la sentenza per avere svilito il valore e la portata della transazione) è in parte infondato e in parte inammissibile.
Questa Corte ha in più occasioni evidenziato come, ai fini dell'applicazione della normativa codicistica e regolamentare in materia di distanze tra edifici, per nuova costruzione debbasi intendere non solo la realizzazione a fundamentis di un fabbricato ma anche qualsiasi modificazione nella volumetria di un fabbricato precedente che ne comporti l'aumento della sagoma d'ingombro, in tal guisa direttamente incidendo sulla situazione degli spazi tra gli edifici esistenti, e ciò anche indipendentemente dalla realizzazione o meno d'una maggior volumetria e/o dall'utilizzabilità della stessa a fini abitativi; per il che si è ripetutamente ritenuto che la sopraelevazione, appunto, costituisca, a tutti gli effetti, nuova costruzione (Cass. 18.05.2011 n. 10909; Cass. 11.06.1997 n. 5246; Cass. 15.06.1996 n. 5517), così come anche il solo rifacimento di un tetto quando comporti l'aumento delle superfici esterne e dei volumi interni, pur se dei piani sottostanti (Cass. 06.12.1995 n. 12582) (Corte di cassazione, Sez. II civile, ordinanza 13.08.2018 n. 20718).

EDILIZIA PRIVATA: Non appaiono sufficienti a comprovare in modo dirimente l’effettiva data di ultimazione delle opere di realizzazione del capannone le sole dichiarazioni rese da terzi in mancanza di altri elementi precisi e concordanti che nel caso all’esame non sono allegati.
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La tesi secondo la quale il regolamento edilizio comunale (che subordinava espressamente al rilascio di specifica autorizzazione l’esecuzione di interventi edilizi) dovrebbe ritenersi abrogato dall’entrata in vigore della legge 17.08.1942, n. 1150, non è corretta perché, come è stato condivisibilmente affermato, non può fondatamente sostenersi
  
“che tale regolamento fosse divenuto illegittimo e non più applicabile una volta entrata in vigore la L. n. 1150/1942, che, all’art. 31, limitava la necessità della licenza edilizia all’attività edificatoria svolta all’interno dei centri abitati e nelle zone di espansione previste dai piani. Infatti, la previsione di una pianificazione e di un controllo obbligatori limitata ai centri abitati, certamente non impediva ai Comuni di estendere all’intero territorio comunale (anticipando il contenuto della L. n. 765 del 1967) il potere di pianificazione e controllo dell’attività edilizia, con il conseguente obbligo di licenza, trattandosi di una tipica prerogativa ad essi spettante”
ovvero, in altre parole, come è stato evidenziato
  
“nella detta materia, a fronte di opinione minoritaria, che ritiene una valenza abrogatrice svolta dalla legge 1150 del 1942 sui precedenti regolamenti edilizi, la giurisprudenza maggioritaria, negando tale portata abrogante o disapplicativa della normativa edilizia, ha evidenziato l’assoggettamento alla sanzione della demolizione per le costruzioni realizzate in assenza del titolo edilizio, anche se eseguite al di fuori del centro abitato o delle zone di espansione, ove l’obbligo sia previsto dai regolamenti edilizi comunali”.

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Il ricorso è infondato e deve essere respinto.
Con il primo motivo l’Associazione ricorrente contesta il diniego impugnato valorizzando la circostanza che il capannone sarebbe stato costruito negli anni ’50 quando non era necessario il rilascio di un titolo edilizio.
La censura non merita accoglimento.
Infatti va in primo luogo evidenziato che non appaiono sufficienti a comprovare in modo dirimente l’effettiva data di ultimazione delle opere di realizzazione del capannone le sole dichiarazioni rese da terzi in mancanza di altri elementi precisi e concordanti che nel caso all’esame non sono allegati (cfr. Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 09.01.2017, n. 37; Consiglio di Stato, Sez. VI, 24.05.2016, n. 2179).
In secondo luogo va osservato che correttamente l’Amministrazione comunale è giunta alla conclusione secondo la quale, quand’anche il manufatto fosse stato effettivamente realizzato in quegli anni, sarebbe stato comunque necessario il rilascio di un titolo edilizio.
Infatti è vero che l’art. 31 della legge 17.08.1942, n. 1150, nel testo antecedente alle modifiche ad esso apportate dall’articolo 10, della legge 06.08.1967, n. 765, in linea generale prevedeva l’obbligo del previo rilascio della licenza edilizia solo per interventi da eseguire nei centri abitati.
Tuttavia, come controdedotto dal Comune e chiarito dalla giurisprudenza (cfr. Tar Veneto, Sez. II, 21.03.2018, n. 326; id. 07.12.2015, n. 1296; id. 16.10.2015, n. 1058; id. 22.06.2015, n. 694; id. 24.03.2015, n. 342; id. 30.01.2014, n. 121) è necessario tener conto che quando il manufatto è stato realizzato era comunque in vigore il regolamento edilizio comunale approvato dall’Amministrazione Comunale con le determinazioni 12.11.1929 n. 50859 e 10.07.1930 n. 29512, il quale all’art. 2 subordinava espressamente al rilascio di specifica autorizzazione l’esecuzione di interventi edilizi (sul punto della valenza del regolamento comunale si vedano la pronunce Consiglio di Stato, Sez. VI, 28.07.2017, n. 3789; id. 28.01.2014, n. 435; Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 14.06.2017 n. 1354).
La tesi secondo la quale tale regolamento dovrebbe ritenersi abrogato dall’entrata in vigore della legge 17.08.1942, n. 1150, non è corretta perché, come è stato condivisibilmente affermato (cfr. la già citata sentenza Tar Veneto, Sez. II, 30.01.2014, n. 121, confermata dalla sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI, 26.07.2016, n. 3389) non può fondatamente sostenersi “che tale regolamento fosse divenuto illegittimo e non più applicabile una volta entrata in vigore la L. n. 1150/1942, che, all’art. 31, limitava la necessità della licenza edilizia all’attività edificatoria svolta all’interno dei centri abitati e nelle zone di espansione previste dai piani. Infatti, la previsione di una pianificazione e di un controllo obbligatori limitata ai centri abitati, certamente non impediva ai Comuni di estendere all’intero territorio comunale (anticipando il contenuto della L. n. 765 del 1967) il potere di pianificazione e controllo dell’attività edilizia, con il conseguente obbligo di licenza, trattandosi di una tipica prerogativa ad essi spettante” ovvero, in altre parole, come è stato evidenziato (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 07.08.2015, n. 3899) “nella detta materia, a fronte di opinione minoritaria, che ritiene una valenza abrogatrice svolta dalla legge 1150 del 1942 sui precedenti regolamenti edilizi, la giurisprudenza maggioritaria, negando tale portata abrogante o disapplicativa della normativa edilizia, ha evidenziato l’assoggettamento alla sanzione della demolizione per le costruzioni realizzate in assenza del titolo edilizio, anche se eseguite al di fuori del centro abitato o delle zone di espansione, ove l’obbligo sia previsto dai regolamenti edilizi comunali” (nello stesso senso della perdurante efficacia dei regolamenti adottati prima della legge 17.08.1942, n. 1150, sulla base della legislazione antecedente cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 05.01.2015, n. 13; Tar Liguria, Sez. I, 30.12.2014, n. 1975; Consiglio di Stato, Sez. IV, 08.07.2008, n. 5141; Consiglio di Stato, Sez. V, 14.03.1980, n. 287).
Infine per completezza va anche rilevato che in ogni caso il piano regolatore del Comune di Venezia è stato adottato con delibera Commissariale n. 15429 del 20.03.1959 in data verosimilmente antecedente alla data dichiarata come quella di realizzazione del manufatto quando il piano era efficace perché in regime di salvaguardia nelle more dell’approvazione in seguito avvenuta con DPR del 17.12.1962.
Pertanto, poiché non può ritenersi provata la data di realizzazione dell’immobile dichiarata, e in ogni caso, quand’anche provata, non verrebbe meno la necessità di dimostrare l’esistenza di un titolo edilizio al fine di dimostrarne la legittimità perché il Comune era dotato del regolamento edilizio del 1929 e del piano regolatore del 1959, il primo motivo deve essere respinto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 20.07.2018 n. 790 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO - DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - P.R.G. - Convenzioni di lottizzazione e perfezionamento del procedimento amministrativo - Modi di attuazione della disciplina urbanistica - Potestà pubblicistica del Comune e facoltà di liberarsi dal vincolo contrattuale.
Le convenzioni di lottizzazione non costituiscono un vero e proprio contratto a prestazioni corrispettive, mancando una <<vera e propria corrispondenza di tipo contrattuale tra cessioni immobiliari, opere di urbanizzazione, prestazioni e contributi vari, con cui si attuano gli obblighi convenzionali, e il perfezionamento del procedimento amministrativo finalizzato alla legittimazione dell'attività lottizzatoria, atteso che tali convenzioni addirittura «lasciano integra ... la potestà pubblicistica del Comune in materia di disciplina del territorio e di regolamentazione urbanistica, ivi compresa la facoltà di liberarsi dal vincolo contrattuale, alla stregua di esigenze sopravvenute».>> (Cass., sent. n. 15660 del 2014, che riporta a sua volta Cass., sent. n. 6482 del 1995).
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - PIANI REGOLATORI COMUNALI - Attuazione dei piani regolatori - Lottizzazione di aree fabbricabili - Convenzioni di lottizzazione - Natura - Rapporti tra le reciproche prestazioni - Compensazione - Esclusione - "Datio in solutum" - Configurabilità - Conseguenze - Riferimenti normativi: Cod. Civ. art. 1197, Cod. Civ. art. 1242, Cod. Civ. art. 1443, Legge 17/08/1942 num. 1150 art. 28 CORTE COST., Legge 06/08/1967 num. 765, DPR 26/10/1972 num. 633, art. 6, com. 3.
La convenzione di lottizzazione è un accordo endoprocedimentale di diritto pubblico, volto al conseguimento dell'autorizzazione urbanistica o edilizia, sicché non costituisce un contratto a prestazioni corrispettive, mancando tra le stesse una corrispondenza di natura negoziale, con l'ulteriore conseguenza che è inapplicabile l'istituto della compensazione, mentre può operare la "datio in solutum", atteso che l'obbligazione relativa all'esecuzione delle opere concordate con l'ente territoriale si estingue solo al momento della realizzazione delle medesime (Cass. n. 6482/1995; Cass. n. 15660/2014).
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Qualificazione giuridica delle convenzioni di urbanizzazione - Contratti con oggetto pubblico - Negoziazione conclusa in condizioni di disparità - Convenzione urbanistica ed esclusione di parità formale tra i contraenti - Dottrina e giurisprudenza.
In ordine alla qualificazione giuridica delle convenzioni di urbanizzazione è stato evidenziato, in dottrina e giurisprudenza (Cass., sent. n. 1366 del 1999 a proposito delle convenzioni di lottizzazione con cessione di terreni per la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria), che queste trovano collocazione tra i contratti con oggetto pubblico.
Con esse l'Amministrazione dal suo canto realizza determinate finalità istituzionali, solo strumentalmente alle quali si originano a proprio favore diritti ed obbligazioni a contenuto patrimoniale; per altro verso, ma alle predette finalità asservite, sono precisati gli obblighi che il privato assume, sicché si sostiene che le convenzioni iscritte nella normativa pubblicistica relativa alle opere di urbanizzazione, e, può aggiungersi, più in generale nell'alveo dell'art. 11 della L. n. 241/1990, si configurano quali accordi endoprocedimentali dal contenuto vincolante, al fine dell'ottenimento di autorizzazioni urbanistico-edilizie
(Cass., sent. n. 9314 del 2013).
In tal senso si è pertanto sostenuto che tali negozi sono conclusi in condizioni di disparità, laddove gli obblighi per la parte privata configurano atti dovuti, prestazioni patrimoniali aventi natura di obbligazioni propter rem (cfr. Cass., sent. 16401 del 2013; sent. n. 11196 del 2007), e di prestazione patrimoniale imposta, seguendo la titolarità del bene, anziché il soggetto originario contraente.
La sommatoria di queste considerazioni porta alla conclusione secondo cui non è ravvisabile un rapporto strettamente sinallagmatico tra soggetti stipulanti convenzioni urbanistiche, ossia la natura del rapporto, almeno in parte impositivo rinveniente dalla convenzione urbanistica, esclude il piano di parità formale tra i contraenti
(cfr. TAR-Lombardia, Sez. Brescia, sent. n. 784 del 2005; TAR Marche, sent. n. 939 del 2003; TAR Sicilia, sez. Catania, sent. n. 934 del 2011)
(Corte di Cassazione, Sez. V civile, sentenza 22.06.2018 n. 16533 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: APPALTI - Obbligazione del committente di pagare il corrispettivo - Appalti di opere pubbliche soltanto all'esito del collaudo dell'opera - Fattispecie: disciplina sull'IVA e limiti alla disciplina sanzionatoria.
In tema di appalto l'obbligazione del committente di pagare il corrispettivo sorge, a mente dell'art. 1665, ult. co., c.c., soltanto all'esito dell'accettazione dell'opera che, negli appalti di opere pubbliche, può ritenersi avvenuta soltanto all'esito del collaudo dell'opera stessa (Cass., sent. n. 13075 del 2000).
Ancor più interessante, per quanto qui rileva, è che nell'appalto il diritto dell'appaltatore al corrispettivo sorge con l'accettazione dell'opera da parte del committente, ai sensi dell'art. 1665, ult. co., c.c. , e non già al momento stesso della stipulazione del contratto. È certo che la disciplina sull'Iva segua i suoi peculiari principi, ma nel caso di specie è significativo il supporto interpretativo che proviene da settori distinti del diritto.
Infatti, la sottoscrizione della convenzione non definiva assolutamente nulla se non l'assunzione di obblighi endoprocedimentali, restando ancora incerto l'oggetto della prestazione. (Era anzi addirittura prospettata l'ipotesi di dover versare in moneta la differenza risultante tra gli oneri computati e le opere edili pubbliche realizzate).
L'Agenzia ha censurato la sentenza affermando al contrario che la disciplina sanzionatoria trovi indifferente applicazione agli omessi o tardivi versamenti come agli indebiti rimborsi. La questione trova soluzione proprio nell'esito del giudizio relativo all'obbligo di fatturazione. Non essendovi infatti obbligo di fatturazione al momento della sottoscrizione, l'Amministrazione ha erroneamente assoggettato ad Iva l'importo
(Corte di Cassazione, Sez. V civile, sentenza 22.06.2018 n. 16533 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: Tra i “sopravvenuti motivi di pubblico interesse” che giustificano la revoca dell’aggiudicazione e, quindi, la caducazione del contratto, ben possono rientrare anche comportamenti scorretti dell’aggiudicatario che si siano manifestati successivamente all’aggiudicazione definitiva (fattispecie già conosciuta in giurisprudenza, cfr. Cons. Stato, 2804/2017, avente ad oggetto il mancato assolvimento agli obblighi contributivi emerso successivamente all’aggiudicazione; Cons. Stato, 3054/2016, ove la revoca era giustificata dal rifiuto dell’aggiudicatario di stipulare il contratto prima che fossero modificate talune clausole contenute nel capitolato di gara; Cons. Stato, 143/2015, revoca giustificata per violazione delle clausole dei Protocolli di legalità; e TAR Liguria, 55/2017), nel cui ambito può agevolmente rientrare anche l’inosservanza dell’obbligo di assunzione dei disabili, una volta che si siano ripristinate le condizioni per la sua operatività.
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2.- Nell’odierno giudizio parte ricorrente si duole dell’illegittima esclusione dalla procedura di gara cui ha preso parte, risultando essere l’unica offerente rimasta in gara.
In base alle censure dedotte, il ricorso è fondato e merita accoglimento, con obbligo per l’Amministrazione di concludere il procedimento di gara e determinarsi in ordine all’aggiudicazione dell’appalto alla odierna ricorrente, con salvezza di nuovi e motivati provvedimenti nei limiti che saranno esposti a seguire.
Il Collegio reputa necessario muovere dalla disamina dell’ordito normativo di riferimento, atteso che l’impugnato provvedimento di esclusione si fonda sul presupposto che l’On. non abbia ottemperato alle norme sull'assunzione dei disabili.
La stazione appaltante, in particolare, ha sostenuto che, ai fini dell'adempimento degli obblighi di legge relativi all’assunzione di personale disabile, la mera stipulazione della convenzione, laddove di fatto inadempiute, non fosse sufficiente a ritenere adempiuto il corrispondente obbligo. A suo, avviso, infatti, la ratio della norma posta a tutela dei disabili è quella di funzionalizzare gli appalti pubblici ad esigenze sociali che non possono dirsi realizzate con la semplice stipula della convenzione con cui un datore di lavoro/operatore economico si impegni sic et simpliciter all'assunzione dei disabili oggetto di convenzione, necessitandosi anche l'effettivo adempimento alla predetta obbligazione.
Tale interpretazione, a parere del Collegio, non può essere condivisa.
L’art. 80, co. 5, lett. i), d.lgs. n. 50/2016 s.m.i., prevede tra i motivi di esclusione l’ipotesi in cui “l’operatore economico non presenti la certificazione di cui all’art. 17 della l. 12.03.1999 n. 68 ovvero non autocertifichi la sussistenza del medesimo requisito”, ponendosi così nel solco già tracciato dall’art. 38 comma 1, lett. l), del previgente codice (D.Lgs 163/2006) che, sotto la rubrica "Requisiti di ordine generale", disponeva: "Sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi, né possono essere affidatari di subappalti, e non possono stipulare i relativi contratti i soggetti .... che non presentino la certificazione di cui all'articolo 17 della legge 12.03.1999, n. 68, salvo il disposto del comma 2".
Il citato art. 17, rubricato "Obbligo di certificazione", statuisce che "Le imprese, sia pubbliche sia private, qualora partecipino a bandi per appalti pubblici o intrattengano rapporti convenzionali o di concessione con pubbliche amministrazioni, sono tenute a presentare preventivamente alle stesse la dichiarazione del legale rappresentante che attesti di essere in regola con le norme che disciplinano il diritto al lavoro dei disabili, pena l'esclusione".
Ciò in quanto, ai sensi dell'art. 11, comma 1, della 1. n. 68/1999, "Al fine di favorire l'inserimento lavorativo dei disabili, gli uffici competenti, sentito l'organismo di cui all'articolo 6, comma 3, del decreto legislativo 23.12.1997, n. 469, come modificato dall'articolo 6 della presente legge, possono stipulare con il datore di lavoro convenzioni aventi ad oggetto la determinazione di un programma mirante al conseguimento degli obiettivi occupazionali di cui alla presente legge".
La stipula di tali convenzioni costituisce adempimento degli obblighi imposti dalla legge: infatti, l'art. 7, co. 1, stabilisce che "1. Ai fini dell'adempimento dell'obbligo previsto dall'articolo 3 (assunzioni obbligatorie di disabili in imprese in bonis di grosse dimensioni), i datori di lavoro privati e gli enti pubblici economici assumono i lavoratori mediante richiesta nominativa di avviamento agli uffici competenti o mediante la stipula delle convenzioni di cui all'articolo 11".
Orbene, anteriormente alla formulazione dell’offerta, l’odierna ricorrente, in data 28.06.2017, stante l’avvenuto superamento nell’anno 2016 del numero di 15 dipendenti, aveva stipulato la Convenzione di cui all’art. 11 cit, con il Centro per l’impiego di Catania, obbligandosi all’assunzione, entro il 31.12.2017, all’assunzione di un lavoratore disabile.
Tuttavia, l’art. 15 della predetta convenzione espressamente contemplava la sospensione dell’obbligo in questione, qualora, nell’arco temporale di validità, fossero venute meno le condizioni cui era subordinato il dovere assunzione.
In ragione di tale previsione, essendo il livello occupazionale della società ricorrente contrattosi al di sotto della soglia prevista, il Centro dell’Impiego di Catania, interpellato dalla stazione appaltante, con nota del 01.02.2018, escludeva la sussistenza, in capo all’On. S.r.l., di obblighi di assunzione ex lege 68/1999.
Tale disamina del dato normativo induce, unitamente a quanto certificato dall’amministrazione competente, a ritenere che alcuna violazione degli obblighi di assunzione sia ascrivibile all’odierna ricorrente, atteso che, al momento della verifica della sussistenza dei requisiti di partecipazione, l’operatività della su riportata clausola convenzione ne aveva sospeso la vincolatività, non potendosi ritenere, alla luce del suo chiaro tenore letterale, che la sospensione automatica ivi prevista, come sostenuto dalla resistente, si riferisse a quella contemplata dall’art. 3, comma 5, della medesima legge, considerando quest’ultima un’ipotesi peculiare e specifica, e cioè la sottoposizione dell’impresa a procedura di mobilità.
Né può sostenersi che una simile interpretazione possa condurre ad eludere la portata cogente del dato normativo, dovendosi rammentare che tra i “sopravvenuti motivi di pubblico interesse” che giustificano la revoca dell’aggiudicazione e, quindi, la caducazione del contratto, ben possono rientrare anche comportamenti scorretti dell’aggiudicatario che si siano manifestati successivamente all’aggiudicazione definitiva (fattispecie già conosciuta in giurisprudenza, cfr. Cons. Stato, sez. V, 12.06.2017, n. 2804 avente ad oggetto il mancato assolvimento agli obblighi contributivi emerso successivamente all’aggiudicazione; Cons. Stato, sez. V, 11.07.2016, n. 3054, ove la revoca era giustificata dal rifiuto dell’aggiudicatario di stipulare il contratto prima che fossero modificate talune clausole contenute nel capitolato di gara; Cons. Stato, sez. IV, 20.01.2015, n. 143, revoca giustificata per violazione delle clausole dei Protocolli di legalità; e TAR Liguria, sez. II, 27.01.2017, n. 55), nel cui ambito può agevolmente rientrare anche l’inosservanza dell’obbligo di assunzione de quo, una volta che si siano ripristinate le condizioni per la sua operatività (cfr.: Consiglio di Stato, sez. V, 11/01/2018, n. 120).
In definitiva, alla luce di tutte le superiori argomentazioni l’impugnato provvedimento di esclusione deve essere annullato, al pari della lettera d’invito con cui l’amministrazione resistente ha indetto una nuova procedura concorsuale per il medesimo servizio (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 05.06.2018 n. 884 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non è possibile affermare in assoluto che la tettoia richiede, o non richiede, il titolo edilizio maggiore e assoggettarla, o non assoggettarla, alla relativa sanzione senza considerare nello specifico come essa è realizzata.
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Con la determinazione 18.10.2011 meglio indicata in epigrafe, l’amministrazione intimata appellata ha ordinato ai ricorrenti appellanti, il primo quale usufruttuario responsabile e la seconda quale nuda proprietaria, di rimuovere in quanto abusiva, perché realizzata senza titolo alcuno, una copertura con tenda in tessuto sorretta da una struttura principale e secondaria di legno installata sulla terrazza a livello del locale soffitta al sesto piano dell’immobile situato in via ... 201 (doc. s.n. in I grado ricorrenti appellanti, atto impugnato, allegato al ricorso introduttivo).
Con la sentenza a sua volta meglio indicata in epigrafe, il TAR ha respinto il ricorso proposto dagli interessati contro tale provvedimento, ritenendo che l’opera integrasse ristrutturazione soggetta al necessario rilascio di un permesso di costruire, e non di un titolo edilizio minore, in quanto struttura stabile modificatrice della sagoma dell’edificio, e che quindi in mancanza del permesso stesso ne fosse stata correttamente ingiunta la demolizione.
...
1. L’appello è fondato e va accolto, per le ragioni di seguito precisate.
2. L’abuso contestato ai ricorrenti appellanti consiste nella realizzazione di una tettoia, ovvero di un manufatto la cui disciplina non è definita in modo univoco né nella normativa né in giurisprudenza.
2.1 Dal punto di vista normativo, va considerato anzitutto l’art. 6 del T.U. 06.06.2001 n. 380, che contiene l’elenco delle opere di cd edilizia libera, le quali non necessitano di alcun titolo abilitativo; a prescindere dalla natura esemplificativa o tassativa che si voglia riconoscere a tale elenco, va poi osservato che esso comprende voci di per sé abbastanza generiche, tali da poter ricomprendere anche opere non espressamente nominate.
Con riferimento alle tettoie, rileva in particolare la voce di cui all’art. 6, comma 1, lettera e)-quinquies, che considera opere di edilizia libera gli “elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici”, concetto nel quale può sicuramente rientrare una tettoia genericamente intesa, come copertura comunque realizzata di un’area pertinenziale, come il terrazzo.
La norma è stata introdotta dall’art. 3 del d.lgs. 25.11.2016 n. 222, ma si deve considerare applicabile anche alle costruzioni precedenti, come quella per cui è causa, per due ragioni.
In primo luogo, nel diritto delle sanzioni è principio generale e notorio, e come tale non richiede puntuali citazioni, che non si possano subire conseguenze sfavorevoli per un comportamento in ipotesi illecito nel momento in cui è stato realizzato, che più non lo sia quando si tratti di applicare le sanzioni stesse.
In secondo luogo, la giurisprudenza di cui subito si dirà, anche in epoca anteriore alla modifica legislativa di cui s’è detto, distingueva all’interno della categoria in esame costruzione da costruzione assoggettandola a regime diverso a seconda delle sue caratteristiche.
2.2 In materia, è poi intervenuto di recente un chiarimento da parte del legislatore, ovvero il recente D.M. 02.03.2018, pubblicato nella G.U. 07.04.2018 n. 81, di “Approvazione del glossario contenente l'elenco non esaustivo delle principali opere edilizie realizzabili in regime di attività edilizia libera”, ai sensi dell'articolo 1, comma 2, del citato d.lgs. 222/2016.
A sua volta, la norma dell’art. 1, comma 2, prevede che “Con riferimento alla materia edilizia, al fine di garantire omogeneità di regime giuridico in tutto il territorio nazionale, con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti di concerto con il Ministro delegato per la semplificazione e la pubblica amministrazione, da emanare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, previa intesa con la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28.08.1997, n. 281, è adottato un glossario unico, che contiene l'elenco delle principali opere edilizie, con l'individuazione della categoria di intervento a cui le stesse appartengono e del conseguente regime giuridico a cui sono sottoposte, ai sensi della tabella A di cui all'articolo 2 del presente decreto”.
Il decreto ministeriale attuativo di cui s’è detto comprende, al n. 50 del glossario delle opere realizzabili senza titolo edilizio alcuno, in particolare le cd. pergotende, ovvero, per comune esperienza, strutture di copertura di terrazzi e lastrici solari, di superficie anche non modesta, formate da montanti ed elementi orizzontali di raccordo e sormontate da una copertura fissa o ripiegabile formata da tessuto o altro materiale impermeabile, che ripara dal sole, ma anche dalla pioggia, aumentando la fruibilità della struttura. Si tratta quindi di un manufatto molto simile alla tettoia, che se ne distingue secondo logica solo per presentare una struttura più leggera.
2.3 Al polo opposto, v’è l’art. 10, comma 1, lettera a), del T.U. 380/2001, che assoggetta invece al titolo edilizio maggiore, ovvero al permesso di costruire, “gli interventi di nuova costruzione”. Come subito si vedrà, la giurisprudenza si fonda su tale norma per richiedere appunto il permesso di costruire nel caso di tettoie di particolari dimensioni e caratteristiche.
Si afferma infatti in via generale che tale struttura costituisce intervento di nuova costruzione e richiede il permesso di costruire nel momento in cui difetta dei requisiti richiesti per le pertinenze e gli interventi precari, ovvero quando modifica la sagoma dell’edificio: fra le molte, C.d.S. sez. IV 08.01.2018 n. 12 e sez. VI 16.02.2017 n. 694.
3. Da tutto ciò, emerge chiara una conseguenza: non è possibile affermare in assoluto che la tettoia richiede, o non richiede, il titolo edilizio maggiore e assoggettarla, o non assoggettarla, alla relativa sanzione senza considerare nello specifico come essa è realizzata. In proposito, quindi, l’amministrazione ha l’onere di motivare in modo esaustivo, attraverso una corretta e completa istruttoria che rilevi esattamente le opere compiute e spieghi per quale ragione esse superano i limiti entro i quali si può trattare di una copertura realizzabile in regime di edilizia libera.
4. Tutto ciò non si ritrova nel provvedimento impugnato, che come detto in narrativa si limita ad una descrizione generica di quanto rilevato, a fronte della quale, si noti, la difesa dei ricorrenti appellanti (già nel ricorso di I grado a p. 4) è nel senso che si tratterebbe di una tenda da sole scorrevole su binari, ovvero proprio di una delle pergotende di cui si è detto.
Il provvedimento stesso va allora annullato, con salvezza com’è ovvio di eventuali successivi provvedimenti dell’amministrazione, conseguenti a un congruo riesame della fattispecie concreta (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 07.05.2018 n. 2715 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’abuso edilizio costituisce –sotto il profilo amministrativo– un illecito a carattere permanente e pertanto non rileva che l’addizione abusiva sia stata realizzata dal precedente proprietario dell’immobile”.
Ne deriva che “rispetto all’esercizio del potere sanzionatorio (e salva la normativa sulla nullità del contratto in presenza dei relativi presupposti), sono infatti irrilevanti le alienazioni del manufatto (in tutto o in parte abusivo) sotto il profilo privatistico. L’acquirente, infatti, subentra nella situazione giuridica del dante causa che –consapevolmente o meno- ha violato la normativa urbanistica ed edilizia e poiché, se ignaro dell’abuso al momento della alienazione, può agire nei confronti del dante causa anche prima dell’esercizio dei poteri repressivi da parte del Comune, a maggior ragione quando riceva (…) un pregiudizio in conseguenza dei doverosi atti amministrativi repressivi, può agire sia nei confronti del notaio che in ipotesi non abbia rilevato l’assenza del titolo edilizio, sia nei confronti del dante causa e dell’autore dell’abuso (secondo un principio, ab antiquo affermato dalla giurisprudenza amministrativa e da quella civile)”.
Tale prospettiva trova conforto nella piana formulazione dell’art. 31 del DPR 380/2001, secondo cui “il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso (…) ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso la rimozione o la demolizione”.
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Il ricorso è infondato e va, pertanto, respinto.
Non coglie nel segno il primo motivo, tenuto conto che “l’abuso edilizio costituisce –sotto il profilo amministrativo– un illecito a carattere permanente e pertanto non rileva che l’addizione abusiva sia stata realizzata dal precedente proprietario dell’immobile” (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 05.04.2013, n. 1886).
Ne deriva che “rispetto all’esercizio del potere sanzionatorio (e salva la normativa sulla nullità del contratto in presenza dei relativi presupposti), sono infatti irrilevanti le alienazioni del manufatto (in tutto o in parte abusivo) sotto il profilo privatistico. L’acquirente, infatti, subentra nella situazione giuridica del dante causa che –consapevolmente o meno- ha violato la normativa urbanistica ed edilizia e poiché, se ignaro dell’abuso al momento della alienazione, può agire nei confronti del dante causa anche prima dell’esercizio dei poteri repressivi da parte del Comune, a maggior ragione quando riceva (…) un pregiudizio in conseguenza dei doverosi atti amministrativi repressivi, può agire sia nei confronti del notaio che in ipotesi non abbia rilevato l’assenza del titolo edilizio, sia nei confronti del dante causa e dell’autore dell’abuso (secondo un principio, ab antiquo affermato dalla giurisprudenza amministrativa e da quella civile)” (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 30.04.2013, n. 2363).
Tale prospettiva trova conforto nella piana formulazione dell’art. 31 del DPR 380/2001, secondo cui “il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso (…) ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso la rimozione o la demolizione” (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 01.03.2018 n. 611 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La legittimità di un provvedimento va valutata al momento della sua adozione, irrilevanti essendo fatti successivi.
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Parimenti infondato è il terzo motivo, con cui si è dedotta l’irresponsabilità della ricorrente per effetto della nullità del contratto di compravendita, mancando, a tal fine, una pronuncia dichiarativa al momento dell’emissione dell’impugnato provvedimento.
Sul punto, il Collegio non può, pertanto, prescindere dal richiamo al principio in forza del quale “la legittimità di un provvedimento va valutata al momento della sua adozione, irrilevanti essendo fatti successivi” (cfr. Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 04.05.2012, n. 8) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 01.03.2018 n. 611 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La superficie lorda di pavimento è da intendersi come “la somma delle superfici lorde di un fabbricato comprese entro il perimetro esterno delle murature di tutti i livelli abitabili o agibili, fuori o dentro terra degli edifici qualunque sia la loro destinazione d’uso, compresa la proiezione orizzontale dei muri delle scale fisse e mobili e dei vani ascensori”.
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Sono, inoltre, infondati il quarto, quinto e sesto motivo, connotati da stretta dipendenza e quindi esaminabili in modo congiunto, con cui la ricorrente ha contestato, nel merito, che nella specie siano stati commessi degli abusi edilizi.
Un’analisi dei puntuali rilievi esplicitati nell’impugnato provvedimento evidenzia, infatti, che si tratta di opere che hanno determinato un ampliamento della superficie lorda di pavimento (collegamento tra terrazzo e abitazione; soppalco), quest’ultima da intendersi come “la somma delle superfici lorde di un fabbricato comprese entro il perimetro esterno delle murature di tutti i livelli abitabili o agibili, fuori o dentro terra degli edifici qualunque sia la loro destinazione d’uso, compresa la proiezione orizzontale dei muri delle scale fisse e mobili e dei vani ascensori” (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 07.06.2012, n. 3385) e, che, inoltre, vi è stato un incremento significativo (60 cm) dell’altezza del sottotetto.
Fermo restando che tali opere sono estranee alla pratica di condono, come puntualmente rilevato dalla Sezione nell’ordinanza n. 412 del 12.03.2008, è agevole concludere che l’immobile controverso è stato oggetto di un ristrutturazione edilizia (ai sensi dell’art. 27, comma 1, lett. d), della legge regionale 12/2005), neppure lontanamente paragonabile alla manutenzione (ordinaria o straordinaria che sia) sostanzialmente prospettata dalla ricorrente.
La pacifica assenza di conformità edilizia rende, perciò, implausibile l’assunto secondo cui, nella specie, il fondamento dell’azione repressiva sarebbe da rinvenire nella tutela dell’igiene pubblica (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 01.03.2018 n. 611 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non v’è necessaria identità di disciplina tra titolo abilitativo edilizio e certificato di agibilità: i detti diversi provvedimenti (…) sono collegati a presupposti diversi e danno vita a conseguenze disciplinari non sovrapponibili.
Infatti, il certificato di agibilità ha la funzione di accertare che l’immobile al quale si riferisce è stato realizzato nel rispetto delle norme tecniche vigenti in materia di sicurezza, salubrità, igiene, risparmio energetico degli edifici e degli impianti (come espressamente recita l’art. 24 del Testo unico dell’edilizia), mentre il rispetto delle norme edilizie ed urbanistiche è oggetto della specifica funzione del titolo edilizio.
Il che comporta che i diversi piani ben possano convivere sia nella forma fisiologica della conformità dell’edificio ad entrambe le tipologie normative, sia in quella patologica di una loro divergenza (si ricordano episodi giurisprudenziali in cui si è affermata l’illegittimità del diniego della agibilità motivato unicamente con la difformità dell’immobile dal progetto approvato oppure, in senso opposto, l’irrilevanza del rilascio del certificato di agibilità come fatto ostativo al potere del sindaco di reprimere abusi edilizi o alla revoca di un eventuale precedente ordine di demolizione delle opere).
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Come ha, in più occasioni, ribadito la giurisprudenza, “non v’è necessaria identità di disciplina tra titolo abilitativo edilizio e certificato di agibilità: i detti diversi provvedimenti (…) sono collegati a presupposti diversi e danno vita a conseguenze disciplinari non sovrapponibili. Infatti, il certificato di agibilità ha la funzione di accertare che l’immobile al quale si riferisce è stato realizzato nel rispetto delle norme tecniche vigenti in materia di sicurezza, salubrità, igiene, risparmio energetico degli edifici e degli impianti (come espressamente recita l’art. 24 del Testo unico dell’edilizia), mentre il rispetto delle norme edilizie ed urbanistiche è oggetto della specifica funzione del titolo edilizio. Il che comporta che i diversi piani ben possano convivere sia nella forma fisiologica della conformità dell’edificio ad entrambe le tipologie normative, sia in quella patologica di una loro divergenza (si ricordano episodi giurisprudenziali in cui si è affermata l’illegittimità del diniego della agibilità motivato unicamente con la difformità dell’immobile dal progetto approvato –Consiglio di Stato, sez. V, 06.07.1979 n. 479– oppure, in senso opposto, l’irrilevanza del rilascio del certificato di agibilità come fatto ostativo al potere del sindaco di reprimere abusi edilizi –id., 03.02.1992 n. 87– o alla revoca di un eventuale precedente ordine di demolizione delle opere – id., 15.04.1977 n. 335)” (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 26.08.2014, n. 4309) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 01.03.2018 n. 611 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: L’art. 2, comma 1, della legge n. 241 del 1990 stabilisce che “ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad un’istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio, le pubbliche amministrazioni hanno il dovere di concluderlo mediante l’adozione di un provvedimento espresso. Se ravvisano la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza della domanda, le pubbliche amministrazioni concludono il procedimento con un provvedimento espresso redatto in forma semplificata, la cui motivazione può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo”. I commi 9-bis e seguenti individuano i rimedi per superare l’inerzia dell’Amministrazione e attivare i poteri sostitutivi al fine di ottenere comunque un provvedimento espresso.
Le disposizioni normative richiamate in precedenza vanno interpretate nel senso che il legislatore ha voluto imporre all’Amministrazione, senza eccezione alcuna, l’obbligo di provvedere sulle istanze dei privati, indipendentemente dal loro grado di fondatezza o addirittura di ammissibilità o di ricevibilità. Pertanto, anche a fronte di istanze del tutto abnormi sorge in capo all’Amministrazione il dovere di provvedere con un atto espresso. A bilanciare una tale soluzione –potenzialmente gravosa per lo svolgimento dell’attività amministrativa– è stata appunto prevista la possibilità di motivare in maniera semplificata laddove l’istanza risulti manifestamente irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondata.
A supporto della predetta conclusione, ovvero in ordine ad un generalizzato obbligo di provvedere, si possono richiamare anche i principi affermati in relazione alla risarcibilità del danno da mero ritardo, secondo quanto previsto dall’art. 2-bis della legge n. 241 del 1990, che assegna rilievo al tempo perduto e all’incertezza prodottasi a causa dell’inosservanza, dolosa o colposa, del termine di conclusione del procedimento, “sul presupposto che la certezza ed il rispetto dei tempi dell’azione amministrazione costituiscano un autonomo bene della vita, sul quale il privato, tanto più se operatore economico, debba poter fare ragionevole affidamento al fine di autodeterminarsi ed orientare la propria libertà economica”.
In ogni caso, si configura un silenzio-inadempimento tutte le volte in cui l’Amministrazione contravvenga ad un preciso obbligo di provvedere sia in base ad espresse previsioni di legge, sia nelle ipotesi che discendono dai principi generali o dalla peculiarità del caso concreto.
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1. Il ricorso è fondato.
2. In data 12.07.2017, il ricorrente ha formulato agli Uffici comunali una “istanza di rettifica di errore materiale del PGT – Comune di Lainate ai sensi dell’art. 13, comma 14-bis, l.r. 11.03.2005 n. 12”, chiedendo di procedere alla corretta assegnazione della destinazione d’uso dell’area, nonché di procedere alle correzioni all’uopo occorrenti nei diversi elaborati afferenti agli atti costituenti il P.G.T. e relativi allegati (all. 1 al ricorso). Tale istanza non è stata affatto riscontrata, come emerge anche dalle difese comunali.
2.1. L’art. 2, comma 1, della legge n. 241 del 1990 stabilisce che “ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad un’istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio, le pubbliche amministrazioni hanno il dovere di concluderlo mediante l’adozione di un provvedimento espresso. Se ravvisano la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza della domanda, le pubbliche amministrazioni concludono il procedimento con un provvedimento espresso redatto in forma semplificata, la cui motivazione può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo”. I commi 9-bis e seguenti individuano i rimedi per superare l’inerzia dell’Amministrazione e attivare i poteri sostitutivi al fine di ottenere comunque un provvedimento espresso.
Le disposizioni normative richiamate in precedenza vanno interpretate nel senso che il legislatore ha voluto imporre all’Amministrazione, senza eccezione alcuna, l’obbligo di provvedere sulle istanze dei privati, indipendentemente dal loro grado di fondatezza o addirittura di ammissibilità o di ricevibilità. Pertanto, anche a fronte di istanze del tutto abnormi sorge in capo all’Amministrazione il dovere di provvedere con un atto espresso. A bilanciare una tale soluzione –potenzialmente gravosa per lo svolgimento dell’attività amministrativa– è stata appunto prevista la possibilità di motivare in maniera semplificata laddove l’istanza risulti manifestamente irricevibile, inammissibile, improcedibile o infondata (TAR Valle d’Aosta, 11.11.2016, n. 53; TAR Lombardia, Milano, III, 04.06.2014, n. 1412).
A supporto della predetta conclusione, ovvero in ordine ad un generalizzato obbligo di provvedere, si possono richiamare anche i principi affermati in relazione alla risarcibilità del danno da mero ritardo, secondo quanto previsto dall’art. 2-bis della legge n. 241 del 1990, che assegna rilievo al tempo perduto e all’incertezza prodottasi a causa dell’inosservanza, dolosa o colposa, del termine di conclusione del procedimento, “sul presupposto che la certezza ed il rispetto dei tempi dell’azione amministrazione costituiscano un autonomo bene della vita, sul quale il privato, tanto più se operatore economico, debba poter fare ragionevole affidamento al fine di autodeterminarsi ed orientare la propria libertà economica” (cfr. Consiglio di Stato, III, 03.08.2011, n. 4639).
2.2. In ogni caso, si configura un silenzio-inadempimento tutte le volte in cui l’Amministrazione contravvenga ad un preciso obbligo di provvedere sia in base ad espresse previsioni di legge, sia nelle ipotesi che discendono dai principi generali o dalla peculiarità del caso concreto (cfr. Consiglio di Stato, III, 02.05.2016, n. 1660) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 06.02.2018 n. 348 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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