|
|
Alcuni files sono in formato Acrobat (pdf): se non riesci a leggerli, scarica
gratuitamente il programma Acrobat Reader (clicca sull'icona a fianco riportata).
-
segnala un
errore nei links
|
|
AGGIORNAMENTO AL 30.10.2018 |
ã |
La legge urbanistica lombarda, oramai, è un "colabrodo":
l'ennesimo rinvio alla Consulta!! |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Ancora alla Corte costituzionale la
legge della Regione Lombardia sulle aree che accolgono
attrezzature religiose.
---------------
Religione – Edifici di culto – Lombardia – Edifici di
culto – Art. 72, l.reg. n. 12 del 2005 – Discrezionalità del
Comune – Violazione artt. 2, 3, 5, 19, 114, 117, commi 2,
lett. m), e 6, terzo periodo, e 118 Cost. – Rilevanza e non
manifesta infondatezza.
E’ rilevante e non manifestamente
infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 72, comma 5, della l.r.
della Lombardia 11.03.2005, n. 12, nel testo
risultante dalle modifiche apportate dall’art. 1, comma 1,
lett. c), l.reg. Lombardia 03.02.2015, n. 2, per contrasto
con gli artt. 2, 3, 5, 19, 114, 117, commi 2, lett. m), e 6,
terzo periodo, e 118 Cost. nella parte in cui, avuto
riguardo alla tutela costituzionale riservata alla libertà
religiosa, non detta alcun limite alla discrezionalità del
Comune nel decidere quando (comma 5) e in che senso (commi 1
e 2) determinarsi a fronte della richiesta di individuazione
di edifici o aree da destinare al culto (1).
---------------
(1) Ha ricordato il Tar di aver già rimesso la questione di
legittimità costituzionale limitatamente a commi 1 e 2
dell’art. 72, l.reg. n. 12 del 2005 con
sentenza della sez. II 03.08.2018, n. 1939.
Ritiene infatti il Tar che la domanda di spazi da dedicare
all’esercizio di tale libertà debba trovare una risposta -in un senso positivo o in senso negativo- in tempi certi,
ed entro un termine ragionevole, avuto riguardo sia ai tempi
connessi alla valutazione di impatto sul tessuto
urbanistico, a volte indiscutibilmente complessa, sia avuto
riguardo alla particolare importanza del bene della vita al
quale aspirano i fedeli interessati.
Al riguardo, il Tar ha richiamato la
sentenza della Corte
cost. 24.03.2016, n. 63, secondo cui “Non è, invece,
consentito al legislatore regionale, all’interno di una
legge sul governo del territorio, introdurre disposizioni
che ostacolino o compromettano la libertà di religione.”. La
richiamata condizione di attesa a tempo indeterminato e di
incertezza rileva quale ostacolo all’esplicazione del
diritto di libertà religiosa.
Ne consegue una non giustificata compressione dei diritti di
cui all’art. 19 Cost., e più in generale un ostacolo non
giustificato all’esplicazione dei diritti inviolabili della
persona, sia come singolo sia nelle formazioni sociali, in
violazione dell’art. 2 Cost..
Il fatto che tale compressione della posizione soggettiva
degli interessati non appaia giustificata pare altresì
contrastare con il criterio della ragionevolezza del quale è
espressione l’art. 3 Cost..
In sintesi la norma contrasta con i principi costituzionali
richiamati, laddove prevede un termine –di 18 mesi– per
l’adozione del piano delle attrezzature religiose, decorso
il quale non viene previsto alcun intervento sostitutivo, ma
viene demandato all’Amministrazione Comunale la facoltà di
introdurre il piano in sede di revisione o adozione del PGT,
senza alcun ulteriore termine.
In tal modo viene vanificato il diritto alla libertà
religiosa, sotto il profilo del diritto di trovare spazi da
dedicare all’esercizio di tale libertà.
La norma pare violare altresì l’art. 97 Cost. e dell’art.
117, comma 2, lett. m), il fatto che l’art. 72, comma 5, l.reg. Lombardia n. 12 del 2005 rinvii a tempo indeterminato
la risposta a un’esigenza riguardante l’esercizio di un
diritto fondamentale della persona.
La mancata previsione, da parte della norma regionale, di
tempi certi di risposta alle istanze dei fedeli interessati
sembra infatti in contrasto con il principio di buon
andamento che deve presiedere l’attività della Pubblica
Amministrazione.
A bene vedere, la mancata di previsione di tempi certi da
parte dell’art. 72, comma 5, l.reg. Lombardia n. 12 del
2005 pare inoltre esprimere uno sfavore dell’Amministrazione
nei confronti del fenomeno religioso, il che contrasta con
il principio di imparzialità dell’azione amministrativa di
cui al menzionato art. 97 Cost..
Sotto connesso profilo, nella prospettiva dell’art. 117,
comma 2, lett. m), Cost. appare violato il livello minimo
delle prestazioni concernenti i diritti civili, che devono
essere garantiti su tutto il territorio nazionale.
Al riguardo, osserva il Tar che, ai sensi dell’art. 29, l.
n. 241 del 1990 attiene ai livelli essenziali delle
prestazioni di cui all’art. 117, comma 2, lett. m), Cost.
l’aspetto riguardante la predeterminazione della durata
massima dei procedimenti.
Ovviamente, va da sé che una norma che si esprima in termini
di sfavore verso il fenomeno religioso contrasta anche con
gli artt. 2. 3 e 19 Cost., ai quali si è già fatto
riferimento.
In sintesi il quadro normativo che, una volta decorso il
primo termine di 18 mesi dall’entrata in vigore della l.
reg. Lombardia n. 12 del 2005, non ha previsto ulteriori
termini per imporre l’adozione del piano della attrezzature
religiose, si pone in contrasto con la disciplina in materia
di procedimento amministrativo e di certezza dei termini di
conclusione del procedimento, quindi con i principi
costituzionali dell’art. 97 Cost. e dell’art. 117, comma 2,
lett. m) Cost.
Sotto un ulteriore profilo, ritiene il Tar che l’art. 72,
comma 5, l.reg. Lombardia n. 12 del 2005 contrasti con
l’art. 5 Cost., con l’art. 114, comma 2, Cost., con l’art.
117, comma 6, terzo periodo, Cost., con l’art. 118, comma 1,
Cost..
Ad avviso del Tar la norma regionale condiziona l’adozione
del Piano delle attrezzature religiose alla revisione
complessiva del piano di governo del territorio.
Infatti, solo nei primi diciotto mesi dall’entrata in vigore
della norma le Amministrazioni potevano predisporre il Piano
delle attrezzature religiose senza mettere mano all’intera
disciplina del governo del territorio.
Da che è maturata la scadenza dei diciotto mesi, la legge
regionale non lo permette più.
In altri termini, l’art. 72, comma 5, l.reg. Lombardia n.
12 del 2005 impedisce ai Comuni di dotarsi di un Piano delle
attrezzature religiose senza contestualmente revisionare
l’intera disciplina del governo del territorio.
Ad avviso del Tar viene in rilievo una ingiustificata
compressione delle prerogative del Comuni da parte della
Regione. Infatti, non si comprende quale ragione possa
giustificare il sostanziale divieto gravante sui Comuni
lombardi di adottare il Piano delle attrezzature religiose
in un momento distinto rispetto alla revisione generale del
Piano di governo del territorio. Da un primo punto di vista,
la norma sembra integrare una violazione dell’art. 5 Cost.,
atteso che essa frustra l’autonomia dei Comuni, quali
autonomie locali. Sotto connesso profilo, appaiono violati
l’art. 114, comma 2, Cost. e l’art. 117, comma 6, terzo
periodo, Cost..
In particolare, nella prospettiva dell’art. 114, comma 2,
Cost. appare violato sotto un profilo generale l’autonomia
riservata ai Comuni in relazione all’esercizio dei poteri e
delle funzioni di loro competenza.
Nella più particolare prospettiva dell’art. 117, comma 6,
terzo periodo Cost. appare violata l’autonomia degli Enti
Locali sotto il profilo della potestà regolamentare in
ordine alle funzioni attribuite ai Comuni.
Come anticipato, la limitazione imposta dalla Regione
all’autonomia dei Comuni non appare giustificata.
Da questo punto di vista sembra venire in rilievo la
violazione del principio di sussidiarietà verticale di cui
all’art. 118, comma 1, Cost..
In sintesi la disposizione regionale, laddove fa divieto ai
Comuni di adottare il piano delle attrezzature religiose
dopo il termine dei 18 mesi, ma necessariamente solo
contestualmente alla revisione del PGT, viola il principio
di autonomia riservata ai Comuni in relazione all’esercizio
dei poteri e delle funzioni di loro competenza (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 08.10.2018 n. 2227 -commento tratto da
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
FATTO
L’Associazione Co.Is. (da ora anche solo
Associazione), è un’associazione costituita nel 2004 e
raccoglie circa trecento persone di religione islamica,
residenti prevalentemente a Sesto Calende e nei comuni
limitrofi.
Già nel luglio 2011, nel corso della formazione del PGT,
l’Associazione ha chiesto al Comune di prevedere nel proprio
strumento urbanistico un’area per il culto islamico.
Il provvedimento di rigetto è stato impugnato con ricorso (r.g.
n. 364/2012), accolto con sentenza n. 2485 del 08.11.2013.
Tuttavia, a fronte dell’inerzia del Comune, L’Associazione
si vedeva costretta a notificare ricorso per ottemperanza,
accolto con sentenza n. 146 del 15.01.2015.
L’Amministrazione avviava quindi un procedimento in
ottemperanza alla sentenza del Tar; tuttavia, con nota del
22.02.2015, l’Amministrazione comunicava di aver sospeso il
procedimento, a seguito della L.R. n. 2 del 03.02.2015.
L’Associazione notificava un nuovo giudizio di ottemperanza,
sull’assunto che la nuova legge regionale non potesse
costituire ostacolo all’esecuzione delle precedenti
statuizioni giurisdizionali. Il ricorso di ottemperanza
veniva accolto con sentenza n. 943/2015: il Tar riteneva
infatti che la L.R. 2/2015, ancorché sopravvenuta, dovesse
trovare applicazione e incidesse sul dovere di esecuzione
del Comune.
Al fine di non fare decorrere il termine di 18 mesi per
l’approvazione dei piani comunali delle attrezzature
religiose, l’Associazione notificava in data 26.07.2016 un
atto di diffida.
L’Amministrazione avviava il procedimento al fine della
valutazione delle osservazioni pervenute e dopo la
comunicazione ex art 10-bis, notificava il rigetto della
domanda, rilevando l’assenza dei requisiti di ente di
confessione religiosa, come richiesti dalla L. 1159/1929.
Il diniego veniva impugnato con il presente ricorso,
notificato in data 20.12.2016 e depositato il 22.12.2016,
per i seguenti motivi:
1) illegittimità del provvedimento 25.10.2016
n. 24471 per eccesso di potere e violazione di legge, in
relazione all’art. 70, c. 2-ter, L.R. 12/2005; violazione della L. 1159/1929; in
subordine illegittimità derivata per violazione degli art. 2
e 19 Cost.: secondo l’Amministrazione l’Associazione non
avrebbe i poteri di rappresentanza propri degli enti delle
altre confessioni religiose e non costituirebbe ente di
confessione religiosa. Sostiene la ricorrente che la L.
1159/1929 non è applicabile al caso in esame, né può
rappresentare una condizione per limitare l’esercizio del
diritto di culto, dal momento che la libertà religiosa è un
diritto costituzionale. Seguendo l’interpretazione
dell’Amministrazione la L.R. risulterebbe in contrasto con
gli artt. 2, 8 e 19 Cost., perché si escluderebbe qualsiasi
insediamento di edifici di culto islamico nel territorio
regionale;
2) illegittimità del provvedimento 25.10.2016 n. 24471 in relazione
ai vincolo da osservare nell’esecuzione delle sentenze del
Tar Lombardia sez. II n. 2485/2013 e n. 146/2015, difetto di
motivazione: l’Amministrazione sostiene che l’Associazione
ricorrente non sarebbe “ente di confessione religiosa”. Già
nelle pregresse sentenze l’Associazione è stata ritenuta
come rappresentativa di una comunità di residenti dotata di
legittimazione al ricorso;
3) illegittimità del provvedimento 25.10.2016 n. 24471 per
violazione degli artt. 3 e 8 Cost. e dell’art 70 L.R.
12/2005: il provvedimento richiede la necessità della
sottoscrizione di una convenzione con il Comune.
L’Associazione è sempre stata disponibile a detta
sottoscrizione; in ogni caso si tratta di una condizione in
contrasto con i principi costituzionali perché viene
introdotta una discriminazione fondata sulla confessione
religiosa;
4) illegittimità del provvedimento 25.10.2016 n. 24471 per
violazione dell’art 10 L. 241/1990: nel provvedimento una
ragione di rigetto è indicata nella circostanza che
l’associazione non costituirebbe ente di confessione
religiosa, motivo non rappresentato nel preavviso di
rigetto.
Si è costituito in giudizio il Comune di Sesto Calende,
chiedendo il rigetto del ricorso.
Con ordinanza cautelare n. 117 del 20.01.2017 gli effetti
del diniego sono stati sospesi, disponendo il riesame,
rilevando profili di fondatezza del ricorso, in quanto “la
mancanza del riconoscimento ai sensi della legge n. 1159 del
1929 non appare legittimamente invocabile quale causa di
esclusione dalla possibilità di ottenere, da parte di una
confessione religiosa, l’assegnazione di aree da destinare
all’esercizio del culto, considerato che tale possibilità
deve essere garantita a tutte le confessioni, e non soltanto
a quelle riconosciute (cfr. Corte cost. n. 63 del 2016, n.
193 del 1995 e n. 59 del 1958);
- appare pure censurabile l’affermazione secondo la quale
l’Associazione ricorrente, al di là della mancanza di
riconoscimento ai sensi della legge n. 1159 del 1929, non
costituirebbe “ente di confessione religiosa”, in quanto, a
fronte della finalità religiosa dell’organizzazione e della
dichiarata volontà di disporre di un luogo per l’esercizio
del culto, non sembra consentito al Comune richiedere né il
possesso di specifici requisiti da parte del soggetto
istante (attesa la declaratoria di illegittimità
costituzionale che ha colpito la parte del comma 2-bis
dell’articolo 70 della legge regionale n. 12 del 2005, ove
tali requisiti erano stabiliti), né la prova che tale
soggetto costituisca articolazione di una confessione
organizzata o benefici di un riconoscimento formale della
rappresentatività di un certo credo religioso, poiché la
libertà di culto è garantita anche a “confessioni religiose
strutturate come semplici comunità di fedeli che non abbiano
organizzazioni regolate da speciali statuti” (Corte cost. n.
193 del 1995);
- conseguentemente, in una lettura costituzionalmente orientata
della disciplina regionale, la qualificazione del soggetto
richiedente, da parte del Comune, come “ente di confessione
religiosa” non sembra potersi basare che sull’idoneità in
concreto di tale soggetto a rappresentare un’esigenza di
culto riscontrabile a livello locale;
- in tale prospettiva, la valutazione che il Comune è chiamato a
compiere, ai fini all’individuazione di luoghi da destinare
all’esercizio del culto, dovrà perciò risultare attinente,
secondo l’insegnamento della Corte costituzionale,
“all’entità della presenza sul territorio dell’una o
dell’altra confessione, alla rispettiva consistenza e
incidenza sociale e alle esigenze di culto riscontrate nella
popolazione” (Corte cost. n. 63 del 2016); dati, questi, da
ponderare in considerazione delle utilità limitate (nel caso
di specie: utilizzazione del territorio ed eventuale consumo
di suolo) oggetto di assegnazione (cfr. ancora la sentenza
da ultimo richiamata);”.
Il Comune ha quindi adottato la delibera consiliare del 20.09.2017 n. 39, sempre respingendo la domanda, per una
pluralità di motivi. In particolare sostiene il Comune che:
- l’Associazione non avrebbe i requisiti richiesti dalla legge,
perché la disciplina sui luoghi di culto non va applicata in
funzione della percentuale rispetto alla popolazione totale,
ma quando si riscontra la presenza di un gruppo di fedeli e
l’esigenza per essi di disporre di un culto;
- le aree non sono dotate di parcheggi e in ogni caso non ci sono
immobili comunali idonei a questo scopo;
- l’Associazione si è trasferita come sede in altro comune.
Con motivi aggiunti depositati in data 22.11.2017 è stata
impugnata la delibera n. 39/2017, per i seguenti motivi:
1) Violazione dell’art 19 Cost. e dell’art 70, comma 2-bis, L.R.
12/2005; violazione dei principi affermati dal Tar Lombardia
nella sentenza 24585/2013: l’Amministrazione non può, in
presenza di una comunità religiosa, differire ogni
determinazione in ordine alla individuazione di un’area di
culto. La presenza di una comunità islamica è ragione
sufficiente per accogliere la richiesta;
2) Violazione dell’art. 70, comma 2, della L.R. 12/2005 per carenza di
istruttoria e difetto di motivazione: il comune afferma:
a) che l’associazione non avrebbe le
caratteristiche di consistenza e di incidenza sociale; per
consentire l’individuazione di un’area di culto;
b) le aree non sono dotate di parcheggi e non ci
sono immobili comunali idonei;
c) l’associazione si è trasferita come sede fuori
dal Comune resistente;
d) nel 2008 l’Amministrazione ha negato che vi
fossero elementi per riconoscere una consistente presenza
sul territorio dell’associazione.
La ricorrente contesta la fondatezza delle motivazioni del
rigetto della domanda, in quanto l’Associazione ha come
iscritti i nuclei familiari, per cui gli aderenti sono
maggiori rispetto a quelli considerati. Inoltre la
disciplina sui luoghi di culto non va applicata in funzione
della percentuale rispetto alla popolazione totale, ma
quando si riscontra la presenza di un gruppo di fedeli e
l’esigenza per essi di disporre di un culto.
L’affermazione circa l’inidoneità delle aree è in contrasto
con il diritto costituzionale alla libertà religiosa.
Irrilevante la circostanza che l’associazione abbia cambiato
sede e che già nel 2008 l’Amministrazione avesse negato che
sussistessero elementi idonei a confermare la consistente
presenza dell’associazione sul territorio.
Anche rispetto ai motivi aggiunti si è costituto il Comune,
affermando che non vi sarebbe alcun obbligo di trovare
un’area, ma solo di valutare l’idoneità dell’area.
Ha altresì sollevato l’eccezione di inammissibilità del
ricorso, in quanto generico.
All’udienza del 30.05.2018 il ricorso è stato trattenuto in
decisione.
DIRITTO
1) Con il ricorso principale l'Associazione ha impugnato,
chiedendone la sospensione cautelare, il provvedimento prot.
24471 di data 25.10.2016 a mezzo del quale il Comune di
Sesto Calende aveva respinto l'istanza tesa
all'individuazione di un luogo di culto del territorio
comunale da dedicare al culto islamico.
A seguito dell'accoglimento dell'istanza cautelare con
l'ordinanza della Sezione n. 112/2017 e del rigetto
dell'appello avverso la stessa decisone con l'ordinanza del
Consiglio di Stato n. 1884/2017, il Comune si rideterminava
a mezzo della deliberazione consiliare n. 39 di data
20.09.2017, con la quale respingeva nuovamente l'istanza
dell'Associazione.
Ritiene il Collegio che tale decisione di riesame della
originaria istanza dell'Associazione abbia natura di
provvedimento di secondo grado rispetto a quello di data
25.10.2016.
Di conseguenza, la deliberazione consiliare n. 39 di data
20.09.2017 ha definitivamente privato di efficacia il
provvedimento di data 25.10.2016, impugnato –quando ancora
era efficace– a mezzo del ricorso principale.
In tale situazione, il ricorso principale va dichiarato
improcedibile.
2) Con il ricorso per motivi aggiunti l'Associazione
chiede l'annullamento della deliberazione consiliare n. 39
di data 20.09.2017.
Al riguardo, va rigettata l’eccezione di inammissibilità
opposta dalla difesa Comunale, secondo cui i motivi aggiunti
avrebbero contenuto generico e non indicherebbero i profili
di ritenuta illegittimità del provvedimento impugnato.
Osserva infatti il Collegio che, nel primo motivo aggiunto,
riguardante l’impianto generale della deliberazione
consiliare n. 39/2017, emergono nitidamente le doglianze
circa il difetto di motivazione e circa il cattivo esercizio
della discrezionalità nella pianificazione urbanistica.
Il secondo motivo aggiunto contesta invece
analiticamente i singoli punti della motivazione del
provvedimento impugnato.
3) Passando al merito della controversia, rileva il Collegio
che la deliberazione consiliare n. 39 di data 20.09.2017
costituisce il provvedimento finale del procedimento
apertosi a seguito dell'istanza dell'Associazione tesa
all'individuazione nel PGT del Comune di Sesto Calende di un
luogo del territorio comunale di culto da dedicare al culto
islamico, sulla base della sentenza della Sezione n.
2485/2013, passata in giudicato.
Nel giudizio riguardante l'ottemperanza della sentenza
appena citata, la Sezione aveva precisato che al
procedimento andavano applicate le norme introdotte dalla
L.R. Lombardia n. 2/2015 a modifica della L.R. n. 12/2005
rubricata “Legge per il governo del territorio”
(sentenza n. 943/2016).
Il procedimento era quindi retto dall'applicazione dell'art.
72 della L.R. Lombardia n. 12/2005, nella versione
risultante dalle modifiche introdotte dalla menzionata L.R.
n. 2/2015.
L'Associazione, a mezzo del terzo motivo del ricorso
principale, ha eccepito l'illegittimità costituzionale di
tale art. 72 sopra citato nella parte in cui condiziona
l'esercizio del culto alla discrezionalità riservata al
Comune nell'individuare o meno nello strumento urbanistico
luoghi destinati a servizi religiosi.
L'eccezione è da intendersi estesa anche al provvedimento
impugnato con i motivi aggiunti.
Infatti, il ricorso per motivi aggiunti non ha mutato i
termini della controversia così come perimetrati nel ricorso
principale.
3.1 Ciò premesso, anche il Collegio dubita della legittimità
costituzionale dell'art. 72 della L.R. Lombardia n. 12/2005
nella misura in cui tale norma, avuto riguardo alla tutela
costituzionale riservata alla libertà religiosa, non detta
alcun limite alla discrezionalità del Comune nel decidere
quando (comma 5) e in che senso (commi 1 e 2) determinarsi a
fronte della richiesta di individuazione di edifici o aree
da destinare al culto.
La Sezione ha già rimesso la questione di legittimità
costituzionale limitatamente a commi 1 e 2 del menzionato
art. 72 della L.R. n. 12/2005 a mezzo della sentenza non
definitiva n. 1939/2018, alla quale infra il Collegio farà
ampio riferimento.
Sotto questo profilo, il Collegio reputa opportuno
sospendere il giudizio ai sensi dell'art. 79 c.p.a. in
attesa della decisione della Corte Costituzionale.
Sotto il profilo della questione di legittimità
costituzionale dell'art. 72, comma 5, ritiene invece il
Collegio di dovere sottoporre gli atti alla Corte
Costituzionale, per un ulteriore profilo di
incostituzionalità della norma regionale, non sollevato
nella precedente decisione di rinvio.
4) Prima di affrontare compiutamente i temi della rilevanza
e della non manifesta infondatezza della questione di
costituzionalità, pare al Collegio opportuno richiamare la
ricostruzione del quadro normativo che viene in rilievo,
operata a mezzo della menzionata
sentenza della Sezione n.
1939/2018:
“9.1 La legge regionale della Lombardia
11.03.2005, n. 12 (“Legge per il governo del territorio”)
reca, nella Parte II (“Gestione del territorio”), un Titolo
IV dedicato alle “Attività edilizie specifiche”. Nell’ambito
di questo Titolo, il Capo III – composto dagli articoli
70-73 della legge – detta “Norme per la realizzazione di
edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi
religiosi”.
Le previsioni contenute nel suddetto Capo stabiliscono,
anzitutto, che le “attrezzature di interesse comune per
servizi religiosi”, come definite all’articolo 71, comma
1, della legge regionale, “costituiscono opere di
urbanizzazione secondaria ad ogni effetto” (così il
comma 2 dello stesso articolo 71, tuttora vigente).
Quanto alla localizzazione sul territorio di tali
attrezzature, l’articolo 71, comma 1, stabiliva, nel suo
tenore originario, prima delle modifiche apportate dalla
legge regionale 03.02.2015, n. 2, che il Piano dei Servizi
–che è uno degli atti di cui si compone il Piano di Governo
del Territorio– dovesse specificamente individuare,
dimensionare e disciplinare “le aree che accolgono
attrezzature religiose, o che sono destinate alle
attrezzature stesse”, e ciò “sulla base delle
esigenze locali, valutate le istanze avanzate dagli enti
delle confessioni religiose di cui all’articolo 70”.
Tali ultimi soggetti erano individuabili, in particolare,
negli “enti istituzionalmente competenti in materia di culto
della Chiesa Cattolica” (articolo 70, comma 1) e negli “enti
delle altre confessioni religiose come tali qualificate in
base a criteri desumibili dall’ordinamento ed aventi una
presenza diffusa, organizzata e stabile nell’ambito del
comune (…), ed i cui statuti esprimano il carattere
religioso delle loro finalità istituzionali e previa
stipulazione di convenzione tra il comune e le confessioni
interessate” (articolo 70, comma 2).
Era, inoltre, stabilito che, indipendentemente dalla
dotazione di attrezzature religiose esistenti, “nelle
aree in cui siano previsti nuovi insediamenti residenziali,
il piano dei servizi, e relative varianti, assicura nuove
aree per attrezzature religiose, tenendo conto delle
esigenze rappresentate dagli enti delle confessioni
religiose di cui all’articolo 70” (articolo 72, comma
2).
Apposite previsioni erano pure dettate per la realizzazione
di attrezzature religiose di interesse sovracomunale
(articolo 71, comma 3).
Quanto alla ripartizione delle attrezzature tra gli enti
interessati, questa doveva essere operata “in base alla
consistenza ed incidenza sociale delle rispettive confessioni”
(articolo 71, comma 4).
Era, inoltre, stabilito che, fino all’approvazione del Piano
dei Servizi, la realizzazione di nuove attrezzature per i
servizi religiosi fosse “ammessa unicamente su aree
classificate a standard nei vigenti strumenti urbanistici
generali e specificamente destinate ad attrezzature per
interesse comune” (così il comma 4-bis dell’articolo 71,
introdotto dall’articolo 1, comma 1, lett. hhh), della legge
regionale 14.03.2008, n. 4).
Infine, l’articolo 73 dettava (e detta tuttora) disposizioni
relative alle modalità di finanziamento della realizzazione
di attrezzature religiose da parte di ciascun comune.
9.2 La suddetta disciplina ha subito incisive modifiche a
seguito dell’entrata in vigore della legge regionale
03.02.2015, n. 2; modifiche che –si anticipa sin d’ora– sono
state in parte colpite da una dichiarazione di
incostituzionalità, per effetto della sentenza della Corte
costituzionale n. 63 del 2016.
9.2.1 La nuova legge ha, anzitutto, innovato in modo
significativo la disciplina dettata dall’articolo 70, in
tema di individuazione degli enti delle confessioni
religiose deputati a realizzare attrezzature religiose sul
territorio comunale. Tali soggetti sono stati, infatti,
individuati, oltre che negli enti della Chiesa cattolica,
anche negli “enti delle altre confessioni religiose con
le quali lo Stato ha già approvato con legge la relativa
intesa ai sensi dell’articolo 8, terzo comma, della
Costituzione” (nuovo articolo 70, comma 2) e negli enti
delle ulteriori confessioni religiose, non firmatarie di
intesa, in presenza di determinati requisiti specifici
(articolo 70, comma 2-bis).
Per gli enti diversi da quelli della Chiesa cattolica è
stato, peraltro, previsto che l’applicazione delle
previsioni in materia di attrezzature di interesse religioso
sia subordinata alla stipulazione di “una convenzione a
fini urbanistici con il comune interessato” (articolo
70, comma 2-ter).
E’ stata, ancora, prevista l’istituzione di una Consulta
regionale, nominata con provvedimento della Giunta
regionale, deputata al “rilascio di parere preventivo e
obbligatorio sulla sussistenza dei requisiti” per
l’accreditamento presso i Comuni degli enti di confessioni
religiose che non abbiano stipulato intese con lo Stato, al
fine della realizzazione di attrezzature religiose (articolo
70, comma 2-quater).
9.2.2 E’ stata, inoltre, radicalmente modificata la
disciplina relativa alla localizzazione delle attrezzature
religiose, contenuta all’articolo 72.
Sotto questo profilo, si è stabilito, anzitutto, che “Le
aree che accolgono attrezzature religiose o che sono
destinate alle attrezzature stesse sono specificamente
individuate nel piano delle attrezzature religiose, atto
separato facente parte del piano dei servizi, dove vengono
dimensionate e disciplinate sulla base delle esigenze
locali, valutate le istanze avanzate dagli enti delle
confessioni religiose di cui all’articolo 70” (articolo
72, comma 1).
Il Piano delle attrezzature religiose è “sottoposto
alla medesima procedura di approvazione dei piani componenti
il PGT” (articolo 72, comma 3) e deve prevedere una
serie di contenuti specifici (articolo 72, comma 7),
consistenti in prescrizioni di dotazioni di servizi (lett.
a), b) e d), del comma 7), caratteristiche costruttive delle
attrezzature religiose (lett. e), f) e g) del comma 7) e
apposite distanze tra le strutture da destinare alle diverse
confessioni religiose, sulla base delle distanze minime
stabilite dalla Giunta regionale (lett. c) del comma 7).
E’, poi, stabilito che “L’installazione di nuove
attrezzature religiose presuppone il piano di cui al comma
1; senza il suddetto piano non può essere installata nessuna
nuova attrezzatura religiosa da confessioni di cui
all’articolo 70” (articolo 72, comma 2). E, in questa
prospettiva, la legge regionale dispone pure che “I comuni
che intendono prevedere nuove attrezzature religiose sono
tenuti ad adottare e approvare il piano delle attrezzature
religiose entro diciotto mesi dalla data di entrata in
vigore della legge regionale recante “Modifiche alla
legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del
territorio) – Principi per la pianificazione delle
attrezzature per servizi religiosi“.”, ossia la stessa
legge n. 2 del 2015; “Decorso detto termine il piano è
approvato unitamente al nuovo PGT” (articolo 72, comma
5).
9.3 Le previsioni in materia di attrezzature religiose
introdotte dalla legge regionale n. 2 del 2015 sono state in
parte dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale, con
la sentenza n. 63 del 2016, in esito al giudizio in via
d’azione promosso dal Presidente del Consiglio dei Ministri
contro la predetta legge.
Più in dettaglio, la Corte ha dichiarato fondate, per
violazione degli artt. 3, 8, 19 e 117, secondo comma,
lettera c), della Costituzione, le questioni di legittimità
costituzionale aventi ad oggetto:
– l’articolo 70, comma 2-bis, ove erano stabiliti i requisiti che
gli enti delle confessioni religiose che non hanno stipulato
un’intesa con lo Stato avrebbero dovuto possedere al fine di
accedere alla possibilità di realizzare attrezzature
religiose;
– l’articolo 70, comma 2-quater, che sottoponeva al vaglio di
un’apposita Consulta regionale lo scrutinio in ordine al
possesso di tali requisiti.
La Corte ha, inoltre, riscontrato la fondatezza delle
questioni con le quali si prospettava la violazione della
competenza esclusiva statale in materia di ordine pubblico e
sicurezza, di cui all’articolo 117, secondo comma, lettera
h), della Costituzione ad opera delle previsioni contenute:
– all’articolo 72, comma 4, primo periodo, della legge regionale,
ove si prevedeva che, nel corso del procedimento per la
predisposizione del Piano delle attrezzature religiose,
venissero acquisiti “i pareri di organizzazioni, comitati
di cittadini, esponenti e rappresentanti delle forze
dell’ordine oltre agli uffici provinciali di questura e
prefettura al fine di valutare possibili profili di
sicurezza pubblica, fatta salva l’autonomia degli organi
statali”;
– all’articolo 72, comma 7, lett. e), ove si prescriveva che il
Piano dovesse prevedere, per le attrezzature religiose, “la
realizzazione di un impianto di videosorveglianza esterno
all’edificio, con onere a carico dei richiedenti, che ne
monitori ogni punto di ingresso, collegato con gli uffici
della polizia locale o forze dell’ordine”.
9.4 L’intervento della Corte non ha, invece, toccato –in
quanto non sottoposta allo scrutinio di legittimità
costituzionale– l’architettura del sistema prefigurato dalla
legge regionale n. 2 del 2015 al fine dell’insediamento sul
territorio delle attrezzature religiose e, in particolare,
la necessaria subordinazione della realizzazione di tali
attrezzature all’approvazione di un apposito Piano.
La Corte ha, infatti, espressamente evidenziato che non
formava oggetto del giudizio “l’art. 72, comma 1, della
stessa legge regionale n. 12 del 2005, il quale ricollega
alla valutazione delle «esigenze locali», previo esame delle
diverse istanze confessionali, la programmazione urbanistica
delle attrezzature religiose”.
Per quanto qui rileva, la Corte ha, inoltre, dichiarato
manifestamente inammissibile, per inconferenza del parametro
evocato –ossia l’articolo 117, secondo comma, lett. l),
della Costituzione– la questione di legittimità
costituzionale dell’articolo 72, comma 5, della legge
regionale n. 12 del 2005, ove si stabilisce che i Comuni che
intendano prevedere nuove attrezzature religiose debbano
approvare il relativo Piano entro diciotto mesi dall’entrata
in vigore della legge e che, in mancanza, si provveda
unitamente al nuovo Piano di Governo del Territorio.”
La ricostruzione normativa deve essere completata in
considerazione dell’avvenuta abrogazione della L.R.
Lombardia n. 2/2015 a mezzo della L.R. n. 5/2018, recante “Razionalizzazione
dell’ordinamento regionale. Abrogazione di disposizioni di
legge.”
Sulla portata della L.R. Lombardia n. 5/2018 ritiene il
Collegio di confermare il proprio orientamento espresso
nella più volte menzionata
sentenza della Sezione n.
1939/2018:
“Sempre in punto di rilevanza, il Collegio
deve prendere in considerazione la portata della legge
regionale 25.01.2018, n. 5, recante “Razionalizzazione
dell’ordinamento regionale. Abrogazione di disposizioni di
legge.”, pubblicata nel Bollettino Ufficiale della
Regione Lombardia del 29.01.2018, Supplemento n. 5.
La suddetta legge reca, all’articolo 2 –dedicato alla “Abrogazione
di leggi”– la previsione secondo la quale “A
decorrere dall’entrata in vigore della presente legge sono o
restano abrogate: …b)le seguenti leggi o disposizioni
operanti modifiche alla legislazione regionale… 69) L.R.
03.02.2015, n. 2 (Modifiche alla legge regionale 11.03.2005,
n. 12 (Legge per il governo del territorio) – Principi per
la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi);”.
E’ stata, dunque, disposta l’abrogazione della legge
regionale n. 2 del 2015, che –come più volte ripetuto– ha
novellato la legge regionale n. 12 del 2005, dettando la
disciplina applicata dal provvedimento impugnato nel
presente giudizio.
Occorre, dunque, domandarsi se tale previsione possa
influire sulla rilevanza delle questioni di legittimità
costituzionale che si intendono rimettere alla Corte
costituzionale.
21.1 Il Collegio rileva, anzitutto, che il provvedimento
impugnato nel presente giudizio è precedente alla legge
regionale n. 5 del 2018, per cui la sua legittimità va
valutata in base al quadro normativo vigente al tempo della
sua adozione.
Conseguentemente, la norma regionale abrogatrice
sopravvenuta non potrebbe comunque far venire meno la
rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale
relative al testo della legge n. 12 del 2005, nella
formulazione in vigore quando è stato rilasciato il permesso
di costruire annullato, e anche al tempo della
determinazione di autotutela qui censurata.
21.2 In ogni caso, è pure da escludere che la legge
regionale n. 5 del 2018 abbia modificato l’articolo 72 della
legge regionale n. 12 del 2005, il quale è da ritenere a
tutt’oggi vigente nel tenore risultante dalle modificazioni
apportate dalla legge regionale n. 2 del 2015.
L’operazione disposta dal legislatore regionale è stata,
infatti, di mero riordino legislativo, come risulta
chiaramente dall’articolo 1 della legge regionale n. 5 del
2018, ove, nell’indicare le finalità dell’intervento
normativo, si enuncia che “La presente legge opera
interventi di manutenzione e razionalizzazione tecnica
dell’ordinamento regionale attraverso interventi abrogativi
di leggi o di disposizioni di legge. Per tutte le
disposizioni oggetto di abrogazione sono fatti salvi gli
effetti secondo quanto previsto dall’articolo 4.”.
Il richiamato articolo 4 stabilisce, a sua volta, che “Sono
fatti salvi gli effetti prodotti o comunque derivanti dalle
leggi e dalle disposizioni abrogate dalla presente legge,
comprese le modifiche apportate ad altre leggi. Restano
pertanto confermate, in particolare, le autorizzazioni, le
variazioni, i rifinanziamenti e ogni altro effetto
giuridico, economico o finanziario prodotto o comunque
derivante dalle disposizioni in materia di bilancio, nonché
le variazioni testuali apportate alla legislazione vigente
dalle leggi abrogate dalla presente legge, ove non superate
da integrazioni, modificazioni o abrogazioni disposte da
leggi intervenute successivamente. Trova inoltre
applicazione, per le leggi di cui all’articolo 3, anche
quanto previsto dall’articolo 24, comma 2, della L.R.
29/2006”.
Il legislatore regionale ha, cioè, inteso eliminare le leggi
enumerate –tra le quali la legge n. 2 del 2015– intese
esclusivamente quali atti fonte, ossia quali “veicoli”
delle modificazioni apportate ad altre leggi; “veicoli”
che hanno sostanzialmente esaurito i loro effetti con
l’introduzione stessa delle novelle. Le leggi modificate non
sono state, invece, toccate dall’intervento di riordino, il
quale non ha inteso apportare alcuna variazione sostanziale
al corpus legislativo regionale.”
5) Alla luce della ricostruzione normativa e della
precedente decisione, viene sollevato in questo giudizio
l’ulteriore profilo di incostituzionalità dell’art. 72 L.R.
Lombardia n. 12/2005, in quanto questione rilevante al fine
della definizione dei motivi aggiunti.
Infatti, entrambe le censure proposte con i motivi aggiunti
riguardano la violazione dell’art. 70, comma 2-bis, della
L.R. Lombardia n. 12/2005, secondo cui “le disposizioni
del presente capo si applicano altresì agli enti delle altre
confessioni religiose”. Al riguardo, viene in rilievo il
“Capo III”, intitolato “Norme per la realizzazione
di edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi
religiosi” della Parte II, Titolo IV, della Legge
regionale in argomento.
Lamentando la violazione di tale norma, l’Associazione
ricorrente si duole quindi del modo in cui il Comune ha
applicato le norme del Capo III, tra le quali è compreso
l’art. 72, che, come detto nella precedente decisione, si
deve ritenere in vigore.
In particolare, con il primo motivo aggiunto, l'Associazione
lamenta che “l’Amministrazione comunale non può
legittimamente negare la sussistenza dei presupposti ad una
individuazione di area di culto da assegnare a fedeli della
religione islamica, né tanto meno [il che particolarmente
rileva ai fini della questione di legittimità costituzionale
– n.d.r.] può legittimamente differire ogni determinazione
in tal senso ad una successiva ed ulteriore verifica in sede
di futuro aggiornamento del PGT”.
L’Associazione ricorrente ha avuto cura di precisare che la
censura di cui al primo motivo aggiunto “ha carattere
assorbente” rispetto a quella contenuta nel motivo
successivo, a mezzo del quale la ricorrente lamenta che il
Comune avrebbe errato: (a) nell’esprimere il giudizio di
significatività della presenza di una comunità islamica sul
proprio territorio; (b) nel qualificare l’istanza
dell’Associazione come tesa a fruire di un immobile
comunale; (c) nell’affermare che l’Associazione avrebbe
ormai trovato sede in un Comune contermine; (d) nel dare
rilevanza che già nell’anno 2008 il Comune medesimo non
aveva ravvisato in capo all’Associazione una consistenza e
una incidenza sociale apprezzabili sul territorio.
Ritiene quindi il Collegio di poter affrontare la seconda
censura dei motivi aggiunti solo dopo avere deciso sulla
prima censura.
Sennonché, come detto, la decisione sulla prima censura
passa necessariamente attraverso l’applicazione dell’art.
72, comma 5, della L.R. Lombardia n. 12/2005, secondo cui
-lo si ripete- “I comuni che intendono prevedere nuove
attrezzature religiose sono tenuti ad adottare e approvare
il piano delle attrezzature religiose entro diciotto mesi
dalla data di entrata in vigore della legge regionale
recante "Modifiche alla legge regionale 11.03.2005, n. 12
(Legge per il governo del territorio) - Principi per la
pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi".
Decorso detto termine il piano è approvato unitamente al
nuovo PGT.”.
Al riguardo, osserva il Collegio che il termine di diciotto
mesi menzionato al primo periodo ha iniziato a decorrere dal
06.02.2015, giorno successivo alla data di pubblicazione
della Legge sul Bollettino Ufficiale della Regione
Lombardia, ed è spirato il 06.08.2016.
Nel caso di specie, il Comune di Sesto Calende ha adottato
il provvedimento impugnato in data 20.09.2017, con la
conseguenza che viene in rilievo l’applicazione del secondo
periodo dell’art. 72, comma 5, a mente del quale la
previsione di nuove attrezzature religiose sul territorio
comunale presuppone la previa redazione di un apposito
piano, che i Comuni lombardi possono adottare in uno con il
nuovo PGT.
Senza l’avvio del nuovo Piano del Governo del Territorio
rimane sena tutela la posizione dell’Associazione: in tal
senso è quindi innegabile la rilevanza della questione nel
caso di specie.
6) Il Collegio sospetta l’art. 72, comma 5, della L.R.
Lombardia n. 12/2005 di illegittimità costituzionale per le
seguenti ragioni.
6.1. Sotto un primo profilo, al Collegio pare che l’art. 72,
comma 5, della L.R. Lombardia n. 12/2005 contrasti con
l’art. 2 Cost., con l’art. 3 Cost., e con l’art. 19 Cost..
Al riguardo, con la sentenza n. 1939/2018 la Sezione ha già
avuto modo di osservare che la programmazione urbanistica
comunale interviene con cadenze periodiche pluriennali, non
fissate a priori.
Di conseguenza, atteso il tenore letterale dell’art. 72,
comma 5, della L.R. n. 12/2005, i fedeli di una confessione
che intendono trovare una sede per esercitare il proprio
culto devono attendere per un tempo indeterminato la
decisione del Comune di individuare o meno un’area da
destinare ad attrezzatura religiosa: infatti se decorre
inutilmente il termine dei 18 mesi (come nel caso in esame),
l’Amministrazione non ha alcun obbligo di avviare il
procedimento di revisione del PGT, per individuare le aree
destinate a luogo di culto.
Al decorso dei 18 mesi non è infatti prevista alcuna
disposizione “sanzionatoria”, quale la sostituzione
commissariale per l’adozione del piano de quo.
Ora, resta fuori discussione il potere del Comune di
decidere, all’esito di un istruttoria adeguata, se
accogliere o respingere la domanda degli interessati.
Tuttavia, la perdurante situazione di attesa e di incertezza
nella quale, in ragione di quanto disposto dall’art. 72,
comma 5, della L.R. Lombardia n. 12/2005, versano i fedeli,
i quali aspirano a che il Comune individui un luogo per il
culto da essi professato, non è compatibile con il rango
costituzionale del diritto di libertà religiosa.
Ritiene infatti il Collegio che la domanda di spazi da
dedicare all’esercizio di tale libertà debba trovare una
risposta -in un senso positivo o in senso negativo- in tempi
certi, ed entro un termine ragionevole, avuto riguardo sia
ai tempi connessi alla valutazione di impatto sul tessuto
urbanistico, a volte indiscutibilmente complessa, sia avuto
riguardo alla particolare importanza del bene della vita al
quale aspirano i fedeli interessati.
Al riguardo, il Collegio ritiene utile e opportuno fare
riferimento a quanto affermato dalla Corte Costituzionale
24.03.2016 n. 63, secondo cui “Non è, invece, consentito
al legislatore regionale, all’interno di una legge sul
governo del territorio, introdurre disposizioni che
ostacolino o compromettano la libertà di religione.”
Infatti, ad avviso del Collegio, la richiamata condizione di
attesa a tempo indeterminato e di incertezza rileva quale
ostacolo all’esplicazione del diritto di libertà religiosa.
Ne consegue una non giustificata compressione dei diritti di
cui all’art. 19 Cost., e più in generale un ostacolo non
giustificato all’esplicazione dei diritti inviolabili della
persona, sia come singolo sia nelle formazioni sociali, in
violazione dell’art. 2 Cost..
Il fatto che tale compressione della posizione soggettiva
degli interessati non appaia giustificata pare altresì
contrastare con il criterio della ragionevolezza del quale è
espressione l’art. 3 Cost..
In sintesi la norma contrasta con i principi costituzionali
richiamati, laddove prevede un termine –di 18 mesi– per
l’adozione del piano delle attrezzature religiose, decorso
il quale non viene previsto alcun intervento sostitutivo, ma
viene demandato all’Amministrazione Comunale la facoltà di
introdurre il piano in sede di revisione o adozione del PGT,
senza alcun ulteriore termine.
In tal modo viene vanificato il diritto alla libertà
religiosa, sotto il profilo del diritto di trovare spazi da
dedicare all’esercizio di tale libertà.
6.2 La norma pare violare altresì l’art. 97 Cost. e
dell’art. 117, comma 2, lett. m), il fatto che l’art. 72,
comma 5, della L.R. Lombardia n. 12/2005 rinvii a tempo
indeterminato la risposta a un’esigenza riguardante
l’esercizio di un diritto fondamentale della persona.
La mancata previsione, da parte della norma regionale, di
tempi certi di risposta alle istanze dei fedeli interessati
sembra infatti in contrasto con il principio di buon
andamento che deve presiedere l’attività della Pubblica
Amministrazione.
A bene vedere, la mancata di previsione di tempi certi da
parte dell’art. 72, comma 5, della L.R. Lombardia n. 12/2005
pare inoltre esprimere uno sfavore dell’Amministrazione nei
confronti del fenomeno religioso, il che contrasta con il
principio di imparzialità dell’azione amministrativa di cui
al menzionato art. 97 Cost..
Sotto connesso profilo, nella prospettiva dell’art. 117,
comma 2, lett. m), Cost. appare violato il livello minimo
delle prestazioni concernenti i diritti civili, che devono
essere garantiti su tutto il territorio nazionale.
Al riguardo, osserva il Collegio che, ai sensi dell’art. 29
della L. n. 241/1990 attiene ai livelli essenziali delle
prestazioni di cui all’articolo 117, secondo comma, lettera
m), della Costituzione l’aspetto riguardante la
predeterminazione della durata massima dei procedimenti.
Ovviamente, va da sé che una norma che si esprima in termini
di sfavore verso il fenomeno religioso contrasta anche con
gli artt. 2. 3 e 19 Cost., ai quali si è già fatto
riferimento.
In sintesi il quadro normativo che, una volta decorso il
primo termine di 18 mesi dall’entrata in vigore della L.R.
12/2010, non ha previsto ulteriori termini per imporre
l’adozione del piano della attrezzatture religiose, si pone
in contrasto con la disciplina in materia di procedimento
amministrativo e di certezza dei termini di conclusione del
procedimento, quindi con i principi costituzionali dell’art
97 Cost. e dell’art. 117 comma 2 lett. m) Cost.
6.3. Sotto un ulteriore profilo, ritiene il Collegio che
l’art. 72, comma 5, della L.R. Lombardia n. 12/2005
contrasti con l’art. 5 Cost., con l’art. 114, comma 2, Cost.,
con l’art. 117, comma 6, terzo periodo, Cost., con l’art.
118, comma 1, Cost..
Ad avviso del Collegio, la norma regionale condiziona
l’adozione del Piano delle attrezzature religiose alla
revisione complessiva del piano di governo del territorio.
Infatti, solo nei primi diciotto mesi dall’entrata in vigore
della norma le Amministrazioni potevano predisporre il Piano
delle attrezzature religiose senza mettere mano all’intera
disciplina del governo del territorio.
Da che è maturata la scadenza dei diciotto mesi, la legge
regionale non lo permette più.
In altri termini, l’art. 72, comma 5, della L.R. Lombardia
n. 12/2005 impedisce ai Comuni di dotarsi di un Piano delle
attrezzature religiose senza contestualmente revisionare
l’intera disciplina del governo del territorio.
Ad avviso del Collegio, viene in rilievo una ingiustificata
compressione delle prerogative del Comuni da parte della
Regione.
Infatti, non si comprende quale ragione possa giustificare
il sostanziale divieto gravante sui Comuni lombardi di
adottare il Piano delle attrezzature religiose in un momento
distinto rispetto alla revisione generale del Piano di
governo del territorio.
Da un primo punto di vista, la norma sembra integrare una
violazione dell’art. 5 Cost., atteso che essa frustra
l’autonomia dei Comuni, quali autonomie locali.
Sotto connesso profilo, appaiono violati l’art. 114, comma 2,
Cost. e l’art. 117, comma 6, terzo periodo, Cost..
In particolare, nella prospettiva dell’art. 114, comma 2,
Cost. appare violato sotto un profilo generale l’autonomia
riservata ai Comuni in relazione all’esercizio dei poteri e
delle funzioni di loro competenza.
Nella più particolare prospettiva dell’art. 117, comma 6,
terzo periodo, Cost. appare violata l’autonomia degli Enti
Locali sotto il profilo della potestà regolamentare in
ordine alle funzioni attribuite ai Comuni.
Come anticipato, la limitazione imposta dalla Regione
all’autonomia dei Comuni non appare giustificata.
Da questo punto di vista sembra venire in rilievo la
violazione del principio di sussidiarietà verticale di cui
all’art. 118, comma 1, Cost..
In sintesi la disposizione regionale, laddove fa divieto ai
Comuni di adottare il piano delle attrezzature religiose
dopo il termine dei 18 mesi, ma necessariamente solo
contestualmente alla revisione del PGT, viola il principio
di autonomia riservata ai Comuni in relazione all’esercizio
dei poteri e delle funzioni di loro competenza.
7) In conclusione, il ricorso principale va dichiarato
improcedibile.
Rispetto ai motivi aggiunti, va rimessa
alla Corte Costituzionale la questione di legittimità
dell’art. 72, comma 5, della L.R. n. 12/2005
in relazione all’art. 2 Cost., all’art. 3 Cost., all’art. 5
Cost., all’art. 19 Cost., all’art. 114 Cost., all’art. 117,
comma 2, lett. m), Cost., all’art. 117, comma 6, terzo
periodo, Cost. e all’art. 118 Cost..
Va di conseguenza disposta la sospensione del giudizio.
P.Q.M.
Il Tribunale Regionale per la Lombardia (Sezione Seconda),
non definitivamente pronunciando sul ricorso principale e su
quello per motivi aggiunti:
- dichiara improcedibile il ricorso principale;
- rimette alla Corte Costituzionale le questioni
di legittimità costituzionale illustrate in motivazione,
relative all’articolo 72, comma 5, della legge regionale
della Lombardia 11.03.2005, n. 12, nel testo risultante
dalle modifiche apportate dall’articolo 1, comma 1, lett.
c), della legge regionale 03.02.2015 n. 2,
per contrasto con l’art. 2 Cost., con l’art. 3 Cost., con
l’art. 5 Cost., con l’art. 19 Cost., con l’art. 114 Cost.,
con l’art. 117, comma 2, lett. m), Cost., con l’art. 117
comma 6 terzo periodo Cost. e con l’art. 118 Cost.;
- dispone, la sospensione del giudizio sino all’esito della
decisione della Corte Costituzionale sulla questione rimessa
tramite il presente provvedimento e sino alla decisione
sulla questione di legittimità Costituzionale sollevata dal
Tribunale a mezzo della sentenza non definitiva n.
1939/2018;
- riserva alla sentenza definitiva la pronuncia in ordine ai motivi
aggiunti, nonché in ordine alla complessiva regolazione
delle spese del giudizio (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 08.10.2018 n. 2227 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
|
Posa di una sbarra metallica:
serve, o meno, il titolo edilizio abilitativo?? |
EDILIZIA PRIVATA:
Il Comune legittimamente ordina la riduzione in
pristino ove individui la violazione edilizia rappresentata
dalla mancanza di un presupposto che deve essere presente
per l’ottenimento di qualunque titolo edilizio, compreso
quello che si forma secondo il meccanismo peculiare della
segnalazione certificata di inizio attività.
Nella specie, risulta, infatti, che –pur se il paletto
insiste nel terreno di proprietà degli appellanti– la sbarra
quando è aperta insiste, in questa parte, sul terreno di
proprietà comunale.
Così come un privato non può installare senza il consenso
del vicino una sbarra che –quando è aperta– incide
sull’altrui proprietà e sul libero passaggio, allo stesso
modo un privato non può installare senza il consenso del
Comune una sbarra che –quando è aperta– incide sul passaggio
della strada comunale.
Nella specie, l’Amministrazione –che non ha esercitato il
potere derivante dalla legge per rimuovere gli impedimenti
incidenti sul libero transito di una strada– ha
legittimamente esercitato il potere di natura edilizia,
avendo riscontrato che la sbarra in questione quando è
chiusa insiste su un terreno che non è di proprietà di chi
la ha installata.
---------------
Né si può ritenere che vi sia stato, nella fattispecie, un
esercizio illegittimo del potere comunale per perseguire
finalità di risoluzione di una controversia privata.
Infatti, da un lato l’accordo stipulato a suo tempo
tra amministrazione provinciale e gli appellanti prevedeva
solo gli aspetti del transito su quell’area e non anche la
possibilità di installare una sbarra e, dall’altro,
l’Amministrazione resta comunque titolare del potere-dovere
di far proseguire il transito di una strada, quando un
privato con le sue opere intenda alterare la relativa
situazione di fatto.
---------------
1.−I signori Gi. e Br. sono comproprietari di un immobile
sito in Sesta Godano, via ..., n. 12, censito al mappale
704. Esso confina con un immobile, adibito a magazzino ed
officina, censito al mappale 770, che un tempo era di
proprietà della Provincia di La Spezia e poi è stato
trasferito al Comune di Sesta Godano.
I signori sopra indicati hanno presentato, in data
14.04.2016, una segnalazione certificata di inizio attività
per la realizzazione di un «dissuasore di transito di
tipo girevole, costituito da un paletto di altezza pari a
metri 1,00 e sbarra girevole ortogonale».
Il Comune, con determinazione 19.11.2016, n. 37, ha rilevato
che «l’area interessata dalla realizzazione delle
predette opere, catastalmente individuata al foglio 42,
particella 770, è di proprietà del Comune di Sesta Godano e
che, in persona del Sindaco, ha chiarito nell’ambito della
corrispondenza intervenuta con le parti, la propria volontà
di non autorizzare il posizionamento della predetta sbarra».
Per le suddette ragioni, il Comune ha ordinato la
demolizione delle opere realizzate.
2.− Le parti hanno impugnato tale determinazione innanzi al
Tribunale amministrativo regionale per la Liguria,
prospettando plurimi motivi di illegittimità, riproposti in
sede di appello e riportati nei successivi punti.
3.− Il Tribunale amministrativo, con la sentenza 04.09.2017,
n. 712, ha rigettato il ricorso.
4.− I ricorrenti di primo grado hanno proposto appello ed
hanno chiesto che, in riforma della sentenza impugnata, sia
accolto il ricorso di primo grado.
4.1.− Si è costituiti in giudizio il Comune di Sesta Godano,
chiedendo il rigetto dell’appello.
5.− La causa è stata decisa all’esito dell’udienza pubblica
del 03.05.2018.
6.− L’appello non è fondato.
7.− Con il primo ed il terzo motivo, si è
dedotta l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in
cui non ha ravvisato l’illegittimità della determinazione
comunale derivante dal fatto che non si comprenderebbe quale
sarebbe la violazione edilizia commessa, atteso che l’opera
sarebbe stata realizzata su un’area di proprietà degli
appellanti.
Si deduce che il Comune avrebbe fatto una applicazione
distorta dei poteri repressivi in materia edilizia, per
perseguire finalità di risoluzione di una controversia
privata.
In particolare, si rileva che tra il precedente proprietario
dell’area, la Provincia di La Spezia, e gli odierni
proprietari era stato stipulato un accordo che prevedeva:
(i) la cessione gratuita da parte degli appellanti del diritto di
passaggio sulla contigua striscia di terreno del fondo del
mappale 704 di loro proprietà, al fine di ampliare l’accesso
dalla via ... per assicurare, al contempo, maggiore
sicurezza al traffico;
ii) l’autorizzazione rilasciata dall’amministrazione provinciale
agli appellanti di «apertura dell’accesso carrabile sul
mappale 770» e di contestuale «transito carraio sul
medesimo mappale».
Ritiene la Sezione che tali motivi non siano fondati.
Il Comune, con il provvedimento impugnato, ha chiaramente
individuato la violazione edilizia rappresentata dalla
mancanza di un presupposto che deve essere presente per
l’ottenimento di qualunque titolo edilizio, compreso quello
che si forma secondo il meccanismo peculiare della
segnalazione certificata di inizio attività.
Nella specie, risulta, infatti, che –pur se il paletto
insiste nel terreno di proprietà degli appellanti– la sbarra
quando è aperta insiste, in questa parte, sul terreno di
proprietà comunale.
Così come un privato non può installare senza il consenso
del vicino una sbarra che –quando è aperta– incide
sull’altrui proprietà e sul libero passaggio, allo stesso
modo un privato non può installare senza il consenso del
Comune una sbarra che –quando è aperta– incide sul passaggio
della strada comunale.
Nella specie, l’Amministrazione –che non ha esercitato il
potere derivante dalla legge per rimuovere gli impedimenti
incidenti sul libero transito di una strada– ha
legittimamente esercitato il potere di natura edilizia,
avendo riscontrato che la sbarra in questione quando è
chiusa insiste su un terreno che non è di proprietà di chi
la ha installata.
Né si può ritenere che vi sia stato un esercizio illegittimo
del potere per perseguire finalità di risoluzione di una
controversia privata.
Infatti, da un lato l’accordo stipulato a suo tempo
tra amministrazione provinciale e gli appellanti prevedeva
solo gli aspetti del transito su quell’area e non anche la
possibilità di installare una sbarra e, dall’altro,
l’Amministrazione resta comunque titolare del potere-dovere
di far proseguire il transito di una strada, quando un
privato con le sue opere intenda alterare la relativa
situazione di fatto (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 07.06.2018 n. 3454 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’installazione di una sbarra metallica a
delimitazione della proprietà privata è intervento che, “per
la sua entità e tipologia, deve ricondursi in quelli di <<manutenzione
ordinaria>> per i quali non è richiesto alcun titolo
abilitativo”.
---------------
1. Con atto di ricorso ritualmente notificato e depositato,
il sig. Ev.Pe. ha adito l’intestato Tribunale per chiedere
l’annullamento del provvedimento, meglio in epigrafe
specificato, con il quale gli è stata ordinata al ricorrente
predetto la rimozione di due cartelli di segnalazione di
proprietà privata posti su due alberi e di una sbarra in
ferro installati su strada vicinale privata, in quanto
ritenuti abusivi per mancanza dei necessari titoli
abilitativi.
...
2. Con il primo motivo, parte ricorrente lamenta che
il provvedimento impugnato sarebbe illegittimo per carenza
di motivazione e contraddittorietà dell’istruttoria condotta
dall’amministrazione comunale, in quanto le opere di cui è
stata ordinata la demolizione sarebbero state realizzate
prima del 1954, ossia prima dell’apposizione vincolo
paesaggistico asseritamente violato.
2.1. Il motivo è fondato.
2.2. Dalla documentazione versata in atti e, in particolare,
dalla relazione prodotta dall’Ufficio Servizi Operativi del
Comune resistente (cfr., nota del 28.05.2015, prot. n.
28/2015 U.S.O) -peraltro non citata nelle premesse del
provvedimento impugnato- risulta infatti che la strada in
argomento, “è chiusa con una sbarra da tempo immemorabile”
ed appare “utilizzata esclusivamente ad uso privato”.
2.3. Ciò conduce a ritenere inattendibile l’affermazione
contenuta nel provvedimento impugnato secondo cui “la
strada era libera da impedimenti al libero transito almeno
dall’inizio degli anni 80”, trattandosi peraltro di
determinazione alla quale l’amministrazione è giunta sulla
scorta “di sommarie informazioni acquisite da tre persone”
(cfr., verbale di polizia municipale in data 11.09.2015),
che sul punto risultano contraddette da dichiarazioni
prodotte da altri soggetti, concludenti, al contrario, per
la presenza della sbarra in contestazione fin “dagli
inizi degli anni 50” (cfr., dichiarazione di cui al doc.
n. 6 di parte ricorrente, acquisita agli atti del Comune di
Assisi in data 03.02.2015).
2.4. Deve pertanto confermarsi, ad avviso del Collegio, la
sussistenza del dedotto vizio di contraddittorietà
dell’istruttoria, risultando invero inequivocabile la
mancata ponderazione di tutte le risultanze probatorie
istruttorie in possesso dell’amministrazione resistente, la
quale ha trascurato di verificare mediante accertamenti
attendibili e non contradditori, in merito all’apposizione
della sbarra in questione nonché dei relativi cartelli di
segnalazione di proprietà privata, dopo l’apposizione del
vincolo paesaggistico del quale è stata contestata la
violazione.
2.5. Occorre peraltro aggiungere che, a prescindere dal
menzionato vincolo paesaggistico, l’installazione di una
sbarra metallica a delimitazione della proprietà privata è
intervento che, “per la sua entità e tipologia, deve
ricondursi in quelli di <<manutenzione ordinaria>> per i
quali non è richiesto alcun titolo abilitativo” (cfr.,
ex multis, Cons. St., sez. VI, 20.11.2013, 5513,
idem, sez. VI, 07.08.2015, n. 3898), per il che risulta
parimenti sconfessata, sotto questo ulteriore profilo, la
dedotta assenza dei necessari titoli abilitativi, anche con
riferimento alla asserita sostituzione della sbarra stessa
(TAR Umbria,
sentenza 02.02.2017 n. 120 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
6 del d.P.R. n. 380 del 2001 consente di eseguire interventi edilizi senza
titolo abilitativo per specifiche previsioni (lavori per eliminare barriere
architettoniche, opere temporanee per attività di ricerca nel sottosuolo,
connesse all’attività agricola, dirette a soddisfare esigenze contingenti,
ecc.), ivi comprese le opere di manutenzione di cui all’art. 3, co. 1, lett.
a), nonché, previa comunicazione di inizio dei lavori, gli interventi di
manutenzione straordinaria di cui all'art. 3, co. 1, lett. b).
Orbene, l’installazione di una sbarra automatica in sostituzione del
precedente manufatto manuale rappresenta appunto un lavoro di
manutenzione straordinaria soggetto a C.I.L., la cui inosservanza è
sanzionata dallo stesso art. 6, co. 7, con una pena pecuniaria pari a 1.000
euro.
---------------
Con ricorso notificato il 19/05/2015, Lo.Ag. e Lo.An., nella dedotta qualità
di proprietarie di due unità edilizie in San Giorgio a Cremano nel
fabbricato denominato C al prolungamento di via Manzoni, impugnavano gli
atti in epigrafe concernenti l’apposizione di una sbarra metallica
automatizzata in asserita sostituzione di preesistente sbarra in ferro, per
il cui intervento, oggetto di accertamento da parte della Polizia
Municipale, era stata presentata istanza di accertamento di conformità e di
compatibilità paesaggistica.
...
1. Nel merito le ricorrenti deducono che:
- l’intervento in questione non sarebbe soggetto a permesso di
costruire, per cui sarebbe da escludere la sanzione della demolizione;
neppure sarebbe applicabile il ripristino dello stato dei luoghi per la
mancanza del nulla-osta paesaggistico in quanto l’opera sarebbe priva di
impatto ambientale;
- il silenzio sull’istanza di conformità urbanistica ed il
provvedimento di demolizione deriverebbero dal mancata pronuncia
dell’autorità preposta alla tutela del vincolo; nessuna preclusione vi
sarebbe al rilascio dell’autorizzazione in sanatoria attesa la tipologia
dell’intervento ed i materiali impiegati; l’intervento sarebbe comunque
sanabile sotto il profilo edilizio;
- gli atti impugnati sarebbero in contrasto con gli artt. 146, co.
4, 167, co. 4 e 5, 181, co. 1-quater, del d.lgs. n. 42 del 2004 e con
l’art. 25 del decreto-legge n. 133 del 2014; l’accertamento di compatibilità
paesaggistica sarebbe ammissibile in sanatoria per cui l’amministrazione
aveva l’obbligo di provvedere sull’istanza presentata dalle ricorrenti; né
peraltro sussisterebbero ragioni ostative all’accertamento di conformità
sotto il profilo urbanistico;
- lo stesso Comune rappresenta nel provvedimento di demolizione la
possibilità di chiedere l’accertamento di compatibilità paesaggistica ex
art. 181, co. 1-quater, del d.lgs. n. 42 del 2004, senza considerare che
l’istanza era già stata presentata;
- la nuova sbarra sarebbe in sostituzione di una preesistente
sbarra in ferro;
- mancherebbe la comunicazione di avvio del procedimento, in
violazione degli artt. 7 e 10-bis della legge n. 241 del 1990.
1.1. Giova premettere che l’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001 consente di
eseguire interventi edilizi senza titolo abilitativo per specifiche
previsioni (lavori per eliminare barriere architettoniche, opere temporanee
per attività di ricerca nel sottosuolo, connesse all’attività agricola,
dirette a soddisfare esigenze contingenti, ecc.), ivi comprese le opere di
manutenzione di cui all’art. 3, co. 1, lett. a), nonché, previa
comunicazione di inizio dei lavori, gli interventi di manutenzione
straordinaria di cui all'art. 3, co. 1, lett. b).
Orbene l’installazione di una sbarra automatica in sostituzione del
precedente manufatto manuale rappresenta appunto un lavoro di
manutenzione straordinaria soggetto a C.I.L., la cui inosservanza è
sanzionata dallo stesso art. 6, co. 7, con una pena pecuniaria pari a 1.000
euro.
Appunto in esplicita applicazione di tale disposizione il Comune ha
correttamente e doverosamente sanzionato l’opera abusiva in questione, per
cui vanno disattese in parte qua le censure dedotte
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 24.02.2016 n. 992 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’elettrificazione di un
cancello esistente, o l’apposizione di un barra mobile,
integrativa delle funzioni del medesimo cancello e dalle
caratteristiche estetiche non invasive, così come
l’installazione di un sistema di illuminazione, rientrano
nella nozione di manutenzione ordinaria e non
risultano suscettibili di incidere su valori paesaggistici
protetti, salvo prescrizioni particolarmente restrittive.
---------------
Per quanto riguarda infatti, in primo luogo, l’installazione
di una barra elettrificata, retrostante al cancello
esistente di accesso al parcheggio, con impianto luce e
allacci elettrici, appare condivisibile la tesi, secondo cui
si tratterebbe di interventi corrispondenti ad “attività
edilizia libera”, disciplinata dall’art. 6 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380 (Testo Unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia edilizia).
Ai sensi del comma 1, lettera a), della citata norma non
richiedono, infatti, alcun titolo abilitativo –fatte salve
specifiche prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali
o altre disposizioni, fra cui quelle dettate a tutela dei
beni culturali ed il paesaggio– gli interventi di
manutenzione ordinaria, che l’art. 3 del medesimo d.P.R. n.
380/2001 definisce come “interventi edilizi che
riguardano le opere di riparazione, rinnovamento e
sostituzione delle finiture degli edifici e quelle
necessarie a mantenere in efficienza gli impianti
tecnologici esistenti”.
Ad avviso del Collegio, l’elettrificazione di un cancello
esistente, o l’apposizione (come nel caso di specie) di un
barra mobile, integrativa delle funzioni del medesimo
cancello e dalle caratteristiche estetiche non invasive,
così come l’installazione di un sistema di illuminazione,
rientravano nella nozione di manutenzione ordinaria sopra
specificata e non risultavano suscettibili di incidere su
valori paesaggistici protetti, salvo prescrizioni
particolarmente restrittive, non evidenziate nella
situazione in esame (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 20.11.2013 n. 5513 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Circa
l’apposizione della sbarra di metallo all’accesso
della strada di proprietà privata e la recinzione in muratura posta lungo il
confine sud-ovest di delimitazione dell’area di pertinenza esclusiva del
fabbricato da quella adibita a servitù di passaggio, si ritiene che tali
interventi non siano sussumibili nella fattispecie di cui all’ art. 6 del
D.P.R. n. 380/2001, come sostituito dall’art. 5, co. 1, del D.L. 25.03.2010
n. 40, conv. in legge 22.05.2010 n. 73, ma costituiscano, piuttosto,
attività assentibile mediante Scia ai sensi dell’art. 49, comma 4-bis, della
legge 122/2010, la cui mancanza risulta sanzionata mediante l’applicazione
delle misure previste dall’art. 37 del D.P.R. 380/2001.
---------------
Con il provvedimento n. 9432 del
29.08.2012 il Comune di Maruggio ha rigettato la richiesta presentata dalla
sig. ra Co.Ro. volta a ottenere il permesso di costruire in relazione agli “interventi
eseguiti in assenza di Permesso di Costruire e per l’installazione di una
sbarra in metallo di delimitazione accesso alla proprietà, nonché per la
nuova realizzazione di una recinzione con relativi accessi” sulla base
delle seguenti argomentazioni:
- esaminato l’elaborato progettuale di rilievo del Piano terra con
riferimento alla parte di copertura priva di tamponamento, già autorizzata
con concessione edilizia in sanatoria n. 177/2001,
- premesso che la stessa deve considerarsi come portico, vista la
mancanza di una diversa e precisa indicazione di destinazione;
- se è vero che l’art. 18 del Regolamento Edilizio Comunale
vigente, recante norme per la misurazione delle altezze e dei volumi dei
fabbricati, prescrive che nel calcolo del volume non vengano computati i
portici, è anche vero che, nel caso in esame, gli interventi realizzati
dall’istante hanno determinato un mutamento di destinazione d’uso da
porticato-garage a cantina e lavanderia;
- mediante la realizzazione di opere murarie aggiuntive, si è
determinato un incremento della volumetria, non consentito nella zona “F4.2-
Verde pubblico e attrezzature collettive” in cui l’immobile ricade, in
quanto le norme tecniche di attuazione prescrivono che nelle aree a verde
pubblico è consentita unicamente la creazione di impianti sportivi e per lo
svago, di stazioni di servizio, campeggi, autoparcheggi, negozi, chioschi ed
altri impianti similari di uso pubblico;.
– la disposizione di cui all’art. 32 del D.P.R. n. 380/2001,
secondo cui non possono comunque ritenersi variazioni essenziali quelle che
incidono sulla entità delle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla
distribuzione interna delle singole unità abitative, non trova applicazione
al caso in esame in quanto i nuovi locali realizzati (cantina e lavanderia)
non possono qualificarsi quali volumi tecnici;
- l’apposizione della barra metallica all’ingresso della strada
privata gravata da servitù di passaggio deve qualificarsi come “opera di
recinzione” ai sensi dell’art. 49, comma 4-bis, della legge n. 122/2010
e deve considerarsi come intervento assentibile mediante Scia, la cui
mancanza determina l’applicazione della sole sanzioni previste dall’art. 37
del D.P.R. n. 380/2001;
- negli stessi termini, la realizzazione della recinzione in
muratura costituisce “opera di recinzione” assentibile mediante Scia,
per la quale, così come per la sanatoria della sbarra metallica, dovrà
pervenire all’Ufficio competente nuova e separata richiesta corredata da
tutta la documentazione tecnica prevista dalla normativa vigente a firma di
un tecnico abilitato.
Con un unico motivo di ricorso la ricorrente ha impugnato il
provvedimento denunciandone l’illegittimità per eccesso di potere,
violazione e/o falsa applicazione della legge e/o violazione e falsa
applicazione del D.P.R. n. 380/2001 e/eccesso di potere per difetto di
motivazione e/o contraddittorietà ed illogicità, violazione del giusto
procedimento e/o violazione del principio di legalità e buon andamento
dell’attività amministrativa e/o irrazionalità ed illogicità dell’azione
amministrativa e/o eccesso di potere ed erronea valutazione dei presupposti
di fatto e di diritto e/o illogicità dell’azione amministrativa.
Il provvedimento di diniego, infatti, sarebbe illegittimo in quanto, a detta
di parte ricorrente:
- la planimetria della concessione in sanatoria n. 177/2001
indicava la destinazione di utilizzo del porticato in piano garage;
- gli artt. 136 e 137 del D.P.R. 380/2001 mantengono in vigore la
legge 05.08.1978 n. 457 ad eccezione dell’art. 48;
- il porticato è stato condonato come piano garage e non è,
pertanto, applicabile l’art. 18 del Regolamento Edilizio Comunale di
Maruggio;
- l’art. 27 della citata legge non è applicabile al caso in esame
per assenza dei piani di recupero;
- la richiesta di costruire del 23.02.2012 riguarda interventi di
ristrutturazione edilizia ammissibili di cui all’art. 31 della legge n.
457/1978, trasfuso nell’art. 3 del D.P.R. n. 380/2001;
- l’art. 31 della legge n. 457/1978 prevede che sono ammissibili le
opere necessarie per realizzare ed integrare servizi igienico-sanitari e
tecnologici;
- l’uso del porticato con destinazione garage è pienamente
compatibile con l’uso a cantina e lavatoio, e che la cantina/lavanderia,
integrando mere cubature accessorie, e non volumi tecnici,
- la sbarra metallica, posta su una strada privata, così come la
recinzione in muratura costituiscono un’attività libera per la quale non è
richiesto alcun permesso di costruire e per le quali, in ogni modo, è fatta
salvo, per il privato, richiedere al Comune il permesso di costruire, con
conseguente obbligo dall’Amministrazione di accogliere siffatta richiesta.
I motivi di ricorso così proposti sono infondati.
...
Per ciò che concerne, invece, l’apposizione della sbarra di metallo
all’accesso della strada di proprietà privata e la recinzione in muratura
posta lungo il confine sud-ovest di delimitazione dell’area di pertinenza
esclusiva del fabbricato da quella adibita a servitù di passaggio, si
ritiene che, contrariamente a quanto dedotto da parte ricorrente, tali
interventi non siano sussumibili nella fattispecie di cui all’art. 6 del
D.P.R. n. 380/2001, come sostituito dall’art. 5, co. 1, del D.L. 25.03.2010
n. 40, conv. in legge 22.05.2010 n. 73, ma costituiscano, piuttosto,
attività assentibile mediante Scia ai sensi dell’art. 49, comma 4-bis, della
legge 122/2010, la cui mancanza risulta sanzionata mediante l’applicazione
delle misure previste dall’art. 37 del D.P.R. 380/2001
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 27.08.2013 n. 1801 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
costante giurisprudenza ritiene necessaria la concessione edilizia solo per
gli interventi che producano una significativa e stabile trasformazione
urbanistica del territorio
Invece, non presenta tale carattere lo spandimento di materiale
stabilizzante sul tracciato stradale, che deve invece essere ricondotto agli
interventi di tipo manutentivo–conservativo rientranti nell'attività
edilizia libera, non abbisognante di alcun titolo concessorio o
autorizzatorio.
Parimenti, non risulta abusiva nemmeno l'installazione della sbarra in
metallo, in quanto le recinzioni di fondi rustici realizzate senza
interventi in muratura non sono espressione dello
jus
aedificandi, bensì del diverso
jus
excludendi omnes alios che non necessitano di concessione edilizia.
---------------
La ricorrente, insieme agli altri destinatari dei provvedimenti repressivi
impugnati (non costituiti in giudizio), sono proprietari di fondi rustici
con annessi fabbricati situati in C.C. Daone (pp.ff. nn. 2193/4 e 2193/1,
2201, 2210/2, 2210/08 e 2210/2, nonché 2450/1) asserviti da una vecchia
strada che li attraversa, costeggiando il fiume Chiese, utilizzata anche dal
Servizio Forestale della PAT per i necessari interventi di polizia
idraulica.
Col ricorso in epigrafe la ricorrente espone che il Sindaco di Daone, con
due distinti provvedimenti, ha ingiunto ad essa, congiuntamente agli altri
proprietari, la rimessa in pristino dello stato dei luoghi sul presupposto
che, come risulta dal sopralluogo effettuato in data 30.05.2012, la suddetta
strada fosse stata oggetto di interventi abusivi consistenti
nell'installazione di una sbarra in metallo all'ingresso e di riporto di
materiale stabilizzato (ord. n. 22/12) e di ampliamento mediante
realizzazione di un nuovo tratto, con modifica del tracciato preesistente (ord.
n. 23/12) in assenza dei prescritti titoli edilizi.
...
A sostegno del presente ricorso viene dedotto:
a) che non è stato comunicato l'avvio del procedimento, in violazione
dell'art. 7 della l. n. 241 del 1990;
b) che non vi sarebbe stato un sufficiente accertamento circa la
consistenza quantitativa e/o qualitativa dell'abuso realizzato,
concretandosi così il difetto di istruttoria e la violazione degli artt. 1,
3, 6 della l. n. 241/1990;
c) che mancherebbero i presupposti di emanazione delle ordinanze
gravate, stante il carattere non abusivo degli interventi realizzati che, in
quanto di mero ripristino e non comportanti rilevante alterazione dello
stato dei luoghi, non avrebbero abbisognato di titolo edilizio (terzo e
quarto motivo di ricorso);
d) che dette ordinanze sarebbero illegittime in quanto emanate in
aperta lesione del legittimo affidamento che si sarebbe ingenerato nella
ricorrente a fronte dell'inerzia e dei ritardi dell'amministrazione
nell'accertare gli abusi, non colpiti dalle ord. nn. 64 e 71 del 2004,
sebbene all'epoca già realizzati, e che comunque i provvedimenti gravati
sarebbero privi della motivazione “rafforzata” necessaria, a detta
della ricorrente, per perseguire abusi risalenti nel tempo, in violazione
dell'art. 3 l. n. 241/1990 e del corrispondente art. 4 l. n. 23/1992;
e) che sarebbe ravvisabile sviamento di potere nel fatto che la
reiterata attività di vigilanza dell'Amministrazione sarebbe stata motivata,
non dalle esigenze di repressione degli abusi edilizi ed urbanistici ma
dall'intento di favorire la controinteressata, autrice della denuncia che ha
determinato il sopralluogo del 30.05.2012.
...
Il terzo e quarto motivo di ricorso possono essere esaminati
congiuntamente.
La ricorrente lamenta che le ordinanze censurate sarebbero state emanate
sulla base dell'erroneo presupposto del carattere abusivo degli interventi
ivi contestati, in quanto essi sarebbero stati realizzati in assenza dei
prescritti titoli edilizi, in particolare della concessione per
l'ampliamento della strada e della denuncia d'inizio attività per
l'installazione della sbarra metallica e per il riporto di materiale
stabilizzato.
Le censure avverso l'ord. n. 22/12, avente ad oggetto la realizzazione della
sbarra e la stabilizzazione del terreno, sono fondate.
La costante giurisprudenza ritiene infatti necessaria la concessione
edilizia solo per gli interventi che producano una significativa e stabile
trasformazione urbanistica del territorio (cfr., ad es.: Cons. Stato, sez.
V, n. 1922/2013).
Invece, non presenta tale carattere lo spandimento di materiale
stabilizzante sul tracciato stradale, che deve invece essere ricondotto agli
interventi di tipo manutentivo–conservativo rientranti nell'attività
edilizia libera, non abbisognante di alcun titolo concessorio o
autorizzatorio.
Parimenti, non risulta abusiva nemmeno l'installazione della sbarra in
metallo, in quanto le recinzioni di fondi rustici realizzate senza
interventi in muratura non sono espressione dello jus aedificandi,
bensì del diverso jus excludendi omnes alios che non necessitano di
concessione edilizia (cfr., ibidem: Cons. Stato, sez. V, n. 1922/2013).
Conseguentemente, dovendosi escludere il carattere abusivo delle opere
anzidette, l'ingiunzione risulta essere stata emessa in assenza dei
presupposti previsti dalla legge: da ciò la sua illegittimità.
E' invece infondata la censura di erroneità dei presupposti mossa nei
confronti dell'ord. n. 23/12, avente ad oggetto l'avvenuta modifica del
tracciato stradale rispetto a quello originario. Detto intervento è
certamente abusivo poiché non poteva essere realizzato, come invece è
avvenuto, in assenza di titolo concessorio: non rientrano infatti nel quadro
degli interventi di manutenzione, neppure straordinaria, i lavori stradali
che comportino varianti al tracciato, ampliamento della carreggiata e, più
in generale, modifica dello stato dei luoghi o di destinazione delle aree
interessate.
Come detto, l'effettiva realizzazione di tale ampliamento ed il suo
carattere abusivo sono possono essere rimessi in discussione essendo stati
positivamente accertati dalle citate ordinanze di demolizione nn. 64 e 71
del 2004 ritenute legittime da questo Tribunale con la citata sentenza n.
26/2006, passata in giudicato
(TRGA Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 20.06.2013 n. 210 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
|
IN EVIDENZA |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Sul divieto alle pubbliche
amministrazioni di attribuire incarichi di studio e di
consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici
collocati in quiescenza.
Deve essere rimessa alla Corte di
Giustizia UE la questione “Se il
principio di non discriminazione di cui agli artt. 1 e 2
della direttiva del Consiglio dell’Unione Europea
27.11.2000, n. 78, osta alla disposizione di cui all’art.
5, comma 9, del decreto-legge 06.07.2012, n. 95 (convertito,
con modificazioni, dalla legge 07.08.2012, n. 135,
nel testo modificato dall’art. 6 del decreto-legge
24.06.2014 n. 90, convertito dalla legge 11.08.2014 n. 114),
che prevede il divieto per le pubbliche amministrazioni di
attribuire incarichi di studio e di
consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici
collocati in quiescenza”.
---------------
1. – Con il ricorso in esame, il dottor Fr.Me. chiede
l’annullamento dell’avviso di manifestazione di interesse n.
5722 del 28.12.2017, pubblicato dal Comune di Gesturi,
avente ad oggetto “Studio e Consulenza Eco Centro
Comunale”, nella parte in cui prevede, tra i requisiti
di partecipazione, che i soggetti interessati non siano
dipendenti pubblici collocati in quiescenza.
Segnatamente, l’avviso stabilisce che per l'affidamento di
un incarico di studio e consulenza gli interessati debbano
essere in possesso dei seguenti requisiti:
«- Laurea in Medicina e Chirurgia
- Specializzazione in Igiene
- comprovata esperienza dirigenziale nel servizio sanitario
nazionale per almeno cinque anni
- non essere soggetto già lavoratore privato o pubblico collocato
in quiescenza».
L’odierno ricorrente riferisce di non poter partecipare alla
procedura, essendo attualmente dipendente pubblico in
pensione, pur avendo tutti gli altri requisiti soggettivi
prescritti dall’avviso pubblico in questione (laureato in
Medicina e Chirurgia presso l’università degli Studi di
Cagliari il 28.03.1974, specialista in Igiene e Medicina
Preventiva presso l’università degli Studi di Cagliari nel
dicembre 1977, già dirigente del Servizio Sanitario
Regionale dal 1983 al 2005).
2. - Avverso la predetta clausola escludente, il ricorrente
deduce –con il primo motivo– la illegittimità
dell’art. 5, comma 9, del decreto-legge 06.07.2012, n. 95
[convertito, con modificazioni, dalla legge 07.08.2012, n.
135, nel testo modificato dall’art. 6 del decreto-legge
24.06.2014 n. 90, convertito dalla legge 11.08.2014 n. 114],
che prevede il divieto per le pubbliche amministrazioni di
attribuire incarichi di studio e di consulenza a soggetti
già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza,
per il contrasto con l’art. 21 della Carta dei Diritti
Fondamentali dell’Unione Europea e con la Direttiva del
Consiglio dell'Unione Europea 27.11.2000, n. 78, in specie
con l’art. 1, l’art. 2, comma 2, lett. b), l’art. 3, comma
1, lett. a), l’art. 4, comma 1, e l’art. 6, comma 1, lett.
c).
Secondo il ricorrente, la norma statale crea una forma
indiretta di discriminazione, correlata all’età dei
destinatari, sussumibile nella tipologia descritta dall’art.
2, comma 2, lett. b), della suddetta direttiva del Consiglio
dell'Unione Europea n. 78/2000, ed è quindi contraria
all’obiettivo di combattere le discriminazioni (tra cui
quelle collegate all’età) fissato dall’art. 1 della medesima
direttiva. Tale discriminazione non appare sorretta da una “finalità
legittima” (come richiesto dall’art. 6, comma 1, della
Direttiva n. 78/2000), considerato che il fine dichiarato
della norma sarebbe di evitare che “soggetti in
quiescenza assumano rilevanti responsabilità nelle
amministrazioni” e “assicurare il fisiologico
ricambio di personale”.
Da quanto rilevato, il ricorrente fa discendere
l'illegittimità, e la conseguente annullabilità o nullità,
della clausola contenuta nell'avviso di manifestazione di
interesse, in quanto applicativa di disposizioni che debbono
essere disapplicate perché in contrasto con la disciplina
comunitaria.
Il ricorrente lamenta, altresì, l’incompatibilità delle
norme statali sopra menzionate con l’art. 21 della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione Europea.
3. - Il Comune di Gesturi non si è costituito in giudizio.
4. - Alla camera di consiglio del 21.02.2018, previo avviso
alle parti, ai sensi dell’art. 60 del codice del processo
amministrativo, sulla possibilità di definire il giudizio
nel merito con sentenza in forma semplificata, la causa è
stata trattenuta in decisione.
5. - Il Collegio ritiene di dover sottoporre alla Corte di
Giustizia dell’Unione Europea, con rinvio pregiudiziale ai
sensi dell’art. 267 del Trattato sul Funzionamento dell’U.E.,
la questione inerente la compatibilità con il diritto
dell’Unione Europea della disposizione di cui all’art. 5,
comma 9, del decreto-legge 06.07.2012, n. 95 (convertito,
con modificazioni, dalla legge 07.08.2012, n. 135, nel testo
modificato dall’art. 6 del decreto-legge 24.06.2014 n. 90,
convertito dalla legge 11.08.2014 n. 114), che prevede il
divieto per le pubbliche amministrazioni di attribuire
incarichi di studio e di consulenza a
soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in
quiescenza
6. - La questione è senz’altro rilevante perché la
contestata clausola del bando impugnato che impedisce la
partecipazione alla selezione costituisce diretta
applicazione della suddetta norma. Per cui l’eventuale
accoglimento della censura prospettata consentirebbe di
definire la controversia con il conseguente annullamento
della clausola del bando.
7. - Le disposizioni rilevanti del diritto
dell’Unione Europea.
Per la soluzione del caso di specie assumono rilevanza le
disposizioni della direttiva del Consiglio dell’Unione
Europea 27 novembre 2000, n. 78, di cui:
- all’art. 1, secondo cui «La presente direttiva mira a
stabilire un quadro generale per la lotta alle
discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni
personali, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali, per
quanto concerne l'occupazione e le condizioni di lavoro al
fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio
della parità di trattamento.»;
- all’art. 2, paragrafi 1, 2 e 4, secondo i quali: «1. Ai fini
della presente direttiva, per "principio della parità di
trattamento" si intende l'assenza di qualsiasi
discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi
di cui all'articolo 1.
2. Ai fini del paragrafo 1:
a) sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno
qualsiasi dei motivi di cui all'articolo 1, una persona è
trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o
sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga;
b) sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un
criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere
in una posizione di particolare svantaggio le persone che
professano una determinata religione o ideologia di altra
natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le
persone di una particolare età o di una particolare tendenza
sessuale, rispetto ad altre persone, a meno che: i) tale
disposizione, tale criterio o tale prassi siano
oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i
mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e
necessari; […].
4. L'ordine di discriminare persone per uno dei motivi di
cui all'articolo 1, è da considerarsi discriminazione ai
sensi del paragrafo 1.
[…]»;
- all’art. 3, paragrafo 1, secondo cui «Nei limiti dei poteri
conferiti alla Comunità, la presente direttiva, si applica a
tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore
privato, compresi gli organismi di diritto pubblico, per
quanto attiene:
a) alle condizioni di accesso all'occupazione e al lavoro,
sia dipendente che autonomo, compresi i criteri di selezione
e le condizioni di assunzione indipendentemente dal ramo di
attività e a tutti i livelli della gerarchia professionale,
nonché alla promozione;
b) all'accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e
formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione
professionale, inclusi i tirocini professionali;
c) all'occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le
condizioni di licenziamento e la retribuzione;
d) all'affiliazione e all'attività in un'organizzazione di
lavoratori o datori di lavoro, o in qualunque organizzazione
i cui membri esercitino una particolare professione, nonché
alle prestazioni erogate da tali organizzazioni.».
Rileva, inoltre, l’art. 21 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea, paragrafo 1, secondo cui è
vietata «qualsiasi forma di discriminazione fondata, in
particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o
l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la
lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni
politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una
minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la
disabilità, l'età o l'orientamento sessuale».
8. - Le disposizioni del diritto nazionale.
Nell’ambito del diritto nazionale, è rilevante la
disposizione di cui all’art. 5, comma 9, del decreto-legge
06.07.2012, n. 95 (convertito, con modificazioni, dalla
legge 07.08.2012, n. 135, nel testo modificato dall’art. 6
del decreto-legge 24.06.2014 n. 90, convertito dalla legge
11.08.2014 n. 114), ai sensi del quale «E’ fatto divieto
alle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma
2, del decreto legislativo n. 165 del 2011, nonché alle
pubbliche amministrazioni inserite nel conto economico
consolidato della pubblica amministrazione, come individuate
dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi
dell’articolo 1, comma 2, della legge 31.12.2009, n. 196
nonché alle autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione
nazionale per le società e la borsa (Consob) di attribuire
incarichi di studio e di consulenza a soggetti già
lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza.
Alle suddette amministrazioni è, altresì, fatto divieto di
conferire ai medesimi soggetti incarichi dirigenziali o
direttivi o cariche in organi di governo delle
amministrazioni di cui al primo periodo e degli enti e
società da esse controllati, ad eccezione dei componenti
delle giunte degli enti territoriali e dei componenti o
titolari degli organi elettivi degli enti di cui all'
articolo 2, comma 2-bis, del decreto-legge 31.08.2013, n.
101 , convertito, con modificazioni, dalla legge 30.10.2013,
n. 125.
Gli incarichi, le cariche e le collaborazioni di cui ai
periodi precedenti sono comunque consentiti a titolo
gratuito. Per i soli incarichi dirigenziali e direttivi,
ferma restando la gratuità, la durata non può essere
superiore a un anno, non prorogabile ne' rinnovabile, presso
ciascuna amministrazione. Devono essere rendicontati
eventuali rimborsi di spese, corrisposti nei limiti fissati
dall'organo competente dell'amministrazione interessata. Gli
organi costituzionali si adeguano alle disposizioni del
presente comma nell'ambito della propria autonomia».
9. – Conclusioni.
Come anticipato, il dubbio che giustifica la rimessione alla
Corte di Giustizia si fonda sul contrasto della norma
statale con gli artt. 1 e 2 della direttiva del Consiglio
dell’Unione Europea 27.11.2000, n. 78, che pongono
l’obiettivo di combattere ogni forma di discriminazione sia
diretta che indiretta (tra cui quella basata sull’età), in
quanto esclude una categoria di persone dalla possibilità di
assumere incarichi nell’amministrazione per ragioni
essenzialmente correlate all’età (essendo il collocamento in
quiescenza determinato dal raggiungimento di una certa
anzianità “contributiva” e quindi necessariamente da
una proporzionale età anagrafica).
Né peraltro tale discriminazione può trovare una adeguata
giustificazione ai sensi dell’art. 6, della medesima
direttiva (rubricato «Giustificazione delle disparità di
trattamento collegate all'età»), secondo cui «gli
Stati membri possono prevedere che le disparità di
trattamento in ragione dell'età non costituiscano
discriminazione laddove esse siano oggettivamente e
ragionevolmente giustificate, nell'ambito del diritto
nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati
obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di
formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di
tale finalità siano appropriati e necessari».
Ed invero non può affermarsi che la norma possa “assicurare
il fisiologico ricambio di personale” (tale sarebbe,
come si è sopra accennato, la finalità perseguita dal
legislatore).
Appare infatti improbabile che un incarico, specialmente se
delicato e complesso, che possa essere ben espletato da chi
ha per lungo tempo operato nel settore, possa essere
conferito ad un soggetto privo della necessaria esperienza.
La misura appare dunque inappropriata rispetto alla scopo e
pertanto inidonea a giustificare la discriminazione
10. - Formulazione delle questioni pregiudiziali.
Tutto ciò premesso, il TAR per la Sardegna formula il
seguente quesito: “Se il principio di
non discriminazione di cui agli artt. 1 e 2 della direttiva
del Consiglio dell’Unione Europea 27.11.2000, n. 78, osta
alla disposizione di cui all’art.
5, comma 9, del decreto-legge 06.07.2012, n. 95 (convertito,
con modificazioni, dalla legge 07.08.2012, n. 135,
nel testo modificato dall’art. 6 del decreto-legge
24.06.2014 n. 90, convertito dalla legge 11.08.2014 n. 114),
che prevede il divieto per le pubbliche amministrazioni di
attribuire incarichi di studio e di
consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici
collocati in quiescenza”.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per
la Sardegna, Sezione Prima, così dispone:
1) rimette alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea la questione
pregiudiziale indicata in motivazione, ai sensi dell’art.
267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea;
2) sospende il presente giudizio fino alla definizione della
questione pregiudiziale (TAR Sardegna, Sez. I,
ordinanza 19.10.2018 n. 881 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
|
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla base del quadro normativo vigente emerge che non è
possibile affermare in assoluto che la tettoia richieda, o
non richieda, il titolo edilizio maggiore e assoggettarla, o
non assoggettarla, alla relativa sanzione senza considerare
nello specifico come essa è realizzata.
In proposito, quindi, l’amministrazione ha l’onere di
motivare in modo esaustivo, attraverso una corretta e
completa istruttoria che rilevi esattamente le opere
compiute e spieghi per quale ragione esse superano i limiti
entro i quali si può trattare di una copertura realizzabile
in regime di edilizia libera.
La disciplina delle tettoie non è
definita in modo univoco né nella normativa né in
giurisprudenza.
Dal punto di vista normativo, va considerato l’art. 6 del
T.U. 06.06.2001 n. 380, che contiene l’elenco delle opere di
cd edilizia libera, le quali non necessitano di alcun titolo
abilitativo; a prescindere dalla natura esemplificativa o
tassativa che si voglia riconoscere a tale elenco, va poi
osservato che esso comprende voci di per sé abbastanza
generiche, tali da poter ricomprendere anche opere non
espressamente nominate.
Con riferimento alle tettoie, rileva in particolare la voce
di cui alla lettera e)-quinquies, che considera opere di
edilizia libera gli “elementi di arredo delle aree
pertinenziali degli edifici”, concetto nel quale può
sicuramente rientrare una tettoia genericamente intesa, come
copertura comunque realizzata di un’area pertinenziale, come
il terrazzo.
La norma è stata introdotta dall’art. 3 del d.lgs.
25.11.2016 n. 222, ma si deve considerare applicabile anche
alle costruzioni precedenti, come quella per cui è causa,
per due ragioni. In primo luogo, nel diritto delle
sanzioni è principio generale quello per cui non si possano
subire conseguenze sfavorevoli per un comportamento in
ipotesi illecito nel momento in cui è stato realizzato, che
più non lo sia quando si tratti di applicare le sanzioni
stesse. In secondo luogo, la giurisprudenza di cui
subito si dirà, anche in epoca anteriore alla modifica
legislativa di cui s’è detto, distingueva all’interno della
categoria in esame costruzione da costruzione
assoggettandola a regime diverso a seconda delle sue
caratteristiche.
In materia, è poi intervenuto di recente un chiarimento da
parte del legislatore, ovvero il recente D.M. 02.03.2018, di
“Approvazione del glossario contenente l'elenco non
esaustivo delle principali opere edilizie realizzabili in
regime di attività edilizia libera”, ai sensi dell'articolo
1, comma 2 del citato d.lgs. 222/2016. Tale decreto
comprende, al n. 50 del glossario delle opere realizzabili
senza titolo edilizio alcuno, in particolare le cd
pergotende, ovvero, per comune esperienza, strutture di
copertura di terrazzi e lastrici solari, di superficie anche
non modesta, formate da montanti ed elementi orizzontali di
raccordo e sormontate da una copertura fissa o ripiegabile
formata da tessuto o altro materiale impermeabile, che
ripara dal sole, ma anche dalla pioggia, aumentando la
fruibilità della struttura. Si tratta quindi di un manufatto
molto simile alla tettoia, che se ne distingue secondo
logica solo per presentare una struttura più leggera.
Al polo opposto, v’è l’art. 10, comma 1, lettera a), del
T.U. 380/2001, che assoggetta invece al titolo edilizio
maggiore, ovvero al permesso di costruire, “gli interventi
di nuova costruzione”.
La giurisprudenza si fonda su tale ultima disposizione per
richiedere appunto il permesso di costruire nel caso di
tettoie di particolari dimensioni e caratteristiche. Si
afferma infatti in via generale che tale struttura
costituisce intervento di nuova costruzione e richiede il
permesso di costruire nel momento in cui difetta dei
requisiti richiesti per le pertinenze e gli interventi
precari, ovvero quando modifica la sagoma dell’edificio.
Sulla base di tale quadro normativo emerge chiara una
conseguenza: non è possibile affermare in assoluto che la
tettoia richieda, o non richieda, il titolo edilizio
maggiore e assoggettarla, o non assoggettarla, alla relativa
sanzione senza considerare nello specifico come essa è
realizzata. In proposito, quindi, l’amministrazione ha
l’onere di motivare in modo esaustivo, attraverso una
corretta e completa istruttoria che rilevi esattamente le
opere compiute e spieghi per quale ragione esse superano i
limiti entro i quali si può trattare di una copertura
realizzabile in regime di edilizia libera.
---------------
Ciò a maggior ragione nel caso di specie, a fronte della
limitata estensione e consistenza del manufatto, sia in
relazione alla necessità di esplicare le ragioni sottese
alla reputata contrarietà al vincolo esistente in loco ed
alla sussistenza della rilevata alterazione dell'aspetto
esteriore dei luoghi. A quest’ultimo riguardo infatti, solo
una corretta ricostruzione e qualificazione del manufatto
costituisce la necessaria base su cui svolgere la doverosa
valutazione di carattere paesaggistico.
Tutto ciò non si ritrova nel provvedimento impugnato, che si
limita ad una descrizione generica di quanto rilevato, a
fronte della quale, si noti, la difesa di parte appellante
ha sin dal ricorso di prime cure evidenziato una serie di
elementi in fatto, a partire dalle dimensioni inferiori ai
sei mq, dal fatto di non essere infissa al suolo e dalla
stretta pertinenzialità rispetto al manufatto esistente.
---------------
Va quindi ribadito che non ogni opera che interessi la
superficie esterna dell’edificio determina una automatica
alterazione dei luoghi soggetti a tutela, ma esclusivamente
quella che ne immuti le caratteristiche essenziali in
maniera rilevante; spetta alla p.a. l’onere di esplicare,
una volta verificata la consistenza del manufatto, la
rilevata alterazione.
---------------
... per la riforma della sentenza breve del Tribunale
Amministrativo Regionale per la Campania (Sezione Sesta) n.
5499/2011, resa tra le parti, concernente demolizione opere
abusive
...
Con l’appello in esame l’odierna parte appellante impugnava
la sentenza n. 5499 del 2011 con cui il Tar Campania ha
respinto l’originario gravame.
Quest’ultimo era stato proposto dalla medesima parte, in
qualità di proprietaria del compendio immobiliare coinvolto
sito in comune di Procida, al fine di ottenere
l’annullamento degli atti concernenti l’ordine di
demolizione di una tettoia in legno con copertura in tegole
di cotto di circa sei metri quadrati, con altezza variabile
tra mt. 3,00 e 2,50.
...
1. L’appello è fondato in ordine ai profili dedotti in
merito alla qualificazione dell’opera.
2.1 In linea di fatto appaiono pacifici i seguenti elementi:
la (limitata) consistenza dell’intervento, la qualificazione
in termini di tettoia, l’assenza di titolo edilizio e la
relativa collocazione in area sottoposta a vincolo
paesaggistico.
2.2 In linea di diritto, va richiamato quanto ancora di
recente evidenziato dalla sezione (cfr. decisione n.
07.05.2018 n. 2715) nel senso che la disciplina delle
tettoie non è definita in modo univoco né nella normativa né
in giurisprudenza.
Dal punto di vista normativo, va considerato l’art.
6 del T.U. 06.06.2001 n. 380, che contiene
l’elenco delle opere di cd edilizia libera, le quali non
necessitano di alcun titolo abilitativo; a prescindere dalla
natura esemplificativa o tassativa che si voglia riconoscere
a tale elenco, va poi osservato che esso comprende voci di
per sé abbastanza generiche, tali da poter ricomprendere
anche opere non espressamente nominate.
Con riferimento alle tettoie, rileva in particolare la voce
di cui alla lettera e)-quinquies, che considera opere di
edilizia libera gli “elementi di arredo delle aree
pertinenziali degli edifici”, concetto nel quale può
sicuramente rientrare una tettoia genericamente intesa, come
copertura comunque realizzata di un’area pertinenziale, come
il terrazzo.
La norma è stata introdotta dall’art.
3 del d.lgs. 25.11.2016 n. 222, ma si deve
considerare applicabile anche alle costruzioni precedenti,
come quella per cui è causa, per due ragioni. In primo
luogo, nel diritto delle sanzioni è principio generale
quello per cui non si possano subire conseguenze sfavorevoli
per un comportamento in ipotesi illecito nel momento in cui
è stato realizzato, che più non lo sia quando si tratti di
applicare le sanzioni stesse. In secondo luogo, la
giurisprudenza di cui subito si dirà, anche in epoca
anteriore alla modifica legislativa di cui s’è detto,
distingueva all’interno della categoria in esame costruzione
da costruzione assoggettandola a regime diverso a seconda
delle sue caratteristiche.
In materia, è poi intervenuto di recente un chiarimento da
parte del legislatore, ovvero il recente
D.M. 02.03.2018, di “Approvazione del
glossario contenente l'elenco non esaustivo delle principali
opere edilizie realizzabili in regime di attività edilizia
libera”, ai sensi dell'articolo
1, comma 2, del citato d.lgs. 222/2016.
Tale decreto comprende, al n. 50 del glossario delle opere
realizzabili senza titolo edilizio alcuno, in particolare le
cd pergotende, ovvero, per comune esperienza, strutture di
copertura di terrazzi e lastrici solari, di superficie anche
non modesta, formate da montanti ed elementi orizzontali di
raccordo e sormontate da una copertura fissa o ripiegabile
formata da tessuto o altro materiale impermeabile, che
ripara dal sole, ma anche dalla pioggia, aumentando la
fruibilità della struttura. Si tratta quindi di un manufatto
molto simile alla tettoia, che se ne distingue secondo
logica solo per presentare una struttura più leggera.
Al polo opposto, v’è l’art. 10, comma 1, lettera a), del
T.U. 380/2001, che assoggetta invece al titolo edilizio
maggiore, ovvero al permesso di costruire, “gli
interventi di nuova costruzione”.
La giurisprudenza si fonda su tale ultima disposizione per
richiedere appunto il permesso di costruire nel caso di
tettoie di particolari dimensioni e caratteristiche. Si
afferma infatti in via generale che tale struttura
costituisce intervento di nuova costruzione e richiede il
permesso di costruire nel momento in cui difetta dei
requisiti richiesti per le pertinenze e gli interventi
precari, ovvero quando modifica la sagoma dell’edificio: fra
le molte, C.d.S. sez. IV 08.01.2018 n. 12 e sez. VI
16.02.2017 n. 694.
2.3 Sulla base di tale quadro normativo emerge chiara una
conseguenza: non è possibile affermare in assoluto che la
tettoia richieda, o non richieda, il titolo edilizio
maggiore e assoggettarla, o non assoggettarla, alla relativa
sanzione senza considerare nello specifico come essa è
realizzata. In proposito, quindi, l’amministrazione ha
l’onere di motivare in modo esaustivo, attraverso una
corretta e completa istruttoria che rilevi esattamente le
opere compiute e spieghi per quale ragione esse superano i
limiti entro i quali si può trattare di una copertura
realizzabile in regime di edilizia libera.
Ciò a maggior ragione nel caso di specie, a fronte della
limitata estensione e consistenza del manufatto, sia in
relazione alla necessità di esplicare le ragioni sottese
alla reputata contrarietà al vincolo esistente in loco ed
alla sussistenza della rilevata alterazione dell'aspetto
esteriore dei luoghi. A quest’ultimo riguardo infatti, solo
una corretta ricostruzione e qualificazione del manufatto
costituisce la necessaria base su cui svolgere la doverosa
valutazione di carattere paesaggistico.
Tutto ciò non si ritrova nel provvedimento impugnato, che si
limita ad una descrizione generica di quanto rilevato, a
fronte della quale, si noti, la difesa di parte appellante
ha sin dal ricorso di prime cure evidenziato una serie di
elementi in fatto, a partire dalle dimensioni inferiori ai
sei mq, dal fatto di non essere infissa al suolo e dalla
stretta pertinenzialità rispetto al manufatto esistente.
2.4 Va quindi ribadito che non ogni opera che interessi la
superficie esterna dell’edificio determina una automatica
alterazione dei luoghi soggetti a tutela, ma esclusivamente
quella che ne immuti le caratteristiche essenziali in
maniera rilevante; spetta alla p.a. l’onere di esplicare,
una volta verificata la consistenza del manufatto, la
rilevata alterazione.
...
4. Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello va
accolto in ordine ai profili indicati; per l’effetto, in
riforma della sentenza appellata, va accolto il ricorso di
primo grado (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 09.10.2018 n. 5781 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
|
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
E' necessaria
l’autorizzazione paesaggistica per la demolizione di
immobili vincolati?
La mancanza dell’autorizzazione
paesaggistica, in ordine all’intervento di demolizione di un
immobile vincolato, determina l’illegittimità derivata di
quella adottata con riferimento all’intervento di
ricostruzione, nonché del permesso di costruire, in quanto
rilasciato sulla base di un presupposto errato.
---------------
Con motivi aggiunti, i ricorrenti impugnavano altresì il
permesso di costruire, conclusivo del procedimento,
deducendo, oltre le censure già proposte nell’originaria
impugnazione, la violazione degli artt. 142, 146 e 167
d.lgs. 22.01.2004 n. 42, argomentata sull’assunto che non
era stato richiesto e ottenuto il nulla osta necessario per
demolire la preesistente costruzione, insistente su area
gravata da vincolo paesaggistico.
L’area interessata dall’intervento si colloca infatti ad una
distanza inferiore a 150 mt. dal corso dei Torrenti Piscio e
Chiappe senza che, ratione temporis, possa trovare
applicazione l’esclusione dal vincolo per le zone
territoriali omogenee A e B di cui al d.m. 02.04.1968 n.
1444.
...
18. Nel merito, ai fini del decidere, riveste carattere
logicamente pregiudiziale, come del resto messo in luce
dallo stesso TAR per la Liguria nella sentenza n. 1002 del
25.06.2014, la questione relativa alla necessità
dell’autorizzazione paesaggistica in ordine all’intervento
di demolizione.
La mancanza di quest’ultima, ove effettivamente necessaria,
appare infatti idonea a determinare l’illegittimità
dell’intervento nel suo complesso, sia sotto il profilo
edilizio che paesaggistico.
Al riguardo, le doglianze svolte dagli appellanti, appaiono
manifestamente fondate.
18.1. Come noto, ai sensi dell’art. 1 del 27.06.1985, n.
312, convertito in legge con modificazioni, con l’art. 1
della l. n. 431 del 1985 (che ha aggiunto 9 commi all’art.
82 del d.P.R. n. 616 del 1977) «Sono sottoposti a vincolo
paesaggistico ai sensi della legge 29.06.1939, n. 1497»,
tra gli altri, «c) i fiumi, i torrenti ed i corsi d’acqua
iscritti negli elenchi di cui al testo unico delle
disposizioni di legge sulle acque ed impianti elettrici,
approvato con regio decreto 11.12.1933, n. 1775, e le
relative sponde o piede degli argini per una fascia di 150
metri ciascuna».
Tuttavia «Il vincolo di cui al precedente comma non si
applica alle zone A, B e -limitatamente alle parti
ricomprese nei piani pluriennali di attuazione- alle altre
zone, come delimitate negli strumenti urbanistici ai sensi
del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444, e, nei comuni
sprovvisti di tali strumenti, ai centri edificati
perimetrati ai sensi dell’art. 18 della legge 22.10.1971, n.
865».
Tali disposizioni sono state poi riprodotte nell’art. 146
del d.lgs. n. 490 del 1999 e quindi nell’art. 142 del d.lgs.
n. 42/2004 (così come sostituito dall'art. 12, comma 1,
d.lgs. 24.03.2006, n. 157, successivamente integrato e
modificato dal d.lgs. n. 63 del 2008), in particolare nel
comma 2, secondo cui, «La disposizione di cui al comma 1,
lettere a), b), c), d), e), g), h), l), m), non si applica
alle aree che alla data del 06.09.1985:
a) erano delimitate negli strumenti urbanistici, ai sensi del
decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444, come zone
territoriali omogenee A e B;
b) erano delimitate negli strumenti urbanistici ai sensi del
decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444, come zone
territoriali omogenee diverse dalle zone A e B,
limitatamente alle parti di esse ricomprese in piani
pluriennali di attuazione, a condizione che le relative
previsioni siano state concretamente realizzate;
c) nei comuni sprovvisti di tali strumenti, ricadevano nei centri
edificati perimetrati ai sensi dell'articolo 18 della legge
22.10.1971, n. 865».
Le specificazioni contenute in tali disposizioni, come noto,
rappresentano la trasposizione dell’interpretazione delle
norme originariamente contenute nella legge Galasso, quale
consolidatasi nell’elaborazione giurisprudenziale.
La tesi sostenuta dalle parti resistenti in primo grado e
avallata dal TAR è che ai fini dello sgravio dal vincolo,
rileverebbe anche solo il piano adottato in quanto, da un
lato, la delimitazione delle zone A e B avrebbe natura
meramente “accertativa” delle zone antropiche ed
urbanizzate, dall’altro «l’approvazione del PRG
–oltretutto confermativa […] delle opzioni contenute nella
delibera di adozione– nulla aggiunge in termini di
delimitazione delle aree urbanizzate sottratte (per loro
intrinseca caratteristica) al vincolo. In ogni caso,
trattandosi d’accertamento dichiarativo, la delimitazione
opera ex tunc: ossia, fin dall’adozione del P.R.G. cui
faccia seguito l’approvazione».
E’ tuttavia destituita di fondamento, in primo luogo,
l’argomentazione secondo cui, sia pure ai soli fini di cui
trattasi, l’approvazione del P.R.G. abbia efficacia
retroattiva.
Al contrario, è giurisprudenza del tutto pacifica quella
secondo cui il piano regolatore (oggi variamente denominato
nelle legislazioni regionali) è un atto complesso, il cui
procedimento si conclude solo con l’approvazione da parte
della Regione.
Gli unici effetti anticipati del piano adottato dal
Consiglio comunale concernono le misure di salvaguardia le
quali giustificano il diniego di concessioni difformi (cfr.
Cons. St., Adunanza plenaria, n. 1 del 09.03.1983; cfr.
anche cfr., Consiglio di Stato, sez. V, 06.12.2007, n. 6226,
relativa a vicenda per certi versi speculare a quella qui in
esame).
In secondo luogo, le previsioni del Piano regolatore
non possono avere effetti “dichiarativi”,
semplicemente perché la loro funzione è quella di
disciplinare e ordinare gli usi e le trasformazioni del
territorio.
Come, ancora da ultimo, ricordato da questo Consiglio, anche
«la c.d. “zonizzazione” non postula e non presuppone solo
l’individuazione di un territorio -ossia una operazione
puramente ricognitiva- bensì la qualificazione di esso, e
pertanto una valutazione, alla stregua delle categorie
offerte dal legislatore» (Cons. Stato, Sez. IV,
28.06.2018, n. 3987).
Per quanto poi specificamente concerne i vincoli paesistici
ex lege, si è già accennato al fatto che, secondo la
giurisprudenza amministrativa formatasi in merito alla legge
Galasso, «la possibilità di deroga al vincolo
paesaggistico riguarda soltanto le aree comprese in
previsioni urbanistiche già approvate alla data di entrata
in vigore della legge e non può essere estesa ai successivi
atti programmatori» (Cons. St., Sez. V, 01.04.2011, n.
2015, che richiama Sez. VI, 04.12.1996, n. 1679; id.,
22.04.2004, n. 2332, secondo cui la disciplina statale
ancora l’esclusione dal vincolo paesaggistico predisposto
per legge alla delimitazione dei terreni negli strumenti
urbanistici come zone A e B ad una data determinata, e cioè
al 06.09.1985, epoca di entrata in vigore della l. n. 431
del 1985).
Non appare poi inutile ricordare quale fosse la ragione
della deroga ivi introdotta al regime ordinario di tutela
paesistica.
Essa aveva infatti lo scopo di consentire la realizzazione
di opere già avviate in esecuzione dei piani vigenti
all’entrata in vigore della legge (Cons. Stato, Sez. VI,
02.10.2007, n. 5072, con riferimento ai piani pluriennali di
attuazione) nonché in relazione ad aree già urbanizzate o
comunque «oggetto di una pianificazione che ha ritenuto
maturo il tempo dell’esecuzione di interventi sul territorio»
(Cass. pen., Sez. III, 17.12.1997, n. 3882,; cfr. anche
30.03.1999, n. 5923).
Va ancora soggiunto, nel caso di specie, che -anche a volere
operare una comparazione tra la disciplina del piano vigente
nel Comune di Rapallo all’epoca per cui è causa e le
classificazioni contenute nel d.m. 02.04.1968 relativamente
alle zone territoriali omogenee- non vi è alcuna prova, in
atti, che il borgo di Case di Noè, all’epoca di entrata in
vigore della legge Galasso, fosse una zona già urbanizzata
ovvero matura per l’edificazione (nei sensi cui di cui al
suddetto d.m., alla stregua del quale le zone B sono «le
parti del territorio totalmente o parzialmente edificate,
diverse dalle zone A): si considerano parzialmente edificate
le zone in cui la superficie coperta degli edifici esistenti
non sia inferiore al 12,5% (un ottavo) della superficie
fondiaria della zona e nelle quali la densità territoriale
sia superiore ad 1,5 mc/mq»).
Semmai, vi è prova del contrario.
Dalla nota dell’Ufficio Gestione del Territorio del Comune
di Rapallo in data 17.06.2016, prodotta dagli appellanti, si
evince infatti che, alla stregua del P.R.G. approvato nel
1961, l’immobile oggetto dell’intervento all’odierno esame
era «ricompreso in zona “G rurale”.
Al riguardo, è poi significativo che, ancora in una delibera
comunale dell’anno 2009 (n. 188 del 29.12.2009) e quindi, in
epoca ben successiva all’entrata in vigore della Legge
Galasso, il borgo di Case di Noé venga descritto come un
insediamento «di particolare pregio e valore storico»
nonché rappresentativo «di un modello aggregativo del
sistema insediativo agricolo rurale nella cui strutturazione
formale e d'immagine, episodi di accorpamento ed
integrazione volumetrica potrebbero inserire elementi di
incongruità e discontinuità tali da comprometterne
l'unitarietà percettiva».
Tali espressioni, invero, mal si attagliano ad una zona
urbanizzata, quale ipotizzata dalle decisioni impugnate.
19. I rilievi che precedono appaiono invero assorbenti ai fini
dell’accoglimento degli appelli, poiché la mancanza
dell’autorizzazione paesaggistica in ordine all’intervento
di demolizione determina l’illegittimità derivata di quella
adottata con riferimento all’intervento di ricostruzione,
nonché del permesso di costruire, in quanto rilasciato sulla
base di un presupposto errato (cfr., per una compiuta analisi
del rapporto tra i due titoli abilitativi Cons. St., Sez. IV,
14.12.2015, n. 5663) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 17.10.2018 n. 5945 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
|
IN EVIDENZA |
URBANISTICA:
Termine massimo di dieci anni di validità del piano di
lottizzazione.
Il termine massimo di dieci anni di
validità del piano di lottizzazione, stabilito dall’art. 16,
quinto comma, della L. 17.08.1942 n. 1150 per i piani
particolareggiati, non è suscettibile di deroga neppure
sull’accordo delle parti e decorre non dalla data di
sottoscrizione della convenzione attuativa ma da quella di
approvazione del piano attuativo.
La convenzione, atto accessorio deputato alla regolazione
dei rapporti tra il soggetto esecutore delle opere e il
Comune con riferimento agli adempimenti derivanti dal piano
medesimo, non può infatti incidere sulla validità massima,
prevista in legge, del sovrastante strumento di
pianificazione secondaria.
Conseguentemente, una volta che il piano di lottizzazione
abbia perso efficacia, è illegittimo il provvedimento che ne
dispone una proroga.
---------------
La giurisprudenza
del Consiglio di Stato ribadisce, ancora di recente, che “l’art. 16, comma 5, della legge
urbanistica n. 1150 del 1942 […] stabilisce in dieci anni il
termine entro il quale il piano particolareggiato dovrà
essere attuato e la giurisprudenza [chiarisce] che il
termine decennale di efficacia dei piani particolareggiati è
applicabile anche ai piani di lottizzazione”.
Inoltre, “la giurisprudenza […] ha […] modo
di chiarire, giungendo a conclusioni dalle quali questo
Collegio non ha ragioni per discostarsi, in relazione
all’obiezione che il termine decennale di efficacia dei
piani particolareggiati non potrebbe essere applicato in via
di analogia alle lottizzazioni, in quanto sarebbe stabilito
per i primi (piani particolareggiati) sol perché impongono
vincoli espropriativi ai proprietari dei suoli, quanto
segue:
- la legge urbanistica stabilisce espressamente la durata
degli altri strumenti urbanistici che disciplina: di quelli
generali (il piano territoriale di coordinamento ed il piano
regolatore generale, in vigore a tempo indeterminato ex artt.
6 e 11 della legge urbanistica) e del piano
particolareggiato, avente la durata di dieci anni per
espressa previsione dell’art. 17 della stessa legge;
- la durata massima dei piani di lottizzazione, se ad essi
non fosse applicabile il termine decennale di efficacia dei
piani particolareggiati, sarebbe quella, indeterminata,
degli strumenti urbanistici generali, invece di quella
decennale dello strumento urbanistico attuativo, il che
costituirebbe di per sé motivo di incoerenza;
- non giova, inoltre, rilevare che l’art. 28 della legge n.
1150 del 1942, come modificato dall’art. 8 della l. 06.08.1967 n. 765, preveda un termine decennale soltanto per
l’esecuzione delle opere di urbanizzazione e non per
l’edificazione dei singoli lotti, tenuto conto che la
fissazione di un termine risponde ad un preminente interesse
pubblico, non soltanto per l’esecuzione delle opere di
urbanizzazione, ma anche per l’edificazione dei lotti;
- il disegno di fissazione di un termine di decadenza per le
licenze prima, poi per le concessioni edilizie e poi,
ancora, per i permessi di costruire, diretto ad assicurare
l’effettività e l’attualità delle nuove previsioni
urbanistiche, sarebbe incompleto alla fonte se, prima del
rilascio del titolo abilitativo, le lottizzazioni
convenzionate avessero l’efficacia di condizionare a tempo
indeterminato, con l’affidamento dei suoi titolari, la
pianificazione urbanistica futura;
- alla scadenza del piano di lottizzazione sopravvivono,
esclusivamente, la destinazione di zona, la destinazione ad
uso pubblico di un bene privato, gli allineamenti, le
prescrizioni di ordine generale e quant’altro attenga
all’armonico assetto del territorio, trattandosi di misure
che devono rimanere inalterate fino all’intervento di una
nuova pianificazione, non essendo la stessa condizionata
all’eventuale scadenza di vincoli espropriativi o di altra
natura ma tutti caratterizzati dall’avere contenuto
specifico e puntuale”.
---------------
Dello stesso avviso si mostra la giurisprudenza di questo
Tribunale secondo cui:
- “il Piano di lottizzazione ha durata decennale, di talché
decorso infruttuosamente il suddetto termine lo strumento attuativo
perde efficacia;
- né è ipotizzabile l'ultrattività delle previsioni del
Piano di lottizzazione decennale, in quanto la prosecuzione
degli effetti oltre il detto termine decennale confligge con
la finalità sottesa alla fissazione del termine de quo
coincidente con l'esigenza di assicurare effettività e
attualità alle previsioni urbanistiche, non potendo le
lottizzazioni convenzionate condizionare a tempo
indeterminato la pianificazione urbanistica futura;
- è irrilevante, ai fini delle conseguenze connesse alla
scadenza del termine decennale di efficacia del piano di
lottizzazione, la circostanza che l'impossibilità della
mancata attuazione sia dovuta alla pubblica amministrazione
o al privato lottizzante”.
---------------
Declinando i principi esposti al caso di specie, può
osservarsi che il piano di lottizzazione in esame risulta
approvato con le delibere consiliari n. 27 del 01.06.2004 e
n. 48 del 29.09.2004; la convenzione di lottizzazione è
stipulata solo in data 30.07.2015.
Ora, se è vero che,
secondo la giurisprudenza, il termine di validità decennale
del piano di lottizzazione decorre dalla data di stipula
della relativa convenzione, deve osservarsi che tale
affermazione si ricollega “in primo luogo, al fatto che, in
via normale, all’approvazione del piano di lottizzazione
segue, in tempi ragionevoli, la stipula della relativa
convenzione”.
Come affermato di recente, tuttavia, “la
circostanza della mancata stipula della convenzione non
possa ragionevolmente costituire legittimo motivo per cui il
piano di lottizzazione abbia validità a tempo indeterminato,
- sia perché a ciò osta il dato letterale della disposizione
di cui all’art. 16, quinto comma, della L. 17.08.1942 n.
1150 relativamente ai piani particolareggiati, che fa
esclusivamente riferimento al “tempo, non maggiore di anni
dieci, entro il quale il piano particolareggiato dovrà
essere attuato”;
- sia perché deve comunque ritenersi
prevalente la ratio della norma per cui le previsioni di un
piano particolareggiato o di un piano di lottizzazione
devono avere una determinata e certa durata temporale, con
conseguente scadenza di validità del piano medesimo, al fine
di garantire l’adeguatezza e rispondenza di tali previsioni
agli interessi pubblici e privati riferiti al periodo di
validità del piano, con la conseguente e ragionevole
necessità che dopo un certo periodo di tempo (10 anni) si
debba necessariamente procedere ad una rivalutazione di tali
interessi pubblici e privati coinvolti nelle scelte
urbanistiche in questione.
Tali conclusioni devono ritenersi
avvalorate dai principi giurisprudenziali in materia secondo
cui “il termine massimo di dieci anni di validità del piano
di lottizzazione, stabilito dall’art. 16, quinto comma,
della L. 17.08.1942 n. 1150 per i piani
particolareggiati non è suscettibile di deroga neppure
sull’accordo delle parti e decorre dalla data di
completamento del complesso procedimento di formazione del
piano attuativo.
Ciò in quanto la convenzione è per certo un atto accessorio
al Piano di lottizzazione, deputato alla regolazione dei
rapporti tra il soggetto esecutore delle opere e il Comune
con riferimento agli adempimenti derivanti dal Piano
medesimo, ma che non può incidere sulla validità massima,
prevista in legge, del sovrastante strumento di
pianificazione secondaria”.
---------------
1. Parte ricorrente censura la deliberazione del Consiglio
Comunale di Livigno n. 63 del 29.09.2014 con la quale
l’Ente provvede a prorogare i termini di efficacia del Piano
di Lottizzazione approvato con le delibere n. 27 del 01.06.2004 e n. 48 del 29.09.2004 e finalizzato alla
realizzazione di un insediamento a destinazione industriale
idoneo a soddisfare le richieste di nuovi insediamenti
produttivi e di trasferimento degli insediamenti esistenti
in Livigno.
Articola due motivi di ricorso facendo valere
l’illegittimità della proroga per violazione della normativa
richiamata che imporrebbe un termine di efficacia pari a
dieci anni e per mancata esplicitazione delle ragioni
fattuali e giuridiche a sostegno della proroga.
Con il primo
ricorso per motivi aggiunti la sig.ra Ga. impugna la
delibera della Giunta comunale n. 51 del 20.05.2017 per
l’esecuzione delle opere di urbanizzazione primaria del PLU,
e chiede, inoltre, che sia dichiarati nulli e/o inefficaci:
a) la convenzione di lottizzazione stipulata tra il Comune
di Livigno e la Co.Ar.Li.;
b) l’atto di
ricomposizione fondiaria di pari data;
c) l’accordo per
l’esecuzione delle opere di urbanizzazione primaria previsto
dagli atti impugnati. Con tale atto la ricorrente deduce, in
primo luogo, l’invalidità derivata del provvedimento
impugnato richiamando i motivi articolati nel ricorso
principale. Propone, inoltre, un unico motivo di ricorso per
invalidità propria del provvedimento impugnato rubricato:
“Violazione dell’articolo 78, comma 2, del d.lgs. 267/2000”.
Con l’ultimo ricorso per motivi aggiunti la sig.ra Ga.
chiede a questo Tribunale di accertare e dichiarare il
diritto alla retrocessione del terreno identificato catastalmente al foglio 49, mappale 475 del N.C.T. del
Comune di Livigno, previa eventuale concessione di “un
termine per la chiedere alla Commissione provinciale
espropri la determinazione dell’indennità di cui
all’articolo 46, comma 1, del D.P.R. 327/2001 e con deposito
o pagamento diretto (in caso di accettazione) della predetta
indennità, da effettuarsi nei modi, nei termini [ritenuti]
di giustizia”.
...
2. Entrando
nel merito del ricorso introduttivo si osserva che il primo
motivo deve ritenersi fondato alla luce delle considerazione
che seguono.
2.1. La giurisprudenza del Consiglio di Stato ribadisce,
ancora di recente, che “l’art. 16, comma 5, della legge
urbanistica n. 1150 del 1942 […] stabilisce in dieci anni il
termine entro il quale il piano particolareggiato dovrà
essere attuato e la giurisprudenza [chiarisce] che il
termine decennale di efficacia dei piani particolareggiati è
applicabile anche ai piani di lottizzazione (cfr. Cons.
Stato, IV, 10.08.2011, n. 4761, che richiama Cons.
Stato, VI, 20.01.2003, n. 200)”.
Inoltre, “la
giurisprudenza […] (cfr. Cons. Stato, IV, n. 4036 del 2017;
V, n. 6823 del 2013; IV, 06.04.2012, n. 2045) ha […] modo
di chiarire, giungendo a conclusioni dalle quali questo
Collegio non ha ragioni per discostarsi, in relazione
all’obiezione che il termine decennale di efficacia dei
piani particolareggiati non potrebbe essere applicato in via
di analogia alle lottizzazioni, in quanto sarebbe stabilito
per i primi (piani particolareggiati) sol perché impongono
vincoli espropriativi ai proprietari dei suoli, quanto
segue:
- la legge urbanistica stabilisce espressamente la durata
degli altri strumenti urbanistici che disciplina: di quelli
generali (il piano territoriale di coordinamento ed il piano
regolatore generale, in vigore a tempo indeterminato ex artt.
6 e 11 della legge urbanistica) e del piano
particolareggiato, avente la durata di dieci anni per
espressa previsione dell’art. 17 della stessa legge;
- la durata massima dei piani di lottizzazione, se ad essi
non fosse applicabile il termine decennale di efficacia dei
piani particolareggiati, sarebbe quella, indeterminata,
degli strumenti urbanistici generali, invece di quella
decennale dello strumento urbanistico attuativo, il che
costituirebbe di per sé motivo di incoerenza;
- non giova, inoltre, rilevare che l’art. 28 della legge n.
1150 del 1942, come modificato dall’art. 8 della l. 06.08.1967 n. 765, preveda un termine decennale soltanto per
l’esecuzione delle opere di urbanizzazione e non per
l’edificazione dei singoli lotti, tenuto conto che la
fissazione di un termine risponde ad un preminente interesse
pubblico, non soltanto per l’esecuzione delle opere di
urbanizzazione, ma anche per l’edificazione dei lotti;
- il disegno di fissazione di un termine di decadenza per le
licenze prima, poi per le concessioni edilizie e poi,
ancora, per i permessi di costruire, diretto ad assicurare
l’effettività e l’attualità delle nuove previsioni
urbanistiche, sarebbe incompleto alla fonte se, prima del
rilascio del titolo abilitativo, le lottizzazioni
convenzionate avessero l’efficacia di condizionare a tempo
indeterminato, con l’affidamento dei suoi titolari, la
pianificazione urbanistica futura;
- alla scadenza del piano di lottizzazione sopravvivono,
esclusivamente, la destinazione di zona, la destinazione ad
uso pubblico di un bene privato, gli allineamenti, le
prescrizioni di ordine generale e quant’altro attenga
all’armonico assetto del territorio, trattandosi di misure
che devono rimanere inalterate fino all’intervento di una
nuova pianificazione, non essendo la stessa condizionata
all’eventuale scadenza di vincoli espropriativi o di altra
natura ma tutti caratterizzati dall’avere contenuto
specifico e puntuale” (Consiglio di Stato, sez. IV, 18.05.2018, n. 3002).
2.2. Dello stesso avviso si mostra la giurisprudenza di
questo Tribunale (TAR per la Lombardia – sede di Milano,
sez. IV, 17.08.2018, n. 2001) secondo cui:
- “il Piano di lottizzazione ha durata decennale, di talché
decorso infruttuosamente il suddetto termine lo strumento attuativo perde efficacia (Cons. Stato Sez. VI 20/01/2003 n.
200; Consiglio di Stato, sez. IV, 27/04/2015, n. 2109; idem
25/07/2001 n. 4073);
- né è ipotizzabile l'ultrattività delle previsioni del
Piano di lottizzazione decennale, in quanto la prosecuzione
degli effetti oltre il detto termine decennale confligge con
la finalità sottesa alla fissazione del termine de quo
coincidente con l'esigenza di assicurare effettività e
attualità alle previsioni urbanistiche, non potendo le
lottizzazioni convenzionate condizionare a tempo
indeterminato la pianificazione urbanistica futura (Cons.
Stato Sez. IV 29/11/2010 n. 8384; idem 13/04/2005 n. 1543);
- è irrilevante, ai fini delle conseguenze connesse alla
scadenza del termine decennale di efficacia del piano di
lottizzazione, la circostanza che l'impossibilità della
mancata attuazione sia dovuta alla pubblica amministrazione
o al privato lottizzante (Cons. Stato, Sez. IV, 10/08/2011 n.
4761)”.
2.3. Declinando i principi esposti al caso di specie, può
osservarsi che il piano di lottizzazione in esame risulta
approvato con le delibere consiliari n. 27 del 01.06.2004 e
n. 48 del 29.09.2004; la convenzione di lottizzazione è
stipulata solo in data 30.07.2015. Ora, se è vero che,
secondo la giurisprudenza, il termine di validità decennale
del piano di lottizzazione decorre dalla data di stipula
della relativa convenzione, deve osservarsi che tale
affermazione si ricollega “in primo luogo, al fatto che, in
via normale, all’approvazione del piano di lottizzazione
segue, in tempi ragionevoli, la stipula della relativa
convenzione”.
Come affermato di recente, tuttavia, “la
circostanza della mancata stipula della convenzione non
possa ragionevolmente costituire legittimo motivo per cui il
piano di lottizzazione abbia validità a tempo indeterminato,
sia perché a ciò osta il dato letterale della disposizione
di cui all’art. 16, quinto comma, della L. 17.08.1942 n.
1150 relativamente ai piani particolareggiati, che fa
esclusivamente riferimento al “tempo, non maggiore di anni
dieci, entro il quale il piano particolareggiato dovrà
essere attuato”; sia perché deve comunque ritenersi
prevalente la ratio della norma per cui le previsioni di un
piano particolareggiato o di un piano di lottizzazione
devono avere una determinata e certa durata temporale, con
conseguente scadenza di validità del piano medesimo, al fine
di garantire l’adeguatezza e rispondenza di tali previsioni
agli interessi pubblici e privati riferiti al periodo di
validità del piano, con la conseguente e ragionevole
necessità che dopo un certo periodo di tempo (10 anni) si
debba necessariamente procedere ad una rivalutazione di tali
interessi pubblici e privati coinvolti nelle scelte
urbanistiche in questione.
Tali conclusioni devono ritenersi
avvalorate dai principi giurisprudenziali in materia secondo
cui “il termine massimo di dieci anni di validità del piano
di lottizzazione, stabilito dall’art. 16, quinto comma,
della L. 17.08.1942 n. 1150 per i piani
particolareggiati non è suscettibile di deroga neppure
sull’accordo delle parti e decorre dalla data di
completamento del complesso procedimento di formazione del
piano attuativo (Cons. Stato, Sez. IV, 11.03.2003 n.
1315).
Ciò in quanto la convenzione è per certo un atto
accessorio al Piano di lottizzazione, deputato alla
regolazione dei rapporti tra il soggetto esecutore delle
opere e il Comune con riferimento agli adempimenti derivanti
dal Piano medesimo, ma che non può incidere sulla validità
massima, prevista in legge, del sovrastante strumento di
pianificazione secondaria” (Consiglio di Stato n.
1574/2013)” (TAR per la Sardegna, sez. II, 22.01.2018, n. 36; nello stesso senso, cfr. TAR per la
Lombardia – sede di Milano, sez. IV, 17.08.2018, cit.).
2.4. Pertanto, nel caso in esame, il Piano di lottizzazione
ha perso di efficacia per intervenuto decorso del termine
decennale di legge. Non assumono rilievo le circostanze
addotte dall’Amministrazione (e censurate con il secondo
motivo del ricorso introduttivo) atteso che, come già
spiegato, non determina conseguenze in ordine al termine
decennale di efficacia del piano di lottizzazione il fatto
che l'impossibilità della mancata attuazione sia dovuta alla
pubblica Amministrazione o al privato lottizzante.
2.4. Nel caso all’attenzione del Collegio, deve, quindi
ritenersi che il Piano di Lottizzazione abbia perso
efficacia e sia illegittimo il provvedimento che ne dispone
una proroga in quanto contrario alle previsione di legge e
alle relative rationes indicate nella precedente
esposizione.
Di conseguenza va accolto il ricorso
introduttivo e il primo ricorso per motivi aggiunti per
illegittimità derivata degli atti ivi impugnati.
Può
ritenersi assorbito il motivo di invalidità propria fatto
valere con il primo ricorso per motivi aggiunti (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 12.10.2018 n. 2265 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
|
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Se la
pavimentazione del giardino, per una superficie di 35 metri
quadrati, rientri -o meno- nell’attività edilizia libera.
Le previsioni dell’articolo 6 del d.P.R.
n. 380 del 2001 sono da ritenere di stretta interpretazione,
in quanto dirette ad affermare l’irrilevanza urbanistica ed
edilizia delle opere in essi contemplate, con la conseguente
sottrazione alla regola del regime di controllo pubblico
sugli interventi edilizi.
Ne deriva che le opere indicate possono ritenersi
effettivamente rientranti nel perimetro di applicazione
della previsione normativa soltanto laddove, per le loro
caratteristiche in concreto, siano del tutto inidonee a
influire in modo rilevante sullo stato dei luoghi, e quindi
non determinino una significativa trasformazione urbanistica
ed edilizia del territorio.
In questa prospettiva, deve escludersi che,
nell’assoggettare al regime di edilizia libera la
realizzazione di interventi di pavimentazione di spazi
esterni, entro i prescritti limiti di permeabilità del
fondo, il legislatore abbia inteso consentire la facoltà di
coprire liberamente e senza alcun titolo qualunque
estensione di suolo inedificato, salvo soltanto il rispetto
di tali limiti. E ciò in quanto la pavimentazione di aree
esterne:
(i) è di per sé idonea a trasformare permanentemente porzioni di
suolo inedificato;
(ii) riduce la superficie filtrante, con la conseguenza che –anche
se contenuta nei prescritti limiti di permeabilità– incide
comunque sul regime del deflusso delle acque dal terreno;
(iii) è percepibile esteriormente, per cui presenta una potenziale
rilevanza sotto il profilo dell’inserimento delle opere nel
contesto urbano;
(iv) determina la creazione di una superficie utile, benché non di
nuova volumetria.
Un’interpretazione della previsione normativa sopra
richiamata diretta ad assicurarne la coerenza con il
fondamentale canone di ragionevolezza di cui all’articolo 3
della Costituzione impone perciò di ritenere che gli
interventi di pavimentazione, anche ove contenuti entro i
limiti di permeabilità del fondo, siano realizzabili in
regime di edilizia libera soltanto laddove presentino una
entità minima, sia in termini assoluti, che in rapporto al
contesto in cui si collocano e all’edificio cui accedono.
Solo in presenza di queste condizioni tali opere possono
infatti ritenersi realmente irrilevanti dal punto di vista
urbanistico ed edilizio, e quindi sottratte al controllo
operato dal Comune attraverso il titolo edilizio.
---------------
13.2 La parte ricorrente afferma, poi, che la pavimentazione
del giardino del signor La., per una superficie di 35 metri
quadrati, rientrerebbe nell’attività edilizia libera, in
quanto sarebbe dimostrato, in base alla relazione tecnica
depositata agli atti del giudizio, che le opere non
ostacolano la permeabilità del fondo.
13.2.1 Al riguardo, occorre tenere presente che l’articolo
6, comma 2, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001, nel testo
vigente al tempo dell’adozione dell’ordinanza impugnata,
assoggettava al regime dell’edilizia libera, subordinandole
a una mera comunicazione dell’inizio dei lavori, “le
opere di pavimentazione e di finitura di spazi esterni,
anche per aree di sosta, che siano contenute entro l’indice
di permeabilità, ove stabilito dallo strumento urbanistico
comunale, ivi compresa la realizzazione di intercapedini
interamente interrate e non accessibili, vasche di raccolta
delle acque, locali tombati”.
13.2.2 Ciò posto, deve anzitutto rilevarsi che l’osservanza
delle prescrizioni in tema di permeabilità non risulta
effettivamente dimostrata, atteso che nella relazione
tecnica della parte ricorrente si afferma bensì il rispetto
dell’indice di permeabilità stabilito per l’intervento di
lottizzazione, ma si evidenzia anche che, in base
all’articolo 71 del Regolamento edilizio comunale, le
pavimentazioni non carrabili devono essere almeno
parzialmente permeabili e filtranti (v. doc. 3 della parte
ricorrente, p. 3).
Nel caso oggetto del presente giudizio, la pavimentazione
risulta essere stata realizzata con piastrelle, secondo
quanto affermato nel ricorso, e non risulta, invece,
allegato, né dimostrato, l’impiego di materiali filtranti.
Né può assumere rilievo il fatto che sia stata lasciata una
striscia di terreno libera lungo il perimetro della
proprietà e sia stato realizzato un pozzo perdente per le
acque reflue. Tali accorgimenti, infatti, non equivalgono a
quanto prescritto dalla richiamata previsione regolamentare,
la quale richiede che le superfici pavimentate debbano
risultare almeno in parte permeabili dalle acque.
13.2.3 In ogni caso, le previsioni dell’articolo 6 del
d.P.R. n. 380 del 2001 sono da ritenere di stretta
interpretazione, in quanto dirette ad affermare
l’irrilevanza urbanistica ed edilizia delle opere in essi
contemplate, con la conseguente sottrazione alla regola del
regime di controllo pubblico sugli interventi edilizi. Ne
deriva che le opere indicate possono ritenersi
effettivamente rientranti nel perimetro di applicazione
della previsione normativa soltanto laddove, per le loro
caratteristiche in concreto, siano del tutto inidonee a
influire in modo rilevante sullo stato dei luoghi, e quindi
non determinino una significativa trasformazione urbanistica
ed edilizia del territorio.
In questa prospettiva, deve escludersi che,
nell’assoggettare al regime di edilizia libera la
realizzazione di interventi di pavimentazione di spazi
esterni, entro i prescritti limiti di permeabilità del
fondo, il legislatore abbia inteso consentire la facoltà di
coprire liberamente e senza alcun titolo qualunque
estensione di suolo inedificato, salvo soltanto il rispetto
di tali limiti. E ciò in quanto la pavimentazione di aree
esterne:
(i) è di per sé idonea a trasformare permanentemente porzioni di
suolo inedificato;
(ii) riduce la superficie filtrante, con la conseguenza che –anche
se contenuta nei prescritti limiti di permeabilità– incide
comunque sul regime del deflusso delle acque dal terreno;
(iii) è percepibile esteriormente, per cui presenta una potenziale
rilevanza sotto il profilo dell’inserimento delle opere nel
contesto urbano;
(iv) determina la creazione di una superficie utile, benché non di
nuova volumetria.
Un’interpretazione della previsione normativa sopra
richiamata diretta ad assicurarne la coerenza con il
fondamentale canone di ragionevolezza di cui all’articolo 3
della Costituzione impone perciò di ritenere che gli
interventi di pavimentazione, anche ove contenuti entro i
limiti di permeabilità del fondo, siano realizzabili in
regime di edilizia libera soltanto laddove presentino una
entità minima, sia in termini assoluti, che in rapporto al
contesto in cui si collocano e all’edificio cui accedono.
Solo in presenza di queste condizioni tali opere possono
infatti ritenersi realmente irrilevanti dal punto di vista
urbanistico ed edilizio, e quindi sottratte al controllo
operato dal Comune attraverso il titolo edilizio.
13.2.3 Nel caso oggetto del presente giudizio, la
pavimentazione esterna realizzata non può ritenersi di
modesta entità, perché consiste nella copertura di una
porzione di suolo libero di circa 35 metri quadrati. E tale
superficie, oltre a essere di per sé non trascurabile,
risulta rilevante anche in rapporto all’unità immobiliare
interessata, atteso che dalla relazione tecnica della parte
ricorrente si evince l’eliminazione di una porzione
significativa del giardino della villetta, attuata in modo
da lasciare libera solo una striscia di terreno inedificato
sul perimetro della proprietà (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 06.09.2018 n. 2049 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
|
IN EVIDENZA |
URBANISTICA:
Opere da realizzare a scomputo oneri e obblighi di
fatturazione.
Nella ipotesi di convenzione di
lottizzazione, nella quale la realizzazione di un'opera
pubblica a scomputo degli oneri di urbanizzazione è
assoggettata ad Iva qualora l'opera non rientri tra quelle
destinate ad esigenze di urbanizzazione primaria e
secondaria, l'obbligo di fatturazione non insorge alla data
di sottoscrizione della convenzione urbanistica, ma al
compimento delle opere concordate con l'ente territoriale,
ed al loro collaudo.
---------------
Per priorità logica devono esaminarsi i motivi del ricorso
incidentale.
Infatti la controversia de quo verte su due questioni,
distinte ma l'una dall'altra
dipendenti. La prima, introdotta con il ricorso principale
della Agenzia, è relativa all'atto di irrogazione delle
sanzioni comminate dall'Ufficio per l'asserito indebito
rimborso dell'Iva (€ 1.180.000,00) inerente il primo
trimestre dell'anno di imposta
2007.
Secondo la prospettazione della ricorrente principale
erano assenti i presupposti
previsti dall'art. 30, co. 3, lett. a), del d.P.R. n. 633 del
1972, per cui aveva contestato
e notificato alla contribuente l'atto di irrogazione n.
T9RIRI2000017/2012, con il
quale, ai sensi dell'art. 13 del d.lgs. n. 471 del 1997, si
comminava la sanzione pari al
30% dell'ammontare del suddetto rimborso. Sul punto la
Commissione regionale non
ha negato che il rimborso fosse indebito, ma ha ritenuto che
le sanzioni previste
dall'art. 13 fossero applicabili alle sole fattispecie
relative all'omesso o tardivo
versamento e non ai rimborsi.
A sua volta è però rilevante
evidenziare che
l'Amministrazione ha ritenuto indebito il rimborso in
conseguenza del recupero a
tassazione Iva della somma di € 969.853,00, di cui assumeva
l'omessa fatturazione in
relazione alla sottoscrizione della convenzione urbanistica
intervenuta tra il Comune di
Basiglio e la società contribuente, avvenuta il 28.03.2007.
È infatti con la
contestazione della maggiore iva dovuta e non fatturata nel
primo trimestre 2007 che
sono venuti meno i requisiti prescritti dall'art. 30 cit.
per ottenere il rimborso
infrannuale dell'iva trimestrale (1° trimestre 2007),
altrimenti rimborsabile a
conclusione dell'anno.
Ne discende che risalta prioritario verificare la
correttezza della sentenza
regionale, la cui statuizione, riconoscendo le ragioni
dell'Ufficio in merito al recupero
dell'Iva non fatturata in relazione alla data di
sottoscrizione della convenzione
urbanistica (salvo a riconoscere una riduzione, marginale,
dell'importo, che non è
tuttavia più in discussione), si riflette ovviamente anche
sulla sussistenza o meno dei
requisiti per la contestazione dell'indebito rimborso
ottenuto dalla contribuente, già
oggetto di controversia dinanzi al giudice regionale e
conseguentemente di alcuni dei
motivi del ricorso incidentale dinanzi a questa Corte.
Sempre in via preliminare deve peraltro premettersi che la
vicenda che ci occupa
attiene alla realizzazione di opere pubbliche a scomputo
degli oneri di urbanizzazione,
ma diverse da quelle primarie e secondarie, come tali dunque
imponibili ai fini Iva,
esulando dalla disciplina prevista della cessione ai Comuni
di aree o di opere di
urbanizzazione, già prevista dall'art. 51 della l. n. 342
del 2000 (abrogato dal d.l. n. 5
del 2012, conv. con modificazioni in l. n. 35 del 2012).
Ciò chiarito, la questione posta dalla società è se
l'obbligo di fatturazione sia
insorto alla data di sottoscrizione della convenzione
urbanistica, come sostenuto dalla Agenzia, oppure al termine
della realizzazione delle opere concordate con l'ente
territoriale, ed al loro collaudo, come sostiene la società.
La sentenza impugnata sul punto afferma che «dall'esame
delle questioni
proposte in relazione all'avviso di accertamento, ritiene il
Collegio che con la
convenzione i rapporti inter partes siano stati definiti e,
quindi, è a quella data che
avrebbe dovuto essere emessa la fattura relativa, anche se i
lavori sarebbero stati
ancora da eseguire. A norma dell'art. 6, comma 3, del D.P.R.
26.10.1972, n. 633,
"le prestazioni di servizi si considerano effettuate
all'atto del pagamento del
corrispettivo", con la conseguenza che, nel caso in cui i
rapporti dare-avere siano
definiti tra le parti, la relativa fattura deve essere
emessa alla data dell'accordo
raggiunto dalle parti. Infatti ciò che rileva è la
contemporanea esistenza dei crediti
contrapposti. Nella convenzione la società contribuente si
era impegnata con il
Comune per l'esecuzione di una rotatoria stradale, a
scomputo delle somme dovute
per gli oneri di urbanizzazione.».
A parte l'imprecisione sul riferimento solo ad alcune delle
opere alla cui
realizzazione la società si era impegnata, la sentenza è
inequivoca nel ritenere che
l'obbligo di emissione della fattura sia insorto alla data
della stipula dell'accordo
raggiunto tra le parti (dunque il 28.03.2007),
riconducendo a quel momento la
definizione dei rapporti dare-avere, inteso evidentemente
come esecuzione delle
prestazioni, e ritenendo pertanto verificatosi quanto
prescritto dall'art. 6, co. 3, del
d.P.R. n. 633 cit., ossia che le prestazioni di servizi si
considerano effettuate all'atto
del pagamento del corrispettivo. Questa interpretazione,
propugnata dall'Ufficio, è
criticata dalla contribuente.
In particolare essa con il primo motivo del ricorso
incidentale, rivolto avverso la
parte della sentenza che ha ad oggetto l'avviso di
accertamento n. T9R031200658, si
duole della violazione di legge in riferimento agli artt. 6,
co. 3, e 11, co. 1, del d.P.R. n.
633 del 1972, nonché agli artt. 1197, 1141, 1142, 1143,
1362, 1363 c.c. In sintesi
contesta che la convenzione urbanistica potesse rientrare in
una fattispecie
compensativa, con estinzione dei reciproci crediti al
momento della sottoscrizione
dell'accordo, e ne propugna l'inquadramento nella figura
della datio in solutum, che
prevede l'estinzione della obbligazione ad esecuzione della
prestazione, ossia, per
quello che qui interessa, ad esecuzione delle opere
concordate con l'ente territoriale, e
a collaudo delle medesime.
Il motivo è fondato.
Sebbene l'imposta sul valore aggiunto presenti peculiarità
tutte proprie ai fini della
imposizione delle operazioni economiche ad essa soggette, è
tuttavia indiscutibile che
l'emersione dell'obbligo di fatturazione dell'atto giuridico
regolativo dell'operazione
vada ricondotto, quando non diversamente stabilito dalla
disciplina dell'imposta
comunitaria, ai principi e alle regole del sistema
giuridico. Sicché, con riferimento alla
prestazione di servizi, la regola di emersione dell'obbligo
di fatturazione non può
prescindere dal significato attribuibile nel sistema
giuridico al concetto di pagamento
del corrispettivo, e cioè al momento dell'avvenuto pagamento
del corrispettivo,
quando ci si rapporta alla assunzione di obbligazioni
derivanti dalla sottoscrizione di
una convenzione urbanistica.
Nel caso che ci occupa la dimensione fattuale della vicenda
è semplice e ad un
tempo tipica e ricorrente.
Si tratta dell'ipotesi
dell'impresa, proprietaria di un'area
edificabile secondo lo strumento urbanistico vigente in un
Comune, che in luogo dei
computati oneri di urbanizzazione primari e secondari
sottoscrive con l'Ente una
"convenzione urbanistica per programma di intervento
integrato", obbligandosi alla
esecuzione di opere (ancorché non di natura primaria o
secondaria) a scomputo degli
oneri medesimi.
Questa operazione è inquadrata dalla sentenza (accogliendo
la impostazione della
Agenzia) nell'istituto della compensazione, affermandosi che
con l'accordo tra le parti
sarebbe insorto un (reciproco) rapporto di dare-avere
definito tra le parti per la
contemporanea esistenza di crediti contrapposti.
Questa la ricostruzione giuridica cui sottende
l'accoglimento della tesi della
Agenzia, non sembra a questo Collegio condivisibile
l'assunto.
Intanto, pur solo per cenni, in ordine alla qualificazione
giuridica delle
convenzioni di urbanizzazione è stato condivisibilmente
evidenziato, in dottrina e
giurisprudenza (Cass., sent. n. 1366 del 1999 a proposito
delle convenzioni di
lottizzazione con cessione di terreni per la realizzazione
di opere di urbanizzazione
primaria e secondaria), che queste trovano collocazione tra
i contratti con oggetto
pubblico. Con esse l'Amministrazione dal suo canto realizza
determinate finalità
istituzionali, solo strumentalmente alle quali si originano
a proprio favore diritti ed
obbligazioni a contenuto patrimoniale; per altro verso, ma
alle predette finalità
asservite, sono precisati gli obblighi che il privato
assume, sicché si sostiene che le
convenzioni iscritte nella normativa pubblicistica relativa
alle opere di urbanizzazione,
e, può aggiungersi, più in generale nell'alveo dell'art. 11
della L. n. 241/1990, si
configurano quali accordi endoprocedimentali dal contenuto
vincolante, al fine dell'ottenimento di autorizzazioni
urbanistico-edilizie (Cass., sent. n. 9314 del 2013).
In tal senso si è pertanto sostenuto che tali negozi sono
conclusi in condizioni di
disparità, laddove gli obblighi per la parte privata
configurano atti dovuti, prestazioni
patrimoniali aventi natura di obbligazioni propter rem (cfr.
Cass., sent. 16401 del
2013; sent. n. 11196 del 2007), e di prestazione
patrimoniale imposta, seguendo la
titolarità del bene, anziché il soggetto originario
contraente.
La sommatoria di queste considerazioni porta alla
conclusione secondo cui non è
ravvisabile un rapporto strettamente sinallagmatico tra i
soggetti stipulanti
convenzioni urbanistiche, ossia la natura del rapporto,
almeno in parte impositivo
rinveniente dalla convenzione urbanistica, esclude il piano
di parità formale tra i
contraenti (cfr. TAR-Lombardia, Sez. Brescia, sent. n. 784
del 2005; TAR Marche,
sent. n. 939 del 2003; TAR Sicilia, sez. Catania, sent. n.
934 del 2011).
D'altronde, ad ulteriore rafforzamento di tali
considerazioni, è stato sottolineato,
dalla dottrina come dalla giurisprudenza, che le convenzioni
di lottizzazione non
costituiscono un vero e proprio contratto a prestazioni
corrispettive, mancando una
«vera e propria corrispondenza di tipo contrattuale tra
cessioni immobiliari, opere di
urbanizzazione, prestazioni e contributi vari, con cui si
attuano gli obblighi
convenzionali, e il perfezionamento del procedimento
amministrativo finalizzato alla
legittimazione dell'attività lottizzatoria (così in
dottrina), atteso che tali convenzioni
addirittura lasciano integra ... la potestà pubblicistica
del Comune in materia di
disciplina del territorio e di regolamentazione urbanistica,
ivi compresa la facoltà di
liberarsi dal vincolo contrattuale, alla stregua di esigenze
sopravvenute»» (Cass.,
sent. n. 15660 del 2014, che riporta a sua volta Cass., sent.
n. 6482 del 1995).
Ebbene, già queste considerazioni rendono difficile, per non
dire inconciliabile,
collocare nell'istituto della compensazione la fattispecie
che ci occupa -che esula dalla
esecuzione di opere primarie e secondarie o da meri obblighi
di cessione di terreni ove
allocare le predette opere primarie o secondarie, ma
parimenti vede sull'impegno di
realizzo di opere pure pubbliche, finalizzato
all'ottenimento della autorizzazione
amministrativa a costruire.
Lo impedisce proprio quella
disarticolazione rilevata nella
assenza di una posizione paritetica delle parti, che
contrasta con l'estinzione dei
rispettivi crediti, dal giorno della loro coesistenza ex
art. 1242 c.c., laddove nel caso
che ci occupa il rapporto potrebbe addirittura condurre alla
revoca della autorizzazione
qualora dovessero sopraggiungere motivi di pubblico
interesse, secondo il principio
generale riassunto nell'art. 11, co. 4, l. 241 cit..
Ciò mal si concilia con la configurabilità di crediti
compensati ed estinti addirittura
al momento della sottoscrizione della convenzione, cioè ben
prima che, secondo
l'accordo pubblico raggiunto, il contribuente abbia iniziato
i lavori di realizzazione delle
opere concordate. Sarebbe anzi una interpretazione pregna di
pericolose conseguenze
per la Amministrazione stessa (quella dell'ente
territoriale, non del fisco), perché se si
volesse riconoscere che con la sottoscrizione della
convenzione si realizza il momento
impositivo corrispondente al pagamento del corrispettivo
della prestazione di servizio,
con ciò ritenendo adempiuta l'attività sostitutiva della monetizzazione degli oneri
urbanistici, un successivo eventuale inadempimento del
privato nella esecuzione delle
opere costruttive dovrebbe importare per l'Amministrazione
l'onere dell'avvio di una
causa risolutoria del rapporto giuridico, evento
inconciliabile quando non del tutto
bizzarro sul piano giuridico, attesi i poteri riservati alla
Amministrazione stessa.
Oppure, ancora, gli effetti della compensazione, immediati
con estinzione dei due
debiti dal giorno della loro coesistenza secondo la
previsione dell'art. 1242 c.c.,
sarebbero del tutto inconciliabili con la pacifica e
necessaria natura di obbligazione propter rem attribuita agli obblighi che si assumono con la
convenzione.
Si comprende pertanto perché sia più consona alla vicenda
economica emergente
dalla stipula della convenzione e dalla sottoscrizione della
stessa ricondurre la
fattispecie nell'alveo giuridico della datio in solutum (cfr.
Cass., sent. n. 1366 cit.;
Cass. n. 15660 cit.), come invoca la difesa della
contribuente. Ebbene, l'art. 1197, co.
1, c.c. statuisce che l'obbligazione si estingue al momento
della esecuzione della
diversa prestazione, sicché nel caso che ci occupa è al
momento della realizzazione
delle opere convenute che l'Amministrazione doveva fare
riferimento per individuare
l'emersione dell'obbligo di fatturazione.
D'altronde sono evidenziabili ulteriori parametri
interpretativi che risolvono la
vicenda nel senso appena tracciato. L'art. 108 del TUIR, co.
2, lett. b), dispone che
«i corrispettivi delle prestazioni di servizi si considerano
conseguiti ....alla data in cui
le prestazioni sono ultimate»; nell'ambito civilistico è
pacifico che in tema di appalto
l'obbligazione del committente di pagare il corrispettivo
sorge, a mente dell'art.
1665, ult. co., c.c., soltanto all'esito dell'accettazione
dell'opera che, negli appalti di
opere pubbliche, può ritenersi avvenuta soltanto all'esito
del collaudo dell'opera stessa
(Cass., sent. n. 13075 del 2000).
Ancor più interessante,
per quanto qui rileva, è che
nell'appalto il diritto dell'appaltatore al corrispettivo
sorge con l'accettazione dell'opera
da parte del committente, ai sensi dell'art. 1665, ult. co.,
c.c., e non già al momento
stesso della stipulazione del contratto. È certo che la
disciplina sull'Iva segua i suoi peculiari principi, ma nel
caso di specie è significativo il supporto interpretativo
che
proviene da settori distinti del diritto.
Significativa si rivela poi la stessa convenzione stipulata
tra la società ed il
Comune di Basiglio. In essa infatti è previsto che
«nella
ipotesi di conseguimento di
finanziamenti regionali per le opere pubbliche concordate
con la società, ....a semplice
richiesta dell'Amministrazione Comunale le somme eccedenti
il contributo dovuto
dovranno essere utilizzate per il finanziamento di opere
diverse da quelle indicate, che
il proponente si impegna sin d'ora a realizzare» (art. 8
della convenzione, riportato
alla pagg. 29 e 30 del controricorso e ricorso incidentale).
Ciò sta a dimostrare che al
momento della sottoscrizione della convenzione non era
neppure del tutto certo
l'oggetto delle opere da realizzarsi in luogo della
corresponsione degli oneri di
urbanizzazione.
È Inoltre importante evidenziare la previsione contenuta
nell'art. 11, co. 8, della
convenzione (riportata a pag. 37 del medesimo atto
difensivo), secondo cui
«l'importo di cui al comma 1 (€ 969.853,00) deve essere
adeguatamente
documentato prima del collaudo; qualora sia documentato un
costo inferiore, anche
dopo che siano stati assolti tutti gli obblighi
convenzionali, sarà il costo documentato e
non quello preventivato oggetto di scomputo dagli oneri di
urbanizzazione di cui al
presente art. 11, co. 1», prevedendosi inoltre che «qualora
il costo documentato
sia inferiore a quello determinato con deliberazione
comunale ai sensi dell'art. 44 della
Legge Regionale n. 12 del 2005, entro la data del collaudo
dovranno essere corrisposti
a conguaglio i maggiori oneri di urbanizzazione afferenti le
edificazioni già autorizzate
o comunque assentite».
In conclusione è più che evidente che la sottoscrizione
della convenzione non
definiva assolutamente nulla se non l'assunzione di obblighi endoprocedimentali,
restando ancora incerto l'oggetto della prestazione. Era
anzi addirittura prospettata
l'ipotesi di dover versare in moneta la differenza
risultante tra gli oneri computati e le
opere edili pubbliche realizzate.
Gli elementi emergenti e le considerazioni giuridiche
esplicitate escludono
pertanto che la contribuente fosse tenuta ad emettere
fattura al momento della
sottoscrizione della convenzione. Ne risulta fondato il
primo motivo del ricorso
incidentale.
L'accoglimento del primo motivo del ricorso incidentale
assorbe i motivi secondo,
terzo e settimo (nella numerazione corrispondenti al IV, al
V ed al IX).
Deve pertanto affermarsi che la sentenza del giudice
regionale è errata in ordine
al riconosciuto obbligo di fatturazione dell'importo di €
969.853,00 (come ridotta dalla
Commissione stessa) al momento della sottoscrizione della
convenzione, per non aver
tenuto conto dei parametri interpretativi sopra enunciati, e
in particolare del principio
secondo cui «nella ipotesi di convenzione di lottizzazione,
nella quale la realizzazione
di un'opera pubblica a scomputo degli oneri di
urbanizzazione è assoggettata ad Iva
qualora l'opera non rientri tra quelle destinate ad esigenze
di urbanizzazione primaria
e secondaria, l'obbligo di fatturazione non insorge alla
data di sottoscrizione della
convenzione urbanistica, ma al compimento delle opere
concordate con l'ente
territoriale, ed al loro collaudo» (Corte di
Cassazione, Sez. V civile,
sentenza
22.06.2018 n. 16533). |
|
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
E' principio pacifico in
giurisprudenza quello secondo cui il Comune, nel
procedimento di rilascio dei titoli edilizi, ha il potere e
il dovere di verificare l'esistenza, in capo al richiedente,
di tutti i presupposti per la loro emanazione e, in caso di
opere che vadano ad incidere sul diritto di altri
proprietari, è legittimo da parte dell'ente, esigere il
consenso degli stessi.
---------------
Anche nelle ipotesi di autorizzazioni in sanatoria, il
Comune è tenuto a pretendere la produzione della
dichiarazione di assenso del terzo pregiudicato -in ragione
del suo interesse contrario alla sanatoria, che potrebbe
risolversi in danno dello stesso- al solo fine di accertare
il requisito della legittimazione del richiedente alla
sanatoria e non per risolvere i conflitti di interesse tra
le parti private in ordine all'assetto proprietario degli
immobili interessati.
Ne consegue che, poiché nel caso in esame difetta, in capo
al ricorrente, quale richiedente la sanatoria, il requisito
di legittimazione consistente nella piena disponibilità
delle aree oggetto dell’intervento, dato il dissenso
espressamente manifestato anche da uno soltanto dei
contitolari dell’area dove esso insiste, la sanatoria non
poteva essere concessa.
---------------
Del pari infondato è il secondo motivo.
Ed invero, dagli atti depositati emerge che il terrazzo in
questione, già oggetto, per una parte, di una precedente
sanatoria, sovrasta una parte comune e indivisa della
proprietà dei signori Or. (foglio 24, mappale 489, sub 1),
rimasta tale anche all’esito della divisione posta in essere
per atto del notaio Fe. in data 04.11.1993; inoltre esso
poggia su mura perimetrali comuni mediante strutture di
cemento armato.
Non è possibile, quindi, sostenere che la costruzione non
riguardi parti comuni dell’edificio, dal momento che, anche
a voler ammettere che il terrazzo in questione sia di
proprietà esclusiva del ricorrente, la sua realizzazione
indubbiamente insiste su aree indivise e su muri
condominiali.
Ciò posto, è principio pacifico in giurisprudenza quello
secondo cui il Comune, nel procedimento di rilascio dei
titoli edilizi, ha il potere e il dovere di verificare
l'esistenza, in capo al richiedente, di tutti i presupposti
per la loro emanazione e, in caso di opere che vadano ad
incidere sul diritto di altri proprietari, è legittimo da
parte dell'ente, esigere il consenso degli stessi (Cons. St.,
sez. V, 21.10.2003, n. 6529; Cons. St., sez. IV, 26.01.2009,
n. 437).
Anche nelle ipotesi di autorizzazioni in sanatoria, il
Comune è tenuto a pretendere la produzione della
dichiarazione di assenso del terzo pregiudicato -in ragione
del suo interesse contrario alla sanatoria, che potrebbe
risolversi in danno dello stesso- al solo fine di accertare
il requisito della legittimazione del richiedente alla
sanatoria e non per risolvere i conflitti di interesse tra
le parti private in ordine all'assetto proprietario degli
immobili interessati (Cons. St., sez. IV, 07.09.2016, n.
3823; TAR Umbria Perugia, sez. I, 14.02.2011, n. 48; TAR
Abruzzo Pescara, sez. I, 06.06.2009, n. 401; TAR Puglia,
Lecce, sez. III, 18.12.2007, n. 4286).
Ne consegue che, poiché nel caso in esame difetta, in capo
al ricorrente, quale richiedente la sanatoria, il requisito
di legittimazione consistente nella piena disponibilità
delle aree oggetto dell’intervento, dato il dissenso
espressamente manifestato anche da uno soltanto dei
contitolari dell’area dove esso insiste, la sanatoria non
poteva essere concessa (TAR Marche,
sentenza 15.05.2018 n. 375 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
UTILITA' |
PATRIMONIO -
VARI: #ILLUMINAZIONEinClasseA
- scegliere la lampadina giusta, a basso consumo e ridotto impatto
ambientale
(ENEA, ottobre 2018).
---------------
Lampadine che consumano meno e durano di più: da Enea una guida.
Un aiuto per interpretare e comprendere simboli e valori scritti sulle
confezioni e orientarsi verso la scelta giusta. |
EDILIZIA PRIVATA:
LE AGEVOLAZIONI FISCALI PER IL RISPARMIO ENERGETICO (Agenzia
delle Entrate, ottobre 2018). |
EDILIZIA PRIVATA: EcoBonus
e SismaBonus - guida operativa 2018
(ANCE, settembre 2018). |
SICUREZZA
LAVORO: IL
PRIMO SOCCORSO NEI LUOGHI DI LAVORO (INAIL, agosto 2018). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA
PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 44 del 29.10.2018, "Esclusione
dall’obbligo di autorizzazione paesaggistica (ex d.p.r. 31/2017) ed esame
paesistico ex art. 35 delle norme del piano paesaggistico regionale" (comunicato
regionale 22.10.2018 n. 145). |
EDILIZIA
PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 44 del 29.10.2018, "Obbligatorietà
del parere della commissione paesaggio locale per i procedimenti di
autorizzazione paesaggistica «Semplificata» ex d.p.r. 31/2017" (comunicato
regionale 22.10.2018 n. 144). |
APPALTI:
G.U. 26.10.2018 n. 250, suppl. ord. n. 50/L, "Disposizioni per la
revisione della disciplina del casellario giudiziale, in attuazione della
delega di cui all’articolo 1, commi 18 e 19, della legge 23.06.2017, n. 103" (D.Lgs.
02.10.2018 n. 122). |
EDILIZIA PRIVATA: CONTRIBUTI
PER L’ESERCIZIO DELLE FUNZIONI TRASFERITE AI COMUNI, SINGOLI O ASSOCIATI, IN
MATERIA DI OPERE O DI COSTRUZIONI E RELATIVA VIGILANZA IN ZONE SISMICHE (L.R.
33/2015, ART. 2, C. 1) (Regione Lombardia,
deliberazione G.R. 24.10.2018 n. 699). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: RECEPIMENTO
DELL’INTESA TRA IL GOVERNO, LE REGIONI E LE AUTONOMIE LOCALI, CONCERNENTE
L'ADOZIONE DEL REGOLAMENTO EDILIZIO-TIPO DI CUI ALL'ARTICOLO 4, COMMA
1-SEXIES, DEL DECRETO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA 06.06.2001, N. 380 (Regione
Lombardia,
deliberazione G.R. 24.10.2018 n. 695). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 43 del 22.10.2018, "Settimo aggiornamento
2018 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni
paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)"
(deliberazione
G.R. 16.10.2018 n. 14838). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
G.U. 06.10.2018 n. 233 "Disposizioni urgenti in materia di giustizia
amministrativa, di difesa erariale e per il regolare svolgimento delle
competizioni sportive" (D.L.
05.10.2018 n. 115). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
G.U. 05.10.2018 n. 232, suppl. ord. n. 46, "Contratto
collettivo nazionale di lavoro relativo al personale del comparto funzioni
locali - Triennio 2016-2018" (ARAN, 21.05.2018). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 40 del 05.10.2018, "Approvazione della
modulistica regionale per la presentazione delle istanze di volturazione
della titolarità dell’autorizzazione rilasciata per la costruzione ed
esercizio degli impianti di produzione di energia elettrica da fonti
rinnovabili e approvazione della procedura informatizzata per la gestione
del relativo procedimento amministrativo"
(decreto
D.U.O. 02.10.2018 n. 13953). |
APPALTI - ENTI LOCALI:
G.U. 04.10.2018 n. 231 "Disposizioni urgenti in materia di protezione
internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la
funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il
funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione
dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata" (D.L.
04.10.2018 n. 113).
----------------
Di particolare interesse si leggano:
● Art. 25. Sanzioni in
materia di subappalti illeciti
● Art. 26. Monitoraggio dei cantieri
● Modifiche all’articolo 143 del decreto legislativo 18.08.2000, n.
267 |
ENTI LOCALI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 40 del 03.10.2018, "Registro delle Unioni
di Comuni Lombarde. 4° Aggiornamento 2018 (in attuazione della d.g.r.
27.03.2015, n. 3304)"
(decreto
D.S. 26.09.2018 n. 13646). |
ENTI LOCALI - VARI: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 40 del 02.10.2018 "Istituzione dell’Organismo
regionale per le attività di controllo"
(L.R.
28.09.2018 n. 13). |
EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 28.09.2018 n. 226 "Disposizioni urgenti per la città di Genova, la
sicurezza della rete nazionale delle infrastrutture e dei trasporti, gli
eventi sismici del 2016 e 2017, il lavoro e le altre emergenze" (D.L.
28.09.2018 n. 109).
---------------
Di particolare interesse si leggano:
●
Art. 13. Istituzione dell’archivio informatico nazionale delle opere
pubbliche - AINOP
●
Art. 14. Sistema di monitoraggio dinamico per la sicurezza delle
infrastrutture stradali e autostradali in condizioni di criticità e piano
straordinario di monitoraggio dei beni culturali immobili
●
Art. 41. Disposizioni urgenti sulla gestione dei fanghi di depurazione |
ENTI LOCALI:
G.U. 28.09.2018 n. 226 "Elenco
delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato
individuate, ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n.
196 e successive modificazioni. (Legge di contabilità e di finanza pubblica)"
(ISTAT). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
APPALTI: Oggetto:
Nota operativa per l’utilizzo obbligatorio, dal 18 ottobre, dei mezzi di
comunicazione elettronici
(ANCI,
nota 19.10.2018 n. 76 di prot.). |
APPALTI: OGGETTO:
Imposta di bollo sui documenti prodotti nell’ambito dei contratti Pubblici.
Interpello Art. 11, legge 27.07.2000, n. 212
(Agenzia delle Entrate,
risposta 12.10.2018 n. 35). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Chiarimenti ministeriali sul nuovo regolamento recante la disciplina della
cessazione della qualifica di rifiuto del conglomerato bituminoso (fresato
d’asfalto)
(ANCE di Bergamo,
circolare 10.10.2018 n. 237). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Chiarimenti circa l’interpretazione di talune disposizioni di cui al D.M.
28.03.2018, n. 69 “Regolamento recante disciplina della cessazione della
qualifica di rifiuto di conglomerato bituminoso ai sensi dell'articolo
184-ter, comma 2 del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152” (Ministero
dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare,
nota 05.10.2018 n. 16293 di prot.).
---------------
Si legga, al riguardo:
Fresato d'asfalto, Siteb-Ance: le indicazioni del Minambiente non
semplificano il reimpiego. La recente nota del Ministero dell'Ambiente non
ha sciolto i dubbi sollevati (11.10.2018 - link a
www.casaeclima.com). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Decreto del Ministero dell'Interno 22.11.2017 recante "Approvazione della
regola tecnica di prevenzione incendi per l’installazione e l’esercizio di
contenitori-distributori, ad uso privato, per l’erogazione di carburante
liquido di categoria C" e Decreto del Ministero dell'Interno 10.05.2018
recante "Disposizioni transitorie in materia di prevenzione incendi per
l’installazione e l’esercizio di contenitori-distributori, ad uso privato,
per l’erogazione di carburante liquido di categoria C". Indicazioni
operative
(Ministero dell'Interno,
circolare 29.08.2018 n.
1/2018). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Oggetto: Diritto di accesso ex L. n. 241/1990 (Avvocatura Generale
dello Stato,
circolare n. 33/2018 -
Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2018). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI:
C. Benetazzo,
“Primazia” del diritto U.E. e proroghe ex lege delle concessioni balneari
(10.10.2018 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Premessa: le “preoccupanti” affermazioni di Cass.
pen., sez. III, 14.05.2018, n. 21281 in merito all’applicabilità del regime
delle proroghe legali delle concessioni balneari e gli aspetti problematici
collegati all’istituto della disapplicazione. – 2. La “ primazia” del
diritto U.E. e la disapplicazione quale strumento per risolvere gli
eventuali conflitti tra norme. L’iniziale “distanza” tra Corte
costituzionale e Corte di Giustizia e il successivo riconoscimento, da parte
della giurisprudenza costituzionale italiana, del principio dell’effetto
“diretto” del diritto U.E. Disapplicazione, abrogazione e “controlimiti”
nazionali: la competenza come ulteriore criterio di risoluzione delle
antinomie (la sentenza Frontini e i chiarimenti della Corte di Giustizia). –
3. L’ambito di operatività dell’istituto della disapplicazione. La
“primazia” delle disposizioni dei Trattati e la natura auto-applicativa dei
regolamenti U.E. (ad eccezione dei regolamenti non dotati di diretta
effettività). La peculiare ipotesi delle direttive: l’iniziale natura non
auto-applicativa e il successivo riconoscimento di un effetto diretto
subordinatamente alla ricorrenza di determinate condizioni quali: la
scadenza del termine per il recepimento; l’effetto favorevole all’individuo
e la non necessaria emanazione di ulteriori atti applicativi.
L’interpretazione adeguatrice nei casi Pfeiffer e Velasco Navarro. – 4. La
disciplina di attuazione dell’art. 12 della direttiva 2006/123/CE e la non
convincente interpretazione della Cassazione penale in merito all’effetto
auto-applicativo della stessa. Gli effetti sfavorevoli al privato
conseguenti alla disapplicazione delle norme sulla proroga legale dei
termini di durata delle concessioni disposta dall’art. 1, comma 18, d.l. n.
194/2009. La deroga al principio di retroattività favorevole di cui all’art.
2, comma 2, c.p. Il conflitto tra norma interna e norma U.E. come possibile
questione di legittimità costituzionale: rinvio al successivo § 5. – 5. Gli
effetti delle sentenze della Corte di Giustizia: la vincolatività per il
giudice a quo e la limitata efficacia “esterna”. L’applicabilità dell’art.
12 della direttiva 2006/123/CE anche alle concessioni di beni del demanio
marittimo, lacuale e fluviale con finalità turistico-ricreative. Parziali
aperture in favore dell’autonomia dei singoli Stati membri: la “scarsità”
della risorsa e l’interesse transfrontaliero certo quali presupposti per
l’applicazione di tale disposizione. Il regime transitorio a garanzia
dell’esigenza di certezza dei rapporti giuridici e la piena condivisione
degli orientamenti del giudice dell’U.E. nella giurisprudenza della Corte
costituzionale. – 6. Ambito e limiti di applicazione della proroga ex d.l.
n. 194/2009. Le “oscillazioni” della giurisprudenza amministrativa e
l’approccio “pragmatico” della Corte costituzionale. Compatibilità della
disciplina transitoria con il principio di certezza dei rapporti giuridici
enunciato dalla Corte di Giustizia nella sentenza Promoimpresa e Melis.
---------------
Abstract: La sentenza qui annotata appare degna di nota in quanto
induce a tornare su uno dei temi più attuali e problematici del diritto
amministrativo ovvero il rapporto tra concessioni balneari e direttiva
Bolkestein, in merito al quale la Cassazione penale suggerisce una
interpretazione non convincente. Lo scopo di queste pagine non può essere
quello di tentare una soluzione del rebus circa l’esatta applicazione della
direttiva Bolkestein alle concessioni balneari, argomento già ampiamente
trattato in precedenti scritti, ma di far emergere i problemi nuovi che la
vicenda in esame è in grado di sollevare, soprattutto in relazione ai
rapporti tra ordinamento nazionale e sistema delle fonti U.E., nonché ai
limiti di utilizzabilità dell’istituto della disapplicazione quale strumento
per risolvere gli eventuali conflitti tra norme. Il metodo seguito è quello
di ripercorrere le argomentazioni della Cassazione penale per utilizzarle
come traccia degli aspetti problematici appena indicati. |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO: S.
Neri,
Il reclutamento nel pubblico impiego alla luce dei recenti interventi
normativi (10.10.2018 - tratto da
www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Il reclutamento nel pubblico
impiego. - 3. Il quadro normativo. - 4. Il circolo virtuoso tra la
programmazione dei fabbisogni di personale e le procedure di reclutamento. -
5. Il sistema informativo nazionale sul lavoro pubblico. – 6. Le linee guida
sulle procedure concorsuali. - 6.1. Concorsi pubblici interni ed esterni. –
6.2. La trasparenza nelle procedure selettive. – 6.3. L’accentramento dei
concorsi. – 6.4. Modelli e metodi per il reclutamento. - 7. La dirigenza
pubblica e il ruolo della Scuola nazionale dell’amministrazione. – 7.1. Il
7° corso-concorso della Scuola Nazionale dell’amministrazione. |
ATTI
AMMINISTRATIVI: G.
Gardini,
La nuova trasparenza amministrativa: un bilancio a due anni dal “FOIA
Italia”
(10.10.2018 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. FOIA Italia: diritto individuale o strumento
anticorruzione? 2. A chi appartengono le informazioni pubbliche? 3. Dalla
trasparenza come mezzo alla trasparenza come fine; 4. Le conseguenze
dell’ambigua natura dell’ accesso civico; 5. L’assenza di una autorità
indipendente preposta all’ enforcement del FOIA; 6. Alcune questioni
operative: i rimedi contro i silenzi dell’amministrazione; 7. Segue: i
rimedi contro l’inottemperanza dell’amministrazione alla decisione del
Difensore civico; 8. Brevi conclusioni. |
ENTI LOCALI: D.
Rossano,
I controlli nelle società pubbliche
(10.10.2018 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Premessa. 2. I controlli interni … 3. (Segue) … alla
luce degli studi di economia aziendale: … 4. (Segue) … l’ufficio di
controllo interno. 5. I controlli esterni. 6. Considerazioni conclusive. |
EDILIZIA PRIVATA: P.
Carpentieri,
Interventi esclusi dall’autorizzazione
paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata - d.P.R.
13.02.2017, n. 31 (09.10.2018
- tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Sommario 1. Il nuovo regolamento. 2. I principi e i concetti
fondamentali alla base della nuova semplificazione. 3. I limiti immanenti
nella nozione di “lieve entità”. 4. Le eccezioni alla liberalizzazione.5.
La lettura “integrata” delle tabelle A e B. 6. Ulteriori semplificazioni.
7. La nuova procedura semplificata. 8. Cenni alle tipologie di interventi
liberi (allegato A) e alle tipologie di interventi semplificati (allegato
B). |
APPALTI SERVIZI: Gare
per l’affidamento del servizio di distribuzione del gas naturale a livello
di Ambito Territoriale Minimo (ATEM) - Il percorso per giungere alla
pubblicazione del bando di gara - Istruzioni
tecniche, linee guida, note e modulistica (ANCI,
quaderno n. 15 di ottobre 2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: CCNL
21.05.2018 - PRIMA APPLICAZIONE: IL CONTRATTO INTEGRATIVO ED IL FONDO
RISORSE DECENTRATE - Istruzioni tecniche, linee guida, note e modulistica (ANCI,
settembre 2018). |
EDILIZIA
PRIVATA:
F. Nocilla,
Titolarità di immobili abusivi e regime di tutela di diritti
nell’ordinamento civilistico
(Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 2/2018).
---------------
Sommario: 1. L’abusivismo edilizio come fenomeno giuridico
trasversale: inquadramento sistematico - 2. abusivismo edilizio e sanzioni
giuridiche civilistiche - 3. La vexata quaestio della nullità degli atti
traslativi degli immobili abusivi: nullità sostanziale o formale? - 4. il
contratto preliminare e gli atti mortis causa aventi ad oggetto immobili
abusivi - 5. altri atti esclusi dal regime di nullità della legge n. 47/1985
e del D.P.r. n. 380/2001 - 6. Espropriazione forzata avente ad oggetto un
immobile abusivo. L’aliud pro alio nella vendita forzata - 7. Locazione di
immobile abusivo - 8. appalto di immobile abusivo - 9. atti giudiziari
sostitutivi di accordi negoziali aventi ad oggetto immobili abusivi - 10. La
non risarcibilità della lesione patrimoniale all’immobile abusivo: la
sentenza della Cassazione n. 4206/2011 - 11. il non riconoscimento
dell’indennizzo espropriativo al titolare dell’immobile abusivo - 12.
immobili abusivi e violazione delle distanze tra edifici - 13. i rimedi
amministrativi esperibili avverso l’abuso commesso dal vicino - 14. ius
supervenines favorevole al costruttore: cosa succede se l’immobile abusivo
diventa legittimo in virtù di una norma sopravvenuta? - 15. Usucapione e
immobile abusivo: un diverso approccio della giurisprudenza - 16.
Considerazioni conclusive. |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
F. Meloncelli,
La natura del contributo unificato raddoppiato e il suo ambito
d’applicazione
(Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 2/2018).
---------------
Sommario: 1. Gli istituti del contributo unificato e del suo
raddoppio per il rigetto dell’impugnazione - 2. La natura giuridica del
cosiddetto raddoppio del contributo unificato per il rigetto
dell’impugnazione - 2.1. rassegna della giurisprudenza di legittimità sul
regime giuridico del raddoppio del contributo unificato - 2.1.1. La
decorrenza della normazione sul raddoppio del contributo unificato - 2.1.2.
Fatto rilevante per la decorrenza della normazione sul raddoppio del
contributo unificato - 2.1.3. il presupposto per l’applicazione del
raddoppio del contributo unificato - 2.1.4. il vincolo per il giudice
dell’impugnazione - 2.1.5. il soggetto passivo dell’obbligazione del
raddoppio del contributo unificato - 2.1.6. La formula per l’applicazione
del raddoppio del contributo unificato - 2.2. La tesi della natura
principalmente tributaria e secondariamente sanzionatoria del cosiddetto
raddoppio del contributo unificato per il rigetto dell’impugnazione - 2.3.
La tesi della natura esclusivamente sanzionatoria del cosiddetto raddoppio
del contributo unificato per il rigetto dell’impugnazione - 2.4. Critica
alla tesi della natura sanzionatoria - 2.5. La tesi della natura
esclusivamente tributaria del cosiddetto raddoppio del contributo unificato
per il rigetto dell’impugnazione - 3. il problema dell’individuazione delle
giurisdizioni costituenti l’ambito di applicazione del raddoppio del
contributo unificato - 4. Conclusioni. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
M. Strazzeri,
L’actio finium regundorum in materia di accesso ai documenti della
Pubblica Amministrazione
(Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 2/2018).
---------------
Sommario: 1.Premessa - 2. il rapporto tra accesso civico e
documentale ante Foia - 3. Verso il nuovo concetto di trasparenza
amministrativa: una chiave di lettura del diritto di accesso civico - 4.
L’inquadramento del diritto di accesso civico - 5. La situazione post Foia:
la “profondità” della trasparenza condizionata. |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
P. Vitullo e F. Muccio,
Il divieto di accesso agli atti strumentale a precostituire prova in sede
civile nella sentenza n. 296/2018 emessa dal TAR Molise - Nota a TAR Molise
setenza 21.05.2018 n. 296
(Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 2/2018). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
A. Pascale,
Il diritto di accesso civico generalizzato: una sentenza del Tar Lazio
sull’interpretazione dell’art. 5, co. 2, d.lgs. 33/2013 - Nota a TAR Lazio,
Sez. III-quater, 16.03.2018 n. 2994
(Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 2/2018).
---------------
Sommario: 1. Premesse - 2. La sentenza TAR Lazio, sezione
III-quater, del 16.03.2018, n. 2994 - 3. Le diverse tipologie del diritto di
accesso - 3.1. il diritto di accesso procedimentale - 3.2. il diritto di
accesso documentale - 3.3. accesso in materia penale - 3.4. accesso in
materia ambientale - 3.5. accesso civico semplice - 3.6. accesso civico
generalizzato - 4. L’accesso agli atti delle istituzioni europee - 5.
L’accesso in Germania e in Francia - 6. Libertà di informazione: art. 10
della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo - 7.
“Linee Guida” dell’ANAC - 8. accesso irragionevole - 9. La motivazione della
sentenza - 10. Conclusioni finali. |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto:
Responsabile per la transizione digitale - art. 17 decreto legislativo
07.03.2005, n. 82 “Codice dell’amministrazione digitale” (Ministro
per la pubblica amministrazione,
circolare 01.10.2018 n. 3). |
ARAN |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Nuovo fondo risorse decentrate / Come deve essere
correttamente applicato l’art. 67, comma 1, del CCNL delle Funzioni Locali
del 21.05.2018, secondo il quale nell’unico importo consolidato delle
risorse stabili ivi previsto, confluisce anche l’importo annuale delle
risorse di cui all’art. 32, comma 7, del CCNL del 22.01.2004 (pari allo
0,20% del monte salari dell’anno 2001, esclusa la quota relativa alla
dirigenza) nel caso in cui tali risorse non siano state utilizzate nel 2017
per il finanziamento delle posizioni organizzative di alta professionalità?
Relativamente alla particolare problematica esposta, in relazione alle
modalità di utilizzo, dopo la stipulazione del CCNL del 21.05.2018, delle
risorse dell’art. 32, comma 7, del CCNL 22.01.2004, destinate
esclusivamente, al finanziamento della retribuzione di posizione e di
risultato delle posizioni organizzative di alta professionalità, si ritiene
opportuno fornire le seguenti indicazioni di carattere generale,
distinguendo tre possibili fattispecie:
ipotesi 1
l’ente non ha in alcun modo istituito posizioni organizzative di alta
professionalità alla data del 31.12.2017. In tal caso trova applicazione la
disciplina dell’art. 67, comma 1, penultimo ed ultimo periodi, del CCNL del
21.05.2018. Pertanto, l’importo annuale delle risorse di cui all’art. 32,
comma 7, del CCNL 22.01.2004 confluisce nell’importo consolidato delle
risorse stabili di cui al primo periodo del medesimo comma 1 dell’art. 67;
ipotesi 2
l’ente al 31.12.2017 ha istituito posizioni organizzative destinando al
finanziamento delle relative retribuzioni di posizione e di risultato tutte
le risorse di cui all’art. 32, comma 7, del CCNL 22.2004. In tal caso,
l’importo annuale di tali risorse rientra nell’ambito applicativo dell’’art.
15, comma 5, del CCNL del 21.05.2018. Pertanto, esso sarà portato in
detrazione alle risorse stabili consolidate di cui al primo periodo del
comma 1 dell’art. 67 del medesimo CCNL del 21.05.2018 e ritornerà nelle
disponibilità di bilancio dell’ente, nell’ambito della nuova disciplina per
il finanziamento della retribuzione di posizione e di risultato delle
posizioni organizzative;
ipotesi 3
l’ente al 31.12.2017 ha istituito un limitato numero di posizioni
organizzative di alta professionalità, destinando, pertanto, solo
parzialmente le risorse di cui all’art. 32, comma 7, del CCNL 22.01.2004, al
finanziamento delle relative retribuzioni di posizione e di risultato.
Pertanto, per quelle non destinate al finanziamento delle posizioni di alta
professionalità, valgono le indicazioni dell’ipotesi 1; per la quota
destinata, invece, a tale finalità, si farà riferimento alle indicazioni
dell’ipotesi 2 (orientamento
applicativo 09.10.2018 CFL 15 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Orario di lavoro / Alla luce delle previsioni
degli artt. 22, comma 7, e 26 del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018,
fermo restando il diritto di fruire di una pausa di trenta minuti dopo sei
ore di lavoro per i dipendenti che facciano richiesta, sono possibili,
previo consenso del lavoratore, articolazioni dell’orario di lavoro che
prevedano in via ordinaria prestazioni di lavoro superiori alle sei ore
senza la predetta pausa?
Relativamente alla particolare problematica esposta, si ritiene opportuno
evidenziare che l’art. 26 del CCNL del 21.05.2018, in coerenza con le
previsioni del D.Lgs. n. 66/2003, configura la pausa come obbligatoria in
presenza di una prestazione di lavoro giornaliera che ecceda le sei ore,
qualunque sia la ragione giustificativa di tale prolungata durata
dell’orario di lavoro.
Una eventuale e limitata deroga all’obbligo della pausa, sotto il solo
profilo della durata, è consentita solo nelle specifiche fattispecie
considerate nell’art. 13 del CCNL del 09.05.2006 in materia di buono pasto.
Per completezza informativa, si ricorda anche che la medesima pausa non può
essere neppure soppressa o dichiarata rinunciabile dalla contrattazione
integrativa (non figurando questo profilo tra le materie ad essa demandate
dal CCNL) o da atti unilaterali dell’Ente (per evidente contrasto con la
legge e con il contratto collettivo nazionale di lavoro) (orientamento
applicativo 09.10.2018 CFL 14 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Relazioni sindacali / Un ente non ha ancora
sottoscritto i contratti integrativo relativi alle annualità 2016 e 2017.
Poiché la sottoscrizione degli stessi avverrà dopo l’entrata in vigore del
CCNL delle Funzioni Locale del 21.05.2018, è ipotizzabile che, nei suddetti
contratti integrativi relativi al 2016 ed al 2018, possano essere
disciplinati ed applicati gli istituti economici previsti dal nuovo CCNL ed
in particolare (il Titolo VI dedicato alla Polizia Locale ed il Titolo VIII
sul trattamento economico accessorio), tenuto conto che si tratta, comunque,
dei primi contratti integrativi intervenuti dopo la stipulazione del nuovo
CCNL oppure devono trovare applicazione ancora le precedenti regole
negoziali?
Per l’iter di approvazione dei contratti integrativi per il 2016 e per il
2017 devono essere seguite le disposizioni previste dal Titolo II del CCNL
concernente le relazioni sindacali?
In ordine alle particolari problematiche esposte, si ritiene utile precisare
quanto segue:
a) l’avviso della scrivente Agenzia è nel senso che i nuovi
istituti del trattamento economico accessorio previsti, nei presupposti
legittimanti e nel relativo ammontare, dal CCNL delle Funzioni Locali del
21.05.2018, possono essere applicati solo in sede di stipula del contratto
integrativo dell’ente concernente il periodo temporale successivo al
suddetto CCNL (anno 2018 e successivi). Infatti, non si ritiene possibile,
in sede di contrattazione integrativa, far retroagire ed applicare compensi
accessori con riferimento a periodi temporali nei quali gli stessi non erano
già previsti e disciplinati dal CCNL, soprattutto con riferimento alle
condizioni per la loro erogazione;
b) con riferimento alla contrattazione integrativa, se la
fattispecie si riferisce all’iter procedimentale successivo alla
sottoscrizione dell’ipotesi di accordo, si evidenzia che nell’ambito della
nuova disciplina dell’art. 8 del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018,
non sussistono sostanziali differenze con il precedente impianto regolativo
dell’art. 5 del CCNL dell’01.04.1999, come sostituito dall’art. 4 del CCNL
del 22.01.2004 (orientamento
applicativo 09.10.2018 CFL 13 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Assenze per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche
od esami diagnostici / L’art. 35, commi da 1 a 10,
del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018 ha introdotto la nuova
tipologia di permessi orari retribuiti per l’espletamento di visite,
terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici. Poiché il
contratto è entrato in vigore il 22.05.2018, è corretto ritenere che, per il
2018, le 18 ore annue di tale tipologia di permessi devono essere
riproporzionate in modo da tenere conto della data di decorrenza degli
effetti del nuovo CCNL?
In ordine a tale problematica si ritiene utile precisare quanto segue.
L’art. 35 del CCNL del 21.05.2018 ha introdotto un’organica ed esaustiva
disciplina in materia di “assenze per l’espletamento di visite, terapie,
prestazioni specialistiche od esami diagnostici”.
Il nuovo istituto contrattuale, applicabile dal 22.05.2018, infatti, prevede
un quantitativo di 18 ore annue che, potranno essere fruite, alle condizioni
espressamente stabilite dal citato art. 35 del CCNL del 21.05.2018.
Trattandosi di un istituto del tutto nuovo, che non trova precedenti e non
si collega in alcun modo, direttamente o implicitamente, alla pregressa
disciplina applicabile in materia, l’eventuale fruizione, ai sensi
55-septies del D.Lgs. n. 165/2001, nei primi mesi del 2018, di assenze
giornaliere per visite specialistiche non può avere alcuna incidenza sul
quantitativo complessivo delle ore che la richiamata disciplina contrattuale
riconosce al personale.
Pertanto, nel corso del 2018, il lavoratore potrà sempre fruire di permessi
retribuiti per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche
od esami diagnostici, nel limite delle 18 ore annue, anche se
precedentemente al 21.05.2018 si era già assentato, a giorni, per la
medesima motivazione (orientamento
applicativo 09.10.2018 CFL 12 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Assenze per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche
od esami diagnostici / Alla luce delle nuove
disposizioni contrattuali che consentono la fruibilità su base oraria ed
anche in minuti delle ore successive alla prima nel caso dei permessi per
particolari motivi personali o familiari (art. 32 del CCNL del 21.05.2018)
ed anche della prima ora nella diversa fattispecie dei permessi
l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami
diagnostici (art. 35 del CCNL del 21.05.2018), è possibile ritenere che sia
consentita la fruizione in minuti anche dei permessi in forma oraria di cui
all’art. 33, comma 3, della legge n. 104/1992 ed all’art. 33, comma 1, del
CCNL del 21.05.2018?
In materia, si ritiene che debba essere confermato il precedente
orientamento applicativo per cui i permessi della legge n. 104/1992 non
possono essere fruiti frazionatamente anche solo a minuti, non essendosi
modificata la specifica disciplina contrattuale di riferimento (orientamento
applicativo 09.10.2018 CFL 11b - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Permessi per motivi personali o familiari / Alla
luce delle nuove disposizioni contrattuali che consentono la fruibilità su
base oraria ed anche in minuti delle ore successive alla prima nel caso dei
permessi per particolari motivi personali o familiari (art. 32 del CCNL del
21.05.2018) ed anche della prima ora nella diversa fattispecie dei permessi
l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami
diagnostici (art. 35 del CCNL del 21.05.2018), è possibile ritenere che sia
consentita la fruizione in minuti anche dei permessi in forma oraria di cui
all’art. 33, comma 3, della legge n. 104/1992 ed all’art. 33, comma 1, del
CCNL del 21.05.2018?
In materia, si ritiene che debba essere confermato il precedente
orientamento applicativo per cui i permessi della legge n. 104/1992 non
possono essere fruiti frazionatamente anche solo a minuti, non essendosi
modificata la specifica disciplina contrattuale di riferimento (orientamento
applicativo 00.10.2018 CFL 11a - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Permessi per motivi personali o familiari /
Relativamente alla disciplina dei permessi retribuiti per particolari motivi
personali o familiari, per l’anno 2018, ai fini del rispetto del limite
massimo di 18 ore annue previsto dall’art. 32, comma 1, del CCNL delle
Funzioni Locali del 21.05.2018, occorre tenere conto anche dei giorni di
permesso per motivi personali o familiari, di cui all’art. 19, comma 2, del
CCNL del 06.07.1995, già fruiti dal dipendente prima del 21.05.2018?
La disciplina previgente, contenuta nell’art. 19, comma 2, del CCNL del
06.07.1995 consentiva il riconoscimento dei permessi per motivi personali e
familiari con una modalità di fruizione esclusivamente giornaliera, nel
limite di tre giorni annui.
Tale disciplina è stata modificata e sostituita da quella contenuta
nell’art. 32, comma 2, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018,
secondo la quale: “Al dipendente, possono essere concesse, a domanda,
compatibilmente con le esigenze di servizio, 18 ore di permesso retribuito
nell'anno, per particolari motivi personali o familiari.”.
Non viene in considerazione una forma di permesso ulteriore ed aggiuntiva.
Si tratta, infatti, sempre dei permessi per particolari motivi personali o
familiari, ma cambia solo la modalità di fruizione da giornaliera, ai sensi
del precedente art. 19, comma 2, del CCNL del 06.07.1995, ad oraria, come
disposto dal nuovo contratto.
Pertanto, i tre giorni annui di permesso di cui si tratta si sono
semplicemente “trasformati” nelle 18 ore annue di cui al citato art.
32, comma 1, del CCNL del 21.05.2018.
Per effetto di quanto sopra detto, conseguentemente, se un lavoratore, prima
del 21.05.2018, ha già fruito di uno o più giorni di permesso per motivi
personali, secondo la pregressa regolamentazione, questi dovranno essere,
comunque, portati in detrazione dal monte delle 18 ore di permesso
retribuito, di cui al sopra richiamato art. 32, comma 1, del CCNL del
21.05.2018.
Al fine della corretta determinazione del numero delle ore da detrarre, gli
enti possono fare riferimento alle previsioni del comma 2, lett. e) del
medesimo art. 32, secondo le quali i permessi orari di cui si tratta “possono
essere fruiti, cumulativamente, anche per la durata dell’intera giornata
lavorativa; in tale ipotesi, l'incidenza dell'assenza sul monte ore a
disposizione del dipendente è convenzionalmente pari a sei ore”.
Tale regola, finalizzata espressamente alla quantificazione delle modalità
di decurtazione del monte orario annuale dei permessi orari, nel caso in cui
essi siano fruiti cumulativamente per una intera giornata, nell’ambito della
nuova regolamentazione introdotta, consente, indirettamente, di determinare
anche la decurtazione da operare nella diversa ipotesi di avvenuta
fruizione, prima del nuovo CCNL, di giorni di permesso, ai sensi dell’art.
19, comma 2, del CCNL del 06.07.1995.
Infatti, secondo principi di logica e ragionevolezza, non possono applicarsi
regole diverse in presenza di fattispecie sostanzialmente assimilabili.
Pertanto, se un dipendente ha già fruito, ai sensi del più volte citato art.
19, comma 2, del CCNL del 06.07.1995, di due giorni di permesso per
particolari motivi personali e familiari, l’ente procederà ad una
decurtazione di 12 ore di quel monte orario annuo di 18 ore previsto
dall’art. 32, comma 1, del CCNL del 21.05.2018.
La disciplina del sopra richiamato comma 2, lett. e), dell’art. 32, comporta
che, in caso di fruizione del permesso orario per l’intera giornata
lavorativa, la riduzione del monte ore annuo di permessi sarà sempre di sei
ore (durata convenzionale), sia nel caso di giornata lavorativa con orario
superiore a sei ore (ad esempio, 8 ore) che in quello di orario inferiore
alle 6 ore (ad esempio, 5 ore) (orientamento
applicativo 09.10.2018 CFL 10 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Permessi per motivi personali o familiari / Come deve
essere computato il termine massimo di 7 giorni lavorativi dal decesso per
la fruizione dei permessi per lutto?
Si ritiene che il computo del termine massimo di 7 giorni lavorativi dal
decesso per la fruizione dei tre giorni di permesso retribuito del lutto, ai
sensi dell’art. 31, comma 1, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018,
debba essere effettuato secondo la generale disciplina civilistica, di cui
all’art. 2963 del codice civile ed all’art. 155 del codice di procedura
civile (orientamento
applicativo 09.10.2018 CFL 9 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Assenze per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche
od esami diagnostici / In relazione alle previsioni
dell’art. 35, commi da 1 a 10, del CCNL delle Funzioni Locali del
21.05.2018, concernenti le 18 ore annuali di permesso per l’espletamento di
visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici, ai fini
del computo del periodo di comporto, in caso di fruizione di un giorno di
permesso, deve essere computato un giorno di comporto o il conteggio del
comporto deve avvenire in base al numero effettivo di ore di lavoro che il
dipendente avrebbe dovuto osservare nella giornata di assenza?
In materia deve farsi riferimento alla espressa previsione dell’art. 35,
comma 4, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018, secondo il quale: “Ai
fini del computo del periodo di comporto, sei ore di permesso fruite su base
oraria corrispondono convenzionalmente ad una intera giornata lavorativa.”.
Pertanto, nel caso di permessi orari per visite, terapie, prestazioni
specialistiche od esami diagnostici fruiti cumulativamente per una intera
giornata lavorativa, ove questa abbia una durata di 9 ore (per effetto del
rientro pomeridiano in presenza di una settimana lavorativa con orario
articolato sul 5 giorni), ai fini del computo del periodo di comporto, sarà
considerato sempre un solo giorno.
Tuttavia, le ulteriori tre ore di permesso (rispetto alle sei già
precedentemente valutate) saranno, comunque, considerate.
Infatti, esse si potranno sommare alle ulteriori ore di permesso
eventualmente fruite al medesimo titolo nel corso dell’anno di riferimento
e, ove, si raggiunga, di nuovo, il numero di sei, esse daranno luogo al
computo di un altro giorno nel periodo di comporto (orientamento
applicativo 09.10.2018 CFL 8 - link a www.aranagenzia.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Nuovo fondo risorse decentrate / Ai sensi
dell’art. 67, comma 1, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018,
nell’unico importo consolidato delle risorse stabili ivi previsto,
confluisce anche l’importo annuale delle risorse di cui all’art. 32, comma
7, del CCNL del 22.01.2004 (pari allo 0,20% del monte salari dell’anno 2001,
esclusa la quota relativa alla dirigenza) nel caso in cui tali risorse non
siano state utilizzate nel 2017 per il finanziamento delle posizioni
organizzative di alta professionalità.
Era obbligatorio inserire nel fondo lo 0,21 del monte salari dell’anno 2001,
come previsto dal ciato art. 32, comma 7, del CCNL del 22.01.2004, anche se
l’ente non aveva intenzione di istituire le “alte professionalità”? Qualora
l’ente non avesse previsto tali risorse nel fondo del 2017 e non le avesse
accantonate, può comunque inserirle nell’unico importo consolidato relativo
al 2017?
Relativamente alle particolari problematiche esposte, si ritiene opportuno
precisare quanto segue.
Se le risorse di cui all’art. 32, comma 7, del CCNL del Comparto
Regioni-Autonomie Locali del 22.01.2004 non erano già state stanziate
dall’Ente negli anni precedenti, come pure disposto dalla richiamata
disciplina contrattuale e ribadito dalla dichiarazione congiunta n. 1,
allegata al CCNL del 09.05.2006, allora le stesse non possono in alcun modo
essere inserite nella parte stabile del Fondo di cui all’art. 67, comma 1,
del CCNL delle Funzioni Locali del 21.05.2018.
In proposito, tuttavia, si ritiene opportuno rilevare che, come già
evidenziato in precedenti orientamenti applicativi predisposti in materia,
qualora l’ente dovesse riconoscere un proprio errore nel procedimento di
calcolo e di quantificazione delle singole voci di alimentazione delle
risorse decentrate, potrebbe eventualmente, procedere, secondo criteri di
correttezza e buona fede, ad un eventuale intervento correttivo, nel
rispetto evidentemente delle clausole negoziali che le prevedono e
disciplinano.
In materia, interverranno i medesimi soggetti che ordinariamente provvedono
e sovrintendono alla quantificazione delle risorse destinate alla
contrattazione integrativa: i competenti uffici dell’ente nonché i revisori
dei conti.
L’ente deve anche procedere ad un ulteriore adempimento in quanto deve
comunicare alla Ragioneria Generale dello Stato del Ministero dell’Economia
e delle Finanze le modifiche intervenute, per effetto del ricalcolo,
nell’ammontare delle risorse decentrate al fine della necessaria variazione
dei dati del Conto annuale, eventualmente evidenziando anche le ragioni
giustificative dello stesso.
Data la rilevanza di tale fattispecie di ricalcolo con effetto retroattivo
delle risorse decentrate, anche ai fini del rispetto dei vincoli legislativi
di finanza pubblica intervenuti anche in passato in materia e venendo in
considerazione una problematica concernente comunque le modalità applicative
di specifiche disposizioni di legge, ulteriori indicazioni possono essere
utilmente acquisite anche dal Ministero dell’Economia e delle Finanze,
istituzionalmente competente per l’interpretazione delle norme di legge
concernenti il rapporto di lavoro pubblico (orientamento
applicativo 08.10.2018 CFL 7 - link a www.aranagenzia.it). |
A.N.AC. |
APPALTI
SERVIZI: Gare
per contratti misti, serve l'attestazione Soa.
In un contratto misto di manutenzione di immobili è necessaria
l'attestazione Soa per partecipare alla gara anche se i lavori hanno
carattere accessorio rispetto alle altre prestazioni (servizi e forniture),
a condizione che gli interventi determino un quid novi.
È quanto ha
precisato l'Anac con la
Parere di Precontenzioso 05.09.2018 n. 756 - rif. PREC 159/18/S,
affrontando una fattispecie inerente all'affidamento di un contratto di
manutenzione di immobili avente ad oggetto sia servizi che lavori (nella
specie, opere straordinarie di manutenzione) qualificato come appalto di
servizi, senza richiesta di attestazione Soa, società organismo di
attestazione.
L'Autorità, in premessa, ha ricordato come la tipologia dei requisiti da
richiedere ai fini della partecipazione va valutata con riferimento alle
attività oggetto del contratto. In caso di contratto misto, nel quale
coesistono due o più tipi di prestazioni, l'operatore economico deve
possedere i requisiti di qualificazione e capacità prescritti dal dlgs n.
50/2016 per ciascuna prestazione di lavori, servizi, forniture prevista dal
contratto. È quanto prevede in particolare, l'articolo 28, comma 1, del
codice dei contratti pubblici.
Venendo al caso di appalti per l'affidamento della manutenzione degli
immobili, il parere Anac rammenta che nelle linee guida sull'affidamento dei
servizi di manutenzione degli immobili (Determinazione n. 7 del 28.04.2015) era stato recepito l'orientamento di giurisprudenza e della stessa
Autorità per cui «qualora tra le prestazioni del bando siano previste, sia
pure a carattere accessorio, attività qualificate come lavori, il
concorrente deve possedere, oltre ai requisiti previsti per i servizi, anche
la qualificazione per i lavori per la categoria e l'importo corrispondente
alle lavorazioni oggetto dell'appalto».
In passato, infatti, la distinzione
tra servizi (di manutenzione) e lavori (di manutenzione) è stata oggetto di
una intensa attività interpretativa con la conseguenza che, ha detto l'Anac,
«il concetto di manutenzione rientra nell'ambito dei lavori pubblici qualora
l'attività dell'appaltatore comporti un'azione prevalente ed essenziale di
modificazione della realtà fisica (c.d. quid novi) che prevede
l'utilizzazione, la manipolazione e l'installazione di materiali aggiuntivi
e sostitutivi non inconsistenti sul piano strutturale e funzionale».
Se invece viceversa, tali azioni non si traducono in una essenziale o
significativa modificazione dello stato fisico del bene, l'attività si
configura come prestazione di servizi. Nel caso specifico, la stazione
appaltante da un lato (capitolato descrittivo e prestazionale) ha
genericamente riconosciuto la natura mista del contratto (lavori a titolo
accessorio) e dall'altro (bando e disciplinare) non ha richiesto i relativi
requisiti di partecipazione.
Per l'Anac è quindi mancata un'analisi sul quid novi: avrebbe dovuto
identificare in modo preciso la natura, le caratteristiche e l'importo delle
varie lavorazioni, in modo tale da commisurare la qualificazione da
richiedere ai fini della partecipazione all'effettiva entità degli
interventi da realizzare. E da questa analisi emerge che occorreva
l'attestazione Soa
(articolo ItaliaOggi del 28.09.2018). |
APPALTI: Anac,
proroghe del termine per integrare la documentazione solo in casi
eccezionali.
Con il
Parere di Precontenzioso 05.09.2018 n. 751 - rif. PREC 134/18/S, l'Anac –risolvendo ogni dubbio in proposito–
afferma che il termine per integrare eventuali carenze della documentazione
di gara, purché non si tratti di elementi che riguardano l'offerta
tecnico/economica, deve essere inteso come perentorio e l'appaltatore non
può pretendere una proroga se non oggettivamente motivata da difficoltà
imprevedibili.
La vicenda
Rivolgendosi all'autorità anticorruzione, un appaltatore aveva evidenziato
di essere stato escluso da una procedura d'appalto per non aver provveduto,
nel termine richiesto dalla stazione appaltante in sede di soccorso
istruttorio, a integrare la documentazione che attestava il possesso del
requisito di capacità economico-finanziaria relativo al fatturato specifico
nel settore di attività oggetto dell'appalto.
L'Anac ha affrontato la tematica chiarendo anche alcuni concetti sui quali
l'interpretazione, da parte dei vari responsabili unici delle stazioni
appaltanti, risulta laboriosa.
In primo luogo, viene fatta la distinzione tra servizi analoghi e servizi
specifici. Nel momento in cui la stazione appaltante esige un fatturato
minimo con riferimento a servizi come quelli oggetto dell'appalto, non vi è
alcun margine di discrezionalità.
E su questo tema, si legge nel parere, la
giurisprudenza ha chiarito che, se il bando richiede come requisito di
partecipazione un fatturato specifico relativo a precedenti servizi svolti e
inerenti l'oggetto dell'appalto, «è necessario che le precedenti esperienze
del concorrente riguardino servizi propri dello specifico settore cui
attiene l'oggetto dell'appalto, secondo un criterio di analogia ed inerenza
che non richiede l'esatta coincidenza dei servizi con quelli nominalmente
richiamati negli atti della specifica procedura concorsuale (Cons. Stato,
Sez. V, 27.04.2015, n. 2098)».
Altro chiarimento ha riguardato l'esatta configurazione giuridica delle
referenze bancarie.
Le referenze bancarie, secondo l'Authority, altro non
sono che lettere di “affidabilità” con le quali gli istituti di credito
attestano «di intrattenere rapporti di affidamento bancario con un operatore
economico, sono infatti finalizzate a certificare la solidità economica del
concorrente e consistono in un'attestazione dell'idoneità dell'impresa sotto
il profilo delle risorse disponibili a far fronte agli impegni che
conseguirebbero dall'aggiudicazione dell'appalto, ma non sono idonee a
comprovarne il fatturato specifico».
Pertanto, come nel caso di specie, in
presenza di dubbi è corretto il comportamento del Rup che richiede altra
documentazione per dimostrare il fatturato richiesto come condizione per
poter essere ammessi in gara.
Il termine del soccorso istruttorio
Infine, viene affrontato l'aspetto sulla natura del termine concesso per le
integrazioni/correzioni della documentazione di gara. La nuova norma
(articolo 83, comma 9, del codice) conferma che l'appaltatore deve adempiere
alle richieste entro un termine non superiore a 10 giorni.
Secondo l'Anac, questo termine non può essere interpretato in modo
discrezionale in quanto costituisce un vincolo perentorio senza possibilità
di proroghe o differimenti se non in presenza di specifiche ed oggettive
ragioni che non siano imputabili al soggetto interessato. In particolare,
nel parere si legge che «la possibilità di concedere una proroga è
riconosciuta nei casi di obiettiva impossibilità o difficoltà dovute a cause
“esterne”, indipendenti dalla volontà del concorrente».
Nel caso di specie, nessuna prova è stata fornitura e l'appaltatore non ha
neppure «dato atto del tempestivo impegno per adeguarsi alla richiesta,
avendo inviato l'istanza di proroga a ridosso della scadenza prefissata». Né
può essere accettata una tesi di irragionevolezza del tempo assegnato per la
regolarizzazione, tenuto conto della tipologia dei documenti mancanti (che
richiedono il semplice reperimento di dati su contratti svolti) e non
particolare impegno.
La sottolineatura dell'Anac introduce, quindi, anche l'esigenza che
nell'ambito della stessa stazione appaltante i vari responsabili adottino un
comportamento uniforme evitando quindi –laddove non sia oggettivamente
necessario– la concessione di termini diversi e/o addirittura ammettendo
proroghe non fondate su circostanza peculiari adeguatamente motivate
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 27.09.2018). |
QUESITI & PARERI |
APPALTI:
Dati componenti commissioni gara.
Domanda
Nella sezione del sito web istituzionale di Amministrazione Trasparente
vanno pubblicati i nomi dei componenti delle commissioni giudicatrici delle
procedure di affidamento di appalti pubblici?
Risposta
L’articolo 37 del Decreto Trasparenza (decreto legislativo 14.03.2013, n.
33), che riguarda la pubblicazione di dati e informazioni nella sotto
sezione di primo livello “Bandi di Gara e Contratti”, è stato
completamente riformulato dopo le modifiche introdotte dal d.lgs.
25.05.2016, n. 97, che dovevano essere applicate entro il 23.12.2016 (sei
mesi dall’entrata in vigore, fissata per il 23.06.2016).
Alcuni obblighi, già fissati dall’art. 1, comma 32, della legge Severino
(legge 06.11.2012, n. 190) sono rimasti inalterati, in particolare quelli
riguardanti l’elaborazione e la trasmissione all’ANAC (ex AVCP), entro il 31
gennaio di ogni anno, dei tracciati xml contenenti le informazioni sugli
affidamenti e sui loro CIG (Codici Identificativi di Gara).
Sono stati invece aggiunti –e richiamati– alcuni obblighi di pubblicazione
rintracciabili nell’ultimo Codice dei Contratti Pubblici (decreto
legislativo 50/2016), all’articolo 29, tra i quali ritroviamo proprio le
informazioni sulla composizione della commissione giudicatrice.
In particolare, sono assoggettati all’obbligo di pubblicazione non solo i
nominativi dei componenti della commissione giudicatrice, ma anche i loro
curricula.
Inoltre, sono da pubblicare (e aggiornare):
• tutti gli atti relativi alla programmazione di lavori e opere,
servizi, forniture, concorsi pubblici di progettazione, concorsi di idee,
concessioni, solo se non considerati riservati o secretati;
• i resoconti della gestione finanziaria dei contratti, al termine
della loro esecuzione.
Per approfondimenti in materia, si suggerisce di consultare anche le Linee
guida dell’Autorità (ANAC) approvate con deliberazione n. 1310 del
28.12.2016.
Quanto alle modalità da utilizzare per la pubblicazione degli atti, sono le
medesime che regolano la pubblicazione di tutti i dati e le informazioni
presenti nella sezione web di Amministrazione Trasparente, fissati dagli
articoli 6 e 9 del Decreto Trasparenza e dall’ormai celebre Allegato 2
(Documento tecnico sui criteri di qualità della pubblicazione dei dati) alla
deliberazione dell’Autorità (ex CIVIT) n. 50/2013 (30.10.2018 - tratto da e link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Assunzione
categorie protette extra quota d’obbligo.
Domanda
Il nostro comune vorrebbe assumere un istruttore tecnico appartenente alle
categorie protette. Pur non essendo soggetti all’obbligo, se assumessimo
questa figura, potrebbe comunque la spesa non rientrare nel limite della
media triennale?
Risposta
L’obbligo di assunzione di soggetti disabili, sancito dalla Legge n. 68/1999
e s.m.i., presuppone la scopertura della relativa quota di riserva calcolata
con riferimento alla quota prevista a regime per l’Ente.
Le assunzioni che non valgono come copertura della quota di riserva non
beneficiano dell’esclusione dai limiti di legge inerenti le spese di
personale.
Se non vi è scopertura, dato che l’ente non è obbligato ad assumere
disabili, sono necessari, da un lato il rispetto delle regole in materia di
contenimento delle spese di personale (media triennio 2011-2013), dall’altro
la disponibilità di facoltà assunzionale al fine di procedere all’assunzione
tramite concorso (o scorrimento di graduatoria valida), qualora le procedure
di mobilità si concludano con esito negativo (di norma: prima art. 34-bis,
poi art. 30 del TUPI)
(25.10.2018 - tratto da e link a www.publika.it). |
APPALTI: RUP
e scelta appaltatori.
Domanda
Nel nostro ente stiamo predisponendo il regolamento che disciplina le
acquisizioni di forniture, servizi e lavori nel sotto soglia comunitario ed
in particolare, più specificatamente, in relazione all’applicazione concreta
dell’articolo 36 del codice dei contratti.
Strutturando la disciplina della procedura negoziata semplificata, in
relazione alle forniture ed ai servizi, ci si è posti il problema
dell’interazione sul mercato elettronico in relazione alla scelta dei
soggetti da invitare al procedimento di gara.
Che tipo di criteri possono essere utilizzati?
Risposta
La questione della scelta degli appaltatori da invitare al procedimento di
gara, nel caso di acquisto dal mercato elettronico (sia il MEPA sia la
vetrina del soggetto aggregatore regionale) è stata oggetto di
considerazione anche da parte di recentissima giurisprudenza (in questo
senso il Consiglio di Stato, sentenza, n. 5833 del 10.10.2018).
La giurisprudenza, così come già l’ANAC (con le linee guida n. 4 in tema di
acquisizione nell’ambito sotto soglia comunitario e segnatamente in
relazione all’applicazione dell’articolo 36 del codice dei contratti),
evidenzia che la scelta degli appaltatori da invitare alla procedura
negoziata (e su cui innestare o gli inviti tradizionali o le RDO sul mercato
elettronico) deve avvenire previa indagine di mercato.
È chiaro poi che nell’avviso –anche “lanciato” sul MEPA– dovranno
essere specificati i criteri per la scelta degli appaltatori da invitare
alla competizione semplificata. Uno dei criteri, suggeriti anche dall’ANAC,
è quello del sorteggio che deve avvenire con modalità trasparenti e
tutelando l’anonimato degli appaltatori. Le stesse “dinamiche” delle
piattaforme dei soggetti aggregatori consentono di lanciare un “sorteggio”
anche tra tutti gli iscritti.
Sotto il profilo pratico, già nella determinazione che approva l’avviso
pubblico per avviare l’indagine di mercato il RUP dovrebbe indicare quali
siano i criteri che poi determinano la scelta degli appaltatori da invitare,
sempre fatto salvo che lo stesso responsabile unico del procedimento non
abbia suggerito al dirigente/responsabile del servizio di invitare tutti gli
appaltatori che abbiamo manifestato l’interesse ad essere invitati alla
competizione.
Ad ausilio del RUP sembra importante riportare alcuni passi della sentenza
citata (che, a margine di una complessa vicenda sulla negata possibilità di
ottenere finanziamenti ministeriali che esigevano una procedura di gara
trasparente ed oggettiva, ha respinto il ricorso del comune proprio perché
era stata omessa l’indagine di mercato con la previa fissazione dei criteri
di scelta degli appaltatori da invitare) in cui si legge:
• le stesse Linee Guida n. 4 dell’ANAC, approvate dal Consiglio
dell’Autorità con delibera n. 1097 del 26.10.2016 e aggiornate al d.lgs. n.
56 del 19.04.2017 con la delibera n. 206 del 01.03.2018, hanno chiarito, al
punto 5.1.1., lett. c), che le stazioni appaltanti possano dotarsi, nel
rispetto del proprio ordinamento, di un regolamento in cui vengano
disciplinati, tra gli altri, i criterî di scelta dei soggetti da invitare a
presentare offerta a seguito di indagine di mercato o attingendo all’elenco
degli operatori economici propri o da quelli presenti nel mercato
elettronico delle pp.aa. o altri strumenti similari gestiti dalle centrali
di committenza di riferimento;
• l’opportunità di indicare almeno tali criterî risponde
all’esigenza di evitare che il ricorso al mercato elettronico, sia esso
facoltativo o, come in questo caso, obbligatorio per le stazioni appaltanti,
si presti comunque a facili elusioni della concorrenza, poiché la stazione
appaltante deve selezionare, in modo non discriminatorio, gli operatori da
invitare, in numero proporzionato all’importo e alla rilevanza del contratto
e, comunque, in numero almeno pari a cinque, sulla base dei criterî definiti
nella determina a contrarre ovvero nell’atto equivalente;
•in questo modo si intende evitare che anche il ricorso a cataloghi del
mercato elettronico o standardizzati, in uso presso le stazioni appaltanti,
presti il fianco all’aggiramento dei principî atti ad assicurare
imparzialità, trasparenza, e par condicio tra gli operatori
economici, quando pure qualificati e iscritti in detti elenchi, con la
scelta di eventuali operatori “graditi” da invitare finanche in tali
elenchi
(24.10.2018 - tratto da e link a www.publika.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: rettifica di un permesso di abitabilità rilasciato nel 1972 –
presupposti – parere (Legali Associati per Celva,
nota 23.10.2018 - tratto da www.celva.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso
civico e controinteressati.
Domanda
A fronte di una richiesta di
accesso civico “semplice” è necessario informare gli eventuali
controinteressati, dando loro la possibilità di presentare opposizione ed
eventuali osservazioni?
Risposta
Il quesito trova risposta in un inciso contenuto nell’art. 5, comma 5, del
d.lgs. 14.03.2013, n. 33, come modificato dal d.lgs. 25.05.2016, n. 97,
laddove è disciplinato principalmente il diverso istituto dell’accesso
civico “generalizzato”.
La suddetta disposizione prevede, infatti, che “fatti salvi i casi di
pubblicazione obbligatoria, l’amministrazione cui è indirizzata la richiesta
di accesso, se individua soggetti controinteressati, ai sensi dell’articolo
5 bis, comma 2, è tenuta a dare comunicazione agli stessi, mediante invio di
copia con raccomandata con avviso di ricevimento, o per via telematica per
coloro che abbiano consentito tale forma di comunicazione. Entro 10 giorni
dalla ricezione della comunicazione, i controinteressati possono presentare
una motivata opposizione, anche per via telematica, alla richiesta di
accesso”.
È, pertanto, escluso, in caso di domanda di accesso civico “semplice”,
l’obbligo di instaurazione del contraddittorio con alcun soggetto terzo,
diversamente da quanto previsto per l’accesso civico sancito al secondo
comma, dell’art. 5, nonché per l’accesso documentale disciplinato dalle
norme sul procedimento amministrativo – legge 07.08.1990, n. 241.
Il Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza, al
quale deve essere inviata la richiesta, è tenuto a pronunciarsi su di essa
entro trenta giorni, pubblicando il documento o l’informazione richiesta sul
proprio sito e contestualmente comunicando l’avvenuta pubblicazione al
richiedente, o allegando il documento richiesto, più semplicemente,
indicando il relativo collegamento ipertestuale utile per reperire quanto
richiesto sul web.
L’unica verifica spettante al RPCT è quella di appurare se l’Ente abbia
correttamente adempiuto all’obbligo di legge. Alcuna valutazione, alcun
bilanciamento di interessi privati e pubblici in gioco deve essere
effettuata; questa è, infatti, operata a monte dal legislatore il quale,
coerentemente, non ha previsto alcun obbligo di coinvolgimento di soggetti
controinteressati (potenzialmente idonei ad essere lesi nel loro diritto
alla riservatezza), ed ha, altresì, stabilito che la richiesta di accesso
civico non debba essere motivata.
L’istituto, d’altronde, costituisce un mero rimedio alla mancata osservanza
degli obblighi di pubblicazione imposti dalla legge (tanto dal d.lgs.
33/2013 quanto dalla altre disposizioni di settore), e sovrappone al dovere
pubblicistico ricadente sulle pubbliche amministrazioni, il diritto del
privato di accedere agli atti, dati e informazioni interessati
dall’inadempienza.
A diverso regime sono, invece, sottoposte le istanze di accesso civico “generalizzato”
–istituto finalizzato ad assicurare al cittadino un controllo “sociale”
sull’azione amministrativa e la verifica sul rispetto dei canoni
dell’imparzialità e della trasparenza– aventi ad oggetto dati e documenti
relativi a (o contenenti) dati personali.
In questo caso l’Ente, come disposto dall’Autorità Nazionale Anticorruzione,
con la delibera n. 1309, del 28.12.2016, di approvazione delle “Linee
Guida recanti indicazioni operative ai fini della definizione delle
esclusioni e dei limiti all’accesso civico di cui all’art. 5 co.2 del d.lgs.
33/2013”, deve valutare “se la conoscenza di da parte di chiunque del
dato personale richiesto arreca (o possa arrecare) un pregiudizio concreto
alla protezione dei dati personali, in conformità alla disciplina
legislativa in materia”. E per far ciò deve interpellare eventuali
soggetti controinteressati invitandoli a presentare osservazioni e
l’eventuale opposizione all’ostensione del documento o delle informazioni.
Tutte le anzidette considerazioni trovano conferma nella circolare n. 2/2017
del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, avente ad
oggetto “Attuazione delle norme sull’accesso civico generalizzato (c.d. FOIA)”,
laddove al punto 6 è stabilito che “L’art. 5, comma 5, d.lgs. n. 33/2013
prevede che, per ciascuna domanda di accesso generalizzato l’amministrazione
debba verificare l’eventuale esistenza di controinteressati. Invece questa
verifica non è necessaria quando la richiesta di accesso civico abbia ad
oggetto dati la cui pubblicazione è prevista dalla legge come obbligatoria”
(23.10.2018 - tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO:
Orario
giornaliero e pausa.
Domanda
Nel nostro ente l’orario di lavoro di alcuni dipendenti in qualche giorno
supera le 6 ore continuative senza pausa e rientro pomeridiano (ad esempio:
ore 6.30’ o 7.12’ continuative).
Alla luce di quanto stabilito dall’art. 26 del nuovo CCNL Funzioni Locali,
oltre le 6 ore di prestazione lavorativa va comunque prevista una pausa
della durata di almeno 30 minuti.
Risposta
Le fonti del diritto che disciplinano la pausa sono l’art. 8 del d.lgs.
66/2003 e gli artt. 22 e 26 del CCNL del 21.05.2018.
La disciplina legale demanda alla contrattazione collettiva il compito di
fissare le modalità di fruizione e la durata della pausa obbligatoria:
quella cioè che deve essere fruita dal lavoratore qualora l’orario di lavoro
giornaliero ecceda le 6 ore.
L’art. 8, comma 2, del d.lgs. 66/2003 precisa che, in difetto di disciplina
collettiva, la durata della pausa è determinata in un periodo non inferiore
a dieci minuti e questa è stata la norma che ha guidato il comportamento
degli enti in relazione alla pausa, sino alla stipula del contratto del 21
maggio scorso.
La disciplina contrattuale, in esecuzione della previsione di legge,
definisce all’art. 22, comma 7, il diritto alla pausa come un diritto
indisponibile e fissa in 30 minuti la durata della pausa obbligatoria,
declinando così il “dovere” di prevederla e rinviando all’art. 26 per
la disciplina di dettaglio.
Da ultimo, l’art. 26 precisa che, qualora la prestazione di lavoro
giornaliera ecceda le sei ore, il personale, purché non in turno, ha diritto
a beneficiare di una pausa di almeno 30 minuti.
La pausa non è considerata orario di lavoro e perciò non è retribuita e va
rilevata con il cartellino segnatempo dal lavoratore.
La modalità con la quale la pausa deve essere fruita, è identica in entrambe
le ipotesi di articolazione di orario di lavoro prospettate.
Il principio da rispettare è quello di prevedere una pausa obbligatoria,
dopo le 6 ore continuative di lavoro.
Pertanto, nel caso in cui l’orario di lavoro sia di 7,12 ore, al trascorrere
del termine della sesta ora, il lavoratore deve fermarsi per almeno 30
minuti.
Allo stesso modo occorre comportarsi in caso di lavoro straordinario.
La pausa è rivolta infatti al recupero delle energie psicofisiche del
lavoratore e per questa ragione deve considerarsi alla stregua di un diritto
indisponibile.
Il legislatore non ha indicato un perimetro temporale di tolleranza
pertanto, un orario di lavoro di 7ore e 12 minuti continuativi non può più
dirsi conforme alle disposizioni contrattuali, così come una frazione di
tempo superiore alle 6 ore, lavorata ininterrottamente.
Le ipotesi che derogano all’obbligo di rispettare la pausa sono quelle
indicate nel contratto all’art. 26, comma 4, quando cioè il lavoratore stia
svolgendo attività obbligatoria per legge (18.10.2018 - tratto da e
link a www.publika.it). |
APPALTI:
Gare telematiche.
Domanda
Sono un funzionario del settore tecnico di un comune non capoluogo di
provincia e vorrei sapere se è confermato l’obbligo delle gare telematiche
per l’appalto di lavori pubblici a partire dal 18.10.2018.
Risposta
L’art. 40 del codice dei contratti rubricato “Obbligo di uso dei mezzi di
comunicazione elettronici nello svolgimento di procedure di aggiudicazione”
stabilisce: “1. Le comunicazioni e gli scambi di informazioni nell’ambito
delle procedure di cui al presente codice svolte da centrali di committenza
sono eseguiti utilizzando mezzi di comunicazione elettronici ai sensi
dell’articolo 5-bis del decreto legislativo 07.03.2005, n. 82, Codice
dell’amministrazione digitale.
2. A decorrere dal 18.10.2018, le comunicazioni e gli scambi di informazioni
nell’ambito delle procedure di cui al presente codice svolte dalle stazioni
appaltanti sono eseguiti utilizzando mezzi di comunicazione elettronici“.
L’obiettivo del legislatore nazionale e comunitario è quello di garantire la
segretezza e l’immodificabilità delle offerte nelle procedure di
affidamento, attraverso l’introduzione obbligatoria dei mezzi di
comunicazione elettronici, in particolare mediante l’utilizzo delle
piattaforme telematiche di negoziazione per tutti gli approvvigionamenti.
Pertanto, a decorrere dal 18.10.2018 il comune potrà procedere agli acquisti
di forniture e servizi sotto soglia comunitaria utilizzando il Mepa, oppure
–ad esempio in Lombardia e Veneto– la piattaforma telematica di negoziazione
denominata Sintel (di Arca Regione Lombardia resa disponibile anche per gli
enti del Veneto.)
Analogamente, per l’affidamento di lavori pubblici inferiori a 150.000 euro
nel caso di manutenzione straordinaria, ovvero inferiori ad 1.000.000 euro
nel caso di manutenzione ordinaria, l’ente potrà utilizzare il Mepa o la
piattaforma Sintel (17.10.2018 - tratto da e link a www.publika.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Registro
degli accessi.
Domanda
A un corso di formazione ci è stato detto che dobbiamo tenere un unico
registro per gli accessi agli atti del comune. Ci potete confermare se la
questione è vera e quale è la norma di riferimento?
Risposta
Con l’introduzione nella legislazione italiana, del FOIA (Freedom Of
Information Act – legge sulla libertà di informazione), avvenuta con gli
articoli 5, comma 2 e 5-bis, del d.lgs. 33/2013, nel testo introdotto
dall’art. 6, del d.lgs. 25.05.2016, n. 97, le forme di accesso agli atti
delle pubbliche amministrazioni si possono effettuare con tre tipologie,
secondo le seguenti definizioni:
a) per accesso documentale, si intende l’accesso disciplinato dal
capo V, articoli da 22 a 28, della legge 241/1990;
b) per accesso civico, si intende l’accesso di cui all’art. 5,
comma 1, del decreto trasparenza (d.lgs. 33/2013), ai documenti oggetto
degli obblighi di pubblicazione;
c) per accesso generalizzato, si intende l’accesso di cui all’art.
5, comma 2, del decreto trasparenza.
Per ogni tipologia di accesso, l’ente è tenuto a predisporre un’apposita
modulistica, che deve trovare collocazione nel sito web istituzionale alla
sessione: Amministrazione trasparente > Altri contenuti > Accesso civico.
Per ciò che riguarda gli accessi della legge 241/1990 e quelli dell’accesso
civico generalizzato (FOIA), l’istanza va indirizzata al responsabile
dell’ufficio che detiene, l’atto o il documento per il quale si intende
effettuare l’accesso. Per le richieste di accesso civico “semplice”
(art. 5, comma 1), invece, la richiesta va indirizzata direttamente al
responsabile della trasparenza, nominato nell’ente, così come previsto
all’art. 5, comma 3, lettera d) del d.lgs. 33/2013.
Come espressamente stabilito nell’articolo 5-bis, comma 6, del d.lgs.
33/2013, l’ANAC doveva adottare delle apposite Linee guida, recanti
indicazioni operative, d’intesa con il Garante per la protezione dei dati
personali (Garante Privacy) e sentita la Conferenza unificata dell’art. 8,
d.lgs. 281/1997.
L’ANAC ha provveduto a ciò, approvando la deliberazione n. 1309 del
28.12.2016, avente per oggetto: Linee guida recanti indicazioni operative ai
fini della definizione delle esclusioni e dei limiti all’accesso civico di
cui all’art.
5, co. 2, del d.lgs. 33/2013.
Al Paragrafo 9, lettera c) delle citate Linee guida, viene previsto quanto
segue: “c) sia istituito presso ogni amministrazione un registro delle
richieste di accesso presentate (per tutte le tipologie di accesso)”.
Anche se l’obbligo, dunque, non è previsto in alcuna disposizione
legislativa, a nostro giudizio, l’adempimento va comunque eseguito, in
quanto stabilito nelle Linee guida dell’ANAC, adottate a seguito di uno
specifico rimando normativo. Nella disciplina interna (di solito si adotta
un regolamento comunale), è bene che venga identificata la struttura
(ufficio/servizio) che avrà il compito di istituire il registro e di tenerlo
costantemente aggiornato, nonché le modalità di trasferimento delle
informazioni dai singoli uffici verso la struttura deputata alla tenuta del
registro (16.10.2018 - tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Regole per assumere 110, comma 1, nell’unione.
Domanda
Quali sono le regole essenziali per assumere attraverso l’istituto dell’art.
110, comma 1, del d.lgs. 267/2000, in un’unione di comuni?
Risposta
Con riferimento alla richiesta in merito all’assunzione da parte di
un’unione di un dipendente ex art. 110, comma 1, del d.lgs. 267/2000,
riportiamo di seguito alcune considerazioni:
1. trattandosi di incarico in dotazione organica il posto deve
essere previsto nella stessa;
2. per poterlo prevedere l’ente deve dimostrare di rispettare tutti
i limiti vigenti in materia di risorse umane e nello specifico:
• gli incarichi ex art. 110 rientrano sicuramente
nella norma di contenimento della spesa di personale (comma 557 o comma 562
della l. 296/2009) e, quindi, l’ente deve avere il margine per tale
assunzione. Ricordiamo, che la spesa di personale dell’unione deve comunque
trovare spazio nei limiti delle spese di personale dei comuni che
partecipano all’unione medesima. Quindi, per poter proceder all’assunzione è
necessario verificare se la maggior spesa dell’art. 110 permette a tutti gli
enti e all’unione di rispettare le norme sopra richiamate;
• gli incarichi ex art. 110, comma 1, non
rientrano nel limite del lavoro flessibile in quanto esplicitamente esclusi
dallo stesso art. 9, comma 28, del d.l. 78/2010;
• gli incarichi ex art. 110, comma 1, essendo
temporanei non assorbono capacità assunzionale per assunzioni a tempo
indeterminato;
• se all’incaricato viene corrisposta la
retribuzione di posizione o l’assegno ad personam di cui al comma 3,
questi rientrano, a nostro parere e nonostante il parere contrario di alcune
sezioni regionali della Corte dei Conti, nel limite del trattamento
accessorio di cui all’art. 23, comma 2, del d.lgs. 75/2017 (se non in quello
dell’unione in quello dei comuni aderenti) (11.10.2018 - tratto da e
link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - SEGRETARI COMUNALI:
Verbalizzazione delle sedute del consiglio comunale.
Il verbale ha l’onere di attestare il compimento dei
fatti svoltisi al fine di verificare il corretto iter di formazione della
volontà collegiale e di permettere il controllo delle attività svolte, non
avendo al riguardo alcuna rilevanza l’eventuale difetto di una minuziosa
descrizione delle singole attività compiute o delle singole opinioni
espresse.
Il Comune chiede un parere in materia di verbalizzazione delle sedute del
consiglio comunale. Più in particolare, desidera sapere se un consigliere
possa pretendere la verbalizzazione di alcune dichiarazioni rese dal sindaco
nel corso di una seduta assembleare.
In via generale, si ricorda che il verbale, quale atto giuridico
annoverabile nella più ampia categoria degli atti certificativi, è un
documento finalizzato alla descrizione di atti e/o fatti rilevanti per il
diritto, compiuti alla presenza di un soggetto verbalizzante, al fine di
garantire la certezza della descrizione degli accadimenti constatati,
documentandone l’esistenza [1].
Il decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 recante “Testo unico
sull’ordinamento degli enti locali” non contiene norme specifiche sulle
modalità di redazione del verbale delle sedute degli organi collegiali
dell’ente locale o circa i suoi contenuti. Uniche norme di riferimento sono
l’articolo 97, comma 4, lett. a), che, nell’individuare le funzioni del
segretario comunale ne indica anche la partecipazione con funzioni
consultive, referenti e di assistenza alle riunioni del consiglio e della
giunta e prevede che egli curi la verbalizzazione delle stesse, nonché
l’articolo 38, comma 2, TUEL che rimanda al regolamento sul funzionamento
dei consigli, nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto, la disciplina
del funzionamento del consiglio nel cui alveo si ritiene debba
ricomprendersi anche la parte sulla verbalizzazione delle sedute consiliari.
Circa la funzione ed i contenuti del verbale assembleare certa dottrina
[2] ha affermato che il
verbale della seduta di un organo collegiale “rappresenta la «memoria» di
quanto è accaduto e documenta i fatti salienti della seduta”.
Anche la giurisprudenza, intervenuta sull’argomento, ha affermato che: “Il
verbale ha l’onere di attestare il compimento dei fatti svoltisi al fine di
verificare il corretto iter di formazione della volontà collegiale e di
permettere il controllo delle attività svolte, non avendo al riguardo alcuna
rilevanza l’eventuale difetto di una minuziosa descrizione delle singole
attività compiute o delle singole opinioni espresse”
[3].
Da quanto sopra, ed al fine di fornire una risposta al quesito posto, emerge
che per individuare i contenuti di un verbale è necessario, in primis,
analizzare le disposizioni, eventualmente esistenti sull’argomento, del
regolamento sul funzionamento del consiglio del Comune e, in subordine,
avvalersi dei principi elaborati in sede giurisprudenziale e dottrinale al
riguardo.
Il regolamento dell’Ente al Titolo VIII, “Verbali delle adunanze del
Consiglio Comunale”, articolo 41, rubricato “I verbali delle
deliberazioni: contenuto” prevede, al comma 1, che il verbale debba
contenere una serie di indicazioni. Tra queste, per quel che rileva in
questa sede, si riporta quella di cui alla lett. i) secondo cui il verbale
deve contenere “le principali argomentazioni emerse dal dibattito con una
verbalizzazione integrale dell’intervento, qualora richiesto esplicitamente
da un consigliere”.
La prima parte della disposizione citata pare essere esplicativa dei
principi espressi da dottrina e giurisprudenza sull’argomento ovverosia che,
tendenzialmente, non tutti gli atti o fatti devono essere necessariamente
documentati nel verbale, ma solo quelli che, secondo un criterio di
ragionevole individuazione, assumono rilevanza proprio in relazione alle
finalità cui l’attività di verbalizzazione è preposta.
Circa la seconda parte della disposizione citata, ove si prevede l’obbligo
della verbalizzazione integrale dell’intervento, qualora richiesto
esplicitamente da un consigliere, si evidenzia la necessità di procedere
all’interpretazione della disposizione suddetta, atteso che essa potrebbe
essere intesa nel senso che un consigliere può esplicitamente richiedere la
verbalizzazione integrale del proprio intervento oppure, in un senso più
ampio, richiedere, sempre esplicitamente, la verbalizzazione integrale anche
di interventi di altri consiglieri o del sindaco stesso.
Al riguardo, si ricorda che l’interpretazione delle norme sul funzionamento
del consiglio comunale compete unicamente all’organo che le ha elaborate,
quindi allo stesso organo consiliare.
Ciò premesso, a meri fini collaborativi, si rileva che, ad avviso di questo
Ufficio, tale disposizione sembrerebbe doversi intendere nel senso che un
consigliere possa esplicitamente richiedere la verbalizzazione integrale
soltanto del proprio intervento.
Ciò parrebbe porsi in linea con il principio che sembra desumersi da alcune
disposizioni normative, riguardanti l’ambito civilistico, e precisamente
afferenti il contenuto dei verbali, rispettivamente delle assemblee
condominiali [4]
e delle società per azioni [5],
le quali prevedono la possibilità di riproposizione nel verbale delle sole
dichiarazioni rese dal richiedente la stessa [6].
Fermo quanto sopra si ribadisce ad ogni modo che compete esclusivamente al
consiglio comunale interpretare la disposizione regolamentare in argomento,
eventualmente anche nel senso di ritenere possibile che la richiesta di
verbalizzazione integrale riguardi altresì interventi di altri consiglieri o
del sindaco stesso.
---------------
[1] In questi termini, si veda Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del
18.07.2018, n. 4373.
[2] R. Chieppa, R. Giovagnoli, “Manuale di diritto amministrativo”, 2011,
Giuffré editore, pag. 453.
[3] Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 25.07.2001, n. 4074. Nello
stesso senso, Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza del 02.03.2001, n. 1189
e TAR Lazio–Roma, sez. I, sentenza del 12.03.2001, n. 1835. Si veda, anche,
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza del 14.04.2008, n. 1575 ove si afferma
che: “Si deve ritenere che nell’ambito dell’attività amministrativa, il
verbale non necessariamente debba contenere la descrizione minuta di ogni
singola modalità di svolgimento dell’azione (finendo ciò per appesantire
notevolmente la funzione verbalizzatrice senza una seria giustificazione),
ma debba riportarne solo gli aspetti salienti e significativi, dovendosi
configurare come tali, in particolare, quelli necessari per consentire la
verifica della correttezza delle operazioni eseguite dall’organo
collegiale”.
[4] In particolare, l’articolo 1130 c.c. (come sostituito dall’articolo 10,
comma 1, della legge 11.12.2012, n. 220), al primo comma, num. 7) prevede
che: “L’amministratore, oltre a quanto previsto dall’articolo 1129 e dalle
vigenti disposizioni di legge, deve: curare la tenuta del registro dei
verbali delle assemblee, del registro di nomina e revoca dell’amministratore
e del registro di contabilità. Nel registro dei verbali delle assemblee sono
altresì annotate: le eventuali mancate costituzioni dell’assemblea, le
deliberazioni nonché le brevi dichiarazioni rese dai condomini che ne hanno
fatto richiesta; […]”.
[5] L’articolo 2375, primo comma, del codice civile recita: “Le
deliberazioni dell'assemblea devono constare da verbale sottoscritto dal
presidente e dal segretario o dal notaio. Il verbale deve indicare la data
dell'assemblea e, anche in allegato, l'identità dei partecipanti e il
capitale rappresentato da ciascuno; deve altresì indicare le modalità e il
risultato delle votazioni e deve consentire, anche per allegato,
l'identificazione dei soci favorevoli, astenuti o dissenzienti. Nel verbale
devono essere riassunte, su richiesta dei soci, le loro dichiarazioni
pertinenti all'ordine del giorno.”.
[6] Benché riguardanti l’ambito civilistico, e non amministrativo, si tratta
pur sempre di norme pertinenti il contenuto del verbale la cui natura
giuridica non muta nei due ambiti del diritto (10.10.2018 - link
a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
APPALTI:
Corrispondenza tra oggetto sociale CCIAA e prestazione in appalto.
Domanda
In sede di predisposizione della documentazione di gara, ed in particolare
nel disciplinare, è necessario richiedere, ai fini dell’ammissione, che
l’operatore sia iscritto nel registro camerale per lo specifico e
dettagliato oggetto della prestazione in appalto?
Risposta
Ai sensi dell’art. 83, commi 1, lett. a) e 3, del d.lgs. 50/2016
l’iscrizione nel registro della camera di commercio, industria, artigianato
e agricoltura o nel registro delle commissioni provinciali per l’artigianato
o presso i competenti ordini professionali, costituisce un requisito di
idoneità professionale per la partecipazione alle procedure di gara,
finalizzata a filtrare l’ingresso dei soli concorrenti forniti di una
professionalità coerente con le prestazioni oggetto dell’affidamento
pubblico (vedasi C.d.S. sez. III, 08.11.2017 n. 5170 e TAR Lazio Roma sez.
II-ter 09.08.2018 n. 8948).
Dalla lettura delle sentenze emerge come non sia necessaria una congruenza
contenutistica assoluta tra le risultanze descrittive del certificato
camerale, come desumibili dall’attività e dall’oggetto sociale, e le
prestazioni dedotte in contratto, bensì una rispondenza globale e
complessiva.
Dello stesso avviso anche l’ANAC, che nel Bando-tipo n. 1/2017 – Schema di
disciplinare di gara nelle procedure per forniture e servizi nei settori
ordinari, al punto 7.1 Requisiti di idoneità, in particolare, con
riferimento all’iscrizione camerale, prevede: “a) Iscrizione nel registro
tenuto dalla Camera di commercio industria, artigianato e agricoltura oppure
nel registro delle commissioni provinciali per l’artigianato per attività
coerenti con quelle oggetto della presente procedura di gara”.
Sui requisiti di idoneità si segnala la deliberazione n. 767 del 05.09.2018
dell’Autorità di chiarimento del punto 7.1 del Bando – tipo n. 1: “la
previsione di cui al punto 7.1 lett. b) del Bando – tipo n. 1, che richiede
l’iscrizione a registri o albi, diversi da quelli della Camera di Commercio,
è da intendersi riferita sia ad abilitazioni specifiche ulteriori (ad. es.
Albo Nazionale Gestori Ambientali), sia all’iscrizione ad altri registri o
albi (ad es. registri regionali/provinciali del volontariato o al Registro
unico nazionale del Terzo settore), qualora la stazione appaltante, valutato
il relativo mercato di riferimento, preveda la partecipazione alla gara di
quei soggetti ai quali la legislazione vigente non imponga, per
l’espletamento dell’attività oggetto di gara, l’iscrizione alla Camera di
Commercio” (10.10.2018 - tratto da e link a www.publika.it). |
APPALTI:
Controlli prevenzione conflitto d’interessi.
Domanda
Siamo in fase di stesura del nuovo PTPCT; potreste darci qualche idea su
come poter disciplinare i controlli circa eventuali conflitti di interessi
in cui possano trovarsi i nostri dipendenti, per relazioni di parentela o
affinità con soggetti esterni all’amministrazione?
Risposta
L’art. 1, comma 9, lettera e), della legge 06.11.2012, n. 190, stabilisce
che il Piano triennale di prevenzione della corruzione e della trasparenza
delle amministrazioni, deve rispondere, fra le varie esigenze, anche a
quella di «definire le modalità di monitoraggio dei rapporti tra
l’amministrazione e i soggetti che con la stessa stipulano contratti o che
sono interessati a procedimenti di autorizzazione, concessione o erogazione
di vantaggi economici di qualunque genere, anche verificando eventuali
relazioni di parentela o affinità sussistenti tra i titolari, gli
amministratori, i soci e i dipendenti degli stessi soggetti e i dirigenti e
i dipendenti dell’amministrazione».
La verifica sulla sussistenza di relazioni civilistiche tra gli organi, o
anche solo dei dipendenti, delle P.A. e dei soggetti beneficiari degli atti
e dei provvedimenti sopra citati costituisce, quindi, una delle forme di
accertamento di eventuali situazioni di conflitto di interesse, sintomatiche
di una potenziale distorsione dell’attività amministrativa.
È auspicabile, pertanto, che i singoli PTPCT contengano una procedura
specifica che disciplini compiti, modalità e tempi del monitoraggio. Sul
punto l’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC), nel silenzio di norme e
regolamenti di dettaglio, si è espressa (orientamento n. 110 del 04.11.2014
e parere del 18.02.2015 reso all’Avvocatura generale dello Stato) affermando
che le amministrazioni hanno la facoltà di chiedere, anche ai soggetti con i
quali sono stati stipulati contratti o che risultano interessati dai
suddetti procedimenti, una dichiarazione in cui si attesti l’inesistenza di
rapporti di parentela o affinità con funzionari o dipendenti della p.a.;
ricadendo, poi, sulle stesse, il compito di verificare la sussistenza di
situazioni di conflitto di interesse ed, eventualmente, di adottare i
necessari provvedimenti per rimuoverla.
La dichiarazione, in ossequio alle disposizioni della legge 190/2012 e del
Piano Nazionale Anticorruzione 2013 –e successivi aggiornamenti– potrebbe
essere richiesta per le fattispecie negoziali o provvedimentali rientranti
nelle seguenti aree a rischio:
• scelta del contraente per l’affidamento di lavori, servizi e
forniture di beni;
• autorizzazioni e concessione;
• concessione di contributi, sussidi e vantaggi economici;
• altre fattispecie ad elevato rischio corruttivo previste nel
PTPCT.
Non essendo state previste modalità di verifica né dalla legislatore, né da
ANAC, si deduce che rientri nella discrezionalità delle amministrazioni
vigilare sulla fondatezza delle dichiarazioni ricevute, attraverso richieste
di informazioni, certificazioni da parte di altre amministrazioni, accesso
ad archivi pubblici.
Di tale funzione, potrebbero essere investiti i Dirigenti (o comunque i
responsabili degli uffici/settori dell’amministrazione), chiamati a
monitorare in stretta collaborazione con il Responsabile per la prevenzione
della corruzione e della trasparenza, le eventuali situazioni che possano
coinvolgere il personale incaricato.
La procedura del PTPCT potrebbe, altresì, prevedere, che i Dirigenti,
trasmettano annualmente al RPCT una relazione concernente l’esito delle
suesposte verifiche –nel rispetto delle norme che tutelano la riservatezza
dei dati personali dei soggetti coinvolti– evidenziando le possibili
situazioni di conflitto e le relative ipotesi di soluzione da concordare con
il Responsabile medesimo; ciò anche al fine di consentire a quest’ultimo di
avere ulteriori dati per eventuali modifiche ed integrazioni da apportare
alle misure di prevenzione previste, in materia, all’interno del Piano (09.10.2018
- tratto da e link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ La digitalizzazione della p.a. consente l’utilizzo delle moderne
tecnologie. Un diritto d’accesso 2.0. Ai consiglieri documenti in formato
elettronico.
In materia di diritto di accesso dei consiglieri comunali, è legittima
l'ostensione della documentazione amministrativa richiesta su supporto
digitale, o eventualmente indicando il link a cui accedere nella sezione
Amministrazione trasparente, in luogo del rilascio delle copie cartacee?
Il diritto di accesso dei consiglieri comunali deve essere esercitato in
modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali,
attraverso modalità che, ai sensi dell' art. 43 del dlgs n. 267/2000, sono
disciplinate dal regolamento dell'ente.
Inoltre, non deve sostanziarsi in
richieste assolutamente generiche ovvero meramente emulative, fermo restando
tuttavia che la sussistenza di tali condizioni deve essere attentamente e
approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre
surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto stesso (Consiglio di
stato, sez. V, n. 6963/2010).
La Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi, al fine di evitare che le continue richieste di accesso si
traducessero in un aggravio dell'ordinaria attività amministrativa dell'ente
locale, ha riconosciuto la possibilità, per il consigliere comunale, di
avere accesso diretto al sistema informatico interno, anche contabile, del
comune attraverso l'uso della password di servizio (cfr. parere del
29/11/2009). Anche il Tar Sardegna, con sentenza n. 29/2007, ha ritenuto che
«la notevole mole della documentazione da consegnare può, nel caso,
giustificare la distribuzione nel tempo del rilascio delle copie richieste».
Il Consiglio di stato ha, inoltre, affermato che, «qualora si tratti di
esibire documentazione complessa e voluminosa, appare, altresì, legittimo il
rilascio di supporti informatici al consigliere, o la trasmissione mediante
posta elettronica, in luogo delle copie cartacee» (v. Cds n. 6742/2007 del
28/12/2007).
Tale modalità è, peraltro, conforme alla vigente normativa in
materia di digitalizzazione della pubblica amministrazione (dlgs n. 82 del
07.03.2005) (articolo ItaliaOggi del 05.10.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Progressioni, assegno ad personam e rinnovi contrattuali.
Domanda
Nel nostro ente sono state effettuate delle progressioni verticali nell’anno
2009. Ai dipendenti che hanno beneficiato della progressione deve essere
mantenuto l’assegno ad personam, calcolato sulla differenza della
posizione economica di provenienza e quella iniziale della categoria
superiore o deve essere rideterminato sulla base dei nuovi valori degli
stipendi tabellari contenuti nel contratto sottoscritto in data 21.05.2018?
Risposta
In base all’art. 15, comma 2, del CCNL del 31.03.1999, disapplicato
dall’art. 9 del CCNL del 09.05.2006, l’assegno ad personam può essere
riassorbito solo a seguito di una progressione economica orizzontale nella
nuova categoria acquisita per progressione verticale [1].
Di conseguenza, una volta attribuito detto assegno, non è necessario
effettuare riproporzionamenti del medesimo per effetto dei nuovi contratti
collettivi che accrescano il valore dello stipendio tabellare.
Si aggiunge che tale garanzia per il lavoratore in progressione verticale è
venuta meno a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. 150/2009 che, avendo
abrogato l’istituto, ammetteva solo il concorso pubblico per il passaggio ad
una categoria superiore.
Il contratto del 2018, all’art. 12, commi 8 e 10, ha però riammesso la
garanzia in parola nel caso di applicazione dell’art. 22, comma 15, del
d.lgs. 75/2017 ossia delle nuove progressioni verticali limitate al triennio
2018-2020 [2].
-----------------
[1] Vedasi in proposito
parere Aran
[2] “Per il triennio 2018-2020, le pubbliche amministrazioni, al fine di
valorizzare le professionalità interne, possono attivare, nei limiti delle
vigenti facoltà assunzionali, procedure selettive per la progressione tra le
aree riservate al personale di ruolo, fermo restando il possesso dei titoli
di studio richiesti per l’accesso dall’esterno. Il numero di posti per tali
procedure selettive riservate non può superare il 20 per cento di quelli
previsti nei piani dei fabbisogni come nuove assunzioni consentite per la
relativa area o categoria. In ogni caso, l’attivazione di dette procedure
selettive riservate determina, in relazione al numero di posti individuati,
la corrispondente riduzione della percentuale di riserva di posti destinata
al personale interno, utilizzabile da ogni amministrazione ai fini delle
progressioni tra le aree di cui all’articolo 52 del decreto legislativo n.
165 del 2001. Tali procedure selettive prevedono prove volte ad accertare la
capacità dei candidati di utilizzare e applicare nozioni teoriche per la
soluzione di problemi specifici e casi concreti. La valutazione positiva
conseguita dal dipendente per almeno tre anni, l’attività svolta e i
risultati conseguiti, nonché l’eventuale superamento di precedenti procedure
selettive, costituiscono titoli rilevanti ai fini dell’attribuzione dei
posti riservati per l’accesso all’area superiore” (04.10.2018 -
tratto da e link a www.publika.it). |
APPALTI:
Condizioni e competenza per non aggiudicazione appalto.
Domanda
Siamo in fase di aggiudicazione dell’appalto e la commissione, valutato il
progetto presentato dagli offerenti ed aperti i plichi delle offerte
economiche, ha predisposto la graduatoria prevedendo l’assegnazione
dell’appalto. Il RUP, in fase di verifica degli atti della procedura,
ritiene che la proposta economica dell’aggiudicatario non risulti adeguata
ritenendo –sulla base di dati raccolti durante alcune indagini di mercato
svolte dalla stazione appaltante– che nel mercato sia possibile ottenere
condizioni economiche migliori. Giunti a questa fase (sostanzialmente di
aggiudicazione provvisoria) è possibile non procedere con l’aggiudicazione
della gara e, soprattutto, a chi compete adottare eventuali atti di revoca
del procedimento?
Risposta
La questione posta, peraltro abbastanza consueta, impone di rammentare che
il procedimento di gara non ha come finalità fisiologica l’aggiudicazione
visto che questa è solo eventuale. Del resto, così come il pregresso codice
degli appalti, l’attuale codice dei contratti prevede, ora, nell’articolo
95, comma 12, che “le stazioni appaltanti possono decidere di non
procedere all’aggiudicazione se nessuna offerta risulti conveniente o idonea
in relazione all’oggetto del contratto. Tale facoltà è indicata
espressamente nel bando di gara o nella lettera di invito”.
La fase del procedimento –secondo quanto indicato nel quesito– è quella
dell’ex aggiudicazione provvisoria ora solo proposta di aggiudicazione, che
pur non determinando autentici diritti soggettivi impone l’esigenza di
tutelare l’aspettativa di chi si trova al primo posto della graduatoria di “merito”.
Pertanto, eventuali decisioni di non proseguire con l’appalto deve essere
adottata in buona fede e rispetto degli interessi coinvolti.
La “revoca” della proposta di aggiudicazione, di per sé, non esige
particolari motivazioni ed in questo senso recentissima giurisprudenza (Tar
Abruzzo, Pescara, sez. I, sentenza n. 236/2018) ha ribadito che “l’unico
limite alla possibilità di esercitare un potere di revoca della procedura di
gara è costituito dall’avvenuta stipula del contratto (v. ad es. Cons. Stato
Sez. V, 28.10.2015, n. 4934 e Consiglio di Stato sez. III 29.07.2015 n.
3748), anche se, ovviamente, va tenuta distinta la fase anteriore
all’aggiudicazione definitiva dalla sussistenza di quest’ultima, che è
idonea a costituire un principio di affidamento in capo alla concorrente che
ne sia destinataria, così che, una volta intervenuta l’aggiudicazione
provvisoria non è richiesto un particolare onere motivazionale a sostegno
della revoca del procedimento (v. ad es. TAR Salerno, sez. I 04.12.2015 n.
2544), mentre dopo l’aggiudicazione definitiva e prima della stipula del
contratto, la revoca è pur sempre possibile, salvo un particolare e più
aggravato onere di motivazione (sulla revocabilità dell’aggiudicazione
provvisoria, vedasi ad es. Cons. Stato Sez. IV, 12.01.2016, n. 67)” (cfr.
Tar Lazio, 9543 del 2016)”.
Pertanto, la possibilità di non aggiudicare l’appalto –senza che sia
necessario parlare di revoca vera e propria (sempre se si è in fase di sola
proposta di aggiudicazione)– può ritenersi ammessa, a sommesso parere, anche
se nel bando non sia stata espressamente rimarcata questa possibilità sempre
che la stazione appaltante si comporti in perfetta buona fede.
La possibilità di non aggiudicare, quindi, può dipendere o dalla
inadeguatezza dell’offerta, rilevata anche successivamente da parte del RUP
che, in questo caso, dovrà però coinvolgere la commissione di gara
procedendo ad una sua riconvocazione affinché si possa ri-esprimere (in
tempi recentissimi, il Tar Lombardia, Brescia, sez. II, n. 906/2018) oppure
in relazione alla non convenienza economica.
In questo secondo caso, la competenza sulla “valutazione” è del RUP e
del dirigente/responsabile del servizio.
Ben chiaro, si ripete, che la motivazione sulla mancata aggiudicazione per
non convenienza economica dovrà essere chiarissima e reale (ad esempio
confrontando i dati relativi ad una indagine di mercato espletata in tempi
recenti, oppure anche attraverso il confronto con recenti aggiudicazioni di
appalti di altre stazioni appaltanti e similari).
Ulteriore possibilità di non procedere con l’aggiudicazione è data dal caso
di “ripensamento”, circostanza che può verificarsi se vengono meno
quelle condizioni che hanno indotto la stazione appaltante a procedere con
l’indizione della gara. Anche questa possibilità è di competenza del RUP e
del dirigente/responsabile del servizio.
Si pensi al caso di un appalto di lavori che poi si ritengono non più
necessari per sopravvenuti motivi tecnici.
Di recente il caso è stato anche trattato in giurisprudenza (sempre il Tar
Abruzzo, Pescara, sez. I, sentenza n. 236/2018) in cui la decisione del
dirigente responsabile del servizio di “non procedere all’aggiudicazione
definitiva” di lavori è stata motivata per il fatto che sono stati “ritenuti
più urgenti e improcrastinabili (…) lavori di risanamento sismico, (…)
valutati come incompatibili con l’esecuzione contemporanea di quelli oggetto
dell’appalto”. Evidentemente, si tratta di atti che devono essere
adottati sempre in presenza di adeguate motivazioni e soprattutto in
situazioni di correttezza/buona fede amministrativa da parte della stazione
appaltante.
Sempre nella sentenza appena citata si puntualizza che “la scelta di non
procedere all’aggiudicazione provvisoria non è tuttavia affatto parificata a
un atto di autotutela ma è condivisibilmente considerato in giurisprudenza
un evento del tutto fisiologico che non richiede un particolare onere
motivazionale né una comparazione dell’interesse pubblico con quello privato
né motivi di interesse pubblico particolarmente qualificati, essendo
sufficiente che vi siano ragioni che “sconsiglino” di procedere
all’aggiudicazione definitiva (cfr. Tar Lazio n. 14 del 2018)” (03.10.2018
- tratto da e link a www.publika.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
Compatibilità Responsabile privacy e Responsabile anticorruzione.
Domanda
Nell’ambito della procedura di adeguamento al nuovo Regolamento Europeo in
materia di protezione dei dati personali, il nostro comune ha nominato come
Data Protection Officer (DPO) / Responsabile della Protezione dei Dati (RPD)
il Segretario comunale che è, anche, Responsabile per la Prevenzione della
Corruzione e Trasparenza (RPCT). Le due cariche sono compatibili?
Risposta
La nomina del Data Protection Officer (DPO) / Responsabile della Protezione
dei Dati (RPD), nel vortice di adempimenti introdotti con scadenza
25.05.2018, è quella che più di tutti è stata ritenuta gravosa.
L’applicazione del nuovo Regolamento Europeo in materia di protezione dei
dati personali (GDPR 2016/679) è ispirato dal principio dell’accountability
(principio di responsabilità) che, appunto, evidenzia che la tutela degli
interessi fondamentali non può prescindere da un cambio di mentalità: gli
adempimenti richiesti non possono essere solo formali.
In questo caso specifico, la scelta e la successiva nomina del DPO/RPD deve
ricadere su un soggetto effettivamente dotato delle qualità professionali
imposte dall’art. 37 del GDPR e, in particolare, “della conoscenza
specialistica della normativa e delle prassi in materia di protezione dei
dati, e della capacità di assolvere i compiti di cui all’articolo 39”.
Pertanto, la nomina del DPO/RPD non può basarsi esclusivamente su criteri di
risparmio di spesa, ma deve concentrarsi sulla verifica e sul successivo
mantenimento delle elevate competenze richieste dal GDPR.
Deve, inoltre, essere tenuta in debito conto anche la necessaria
indipendenza che deve caratterizzare questa figura: occorre quindi
verificare attentamente che non sussistano situazioni di conflitto di
interesse.
In base all’art. 38, par. 6, del GDPR, il titolare del trattamento o il
responsabile del trattamento devono quindi assicurarsi (non solo in fase di
individuazione e nomina del DPO, ma durante tutta la sua attività) che gli
altri compiti e funzioni eventualmente svolti da chi è nominato come DPO non
diano adito a un conflitto di interessi: i compiti svolti dal DPO non devono
confliggere con la protezione dei dati per conto del Titolare o del
Responsabile.
Una situazione di conflitto di interessi potrebbe, ad esempio, consistere
proprio nel fatto che il DPO possa trovarsi a dover controllare delle
situazioni da lui stesso determinate in cui, cioè, si trovi allo stesso
tempo ad essere controllore e controllato. Tali situazioni rendono
inefficace l’attività del DPO.
Ed è proprio questo il caso da Voi prospettato: la figura del Responsabile
per la Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (RPCT) è sostanzialmente
omologa al DPO, poiché la struttura normativa che sta alla base di entrambe
le cariche è quella che si occupa della prevenzione di un rischio: da un
lato, il GDPR, dall’altro, della disciplina anticorruzione.
Pertanto, per non incorrere in provvedimenti (anche sanzionatori) relativi a
nomine illegittime, si consiglia di procedere a nuova nomina, comunicando al
Garante la revoca dei dati trasmessi.
Sul sito web del Garante è possibile reperire il modello da impiegare a
questo indirizzo (02.10.2018 - tratto da e link a
www.publika.it). |
SEGRETARI COMUNALI:
Conflitto di interessi segretario comunale componente NDV.
Domanda
Nel nostro ente il segretario comunale riveste anche la carica di
responsabile della prevenzione della corruzione e trasparenza (RPCT), nonché
di presidente del nucleo di valutazione (NdV). Sussiste conflitto di
interessi tra le cariche?
Risposta
A tal proposito, occorre segnalare il recentissimo (14 giugno u.s.),
intervento del Presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC),
Raffaele Cantone, il quale ha presentato al Senato della Repubblica la
relazione sull’attività svolta dalla predetta Autorità nel corso del 2017.
La relazione, che ripercorre i punti più importanti sulle attività di
vigilanza e sui contratti svolte dall’ANAC, si sofferma, nella parte
relativa alle segnalazioni in materia di prevenzione della corruzione e
trasparenza, all’ipotesi di conflitto di interesse nei confronti del
Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza (RPCT)
nominato componente del Nucleo di Valutazione di enti locali.
L’Autorità ricorda che, con l’atto di segnalazione n. 1 del 24.01.2018,
aveva formulato alcune osservazioni in merito alla situazione di conflitto
di interesse conseguente all’ipotesi in cui il RPCT rivestisse il ruolo di
componente o di presidente del nucleo di valutazione di enti locali.
In particolare, nella relazione viene evidenziato che il segretario
comunale, cui spetta l’incarico di RPCT, è spesso anche componente del
nucleo di valutazione e tale cumulo dei due incarichi rappresenta una
situazione di conflitto di interesse , in analogia con il regime di
incompatibilità disciplinato dal decreto legislativo 27.10.2009, n. 150 (che
pone espressamente il divieto di nominare, quali componenti dell’organo
indipendenti di valutazione della performance (OIV), i dipendenti
dell’amministrazione stessa o coloro che rivestano incarichi politici e
sindacali).
Nella fattispecie sopra descritta, l’ANAC rileva che il segretario comunale
(nel ruolo di RPCT) si troverebbe nella veste di controllore e controllato,
in quanto, in qualità di componente del nucleo di valutazione, è tenuto ad
attestare l’assolvimento degli obblighi di pubblicazione, mentre in qualità
di responsabile per la trasparenza è tenuto a svolgere stabilmente
un’attività di controllo proprio sull’adempimento dei suddetti obblighi da
parte del’amministrazione, con conseguente responsabilità, ai sensi
dell’articolo 1, comma 12, della legge 190/2012, in caso di colpevole
omissione.
Alla luce delle considerazione sopra illustrate, l’ANAC auspica il più
presto possibile un intervento correttivo da parte del legislatore,
finalizzato ad integrare la disciplina normativa prevista dall’articolo 16
del decreto legislativo 27.10.2009, n. 150 con l’introduzione di specifiche
disposizioni in tema di incompatibilità dei componenti del nucleo di
valutazione, in analogia a quanto previsto dall’articolo 14 del predetto
decreto per la composizione degli OIV, con particolare riferimento
all’incarico di RPCT (27.09.2018 - tratto da e link a
www.publika.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Comune di Civitavecchia - rapporto tra le disposizioni di cui agli articoli
14-ter della 1. n. 241 del 1990 e 146 del d.lgs. n. 42 del 2004 - effetti
della mancata partecipazione del rappresentante del Ministero alle riunioni
della conferenza di servizi o della mancata espressione della relativa
posizione di competenza all'esito della ultima riunione - parere
(MIBAC, Ufficio Legislativo,
nota 27.09.2018 n. 23231
di prot.).
---------------
Si riscontra la nota di codesto Comune prot. 49442 del 05.06.2018, con la
quale si chiede se la mancata partecipazione del Ministero alle conferenze
di servizi, qualificandosi quale "assenza-assenso", possa comportare il
superamento dell'avviso negativo al rilascio dell'autorizzazione
paesaggistica ex art. 146 del codice di settore da parte dell'autorità
preposta (regione o comune subdelegato) in ragione della mancata conformità
dell'intervento proposto con le prescrizioni contenute nel Piano
paesaggistico regionale e se la determinazione favorevole della conferenza
di servizi possa sostituire l'autorizzazione paesaggistica, ove
l'amministrazione procedente si sia espressa negativamente e il Ministero
non abbia partecipato alla riunione e non abbia espresso alcun parere.
Al riguardo, si osserva quanto segue.
In primo luogo, onde evitare equivoci interpretativi, si precisa che
l'operatività dell'istituto del "silenzio-assenso", di cui all'art. 17-bis
della 1. n. 241 del 1990, all'interno del procedimento di autorizzazione
paesaggistica di cui all'art. 146 del codice di settore, è limitata alla
sola ipotesi di proposta positiva da parte dell'amministrazione procedente.
Infatti, il procedimento delineato dall'art. 146 del codice di settore, come
è noto, prevede ... (...continua). |
LAVORI
PUBBLICI:
OGGETTO: Comune di Valpelline – appalto dei lavori attinenti opere di
urbanizzazione primaria (acquedotto e fognatura) – articolazione in fasi
successive – configurabilità della fattispecie di modifica del contratto ex
art. 106, c. 1, lett. b), cod. app. – possibilità di riutilizzo del
risparmio conseguito in sede di gara – parere (Legali Associati per
Celva,
nota 24.09.2018 - tratto da www.celva.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: immobile edificato a distanza inferiore dai limiti di legge -
rilascio del permesso di costruire in sanatoria - doppia conformità –
necessità assenso del confinante – parere (Legali Associati per Celva,
nota 12.06.2018 - tratto da www.celva.it). |
CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Procedura negoziata senza
pubblicazione bando: escluso l’incentivo.
Al fine di erogare l’incentivo per funzioni tecniche è
necessario che le attività siano riferibili a contratti affidati mediante
una procedura di gara o, comunque, una procedura comparativa, seppur in
forma semplificata.
a) per l’attività astrattamente incentivabile
espletata sotto la vigenza della pregressa normativa di cui all’art. 93
d.lgs. 163/2016, è da escludere qualsiasi incentivazione considerato che la
norma appena richiamata si riferisce esclusivamente alle opere e lavori;
b) per l’attività astrattamente incentivabile che
ricade nel campo di applicazione della normativa vigente, rappresentata
dall’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016, l’incentivazione delle attività
tecniche è esclusa da un costante orientamento giurisprudenziale che, al
fine di erogare l’incentivo, richiede, da un lato, che vi sia
l’effettivo svolgimento di una delle attività elencate dalla norma di
riferimento e, dall’altro, che le suddette attività siano riferibili
a contratti affidati mediante una procedura di gara o, comunque, una
procedura comparativa, seppur in forma semplificata.
---------------
Il Sindaco del comune di Abetone Cutigliano (PT) ha inoltrato, per il
tramite del Consiglio delle Autonomie Locali, richiesta di parere ex art. 7,
comma 8, della l. n. 131/2003, avente ad oggetto gli oneri derivanti
dall’erogazione degli incentivi per funzioni tecniche.
In particolare, premesso che l’Ente:
- detiene il 51% del capitale sociale della Ximenes S.p.A. (società
a partecipazione pubblica in liquidazione), la quale ha provveduto ad
eseguire lavori di ristrutturazione ed ampliamento della seggiovia "Le
Regine Selletta", stipulando apposito contratto con la società di
leasing Mediocredito Italiano Spa per finanziare la realizzazione di detto
impianto di risalita;
- ha stabilito di procedere all’acquisto della parte
elettromeccanica dell'impianto di risalita "Le Regine - Selletta" e
relativi accessori per un importo lordo complessivo di circa due milioni di
euro (comprese le spese tecniche finalizzate alla verifica della conformità
della fornitura, nonché per la redazione di eventuali certificazioni,
collaudi tecnici ed amministrativi ecc., anche tramite l'eventuale
affidamento di incarichi esterni);
- risulta assegnatario del bando della Regione Toscana per
l’accesso degli enti locali al finanziamento per infrastrutture per il
turismo, soggetto a condizione sospensiva (completamento delle procedure di
acquisto entro il 31/12/2018);
premesso, altresì, che l’Ente:
- intende procedere all'acquisto mediante procedura negoziata senza
pubblicazione di un bando dell'impianto di risalita: dalla società Ximenes
Spa, secondo la procedura di cui all'art. 63, comma 3, lettera d), del
d.lgs. 50/2016 ovvero da Mediocredito Italiano Spa, secondo la procedura di
cui al comma 2, lettera b), del medesimo articolo, nel caso in cui i tempi
ed i modi del passaggio di proprietà da questa società a Ximenes Spa non
consentissero il rispetto dei termini per l'erogazione del contributo
regionale ottenuto dall'Ente;
- ha approvato il regolamento degli incentivi per le funzioni
tecniche in data 18.05.2018 ai sensi dell'art. 113 d.lgs. 50/2016, non
avendo fino a quella data una regolamentazione specifica.
Tutto ciò premesso, il Comune di Abetone Cutigliano formula una serie di
quesiti e, segnatamente:
a) se sia applicabile la norma di cui all'art. 113 d.lgs.
50/2016 o il previgente art. 93 d.lgs. 163/2016;
b) se, ritenuta applicabile da questa Sezione di controllo la
nuova normativa, siano dovuti gli incentivi per funzioni tecniche di cui
all'articolo 113 del d.lgs. 50/2016 trattandosi di bene già individuato,
ancorché trattasi di acquisto di beni di elevato valore, attraverso
procedura negoziata senza pubblicazione di un bando dell'impianto di
risalita ai sensi dell'art. 63, comma 3, lettera d), del d.lgs. 50/2016
oppure dell'articolo 63, comma 2, lettera b, del d.lgs. 50/2016);
c) se, ritenuta applicabile da questa Sezione di controllo e
ritenuti erogabili gli incentivi anche in assenza di procedure comparative,
sia comunque erogabile l'incentivo di cui all'art. 113 d.lgs. 50/2016 visto
che il regolamento per l'erogazione degli incentivi, conditio sine qua
non per attuare il riparto tra gli aventi diritto (secondo la
giurisprudenza di questa corte: Corte dei Conti: Sezione di controllo per la
Toscana,
parere 14.12.2017 n. 186) è stato approvato nel 2018 ed in
precedenza non c'era un regolamento sulle funzioni tecniche;
d) se, qualora questa Sezione di controllo ritenesse erogabile
l'incentivo per funzioni tecniche di cui all'articolo 113 del D.lgs.
50/2016, l'Ente, considerato che la programmazione dell'acquisto del bene è
stata avviata in data antecedente al 2016, debba provvedere a decurtare
dagli incentivi di cui trattasi una quota proporzionale relativa alla
programmazione della spesa avvenuta precedentemente all'approvazione del
regolamento disciplinante la corresponsione degli incentivi (avvenuto nel
2018) o preventiva all'entrata in vigore della norma.
...
2. Il quesito principale, ricostruito in termini astratti e generali,
concerne l’individuazione della normativa applicabile ad un contratto di
fornitura di un bene infungibile senza ricorso ad una procedura
concorrenziale, con specifico riferimento alle attività potenzialmente
incentivabili nell’ambito della procedura di acquisizione dello stesso;
ossia se a tali attività possa essere riconosciuto il compenso incentivante.
La risposta da dare al quesito è negativa per un duplice
ordine di motivi:
a) per l’attività astrattamente incentivabile
espletata sotto la vigenza della pregressa normativa di cui all’art. 93
d.lgs. 163/2016, è da escludere qualsiasi incentivazione considerato che la
norma appena richiamata si riferisce esclusivamente alle opere e lavori;
b) per l’attività astrattamente incentivabile che
ricade nel campo di applicazione della normativa vigente, rappresentata
dall’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016, l’incentivazione delle attività
tecniche è esclusa da un costante orientamento giurisprudenziale che, al
fine di erogare l’incentivo, richiede, da un lato, che vi sia
l’effettivo svolgimento di una delle attività elencate dalla norma di
riferimento e, dall’altro, che le suddette attività siano riferibili
a contratti affidati mediante una procedura di gara o, comunque, una
procedura comparativa, seppur in forma semplificata.
Gara che nelle fattispecie richiamate dall'art. 63, commi 2 e 3, manca.
Pertanto, ritenendo questa Sezione di non discostarsi dalla predetta
giurisprudenza, la risposta da dare ai primi due quesiti è
negativa, nel senso che non è possibile accantonare ed erogare incentivi
tecnici
(Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana,
parere 10.10.2018
n. 63). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: La
Corte rimette gli atti al Presidente della Corte
dei conti affinché valuti la possibilità di deferire la questione alla
Sezione delle Autonomie circa l’adozione di una pronuncia di orientamento al
fine di stabilire se gli incentivi per funzioni tecniche di cui all’articolo
113 d.l.vo n. 50/2016 spettino anche in relazione agli appalti di
manutenzione ordinaria o straordinaria.
---------------
Il Sig. Presidente della Provincia di Perugia, con nota
dell’11.07.2018, ha inoltrato una richiesta di parere, ex art. 7, comma 8,
della l. n. 131/2003, in merito al seguente quesito:
“Si chiede […] di conoscere l’avviso di codesta Sezione
sull’inclusione o esclusione delle attività tecniche di programmazione,
verifica, appalto, di responsabile unico del procedimento e direzione dei
lavori connesse con i lavori di manutenzione, ordinaria e straordinaria,
nella o dall’incentivazione prevista dall’art. 113 del D.lgs. n. 50/2016”.
La richiesta di parere è stata rivolta sulla base delle considerazioni che
seguono.
- “L'art. 113 (Incentivi per funzioni tecniche) del decreto
legislativo 18.04.2016, n. 50 dispone in merito agli incentivi per funzioni
tecniche stabilendo che "a valere sugli stanziamenti di cui al comma 1 le
amministrazioni pubbliche destinano a un apposito fondo risorse finanziarie
in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori
posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti pubblici
esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per
investimenti, per la verifica preventiva dei progetti di predisposizione e
di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti
pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori
ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero
di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per
consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di
gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti."
- Al successivo comma 3 dello stesso articolo è previsto che
l'ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi
del comma 2 è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura
con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata
integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle
amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti"
- l'articolo 93, comma 7-ter, del d.lgs 163/2006 espressamente
prevedeva che l'80% delle risorse finanziarie del fondo per la progettazione
e l'innovazione fosse ripartito per ciascuna opera o lavoro escludendo dal
novero delle attività incentivabili le attività manutentive;
- la formulazione dell'articolo 113 del d.lgs. 50/2016 non esclude
espressamente le attività tecniche svolte dai dipendenti pubblici relative
alla programmazione della spesa per investimenti, alla predisposizione e
controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici,
al responsabile unico del procedimento, alla direzione dei lavori etc. , che
possono riguardare anche i lavori di manutenzione sia ordinaria che
straordinaria, ma si limita a riferirsi a ciascuna "opera o lavoro"
- l'articolo 1 del medesimo d.lgs. 50/2016 (Oggetto e ambito di
applicazione) dispone "1. Il presente codice disciplina i contratti di
appalto e di concessione delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti
aggiudicatori aventi ad oggetto l'acquisizione di servizi, forniture, lavori
e opere, nonché i concorsi pubblici di progettazione."
- il successivo articolo 3 del d.lgs 50/2016 (Definizioni)
stabilisce che ai fini del codice citato per «lavori» di cui all'allegato I,
debbano intendersi le attività di costruzione, demolizione, recupero,
ristrutturazione urbanistica ed edilizia, sostituzione, restauro,
manutenzione di opere.
- lo stesso allegato I del codice citato, che definisce l'elenco
delle attività che costituiscono “appalti di lavori pubblici" (per
definizione i contratti a titolo oneroso, stipulati per iscritto tra una o
più stazioni appaltanti e uno o più operatori economici, aventi per oggetto
l'esecuzione di lavori, la fornitura di prodotti e la prestazione di
servizi) comprende alla voce "Costruzioni" nuove costruzioni, restauri e
riparazioni comuni"”.
Il Presidente della Provincia di Perugia ha anche richiamato precedenti
pareri di questa Sezione (parere
14.05.2015 n. 71, con il quale è stato escluso ogni beneficio per
l’attività manutentiva, anche straordinaria, in relazione all’esplicito
disposto del precitato comma 7-ter dell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006, e
parere 26.04.2017 n. 51, con cui questa Sezione ha concluso nel
senso che "è da escludere che l'attività manutentiva possa essere
incentivata, ai sensi dell'art. 113 del d.Lgs. n. 50/2016”).
La nota prosegue osservando, peraltro, che, con
parere 09.06.2017 n. 190, la Sezione Regionale di Controllo per
la Regione Lombardia, rispondendo al quesito: "Se sia possibile
riconoscere gli incentivi per funzioni tecniche per le prestazioni indicate
dall'art. 113, comma 2, riferite ad appalti aventi ad oggetto lavori di
manutenzione ordinaria/straordinaria oppure servizi manutentivi, considerato
che la nuova disposizione non esclude espressamente le attività manutentive
e che alla luce degli orientamenti ermeneutici espressi in materia dalle
Sezioni regionali di controllo, la stessa riconosce gli incentivi anche agli
appalti di servizi e forniture", ha formulato il seguente parere: “Si
deve rilevare, in primo luogo, che l'elenco delle attività incentivabili di
cui all'art. 113, comma 2, come fatto palese dalla lettera della legge con
l'utilizzo dell'avverbio "esclusivamente", deve ritenersi tassativo e non
suscettibile di interpretazione analogica.
Ne viene che gli incentivi in parola possono essere corrisposti solo ed
esclusivamente ai funzionari che hanno svolto le funzioni espressamente
indicate dalla disposizione di legge sopra richiamata all'interno delle fasi
procedimentali che connotano gli affidamenti di contratti pubblici
(programmazione, progettazione, procedura selettiva, stipulazione ed
esecuzione).
L'interpretazione riferita trova del resto conferma nella giurisprudenza
contabile, concorde nell'escludere incentivabilità di funzioni o attività
diverse da quelle considerate dall'art. 113, comma 2, del decreto
legislativo n. 50/2016 (Sezione delle Autonomie,
deliberazione 13.05.2016 n. 18; Sezione regionale di controllo
per la Puglia,
parere 13.12.2016 n. 204; Sezione regionale di controllo per
il Veneto,
parere 02.03.2017 n. 134; Sezione regionale di controllo per
la Regione siciliana,
parere 30.03.2017 n. 71).
La disposizione in esame non sembra, invece, delimitare in senso escludente
l'incentivabilità di dette funzioni in ragione dell'oggetto del contratto a
cui è finalizzato il procedimento nell'ambito del quale si svolgono le
medesime. L'art. 113, infatti, utilizza a più riprese espressioni riferibili
alle procedure di affidamento di contratti aventi ad oggetto servizi e
forniture quali i richiami alle "verifiche di conformità". La stessa Sezione
delle autonomie, con
deliberazione 06.04.2017 n. 7, ha accolto l'assunto secondo
cui il compenso incentivante di cui all'art. 113, comma 2, del decreto
legislativo n. 50 del 2016 riguarda non soltanto i lavori, ma anche i
servizi e le forniture rientranti nell'ambito di applicazione del Codice dei
contratti pubblici ed ha al contempo dato atto del fatto che tale
interpretazione è ormai avvalorata dalla giurisprudenza della Corte in sede
consultiva (cfr. Sezione di controllo Lombardia,
parere 16.11.2016 n. 333), che, da un lato ammette che gli
incentivi siano da riconoscere anche per gli appalti di servizi e forniture
e, dall'altro, che tra i beneficiari degli stessi non possano comprendersi
coloro che svolgono attività relative alla progettazione e al coordinamento
della sicurezza (cfr. anche la
deliberazione 13.05.2016 n. 18 della medesima Sezione).
Né può farsi discendere dalla formulazione dell'art. 3 del decreto
legislativo n. 50 del 2016, in collegato disposto all'allegato I (al quale
fa rinvio l'articolo 3, comma 2, lett. ii, n. 1 per definire la nozione di
"lavori"), l'estromissione dei contratti di manutenzione ordinaria e
straordinaria dall'ambito di applicabilità del Codice dei contratti
pubblici.
Da un lato, l'articolo 3, comma 2, lett. nn) ricomprende espressamente fra i
"lavori" di cui all'allegato I l'attività di manutenzione di opere in quanto
tale. Lo stesso Allegato I è organizzato per specifiche attività che, a
seconda del complessivo lavoro affidato, possono assurgere a tipiche
attività manutentive o meno. Si pensi all'attività di tinteggiatura di cui
al punto 45.44 dell'Allegato I.....”.
In sostanza, con il quesito ora in esame, peraltro meglio articolato
rispetto a quello che aveva dato origine al precedente parere negativo di
questa Sezione, di cui al citato
parere 26.04.2017 n. 51, si sollecita una revisione
dell’orientamento espresso anche in ragione del fatto nuovo costituito dalla
sopravvenienza del parere reso dalla Sezione di controllo Lombardia con la
deliberazione indicata, di contenuto invece favorevole alla tesi
dell’Amministrazione.
...
La disposizione normativa oggetto del quesito, come detto, è stata
scrutinata più volte, sia da numerose Sezioni regionali di controllo, sia
dalla Sezione Autonomie, anche per profili diversi da quello ora in esame.
La legge delega 28/01/2016, n. 11, all’art. 1, lett. rr), ha stabilito che “al
fine di incentivare l'efficienza e l'efficacia nel perseguimento della
realizzazione e dell'esecuzione a regola d'arte, nei tempi previsti dal
progetto e senza alcun ricorso a varianti in corso d'opera, è destinata una
somma non superiore al 2 per cento dell'importo posto a base di gara per le
attività tecniche svolte dai dipendenti pubblici relativamente alla
programmazione della spesa per investimenti, alla predisposizione e
controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici,
di direzione dei lavori e ai collaudi, con particolare riferimento al
profilo dei tempi e dei costi, escludendo l'applicazione degli incentivi
alla progettazione”.
In attuazione della delega, l’art. 113 del d.l.vo n. 50 del 2016 (Codice dei
contratti pubblici), nel testo ora vigente, ha così disciplinato la materia
di tali incentivi:
“1. Gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori
ovvero al direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai collaudi tecnici e
amministrativi ovvero alle verifiche di conformità, al collaudo statico,
agli studi e alle ricerche connessi, alla progettazione dei piani di
sicurezza e di coordinamento e al coordinamento della sicurezza in fase di
esecuzione quando previsti ai sensi del decreto legislativo 9 aprile 2008 n.
81, alle prestazioni professionali e specialistiche necessari per la
redazione di un progetto esecutivo completo in ogni dettaglio fanno carico
agli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e
forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni
appaltanti.
2. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 1, le amministrazioni
aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura
non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori, servizi e
forniture, posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai
dipendenti delle stesse esclusivamente per le attività di programmazione
della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di
predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei
contratti pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione
dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di
conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire
l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del
progetto, dei tempi e costi prestabiliti. Tale fondo non è previsto da parte
di quelle amministrazioni aggiudicatrici per le quali sono in essere
contratti o convenzioni che prevedono modalità diverse per la retribuzione
delle funzioni tecniche svolte dai propri dipendenti. Gli enti che
costituiscono o si avvalgono di una centrale di committenza possono
destinare il fondo o parte di esso ai dipendenti di tale centrale. La
disposizione di cui al presente comma si applica agli appalti relativi a
servizi o forniture nel caso in cui è nominato il direttore dell'esecuzione.
3. L'ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo costituito ai
sensi del comma 2 è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, servizio,
fornitura con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione
decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento
adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, tra il
responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni
tecniche indicate al comma 2 nonché tra i loro collaboratori. Gli importi
sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico
dell'amministrazione. L'amministrazione aggiudicatrice o l'ente
aggiudicatore stabilisce i criteri e le modalità per la riduzione delle
risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a fronte di
eventuali incrementi dei tempi o dei costi non conformi alle norme del
presente decreto. La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente
o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo
accertamento delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti. Gli
incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo
dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono superare l'importo
del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Le quote
parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi
dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico
dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento,
incrementano la quota del fondo di cui al comma 2. Il presente comma non si
applica al personale con qualifica dirigenziale.
4. Il restante 20 per cento delle risorse finanziarie del fondo di cui al
comma 2 ad esclusione di risorse derivanti da finanziamenti europei o da
altri finanziamenti a destinazione vincolata è destinato all'acquisto da
parte dell'ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti
di innovazione anche per il progressivo uso di metodi e strumenti
elettronici specifici di modellazione elettronica informativa per l'edilizia
e le infrastrutture, di implementazione delle banche dati per il controllo e
il miglioramento della capacità di spesa e di efficientamento informatico,
con particolare riferimento alle metodologie e strumentazioni elettroniche
per i controlli. Una parte delle risorse può essere utilizzato per
l'attivazione presso le amministrazioni aggiudicatrici di tirocini formativi
e di orientamento di cui all'articolo 18 della legge 24.06.1997, n. 196 o
per lo svolgimento di dottorati di ricerca di alta qualificazione nel
settore dei contratti pubblici previa sottoscrizione di apposite convenzioni
con le Università e gli istituti scolastici superiori.
5. Per i compiti svolti dal personale di una centrale unica di committenza
nell'espletamento di procedure di acquisizione di lavori, servizi e
forniture per conto di altri enti, può essere riconosciuta, su richiesta
della centrale unica di committenza, una quota parte, non superiore ad un
quarto, dell'incentivo previsto dal comma 2.
5-bis. Gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo
capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture”.
Come affermato dalla Sezione Autonomie con
deliberazione 23.03.2016 n. 10, in aderenza al contenuto della
norma di delega, la disposizione ha lo scopo di incentivare le “funzioni
operative per l’esecuzione di lavori”, per realizzare l’“opera a
regola d’arte e nei tempi previsti dal progetto, senza alcun ricorso a
varianti in corso d’opera”.
È altrettanto pacifico (v. Sezione controllo Sardegna,
parere 18.10.2016 n. 122) che la stessa, a differenza
dell’analoga norma contenuta nel precedente codice dei contratti pubblici
(art. 93, comma 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006), non prevede incentivi per le
attività di progettazione, bensì solo per le funzioni tecniche in essa
indicate.
A proposito di queste ultime, vi è generale consenso sul fatto che la
relativa elencazione è tassativa e suscettibile solo di stretta
interpretazione. Le funzioni incentivabili costituiscono pertanto un “numero
chiuso”, come si desume sia dall’utilizzo dell’avverbio “esclusivamente”
da parte del legislatore, sia tenendo presente che la norma costituisce
eccezione al principio generale della onnicomprensività del trattamento
economico (così Sezione controllo Emilia Romagna
parere 07.12.2016 n. 118).
Come detto, la norma ha formato oggetto di numerose richieste di parere
rivolte alle Sezioni regionali di controllo.
Restringendo il campo ai soli pareri che hanno avuto ad
oggetto la questione di cui ci si occupa, si riscontra che gli stessi sono
prevalentemente orientati a dare risposta negativa ai quesiti che le varie
amministrazioni hanno posto con formulazioni non sempre omogenee, ma con un
oggetto sostanzialmente identificabile in maniera univoca. In definitiva, si
vuole conoscere se gli incentivi in questione spettino ai funzionari delle
amministrazioni che svolgano le funzioni tecniche indicate dalla norma
nell’ambito di appalti (di lavori o di servizi) di manutenzione ordinaria
o straordinaria.
Il dubbio interpretativo origina
(come spesso chiarito nelle richieste di parere) dal
raffronto della nuova normativa con quella previgente (art. 93, comma 7-ter
d.l.vo n. 163/2006), la quale aveva espressamente escluso la possibilità di
concedere gli incentivi da essa disciplinati per le attività manutentive
(secondo Sezione della Autonomie,
deliberazione 23.03.2016 n. 10, senza distinzione tra
manutenzione ordinaria e straordinaria),
esclusione che la nuova norma non ripete (perlomeno in maniera esplicita).
Sul punto, si registrano già diversi pronunciamenti delle Sezioni regionali
di controllo, come di seguito esposto.
●
Secondo la Sezione controllo Emilia Romagna
parere 07.12.2016 n. 118
(già citato) “l’avverbio “esclusivamente” utilizzato dal legislatore nel
comma 2 dell’articolo in esame per individuare le attività per lo
svolgimento delle quali può essere previsto un compenso specifico e
aggiuntivo deve essere interpretato nel senso della tassatività delle
attività incentivabili. Pertanto, non essendo stata espressamente ricompresa
l’attività di manutenzione, ne discende che non può essere prevista per la
stessa nessuna remunerazione ai sensi dell’articolo 113 d.lgs. 50/2016. In
secondo luogo, si rileva che, ai fini dell’applicazione del codice di
contratti pubblici di cui al d.lgs. 50/2016, nell’allegato I (cui fa rinvio
l’articolo 3, comma 2, lett. ll, n.1), che contiene l’elenco delle attività
che costituiscono “appalti pubblici di lavori”, non sono in alcun modo
indicate le attività di manutenzione, né ordinarie, né straordinarie”.
●
Nello stesso senso si sono espresse la Sezione controllo Puglia (parere
24.01.2017 n. 5)
e questa Sezione (parere
26.04.2017 n. 51).
●
Anche la Sezione controllo Veneto (parere
12.05.2017 n. 338)
ha dato al quesito risposta negativa, osservando che le funzioni tecniche
incentivabili “sono state selezionate dal legislatore per la loro
specifica attitudine a produrre effetti performanti e di vigilanza sulla
spesa. Il raffronto dell’attuale dettato normativo con quello previgente,
pertanto, deve essere letto alla luce di una tendenza evolutiva della ratio
degli incentivi in esame che ulteriormente ne definisce l’ambito con la
finalità di valorizzare “esclusivamente” un (pertanto) tassativo elenco di
attività rispetto ad altre funzioni necessarie nelle varie fasi di
esecuzione di un contratto pubblico (Sez. contr. Emilia Romagna,
parere 07.12.2016 n. 118,
Sez. contr. Sardegna,
parere 18.10.2016 n. 122,
Sez. contr. Veneto,
parere 02.03.2017 n. 134,
Sez. contr. Puglia,
parere 24.01.2017 n. 5).
Se con l’art. 93, comma 7-ter, D.Lgs. 163/2006, il legislatore ha sentito la
necessità, rispetto alla prassi pretoria affermatasi, di chiarire che
l’incentivo non fosse riconoscibile per nessuna attività di manutenzione,
con l’attuale art. 113, D.Lgs. 50/2016, ha ritenuto di dover circoscrivere
la finalità “premiante” degli incentivi alle (sole) funzioni tecniche
tassativamente elencate, a cui occorre aggiungere, a segnare il superamento
del precedente sistema, l’esplicita esclusione delle attività di
progettazione contenuta nella legge di delega.
Ammettere una tacita e contemporanea riespansione dell’ambito operativo
degli incentivi in esame in favore di attività, quali quelle manutentive,
già espressamente escluse dal legislatore del 2014, pertanto, contrasterebbe
con lo spirito, ulteriormente selettivo rispetto al passato, della riforma
del 2016.
Non è fondata, tra l’altro, un’interpretazione che, nel constatare che
quando il legislatore ha voluto escludere esplicitamente alcune attività
(quali quelle di progettazione) si è preoccupato di farlo espressamente,
vuole far derivare dal silenzio della legge un significato ultroneo
(incentivazione delle attività manutentive) rispetto a quello fatto palese
dall’elemento puramente letterale, in quanto nell’attuale testo si è
adottata una differente tecnica normativa che consiste nella esplicita
scelta di limitarsi a menzionare solo e, come recita la disposizione in
esame, “esclusivamente”, alcune funzioni tecniche, risultando quelle non
inserite nella disposizione in analisi automaticamente e inequivocabilmente
escluse.
Una diversa conclusione rispetto a quella offerta, pertanto, contrasta non
solo con l’inequivoca lettera della norma, che non ammette interpretazioni
difformi in assenza di dubbi sul suo chiaro significato (rafforzato, come
detto, dalla scelta di utilizzare l’avverbio “esclusivamente”), ma anche con
un’interpretazione storico-sistematica alla luce dei precedenti approdi
della giurisprudenza contabile”.
●
In senso invece favorevole alla tesi dell’amministrazione si è espressa la
Sezione controllo Lombardia con
parere 09.06.2017 n. 190,
richiamata nel quesito ora in esame.
Nell’occasione, la Sezione Lombardia, premesso e condiviso il già richiamato
orientamento giurisprudenziale contabile circa la tassatività delle funzioni
tecniche incentivabili, ha poi però osservato che “la disposizione in
esame non sembra, invece, delimitare in senso escludente l’incentivabilità
di dette funzioni in ragione dell’oggetto del contratto a cui è finalizzato
il procedimento nell’ambito del quale si svolgono le medesime. L’art. 113,
infatti, utilizza a più riprese espressioni riferibili alle procedure di
affidamento di contratti aventi ad oggetto servizi e forniture quali i
richiami alle “verifiche di conformità”.
La stessa Sezione delle autonomie, con
deliberazione 06.04.2017 n. 7,
ha accolto l’assunto secondo cui il compenso incentivante di cui all’art.
113, comma 2, del decreto legislativo n. 50 del 2016 riguarda non soltanto i
lavori, ma anche i servizi e le forniture rientranti nell’ambito di
applicazione del Codice dei contratti pubblici ed ha al contempo dato atto
del fatto che tale interpretazione è ormai avvalorata dalla giurisprudenza
della Corte in sede consultiva (cfr. Sezione di controllo Lombardia,
parere 16.11.2016 n. 333),
che, da un lato ammette che gli incentivi siano da riconoscere anche
per gli appalti di servizi e forniture e, dall’altro, che tra i
beneficiari degli stessi non possano comprendersi coloro che svolgono
attività relative alla progettazione e al coordinamento della sicurezza (cfr.
anche la
deliberazione 13.05.2016 n. 18
della medesima Sezione).
Né può farsi discendere dalla formulazione dell’art. 3 del decreto
legislativo n. 50 del 2016, in collegato disposto all’allegato I (al quale
fa rinvio l’articolo 3, comma 2, lett. ll, n. 1 per definire la nozione di
“lavori”), l’estromissione dei contratti di manutenzione ordinaria e
straordinaria dall’ambito di applicabilità del Codice dei contratti
pubblici.
Da un lato, l’articolo 3, comma 2, lett. nn) ricomprende
espressamente fra i “lavori” di cui all’allegato I l’attività di
manutenzione di opere in quanto tale. Lo stesso Allegato I è organizzato per
specifiche attività che, a seconda del complessivo lavoro affidato, possono
assurgere a tipiche attività manutentive o meno. Si pensi all’attività di
tinteggiatura di cui al punto 45.44 dell’Allegato I.
Si aggiunge che il Codice dei contratti pubblici definisce espressamente le
attività di manutenzione ordinaria e straordinaria nelle lettere oo-quater e
oo-quinquies dell’articolo 3, comma 2, lettere che seguono la definizione di
“appalti pubblici di lavori” e precedono la delimitazione della nozione di
“appalti pubblici di servizi”.
Dall’altro lato, il contenuto residuale che il legislatore imprime
alla nozione di “servizi”, considerata la tecnica utilizzata per la
definizione della medesima nell’articolo 3, comma 2, lett. ss e lett. vv,
comporta che l’eventuale esclusione dei contratti manutentivi dalla nozione
di appalti di lavori abbia quale unica conseguenza la ricomprensione dei
medesimi fra gli appalti dei servizi, senza che ciò possa incidere sulla
riconduzione dei contratti di manutenzione nell’ambito di applicabilità del
decreto legislativo n. 50 del 2016 e sull’incentivabilità delle funzioni
indicate nell’art. 113.
Al riguardo si è già rilevato che la Sezione delle autonomie ritiene
incentivabili non soltanto i lavori, ma anche i servizi e le forniture.
Da ultimo non può non richiamarsi il correttivo al Codice dei contratti
pubblici (decreto legislativo 19.04.2017, n. 56, pubblicato nella G.U. in
data 05.05.2017 e in vigore a partire dal 20.05.2017), ai sensi del quale
gli appalti di servizi e forniture sono stati espressamente citati nel comma
1 dell’art. 113”.
●
Di contro, la Sezione controllo Toscana (parere
14.12.2017 n. 186)
ha ribadito l’orientamento negativo, sottoponendo a riflessione critica le
motivazioni della deliberazione della Sezione Lombardia.
Pur riconoscendo la suggestività delle ipotesi interpretative esposte nella
citata pronuncia, la Sezione Toscana “ritiene che l’impianto complessivo
della norma di riforma, la palese intenzione restrittiva del legislatore,
appaiono chiare nel loro orientarsi verso principi di tassatività ed
esclusività delle attività incentivabili, da non poter ammettere una
estensione in via interpretativa in assenza di una espressa previsione di
legge.
In primo luogo si può osservare che il comma 2 dell’art. 113 fa espresso
riferimento al fatto che il fondo viene costituito “ove necessario per
consentire l’esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di
gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti”. Tale necessità sembra
presente solo per le attività caratterizzate da una certa complessità,
complessità che risulta assente nelle attività di manutenzione, attività per
lo più semplici, che non necessitano di uno sforzo supplementare affinché
l’esecuzione del contratto rispetti i documenti a base di gara, il progetto,
i tempi e i costi. Di conseguenza, non sussistendo tale necessità, la
previsione dell’incentivo per tali attività sarebbe illegittima.
Si segnala, in via meramente collaterale, che se in effetti all’art. 3 comma
2, lettera nn, i “lavori” vengono così definiti: “attività di costruzione,
demolizione, recupero, ristrutturazione urbanistica ed edilizia,
sostituzione, manutenzione di opere”. Il legislatore avrebbe potuto ripetere
il riferimento anche all’art. 113, ove avesse inteso estendere le
fattispecie incentivabili. In più, laddove si scorra l’elenco di specifiche
attività di cui all’allegato I, è pur vero che al punto 45.44 si citano le
“tinteggiature” ma lo si fa solo in abbinamento con “la posa in opera di
vetrate”, quasi a citare attività conclusive di una edificazione o
completamento di complessa opera, tanto è vero che al numero seguente 45.45
si legge la denominazione “altri lavori di completamento degli edifici”,
chiarendo che si tratta non tanto di manutenzioni, quando di attività di
chiusura di un cantiere di rilievo.
La Sezione ritiene dunque, in assenza di una norma esplicita, di allinearsi
al prevalente orientamento restrittivo in tutti gli aspetti interpretativi
della norma, escludendo dall’incentivo qualsiasi fattispecie non
espressamente indicata dall’art. 113, comma 2, del D.Lgs. n. 50/2016. In
tale senso si è pronunciata anche la Sezione regionale di controllo per la
Regione siciliana, con
parere 30.03.2017 n. 71”.
Così riassunto il contenuto dei pareri emessi dalle Sezioni regionali di
controllo sulla questione in esame, la Sezione,
rilevata la portata generale della questione stessa,
ritiene che sarebbe utile l’adozione di una pronuncia di orientamento al
fine di stabilire se gli incentivi per funzioni tecniche di cui all’articolo
113 d.l.vo n. 50/2016 spettino anche in relazione agli appalti di
manutenzione ordinaria o straordinaria.
A questo riguardo, appare significativo il fatto che, come segnalato dal
numero dei quesiti posti, la questione riveste una sicura
rilevanza per le amministrazioni pubbliche e su di essa non si riscontra
unanimità di pareri emessi dalle Sezioni regionali di controllo (pur
dovendosi registrare l’ampia prevalenza dell’orientamento negativo).
Ciò detto, ad avviso della Sezione appare in primo luogo
dirimente affrontare una questione che affiora nelle pronunce esaminate. Si
tratta cioè di stabilire se le “attività manutentive” non siano
incentivabili in quanto non rientranti tra le funzioni tecniche indicate
dalla norma, il cui elenco, come detto, è da considerare tassativo. Se
l’affermazione fosse condivisa, effettivamente la risposta, alla luce di
quel principio che anche la Sezione condivide, non potrebbe che essere
negativa.
Sembra però più corretto ritenere,
come già affermato da questa Sezione nel
parere 26.04.2017 n. 51 sopra richiamata, che,
nel sistema di incentivazione regolato dalla norma di cui si discute, “la
manutenzione resta un “lavoro” e non una “funzione tecnica”…”.
Anche la norma previgente, che aveva escluso le attività
manutentive dall’incentivazione, per la sua formulazione (“il regolamento
definisce i criteri di riparto delle risorse del fondo, tenendo conto […]
della complessità delle opere, escludendo le attività manutentive …”) fa
intendere che le attività in questione rientrino nell’ambito delle opere e,
quindi, come ritenuto dalla Sezione Lombardia nella deliberazione sopra
richiamata, costituiscano l’oggetto dell’appalto e non funzioni tecniche
svolte da funzionari dell’amministrazione committente.
Se così si ritenesse, il divieto di corrispondere gli
incentivi di che trattasi andrebbe semmai ricavato aliunde.
Si è visto che il fondo di incentivazione è compreso negli stanziamenti
previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e
forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle
stazioni appaltanti.
Ciò implicherebbe, secondo la Sezione Emilia Romagna (parere
07.12.2016 n. 118 cit.),
l’esclusione degli incentivi in questione per gli appalti di manutenzione,
posto che la definizione data dal Codice di “appalti pubblici di lavori”
non consentirebbe di includervi le attività di manutenzione ordinaria e
straordinaria.
Tanto si ricaverebbe dal fatto che, secondo la suddetta definizione
(contenuta nell’art. 3 lettera ll), sono tali “i contratti stipulati per
iscritto tra una o più stazioni appaltanti e uno o più operatori economici
aventi per oggetto [tra gli altri]: 1) l'esecuzione di lavori relativi a una
delle attività di cui all'allegato I”. Allegato nel quale, sempre
secondo la deliberazione citata, “non sono in alcun modo indicate le
attività di manutenzione, né ordinarie, né straordinarie”.
Come però obiettato dalla Sezione Lombardia, ove si condividesse tale
affermazione, si finirebbe per concludere che gli appalti aventi ad oggetto
la manutenzione ordinaria e straordinaria, che pure sono definite dal Codice
dei contratti pubblici (v. art. 3, lettere oo-quater e oo-quinquies), non
siano appalti di lavori pubblici e, quindi, non rientrino nell’ambito di
applicabilità del Codice stesso.
Peraltro, esistono nelle stesse definizioni date dal Codice riferimenti alle
attività manutentive che appaiono contraddire l’affermazione della Sezione
Emilia Romagna.
Nella lettera nn) dell’art. 3 si definiscono infatti «lavori» di cui
all'allegato I, “le attività di costruzione, demolizione, recupero,
ristrutturazione urbanistica ed edilizia, sostituzione, restauro,
manutenzione di opere”. In sostanza, sembra potersi ritenere che, in
questo modo, il legislatore abbia precisato ulteriormente il contenuto delle
attività descritte nell’allegato I, nel quale, pertanto, vengono ad essere
attratte anche le attività di cui alla lettera nn).
Inoltre, va soggiunto, come sottolineato nello stesso quesito in esame, che
nell’allegato I alla Sezione F Costruzioni, Divisione 45, descrizione
Costruzioni, è precisato in nota che “Questa divisione comprende: -nuove
costruzioni, restauri e riparazioni comuni” (sottolineatura della
Sezione).
In buona sostanza, i dati letterali potrebbero consentire
di non escludere dall’ambito di che trattasi le attività manutentive.
Né appare persuasivo l’argomento contrario portato dalla Sezione Toscana,
secondo cui, poiché le attività in questione sarebbero per lo più
caratterizzate dalla loro semplicità, laddove l’incentivazione de qua
mirerebbe a premiare lo svolgimento di funzioni tecniche di una certa
complessità, il riconoscimento della stessa per gli appalti di manutenzione
sarebbe illegittimo.
Si può tuttavia osservare che non pochi interventi di manutenzione,
soprattutto straordinaria, sono contrassegnati da elevata complessità, sia
nell’ambito dei lavori che in quello dei servizi (si pensi al caso,
segnalato da Sezione controllo Lombardia,
deliberazione 16.02.2018 n. 40,
della manutenzione di apparecchiature elettro-medicali). Talché non sarebbe
logico ritenere che, in relazione a tali appalti, l’obiettivo assegnato dal
legislatore agli incentivi di che trattasi (“incentivare l'efficienza e
l'efficacia nel perseguimento della realizzazione e dell'esecuzione a regola
d'arte, nei tempi previsti dal progetto e senza alcun ricorso a varianti in
corso d'opera”) non sia meritevole di essere conseguito attraverso lo
strumento premiale.
Per altro verso, il rischio che gli incentivi siano così concedibili anche
per attività manutentive di contenuto semplice è ridotto, ove si consideri
che, come precisato dalla Sezione Lombardia nel
parere 09.06.2017 n. 190 citato, sono incentivabili “le sole
funzioni tecniche svolte rispetto a contratti affidati mediante lo
svolgimento di una gara”, ovverosia esclusivamente con riferimento ad “attività
riferibili a contratti di lavori, servizi o forniture che, secondo la legge
(comprese le direttive ANAC dalla stessa richiamate) o il regolamento
dell’ente, siano stati affidati previo espletamento di una procedura
comparativa”.
E ciò in quanto “la lettera della legge […], nel dettare i criteri per la
determinazione del fondo destinato a finanziare gli incentivi, fa espresso
riferimento all’ “importo dei lavori (servizi e forniture) posti a base di
gara”. Il che già porta ad escludere che gli appalti più semplici, per i
quali, di norma, l’amministrazione procede all’affidamento con modalità
diverse dalla gara (v. art. 36, comma 2, lett. a), del Codice), possano dare
origine all’incentivazione di che trattasi.
Può soggiungersi che la stessa normativa che prevede e disciplina gli
incentivi in questione sembra già avere a riferimento, comunque, appalti
(quale che ne sia l’oggetto) di una certa complessità, come può desumersi
dal fatto che si parli, nella norma di delega, di “tempi previsti dal
progetto e senza alcun ricorso a varianti in corso d'opera” o, ancora,
nella norma delegata, di “esecuzione del contratto nel rispetto dei
documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti”,
elementi tutti che sembrano incompatibili con appalti di manutenzione
caratterizzati da estrema semplicità.
Infine, non sembra possa desumersi l’esistenza di un
divieto alla concessione dell’incentivazione per gli appalti di manutenzione
in ragione di una comune ratio ispiratrice tra nuova e previgente
normativa in materia di incentivi, come sostanzialmente ritenuto dalla
Sezione Veneto.
Nel senso della discontinuità della nuova normativa
rispetto alla precedente si è pronunciata la Sezione delle Autonomie con
deliberazione 06.04.2017 n. 7, ove si è affermato che “il
compenso incentivante previsto dall’art. 113, comma 2, del nuovo codice
degli appalti non è sovrapponibile all’incentivo per la progettazione di cui
all’art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006, oggi abrogato”.
Si è ivi sottolineato, infatti, che la diversità dei due sistemi di
incentivazione si ricava ponendo a confronto sia le funzioni incentivabili
(con particolare, ma non unico, riferimento alla progettazione, prevista dal
primo, esclusa invece dal secondo), sia l’ambito degli appalti per i quali
l’incentivazione opera (solo quelli di lavori, nel primo caso, mentre
l’attuale normativa li prevede anche per i servizi e le forniture). Il che
farebbe ritenere quanto meno dubbio che possano trarsi dalla precedente
disciplina degli incentivi argomenti ermeneutici per l’interpretazione della
normativa vigente.
Peraltro, nell’ipotesi contraria, dovrebbe allora valorizzarsi il fatto che,
nella nuova normativa, il legislatore non abbia riproposto il divieto di
corrispondere l’incentivazione per le attività manutentive.
PER QUESTI MOTIVI
La Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per
l’Umbria sospende la pronuncia e rimette gli atti al Presidente della Corte
dei conti per le valutazioni di
competenza in ordine al quesito di cui alle premesse in fatto.
In particolare, affinché valuti la possibilità di deferire
la questione alla Sezione delle Autonomie,
ai sensi dell’articolo 6, comma 4, d.l. 10.10.2012, n. 174, convertito con
modificazioni dalla legge 07.12.2012, n. 213, secondo il quale, per la
risoluzione di questioni di massima di particolare rilevanza in materia di
attività consultiva, la citata Sezione emana delibera di orientamento alla
quale le Sezioni regionali si conformano; questo sempre che
il Presidente della Corte dei conti non ritenga, invece, opportuna
l’adozione, da parte delle Sezioni Riunite, di una pronuncia di orientamento
generale, ai sensi dell’articolo
17, comma 31, d.l. 01.07.2009, n. 78, convertito con modificazioni dalla
legge 03.08.2009, n. 102, qualora riconosca la sussistenza
di un caso di eccezionale rilevanza ai fini del coordinamento della finanza
pubblica (Corte dei Conti, Sez.
controllo Umbria,
deliberazione 08.10.2018 n. 103). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Solo la pubblicazione del bando di concorso sulla Gazzetta Ufficiale,
costituendo il momento d'indizione del concorso medesimo, ha l'effetto di
cristallizzare la normativa applicabile allo stesso. E' in questo momento
che si determina il sistema normativo di riferimento di tutte le fasi del
concorso.
---------------
Il Sindaco del Comune di Trivigno (PZ) ha inoltrato, in data 05.09.2018, a questa Sezione una richiesta di parere ai sensi dell’art. 7, comma
8, della Legge n. 131/2003 con la quale chiede di conoscere quale sia il
momento iniziale di una procedura concorsuale per l’assunzione di personale
al fine di determinare la normativa applicabile alla medesima procedura.
Al fine di inquadrare la vicenda all’interno della quale si colloca la
richiesta di parere il Sindaco svolge una dettagliata premessa relativa alla
complessa procedura che l’Amministrazione comunale ha posto in essere prima
di arrivare ad indire un concorso, ai sensi dell’art. 35, comma 1, lett. a),
del D.Lgs. n. 165/2001, per la copertura di un posto di funzionario
direttivo tecnico – posizione giuridica D3, approvando il relativo bando di
concorso e modello di domanda.
Tale indizione è avvenuta con determinazione dirigenziale n. 41 del 18.05.2018. Il bando di concorso è stato pubblicato, in versione integrale,
in data 19.05.2018, all’albo pretorio on-line del Comune di Trivigno,
nonché sulla home page del sito istituzionale del Comune medesimo e nella
sezione “Amministrazione trasparente” – “Bandi di concorso”, mentre è stato
pubblicato, per estratto, sulla Gazzetta ufficiale – 4^ Serie speciale –
Concorsi ed esami n. 48 del 19.06.2018.
Nelle more della pubblicazione del bando di concorso sulla Gazzetta
ufficiale, vi è stata, in data 21.05.2018, la sottoscrizione definitiva
del CCNL del comparto Funzioni locali per il triennio 2016-2018, i cui
effetti decorrono dal 22.05.2018.
Tale contratto, all’art. 12, comma 9, contiene una disposizione che recita “Nel
caso in cui, alla data di entrata in vigore del presente CCNL, siano tuttora
in corso procedure concorsuali per l’assunzione di personale nei profili
professionali con accesso nella posizione economica D3, secondo il
previgente sistema di classificazione, il primo inquadramento avviene nei
suddetti profili della categoria D. Successivamente, si applica quanto
previsto dal comma 5.”.
...
Alla luce delle considerazioni esposte, la Sezione ritiene che la richiesta
di parere formulata dal Sindaco di Trivigno difetti dei requisiti oggettivi
necessari ad una disamina nel merito in quanto: a) sprovvisto dei requisiti
della generalità e dell’astrattezza; b) relativo a una specifica attività
gestoria già posta in essere dal Comune richiedente; c) potenzialmente
idoneo ad interferire con le competenze di altri organi giurisdizionali.
3. In via incidentale, tuttavia, la Sezione, in un’ottica collaborativa e
sempre in linea generale, rileva che la questione prospettata riguarda
l’individuazione dell’atto iniziale della procedura concorsuale indetta dal
Comune di Trivigno al fine di determinare la disciplina giuridica da
applicare alla medesima procedura. Ciò in quanto il principio “tempus regit
actum”, posto dall’art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile,
secondo cui la legge ordinariamente dispone solo per l’avvenire, non potendo
avere efficacia retroattiva se non in base ad un’espressa previsione, ha la
funzione pratica di consentire l’individuazione della disciplina giuridica
da applicare ad un procedimento amministrativo.
Dunque ogni atto è disciplinato dalla legge in vigore nel tempo in cui viene
adottato con esclusione, di regola, della retroattività e dell’ultrattività
di essa. Ciò comporta che lo ius superveniens si applica esclusivamente
(salvo che la legge stessa non disponga per il passato) alle fattispecie
sorte successivamente alla sua entrata in vigore. Discende come conseguenza
che la norma preesistente continua ad essere applicata ai rapporti sorti
durante il tempo in cui era vigente, anche se successivamente intervenga una
nuova norma che regoli diversamente la fattispecie.
Se l’applicazione di questo principio non determina problemi particolari per
l’emanazione di un singolo provvedimento amministrativo, diverso è il caso
della sequenza di atti che costituiscono un procedimento, come nel caso
delle procedure concorsuali, per la disomogeneità di disciplina che potrebbe
derivarne.
Infatti il procedimento amministrativo è composto da una pluralità di atti
dotati di propria autonomia funzionale, susseguenti, diversi e coordinati
fra loro, finalizzati all’emanazione di un provvedimento finale. In tale
ipotesi il principio “tempus regit actum” comporta che ciascun atto del
procedimento sia regolato dalle norme in vigore nel momento del compimento
del singolo atto (del resto le condizioni di legittimità dell’atto
amministrativo vanno riscontrate alla luce delle situazioni di fatto e di
diritto esistenti al momento della sua emanazione con irrilevanza dello ius
superveniens Cons. Stato, Sez. V, n. 8341/2003).
Questa regola subisce, però, una logica eccezione in quei procedimenti che
possono essere considerati unitari, come ad esempio i concorsi pubblici o i
procedimenti di scelta del contraente della pubblica amministrazione
mediante bando pubblico. Sul punto la giurisprudenza amministrativa è
consolidata nel ritenere che i concorsi debbano espletarsi in base alla
normativa vigente alla data di emanazione del bando, che, com’è noto,
costituisce lex specialis del procedimento e, in quanto tale, cristallizza
le norme vigenti al momento iniziale del procedimento (cfr.
ex multis TAR
Piemonte, sez. II, sentenza 09.02.2012 n. 193; Cons. Stato, sez. IV, sentenza
06.07.2004, n. 5018; Cons. Stato, sez. V, sentenza 13.01.1996, n. 46; SRC
Puglia, deliberazione n. 41/PAR/2010).
“Infatti il principio “tempus regit actum” attiene alle sequenze
procedimentali composte di atti dotati di propria autonomia funzionale, e
non anche ad attività, quale è quella di espletamento di un concorso,
interamente disciplinate dalle norme vigenti al momento in cui essa ha
inizio: pertanto mentre le norme legislative e regolamentari vigenti al
momento dell’indizione della procedura devono essere applicate anche se non
espressamente richiamate nel bando, le norme sopravvenienti, per le quali
non è configurabile alcun rinvio implicito nella lex specialis, di regola
non modificano i concorsi già banditi, a meno che diversamente non sia
espressamente stabilito dalle norme stesse” (Cons. Stato, sez. IV, sentenza
12.01.2011, n. 124, nella quale si richiamano Cons. Stato, sez. VI, sentenza
21.07.2010, n. 4791; Cons. Stato, sez. IV, sentenza 24.08.2009, n. 5032; Cons.
Stato, sez. VI, sentenza 12.06.2008, n. 2909).
“È così affermato il principio generale della inefficacia delle norme
sopravvenute a modificare le procedure concorsuali in svolgimento ma è
altresì prevista la possibilità che, in via speciale e particolare, tali
modifiche possano prodursi ad effetto di normative sopravvenute il cui
oggetto specifico sia quel medesimo concorso, quando, evidentemente, il
legislatore ragionevolmente ravvisi la necessità di un tale intervento” (Cons.
Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 24.05.2011, n. 9).
3.1 Appare, dunque, dirimente individuare esattamente il momento in cui il
concorso in questione è stato effettivamente indetto.
La giurisprudenza amministrativa è consolidata nel ritenere che la procedura
concorsuale di accesso al pubblico impiego inizia con la pubblicazione del
bando di concorso in quanto atto ad efficacia esterna teso a rendere
conoscibile alla generalità dei consociati la volontà dell’amministrazione
in merito all’esistenza della procedura selettiva, ai requisiti di
ammissione, alle modalità di partecipazione, alle regole della procedura e
ai criteri di valutazione.
Il concorso pubblico, quindi, così come ogni
altra procedura concorsuale (ad es. procedura per l’affidamento di un
contratto pubblico) deve essere espletato sulla base della normativa e delle
regole vigenti alla data di pubblicazione del bando, in conformità al
principio “tempus regit actum” ed alla natura del bando di concorso, quale
norma speciale della procedura le cui prescrizioni vincolano non solo i
partecipanti ma anche l’Amministrazione che ha indetto la procedura.
Infatti, in tema di procedure ad evidenza pubblica, quale è il concorso per
l’accesso ai pubblici impieghi, vale, secondo la costante giurisprudenza
amministrativa, il principio di tutela dell’affidamento dei concorrenti.
Anteriormente alla pubblicazione del bando non è configurabile alcun
affidamento tutelabile in capo ai cittadini potenzialmente interessati al
concorso.
Pertanto gli atti posti in essere dal Comune di Trivigno anteriormente alla
pubblicazione, per estratto, del bando di concorso sulla Gazzetta Ufficiale
– 4^ serie speciale – Concorsi ed esami n. 48 del 19.06.2018 sono atti
programmatori e, comunque, preliminari all’indizione del concorso. La stessa
determinazione n. 41 del 18.05.2018, con la quale si è preso atto che le
procedure di assunzione mediante l’utilizzo di graduatorie di altri enti è
stata espletata e che la stessa ha avuto esito negativo e, per l’effetto, è
stata indetta una procedura concorsuale ex art. 35, comma 1, lett. a), del D.Lgs. n. 165/2001, approvando il relativo bando di concorso e il modello di
domanda, ha efficacia meramente interna, sicché la sua adozione non implica
il sorgere di alcuna situazione soggettiva tutelabile in capo ai terzi
potenzialmente interessati. Ne consegue che il divieto di applicazione dello
ius supeveniens non può derivare dall’adozione di tale ultimo provvedimento.
Pertanto solo la pubblicazione del bando di concorso sulla Gazzetta
Ufficiale, costituendo il momento di indizione del concorso medesimo, ha
l’effetto di cristallizzare la normativa applicabile allo stesso. È in
questo momento che si determina il sistema normativo di riferimento di tutte
le fasi del concorso.
Si ritiene, infine, opportuno ricordare che, secondo la costante
giurisprudenza amministrativa, l’obbligo di pubblicazione dei bandi nella
Gazzetta Ufficiale, ai sensi dell’art. 4 del D.P.R. n. 487/1994, che, al
comma 1-bis, prevede, in particolare, per gli enti locali la possibilità di
sostituire la pubblicazione del bando con l’avviso di concorso contenente
gli estremi del bando e l’indicazione della scadenza del termine per la
presentazione della domanda (pubblicazione per estratto), costituisca regola
generale rivolta a garantire la conoscibilità dell’esistenza di un concorso
pubblico a tutti i cittadini in perfetta armonia con i principi
costituzionali sull’accesso agli impieghi pubblici (cfr. ex multis
Cons. Stato, sez. V, sentenza 16.2.2010, n. 871) (Corte dei Conti, Sez.
controllo Basilicata,
parere 05.10.2018 n. 36). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Gli incentivi per funzioni tecniche
previsti dall’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016 non possono essere corrisposti
in rapporto ad attività di manutenzione ordinaria e straordinaria.
----------------
Il Sindaco del Comune di Fasano (BR), dopo aver richiamato la
giurisprudenza di questa Corte in sede consultiva in materia di
corresponsione del compenso per incentivi per funzioni tecniche
relativamente al riconoscimento di tale compenso anche per gli appalti di
servizi e forniture, illustra le definizioni di appalti pubblici, appalti
pubblici di lavori ed appalti pubblici di servizi rese dal D.Lgs. n. 50/2016
reputando che: “l’eventuale esclusione dei contratti manutentivi dalla
nozione di appalti pubblici di lavori abbia come unica conseguenza la
ricomprensione dei medesimi contratti tra gli appalti pubblici di servizi
comunque denominati in quanto attività che si svolgono e si pongono a gara
come attività pubbliche”.
Il Sindaco precisa, inoltre, che, per tutti i servizi pubblici appaltati ed
appaltabili, è possibile applicare le disposizioni dell’art. 113, comma 2,
del citato D.Lgs. n. 50/2016 in tema di incentivi per funzioni tecniche ed
al riguardo, specifica che la Sezione delle Autonomie, con
deliberazione 13.05.2016 n. 18, ha affermato che il predetto art. 113 “utilizza a più
riprese espressioni riferibili alle procedure di affidamento di contratti
aventi ad oggetto servizi e forniture quali i richiami alle verifiche di
conformità”.
Pertanto, il Sindaco chiede alla Sezione se gli appalti pubblici per le
manutenzioni di qualunque tipo devono essere considerati “appalti pubblici
di servizi” con conseguente riconduzione nell’ambito di applicabilità del D.Lgs. n. 50/2016 ed incentivabilità delle funzioni indicate dall’art. 113
del D.Lgs. n. 50/2016 e se nel rispetto dell’appena richiamato art. 113,
comma 2 “sono incentivabili le funzioni tecniche esclusivamente nello stesso
elencate, svolte in esecuzione di appalti pubblici di servizi comunque
denominati e meglio definiti all’art. 3, comma 1, lettera ss), dello stesso
D.Lgs. n. 50/2016, a condizione che sia stata svolta una gara di appalto e
sia stato nominato il direttore dell’esecuzione”.
...
L’art. 113, commi 1 e 2, del D.Lgs. 18/04/2016 n. 50, come sostituiti
dall’art. 76 del D.Lgs. 19/04/2017 n. 56, statuiscono che, a valere sugli
stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture
negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni
appaltanti, le amministrazioni aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo
risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate
sull'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara per le
funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle stesse esclusivamente per le
attività di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione
preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure
di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, di RUP, di direzione dei
lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo
ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per
consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di
gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti.
Tale fondo non è previsto da parte di quelle amministrazioni aggiudicatrici
per le quali sono in essere contratti o convenzioni che prevedono modalità
diverse per la retribuzione delle funzioni tecniche svolte dai propri
dipendenti. Gli enti che costituiscono o si avvalgono di una centrale di
committenza possono destinare il fondo o parte di esso ai dipendenti di tale
centrale. La disposizione appena richiamata, per espresso dettato normativo,
si applica anche agli appalti relativi a servizi o forniture nel caso in cui
è nominato il direttore dell'esecuzione.
La disciplina normativa in tema di incentivi per funzioni tecniche è stata,
inoltre, novellata per effetto dell’introduzione, ad opera del comma 526
dell’art. 1 della L. 27/12/2017 n. 205, del comma 5 bis all’art. 113 del
D.Lgs. n. 50/2016 che ha previsto che i predetti incentivi devono essere
allocati al medesimo capitolo di spesa dei lavori, servizi e forniture.
Peraltro, il tenore letterale della norma che fa espresso riferimento
all’importo dei lavori, servizi e forniture “posti a base di gara”, induce a
ritenere incentivabili le sole funzioni tecniche svolte rispetto a contratti
affidati mediante lo svolgimento di una gara (Sezione regionale di controllo
per la Puglia,
deliberazione 09.02.2018 n. 9).
Con
deliberazione 26.04.2018 n. 6, la Sezione delle Autonomie ha
chiarito che gli incentivi per funzioni tecniche sono, per loro natura,
estremamente variabili nel corso del tempo e, come tali, difficilmente
assoggettabili a limiti di finanza pubblica a carattere generale che hanno
come parametro di riferimento un predeterminato anno base e che la normativa
delineata dall’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016 contiene un compiuto sistema
di vincoli per l’erogazione degli incentivi individuando due limiti
finanziari che ne impediscono l’incontrollata espansione: uno di carattere
generale, il tetto massimo al 2% dell’importo posto a base di gara e l’altro
di carattere individuale, il tetto annuo al 50% del trattamento economico
complessivo per gli incentivi spettante al singolo dipendente.
La Sezione delle Autonomie, nel fornire l’interpretazione della normativa
previgente dettata dall’articolo 93, comma 7-ter, del D.Lgs n. 163/2006,
basandosi sull’interpretazione letterale del testo, aveva escluso
dall’incentivo alla progettazione interna qualunque attività manutentiva,
senza distinzione tra manutenzione ordinaria o straordinaria (Sezione delle
Autonomie,
deliberazione 23.03.2016 n. 10, Sezione regionale di
controllo per la Puglia,
parere 14.09.2018 n. 124).
Ad avviso del Collegio, se è pur vero che la normativa vigente non ha
reiterato la predetta esclusione, deve, tuttavia, rilevarsi che le attività
di manutenzione ordinaria e straordinaria non risultano espressamente
richiamate dall’attuale elencazione tassativa e pertanto deve escludersi la
possibilità di procedere all’incentivazione di tali attività.
Questa Sezione ha, infatti, già chiarito che le forme di incentivazione per
funzioni tecniche, ora riconosciute anche in relazione ad appalti per
forniture e servizi, costituiscono eccezioni al generale principio della
onnicomprensività del trattamento economico e pertanto possono essere
corrisposte solo per le attività espressamente e tassativamente previste
dalla legge (Sezione regionale di controllo per la Puglia,
parere 24.01.2017 n. 5,
parere 21.09.2017 n. 108 e
deliberazione 09.02.2018 n. 9).
Il carattere tassativo delle attività incentivabili risulta avvalorato sia
dall’utilizzo dell’avverbio “esclusivamente” che dall’assenza di
un’esplicita norma che portano a desumere che il predetto emolumento non può
essere utilizzato per le attività di manutenzione, attività non indicate dal
legislatore (Sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna,
parere 07.12.2016 n. 118, Sezione regionale di controllo per la Toscana,
parere 14.12.2017 n. 186).
Deve aggiungersi che il riferimento alle attività di manutenzione ordinaria
o straordinaria non risulta contenuto neppure nell’ordinanza del 04.07.2018 del Presidente del Consiglio dei Ministri che disciplina la
costituzione e quantificazione del fondo di cui all’articolo 113 del D.Lgs.
n. 118/2011 per la ricostruzione nei territori dei Comuni delle Regioni di
Abruzzo, Lazio, Marche e Umbria interessati dagli eventi sismici e che
prevede una dettagliata elencazione delle funzioni e di ripartizione delle
risorse finanziarie del fondo.
Questa Sezione ribadisce, pertanto, che gli incentivi per funzioni tecniche
previsti dall’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016 non possono essere corrisposti
in rapporto ad attività di manutenzione ordinaria e straordinaria (Sezione
regionale di controllo per la Puglia,
parere 24.01.2017 n. 5) (Corte
dei Conti, Sez. controllo Puglia,
parere 28.09.2018 n.
140). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
La norma contenuta nella legge di bilancio 2018 ha stabilito che
gli incentivi gravano su risorse autonome e predeterminate del bilancio
(comma 5-bis, art. 113, D.Lgs. 50 del 2016) diverse dalle risorse
ordinariamente rivolte all'erogazione di compensi accessori al personale.
Per l'individuazione della linea di demarcazione fra vecchia e nuova
regolamentazione della materia incentivante, non può che essere individuata
nel 01.01.2018, per cui la nuova forma di copertura del Fondo introdotta dal
comma 5-bis inizierà ad applicarsi ai contratti pubblici il cui progetto
dell'opera/del lavoro sono stati approvati e inseriti nei documenti di
programmazione dopo il 01.01.2018 o, per le altre tipologie d'appalti, in
cui l'affidamento del contratto è stato deliberato dopo tale data.
---------------
Con la nota sopra citata il Sindaco del Comune di Nembro (BG) pone un
quesito concernente l’erogazione degli “incentivi per funzioni tecniche”
di cui all’art. 113, comma 2, del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50
(codice dei contratti pubblici).
In particolare, considerato che il comma 5-bis art. 113 del D.Lgs 50 del
18/04/2016, introdotto dall’art. 1 della L. 27.12.2017 n. 205, prevede che “gli
incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di
spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture” a decorrere
dal 01.01.2018 e considerato che, la Sezione Autonomie ha chiarito con sua
deliberazione 26.04.2018 n. 6 che gli incentivi per
le funzioni tecniche di cui all’art. 113 del D.Lgs. 50/2016 non soggiaciono
al vincolo posto al complessivo trattamento accessorio dei dipendenti
previsto dall’art. 23, comma 2, del D.Lgs. 75/2017, si chiede se gli
incentivi per le funzioni tecniche, previsti all’art. 113 del D.Lgs 50/2016,
di competenza dell’anno 2017 soggiaciano o meno al vincolo posto al
complessivo trattamento accessorio relativamente al fondo incentivante anno
2017.
...
Il quesito formulato con la presente richiesta di parere richiede di
stabilire se gli incentivi per funzioni tecniche di cui all’art. 113, del
decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 maturati nella competenza 2017,
debbano essere compresi nelle spese per il trattamento accessorio del
personale anche agli effetti del rispetto del tetto di spesa stabilito dalla
legge.
La questione degli incentivi per funzioni tecniche è stata ampiamente
dibattuta e sul tema si sono pronunciate più volte, sia diverse Sezioni
regionali della Corte dei Conti (Sez. Controllo Lombardia
parere 07.11.2017 n. 307, Sez. Controllo Lazio
parere 06.07.2018 n. 57, Sez. Controllo Friuli Venezia
Giulia
parere 02.02.2018 n. 6, Sez. Controllo Veneto
parere 25.07.2018 n. 264), sia la Sezione Autonomie
nella veste di organo nella propria funzione nomofilattica. Così anche la
ricostruzione del quadro giuridico generale e della sua evoluzione nel tempo
è stata ampiamente ripresa da questa stessa sezione regionale e anche più
recentemente dalla Sezione del Lazio.
Il tema più specifico sollevato dalla richiesta di parere del Comune di
Nembro, cioè la valutazione della natura delle spese relative agli incentivi
e più specificamente la loro imputabilità o meno tra le spese di personale,
a sua volta ha avuto un approfondimento articolato che ha condotto a due
distinte pronunce della Sezione Autonomie, in seguito alle diverse
successive modifiche susseguitesi nel quadro normativo.
La prima pronuncia (deliberazione
06.04.2017 n. 7),
precedente alla novella introdotta dal comma 526, art. 1, della legge 205/2017
che ha modificato l’art. 113 del D.Lgs. 50/2016, aveva stabilito, a seguito
di numerosi problemi interpretativi, che le spese per gli incentivi tecnici
fossero a tutti gli effetti da includere tra i costi del personale e dunque
da considerare nelle valutazioni dei relativi tetti di spesa.
Successivamente a questo chiarimento è poi intervenuta la modifica dell’art.
113 del D.Lgs. 50/2016 per opera appunto della legge 205/2017 art. 1, comma
526, che ha introdotto il principio della allocazione delle spese per
incentivi tecnici nei capitoli sui quali gravano gli oneri per i singoli
lavori, servizi e forniture.
Sulla base di questa modifica normativa, si è reso necessario un nuovo
intervento della Sezione Autonomie per chiarire il nuovo quadro giuridico
venutosi a creare. Pur sottolineando la interpretabilità della novella
normativa, ai fini dell’inclusione delle spese per incentivi tra le voci di
spesa del personale, la Sezione Autonomie conclude la sua pronuncia (deliberazione
26.04.2018 n. 6)
affermando il seguente principio ”Gli incentivi disciplinati dall’art.
113 del d.lgs. n. 50 del 2016 nel testo modificato dall’art. 1, comma 526,
della legge n. 205 del 2017, erogati su risorse finanziarie individuate ex
lege facenti capo agli stessi capitoli sui quali gravano gli oneri per i
singoli lavori, servizi e forniture, non sono soggetti al vincolo posto al
complessivo trattamento economico accessorio dei dipendenti degli enti
pubblici dall’art. 23, comma 2, del d.lgs. n. 75 del 2017”.
Proprio sulla base di questa pronuncia il Comune di Nembro pone la questione
ancora più specifica di come valutare gli incentivi di competenza 2017 e se
questi siano da includere o meno tra le spese di personale.
Sulla questione occorre chiarire in primo luogo che, come affermato in modo
esplicito dalla Sezione Autonomie, la norma contenuta all’art. 113, comma
5-bis, così come modificato dalla legge di bilancio per il 2018, non è norma
interpretativa, ma innovativa e dunque non può certamente produrre alcun
effetto retroattivo.
Così si esprime al proposito la Sezione Autonomie: “Proprio alla luce dei
suesposti orientamenti, va considerato che, sul piano logico, l’ultimo
intervento normativo, pur mancando delle caratteristiche proprie delle norme
di interpretazione autentica (tra cui la retroattività), non può che trovare
la propria ratio nell’intento di dirimere definitivamente la questione della
sottoposizione ai limiti relativi alla spesa di personale delle erogazioni a
titolo di incentivi tecnici proprio in quanto vengono prescritte allocazioni
contabili che possono apparire non compatibili con la natura delle spese da
sostenere”.
E ancora nello stesso atto aggiunge: “Pertanto, il legislatore, con norma
innovativa contenuta nella legge di bilancio per il 2018, ha stabilito che i
predetti incentivi gravano su risorse autonome e predeterminate del bilancio
(indicate proprio dal comma 5-bis dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016)
diverse dalle risorse ordinariamente rivolte all’erogazione di compensi
accessori al personale”.
Non solo dunque si ribadisce la portata innovativa e la irretroattività
della norma, ma si sottolinea che tali incentivi gravano su risorse
predeterminate, dunque appositamente da prevedere nelle poste di bilancio
con un chiaro riferimento sinallagmatico tra le fasi di programmazione e
realizzazione dell’opera e l’appostamento delle risorse destinate alla
corresponsione degli incentivi.
A tale proposito, è intervenuto recentemente a valutare il problema
cronologico, il parere della sezione Lazio (parere
06.07.2018 n. 57).
Innanzi tutto viene ricordato che per quanto riguarda il nuovo comma 5-bis
dell’art. 113, ai fini della individuazione della linea di demarcazione fra
la vecchia e la nuova regolamentazione della materia incentivante, tale
linea non può che essere individuata nella data del 01.01.2018, dopo aver
ribadito, come peraltro già affermato dalla Sezione Autonomie, che la
disposizione introdotta dal comma 526 dell’art. 1 della legge di stabilità
2018 non ha natura di interpretazione autentica, per cui non può
considerarsi retroattivamente operativa.
Inoltre in modo convincente ed esplicito la Sezione Lazio della Corte nello
stesso parere afferma sul punto che “la fonte di copertura inizia a
variare per tutte le procedure la cui programmazione della spesa è approvata
dopo il 01.01.2018, stante la intima compenetrazione sussistente tra tale
programmazione ed i relativi stanziamenti con accantonamento di risorse nel
Fondo costituito ai fini della successiva ripartizione e liquidazione dei
compensi incentivanti. Per cui la nuova forma di copertura del Fondo
introdotta dal comma 5-bis inizierà ad applicarsi ai contratti pubblici il
cui progetto dell'opera o del lavoro sono stati approvati ed inseriti nei
documenti di programmazione dopo il 01.01.2018 o, per le altre tipologie di
appalti, in cui l’affidamento del contratto è stato deliberato dopo tale
data” (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 27.09.2018 n. 258). |
CONSIGLIERI COMUNALI - INCARICHI PROFESSIONALI - SEGRETARI COMUNALI: Non
sussiste la responsabilità erariale circa l'affidamento all'esterno
dell'ente dell'incarico di frazionamento catastale di una strada allorché
detto incarico risulti effettivamente non affidabile all’interno
dell’amministrazione per ragioni puntualmente esposte.
E’ opinione condivisa che la ratio dell’art. 7 del
D.L.gs. n. 165/2001 -il quale, al comma 4, prevede che le Amministrazioni
pubbliche curino la formazione e l’aggiornamento del personale e, al
successivo comma 6, regolamenta i limiti entro i quali le Amministrazioni
possono conferire incarichi esterni– sia quella di favorire l’efficienza
degli Enti pubblici, realizzando la migliore utilizzazione delle risorse
umane disponibili negli apparati amministrativi.
Giova, altresì, ricordare come la richiamata disciplina statale sia stata
oggetto, nel tempo, di numerosi interventi di modifica che hanno reso sempre
più stringenti tali limiti, al fine di prevenire danni all’Erario per spese
improduttive o per ingiustificate erogazioni di denaro pubblico.
Pertanto, in virtù di tale normativa, le Amministrazioni
pubbliche devono avvalersi, per lo svolgimento delle proprie funzioni, delle
risorse dell’apparato istituzionale, potendo derogare a tale regola
solamente nei casi di assoluta impossibilità di provvedere con il personale
dipendente ed a condizione che tale impossibilità risulti oggettivamente
accertata con procedure formali che ne diano motivatamente conto.
Tali prescrizioni, da rispettare obbligatoriamente
al fine di una corretta gestione del capitale umano all’interno della P.A.,
costituiscono altrettante regole di legittimità dell’azione amministrativa,
la cui inosservanza può essere oggetto di sindacato giurisdizionale da parte
del Giudice contabile sotto il profilo della ragionevolezza della scelta,
non configurandosi, al riguardo, il lamentato travalicamento del
limite al sindacato delle scelte discrezionali previsto dall’art. 1, comma
1, della L. n. 20/1994.
---------------
Reputa il Collegio, sulla base di una lettura letterale, logica e
sistematica, nonché costituzionalmente orientata (art. 97 Cost.) della
disciplina contenuta nella L.P. n. 26/1993, che le Amministrazioni Trentine,
nell’espletamento delle funzioni che loro competono, debbano avvalersi, in
via prioritaria, del personale tecnico al proprio servizio.
Infatti, l’art. 20 della L.P. n. 23/1996,
concernente l’affidamento degli incarichi di progettazione e di “altre
attività tecniche” (tra le quali rientra il frazionamento), nella
formulazione applicabile vigente ratione temporis, dispone che tali attività
devono essere svolte, anche parzialmente, dal personale dipendente
“compatibilmente con la quantità e la qualità di risorse professionali e
tecnologiche effettivamente disponibili presso ciascuna struttura”.
Inoltre la citata norma prevede (art. 20, comma 3)
che solo nel caso di interventi tecnici comportanti la “soluzione di
complesse questioni tecniche” o di “carenze anche temporanee di organico o
di competenze specifiche”, che devono essere “attestate motivatamente dai
dirigenti dei servizi”, gli Enti possono avvalersi di professionisti
esterni.
Tanto premesso con riguardo al quadro normativo di riferimento,
appare evidente come la richiamata disciplina preveda precisi limiti
all’esternalizzazione delle attività tecniche ed obblighi l’Amministrazione
a motivare congruamente gli affidamenti esterni, supportando la scelta con
una previa istruttoria, compiuta dal settore competente, in ordine alle
oggettive carenze di organico, strumentali o alle altre specifiche ragioni
che, per legge, possono giustificare la scelta di gravare l’Amministrazione
di un costo aggiuntivo per svolgere un’attività rientrante nei compiti di
ufficio.
Deve, altresì, rilevarsi come la giurisprudenza contabile
abbia, in più occasioni, rimarcato che le lacune procedurali che inficiano
gli atti di conferimento di funzioni dell’Ente a soggetti esterni alla P.A.,
rilevabili per il tramite della motivazione del provvedimento -allorché il
Legislatore ponga agli amministratori pubblici determinati vincoli di spesa,
ritenendo implicitamente non utili tutte quelle spese che non rispettino i
limiti da esso posti- non rappresentano meri vizi con incidenza circoscritta
alla sfera di legittimità del provvedimento, ma rendono ingiustificata e,
perciò, tendenzialmente dannosa la stessa erogazione di denaro pubblico.
Ciò posto, osserva il Collegio come la delibera di giunta
municipale n. 44/2016 abbia motivato l’affidamento dell’incarico esterno di
frazionamento, in ciò confortata dal parere favorevole di regolarità
tecnico-amministrativa del responsabile del Settore, con riguardo ad una
carenza tecnologica dell’Ufficio Tecnico Comunale (sprovvisto della stazione
GPS satellitare) in base, quindi, ad una delle ipotesi astrattamente
consentite dalla citata normativa provinciale per l’esternalizzazione del
servizio tecnico.
In relazione alle esposte circostanze non può, pertanto,
ravvedersi in capo ai convenuti una condotta posta in essere in violazione
degli obblighi di servizio o gravemente colpevole.
---------------
2.1 La fattispecie di responsabilità amministrativa sottoposta
all’attenzione del Collegio riguarda un incarico tecnico esterno affidato,
secondo la tesi attorea, in violazione dei principi di cui all’art. 7, c. 6,
del D.lgs. n. 165/2001.
In particolare il Requirente, nella domanda formulata in via principale, ha
contestato ai convenuti –nelle qualità di componenti della Giunta comunale
che ha adottato la delibera di conferimento dell’incarico (n. 44/2016) e di
Segretario che ne ha avallato la legittimità– di aver cagionato il danno
erariale di euro 2.325,71, pari alla spesa sostenuta dal Comune di Cavalese
in relazione all’affidamento in favore di un geometra esterno dell’attività
di frazionamento (inerente una strada) che avrebbe dovuto essere svolta dal
personale assegnato all’U.T.C..
Parte attrice, “solo in via meramente secondaria”, ha riferito il
contestato danno anche alla violazione delle regole sulla concorrenza,
essendo stato l’incarico affidato a trattativa privata senza un previo
confronto concorrenziale.
Avuto riguardo alla contestazione attorea principale, i difensori dei
convenuti hanno affermato la conformità della delibera di Giunta comunale
alla disciplina provinciale, in quanto al momento dell’adozione del
provvedimento sussisteva un oggettivo deficit strumentale nell’ambito
dell’Ufficio Tecnico Comunale, tale da giustificare la ragionevole scelta di
esternalizzare il servizio, a fronte anche di un ingente spesa, all’incirca
di 20.000,00 euro, necessaria per acquistare la particolare apparecchiatura
GPS satellitare.
In relazione alla domanda risarcitoria subordinata, le stesse difese hanno
poi osservato che la modalità di affidamento senza gara non contrasta con la
disciplina provinciale e che la Procura, in ogni caso, non ha provato la
sussistenza di un effettivo danno da concorrenza, in un contesto nel quale
il professionista incaricato risulta aver operato una riduzione dei compensi
rispetto alle previsioni della Tariffa professionale.
2.2 Così sintetizzate le posizioni delle parti, giova ricordare che la
normativa di cui al decreto legislativo n. 165/2001 (recante “Norme
generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni
pubbliche”), nel quale è inserita la disposizione di cui all’art. 7,
comma 6, richiamata dalla Procura Regionale, rappresenta per le Regioni a
Statuto speciale e per le Province Autonome di Trento e di Bolzano una
disciplina con “valenza di norme fondamentali di riforma economico
sociale” (art. 1, comma 3, D.Lgs. n. 165/2001), con la quale il
Legislatore statale ha inteso regolamentare l’organizzazione degli uffici e
i rapporti di lavoro e di impiego alle dipendenze delle amministrazioni
pubbliche “tenuto conto delle Autonomie locali e di quelle delle Regioni
e delle Province Autonome, nel rispetto dell’art. 97 comma primo della
Costituzione”.
E’ opinione condivisa che la ratio dell’art. 7 del
D.L.gs. n. 165/2001 -il quale, al comma 4, prevede che le Amministrazioni
pubbliche curino la formazione e l’aggiornamento del personale e, al
successivo comma 6, regolamenta i limiti entro i quali le Amministrazioni
possono conferire incarichi esterni– sia quella di favorire l’efficienza
degli Enti pubblici, realizzando la migliore utilizzazione delle risorse
umane disponibili negli apparati amministrativi.
Giova, altresì, ricordare come la richiamata disciplina statale sia stata
oggetto, nel tempo, di numerosi interventi di modifica che hanno reso sempre
più stringenti tali limiti, al fine di prevenire danni all’Erario per spese
improduttive o per ingiustificate erogazioni di denaro pubblico. Pertanto,
in virtù di tale normativa, le Amministrazioni pubbliche
devono avvalersi, per lo svolgimento delle proprie funzioni, delle risorse
dell’apparato istituzionale, potendo derogare a tale regola solamente nei
casi di assoluta impossibilità di provvedere con il personale dipendente ed
a condizione che tale impossibilità risulti oggettivamente accertata con
procedure formali che ne diano motivatamente conto
(cfr. ex multis, Corte conti, Sezione Seconda Giurisdizionale
Centrale d’Appello n. 291/2012, id. n. 333/2014).
Tali prescrizioni, da rispettare obbligatoriamente al fine
di una corretta gestione del capitale umano all’interno della P.A.,
costituiscono altrettante regole di legittimità dell’azione amministrativa,
la cui inosservanza può essere oggetto di sindacato giurisdizionale da parte
del Giudice contabile sotto il profilo della ragionevolezza della scelta
(cfr. Cass., Sez. un., n. 1378/2006; id. n. 7924/2006; id. n. 4283/2013; id.
n. 22228/2016; Corte conti, Sezione di Appello per la Sicilia n. 198/2015;
id. Sezione Terza Centrale d’Appello n. 430/2017), non
configurandosi, al riguardo, il lamentato travalicamento del limite al
sindacato delle scelte discrezionali previsto dall’art. 1, comma 1, della L.
n. 20/1994.
2.3 Per quanto riguarda la Provincia Autonoma di Trento va, innanzitutto,
rilevato che la generale materia degli incarichi di studio, ricerca,
consulenza e collaborazione è disciplinata dal Capo I-bis, della L.P. n.
23/1990 (recante “Disciplina dell’attività contrattuale e
dell’amministrazione dei beni della Provincia”).
In particolare, l’art. 39-quater della citata legge dopo aver disposto, al
primo comma, che le disposizioni del Capo I-bis disciplinano l’affidamento
di incarichi retribuiti a soggetti esterni, finalizzati all’acquisizione di
apporti professionali per il miglior perseguimento dei fini istituzionali
dell’Amministrazione, ne esclude espressamente l’applicazione per taluni
incarichi –quali, ad esempio, quelli della rappresentanza in giudizio e del
patrocinio dell’Amministrazione– con la previsione, al quinto comma, che “rimane
fermo quanto previsto dalle leggi provinciali per l’affidamento di incarichi
per l’esercizio di pubbliche funzioni o per incarichi di pubblico servizio,
per l’esecuzione dei lavori pubblici (…)”.
Con riferimento alla specifica materia dei lavori pubblici viene, pertanto,
in rilievo anche la disciplina di settore, richiamata dalle difese dei
convenuti, di cui alla legge provinciale n. 26/1993, recante “Norme in
materia di lavori pubblici di interesse provinciale e per la trasparenza
negli appalti”, come modificata dalla L.P. n. 10/2008.
Sotto il profilo ordinamentale, appare di interesse osservare come la citata
normativa provinciale sia stata oggetto di vaglio da parte della Corte
Costituzionale.
In particolare, la Consulta, nella sentenza n. 45/2010 (dal contenuto
parzialmente caducatorio), ha ricordato che l’art. 8, primo comma, n. 17 del
D.P.R. n. 670/1972 (Statuto speciale) attribuisce alla Provincia autonoma di
Trento una competenza legislativa primaria in alcune materie specificamente
enumerate, tra le quali rientra quella dei lavori pubblici di interesse
provinciale.
Nell’ambito di tale decisione, il Giudice delle leggi ha osservato che tale
potestà legislativa primaria si esplica nei limiti previsti dall’art. 4
dello Statuto e, quindi, in armonia con la Costituzione ed i principi
dell’Ordinamento giuridico della Repubblica, con il rispetto degli obblighi
internazionali, degli interessi nazionali nonché delle norme fondamentali
delle riforme economico-sociali della Repubblica (i ricordati limiti sono
stati richiamati anche nella sentenza n. 187/2013 riguardante la L.P. n.
26/1993 e nella recente decisione n. 191/2017 concernente la materia delle
misure di contenimento della spesa pubblica).
Ciò premesso, reputa il Collegio, sulla base di una lettura
letterale, logica e sistematica, nonché costituzionalmente orientata (art.
97 Cost.) della disciplina contenuta nella L.P. n. 26/1993, che le
Amministrazioni Trentine, nell’espletamento delle funzioni che loro
competono, debbano avvalersi, in via prioritaria, del personale tecnico al
proprio servizio.
Infatti, l’art. 20 della L.P. n. 23/1996, concernente
l’affidamento degli incarichi di progettazione e di “altre attività
tecniche” (tra le quali rientra il frazionamento), nella formulazione
applicabile vigente ratione temporis, dispone che tali attività
devono essere svolte, anche parzialmente, dal personale dipendente “compatibilmente
con la quantità e la qualità di risorse professionali e tecnologiche
effettivamente disponibili presso ciascuna struttura”.
Inoltre la citata norma prevede (art. 20, comma 3) che solo
nel caso di interventi tecnici comportanti la “soluzione di complesse
questioni tecniche” o di “carenze anche temporanee di organico o di
competenze specifiche”, che devono essere “attestate motivatamente
dai dirigenti dei servizi”, gli Enti possono avvalersi di professionisti
esterni.
2.4 Tanto premesso con riguardo al quadro normativo di riferimento,
appare evidente come la richiamata disciplina preveda precisi limiti
all’esternalizzazione delle attività tecniche ed obblighi l’Amministrazione
a motivare congruamente gli affidamenti esterni, supportando la scelta con
una previa istruttoria, compiuta dal settore competente, in ordine alle
oggettive carenze di organico, strumentali o alle altre specifiche ragioni
che, per legge, possono giustificare la scelta di gravare l’Amministrazione
di un costo aggiuntivo per svolgere un’attività rientrante nei compiti di
ufficio.
Deve, altresì, rilevarsi come la giurisprudenza contabile
abbia, in più occasioni, rimarcato che le lacune procedurali che inficiano
gli atti di conferimento di funzioni dell’Ente a soggetti esterni alla P.A.,
rilevabili per il tramite della motivazione del provvedimento -allorché il
Legislatore ponga agli amministratori pubblici determinati vincoli di spesa,
ritenendo implicitamente non utili tutte quelle spese che non rispettino i
limiti da esso posti- non rappresentano meri vizi con incidenza circoscritta
alla sfera di legittimità del provvedimento, ma rendono ingiustificata e,
perciò, tendenzialmente dannosa la stessa erogazione di denaro pubblico
(Corte conti, Sezione Prima Centrale di Appello n. 224/2017; id. Sezione
Appello Sicilia n. 48/2017).
Ciò posto, osserva il Collegio come la delibera di giunta
municipale n. 44/2016 abbia motivato l’affidamento dell’incarico esterno di
frazionamento, in ciò confortata dal parere favorevole di regolarità
tecnico-amministrativa del responsabile del Settore, con riguardo ad una
carenza tecnologica dell’Ufficio Tecnico Comunale (sprovvisto della stazione
GPS satellitare) in base, quindi, ad una delle ipotesi astrattamente
consentite dalla citata normativa provinciale per l’esternalizzazione del
servizio tecnico.
In relazione alle esposte circostanze non può, pertanto,
ravvedersi in capo ai convenuti una condotta posta in essere in violazione
degli obblighi di servizio o gravemente colpevole.
Né ritiene il Collegio che le evidenze processuali dimostrino che i
componenti della Giunta comunale ed il Segretario abbiano mantenuto in un
voluto stato di inefficienza organizzativa l’Ufficio Tecnico comunale,
secondo quanto affermato dal Pubblico Ministero, non provvedendo
all’ordinaria strumentazione di un Ufficio Tecnico di rilevanti dimensioni “in
concorso con il responsabile dell’Ufficio Tecnico” al fine di “compiacere
la volontà di favorire professionisti esterni”.
Si osserva, in proposito, come la reiterazione degli incarichi nel biennio
2015/2016, enfatizzata dal Requirente, non sia di per sé sufficiente a
provare il prospettato “concorso” illecito per favorire soggetti
terzi.
Per quanto già evidenziato, deve ritenersi che all’atto dell’assunzione
della delibera n. 44/2016, l’Ufficio Tecnico del Comune di Cavalese non
fosse, oggettivamente, nelle condizioni di effettuare l’attività di
frazionamento della strada non possedendo la necessaria strumentazione.
Inoltre, le difese hanno provato –depositando il preventivo di una ditta
specializzata– che tale strumentazione aveva un costo particolarmente
elevato, di molto superiore a quanto corrisposto al professionista esterno
per effettuare il necessario singolo frazionamento e tanto consente di
escludere, in assenza di prova contraria da parte della Procura, che la
scelta di esternalizzare l’incarico possa configurarsi come irragionevole e,
in definitiva, dannosa per l’Ente.
Ciò posto, deve essere respinta la domanda risarcitoria formulata in via
principale da parte attrice, con riguardo alla violazione della normativa in
materia di incarichi esterni, non sussistendo i presupposti della
responsabilità amministrativa dei convenuti.
Né può trovare accoglimento la domanda risarcitoria formulata dal P.M. “in
via meramente secondaria”, in relazione al mancato rispetto delle regole
della concorrenza, non risultando in alcun modo provata, anche con riguardo
a tale prospettazione subordinata, la sussistenza dell’esistenza di un danno
erariale.
Conclusivamente, sulla base delle esposte considerazioni, assorbita ogni
altra questione e disattesa ogni contraria istanza, deduzione ed eccezione,
i convenuti vanno mandati assolti dagli addebiti di responsabilità
contestati nell’atto di citazione.
Avuto riguardo al proscioglimento nel merito, il Collegio deve provvedere
alla liquidazione delle spese di difesa, ai sensi dell’art. 31, comma 2, del
Codice di Giustizia Contabile (D.Lgs. n. 174/2016).
Ai sensi di tale disposizione, con la sentenza che esclude definitivamente
la responsabilità amministrativa per accertata insussistenza del danno,
ovvero della violazione degli obblighi di servizio, del nesso di causalità,
del dolo o della colpa grave, il Giudice non può disporre la compensazione
delle spese del giudizio e deve liquidare, a carico dell’Amministrazione di
appartenenza, l’ammontare degli onorari e dei diritti spettanti alla difesa.
Sulla base della citata norma, esaminati gli atti di causa e facendo
applicazione dei parametri contenuti nel D.M. n. 55/2014 (“Regolamento
recante la determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per
la professione forense”) si quantificano le spese legali, da porre a
carico del Comune di Cavalese, in favore della difesa del convenuto Gi.Ma.
nell’importo di euro 270,00 per compensi oltre spese generali (15%),
c.n.p.a. e I.V.A nonché in favore della difesa, unitariamente considerata,
degli altri convenuti We.Si., Gi.Pa., Va.Gi., Va.Ma. e Va.Or., nell’importo
complessivo di euro 486,00 per compensi oltre spese generali (15%), c.n.p.a.
e I.V.A .
PER QUESTI MOTIVI
la Corte dei Conti,
Sezione Giurisdizionale per il Trentino Alto Adige/Südtirol - sede di
Trento, definitivamente pronunciando, assolve i convenuti
We.Si., Gi.Pa., Va.Gi., Va.Or., Va.Ma. e Gi.Ma.
(Corte dei Conti, Sez. giursidiz. Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 21.09.2018 n. 35). |
CONSIGLIERI COMUNALI - INCARICHI PROFESSIONALI - SEGRETARI COMUNALI: Sussiste
la responsabilità per danno erariale nel caso di affidamento, a
professionista esterno all’amministrazione, di un incarico di direzione
lavori e di coordinamento della
sicurezza in fase esecutiva n
assenza di adeguata e congrua motivazione che esponga in termini puntuali le
ragioni per le quali risulta l’impossibilità di utilizzo del personale
interno o dell’attrezzatura necessaria.
E’ opinione condivisa che la ratio dell’art. 7 del
D.L.gs. n. 165/2001 -il quale, al comma 4, prevede che le Amministrazioni
pubbliche curino la formazione e l’aggiornamento del personale e, al
successivo comma 6, regolamenta i limiti entro i quali le Amministrazioni
possono conferire incarichi esterni– sia quella di favorire l’efficienza
degli Enti pubblici, realizzando la migliore utilizzazione delle risorse
umane disponibili negli apparati amministrativi.
Giova, altresì, ricordare come la richiamata disciplina statale sia stata
oggetto, nel tempo, di numerosi interventi di modifica che hanno reso sempre
più stringenti tali limiti, al fine di prevenire danni all’Erario per spese
improduttive o per ingiustificate erogazioni di denaro pubblico.
Pertanto, in virtù di tale normativa, le Amministrazioni
pubbliche devono avvalersi, per lo svolgimento delle proprie funzioni, delle
risorse dell’apparato istituzionale, potendo derogare a tale regola
solamente nei casi di assoluta impossibilità di provvedere con il personale
dipendente ed a condizione che tale circostanza risulti oggettivamente
accertata con procedure formali che ne diano motivatamente conto.
Tali prescrizioni, da rispettare obbligatoriamente
al fine di una corretta gestione del capitale umano all’interno della P.A.,
costituiscono altrettante regole di legittimità dell’azione amministrativa,
la cui inosservanza può essere oggetto di sindacato giurisdizionale da parte
del Giudice contabile sotto il profilo della ragionevolezza della scelta,
non configurandosi, al riguardo, il lamentato travalicamento del
limite al sindacato delle scelte discrezionali previsto dall’art. 1, comma
1, della L. n. 20/1994.
---------------
Reputa il Collegio, sulla base di una lettura letterale, logica e
sistematica, nonché costituzionalmente orientata (art. 97 Cost.) della
disciplina contenuta nella L.P. n. 26/1993, che le Amministrazioni Trentine,
nell’espletamento delle funzioni che loro competono, debbano avvalersi, in
via prioritaria, del personale tecnico al proprio servizio.
Infatti, l’art. 22 della L.P. n. 26/1993 (recante
“incarichi di direzione lavori”), nella formulazione applicabile e vigente
ratione temporis, dispone(comma 2) che “la direzione lavori è di norma
affidata ai competenti servizi tecnici delle Amministrazioni aggiudicatrici
in possesso delle necessarie professionalità”, soggiungendo (comma 5) che
“la direzione dei lavori può essere costituita anche nella forma del gruppo
misto di direzione formato da dipendenti dell’Amministrazione e da
professionisti esterni”.
Deve aggiungersi che la normativa in riferimento
prevede, in forza del richiamo contenuto nel citato art. 22 (terzo comma)
alla disposizione di cui all’art. 20 (terzo comma) della medesima L.P. n.
23/1996, solo nel caso “di interventi comportanti la soluzione di complesse
questioni tecniche” ovvero “in caso di esigenze organizzative delle
Amministrazioni aggiudicatrici determinate da carenze anche temporanee di
organico o di competenze specifiche, attestate motivatamente dai dirigenti
dei servizi competenti d’intesa con il dirigente generale” la possibilità di
avvalersi, anche parzialmente, di soggetti di riconosciuta e specifica
competenza.
In definitiva, solamente in presenza di comprovate carenze
organizzative, da attestarsi, motivatamente, dai dirigenti dei servizi,
l’Amministrazione può avvalersi di professionisti esterni, eventualmente
costituendo una direzione lavori nella forma del gruppo misto di direzione,
di cui all’art. 22 cit., o, nell’ipotesi non sussistano i presupposti per
tale soluzione intermedia, esternalizzando totalmente l’incarico.
---------------
Tanto premesso con
riguardo al quadro normativo di riferimento, appare
evidente come la richiamata disciplina preveda precisi limiti all’esternalizzazione
delle attività tecniche ed obblighi l’Amministrazione a motivare
congruamente gli affidamenti esterni, supportando la scelta con una previa
istruttoria, compiuta dal settore competente, in ordine alle oggettive
carenze di organico, strumentali o alle altre specifiche ragioni che, per
legge, possono giustificare la scelta di gravare l’Amministrazione di un
costo aggiuntivo per svolgere un’attività rientrante nei compiti di ufficio.
Deve, altresì, rilevarsi come la giurisprudenza contabile
abbia, in più occasioni, rimarcato che le lacune procedurali che inficiano
gli atti di conferimento di funzioni dell’Ente a soggetti esterni alla P.A.,
rilevabili per il tramite della carenza della motivazione del provvedimento
-allorché il Legislatore ponga agli amministratori pubblici determinati
vincoli di spesa, ritenendo implicitamente non utili tutte quelle spese che
non rispettino i limiti da esso posti- non rappresentano meri vizi, con
incidenza circoscritta alla sfera di legittimità del provvedimento, ma
rendono ingiustificata e, perciò, tendenzialmente dannosa la stessa
erogazione di denaro pubblico.
---------------
Sul punto giova
ricordare la diversità dei compiti assegnati alle figure del direttore
dei lavori e del coordinatore della sicurezza, considerato che
il primo è preposto alla direzione ed al controllo tecnico, contabile e
amministrativo dell’esecuzione dell’intervento mentre il secondo è
tenuto a verificare durante la realizzazione dell’opera, ex art. 92, comma
1, del D.lgs. n. 81/2008, l’idoneità del Piano di Sicurezza e la corretta
applicazione delle relative procedure di lavoro, a controllare che le
imprese esecutrici adeguino i rispettivi piani operativi, segnalando al
committente ed al responsabile dei lavori le eventuali
inosservanze nonché sospendendo i lavori in caso di pericolo grave ed
imminente.
---------------
La questione dedotta in giudizio integra la fattispecie esaminata dalla
citata giurisprudenza, ovvero il caso di una delibera assunta in assenza di
qualsiasi congrua motivazione rispetto ai vincoli espressamente previsti dal
Legislatore per il conferimento di incarichi esterni.
Oltre all’indiscutibile illegittimità della delibera, e
conseguente antigiuridicità della condotta dei convenuti, risulta altresì
provata in atti la concreta dannosità della scelta di gravare
l’Amministrazione di costi indebiti, rinunciando ad avvalersi, anche
parzialmente, come consentito dalla L.P. n. 26/1993, delle prestazioni
lavorative dei numerosi e qualificati dipendenti in servizio presso
l’Ufficio Tecnico.
Sicché, devono ritenersi integrati i presupposti della
responsabilità amministrativa dei convenuti.
In primo luogo, non appare revocabile in dubbio che la
condotta dei componenti della Giunta comunale e dal Segretario comunale sia
stata gravemente lesiva degli obblighi di servizio, contrastando non solo
con la chiara normativa in materia di conferimento di incarichi esterni
nell’ambito dei lavori pubblici, ma anche con il generale criterio
dell’autosufficienza dell’organizzazione amministrativa e, in definitiva,
con i principi di efficienza, efficacia ed economicità nonché di legalità e
buon andamento dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.).
La violazione di tali basilari principi, sotto il profilo dell’elemento
soggettivo, costituisce indice sintomatico di grave trascuratezza,
negligenza ed imperizia nell’esercizio delle funzioni demandate agli
amministratori comunali oltre che al segretario comunale, cui spetta il
compito di vigilare sulla legittimità dell’azione amministrativa.
La totale mancanza di una motivazione che potesse
giustificare l’affidamento dell’incarico esterno consente,
invece, di ritenere provato l’elemento psicologico della
colpa grave in capo ai convenuti, reso evidente dalla superficialità con la
quale è stata disposta, in palese violazione degli obblighi di servizio e
della normativa di riferimento, una rilevante spesa gravante sul bilancio
comunale senza il preventivo accertamento dell’impossibilità oggettiva di
utilizzare le risorse umane interne.
---------------
2.1 La fattispecie di responsabilità amministrativa sottoposta
all’attenzione del Collegio riguarda un incarico tecnico esterno affidato,
secondo la tesi attorea, in violazione dell’art. 7, comma 6, del D.lgs. n.
165/2001.
In particolare il Requirente, nella domanda formulata in via principale, ha
contestato ai convenuti -nelle qualità di componenti della Giunta comunale
che ha adottato la delibera di conferimento dell’incarico (n. 19/2016) e di
Segretario che ne ha avallato la legittimità- di aver cagionato il danno
erariale di euro 17.472,02, pari alla spesa sostenuta dal Comune di Cavalese
in relazione all’affidamento in favore di un geometra esterno della
direzione lavori e del coordinamento della sicurezza in fase esecutiva delle
opere concernenti la realizzazione di un nuovo tratto di fognatura comunale
(in località Salanzada), che avrebbe dovuto essere svolto dal personale
assegnato all’U.T.C..
Parte attrice, solo in “via meramente secondaria”, ha riferito il
contestato danno alla violazione delle regole sulla concorrenza, essendo
stato l’incarico affidato a trattativa privata senza previo confronto
concorrenziale.
Avuto riguardo alla contestazione attorea principale, i difensori dei
convenuti hanno affermato la conformità della delibera di Giunta comunale
alla disciplina provinciale, in quanto al momento dell’adozione della stessa
sussisteva un deficit organizzativo e strumentale, nell’ambito
dell’Ufficio Tecnico Comunale, tale da giustificare la scelta di
esternalizzare il servizio.
In relazione alla domanda risarcitoria subordinata, le stesse difese hanno
poi osservato che la modalità di affidamento senza gara non contrasta con la
disciplina provinciale e che la Procura, in ogni caso, non ha provato la
sussistenza di un effettivo danno da concorrenza, in un contesto nel quale
il professionista incaricato risulta aver operato una riduzione dei compensi
rispetto alle previsioni della Tariffa professionale.
2.2 Così sintetizzate le posizioni delle parti, giova ricordare che la
normativa di cui al decreto legislativo n. 165/2001 (recante “Norme
generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni
pubbliche”), nel quale è inserita la disposizione di cui all’art. 7,
comma 6, richiamata dalla Procura Regionale, rappresenta per le Regioni a
Statuto speciale e per le Province Autonome di Trento e di Bolzano una
disciplina con “valenza di norme fondamentali di riforma economico
sociale” (art. 1, comma 3, D.Lgs. n. 165/2001), con la quale il
Legislatore statale ha inteso regolamentare l’organizzazione degli uffici e
i rapporti di lavoro e di impiego alle dipendenze delle amministrazioni
pubbliche “tenuto conto delle Autonomie locali e di quelle delle Regioni
e delle Province Autonome, nel rispetto dell’art. 97 comma primo della
Costituzione”.
E’ opinione condivisa che la ratio dell’art. 7 del
D.L.gs. n. 165/2001 -il quale, al comma 4, prevede che le Amministrazioni
pubbliche curino la formazione e l’aggiornamento del personale e, al
successivo comma 6, regolamenta i limiti entro i quali le Amministrazioni
possono conferire incarichi esterni– sia quella di favorire l’efficienza
degli Enti pubblici, realizzando la migliore utilizzazione delle risorse
umane disponibili negli apparati amministrativi.
Giova, altresì, ricordare come la richiamata disciplina statale sia stata
oggetto, nel tempo, di numerosi interventi di modifica che hanno reso sempre
più stringenti tali limiti, al fine di prevenire danni all’Erario per spese
improduttive o per ingiustificate erogazioni di denaro pubblico. Pertanto,
in virtù di tale normativa, le Amministrazioni pubbliche
devono avvalersi, per lo svolgimento delle proprie funzioni, delle risorse
dell’apparato istituzionale, potendo derogare a tale regola solamente nei
casi di assoluta impossibilità di provvedere con il personale dipendente ed
a condizione che tale circostanza risulti oggettivamente accertata con
procedure formali che ne diano motivatamente conto
(cfr. ex multis, Corte conti, Sezione Seconda Giurisdizionale
Centrale d’Appello n. 291/2012, id. n. 333/2014).
Tali prescrizioni, da rispettare obbligatoriamente al fine
di una corretta gestione del capitale umano all’interno della P.A.,
costituiscono altrettante regole di legittimità dell’azione amministrativa,
la cui inosservanza può essere oggetto di sindacato giurisdizionale da parte
del Giudice contabile sotto il profilo della ragionevolezza della scelta
(cfr. Cass., Sez. un., n. 1378/2006; id. n. 7924/2006; id. n. 4283/2013; id.
n. 22228/2016; Corte conti, Sezione di Appello per la Sicilia n. 198/2015;
id. Sezione Terza Centrale d’Appello n. 430/2017), non
configurandosi, al riguardo, il lamentato travalicamento del limite al
sindacato delle scelte discrezionali previsto dall’art. 1, comma 1, della L.
n. 20/1994.
2.3 Per quanto riguarda la Provincia Autonoma di Trento va, innanzi tutto,
rilevato che la generale materia degli incarichi di studio, ricerca,
consulenza e collaborazione è disciplinata dal Capo I-bis, della L.P. n.
23/1990 (recante “Disciplina dell’attività contrattuale e
dell’amministrazione dei beni della Provincia”).
In particolare, l’art. 39-quater della citata legge dopo aver disposto, al
primo comma, che le disposizioni del Capo I-bis disciplinano l’affidamento
di incarichi retribuiti a soggetti esterni, finalizzati all’acquisizione di
apporti professionali per il miglior perseguimento dei fini istituzionali
dell’Amministrazione, ne esclude espressamente l’applicazione per taluni
incarichi –quali, ad esempio, quelli della rappresentanza in giudizio e del
patrocinio dell’Amministrazione– con la previsione, al quinto comma, che “rimane
fermo quanto previsto dalle leggi provinciali per l’affidamento di incarichi
per l’esercizio di pubbliche funzioni o per incarichi di pubblico servizio,
per l’esecuzione dei lavori pubblici (…)”.
Con riferimento alla specifica materia dei lavori pubblici viene, pertanto,
in rilievo anche la disciplina di settore, richiamata dalle difese dei
convenuti, di cui alla legge provinciale n. 26/1993, recante “Norme in
materia di lavori pubblici di interesse provinciale e per la trasparenza
negli appalti”, come modificata dalla L.P. n. 10/2008.
Sotto il profilo ordinamentale, appare di interesse osservare come la citata
normativa provinciale sia stata oggetto di vaglio da parte della Corte
Costituzionale.
In particolare, la Consulta, nella sentenza n. 45/2010 (dal contenuto
parzialmente caducatorio), ha ricordato che l’art. 8, primo comma, n. 17 del
D.P.R. n. 670/1972 (Statuto speciale) attribuisce alla Provincia autonoma di
Trento una competenza legislativa primaria in alcune materie specificamente
enumerate, tra le quali rientra quella dei lavori pubblici di interesse
provinciale.
Nell’ambito di tale decisione, il Giudice delle leggi ha osservato che tale
potestà legislativa primaria si esplica nei limiti previsti dall’art. 4
dello Statuto e, quindi, in armonia con la Costituzione ed i principi
dell’Ordinamento giuridico della Repubblica, con il rispetto degli obblighi
internazionali, degli interessi nazionali nonché delle norme fondamentali
delle riforme economico-sociali della Repubblica (i ricordati limiti sono
stati richiamati anche nella sentenza n. 187/2013 riguardante la L.P. n.
26/1993 e nella recente decisione n. 191/2017 concernente la materia delle
misure di contenimento della spesa pubblica).
Ciò premesso, reputa il Collegio, sulla base di una lettura
letterale, logica e sistematica, nonché costituzionalmente orientata (art.
97 Cost.) della disciplina contenuta nella L.P. n. 26/1993, che le
Amministrazioni Trentine, nell’espletamento delle funzioni che loro
competono, debbano avvalersi, in via prioritaria, del personale tecnico al
proprio servizio.
Infatti, l’art. 22 della L.P. n. 26/1993 (recante “incarichi
di direzione lavori”), nella formulazione applicabile e vigente
ratione temporis, dispone(comma 2) che “la direzione lavori è di
norma affidata ai competenti servizi tecnici delle Amministrazioni
aggiudicatrici in possesso delle necessarie professionalità”,
soggiungendo (comma 5) che “la direzione dei lavori può essere costituita
anche nella forma del gruppo misto di direzione formato da dipendenti
dell’Amministrazione e da professionisti esterni”.
Deve aggiungersi che la normativa in riferimento prevede,
in forza del richiamo contenuto nel citato art. 22 (terzo comma) alla
disposizione di cui all’art. 20 (terzo comma) della medesima L.P. n.
23/1996, solo nel caso “di interventi comportanti la soluzione di
complesse questioni tecniche” ovvero “in caso di esigenze
organizzative delle Amministrazioni aggiudicatrici determinate da carenze
anche temporanee di organico o di competenze specifiche, attestate
motivatamente dai dirigenti dei servizi competenti d’intesa con il dirigente
generale” la possibilità di avvalersi, anche parzialmente, di soggetti
di riconosciuta e specifica competenza.
In definitiva, solamente in presenza di comprovate carenze
organizzative, da attestarsi, motivatamente, dai dirigenti dei servizi,
l’Amministrazione può avvalersi di professionisti esterni, eventualmente
costituendo una direzione lavori nella forma del gruppo misto di direzione,
di cui all’art. 22 cit., o, nell’ipotesi non sussistano i presupposti per
tale soluzione intermedia, esternalizzando totalmente l’incarico.
Va, poi, evidenziato come la normativa provinciale di cui alla L.P. n.
26/1993 all’art. 22, comma 6, preveda la possibilità sia di tenere unite che
di separare le funzioni di direzione lavori e di coordinamento della
sicurezza (mentre la successiva L.P. n. 2 del 09.03.2016, all’art. 10,
recante “disposizioni per la progettazione e gli incarichi relativi
all’architettura e all’ingegneria”, opta per una tendenziale separazione
prevedendo che “gli incarichi di coordinatore per la sicurezza sono
affidati ad un soggetto diverso dal progettista e dal direttore dei lavori,
a meno che il responsabile del procedimento non ritenga opportuna la
coincidenza tra queste due figure”).
Sul punto giova ricordare la diversità dei compiti
assegnati alle figure del direttore dei lavori e del coordinatore
della sicurezza, considerato che il primo è preposto alla
direzione ed al controllo tecnico, contabile e amministrativo
dell’esecuzione dell’intervento mentre il secondo è tenuto a
verificare durante la realizzazione dell’opera, ex art. 92, comma 1, del
D.lgs. n. 81/2008, l’idoneità del Piano di Sicurezza e la corretta
applicazione delle relative procedure di lavoro, a controllare che le
imprese esecutrici adeguino i rispettivi piani operativi, segnalando al
committente ed al responsabile dei lavori le eventuali
inosservanze nonché sospendendo i lavori in caso di pericolo grave ed
imminente.
2.4 Tanto premesso con riguardo al quadro normativo di riferimento,
appare evidente come la richiamata disciplina preveda precisi limiti
all’esternalizzazione delle attività tecniche ed obblighi l’Amministrazione
a motivare congruamente gli affidamenti esterni, supportando la scelta con
una previa istruttoria, compiuta dal settore competente, in ordine alle
oggettive carenze di organico, strumentali o alle altre specifiche ragioni
che, per legge, possono giustificare la scelta di gravare l’Amministrazione
di un costo aggiuntivo per svolgere un’attività rientrante nei compiti di
ufficio.
Deve, altresì, rilevarsi come la giurisprudenza contabile
abbia, in più occasioni, rimarcato che le lacune procedurali che inficiano
gli atti di conferimento di funzioni dell’Ente a soggetti esterni alla P.A.,
rilevabili per il tramite della carenza della motivazione del provvedimento
-allorché il Legislatore ponga agli amministratori pubblici determinati
vincoli di spesa, ritenendo implicitamente non utili tutte quelle spese che
non rispettino i limiti da esso posti- non rappresentano meri vizi, con
incidenza circoscritta alla sfera di legittimità del provvedimento, ma
rendono ingiustificata e, perciò, tendenzialmente dannosa la stessa
erogazione di denaro pubblico
(Corte conti, Sezione Prima Centrale di Appello n. 224/2017; id. Sezione
Appello Sicilia n. 48/2017).
Ciò posto, osserva il Collegio come la delibera di Giunta municipale n.
19/2016 -votata dai convenuti We.Si., Se.Si., Gi.Pa., Va.Gi., Va.Or., Va.Ma.
e la cui legittimità è stata avallata dal Segretario comunale dott. Gi.- non
rechi alcuna motivazione, così come invece previsto dalla stessa L.P. n.
26/1993, in ordine all’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse
interne dell’Ufficio Tecnico Comunale, risultando del tutto inconferente la
circostanza, evidenziata nella parte motiva del provvedimento, che il
geometra cui veniva affidato la direzione lavori ed il coordinamento della
sicurezza avesse già redatto la progettazione esecutiva dell’opera in base
ad un precedente incarico.
Pertanto, la questione dedotta in giudizio integra la
fattispecie esaminata dalla citata giurisprudenza, ovvero il caso di una
delibera assunta in assenza di qualsiasi congrua motivazione rispetto ai
vincoli espressamente previsti dal Legislatore per il conferimento di
incarichi esterni.
Oltre all’indiscutibile illegittimità della delibera, e
conseguente antigiuridicità della condotta dei convenuti, risulta altresì
provata in atti la concreta dannosità della scelta di gravare
l’Amministrazione di costi indebiti, rinunciando ad avvalersi, anche
parzialmente, come consentito dalla L.P. n. 26/1993, delle prestazioni
lavorative dei numerosi e qualificati dipendenti in servizio presso
l’Ufficio Tecnico.
Giova, in proposito, ricordare come nei compiti ordinari di tali dipendenti
rientrasse, in base alle stesse indicazioni contenute nel P.E.G. (cfr. punto
E.1/Adempimenti amministrativi e tecnici) l’attività relativa al “progettare/dirigere
e controllare sotto il profilo della sicurezza le opere di competenza
dell’Ufficio secondo le indicazioni dell’Amministrazione”.
Al fine di provare, in giudizio, la pretesa impossibilità del personale
interno di svolgere le ricordate funzioni ordinarie, i convenuti hanno
prodotto le dichiarazioni rese, in data 27/09/2017, dai dipendenti
dell’Ufficio Tecnico.
Questi ultimi hanno riferito, in particolare, di non disporre
dell’apparecchiatura necessaria per verificare l’inclinazione delle tubature
e di non aver avuto il “tempo necessario” per occuparsi della
prestazione esternalizzata, in quanto tale attività li avrebbe distolti “dalle
incombenze ordinarie”. Inoltre, hanno dichiarato di non aver mai
acquisito le certificazioni in materia di sicurezza.
Rileva il Collegio come in tali dichiarazioni non siano state indicate
dettagliatamente né le altre incombenze asseritamente preclusive
dell’espletamento delle mansioni rientranti negli ordinari compiti
dell’Ufficio Tecnico, né il costo dell’attrezzatura mancante, né tanto meno
l’incidenza dell’utilizzo di tale strumentazione nell’ambito dell’attività
esternalizzata.
Con riguardo, poi, alla dichiarazione dei dipendenti concernente la
mancanza, all’atto dell’assunzione della delibera n. 19/2016, dei requisiti
per svolgere il ruolo di Coordinatore della sicurezza, di cui all’art. 98
del Dlgs n. 81/2008 -non avendo i dipendenti dell’U.T.C. mai frequentato i
previsti corsi e, quindi, acquisito la necessaria certificazione- deve
rilevarsi come tale carenza non precludesse, vista la possibilità di
separare le funzioni di D.L. e di Coordinatore della sicurezza, di affidare
ad almeno uno dei numerosi professionisti interni (tre geometri ed un
architetto), l’attività di direzione lavori.
In ragione di quanto innanzi esposto, devono ritenersi
integrati i presupposti della responsabilità amministrativa dei convenuti.
In primo luogo, non appare revocabile in dubbio che la
condotta dei componenti della Giunta comunale e dal Segretario comunale sia
stata gravemente lesiva degli obblighi di servizio, contrastando non solo
con la chiara normativa in materia di conferimento di incarichi esterni
nell’ambito dei lavori pubblici, ma anche con il generale criterio
dell’autosufficienza dell’organizzazione amministrativa e, in definitiva,
con i principi di efficienza, efficacia ed economicità nonché di legalità e
buon andamento dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.).
La violazione di tali basilari principi, sotto il profilo dell’elemento
soggettivo, costituisce indice sintomatico di grave trascuratezza,
negligenza ed imperizia nell’esercizio delle funzioni demandate agli
amministratori comunali oltre che al segretario comunale, cui spetta il
compito di vigilare sulla legittimità dell’azione amministrativa.
Non ritiene, invece, il Collegio che le evidenze processuali dimostrino che
i componenti della Giunta comunale ed il Segretario abbiano mantenuto in un
voluto stato di inefficienza organizzativa l’Ufficio Tecnico comunale e che,
in particolare, secondo quanto affermato dal Pubblico Ministero, “la
mancata acquisizione (…) dell’attestato inerente al coordinamento sicurezza
(benché normale bagaglio del geometra professionista) risponda alla precisa
volontà dell’Amministrazione di favorire professionisti esterni (con la
connivenza delle risorse interne dell’Ufficio Tecnico Comunale)”.
Si osserva, in proposito, come la reiterazione degli incarichi nel biennio
2015/2016, enfatizzata dal Requirente, non sia di per sé sufficiente a
provare il prospettato “concorso” illecito volto a favorire soggetti
terzi.
La totale mancanza di una motivazione che potesse
giustificare l’affidamento dell’incarico esterno consente,
invece, di ritenere provato l’elemento psicologico della
colpa grave in capo ai convenuti, reso evidente dalla superficialità con la
quale è stata disposta, in palese violazione degli obblighi di servizio e
della normativa di riferimento, una rilevante spesa gravante sul bilancio
comunale senza il preventivo accertamento dell’impossibilità oggettiva di
utilizzare le risorse umane interne.
Tale circostanza risulta evidenziata nella stessa relazione del dirigente
del Servizio Autonomie Locali della Provincia Autonoma di Trento ed è
accennata anche nelle dichiarazioni rese innanzi al P.M, in data 24/10/2017,
dal consigliere comunale che ha dato avvio, con il proprio esposto,
all’indagine della Procura contabile.
Reputa il Collegio che quest’ultima acquisizione istruttoria, contrariamente
a quanto sostenuto dalle parti convenute, sia stata ritualmente assunta
dalla Procura Regionale in piena osservanza dell’art. 67, settimo comma, del
Codice di Giustizia Contabile. Disposizione, quest’ultima, che consente
all’Inquirente di svolgere attività istruttoria anche successivamente
all’invito a dedurre nel caso in cui, come nella fattispecie in esame, vi
sia stata la necessità di compiere accertamenti su ulteriori elementi di
fatto emersi a seguito delle controdeduzioni.
Vanno pertanto respinte le eccezioni delle difese in ordine
all’inutilizzabilità di tale atto istruttorio, dovendo altresì rilevarsi
come il contenuto di tali dichiarazioni non risulti, peraltro, determinante
al fine del decidere, emergendo per tabulas l’illegittimità della
delibera di Giunta.
2.5 Non è poi revocabile in dubbio il danno subito dal Comune di Cavalese
che, in esecuzione dell’illegittima delibera n. 19/2016, ha sostenuto, per
remunerare il professionista esterno, la complessiva spesa di euro
17.472,02, di cui euro 13.057,98 per la direzione lavori ed euro 4.414,04
per l’attività di coordinamento della sicurezza.
Ai fini della misura del risarcimento eziologicamente imputabile alla
condotta dei convenuti ritiene poi il Collegio, per le considerazioni che si
andranno di seguito ad esporre, di addivenire ad una minore quantificazione
rispetto al petitum richiesto da parte attrice.
Giova, al riguardo, premettere che nel giudizio di
responsabilità amministrativa, ove si tratti di responsabilità per colpa
grave, la natura personale e parziaria dell’obbligazione risarcitoria
consente al Giudice di tener conto di eventuali comportamenti concorrenti di
soggetti estranei al giudizio che costituendo, anche in parte, il motivo
dell’insorgenza del nocumento lamentato dall’Amministrazione riducano la
responsabilità del convenuto
(Corte conti, Sezione Prima Centrale d’Appello n. 435/2015; id. Sezione
Seconda Centrale d’Appello n. 156/2013; id. Sezione Terza Centrale d’Appello
n. 156/2010).
Sostanzialmente ricognitiva di tale orientamento giurisprudenziale risulta
la disposizione di cui all’art. 83 del Codice di Giustizia Contabile (D.L.gs.
n. 174/2016) che, pur vietando la chiamata in giudizio su ordine del
Giudice, gli consente di eseguire un accertamento incidentale su eventuali
condotte concausali, ai soli fini dell’esatta determinazione delle quote di
danno da porre a carico dei soggetti evocati in giudizio, con l’ulteriore
previsione, nei casi in cui emergano fatti nuovi rispetto a quelli posti a
base dell’atto introduttivo -circostanza, quest’ultima non concretatasi nel
caso di specie- della trasmissione degli atti al P.M.
Nello specifico, il danno azionato in via principale da parte attrice appare
il frutto del concorso di diverse responsabilità imputabili ai vari organi
dell’Ente, tra le quali vanno considerate anche quelle riferibili alle
evidenti disfunzioni organizzative presenti nell’Ufficio Tecnico Comunale.
A tal proposito è significativo rilevare come nessuno dei dipendenti in
servizio presso tale Ufficio, in possesso dei prescritti requisiti (diploma
di geometra o di laurea in architettura), abbia mai partecipato ai corsi
necessari a conseguire le certificazioni in materia di coordinamento della
sicurezza dei lavori pubblici, nonostante nei compiti ordinari degli stessi
rientrasse quello di “controllare sotto il profilo della sicurezza le
opere di competenza dell’Ufficio secondo le indicazioni dell’Amministrazione”
(cfr. PEG 2015 e 2016).
A tale carenza della formazione del personale, con riguardo
al delicato e rilevante settore della sicurezza delle opere comunali, così
come con riferimento alla generale efficienza del Settore, avrebbero dovuto
porre cura e rimedio, in primo luogo, i responsabili dell’Ufficio Tecnico.
Oltre che del cennato contributo causale da parte di soggetti estranei al
giudizio, ai fini della corretta imputazione del danno ai convenuti, reputa
il Collegio di considerare anche la parziale utilitas conseguita
dall’Amministrazione danneggiata in relazione allo svolgimento dell’attività
concernente il coordinamento della sicurezza dei lavori, remunerata al
geometra incaricato con l’importo di euro 4.414,04, che i dipendenti
dell’Ufficio Tecnico, oggettivamente, non potevano svolgere in relazione al
provato mancato conseguimento delle necessarie certificazioni previste
dall’art. 98 del D.Lgs. n. 81/2008.
Come evidenziato da recente giurisprudenza del Giudice di appello, con la
norma di cui all’art. 1, comma 1-bis. della legge n. 20/1994 –secondo la
quale “nel giudizio di responsabilità, fermo restando il
potere di riduzione, deve tenersi conto dei vantaggi comunque conseguiti
dall’amministrazione di appartenenza o da altra amministrazione, o dalla
comunità amministrata, in relazione al comportamento degli amministratori o
dei dipendenti pubblici soggetti al giudizio di responsabilità”-
il Legislatore ha inteso affermare la natura sostanziale, e non meramente
formale, della responsabilità amministrativa, sicché il
Giudice contabile non può “denegare l’ingresso alla valutazione dei
vantaggi conseguiti dall’Amministrazione sul presupposto dell’illegittimità
delle condotte, poiché trattasi di un ragionamento tautologico, che esclude
l’inequivoca applicazione dell’art. 1-1-bis della legge n. 20 del 1994”
(cfr. Sezione Prima Centrale d’Appello n. 508/2017).
Ciò posto, in accoglimento della domanda risarcitoria formulata in via
principale dal Pubblico Ministero -e ritenuta assorbita la domanda
subordinata prospettata dal Requirente “solo in via meramente secondaria”
con riferimento al danno alla concorrenza (da ritenersi, quest’ultimo, non
provato)- reputa il Collegio che il danno imputabile alle condotte
gravemente colpevoli dei convenuti, con riguardo al nocumento derivato al
bilancio del Comune di Cavalese per la violazione della normativa in materia
di incarichi esterni, debba limitarsi, per le ragioni innanzi esposte
(concorso causale nel danno da parte di soggetti estranei al giudizio e
parziale utilitas conseguita dal Comune) alla quota del 50% del
richiesto importo di condanna.
Non sussistono, invece, i presupposti per l’applicazione del generale potere
riduttivo, in relazione all’evidente gravità delle condotte, per la
macroscopica violazione delle procedure di legge concernenti l’esternalizzazione
degli incarichi.
Conclusivamente, disattesa ogni contraria istanza, deduzione ed eccezione,
deve disporsi la condanna dei convenuti al pagamento, in favore del Comune
di Cavalese, del complessivo importo di euro 8.736,00
(ottomilasettecentotrentasei/00), da suddividersi in parti uguali fra gli
stessi (per un settimo ciascuno, ovvero euro 1248,00 a carico di ogni
convenuto). Tale importo va maggiorato della rivalutazione monetaria dalla
data dell’indebito esborso (di cui al mandato di pagamento n. 1051 del
06/04/2017) sino alla pubblicazione della sentenza e degli interessi legali,
sulla sorte capitale rivalutata, da quest’ultima data all’effettivo
soddisfo.
In ragione della soccombenza in giudizio, i convenuti sono condannati al
pagamento, in solido, delle spese di giudizio in favore dello Stato nella
misura determinata in dispositivo.
In ordine alle statuizioni di condanna nei confronti dei convenuti si
ordina, a cura della Segreteria, la spedizione di copia della presente
sentenza in forma esecutiva all’ufficio del P.M., ai sensi dell’art. 212 del
Codice di Giustizia Contabile (D.Lgs. n. 174/2016), per gli ulteriori
incombenti di sua competenza di cui agli artt. 213 e seguenti C.G.C.
PER QUESTI MOTIVI
la Corte dei Conti,
Sezione Giurisdizionale per il Trentino Alto Adige/Südtirol - sede di
Trento, definitivamente pronunciando, condanna i convenuti
We.Si., Se.Si., Gi.Pa., Va.Gi., Va.Or., Va.Ma. e Gi.Ma. al pagamento, da
suddividersi in parti uguali fra gli stessi, della complessiva somma di euro
8.736,00 (ottomilasettecentotrentasei/00) in favore del Comune di Cavalese,
oltre rivalutazione monetaria, per come in motivazione, ed interessi legali
dalla pubblicazione della sentenza all’effettivo soddisfo e, per l’effetto,
li condanna in solido al pagamento delle spese di giudizio in favore dello
Stato, che sono liquidate in euro 1.083,36
(euro milleottantatre/36)
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 21.09.2018 n. 34). |
EDILIZIA PRIVATA: La
Sezione Autonomie della Corte dei conti, con delibera n. 10/SEZAUT/2016,
aveva escluso dall'incentivo alla progettazione interna qualunque attività manutentiva, senza distinzione tra
manutenzione ordinaria e straordinaria.
In assenza di diversa disposizione, considerato che gli incentivi in
argomento spettavano nei soli casi tassativamente indicati dalla legge, tale
esclusione valeva evidentemente per tutti i potenziali aventi diritto alla
ripartizione del fondo: responsabile del procedimento e incaricati della
redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei
lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori.
Non è rinvenibile, infatti, alcun supporto normativo alla suddetta
esclusione per i soli incaricati alla redazione del progetto.
---------------
Il Sindaco del Comune di Santeramo in Colle (BA), con nota n. 13647
del 03.07.2018, ha chiesto un parere in merito alla esatta interpretazione
dell’art. 93, comma 7-ter, del D.Lgs. n. 163/2006, relativo alla
ripartizione del fondo per la progettazione e l’innovazione.
L’Amministrazione, dopo aver richiamato la
deliberazione 23.03.2016 n. 10 della Sezione delle Autonomie,
secondo la quale la corretta interpretazione della suddetta norma è nel
senso dell’esclusione dall’incentivo alla progettazione interna di qualunque
attività manutentiva, senza distinzione tra manutenzione ordinaria o
straordinaria, chiede se la predetta esclusione “debba riferirsi alla
sola quota del fondo destinata per gli incaricati alla redazione del
progetto ovvero alla quota del fondo destinata a tutti i soggetti coinvolti
e, dunque, riferita anche al responsabile del procedimento e agli incaricati
della redazione del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del
collaudo, nonché dei loro collaboratori”.
...
Appare opportuno, in via preliminare, evidenziare che l’art. 93, comma
7-ter, del D.Lgs. n. 163/2006, comma inserito dall’art. 13-bis, comma 1, del
decreto legge n. 90/2014, convertito in legge n. 114/2014, di cui
l’Amministrazione chiede l’esatta interpretazione, è stato da tempo
abrogato, insieme all’intero decreto legislativo n. 163/2006, dal D.Lgs. n.
50/2016.
Quest’ultimo decreto, come si evince dalla richiesta di parere, risulta
comunque conosciuto dalla Amministrazione istante.
Atteso che sarebbe inammissibile una richiesta di parere riferibile a
provvedimenti o comportamenti già compiuti dei quali si chieda la soluzione
o la valutazione a posteriori e che il Comune di Santeramo in Colle ha
espressamente negato il ricorrere nella fattispecie di tale situazione,
questa Sezione non può che procedere a dare riscontro alla richiesta di
parere in termini del tutto generali ed astratti.
Interpretando la precedente normativa dettata dall’art. 93,
comma 7-ter, del D.Lgs. n. 163/2006, la Sezione delle Autonomie della Corte
dei conti, con la
deliberazione 23.03.2016 n. 10 richiamata
dall’ente nella richiesta di parere, aveva escluso
dall’incentivo alla progettazione interna qualunque attività manutentiva,
senza distinzione tra manutenzione ordinaria e straordinaria.
In assenza di diversa disposizione, considerato che gli incentivi in
argomento spettavano nei soli casi tassativamente indicati dalla legge, tale
esclusione valeva evidentemente per tutti i potenziali aventi diritto alla
ripartizione del fondo: responsabile del procedimento e incaricati della
redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei
lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori.
Non è rinvenibile, infatti, alcun supporto normativo alla suddetta
esclusione per i soli incaricati alla redazione del progetto. Tale
interpretazione, peraltro, condurrebbe ad una ingiustificata disparità di
trattamento (Corte dei Conti, Sez.
controllo Puglia,
parere 14.09.2018 n. 124). |
NEWS |
APPALTI: Opere in concessione,
regole per il partenariato. Il contratto-tipo è a disposizione delle
amministrazioni.
È
a disposizione delle amministrazioni un contratto-tipo per regolare le
operazioni di Partenariato pubblico privato (Ppp) affidate in concessione
per la realizzazione e gestione di opere cosiddette fredde, cioè che non
sono in grado di generare cash flow a seguito della gestione.
Lo strumento
(schema di contratto di concessione per la progettazione, costruzione e
gestione di opere pubbliche) è stato messo a disposizione dal Mef per le
operazioni di Ppp nelle quali, a fronte di prestazioni rese dal
concessionario, l'amministrazione concedente paga un canone di disponibilità
dell'opera, canoni per i servizi accessori e, ove previsto, un contributo
pubblico a titolo di prezzo dei lavori realizzati ai sensi degli articoli
165, comma 2, e 180, comma 6, del codice.
Lo schema di contratto di concessione riguarda quelle che vengono definite
come opere fredde. Per questa tipologia, il problema principale da tenere
sotto controllo è stato sempre quello della corretta allocazione del
rischio, profilo sul quale lo schema di contratto insiste con determinazione
attraverso la definizione di clausole chiare e inequivocabili. L'obiettivo è
quindi quello del pieno rispetto delle prescrizioni della direttiva appalti
n. 2014/23/Ue, del codice dei contratti pubblici e delle indicazioni fornite
da Eurostat.
L'obiettivo è quello di incentivare e sostenere gli investimenti in
infrastrutture, tutelando al contempo la finanza pubblica. Il documento è
composto di una prima sezione di condizioni generali in cui l'elemento
fondamentale è rappresentato dall'individuazione dell'oggetto del contratto
(progettazione esecutiva, altre analisi connesse, esecuzione dei lavori,
manutenzione ordinaria e straordinaria, gestione e sfruttamento economico
dell'opera). Rilevante la precisazione che l'importo dei lavori è fisso e
invariabile. La durata della concessione, in base all'articolo 168 del
codice dei contratti pubblici deve essere commisurata al valore della
concessione e alla complessità organizzativa dell'intervento.
La parte successiva dello schema attiene alla società di progetto e in
particolare a come si distribuisce il capitale fra i soci (costruttori,
gestori e coloro che hanno contribuito a soddisfare i requisiti di
qualificazione richiesti dal bando di gara, ad esempio i progettisti).
Seguono poi le parti sugli obblighi e le responsabilità di tutti i soggetti
coinvolti, e la parte sul contributo pubblico, fisso e invariabile erogato
per stati di avanzamento e al collaudo.
Il concessionario avrà anche il compito, dopo la realizzazione dell'opera,
di fornire tutti i servizi «di disponibilità dell'opera e i servizi
accessori alla disponibilità» (fra cui, per la disponibilità, quelli di
manutenzione, gestione e manutenzione degli impianti, gestione energia; per
i servizi accessori: pulizia, lavanderia, ristorazione). Per i servizi
accessori il concedente dopo un determinato periodo (5 anni dopo l'inizio
della fase di gestione) indice una procedura di affidamento. Il
concessionario riceverà quindi un corrispettivo per i servizi di
disponibilità decorrente dalla messa in esercizio dell'opera e per i primi 5
anni un corrispettivo anche per i servizi accessori.
Infine, lo schema disciplina i profili assicurativi, le penali e le
assicurazioni (articolo ItaliaOggi del 05.10.2018). |
ENTI LOCALI: Partecipazioni, tagli a regime.
Enti stretti tra piani di razionalizzazione e dismissioni.
Al
via l’alienazione delle quote fuori legge. Entro fine anno il piano
ordinario di restyling.
Partecipazioni
societarie strette fra piani di razionalizzazione e obblighi di alienazione.
Entro fine anno, le p.a. devono presentare il primo piano ordinario di
razionalizzazione, mentre è scattato il congelamento per le quote da dismettere in base ai piani straordinari approvati un anno fa.
Il tema del controllo e della razionalizzazione delle società pubbliche si
conferma fra i più attuali, nel panorama della giurisprudenza contabile e in
quello normativo.
Nella scorsa legislatura, il dlgs 175/2016 (attuativo della legge Madia) ha
ridefinito in modo più restrittivo le regole che disciplinano la
costituzione di società, nonché l'acquisto, il mantenimento e la gestione di
partecipazioni, da parte delle pubbliche amministrazioni.
La riforma ha previsto un doppio meccanismo attuativo: dapprima (entro 1
anno dall'entrata in vigore del nuova disciplina) è scattato l'obbligo di
revisione straordinaria, che avrebbe dovuto portare nell'anno successivo
alla alienazione delle partecipazioni fuori legge (almeno 5.000 secondo le
stime di allora). Dal 2018, invece, la razionalizzazione diviene annuale e
periodica, per evitare che i carrozzoni usciti dalla porta rientrino dalla
finestra.
In linea generale, alle p.a. è fatto divieto di costituire o mantenere
partecipazioni (anche indirette) in società aventi per oggetto attività di
produzione di beni e servizi non strettamente necessarie per il
perseguimento delle proprie finalità istituzionali. Non si tratta di una
novità, ma finora non è bastato a contenere l'esuberanza degli
amministratori.
Ecco perché il dlgs 175 ha introdotto ulteriori limiti, definendo in modo
rigido i settori nei quali le partecipazioni rimangono consentite, ovvero:
produzione di un servizio di interesse generale (inclusa la realizzazione e
la gestione delle reti e degli impianti funzionali ai servizi medesimi),
progettazione, realizzazione e gestione di opere pubbliche, autoproduzione
di beni o servizi strumentali, servizi di committenza.
I diversi adattamenti subiti dal testo nei suoi vari passaggi hanno
introdotto ulteriori deroghe, che riguardano, per esempio, le finanziarie
regionali, le società aventi per oggetto sociale prevalente la gestione di
spazi fieristici e l'organizzazione di eventi fieristici, nonché la
realizzazione e la gestione di impianti di trasporto a fune per la mobilità
turistico sportiva in aree montane. Escluse dalla riforma anche alcune
partecipate statali come Anas, Invitalia, Coni servizi, Invimit, Sogin e il
Poligrafico.
Il terzo ordine di paletti riguarda i requisiti che tutte le società
partecipate devono rispettare per poter sopravvivere. Nel mirino sono finite
le realtà che risultano prive di dipendenti o hanno un numero di
amministratori superiore a quello dei dipendenti, quelle che svolgono
attività analoghe o similari ad altre società partecipate o enti pubblici
strumentali e quelle che, nel triennio precedente, hanno conseguito un
fatturato medio non superiore a un milione di euro.
Come detto, in sede di prima applicazione le p.a. hanno dovuto redigere un
piano straordinario per individuare le società da dismettere entro l'anno
successivo. All'esito di tale verifica, fatti salvi i casi in cui essa abbia
dato esito negativo e quelli in cui l'ente abbia deciso altri interventi di
razionalizzazione (per esempio, tramite la fusione o la messa in
liquidazione), è scattato l'obbligo di alienazione, da adempiere, in base
all'art. 24, comma 4, del dlgs 175 entro l'anno successivo.
Poiché la dead-line per approvare i piani era stata fissata al 30.09.2017, il
tempo è scaduto. In base al successivo comma 5, in caso di mancata
alienazione entro i termini previsti, il socio pubblico non potrà esercitare
i diritti sociali nei confronti della società e, salvo in ogni caso il
potere di alienare la partecipazione, la medesima dovrà essere liquidata in
denaro in base ai criteri stabiliti dal codice civile. La penalità più grave
è la prima, che rischia di paralizzare l'operatività delle società ancora
attive.
Intanto, si avvicina la scadenza di fine anno per la redazione del primo
piano ordinario di razionalizzazione, per il quale al momento non è stata
predisposta alcuna modulistica (a differenza di quanto era accaduto per il
piano straordinario) (articolo ItaliaOggi del 05.10.2018). |
APPALTI: Stretta su cottimi e subappalti.
Cantieri sotto controllo e segnalazioni anche al prefetto. Inasprite
le pene con il decreto sicurezza del 24 settembre: fino a cinque anni per
illeciti.
Inasprite le pene per i
subappalti e i cottimi illeciti che diventano reato con pene da uno a cinque
anni.
È quanto prevede lo schema di decreto-legge approvato
lo scorso 24 settembre dal consiglio dei ministri (che in questi giorni è
stato al vaglio del presidente della repubblica e a breve dovrebbe essere in
Gazzetta Ufficiale) recante «Disposizioni urgenti in materia di sicurezza
pubblica, prevenzione e contrasto al terrorismo e alla criminalità mafiosa,
modifiche al codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di
cui al decreto legislativo 06.09.2011, n. 159, nonché misure per la
funzionalità del ministero dell'interno.
All'interno del provvedimento, che contiene anche le disposizioni sulla
stretta per i permessi d'asilo e umanitari, si trovano anche alcune
disposizioni che modificano sensibilmente le regole sui subappalti e i
cottimi che si collocano nell'ambito della prevenzione e del contrasto alla
criminalità mafiosa.
In particolare, è l'articolo 10 (sanzioni in materia di subappalti illeciti)
che ritocca l'articolo 21, comma 1, della legge 13.09.1982, n. 646
con l'obiettivo di inasprire il trattamento sanzionatorio per le condotte
degli appaltatori che facciano ricorso, illecitamente, a meccanismi di
subappalto.
La norma stabilisce innanzitutto la trasformazione in delitto del reato
contravvenzionale di «subappalto illecito»; inoltre si dispone
l'equiparazione della sanzione personale a quella prevista per il reato di
frode nelle pubbliche forniture. Questa scelta viene realizzata attraverso
l'aumento della reclusione da uno a cinque anni (ad oggi la pena varia da
sei mesi a un anno) oltre a una multa non inferiore a un terzo del valore
dell'opera concessa in subappalto o a cottimo e non superiore a un terzo del
valore complessivo dell'opera ricevuta in appalto, a chiunque, avendo in
appalto opere riguardanti la pubblica amministrazione, concede anche di
fatto, in subappalto o a cottimo, in tutto o in parte, le opere stesse,
senza l'autorizzazione dell'autorità competente.
Stretta anche nei confronti del subappaltatore e dell'affidatario del
cottimo cui si applica la reclusione da uno a cinque anni e la multa pari a
un terzo del valore dell'opera ricevuta in subappalto o in cottimo.
Una particolare attenzione è riservata anche alla fase di monitoraggio dei
cantieri con l'obiettivo di garantire una maggiore circolarità delle
informazioni per un più puntuale monitoraggio dei cantieri. A tal fine viene
ampliata la platea dei destinatari della segnalazione di inizio attività dei
cantieri in una provincia, includendo il prefetto, quale autorità di governo
che presiede il gruppo di accesso nei cantieri stessi.
Lo schema inserisce anche (con l'articolo 12 dello schema) ulteriori
disposizioni finalizzate a migliorare la circolarità informativa e a
consentire anche alle autorità proponenti di richiedere la collaborazione
dell'unità di informazione finanziaria (Uif) per ottenere le informazioni
sui soggetti destinatari di proposte di misure di prevenzione patrimoniali
che siano in possesso della stessa unità: ad esempio, segnalazioni di
operazioni sospette e dati in possesso degli omologhi organismi esteri.
Per la documentazione antimafia si farà inoltre particolare attenzione ai
soggetti che abbiano riportato condanne con sentenza definitiva o confermata
in grado di appello, per i reati di truffa ai danni dello Stato o altro ente
pubblico (articolo 640, comma 2, punto 1 del codice penale) e per truffa
aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (articolo 640-bis
codice penale)
(articolo ItaliaOggi del 05.10.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Ccnl,
niente mobilità da posizioni D3 a D1.
Il nuovo Ccnl enti locali non consente mobilità di funzionari inquadrati
giuridicamente nei profili D3 verso profili inquadrati nella posizione D1.
L'art. 12 del Ccnl 21.05.2018 ha parzialmente rivisto il sistema di
classificazione che, nel 1999,con il Ccnl del 31 marzo, distinse nella
categoria D due sottocategorie: quella con ingresso nella posizione
economica D1, corrispondente sul piano giuridico all'ex settima qualifica
funzionale e al profilo di istruttore direttivo, e quella con ingresso
diretto nella posizione economica D3, corrispondente all'ex ottava qualifica
funzionale e profilo del funzionario.
Questa distinzione ebbe senso finché ai dipendenti di categoria giuridica D1
restò precluso di andare per progressione orizzontale oltre la posizione D3.
Dal 31.12.2001 questo blocco venne rimosso. Pertanto, da anni è possibile
che dipendenti inquadrati (grazie alla sostanziale finzione giuridica del
Ccnl del 1999) in un profilo inferiore si trovino con trattamenti economici
tabellari uguali o maggiori di dipendenti di profilo superiore. Un
controsenso durato fin troppo tempo, per effetto di una suddivisione forzata
della categoria D in due sottocategorie, nonostante sul piano contrattuale
la categoria D sia unica, tanto che possono essere incaricati nell'area
delle posizioni organizzative indifferentemente tutti i dipendenti di
categoria D, qualunque sia la posizione di ingresso. Il Ccnl 21.05.2018
chiarisce questa confusione eliminando la categoria di ingresso in D3.
Tuttavia, la cancellazione della categoria giuridica D3 vale solo per il
futuro. I dipendenti a suo tempo assunti nell'ottava qualifica funzionale e reinquadrati nella D3 giuridica e quelli assunti direttamente in profili D3,
per effetto dell'art. 12, comma 5, conservano il profilo posseduto e la
posizione economica acquisita nell'ambito della categoria. Il problema si
pone perché l'art. 30, commi 1 e 2-bis, del dlgs 165/2001, pare presupporre
assoluta identità tra «area funzionale» del posto vacante che si intende
coprire e la mobilità e inquadramento funzionale del dipendente che chieda
il trasferimento.
Se per «area funzionale» si intendesse esclusivamente la
categoria, il problema non si porrebbe: tutti i dipendenti di categoria D, a
prescindere dalla posizione economica di inquadramento, potrebbero
transitare per mobilità, considerando che il comma 2-bis dell'art. 30 (non
il comma 1, però) garantisce al dipendente trasferito la conservazione della
posizione economica posseduta presso l'ente di provenienza. Ma l'espressa
conservazione di profili distinti di categoria D3 (sia pure «a esaurimento»)
e di categoria D1 impedisce di considerare possibile una mobilità per un
posto di profilo D1 da coprire con un dipendente inquadrato in un profilo di
provenienza in D3.
Spazi limitati alla mobilità vi potrebbero essere solo
laddove l'ente che avvia la procedura abbia modificato la dotazione organica
attuando la pianificazione dei fabbisogni, riqualificando un profilo
professionale di categoria D3 (ovviamente vacante) come D1: in questo modo,
un dipendente di pari profilo ancora inquadrato in D3 potrebbe transitare,
conservando la posizione economica di provenienza.
Si porrebbe, però, a quel
punto il problema della concreta applicabilità del comma 6 dell'art. 12 del Ccnl, ai sensi del quale l'ammontare delle risorse stabili che finanziano la
posizione economica di sviluppo dei dipendenti inquadrati in D3 si calcola
non sul differenziale con la posizione economica iniziale, ma appunto sulla
posizione economica D3: ma, se un dipendente D3, transita in un identico
profilo professionale di un ente diverso per mobilità e inquadrato in D1,
l'ente che ha modificato il piano del fabbisogno sarebbe legittimato a
calcolare il differenziale sulla posizione iniziale? Il Ccnl non ha fornito,
purtroppo, indicazioni su come gestire le mobilità nell'ambito delle
categorie D
(articolo ItaliaOggi del 05.10.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Bongiorno
alle p.a.: istituire il responsabile per il digitale.
Istituire al più presto in ogni ente pubblico la figura del Responsabile per
la transizione al digitale. E nei piccoli comuni la funzione potrà essere
svolta anche in forma associata.
A richiamare gli enti all'obbligo, previsto
dal Codice dell'amministrazione digitale (Cad), ma largamente disatteso, è
il ministro della pubblica amministrazione, Giulia Bongiorno con la
circolare 01.10.2018 n. 3.
L'art. 17, comma 1, del Cad stabilisce, infatti, che ciascuna p.a. sia tenuta
ad affidare ad un unico ufficio dirigenziale la «transizione alla modalità
operativa digitale e i conseguenti processi di riorganizzazione finalizzati
alla realizzazione di un'amministrazione digitale e aperta», nominando un
Responsabile per la transizione al digitale (Rtd).
Tuttavia, osserva la
numero uno di palazzo Vidoni, dalla data di entrata in vigore di tale
obbligo (14.09.2016) ad oggi, soltanto un numero limitato di
amministrazioni ha provveduto ad individuare tale figura. Di qui il richiamo
alle amministrazioni a provvedere «con ogni opportuna urgenza»,
all'individuazione del Responsabile e alla relativa registrazione
sull'Indice delle pubbliche amministrazioni (Ipa - www.indicepa.gov.it).
Le p.a. dovranno individuare, con atto organizzativo interno e nell'ambito
della dotazione organica complessiva delle posizioni di funzione
dirigenziale, l'ufficio dirigenziale, di livello generale cui attribuire i
compiti per la transizione digitale. Il responsabile di tale ufficio
assumerà le funzioni di Rtd e dovrà essere dotato di «adeguate competenze
tecnologiche, di informatica giuridica e manageriali».
Nelle amministrazioni in cui non sono previste posizioni dirigenziali, le
funzioni per la transizione digitale potranno essere affidate ad un
dipendente in posizione apicale o già titolare di posizione organizzativa in
possesso di adeguate competenze tecnologiche e di informatica giuridica.
Infine, la nota della Funzione pubblica chiarisce che le amministrazioni
diverse dalle amministrazioni dello stato possono esercitare le funzioni di
Rtd anche in forma associata. Tale opzione organizzativa, raccomandata
specialmente per le p.a. di piccole dimensioni, potrà avvenire in forza di
convenzioni o, per i comuni, anche mediante unioni
(articolo ItaliaOggi del 03.10.2018). |
APPALTI -
ATTI AMMINISTRATIVI: P.a.,
telematica con garanzie. Funzionari tenuti a correttezza e assistenza ai
cittadini.
Digitalizzazione della P.a. sì, ma
con le tutele.
Il Tar Lazio sull’intelligenza artificiale: no a meccanismi
interamente automatizzati.
L’attività degli enti pubblici non può essere dominata dagli algoritmi e i
provvedimenti finali non possono essere interamente automatizzati senza
garanzie per il cittadino del giusto procedimento amministrativo. A mettere
all’angolo l’intelligenza artificiale è il Tar Lazio.
Digitalizzazione della pubblica amministrazione sì, ma con le garanzie del
giusto procedimento amministrativo. Imprese e cittadini hanno gli strumenti
per difendersi dallo strapotere delle macchine, soprattutto quando devono
sottostare e decisioni di una pubblica autorità.
L'attività degli enti pubblici, infatti, non può essere dominata dagli
algoritmi e i provvedimenti finali non possono essere interamente
automatizzati, senza garanzie per il cittadino. Inoltre ai mezzi di
comunicazione telematica, se utilizzati in via esclusiva si deve
accompagnare un obbligo di assistenza e correttezza: per esempio, se bisogna
presentare on-line una domanda entro un termine tassativo, nel caso di
disguidi della rete, la p.a. deve rimettere in termini l'interessato che,
per colpe non sue, non ha presentato la domanda in tempo.
A mettere all'angolo l'intelligenza artificiale, per ridurla allo stato di
strumento a disposizione del funzionario pubblico, è il Tar Lazio, che, in
due mosse, ripristina la gerarchia tra intelligenza umana e intelligenza
delle macchine. Lo fa con due sentenze, punti fermi della discussione del
rapporto tra nuove tecnologie e modalità di gestione dell'interesse
pubblico.
Ma vediamo di descrivere il contenuto e la portata delle due pronunce.
Sportello telematico bloccato.
Il primo caso vede protagonista un'azienda che tenta di inviare una istanza
di finanziamento pubblico da mandare usando esclusivamente un canale
telematico. Qualcosa va storto e, a causa del malfunzionamento del sistema,
la domanda non viene recapitata nei termini previsti dalle procedure del
finanziamento.
L'azienda segnala il disguido e chiede di poter essere riammessa a
presentare l'istanza. Il ministero interessato non risponde e l'azienda fa
un ricorso al Tar contro il silenzio e contro il bando del finanziamento,
poiché, quest'ultimo, non consentiva alternative allo sportello telematico.
Il TAR Lazio-Roma (Sez. III-bis, presidente Savoia, estensore Graziano,
sentenza 08.08.2018 n. 8902) accoglie il ricorso.
Se il sistema non funziona o è lento, specie se si è vicini a una scadenza,
la pubblica amministrazione ha il dovere di agevolare l'interessato.
La motivazione del Tar Lazio mette, tra l'altro, in luce che nell'ambito di
un procedimento tenuto con modalità telematiche la scadenza del termine di
presentazione della domanda non può essere considerata allo stesso modo
della scadenza del termine di presentazione nell'ambito di un tradizionale
procedimento cartaceo.
Nel caso di domande telematiche, c'è l'alea del funzionamento delle macchine
e delle reti.
Inoltre, aggiunge la sentenza, le procedure informatiche applicate ai
procedimenti amministrativi devono collocarsi in una posizione
necessariamente servente rispetto agli stessi, non essendo concepibile che,
per problematiche di tipo tecnico, sia ostacolato l'ordinato svolgimento dei
rapporti tra privato e pubblica amministrazione e fra pubbliche
amministrazioni nei reciproci rapporti.
E quindi, conclude il Tar, anche se i procedimenti amministrativi sono
interamente telematizzati, soprattutto quando la presentazione della domanda
deve avvenire entro rigidi termini di decadenza e la compilazione della
stessa si riveli di particolare complessità, l'amministrazione, anche a non
voler prevedere modalità ulteriori di presentazione della stessa, non può
prescindere dal cosiddetto soccorso istruttorio e cioè in base all'articolo
6 della legge n. 241/1990, chiedendo la rettifica/integrazione di istanze
incomplete.
Stop all'algoritmo.
Stavolta la vicenda concreta ha riguardato la scelta delle sedi per gli
insegnanti. Affidata a un algoritmo, la procedura, colta a smistare i
docenti in maniera irragionevole, è stata bocciata dal TAR Lazio-Roma (Sez.
III-bis,
sentenza 10.09.2018 n. 9230, presidente Savoia, estensore
Graziano), che ha messo in primo piano il ruolo dell'apporto umano,
prioritario, rispetto a quello, servente, delle macchine e delle procedure
automatizzate.
L'algoritmo potrà anche essere perfetto, ma la cura dell'interesse pubblico
implica valutazioni discrezionali, che non si possono affidare a meccanismi
interamente automatizzati.
Le modalità esclusivamente informatiche e matematiche sono incompatibili con
le esigenze istruttorie e di ponderazione e bilanciamento degli interessi,
tipiche di una procedura pubblica. Sono in gioco i diritti costituzionali
delle persone, dice il Tar, e le procedure interamente informatizzate, anche
se rasentassero la perfezione, non possono soppiantare, l'attività
cognitiva, acquisitiva e di giudizio, che solo un'istruttoria affidata a un
funzionario persona fisica è in grado di svolgere.
La persona fisica è il titolare del procedimento e le procedure informatiche
devono mantenersi in funzione servente e strumentale.
In materia l'orientamento del Tar Lazio trova un appoggio nella normativa
europea sulla protezione dei dati. In particolare l'articolo 22 del
regolamento Ue n. 2016/679 (operativo in Italia dal 25.05.2018), prevede
che, nel caso di decisioni interamente automatizzate, l'interessato ha il
diritto di ottenere l'intervento umano, di esprimere la propria opinione e
di contestare la decisione.
Le regole europee sulla privacy sono, quindi, sulla stessa lunghezza d'onda
dei principi del giusto procedimento amministrativo (legge 241/1990).
---------------
L'Ue mette un freno al potere degli algoritmi.
Diritto all'intervento umano, di dire la propria opinione e di contestare la
decisione dell'elaboratore elettronico. Sono i tre scudi contro l'eccesso di
potere degli algoritmi, previsti dalla normativa dell'Unione europea.
In Europa, sulle decisioni automatizzate la pietra miliare è il regolamento
Ue sulla protezione dei dati n. 2016/679 e, in particolare l'articolo 22.
Nel linguaggio del regolamento si parla di «decisioni interamente
automatizzate» e si distinguono dalle decisioni automatizzate (ma non
«interamente»).
La griglia europea è a maglie strette, perché la regola di partenza per le
decisioni interamente automatizzate è che sono vietate.
L'interessato, cioè il cittadino (per usare un termine tipico dei rapporti
con la p.a.), dice il regolamento, ha il diritto di non essere sottoposto a
una decisione basata unicamente sul trattamento automatizzato, compresa la
profilazione, che produca effetti giuridici che lo riguardano o che incida
in modo analogo significativamente sulla sua persona.
Ottenere o non ottenere un finanziamento, essere ammesso o non essere
ammesso a scuola, pagare una sanzione più alta o più bassa: sono tutti casi
in cui la decisione automatizzata produce effetti giuridici rilevanti.
Probabilmente l'uso degli algoritmi alleggerisce il carico di attività
istruttoria e decisionale. Ma è sempre possibile e lecito ricorrervi?
L'uso degli algoritmi è ammesso solo in tre casi. I primi due sono:
necessità contrattuali e consenso esplicito dell'interessato. Il terzo caso
è la previsione di una norma del diritto dell'Unione o del diritto interni;
alla ulteriore condizione che la normativa preveda misure adeguate a tutela
dei diritti, delle libertà e dei legittimi interessi dell'interessato.
Lo sbarramento è duplice: ci vuole una base giuridica e questa normativa
deve preoccuparsi di proteggere le persone dalle macchine e dalla
intelligenza artificiale.
Quali siano le misure adeguate lo deve dire la legge, ma il regolamento dà
qualche spunto, nella parte in cui parla delle misure appropriate da
garantire nel caso di decisioni interamente automatizzate basate su
contratto o sul consenso. Le garanzie minime sono il diritto di ottenere
l'intervento umano da parte del titolare del trattamento, il diritto di
esprimere la propria opinione e il diritto di contestare la decisione.
L'indicazione a tinte europee è chiara. Per fare trattare i dati da una
macchina con l'uso di algoritmi, ci vogliono disposizioni efficaci per
garantire la fruibilità di tre diritti. Due di essi coincidono con il
diritto alla partecipazione al procedimento amministrativo; il terzo
assicura il diritto di agire in giudizio per contestare la decisione
interamente automatizzata e ottenere la pronuncia di un giudice-persona
fisica (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.10.2018). |
APPALTI: Obbligo
di bollo sui contratti Mepa, necessaria una rettifica dell’Entrate.
Ha suscitato stupore e perplessità la risposta data direzione regionale
Lombardia dell'Agenzia delle Entrate all’interpello 13.09.2018 n.
956-571, sull'obbligo di applicazione del bollo sui numerosissimi contratti
che ogni giorno vengono stipulati con le pubbliche amministrazioni
attraverso il Mepa, il portale elettronico delle Pa.
In effetti l'analisi
dell'Agenzia trae le mosse da un interpello di una università che dava per
scontata l'applicazione del bollo, in conformità alle conclusioni raggiunte
dalla risoluzione 96 del 2013. E così, l'Agenzia delle Entrate ha
concentrato la propria attenzione (non sulla debenza, o meno, dell'imposta
ma) sulle concrete modalità applicative del tributo, senza tuttavia
considerare che lo scenario normativo è nel frattempo cambiato ad opera del
nuovo codice dei contratti pubblici, il Dlg 50/2016.
Le motivazioni dell’Agenzia
In effetti, la risoluzione ministeriale 96/2013 aveva concluso per
l'assoggettamento a Bollo dei contratti stipulati tramite Mepa sulla base di
un duplice ordine di motivazioni:
i) il fatto che –ai sensi dell'articolo 328 del Dpr 207/2010– il contratto
tramite Mepa fosse «stipulato per scrittura privata, che può consistere
anche nello scambio dei documenti di offerta ed accettazione firmati
digitalmente da fornitore e dalla stazione appaltante»;
ii) l'attivazione, nel contesto del Mepa, di una “particolare procedura”,
che sembrava sfuggire all'alternativa tra contratto stipulato in via
simultanea e contratto stipulato per corrispondenza.
L’innesto delle nuove regole
Sul primo punto, va segnalato che la risoluzione ministeriale 96/13 muoveva
da un assunto inesatto, l'equiparazione tra scrittura privata e atto
contestualmente sottoscritto dalle parti interessate, mentre è vero che un
contratto viene stipulato per scrittura privata anche quando la sua
sottoscrizione si realizza attraverso lo scambio –per corrispondenza– di
due scritture unilaterali. A scanso di equivoci, resta comunque il fatto che
lo stesso articolo 328 del Dpr 207/2010 è stato abrogato ad opera
dell'articolo 217, comma 1, lettera u), n. 2, del Dlgs 50/2016, con
decorrenza dal 19.04.2016.
Sul secondo punto va invece ribadito che, al di là dei tecnicismi
informatici, i contratti pubblici conclusi attraverso il Mepa vengono
effettivamente stipulati mediante corrispondenza, consistente in un apposito
scambio di lettere (o e-mail, che dir si voglia); in effetti, ciò che
caratterizza il contratto a mezzo corrispondenza è proprio la mancanza,
nell'uno o nell'altro documento scambiato, della firma contestuale dei
contraenti.
Di per sé evidente, il punto ha trovato definitiva ed ufficiale
conferma a livello normativo, ad opera dell'articolo 32, comma 14, Dlgs
50/2016, secondo cui il contratto pubblico è stipulato «in caso di procedura
negoziata, ovvero per gli affidamenti di importo non superiore a 40.000
euro, mediante corrispondenza … consistente in un apposito scambio di
lettere, anche tramite posta elettronica certificata o strumenti analoghi».
La stipulazione a mezzo corrispondenza rende applicabile il bollo solo in
caso d'uso, ai sensi dell'articolo 24 della tariffa, parte seconda, allegata
al Dpr 642/1972.
Necessaria una rettifica
A questo punto, una complessiva riconsiderazione del tema, volta a limitare
il ricorso alle modalità applicative fissate dalla risposta all'interpello
dell'università alla sola (ed infrequente) ipotesi del caso d'uso, risulta
quanto mai opportuna.
Del resto, precedenti positivi non mancano: nel corso
del 2017 l'Agenzia ha affrontato il caso di una città capoluogo di regione
che ha attivato un proprio portale elettronico attraverso il quale
transitano tutte le fasi della procedura di acquisto (richiesta di offerta,
ricezione della stessa, individuazione dell'offerta migliore), ad eccezione
dell'ultima, quella dell'affidamento di una fornitura, la quale avviene al
di fuori del portale, attraverso una apposita lettera sottoscritta dal
responsabile dell'ufficio e contente l'ordine di acquisto, poi inviato via
Pec al destinatario.
Nell'occasione, l'Agenzia ha concluso per la
sussistenza di un contratto sottoscritto per corrispondenza, e dunque da
assoggettare a bollo solo in caso d'uso. Data la sostanziale equivalenza tra
questa procedura e quella prevista dal Mepa, all'Agenzia non resterebbe che
proseguire su questa strada
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 25.09.2018). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI:
Il Rup può essere anche commissario di gara.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Commissione di
gara – Componenti – Rup – Art. 77, d.lgs. n. 50 del 2016 –
Possibilità.
Nella vigenza del nuovo Codice dei
contratti, ai sensi dell’art. 77, comma 4, d.lgs. n. 50 del
2016, nelle procedure di evidenza pubblica, il ruolo di Rup
può coincidere con le funzioni di commissario di gara e di
presidente della commissione giudicatrice, a meno che non
sussista la concreta dimostrazione dell'incompatibilità tra
i due ruoli, desumibile da una qualche comprovata ragione di
interferenza e di condizionamento tra gli stessi (1).
---------------
(1)
Ha premesso la Sezione che sul punto si sono formati due
orientamenti.
Infatti, all’orientamento alla quale aderisce (Tar
Veneto, sez. I, 07.07.2017, n. 660;
Tar Lecce, sez. I, 12.01.2018, n. 24;
Tar Bologna, sez. II, 25.01.2018, n. 87;
Tar Umbria 30.03.2018, n. 192), se ne contrappone
un secondo che ha inteso il comma 4 dell’art. 77, d.lgs. n.
50 del 2016, cogliendone il portato innovativo, rispetto
alle corrispondenti e previgenti disposizioni del d.lgs. n.
163 del 2006, proprio nella scelta di introdurre una secca
incompatibilità tra le funzioni tipiche dell'ufficio di RUP
(o ruoli equivalenti) e l'incarico di componente e finanche
di presidente della commissione.
Ad integrazione e supporto di questa impostazione si è
altresì evidenziato che la nuova regola del comma 4 è di
immediata applicazione, non essendo condizionata
dall'istituzione dell'albo dei commissari previsto dall'art.
77, comma 2 (Tar
Latina 23.05.2017, n. 325;
Tar Brescia, sez. II, 04.11.2017, n. 1306).
Per meglio intendere l’effetto innovativo dell’art. 77 comma
4, si consideri che l'art. 84, comma 4, dell'abrogato d.lgs.
n. 163 del 2006 si limitava a sanzionare le situazioni di
incompatibilità dei soli membri della commissione di gara
diversi dal presidente ("i commissari diversi dal
Presidente non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra
funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente
al contratto del cui affidamento si tratta"); viceversa,
l'incompatibilità prevista dall’art. 77, comma 4, del d.lgs.
n. 50 del 2016 -discendente anch’essa dall'aver svolto in
passato o dallo svolgere "alcun'altra funzione o incarico
tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui
affidamento si tratta"- non fa distinzione tra i
componenti della commissione di gara implicati nel cumulo di
funzioni e, pertanto, si estende a tutti costoro
indistintamente.
In favore di una lettura preclusiva del cumulo di funzioni
si era espressa anche l’ANAC nel primo schema delle Linee
Guida n. 3 che così recitava: "il ruolo di RUP è
incompatibile con le funzioni di commissario di gara e di
presidente della commissione giudicatrice (art. 77, comma 4,
del Codice)".
L’indirizzo dell’ANAC è mutato nel testo definitivo delle
Linee Guida (poi approvate con determinazione dell'ANAC n.
1096 del 26.10.2016) rielaborato, alla luce del parere del
Consiglio di Stato n. 1767 del 2016, nel senso che "Il
ruolo di RUP è, di regola, incompatibile con le funzioni di
commissario di gara e di presidente della commissione
giudicatrice (art. 77, comma 4 del Codice), ferme restando
le acquisizioni giurisprudenziali in materia di possibile
coincidenza" (punto 2.2., ultimo periodo).
A supporto della tesi affermnata dalla Sezione milita
l'indicazione successivamente fornita dal legislatore con il
correttivo approvato con 19.04.2017, n. 56, il quale,
integrando il disposto dell’art. 77, comma 4, ha escluso
ogni effetto di automatica incompatibilità conseguente al
cumulo delle funzioni, rimettendo all'amministrazione la
valutazione della sussistenza o meno dei presupposti
affinché il RUP possa legittimamente far parte della
commissione gara.
Sembra difficile negare che il correttivo normativo
introdotto nel 2017 abbia svolto una funzione di ausilio ad
una esegesi della disposizione che era già emersa alla luce
della prima versione dell’art. 77
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 26.10.2018 n. 6082 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
1. Col primo motivo di ricorso, la Del.Ga ha
lamentato la violazione dell’art. 77 del d.lgs. 50/2016, per
avere l’ing. No.Ca. ricoperto le funzioni, tra di loro
incompatibili, di dirigente della CUC incaricato della
redazione del bando di gara oltre che di Presidente della
Commissione giudicatrice.
1.1. Il TAR Bolognese ha ritenuto in concreto non
incompatibile l’ufficio di Presidenza della Commissione
giudicatrice con le funzioni di dirigente della CUC Unione
Terre d’Argine.
Richiamando la giurisprudenza consolidata in materia, ha
infatti affermato che:
a) l’art. 77 del nuovo codice dei contratti pubblici è applicabile
esclusivamente “a regime”, cioè a seguito della
istituzione dell’albo nazionale dei commissari di gara;
b) nella fase intertemporale che precede tale momento, non sussiste
alcuna incompatibilità tra i ruoli di Presidente della
Commissione e di RUP o di soggetto aggiudicatore, a meno che
non venga dimostrata in concreto una specifica interferenza
tra le due funzioni;
c) tale prova nel caso presente è del tutto mancata, anche perché
il contenuto essenziale della lex specialis di gara
-predeterminato dall’ente locale con determina dirigenziale
n. 38 del 27.1.2017- è stato pedissequamente recepito nel
bando di gara ed il ruolo della CUC si è limitato alla
conduzione e all’espletamento della procedura selettiva.
1.2. La società appellante -dopo aver rilevato che nel caso
di specie il presidente della commissione ricopriva le
funzioni (non di RUP ma) di Presidente della Centrale di
committenza dell’Unione delle Terre d’argine designato ad
interim, e che in tale qualità egli aveva elaborato e
approvato gli atti di gara, designato sé stesso quale
presidente della Commissione e designato i commissari-
osserva che, anche volendo accedere alla teoria della non
immediata precettività del regime delle incompatibilità
introdotto dall’art. 77, la stazione appaltante avrebbe
dovuto valutare l’insussistenza di un'incompatibilità in
concreto a carico dell’Ing. Ca. in relazione alla
svolgimento sia della funzione di Presidente della
commissione di gara sia delle funzioni amministrative in
precedenza assolte e, quindi, con riguardo alla possibile
incidenza che tale cumulo di ruoli avrebbe potuto
determinare sul processo di valutazione delle offerte.
Aggiunge la parte appellante che l’art. 77 d.lgs. 50/2016
(al pari dell’art. 84, comma 4, d.lgs. 163/2006) è norma
preventiva, finalizzata a scongiurare il semplice pericolo
di possibili effetti distorsivi e non implicante alcun onere
probatorio a carico della parte che deduce l’incompatibilità
del commissario.
Indice concreto di una condizione di incompatibilità si
ricaverebbe nel caso specifico dal fatto che il presidente
della Commissione di gara, in qualità di dirigente della
centrale unica di committenza, ha approvato un bando
differente rispetto alle indicazioni fornite dal dirigente
del Comune di Carpi, in particolare nella individuazione del
valore della concessione, stimato non secondo il criterio
del fatturato (come suggerito nella relazione del dirigente
comunale) ma secondo il diverso criterio del corrispettivo
da riconoscere al comune.
2. Il motivo di appello non può trovare accoglimento.
2.1. Giova premettere che la gara, bandita con determina del
27.01.2017 n. 38, soggiace alle disposizioni dettate dal
nuovo Codice dei contratti.
In questo specifico scenario normativo, di utile rilievo ai
fini della tesi promossa dalla parte appellante è l’art. 77,
comma 4, del d.lgs. 50/2016, il quale, nella sua versione
originaria (applicabile ratione temporis alla vicenda qui
all’esame) disponeva che “I commissari non devono aver
svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico
tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui
affidamento si tratta”.
Con successiva modifica introdotta in sede di correttivo
dall'art. 46, comma 1, lett. d), d.lgs. 19.04.2017, n. 56,
ma non applicabile ratione temporis alla fattispecie
vigente, il comma 4 è stato arricchito di un addendum
ai sensi del quale “la nomina del RUP a membro delle
commissioni di gara è valutata con riferimento alla singola
procedura”.
2.2.
Si tratta a questo punto di chiarire
quale sia la portata attribuibile alla prima versione
dell’art. 77, comma 4, e se essa possa essere intesa in
senso del tutto ostativo alla possibilità che in un medesimo
soggetto si cumulino le due funzioni di presidente di
Commissione e Rup (o presidente dell’ente aggiudicatore).
2.3. Una parte della giurisprudenza di primo grado ha
così inteso il comma 4, cogliendone il portato innovativo,
rispetto alle corrispondenti e previgenti disposizioni del
d.lgs. 163/2006, proprio nella scelta di introdurre una
secca incompatibilità tra le funzioni tipiche dell'ufficio
di RUP (o ruoli equivalenti) e l'incarico di componente e
finanche di presidente della commissione.
Ad integrazione e supporto di questa impostazione si è
altresì evidenziato che la nuova regola del comma 4 è di
immediata applicazione, non essendo condizionata
dall'istituzione dell'albo dei commissari previsto
dall'articolo 77, comma 2 (in questo senso TAR Latina, sez.
I, 23.05.2017, n. 325; TAR Brescia sez. II, 04.11.2017, n.
1306).
2.4. Per meglio intendere l’effetto innovativo dell’art. 77,
comma 4, si consideri che l'art. 84, comma 4, dell'abrogato
d.lgs. n. 163 del 2006 si limitava a sanzionare le
situazioni di incompatibilità dei soli membri della
commissione di gara diversi dal presidente ("i commissari
diversi dal Presidente non devono aver svolto né possono
svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o
amministrativo relativamente al contratto del cui
affidamento si tratta"); viceversa, l'incompatibilità
prevista dall’art. 77, comma 4, del d.lgs. n. 50/2016
-discendente anch’essa dall'aver svolto in passato o dallo
svolgere "alcun'altra funzione o incarico tecnico o
amministrativo relativamente al contratto del cui
affidamento si tratta"- non fa distinzione tra i
componenti della commissione di gara implicati nel cumulo di
funzioni e, pertanto, si estende a tutti costoro
indistintamente.
2.5. In favore di una lettura preclusiva del cumulo di
funzioni si era espressa anche l’ANAC nel primo schema delle
Linee Guida n. 3 che così recitava: "il ruolo di RUP è
incompatibile con le funzioni di commissario di gara e di
presidente della commissione giudicatrice (art. 77, comma 4,
del Codice)".
L’indirizzo dell’ANAC è mutato nel testo definitivo delle
Linee Guida (poi approvate con determinazione dell'ANAC n.
1096 del 26.10.2016) rielaborato, alla luce del parere del
Consiglio di Stato n. 1767/2016, nel senso che "Il ruolo
di RUP è, di regola, incompatibile con le funzioni di
commissario di gara e di presidente della commissione
giudicatrice (art. 77, comma 4 del Codice), ferme restando
le acquisizioni giurisprudenziali in materia di possibile
coincidenza" (punto 2.2., ultimo periodo).
2.6. Un secondo e opposto orientamento giurisprudenziale
ha invece interpretato l’art. 77, comma 4, in continuità con
l’indirizzo formatosi sul codice antevigente, giungendo così
a concludere che, nelle procedure di evidenza pubblica, il
ruolo di RUP può coincidere con le funzioni di commissario
di gara e di presidente della commissione giudicatrice, a
meno che non sussista la concreta dimostrazione
dell'incompatibilità tra i due ruoli, desumibile da una
qualche comprovata ragione di interferenza e di
condizionamento tra gli stessi (TAR Veneto, sez. I,
07.07.2017, n. 660; TAR Lecce, sez. I, 12.01.2018, n. 24;
TAR Bologna, sez. II, 25.01.2018, n. 87; TAR Umbria, sez. I,
30.03.2018, n. 192).
2.7. Il Collegio ritiene di dare séguito a
questo secondo orientamento, a ciò indotto dalle seguenti
considerazioni.
2.7.1. Innanzitutto, vi è ragione di dubitare che l’art. 77,
comma 4, nella sua versione ante correttivo, intendesse
precludere al RUP la partecipazione alla commissione.
Una tale lettura era stata avversata da questo stesso
Consiglio di Stato nel parere n. 1767, del 02.08.2016, reso
ad ANAC sullo schema di Linee Guida n. 3, nel quale la
Commissione speciale aveva così censurato l’impostazione
espressa nel documento all’esame: "...la disposizione che
in tal modo viene interpretata (e in maniera estremamente
restrittiva) è in larga parte coincidente con l'articolo 84,
comma 4 del previgente 'Codice' in relazione al quale la
giurisprudenza di questo Consiglio aveva tenuto un approccio
interpretativo di minor rigore, escludendo forme di
automatica incompatibilità a carico del RUP, quali quelle
che le linee-guida in esame intendono reintrodurre (sul
punto ex multis: Cons. Stato, V, n. 1565/2015). Pertanto,
non sembra condivisibile che le linee-guida costituiscano lo
strumento per revocare in dubbio (e in via amministrativa)
le acquisizioni giurisprudenziali..." (vedasi il punto "Pag.
3, par. 1.2., terzo periodo" del parere 1767/2016).
A seguire, la stessa ANAC era giunta ad affermare
l'inesistenza di una tale automaticità allorché, nel testo
delle Linee Guida licenziato il 26.10.2016, aveva fatto
riferimento alla circostanza che "il ruolo di RUP è, di
regola, incompatibile con le funzioni di commissario di gara
e di presidente della commissione giudicatrice (art. 77,
comma 4 del Codice), ferme restando le acquisizioni
giurisprudenziali in materia di possibile coincidenza".
2.7.2. Un secondo e decisivo elemento esegetico è costituito
dall'indicazione successivamente fornita dal legislatore, il
quale, integrando il disposto dell’art. 77, comma 4, ha
escluso ogni effetto di automatica incompatibilità
conseguente al cumulo delle funzioni, rimettendo
all'amministrazione la valutazione della sussistenza o meno
dei presupposti affinché il RUP possa legittimamente far
parte della commissione gara.
Sembra difficile negare che il correttivo normativo
introdotto nel 2017 abbia svolto una funzione di ausilio ad
una esegesi della disposizione che era già emersa alla luce
della prima versione dell’art. 77.
La soluzione così avallata, sebbene astrattamente opinabile
se riguardata in relazione al tenore testuale della prima
versione dell’art. 77, sembra tuttavia costituire l’esito
ermeneutico maggiormente coerente con l’opzione che il
legislatore ha inteso consolidare in via definitiva. A ciò
aggiungasi che una lettura funzionale ad una uniforme
applicazione della disposizione (pur nel mutamento della sua
formulazione testuale) è da preferirsi anche sotto il
profilo del riflesso che tale soluzione può assumere sulla
continuità e sul buon andamento degli indirizzi della prassi
amministrativa.
2.7.3. In questi stessi termini si è di recente espressa l’ANAC,
con il parere di cui alla deliberazione n. 193/2018, ove
proprio con riguardo ad una fattispecie riconducibile alla
prima versione dell’art. 77, comma 4, d.lgs. 50/2016- si è
chiarito che “al fine di evitare forme di automatica
incompatibilità a carico del RUP, l’eventuale situazione di
incompatibilità, con riferimento alla funzione di
commissario di gara e Presidente della commissione
giudicatrice, deve essere valutata in concreto dalla
stazione appaltante verificando la capacità di incidere sul
processo formativo della volontà tesa alla valutazione delle
offerte, potendone condizionare l’esito” (e nello stesso
senso si pone la precedente delibera ANAC n. 436 del
27.04.2017).
2.8. Dando seguito, pertanto, alla qui
condivisa impostazione secondo la quale non può essere
ravvisata nessuna automatica incompatibilità tra le funzioni
di RUP e quelle di componente della commissione
giudicatrice, a meno che essa non venga dimostrata in
concreto -nell’ottica
di una lettura dell’art. 77, comma 4, del d.lgs. n. 50/2016
che si ponga in continuità con l’indirizzo interpretativo
formatosi sul comma 4 dell’art. 84 del previgente d.lgs. n.
163/2006 (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. III,
18.01.2018, n. 695)- occorre ulteriormente
evidenziare che:
- la garanzia di trasparenza ed imparzialità nella
conduzione della gara impedisce la presenza nella
commissione di gara di soggetti che abbiano svolto
un’attività idonea a interferire con il giudizio di merito
sull’appalto di che trattasi
(cfr. Cons. Stato, sez. VI, 21.07.2011, n. 4438, parere n.
46 del 21.03.2012);
- la situazione di incompatibilità deve ricavarsi
dal dato sostanziale della concreta partecipazione alla
redazione degli atti di gara, al di là del profilo formale
della sottoscrizione o mancata sottoscrizione degli stessi e
indipendentemente dal fatto che il soggetto in questione sia
il funzionario responsabile dell'ufficio competente
(Cons. Stato, sez. V, 28.04.2014, n. 2191);
- per predisposizione materiale della legge di
gara deve quindi intendersi “non già un qualsiasi apporto
al procedimento di approvazione dello stesso, quanto
piuttosto una effettiva e concreta capacità di definirne
autonomamente il contenuto, con valore univocamente
vincolante per l'amministrazione ai fini della valutazione
delle offerte, così che in definitiva il suo contenuto
prescrittivo sia riferibile esclusivamente al funzionario”
(Cons. Stato, sez. V, 22.01.2015, n. 255 e 23.03.2015, n.
1565);
- ad integrare la prova richiesta, non è
sufficiente il mero sospetto di una possibile situazione di
incompatibilità, dovendo l’art. 84, comma 4, essere
interpretato in senso restrittivo, in quanto disposizione
limitativa delle funzioni proprie dei funzionari
dell'amministrazione
(Cons. Stato, sez. V, 22.01.2015, n. 255);
- detto onere della prova grava sulla parte che deduce la
condizione di incompatibilità (cfr. Cons. Stato, sez. V,
25.01.2016, n. 242 e 23.03.2017, n. 1320; Id., sez. III,
22.01.2015, n. 226);
- in ogni caso, la predetta incompatibilità non
può desumersi ex se dall’appartenenza del
funzionario-componente della Commissione, alla struttura
organizzativa preposta, nella fase preliminare di
preparazione degli atti di gara e nella successiva fase di
gestione, all'appalto stesso
(cfr. TAR Lazio, sez. III, 06.05.2014, n. 4728; TAR Lecce,
sez. III, 07.01.2015, n. 32). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'ordine di demolizione del manufatto abusivo, avendo natura
di sanzione amministrativa di carattere ripristinatorio, non
è soggetto alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod.
pen. per le sanzioni penali, né alla prescrizione stabilita
dall'art. 28 legge n. 689 del 1981 che riguarda unicamente
le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva.
---------------
Nessuna equiparazione può, logicamente, farsi tra la
demolizione e la confisca, trattandosi di due istituti
diversi che operano su piani completamente diversi: sanzionatoria la confisca e solo di riduzione in pristino
(riporta il paesaggio alla condizione iniziale, prima
dell'abuso) del bene leso, la demolizione.
Inoltre, la demolizione dell'immobile, attualmente
prevista dall'art. 31, comma 9, del T.U. n. 380/2001 e già
dall'art. 7 della legge 28.02.1985 n. 47, non è esclusa
nemmeno dall'alienazione a terzi della proprietà
dell'immobile abusivamente edificato. L'eventuale acquirente
(reale o simulato) dell'immobile abusivo subirà le
conseguenze della demolizione e potrà rivalersi, nelle sedi
competenti, nei confronti del venditore.
---------------
4. Il ricorso è inammissibile, per manifesta infondatezza
dei motivi (art. 606, comma 3, del cod. proc. pen.) e per
genericità, reitera i motivi dell'istanza 2 senza
confrontarsi con le motivazioni del provvedimento impugnato.
In materia di reati concernenti le violazioni edilizie,
l'ordine di demolizione del manufatto abusivo, avendo natura
di sanzione amministrativa di carattere ripristinatorio, non
è soggetto alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod.
pen. per le sanzioni penali, né alla prescrizione stabilita
dall'art. 28 legge n. 689 del 1981 che riguarda unicamente
le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva (Sez. 3, n.
36387 del 07/07/2015 - dep. 09/09/2015, Formisano, Rv.
264736; Sez. 3, n. 19742 del 14/04/2011 - dep. 19/05/2011,
Mercurio e altro, Rv. 250336).
5. La questione della natura sanzionatoria dell'ordine di
demolizione relativamente alle sentenze Cedu sulla confisca
è mal posta, oltre che generica.
Nessuna equiparazione può, infatti, logicamente farsi tra la
demolizione e la confisca, trattandosi di due istituti
diversi che operano su piani completamente diversi:
sanzionatoria la confisca e solo di riduzione in pristino
(riporta il paesaggio alla condizione iniziale, prima
dell'abuso) del bene leso, la demolizione (vedi Cass. Sez.
3, 22/10/2009, n. 48925, Viesti).
6. Inoltre, la demolizione dell'immobile, attualmente
prevista dall'art. 31, comma 9, del T.U. n. 380/2001 e già
dall'art. 7 della legge 28.02.1985 n. 47, non è esclusa
nemmeno dall'alienazione a terzi della proprietà
dell'immobile abusivamente edificato. L'eventuale acquirente
(reale o simulato) dell'immobile abusivo subirà le
conseguenze della demolizione e potrà rivalersi, nelle sedi
competenti, nei confronti del venditore (Sez. 3, 28/03/2007,
n. 22853, Coluzzi; Sez. 3, 11/02/2016, n. 5708, Woolgar).
7. La mera proposizione di una sanatoria non consente
l'automatica sospensione dell'ordine di demolizione, in
quanto il giudice penale deve valutare la ragionevole
previsione che, in un breve lasso di tempo, intervenga un
provvedimento amministrativo in insanabile contrasto con la
demolizione: «L'ordine di demolizione delle opere abusive
emesso con la sentenza passata in giudicato può essere
sospeso solo qualora sia ragionevolmente prevedibile, sulla
base di elementi concreti, che in un breve lasso di tempo
sia adottato dall'autorità amministrativa o giurisdizionale
un provvedimento che si ponga in insanabile contrasto con
detto ordine di demolizione» (Sez. 3, n. 42978 del
17/10/2007 - dep. 21/11/2007, Parisi, Rv. 238145; vedi
inoltre, Sez. 3, n. 9145 del 01/07/2015 - dep. 04/03/2016,
Manna, Rv. 266763) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 25.10.2018 n. 48834). |
EDILIZIA PRIVATA:
Opere abusive - Ordine di demolizione - Revoca o sospensione
dell'ordine di demolizione - Istanza di condono o sanatoria
successivamente al passaggio in giudicato della sentenza di
condanna - Effetti - Pendenza del condono edilizio -
Verifiche del giudice dell'esecuzione - Esclusione
dell'efficacia sanante sulle opere abusive - Pagamento
dell'oblazione - Art. 31 d.P.R. n. 380/2001.
La revoca o la sospensione dell'ordine
di demolizione delle opere abusive, di cui all'art. 31
d.P.R. n. 380 del 2001, in conseguenza della presentazione
di una istanza di condono o sanatoria successivamente al
passaggio in giudicato della sentenza di condanna,
presuppone l'accertamento da parte del giudice
dell'esecuzione della sussistenza di elementi che facciano
ritenere plausibilmente prossima la adozione da parte della
autorità amministrativa competente del provvedimento di
accoglimento (Sez.
3, n. 9145 del 01/07/2015 - dep. 04/03/2016, Manna) (
Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 25.10.2018 n. 48835 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI:
All’Adunanza plenaria le conseguenze dell’omessa indicazione
degli oneri di sicurezza nel nuovo Codice dei contratti.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta –
Oneri di sicurezza – Omessa indicazione separata –
Conseguenza – Art. 95, comma 10, d.lgs. n. 50 del 2016 –
Esclusione o soccorso istruttorio – Contrasto
giurisprudenziale – Rimessione all’Adunanza plenaria.
E’ rimessa all’Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato la questione se per le gare bandite nella
vigenza del d.lgs. 18.04.2016, n. 50, la mancata indicazione
separata degli oneri di sicurezza aziendale determini
immediatamente e incondizionatamente l’esclusione del
concorrente, senza possibilità di soccorso istruttorio,
anche quando non è in discussione l’adempimento da parte del
concorrente degli obblighi di sicurezza, né il computo dei
relativi oneri nella formulazione dell’offerta, né vengono
in rilievo profili di anomalia dell’offerta, ma si contesta
soltanto che l’offerta non specifica la quota di prezzo
corrispondente ai predetti oneri; nonché se, ai fini della
eventuale operatività del soccorso istruttorio, assuma
rilevanza la circostanza che la lex specialis richiami
espressamente l’obbligo di dichiarare gli oneri di sicurezza
(1).
---------------
Analoga rimessione è stata disposta dalla stessa Sezione con
ordinanza 26.10.2018, n. 6122.
(1) Ha chiarito la Sezione che sebbene l’Adunanza plenaria n. 19
del 2016 ha circoscritto la portata del principio enunciato
alle gare bandite nel vigore del d.lgs. n. 163 del 2006,
dichiarando espressamente di prescindere –perché il tema non
era oggetto del contendere e la relativa norma non era
applicabile ratione temporis– dagli effetti derivanti
dal nuovo Codice, non può, tuttavia, non evidenziarsi che
l’ampia formulazione dell’art. 80, comma 9, d.lgs. n. 50 del
2016 (che ammette il soccorso istruttorio con riferimento a
“qualsiasi elemento formale della domanda”) sembra
consentire, anche nella vigenza del nuovo Codice, di sanare
l’offerta che sia viziata solo per la mancata formale
indicazione separata degli oneri di sicurezza.
Sotto tale profilo, invero, la circostanza che, oggi, l’art.
95, comma 10, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, abbia esplicitato
che sussiste per l’operatore economico l’obbligo di indicare
in sede di offerta i propri costi per la manodopera e gli
oneri di sicurezza aziendali non sembra rappresentare
elemento di novità di per sé sufficiente a determinare il
superamento del principio di diritto enunciato dalla
sentenza dell’Adunanza plenaria n. 19 del 2016. Non va,
infatti, dimenticato che anche nel vigore del previgente
Codice, l’Adunanza plenaria aveva già desunto (v. in
particolare sentenza n. 3 del 2015) l’esistenza di un
obbligo normativo operante in tutte le gare d’appalto (ivi
comprese quelle di lavori) di indicare, a pena di
esclusione, gli oneri di sicurezza, precisando, altresì, che
pur nel silenzio della lex specialis, tale obbligo
dichiarativo eterointegrava il bando di gara.
Sotto tale profilo, l’art. 95, comma 10, d.lgs. n. 50 del
2016 si è limitato a rende esplicito un obbligo dichiarativo
che nel precedente sistema si ricavava, comunque,
implicitamente dal tessuto normativo. Non pare, tuttavia,
che tale espressa previsione normativa concernente l’obbligo
di indicare i costi di sicurezza aziendale sia un elemento
di novità di per sé in grado di escludere l’operatività del
soccorso istruttorio, il quale, peraltro, nel passaggio dal
vecchio al nuovo codice (specie con le ulteriori modifiche
apportate in sede di correttivo: d.lgs. n. 56 del 2017) è
stato persino potenziato (attraverso la generalizzazione del
principio di gratuità e l’eliminazione dell’ambigua
categoria delle c.d. irregolarità non essenziali).
Non sembra neanche che possa essere messo in discussione che
l’indicazione degli oneri di sicurezza sia un obbligo
previsto dalla legge a pena di esclusione e che, alla luce
del chiaro tenore testuale della previsione ora contenuta
nell’art. 95, comma 10, cit., il relativo obbligo
dichiarativo sia capace di eterointegrare il bando pur nel
silenzio della lex specialis. L’ammissibilità di un
fenomeno di eterointegrazione del bando, specie da parte di
norme legislative di contenuto univoco, è stato già
chiaramente riconosciuto in più occasioni dalla stessa
Adunanza plenaria (cfr. sentenza n. 9 del 2014, richiamata e
condivisa dalle sentenze nn. 3 e 9 del 2015 e n. 19 del
2016) e, anche rispetto a tale profilo, non sembra che il
nuovo Codice contenga elementi di novità capaci di
sovvertire tale conclusione.
L’eterointegrazione (e prima ancora la portata
potenzialmente escludente dell’obbligo dichiarativo di cui
si discute) non appare, tuttavia, argomento sufficiente ad
escludere l’operatività del soccorso istruttorio, ma, anzi,
ne costituisce il presupposto applicativo. Il soccorso
istruttorio, invero, opera proprio (od ormai solo) per le
c.d. irregolarità essenziali: cioè le inosservanze
dichiarative e documentali richieste a pena di esclusione.
L’esclusione del soccorso istruttorio per la mancata
indicazione degli oneri di sicurezza potrebbe semmai essere
argomentata diversamente, ovvero ritenendo che gli oneri di
sicurezza rappresentino (sempre e comunque) non un elemento
formale dell’offerta, ma un elemento sostanziale della
stessa, con la conseguenza che l’indicazione postuma
attraverso il soccorso istruttorio consentirebbe al
concorrente di determinare una (senz’altro inammissibile)
modifica ex post dell’offerta.
Sotto tale profilo, tuttavia, l’incondizionata
qualificazione degli oneri di sicurezza in termini di
elemento sostanziale dell’offerta si porrebbe in contrasto
con quanto precisato dall’Adunanza plenaria nella sentenza
n. 19 del 2016, la quale, come si è già ricordato, aveva
espressamente specificato (cfr. par. 35 della motivazione)
che: “gli oneri di sicurezza rappresentano un elemento
essenziale dell’offerta (la cui mancanza è in grado di
ingenerare una situazione di insanabile incertezza assoluta
sul suo contenuto) solo nel caso in cui si contesta al
concorrente di avere formulato un’offerta economica senza
considerare i costi derivanti dal doveroso adempimento dei
obblighi di sicurezza a tutela dei lavoratori. In questa
ipotesi, vi è certamente incertezza assoluta sul contenuto
dell’offerta e la sua successiva sanatoria richiederebbe una
modifica sostanziale del “prezzo” (perché andrebbe aggiunto
l’importo corrispondente agli oneri di sicurezza
inizialmente non computati). Laddove, invece, (come avviene
nel caso oggetto del presente giudizio), non è in
discussione l’adempimento da parte del concorrente degli
obblighi di sicurezza, né il computo dei relativi oneri
nella formulazione dell’offerta, ma si contesta soltanto che
l’offerta non specifica la quota di prezzo corrispondente ai
predetti oneri, la carenza, allora, non è sostanziale, ma
solo formale”.
Applicando il principio di diritto appena richiamato, la
qualificazione dell’omessa indicazione degli oneri di
sicurezza in termini di elemento formale dell’offerta (nel
caso in cui essi siano stati considerati ai fini del prezzo
ed inglobati in esso) imporrebbe, quindi, di consentire il
soccorso istruttorio a prescindere dalla circostanza, che di
per sé non appare dirimente alla luce dell’esistenza di un
pacifico principio di eterointegrazione, che la lex
specialis abbia richiamato o meno il relativo obbligo
dichiarativo.
Proprio tale rilievo apre ad una opzione esegetica che in
parte differisce anche da quella accolta dalla
III Sezione di questo Consiglio di Stato nella sentenza n.
2554 del 2018, o da quella sottesa alla questione
pregiudiziale attualmente al vaglio della Corte di
giustizia, nelle quali, invece, sembra attribuirsi rilievo
dirimente, ai fini di ammettere o negare il soccorso
istruttorio, proprio a questo dato formale (ovvero il
richiamo o meno nella lex specialis del relativo
obbligo dichiarativo).
Conclusione che sembra, tuttavia, contraddire, o, comunque,
attenuare, la portata del principio di etero-integrazione,
che la stessa giurisprudenza dell’Adunanza plenaria ha in
più occasioni ritenuto operante, specie se l’obbligo
legislativo risulta puntuale e univoco (come, puntuale e
univoco appare essere, appunto, quello previsto dall’art.
95, comma 10, d.lgs. n. 50 del 2016)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
ordinanza 25.10.2018 n. 6069 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Alla Corte costituzionale l’automaticità delle conseguenze
derivanti dalla dichiarazione mendace.
---------------
Procedimento amministrativo – Dichiarazione sostitutiva
atto di notorietà – Dichiarazione falsa – Conseguenza – Art.
75, d.P.R. n. 445 del 2000 – Conseguenza – Decadenza
automatica del beneficio – Violazione art. 3 Cost. –
Rilevante e non manifestamente infondata.
E’ rilevante e non manifestamente
infondata, per violazione dei principi di proporzionalità,
ragionevolezza e uguaglianza, di cui all’art. 3 Cost., la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 75, d.P.R.
28.12.2000, n. 445, nella parte in cui introduce un
automatismo legislativo tra la non veridicità della
dichiarazione resa dall’interessato e la perdita dei
benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato
sulla base della dichiarazione non veritiera (1).
---------------
(1) Analoga rimessione è stata disposta dalla Sezione con
ordinanze 23.10.2018, n. 1531,
25.10.2018, n. 1552 e
17.09.2018, n. 1346.
Ha chiarito la Sezione che le conseguenze decadenziali
(definitive) dal beneficio (peraltro, latu sensu
sanzionatorie), legate alla non veridicità obiettiva della
dichiarazione e, a fortiori, l’impedimento a
conseguire il beneficio medesimo, ai sensi del citato art.
75, d.P.R. 28.12.2000, n. 445, appaiono irragionevoli e
incostituzionali, contrastando con il principio di
proporzione, che è alla base della razionalità che, a sua
volta, informa il principio di uguaglianza sostanziale, ex
art. 3 Cost..
E tanto ove si considerino (innanzitutto e in via dirimente)
il meccanico automatismo legale (del tutto “slegato”
dalla fattispecie concreta) e l’assoluta rigidità
applicativa della norma in questione, che (da un lato)
impone tout court (senza alcun distinguo, né
gradazione) la decadenza dal beneficio (o l’impedimento al
conseguimento dello stesso), a prescindere dall’effettiva
gravità del fatto contestato (sia per le fattispecie in cui
la dichiarazione non veritiera riveste un’incidenza del
tutto marginale rispetto all’interesse pubblico perseguito
dalla P.A., sia per quelle nelle quali tale dichiarazione
risulta in netto contrasto con tale interesse, riservando,
quindi, il medesimo trattamento a situazioni di oggettiva
diversa gravità), e (dall’altro) non consente di escludere
nemmeno le ipotesi di non veridicità delle autodichiarazioni
su aspetti di minima rilevanza concreta, con ogni possibile
(e finanche prevedibile) abnormità e sproporzione delle
relative conseguenze, rispetto al reale disvalore del fatto
commesso.
Ha aggiunto la Sezione che è ben vero, infatti, che l’art.
75, d.P.R. n. 445 del 2000 deve qualificarsi quale norma
generale di semplificazione amministrativa.
Tuttavia, proprio in quanto tale, la suddetta norma, se, da
un lato, è sicuramente volta a rendere più efficiente ed
efficace l’azione dell’Amministrazione pubblica (buon
andamento, ai sensi dell’art. 97 Cost.), dall’altro è
(altrettanto inequivocabilmente) finalizzata a garantire i
diritti dei singoli costituzionalmente tutelati e di volta
in volta coinvolti nel procedimento amministrativo attivato
(e nell’ambito del quale sono state rese le
autodichiarazioni medesime): si pensi, ad esempio, al
diritto allo studio (art. 34), al diritto alla salute (art.
32), al diritto al lavoro (artt. 4 e 35), al diritto
all’assistenza sociale (art. 38), al diritto di iniziativa
economica privata (art. 41).
Sicché, anche nella prospettiva del necessario bilanciamento
degli interessi costituzionali coinvolti (nonché della
massima espansione possibile delle relative tutele), il
rigido automatismo applicativo (in uno ai correlati e
definitivi effetti preclusivi e/o decadenziali) si rivela,
in concreto, lesivo del doveroso equilibrio fra le diverse
esigenze in gioco, e persino tale da pregiudicare
definitivamente proprio quei diritti costituzionali del
singolo alla cui migliore e più rapida realizzazione la
norma di semplificazione de qua è, in definitiva,
finalizzata (TAR
Puglia-Lecce, Sez. III,
ordinanza 24.10.2018 n. 1544 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
2. - Rileva, innanzitutto, il Collegio che l’impugnato
diniego risulta motivato dalla P.A. resistente sulla scorta
dell’omessa dichiarazione, da parte dell’istante, di taluni
debiti verso l’Erario (e cioè, la preesistenza di talune
cartelle di pagamento, come risultante dalla nota P.E.C.
pervenuta dall’Agenzia delle Entrate - Riscossione in data
20.12.2017 e viste le osservazioni ricevute in data 15.01.2018, da cui risulta, per talune cartelle l’avvenuta
presentazione della domanda di definizione agevolata, per
altra cartella la proposizione di ricorso, e per altre
ancora l’intenzione di presentare domanda di definizione
agevolata, omettendo qualsiasi valutazione sull’entità -minima o meno- dei relativi importi e, quindi, in maniera
del tutto automatica), ai sensi, sostanzialmente (a ben
vedere), dell’art. 75 del D.P.R. 28.12.2000 n. 445.
E’ opportuno rammentare che l’articolo 75 (“Decadenza dai
benefici”) del D.P.R. 28.12.2000, n. 445 (“Testo unico
delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di
documentazione amministrativa”) dispone che:
“1. Fermo restando quanto previsto dall’articolo 76, qualora
dal controllo di cui all’articolo 71 emerga la non
veridicità del contenuto della dichiarazione, il dichiarante
decade dai benefici eventualmente conseguenti al
provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non
veritiera”.
La granitica giurisprudenza formatasi in “subiecta materia”
(ex plurimis, Consiglio di Stato, Sezione Quinta, 09.04.2013, n. 1933) ha osservato che il su riportato art. 75 del
D.P.R. n. 445/2000 <<si inserisce in un contesto in cui alla
dichiarazione sullo status o sul possesso di determinati
requisiti è attribuita funzione probatoria, da cui il dovere
del dichiarante di affermare il vero.
Ne consegue che la dichiarazione “non veritiera” al di là
dei profili penali, ove ricorrano i presupposti del reato di
falso, nell’ambito della disciplina dettata dalla L. n. 445
del 2000, preclude al dichiarante il raggiungimento dello
scopo cui era indirizzata la dichiarazione o comporta la
decadenza dall’utilitas conseguita per effetto del
mendacio”.
Pertanto, <<In tale contesto normativo, in cui la
“dichiarazione falsa o non veritiera” opera come fatto,
perde rilevanza l’elemento soggettivo ovvero il dolo o la
colpa del dichiarante>> (Consiglio di Stato, Sezione Quinta, cit., n. 1933/2013), “poiché, se così fosse, verrebbe meno
la ratio della disciplina che è volta a semplificare
l’azione amministrativa, facendo leva sul principio di autoresponsabilità del dichiarante” (Consiglio di Stato,
Sezione Quinta, 27.04.2012, n. 2447): sicché ogni
eventuale ulteriore circostanza, “senz’altro rilevante in
sede penale, in quanto ostativa alla configurazione del
falso ideologico, attesa la mancanza dell’elemento
soggettivo, ovvero della volontà cosciente e non coartata di
compiere il fatto e della consapevolezza di agire contro il
dovere giuridico di dichiarare il vero, non assume rilievo
nell’ambito della L. n. 445 del 2000, in cui il mendacio
rileva quale inidoneità della dichiarazione allo scopo cui è
diretto” (Consiglio di Stato, Sezione Quinta, cit., n.
1933/2013).
Ai sensi della normativa generale di cui all’art. 75 del
D.P.R. n. 445 del 2000, quindi, “la non veridicità di quanto autodichiarato rileva sotto un profilo oggettivo e conduce
alla decadenza dei benefici ottenuti con l'autodichiarazione
non veritiera”; così la sent. 13.09.2016, n. 9699)”
(TAR Lazio, Roma, Sezione III-ter, 24.05.2017, n.
6207), “senza che tale disposizione lasci margine di
discrezionalità alle Amministrazioni (cfr. ad es. CdS
1172/2017)” (TAR Liguria, Genova, Sezione Prima, 14.06.2017, n. 534).
In definitiva, per effetto della suddetta esegesi
consolidata (tale da assurgere al rango di “diritto
vivente”, sicché neppure è possibile per il Tribunale
operare una c.d. “interpretazione costituzionalmente
conforme”):
- l’applicazione dell’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000
comporta l’automatica decadenza dal beneficio eventualmente
già conseguito, non residuando, nell’applicazione della
predetta norma, alcun margine di discrezionalità alle PP.AA.
che, in sede di controllo (d’ufficio) ex art. 71 del
medesimo Testo Unico, si avvedano della (oggettiva) non
veridicità delle autodichiarazioni, posto che tale norma
prescinde, per la sua applicazione, dalla condizione
soggettiva del dichiarante, attestandosi (unicamente) sul
dato oggettivo della non veridicità, rispetto al quale
risulta, peraltro, del tutto irrilevante il complesso delle
giustificazioni addotte dal dichiarante medesimo;
- parimenti, tale disposizione, nel contemplare la decadenza
dai benefici conseguenti al provvedimento emanato sulla base
delle dichiarazioni non veritiere, impedisce (ovviamente e
a fortiori, come nel caso di specie) anche l’emanazione del
provvedimento (ampliativo) di accoglimento dell’istanza
tendente ad ottenere i benefici dalla P.A..
3. - Tuttavia, la predetta norma (art. 75 del D.P.R. n.
445/2000), intesa alla stregua dell’illustrato “diritto
vivente”, nel suo meccanico automatismo legale (del tutto
decontestualizzato dal caso specifico) e nella sua assoluta
rigidità applicativa (che non conosce eccezioni), sembra al
Collegio incostituzionale, per violazione dei principi di
ragionevolezza, proporzionalità e uguaglianza sanciti
dall’art. 3 della Costituzione.
4. - Ed invero, “il giudizio di ragionevolezza, lungi dal
comportare il ricorso a criteri di valutazione assoluti e
astrattamente prefissati, si svolge attraverso ponderazioni
relative alla proporzionalità dei mezzi prescelti dal
legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto
alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che
intende perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle
limitazioni concretamente sussistenti. Sicché, …
l’impossibilità di fissare in astratto un punto oltre il
quale scelte di ordine quantitativo divengono manifestamente
arbitrarie e, come tali, costituzionalmente illegittime, non
può essere validamente assunta come elemento connotativo di
un giudizio di merito, essendo un tratto che si riscontra …
anche nei giudizi di ragionevolezza.
Del resto,……, le censure di merito non comportano
valutazioni strutturalmente diverse, sotto il profilo
logico, dal procedimento argomentativo proprio dei giudizi
valutativi implicati dal sindacato di legittimità,
differenziandosene, piuttosto, per il fatto che in quest’ultimo
le regole o gli interessi che debbono essere assunti come
parametro del giudizio sono formalmente sanciti in norme di
legge o della Costituzione” (Corte Costituzionale, 22.12.1988, n. 1130).
In conclusione:
- per un verso, il giudizio di ragionevolezza della norma di
legge deve essere necessariamente ancorato al criterio di
proporzionalità, rappresentando quest’ultimo “diretta
espressione del generale canone di ragionevolezza (ex art. 3 Cost.)” (Corte Costituzionale,
01.06.1995, n. 220);
- per altro verso, la ragionevolezza va intesa come forma di
razionalità pratica (tenuto conto, appunto, “delle
circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti” -
Corte costituzionale, cit., n. 1130/1988), non riducibili
alla mera (e sola) astratta razionalità sillogistico -deduttiva e logico- formale, laddove (invece) la ragione
(pratica e concreta) deve essere aperta all’impatto che su
di essa esplica il caso, il fatto, il dato di realtà (che
diventa esperienza giuridica), solo così potendo
(doverosamente) valutarsi l’adeguatezza del mezzo al fine,
la ragionevolezza “intrinseca”, in uno agli (eventuali)
esiti ed effetti sproporzionati e/o paradossali che possono
concretamente derivare da una regola generale apparentemente
ed astrattamente logica.
In tal senso, il giudizio di ragionevolezza, lungi dal
limitarsi alla (sola) valutazione della singola situazione
oggetto della specifica controversia da cui sorge il
giudizio incidentale di legittimità costituzionale, si
appalesa idoneo (traendo spunto da quest’ultima) a vagliare
gli effetti della Legge sull’intera realtà sociale che la
Legge medesima è chiamata a regolare, anche in funzione
dell’<<“esigenza di conformità dell’ordinamento a valori di
giustizia e di equità” ... ed a criteri di coerenza logica,
teleologica …. , che costituisce un presidio contro
l’eventuale manifesta irrazionalità o iniquità delle
conseguenze della stessa» (sentenza n. 87 del 2012)>> (Corte
Costituzionale, sentenza 10.06.2014, n. 162).
E tanto anche confrontando i benefici che derivano
dall’adozione, per dir così, “neutra” del provvedimento con
i suoi “costi”, e valutando l’eventuale inadeguata
penalizzazione degli altri diritti e interessi di rango
costituzionale contestualmente in gioco (bilanciamento).
5. - Orbene, l’illustrata fattispecie di “automatismo
legislativo” di cui all’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000,
intesa alla stregua del “diritto vivente”, non sfugge, ad
avviso meditato del Collegio, a forti dubbi di
incostituzionalità per violazione dei principi di
proporzionalità, ragionevolezza e uguaglianza, di cui
all’art. 3 della Costituzione.
5.1 - Ed invero, le conseguenze decadenziali (definitive)
dal beneficio (peraltro, latu sensu sanzionatorie), legate
alla non veridicità obiettiva della dichiarazione, e, a fortiori, l’impedimento a conseguire il beneficio medesimo,
ai sensi del citato art. 75 del D.P.R. n. 445/2000, appaiono
al Tribunale irragionevoli e incostituzionali, contrastando
con il principio di proporzione, che è alla base della
razionalità che, a sua volta, informa il principio di
uguaglianza sostanziale, ex art. 3 della Costituzione.
E tanto ove si considerino (innanzitutto e in via dirimente)
il meccanico automatismo legale (del tutto “slegato” dalla
fattispecie concreta) e l’assoluta rigidità applicativa
della norma in questione, che (da un lato) impone tout court
(senza alcun distinguo, né gradazione) la decadenza dal
beneficio (o l’impedimento al conseguimento dello stesso), a
prescindere dall’effettiva gravità del fatto contestato (sia
per le fattispecie in cui la dichiarazione non veritiera
riveste un’incidenza del tutto marginale rispetto
all’interesse pubblico perseguito dalla P.A., sia per quelle
nelle quali tale dichiarazione risulta in netto contrasto
con tale interesse, riservando, quindi, il medesimo
trattamento a situazioni di oggettiva diversa gravità), e
(dall’altro) non consente di escludere nemmeno le ipotesi di
non veridicità delle autodichiarazioni su aspetti di minima
rilevanza concreta, con ogni possibile (e finanche
prevedibile) abnormità e sproporzione delle relative
conseguenze, rispetto al reale disvalore del fatto commesso.
5.2 - Sotto altro profilo, inoltre, l’assoluta rigidità
applicativa dell’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000 appare
eccessiva, in quanto non consente (parimenti
irragionevolmente e inadeguatamente) di valutare l’elemento
soggettivo (dolo -la c.d. coscienza e volontà di immutare
il vero- ovvero colpa, grave o meno -nell’ipotesi di fatto
dovuto a mera leggerezza o negligenza dell’agente) della
dichiarazione (oggettivamente) non veritiera, nella naturale
(e contestuale) sede del procedimento amministrativo (o
anche, laddove la P.A. lo ritenga, nell’ambito del
pertinente giudizio penale).
5.3 - Né può ritenersi che i suddetti dubbi di
costituzionalità possano essere superati facendo leva sulla
ratio sottesa alla disposizione di che trattasi,
rinvenibile, secondo il diritto “vivente” (cfr., ex plurimis,
Consiglio di Stato, Sezione Quinta, cit., n. 2447/2012), nel
principio generale di semplificazione amministrativa (cui si
accompagna l’affermazione dell’autoresponsabilità -
“oggettiva” - del dichiarante).
E’ ben vero, infatti, che l’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000
debba qualificarsi quale norma generale di semplificazione
amministrativa.
Tuttavia, proprio in quanto tale, la suddetta norma, se, da
un lato, è sicuramente volta a rendere più efficiente ed
efficace l’azione dell’Amministrazione pubblica (buon
andamento, ai sensi dell’art. 97 della Costituzione),
dall’altro è (altrettanto inequivocabilmente) finalizzata a
garantire i diritti dei singoli costituzionalmente tutelati
e di volta in volta coinvolti nel procedimento
amministrativo attivato (e nell’ambito del quale sono state
rese le autodichiarazioni medesime): si pensi, ad esempio,
al diritto allo studio (art. 34), al diritto alla salute
(art. 32), al diritto al lavoro (artt. 4 e 35), al diritto
all’assistenza sociale (art. 38), al diritto di iniziativa
economica privata (art. 41, come nel caso di specie).
Sicché, anche nella prospettiva del necessario bilanciamento
degli interessi costituzionali coinvolti (nonché della
massima espansione possibile delle relative tutele), il
rigido automatismo applicativo (in uno ai correlati e
definitivi effetti preclusivi e/o decadenziali) si rivela,
in concreto, lesivo del doveroso equilibrio fra le diverse
esigenze in gioco, e persino tale da pregiudicare
definitivamente proprio quei diritti costituzionali del
singolo alla cui migliore e più rapida realizzazione la
norma di semplificazione de qua è, in definitiva,
finalizzata.
E tanto vieppiù allorché si consideri che l’art. 40
(“Certificati”) del D.P.R. 28.12.2000, n. 445 (“Testo
unico delle disposizioni legislative e regolamentari in
materia di documentazione amministrativa”), come modificato
dall’art. 15, comma 1, lett. a), L. 12.11.2011, n.
183, ha disposto che “01. Le certificazioni rilasciate dalla
pubblica amministrazione in ordine a stati, qualità
personali e fatti sono valide e utilizzabili solo nei
rapporti tra privati. Nei rapporti con gli organi della
pubblica amministrazione e i gestori di pubblici servizi i
certificati e gli atti di notorietà sono sempre sostituiti
dalle dichiarazioni di cui agli articoli 46 e 47” e che
<<02. Sulle certificazioni da produrre ai soggetti privati è
apposta, a pena di nullità, la dicitura: “Il presente
certificato non può essere prodotto agli organi della
pubblica amministrazione o ai privati gestori di pubblici
servizi”>>: sicché, in definitiva, essendo il privato
obbligato, e non più (meramente) facultato, a presentare
alle PP.AA. le “dichiarazioni di cui agli articoli 46 e 47”,
la semplificazione de qua si risolve, in ultima analisi, per
un verso, nella (sicura) diminuzione degli adempimenti a
carico dell’Amministrazione Pubblica (a fronte dei controlli
d’ufficio, “anche a campione”, ai sensi dell’art. 71 del
D.P.R. n. 445/2000), e, per altro verso, nell’eccessiva
(considerate le conseguenze automatiche derivanti
dall’eventuale dichiarazione non veritiera, ex art. 75 del
D.P.R. n. 445/2000) autoresponsabilità (“oggettiva”) del
privato medesimo.
6. - Pertanto, rispetto ad una disposizione -l’art. 75 del
D.P.R. n. 445/2000-, nel significato in cui essa “vive”
nella (costante) applicazione giudiziale, il Collegio non
può che sollevare la questione di legittimità
costituzionale, tenuto conto, per quanto innanzi esposto,
che la stessa appare non superabile in via interpretativa
(in ragione, appunto, del “diritto vivente”) e non
manifestamente infondata.
7. - Inoltre, l’intervento del Giudice delle Leggi appare
assolutamente necessario nella presente controversia, non
potendosi prescindere dalla definizione (necessariamente e
logicamente pregiudiziale) di tale questione ai fini della
decisione del presente giudizio (in cui viene all’esame, per
l’appunto, una fattispecie nella quale la Pubblica
Amministrazione ha fatto pedissequa ed automatica
applicazione della norma in questione, a prescindere da
qualsivoglia valutazione in ordine all’entità -minima o
meno- dei debiti erariali emersi nel caso concreto), in
quanto, nell’ipotesi in cui il citato art. 75 del D.P.R. n.
445/2000 dovesse essere dichiarato incostituzionale,
verrebbe meno l’unico presupposto normativo posto,
sostanzialmente (a ben vedere), a fondamento del gravato
diniego, nel mentre, in caso contrario, il gravame sarebbe
infondato alla stregua delle censure formulate dalla parte
ricorrente.
8. - Il Collegio, in conclusione, ritiene che la questione
di legittimità costituzionale, per contrasto con i principi
di ragionevolezza, proporzionalità e uguaglianza di cui
all’art. 3 della Costituzione, dell’art. 75 del D.P.R. 28.12.2000, n. 445, sia rilevante (sussistendo, appunto,
il nesso di assoluta pregiudizialità tra la soluzione della
prospettata questione di legittimità costituzionale e la
decisione del presente giudizio) e non manifestamente
infondata, e debba, conseguentemente, essere rimessa
all’esame della Corte Costituzionale, mentre il giudizio in
corso deve essere sospeso fino alla decisione della
Consulta.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce -
Sezione Terza, pronunciando sul ricorso indicato in
epigrafe, sospende il giudizio e solleva questione di
legittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 3 della
Costituzione, nei sensi e termini di cui in motivazione,
dell’art. 75 del D.P.R. 28.12.2000, n. 445.
Dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte
Costituzionale. |
URBANISTICA:
In sintesi:
- in mancanza di diversa disposizione, il Piano Particolareggiato
deve essere attuato nel termine di 10 anni dalla sua
pubblicazione;
- decorso tale termine, il Piano Particolareggiato diventa
inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione,
fatti salvi gli allineamenti e le prescrizioni di zona
stabiliti dal Piano decaduto, che rimangono efficaci a tempo
indeterminato e dovranno essere osservati anche in futuro
nella costruzioni di nuovi edifici;
- dalla data di scadenza del Piano Particolareggiato, il Comune ha
due anni di tempo per presentare un nuovo Piano
Particolareggiato al fine di disciplinare (“assestare”)
la parte di piano rimasta inattuata;
- decorso tale termine, i privati proprietari di aree incluse nei
singoli comparti del piano decaduto possono presentare al
Comune proposte di formazione di singoli sub-comparti,
purché tali proposte non modifichino la destinazione d’uso
delle aree pubbliche e rispettinogli stessi rapporti dei
parametri urbanistici dello strumento attuativo decaduto;
- il Comune accoglie le proposte se sussiste l’”interesse
improcrastinabile dell'Amministrazione di dotare le aree di
infrastrutture e servizi”.
Dal quadro normativo qui sopra delineato discendono alcune
considerazioni essenziali ai fini del giudicare; vale a
dire:
- la formazione di sub-comparti può essere approvata dal Comune se
sussiste l’”interesse improcrastinabile dell'Amministrazione
di dotare le aree di infrastrutture e servizi”;
- tale interesse può sussistere soltanto nel caso in cui il Piano
Particolareggiato abbia già avuto una parziale attuazione
prima di decadere per decorso del termine decennale di
efficacia, giacché solo in tal caso, in presenza di
edificazioni residenziali già in parte realizzate con le
connesse opere di urbanizzazione, può sussistere
l’”interesse improcrastinabile” dell’Amministrazione a
completare le opere di urbanizzazione del comparto
edificatorio;
- per contro, la sussistenza di tale “improcrastinabile” interesse
dell’amministrazione di dotare le aree di infrastrutture e
servizi può dirsi esclusa nel caso in cui il Piano
Particolareggiato non abbia ricevuto avuto alcuna attuazione
nel termine decennale di sua efficacia, dal momento che in
tal caso è del tutto assente quell’esigenza di completare la
realizzazione delle opere di urbanizzazione del comparto che
invece contraddistingue l’ipotesi in cui il Piano sia già
stato attuato, ma solo in parte;
- in ogni caso, la valutazione circa l’esistenza di un “interesse
improcrastinabile dell'Amministrazione di dotare le aree di
infrastrutture e servizi” costituisce oggetto di una
valutazione ampiamente discrezionale della P.A., sindacabile
da questo giudice solo in presenza di vizi di macroscopica
illogicità o irragionevolezza o travisamento del fatto: vizi
che nel caso di specie, il collegio non ritiene sussistenti.
---------------
14. Con il primo motivo, i ricorrenti hanno dedotto
vizi di violazione dell’art. 17, comma 3, della L.
1150/1942, e di eccesso di potere per sviamento di potere,
illogicità, carenza di istruttoria e di motivazione; secondo
i ricorrenti:
- la formazione di sub-comparti costituirebbe, una volta decaduto
il Piano Particolareggiato, un’attività doverosa
dell’amministrazione comunale, priva di margini di
discrezionalità, essendo funzionale al soddisfacimento di un
duplice interesse pubblico: l’interesse improcrastinabile di
dotare le aree di infrastrutture e servizi (standards
urbanistici), e l’interesse all’attuazione delle previsioni
del Piano Particolareggiato decaduto, stante l’ultrattività
legale delle sue prescrizioni di zona, attraverso l’armonico
inserimento di nuovi manufatti residenziali; secondo i
ricorrenti, la formazione di subcomparti non sarebbe un atto
di pianificazione urbanistica, per sua natura discrezionale,
ma una mera riperimetrazione di aree che rimangono
assoggettate alle prescrizioni di zona contenute nel Piano
Particolareggiato decaduto; in questa fase,
l’amministrazione dovrebbe limitarsi a verificare che i
richiedenti siano i proprietari delle aree interessate dalla
formazione del sub-comparto e che non siano modificate le
destinazioni d’uso previste dal Piano Particolareggiato
decaduto; solo successivamente, in sede di presentazione dei
progetti di edificazione, l’amministrazione sarebbe chiamata
a valutare la conformità degli stessi alle prescrizioni
urbanistiche del Piano Particolareggiato, alle prescrizioni
del Piano paesaggistico e alla caratterizzazione
idrogeologica dell’area stessa; nel caso di specie, invece,
l’amministrazione ha attribuito all’atto di autorizzazione
alla formazione di sub-comparti la natura di strumento
urbanistico, per cui si è addentrata irritualmente in una
serie di valutazioni di “merito urbanistico” che, al
contrario, avrebbero potuto essere svolte soltanto nella
fase successiva ed eventuale di valutazione dei futuri
progetti di trasformazione urbanistica;
- in ogni caso, le valutazioni di merito formulate
dall’amministrazione comunale nella delibera consiliare
impugnata sarebbero illegittime, sotto plurimi profili; in
particolare:
a) il richiamo alla disciplina del Piano
Paesaggistico Regionale in itinere sarebbe viziato da
perplessità nelle parti in cui l’amministrazione ipotizza
che alcune aree potrebbero essere qualificate inedificabili
dal Piano Paesaggistico medesimo, e in ogni caso tale
valutazione non sembrerebbe riferirsi in alcun modo alle
aree di proprietà dei ricorrenti;
b) l’affermazione secondo cui “la suddivisione
del comparto in due sub-comparti non garantisce la
realizzazione di tutte le opere di urbanizzazione e delle
opere di riassetto del territorio”, sarebbe una mera
petizione di principio, e comunque sarebbe illogica dal
momento che gli obblighi di realizzazione delle opere di
urbanizzazione e di tutela idrogeologica sarebbero destinati
a sorgere in capo ai proprietari di ciascun sub-comparto
soltanto a seguito dell’approvazione dei rispettivi progetti
di edificazione e della stipula delle relative convenzioni
accessive;
c) parimenti illogica sarebbe l’affermazione
secondo cui la suddivisione in sub-comparti potrebbe
determinare “disparità di trattamento tra aree di
proprietari differenti”, dal momento che sarebbe stato
compito degli uffici comunali verificare quale sarebbe stata
la futura ripartizione degli oneri di urbanizzazione e di
difesa idrogeologica spettante ai proprietari delle aree di
ciascun sub-comparto; e in ogni caso il consiglio comunale
avrebbe potuto tutelare l’interesse pubblico alla completa
realizzazione, in futuro, delle opere di urbanizzazione
stabilendo sin d’ora un criterio di ripartizione dei costi
tra tutti i proprietari di aree comprese nei vari
sub-comparti in proporzione all’estensione delle aree
medesime; conseguente violazione del principio di
proporzionalità; inoltre, vi sarebbe violazione dell’art. 10
della l. n. 241/1990 dal momento che l’amministrazione non
avrebbe preso in considerazione l’impegno formale del sig.
Ac.Ma. a partecipare agli oneri di urbanizzazione e di
difesa delle acque;
d) l’amministrazione ha ritenuto che non sussista
il presupposto di cui all’art. 17, comma 3, L. 1150/1942
dell’interesse improcrastinabile di dotare le aree di
infrastrutture e servizi, ma secondo i ricorrenti si
tratterebbe di affermazione illogica e contraddittoria, dal
momento che proprio la formazione dei sub-comparti creerà i
presupposti per la realizzazione delle opere di
urbanizzazione;
e) le asserite ragioni di contrasto tra le
istanze presentate dai diversi interessati sarebbero del
tutto indeterminate: eventuali sovrapposizioni spaziali tra
i vari progetti avrebbero potuto essere ovviate su
iniziativa degli uffici comunali attraverso semplici
rettifiche dei perimetri;
f) non vi sarebbe alcuna differenziazione tra
l’istanza del solo Ma. e quella presentata da quest’ultimo
assieme ad altri; in entrambi i casi sarebbe stata garantita
la realizzazione delle opere di urbanizzazione e delle opere
di difesa del suolo.
14.1. Il collegio ritiene che l’articolata censura di parte
ricorrente non possa essere condivisa.
Giova prendere le mosse dalla disposizione normativa sulla
quale ruota l’oggetto del presente giudizio, vale a dire
l’art. 17 della L. 17.08.1942 n. 1150.
Tale norma così dispone: “1] Decorso il termine stabilito
per la esecuzione del piano particolareggiato questo diventa
inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione,
rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato l'obbligo di
osservare nella costruzione di nuovi edifici e nella
modificazione di quelli esistenti gli allineamenti e le
prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso.
[2] Ove il comune non provveda a presentare un nuovo piano
per il necessario assesto della parte di piano
particolareggiato che sia rimasta inattuata per decorso di
termine, la compilazione potrà essere disposta dal prefetto
a norma del secondo comma dell'art. 14.
[3] Qualora, decorsi due anni dal termine per l'esecuzione
del piano particolareggiato, non abbia trovato applicazione
il secondo comma, nell'interesse improcrastinabile
dell'Amministrazione di dotare le aree di infrastrutture e
servizi, il comune, limitatamente all'attuazione anche
parziale di comparti o comprensori del piano
particolareggiato decaduto, accoglie le proposte di
formazione e attuazione di singoli sub-comparti,
indipendentemente dalla parte restante del comparto, per
iniziativa dei privati che abbiano la titolarità dell'intero
sub-comparto, purché non modifichino la destinazione d'uso
delle aree pubbliche o fondiarie rispettando gli stessi
rapporti dei parametri urbanistici dello strumento attuativo
decaduti. I sub-comparti di cui al presente comma non
costituiscono variante urbanistica e sono approvati dal
consiglio comunale senza l'applicazione delle procedure di
cui agli articoli 15 e 16”.
Tale norma va letta in combinato disposto con l’art. 16,
comma 5, della stessa legge, secondo cui “Col decreto di
approvazione sono decise le opposizioni e sono fissati il
tempo, non maggiore di anni 10, entro il quale il piano
particolareggiato dovrà essere attuato ed i termini entro
cui dovranno essere compiute le relative espropriazioni”.
14.2. In sintesi:
- in mancanza di diversa disposizione, il Piano Particolareggiato
deve essere attuato nel termine di 10 anni dalla sua
pubblicazione;
- decorso tale termine, il Piano Particolareggiato diventa
inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione,
fatti salvi gli allineamenti e le prescrizioni di zona
stabiliti dal Piano decaduto, che rimangono efficaci a tempo
indeterminato e dovranno essere osservati anche in futuro
nella costruzioni di nuovi edifici;
- dalla data di scadenza del Piano Particolareggiato, il Comune ha
due anni di tempo per presentare un nuovo Piano
Particolareggiato al fine di disciplinare (“assestare”)
la parte di piano rimasta inattuata;
- decorso tale termine, i privati proprietari di aree incluse nei
singoli comparti del piano decaduto possono presentare al
Comune proposte di formazione di singoli sub-comparti,
purché tali proposte non modifichino la destinazione d’uso
delle aree pubbliche e rispettinogli stessi rapporti dei
parametri urbanistici dello strumento attuativo decaduto;
- il Comune accoglie le proposte se sussiste l’”interesse
improcrastinabile dell'Amministrazione di dotare le aree di
infrastrutture e servizi”.
14.3. Dal quadro normativo qui sopra delineato discendono
alcune considerazioni essenziali ai fini del giudicare; vale
a dire:
- la formazione di sub-comparti può essere approvata dal Comune se
sussiste l’”interesse improcrastinabile
dell'Amministrazione di dotare le aree di infrastrutture e
servizi”;
- tale interesse può sussistere soltanto nel caso in cui il Piano
Particolareggiato abbia già avuto una parziale attuazione
prima di decadere per decorso del termine decennale di
efficacia, giacché solo in tal caso, in presenza di
edificazioni residenziali già in parte realizzate con le
connesse opere di urbanizzazione, può sussistere l’”interesse
improcrastinabile” dell’Amministrazione a completare le
opere di urbanizzazione del comparto edificatorio;
- per contro, la sussistenza di tale “improcrastinabile”
interesse dell’amministrazione di dotare le aree di
infrastrutture e servizi può dirsi esclusa nel caso in cui
il Piano Particolareggiato non abbia ricevuto avuto alcuna
attuazione nel termine decennale di sua efficacia, dal
momento che in tal caso è del tutto assente quell’esigenza
di completare la realizzazione delle opere di urbanizzazione
del comparto che invece contraddistingue l’ipotesi in cui il
Piano sia già stato attuato, ma solo in parte;
- in ogni caso, la valutazione circa l’esistenza di un “interesse
improcrastinabile dell'Amministrazione di dotare le aree di
infrastrutture e servizi” costituisce oggetto di una
valutazione ampiamente discrezionale della P.A., sindacabile
da questo giudice solo in presenza di vizi di macroscopica
illogicità o irragionevolezza o travisamento del fatto: vizi
che nel caso di specie, il collegio non ritiene sussistenti (TAR
Piemonte, Sez. II,
sentenza 24.10.2018 n. 1153 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Fermo restando che la denuncia anonima non può
essere utilizzata a fini probatori, onde in base a essa non
possono essere compiuti atti, quali ad esempio le
intercettazioni telefoniche, le perquisizioni o i sequestri
(ossia atti di indagine che presuppongono l'esistenza di
indizi di reato), tuttavia le notizie contenute nella
denuncia anonima possono -anzi devono, per effetto del
principio dell'obbligatorietà dell'azione penale- costituire
spunti per una investigazione di iniziativa del pubblico
ministero o della polizia giudiziaria al fine di assumere
dati conoscitivi diretti a verificare se dall'anonimo
possano ricavarsi gli estremi di una notitia criminis.
Invero, “Una denuncia anonima non può essere posta a
fondamento di atti tipici di indagine e, quindi, non è
possibile procedere a perquisizioni, sequestri e
intercettazioni telefoniche, trattandosi di atti che
implicano e presuppongono l’esistenza di indizi di reità.
Tuttavia, gli elementi contenuti nelle denunce anonime
possono stimolare l’attività di iniziativa del pubblico
ministero e della polizia giudiziaria al fine di assumere
dati conoscitivi, diretti a verificare se dall’anonimo
possano ricavarsi estremi utili per l’individuazione di una
notitia criminis”.
---------------
10. Nel merito il ricorso è infondato e va pertanto
rigettato, dovendosi disattendere tutte le doglianze
articolate.
11. Quanto all’inutilizzabilità dell’esposto anonimo ai fini
dell’avvio del procedimento, in applicazione analogica
dell’art. 333, comma 3, c.p.p. occorre evidenziare che
l’orientamento giurisprudenziale citato in ricorso appare
superato da un successivo e maggiormente condivisibile
orientamento giurisprudenziale affermatosi nella
giurisprudenza penale.
11.1. In particolare deve osservarsi che nella prevalente
impostazione ermeneutica l’apporto conoscitivo dell’esposto
anonimo è limitato nell'ambito della c.d. pre-inchiesta,
ossia nella fase in cui gli organi investiganti ricercano
elementi utili per l'individuazione della notizia di reato e
che si caratterizza, da un lato (sotto il profilo
procedurale) per l'atipicità e l'informalità delle attività
svolte sia dal pubblico ministero, che dalla polizia
giudiziaria; dall'altro (sotto il profilo cronologico) per
la collocazione in un momento antecedente all'avvio delle
indagini preliminari.
Infatti, secondo una consolidata giurisprudenza del giudice
penale (ex multis, Cass. pen., Sez. V, 28.10.2008, n.
4329, Sez. VI, 21.09.2006, n. 36003), fermo restando che la
denuncia anonima non può essere utilizzata a fini probatori,
onde in base a essa non possono essere compiuti atti, quali
ad esempio le intercettazioni telefoniche, le perquisizioni
o i sequestri (ossia atti di indagine che presuppongono
l'esistenza di indizi di reato), tuttavia le notizie
contenute nella denuncia anonima possono -anzi devono, per
effetto del principio dell'obbligatorietà dell'azione
penale- costituire spunti per una investigazione di
iniziativa del pubblico ministero o della polizia
giudiziaria al fine di assumere dati conoscitivi diretti a
verificare se dall'anonimo possano ricavarsi gli estremi di
una notitia criminis.
Del resto -sebbene facendo leva sul tenore letterale degli
articoli 240, comma 1, e 333, comma 3, cod. proc. pen. le
disposizioni ivi contenute si prestino essere interpretate
nel senso di escludere che l'esposto anonimo non consenta
l'avvio di alcun tipo di accertamento- tuttavia tale
interpretazione è smentita dall'art. 330 cod. proc. pen.,
che permette alla polizia giudiziaria ed al pubblico
ministero di formare autonomamente la notizia di reato,
accedendo a fonti d'informazione c.d. spurie, tra le quali
si inserisce anche l'esposto anonimo.
Inoltre la prevalente impostazione ermeneutica trova
conferma nell'art. 5 del D.M. 30.09.1989 (recante il "Regolamento
per l'esecuzione del codice di procedura penale"), ove
si prevede che:
a) "le denunce e gli altri documenti anonimi che non possono
essere utilizzati nel procedimento sono annotati in apposito
registro suddiviso per anni, nel quale sono iscritti la data
in cui il documento è pervenuto e il relativo oggetto";
b) il predetto registro (c.d. modello 46) ed i documenti anonimi
sono "custoditi presso la procura della Repubblica con
modalità tali da assicurarne la riservatezza" (comma 2);
c) "decorsi cinque anni da quando i documenti indicati nel comma
1 sono pervenuti alla procura della Repubblica, i documenti
stessi e il registro sono distrutti con provvedimento
adottato annualmente dal procuratore della Repubblica".
Ciò posto, come chiarito anche di recente dalla Suprema
Corte “Una denuncia anonima non può essere posta a
fondamento di atti tipici di indagine e, quindi, non è
possibile procedere a perquisizioni, sequestri e
intercettazioni telefoniche, trattandosi di atti che
implicano e presuppongono l’esistenza di indizi di reità.
Tuttavia, gli elementi contenuti nelle denunce anonime
possono stimolare l’attività di iniziativa del pubblico
ministero e della polizia giudiziaria al fine di assumere
dati conoscitivi, diretti a verificare se dall’anonimo
possano ricavarsi estremi utili per l’individuazione di una
notitia criminis” (Cass. pen., sez. VI, 22.04.2016 che
ha pertanto ammesso l’utilizzabilità dell’anonimo
esclusivamente come “mero atto di impulso investigativo
per verificare l’esistenza di una notitia criminis”).
11.2. Si evidenzia al riguardo che nell’ipotesi di specie
l’esposto anonimo è stato solo il sollecito sulla cui base
si è condotta un’attività accertativa d’ufficio
concretizzatasi, a seguito di apposito sopralluogo, nel
rapporto fascicolo 23315 del 25/09/1996 richiamato nel
provvedimento gravato, con cui si è constata ad opera del
Corpo dei Vigili Urbani, Comando del XX Gruppo Circ.le, la
realizzazione dei cancelli di cui è causa -laddove per
contro con l’esposto anonimo si era lamentata l’istallazione
abusiva di un unico cancello- per cui l’Unita organizzativa
tecnica della circoscrizione XX del Comune di Roma ha
qualificato le opere de quibus come opere eseguite in
assenza di D.I.A. e suscettibili pertanto di essere
sanzionate ai sensi dell’art. 60, comma 2, l. 662/1996.
Da ciò l’infondatezza della doglianza al riguardo formulata.
12. Ciò posto, senza dubbio destituita di fondamento è anche
la censura fondata sull’asserita contraddittorietà fra
l’esposto anonimo e le risultanza del sopralluogo, in
quanto, come detto, l’esposto anonimo è stato solo l’impulso
al fine di accertare d’ufficio la presenza di abusi edilizi,
per cui valore probatorio deve assegnarsi unicamente alle
risultanze del sopralluogo, peraltro eseguito da soggetti
qualificabili quali pubblici ufficiali; da ciò il valore di
fede privilegiata, ovvero sino a querela di falso ex art.
2700 c.c. da assegnarsi alle predette risultanze (cfr., in
tali senso, Cons. Stato, sez. quinta, sentenza 03.11.2010,
n. 7770; 28.01.1998, n. 103; sezione prima, 08.01.2010, n.
250 e cfr. anche, per il principio, Tar Campania, sesta
sezione, n. 760 del 06.02. 2013; 11.12.2012, n. 5084,
21.06.2012, n. 2944; 02.05.2012, n. 2006, 02.05.2012, n.
2006, 05.06.2012, n. 2635 e n. 2644; 30.03.2011, n. 1856;
sezione terza, 20.11.2012, n. 4638; sezione quarta,
03.01.2013, n. 59) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 23.10.2018 n. 10268 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per pacifica giurisprudenza l’applicazione delle
sanzioni in materia edilizia è un atto tipicamente
vincolato.
Presupposto per la loro adozione è pertanto soltanto la
constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza
del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che,
essendo tali sanzioni atti dovuti, esse sono
sufficientemente motivate con l’accertamento dell’abuso, e
non necessitano di una particolare motivazione in ordine
all’interesse pubblico che è in re ipsa.
---------------
Per costante giurisprudenza in materia, l'onere di fornire la
prova dell'epoca di realizzazione di un abuso edilizio e
della sua sanabilità incombe sull'interessato, e non
sull'Amministrazione, la quale, in presenza di un'opera
edilizia non assistita da un titolo che la legittimi, ha
solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge.
Si è dunque affermato in giurisprudenza il principio che la
prova circa l'epoca di realizzazione delle opere edilizie e
la relativa consistenza è nella disponibilità
dell'interessato, e non dell'Amministrazione, dato che solo
l'interessato può fornire gli inconfutabili atti, documenti
o gli elementi probatori che siano in grado di radicare la
ragionevole certezza dell'addotta sanabilità del manufatto
che, nel caso della doppia conformità, necessita della
previa verifica dell'epoca di realizzazione delle opere,
stante la necessità di poterne accertare la conformità sia
con riferimento all'epoca di realizzazione, che alla data
della domanda.
Detto principio ben può essere applicato non solo
nell’ipotesi in cui la data di realizzazione degli
interventi edilizi eseguiti sine titulo sia rilevante
per la loro sanabilità, ma anche allorquando, come nella
specie, la stessa sia rilevante per lo stesso accertamento
della necessità del titolo edilizio, dovendosi in ogni caso
fare applicazione del principio processualcivilistico in
base al quale la ripartizione dell’onere della prova va
effettuata secondo il principio della vicinanza della prova.
---------------
Non avendo parte ricorrente offerto prova, parimenti
destituita di fondamento è la censura riferita alla non
applicabilità della predetta sanzione alle ricorrenti, in
qualità di proprietari dell’immobile in cui sarebbero state
da altri realizzate le opere edili di cui è causa, in quanto
a seguito dell’entrata in vigore della l. 47/1985 si è
andato per contro affermando il principio secondo il quale a
norma dell’att. 6 l. n. 47 del 1985 sussiste a carico del
proprietario dell'immobile una presunzione semplice di
responsabilità per gli abusi edilizi accertati, sicché
l'interessato può sottrarsi a tale responsabilità
dimostrando la sua estraneità all'abuso commesso da altri .
---------------
E' destituita di fondamento la censura riferita
all’illegittimità della sanzione demolitoria, stante il
lasso di tempo trascorso fra l’avvio dell’istruttoria e
l’irrogazione della sanzione, dovendosi applicare il
principio giurisprudenziale secondo il quale “Il
provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente,
la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da
alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente
ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in
diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di
pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino
della legittimità violata) che impongono la rimozione
dell'abuso neanche nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di
demolizione intervenga a distanza di tempo dalla
realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia
responsabile dell'abuso e il trasferimento non denoti
intenti elusivi dell'onere di ripristino”, principio questo
applicabile in riferimento a tutte le sanzioni in materia
edilizia e non solamente in riferimento all’ordine di
demolizione, ricorrendo il medesimo presupposto della natura
vincolata del potere esercitato.
---------------
14. Parimenti infondate sono le ulteriori censure, riferite
al difetto di motivazione e di istruttoria in relazione alla
sussistenza dei presupposti per l’applicazione della
sanzione di cui è causa.
Si evidenzia al riguardo che per pacifica giurisprudenza
l’applicazione delle sanzioni in materia edilizia è un atto
tipicamente vincolato.
Presupposto per la loro adozione è pertanto soltanto la
constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza
del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che,
essendo tali sanzioni atti dovuti, esse sono
sufficientemente motivate con l’accertamento dell’abuso, e
non necessitano di una particolare motivazione in ordine
all’interesse pubblico che è in re ipsa (ex
multis, TAR Campania Napoli, Sez. IV, 28.12.2009, n.
9638; Sez. VI, 09.11.2009, n. 7077; Sez. VII, 04.12.2008 ,
n. 20987).
Ed invero nell’ipotesi di specie, avendo l’Amministrazione
comunale accertato la realizzazione delle opere de quibus
in assenza della prescritta D.I.A., alcun altro accertamento
doveva essere condotto dalla medesima, incombendo su parte
ricorrente, cui era stata ritualmente inviata la
comunicazione di avvio del procedimento, la prova della loro
realizzazione in data antecedente l’entrata in vigore della
L. 47/1985, onde ritenere che le stesse fossero sottratte
non solo al regime della D.I.A., ma anche a quello
dell’autorizzazione, laddove detto onere non è stato assolto
non solo in sede procedimentale –non risultando che parte
ricorrente abbia prodotto in quella sede memorie scritte e
documenti, per cui si palesa infondata la dedotta violazione
dell’art. 10 l. 241/1990– ma neanche nella presente sede.
Infatti per costante giurisprudenza in materia (ex multis
TAR Campania Napoli, sez. VI, 17/09/2015, n. 4565 Cons. St.,
sez. IV, 14.02.2012 n. 703; TAR Campania, Napoli, sez. VIII,
02.07.2010 n. 16569; Cons. St., sez. IV, 10.01.2014 n. 46;
Cons. St., sez. III, 13.09.2013 n. 4546; Cons. St., sez. VI,
20.12.2013 n. 6159, Cons. St., sez. V, 20.08.2013 n. 4182;
Cons. St., sez. VI, 01.02.2013 n. 631) l'onere di fornire la
prova dell'epoca di realizzazione di un abuso edilizio e
della sua sanabilità incombe sull'interessato, e non
sull'Amministrazione, la quale, in presenza di un'opera
edilizia non assistita da un titolo che la legittimi, ha
solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge.
Si è dunque affermato in giurisprudenza il principio che la
prova circa l'epoca di realizzazione delle opere edilizie e
la relativa consistenza è nella disponibilità
dell'interessato, e non dell'Amministrazione, dato che solo
l'interessato può fornire gli inconfutabili atti, documenti
o gli elementi probatori che siano in grado di radicare la
ragionevole certezza dell'addotta sanabilità del manufatto
che, nel caso della doppia conformità, necessita della
previa verifica dell'epoca di realizzazione delle opere,
stante la necessità di poterne accertare la conformità sia
con riferimento all'epoca di realizzazione, che alla data
della domanda.
Detto principio ben può essere applicato non solo
nell’ipotesi in cui la data di realizzazione degli
interventi edilizi eseguiti sine titulo sia rilevante
per la loro sanabilità, ma anche allorquando, come nella
specie, la stessa sia rilevante per lo stesso accertamento
della necessità del titolo edilizio, dovendosi in ogni caso
fare applicazione del principio processualcivilistico in
base al quale la ripartizione dell’onere della prova va
effettuata secondo il principio della vicinanza della prova
(cfr. per tutte Cassazione S.U. 30.10.2001 sentenza n.
13533).
Nell’ipotesi di specie per contro alcuna prova è stata al
riguardo fornita, non potendosi annettere valore di prova in
tale senso all’impegno contrattuale assunto dalla società
Ac.Im.80 circa l’istallazione dei cancelli entro il mese di
Maggio 1984, non essendovi alcuna prova in atti che in
effetti i cancelli siano stati apposti entro la suddetta
data e comunque in data anteriore all’entrata in vigore
della L. 47/1985.
14.1. Non avendo parte ricorrente offerto siffatta prova,
parimenti destituita di fondamento è la censura riferita
alla non applicabilità della predetta sanzione alle
ricorrenti, in qualità di proprietari dell’immobile in cui
sarebbero state da altri realizzate le opere edili di cui è
causa, in quanto a seguito dell’entrata in vigore della l.
47/1985 si è andato per contro affermando il principio
secondo il quale a norma dell’att. 6 l. n. 47 del 1985
sussiste a carico del proprietario dell'immobile una
presunzione semplice di responsabilità per gli abusi edilizi
accertati, sicché l'interessato può sottrarsi a tale
responsabilità dimostrando la sua estraneità all'abuso
commesso da altri (ex multis TAR Sicilia Palermo Sez.
II, 04.07.2014, n. 1744); per contro detta estraneità non
può affermarsi nell’ipotesi di specie, in quanto le opere
de quibus, anche se realizzate dalla società Ac.Im.80,
erano state eseguite per conto ed in favore dei coniugi Fa.,
come da impegno contrattuale al riguardo intervenuto, con la
conseguenza che alcun esonero di responsabilità può farsi
valere nell’odierna sede, salva la possibilità di rivalsa in
sede civile per inesatto inadempimento dell’obbligazione
assunta dalla società Ac.Im.80.
15. Parimenti destituita di fondamento è la censura riferita
all’illegittimità della sanzione applicata, stante il lasso
di tempo trascorso fra l’avvio dell’istruttoria e
l’irrogazione della sanzione, dovendosi applicare il
principio giurisprudenziale, di recente ribadito con
sentenza dell’Adunanza Plenaria 17/10/2017, n. 9 secondo il
quale “Il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure
tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e
giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura
vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi
presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione
in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da
quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che
impongono la rimozione dell'abuso neanche nell'ipotesi in
cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di
tempo dalla realizzazione dell'abuso, il titolare attuale
non sia responsabile dell'abuso e il trasferimento non
denoti intenti elusivi dell'onere di ripristino”,
principio questo applicabile in riferimento a tutte le
sanzioni in materia edilizia e non solamente in riferimento
all’ordine di demolizione, ricorrendo il medesimo
presupposto della natura vincolata del potere esercitato (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 23.10.2018 n. 10268 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Circa il diniego dell'istanza di autorizzazione,
ai sensi dell’art. 53, comma 7, del d.lgs. n. 165/2001, allo
svolgimento al di fuori dell’orario di lavoro dell’attività
di imprenditore agricolo, la questione deve essere risolta
nel senso della declaratoria del difetto di giurisdizione di
questo G.A., in base all’art. 63, comma 1, del d.lgs. n.
165/2001, avendo gli atti impugnati natura,
indiscutibilmente, di atti di gestione del rapporto di
lavoro del dipendente pubblico (che è ricompreso nel cd.
pubblico impiego contrattualizzato) ed essendo, perciò, la
loro cognizione devoluta al G.O..
---------------
Considerato che con il ricorso in epigrafe il sig. Ca.Be.
–dipendente del Comune di Grisignano del Zocco (VI) assunto
a tempo indeterminato nel 2003 con qualifica di “operaio
specializzato”, cat. giur. B3, cat. econ. B4– ha
impugnato i seguenti atti:
- la nota del Sindaco di Grisignano di Zocco prot. n. 3571 del
20.04.2018, a mezzo della quale è stata respinta la
richiesta del medesimo sig. Be. di essere autorizzato, ai
sensi dell’art. 53, comma 7, del d.lgs. n. 165/2001, allo
svolgimento al di fuori dell’orario di lavoro dell’attività
di imprenditore agricolo;
- la nota a firma del responsabile dell’Area Tecnica del Comune di
Grisignano di Zocco prot. n. 2264 del 07.03.2018, richiamata
dalla nota di cui al punto precedente;
Considerato che il ricorrente ha chiesto l’annullamento,
previa sospensione dell’esecuzione, degli atti impugnati,
per i dedotti motivi di legittimità;
Considerato che si è costituito in giudizio il Comune di
Grisignano del Zocco, eccependo, in rito, il difetto di
giurisdizione dell’adito G.A. e, nel merito, l’infondatezza
del ricorso;
Considerato che in esito alla Camera di consiglio del
17.10.2018 –dato avviso alle parti costituite circa la
possibilità della definizione del giudizio con sentenza cd.
semplificata, previa conversione del rito, ai sensi degli
artt. 60 e 74 c.p.a., e dopo sintetica discussione–, la
causa è stata trattenuta in decisione;
Considerato che il Collegio deve preliminarmente scrutinare
la questione di giurisdizione, sollevata dalla difesa
comunale, atteso che, per giurisprudenza consolidata (cfr.,
ex plurimis, C.d.S., Sez. V, 12.11.2013, n. 5421; TAR
Veneto, Sez. I, 06.12.2017, n. 1103; id., 15.11.2017, n.
1028; id., 20.09.2016, n. 1044), l’analisi della questione
di giurisdizione assume carattere prioritario rispetto ad
ogni altra, giacché il difetto di giurisdizione del giudice
adito lo priva del potere di esaminare qualsiasi profilo
della controversia, in rito e nel merito. Ed invero, il
potere del giudice adito di definire la controversia
sottoposta al suo esame postula che su di essa egli sia
munito della potestas iudicandi, la quale è un
imprescindibile presupposto processuale della sua
determinazione (v. C.d.S., Sez. V, 05.12.2013, n. 5786; TAR
Veneto, Sez. I, n. 1103/2017, cit.; id., 02.02.2017, n.
117);
Ritenuto che la questione debba essere risolta nel senso
della declaratoria del difetto di giurisdizione di questo
G.A., in base all’art. 63, comma 1, del d.lgs. n. 165/2001,
avendo gli atti impugnati natura, indiscutibilmente, di atti
di gestione del rapporto di lavoro del sig. Be. (che è
ricompreso nel cd. pubblico impiego contrattualizzato) ed
essendo, perciò, la loro cognizione devoluta al G.O. (cfr.,
ex multis, TAR Molise, Sez. I, 21.12.2016, n. 535);
Considerato, invero, che in base al chiaro dettato dell’art.
63, comma 1, del d.lgs. n. 165/2001, non è in alcun modo
possibile condividere l’assunto del ricorrente, espresso
anche nella discussione della domanda cautelare, circa la
pretesa natura di provvedimenti amministrativi da attribuire
alle note del Comune oggetto di impugnazione;
Ritenuto, quindi, in ragione di ciò che si è detto, che
sussistano le condizioni per la pronuncia di una sentenza in
forma cd. semplificata ex artt. 60 e 74 c.p.a., sentite sul
punto le parti costituite, essendo il ricorso manifestamente
inammissibile per il difetto di questo giudice
amministrativo a conoscere della controversia instaurata con
il medesimo;
Ritenuto, inoltre, –ai sensi e per gli effetti dell’art. 11
c.p.a.– di dover indicare il giudice ordinario quale giudice
nazionale provvisto di giurisdizione per la suindicata
controversia, davanti al quale il processo potrà essere
riproposto nel termine perentorio previsto dal comma 2 del
medesimo art. 11, con salvezza degli effetti processuali e
sostanziali della domanda, ferme restando le preclusioni e
le decadenze già intervenute;
Ritenuto, da ultimo, di dover liquidare le spese secondo il
criterio della soccombenza, nella misura di cui al
dispositivo
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto –
Sezione Prima (I^), così definitivamente pronunciando sul
ricorso, come in epigrafe proposto, dichiara
l’inammissibilità del medesimo per difetto di giurisdizione
dell’adito giudice amministrativo.
Ai sensi dell’art. 11, commi 1 e 2, c.p.a. indica, quale
giudice nazionale provvisto di giurisdizione sulla
controversia in esame, il giudice ordinario, davanti al
quale il processo potrà essere riproposto nel termine
perentorio previsto dal succitato art. 11, comma 2, con
salvezza degli effetti processuali e sostanziali della
domanda, ferme restando le preclusioni e le decadenze già
intervenute (TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 23.10.2018 n. 982 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La
giurisprudenza amministrativa ha riconosciuto la possibilità
di applicare in modo attenuata il tendenziale divieto di
commistione tra le caratteristiche oggettive della offerta e
i requisiti soggettivi della impresa concorrente, alla
duplice condizione:
a) che taluni aspetti dell’attività dell’impresa possano
effettivamente ‘illuminare’ la qualità della offerta e
b) che lo specifico punteggio assegnato, ai fini
dell'aggiudicazione, per attività analoghe a quella oggetto
dell'appalto, non incida in maniera rilevante sulla
determinazione del punteggio complessivo.
---------------
4. In via
subordinata rispetto all’accoglimento del primo motivo il
RTI appellante ha censurato l’illegittimità dell’intera
procedura di gara, la quale risulterebbe irrimediabilmente
viziata a causa dell’indebita commistione fra requisiti
soggettivi del concorrente e requisiti oggettivi
dell’offerta risultante dalla lex specialis.
In particolare, sulla base del criterio di gara dinanzi
descritto sub 2.1 sarebbe accaduto che l’indice PSF
illegittimamente assumesse la duplice valenza:
i) di requisito soggettivo per la partecipazione del singolo
concorrente (nel caso di PSF di valore inferiore a 18) e
ii) di elemento di valutazione dell’offerta (nel caso di PSF di
valore superiore a 18, il quale assurgeva ad elemento di
valutazione dell’offerta tecnica).
4.1. Il motivo è infondato.
4.1.1. E’ vero che, in base a un consolidato orientamento,
costituisce principio generale regolatore delle gare
pubbliche quello che vieta la commistione fra i criteri
soggettivi di qualificazione e quelli oggettivi afferenti
alla valutazione dell'offerta (in tal senso –ex multis
-: Cons. Stato III, sent. 18.06.2012, n. 3550).
E’ altresì vero che, nel caso in esame, la fissazione di una
diversa soglia di punteggio relativa a un determinato
elemento di valutazione (il più volte richiamato indice
PSF), così come la fissazione di una soglia di punteggio
minima non si atteggiava ad elemento di qualificazione dei
concorrenti, ma esprimeva soltanto l’esigenza della stazione
appaltante di poter disporre di concorrenti idonei ad
assicurare un livello minimo di qualità tecnica.
Si tratta di un criterio valutativo del tutto conforme alla
previsione del comma 8 dell’articolo 83 del decreto
legislativo 18.04.2016, n. 50 (‘Codice dei contratti
pubblici’), secondo cui le stazioni appaltanti possono
indicare “livelli minimi di capacità” (evidentemente
intesi quali forme di barrage condizionanti la stessa
partecipazione alle gare) e, allo stesso tempo, procedere “[alla]
verifica formale e sostanziale delle capacità realizzative
[e] delle competenze tecniche e professionali” (intesa
evidentemente in senso gradualistico e parametrico, con
possibilità di modulare la valutazione in ragione del
diverso grado di capacità riscontrato).
4.1.2. Del resto, la possibilità per le stazioni appaltanti
di individuare “livelli minimi di capacità” idonei a
condizionare la stessa partecipazione (ma non ad escludere
la possibilità di utilizzare i medesimi parametri anche ai
fini valutativi) è stata ammessa dal paragrafo 5
dell’articolo 58 della c.d. ‘Direttiva appalti’ n.
2014/24/UE.
4.1.3. Si osserva inoltre che la giurisprudenza
amministrativa ha riconosciuto la possibilità di applicare
in modo attenuata il tendenziale divieto di commistione tra
le caratteristiche oggettive della offerta e i requisiti
soggettivi della impresa concorrente, alla duplice
condizione a) che taluni aspetti dell’attività dell’impresa
possano effettivamente ‘illuminare’ la qualità della
offerta e b) che lo specifico punteggio assegnato, ai fini
dell'aggiudicazione, per attività analoghe a quella oggetto
dell'appalto, non incida in maniera rilevante sulla
determinazione del punteggio complessivo (in tal senso:
Cons. Stato, V, 03.10.2012, n. 5197).
Si tratta di condizioni che sussistono nel caso in esame,
atteso che:
i) agli aspetti tecnici sottesi alla formulazione dell’indice PSF
veniva riconosciuta notevole importanza ai fini della
valutazione economico-finanziaria del singolo concorrente;
ii) il punteggio del PSF non era riconosciuto soltanto in relazione
alle pregresse esperienze professionali (atteggiandosi nella
sostanza a requisito esperienziale) ma era connesso a
ulteriori e diversi parametri (quali la liquidità corrente,
l’autonomia finanziaria e l’indebitamento bancario)
svincolati dalla mera esperienza pregressa del concorrente.
4.2. Anche il secondo motivo di appello deve dunque essere
respinto (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 22.10.2018 n. 6026 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Offerta economicamente più vantaggiosa, Consiglio di Stato:
le Linee guida Anac n. 2 non sono vincolanti.
Tali Linee guida non sono idonee a rappresentare parametro
di legittimità delle determinazioni adottate dalle singole
stazioni appaltanti nella fissazione delle regole di gara.
In merito all'eventuale discrasia fra la
legge di gara e le prescrizioni di cui alle linee guida
dell’ANAC n. 2 del 21.09.2016 (in tema di ‘Offerta
economicamente più vantaggiosa’), deve osservarsi che
“trattandosi pacificamente di linee guida ‘non vincolanti’
(le quali traggono la propria fonte di legittimazione nella
generale previsione di cui al comma 2 dell’articolo 213 del
nuovo ‘Codice dei contratti’), esse non risultano idonee a
rappresentare parametro di legittimità delle determinazioni
adottate dalle singole stazioni appaltanti nella fissazione
delle regole di gara”.
---------------
5. Con il terzo motivo di appello (reiterativo di
analogo motivo già articolato in primo grado e respinto dal
TAR) la Si. lamenta che illegittimamente la stazione
appaltante, nel delineare le regole di attribuzione dei 70
punti relativi alla componente tecnica dell’offerta, si
sarebbe soffermata in modo pressoché esclusivo sulle
componenti tecniche ed organizzative delle concorrenti ed
avrebbe trascurato qualunque riferimento agli aspetti
tecnici dell’offerta concretamente ricollegati alle
caratteristiche dell’appalto.
5.1. Il motivo è infondato.
5.1.1. Va in primo luogo osservato che non può essere
accolto il motivo con cui si è lamentata in parte qua
la discrasia fra la legge di gara e le prescrizioni di cui
alle linee guida dell’ANAC n. 2 del 21.09.2016 (in tema di ‘Offerta
economicamente più vantaggiosa’).
Al riguardo ci si limita ad osservare che, trattandosi
pacificamente di linee guida ‘non vincolanti’ (le
quali traggono la propria fonte di legittimazione nella
generale previsione di cui al comma 2 dell’articolo 213 del
nuovo ‘Codice dei contratti’), esse non risultano
idonee a rappresentare parametro di legittimità delle
determinazioni adottate dalle singole stazioni appaltanti
nella fissazione delle regole di gara.
Il testo in questione, quindi, lungi dal fissare regole di
carattere prescrittivo, si atteggia soltanto quale strumento
di “regolazione flessibile”, in quanto tale volto
all’incremento “dell’efficienza, della qualità dell’attività
delle stazioni appaltanti”.
Il testo in parola risulta ricognitivo di princìpi di
carattere generale, ivi compreso quello della lata
discrezionalità che caratterizza le scelte
dell’amministrazione in punto di individuazione degli
elementi di valutazione delle offerte.
Sulla base di orientamenti più che consolidati, tuttavia,
deve affermarsi che tali scelte non possano essere censurate
in giudizio se non in caso di palesi profili di
irragionevolezza e abnormità (nel caso di specie non
ravvisabili).
Ebbene, a fronte di lavorazioni non caratterizzate da
altissimo contenuto tecnico e da una certa ripetitività
(quali le manutenzioni sui fabbricati ferroviari non
interferenti con l’esercizio ferroviario e la conduzione e
manutenzione di impianti di riscaldamento) non appare
irragionevole la scelta della stazione appaltante di
delineare indicatori di valutazione fondati essenzialmente
sulla valutazione della struttura di impresa,
sull’organizzazione del personale e sull’organizzazione
tecnica del singolo concorrente.
Non può del resto essere condivisa la tesi dell’appellante
secondo cui i parametri di valutazione in tal modo delineati
non avrebbero in alcun modo consentito di tenere conto dei
profili tecnici dell’offerta e delle caratteristiche dei
beni e dei servizi offerti.
Lo svolgimento dei lavori e dei servizi messi a gara non
richiedeva una complessa attività di progettazione, ma
soltanto una adeguata organizzazione delle lavorazioni e dei
servizi posti a fondamento della lex specialis.
Conseguentemente può risultare opinabile –ma non certamente
abnorme– la scelta della stazione appaltante di valorizzare,
ai fini valutativi, gli elementi relativi all’organizzazione
del personale e all’organizzazione tecnica.
5.2. Anche il terzo motivo di appello deve quindi essere
escluso (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 22.10.2018 n. 6026 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
INQUINAMENTO ACUSTICO - Rumore e rilevanza penale delle
grida - Disturbato delle occupazioni e del riposo delle
persone mediante schiamazzi - Oggetto della tutela penale
dell'art. 659 cod. pen. - Tranquillità pubblica - Natura di
reato di pericolo - Fattispecie: affaccio di notte alla
finestra urlando e fischiando per richiamare i cani con il
fine di farli smettere.
L'oggetto della tutela penale dell'art.
659 cod. pen., è dato dall'interesse dello Stato alla
salvaguardia dell'ordine pubblico, considerato nel
particolare aspetto della tranquillità pubblica, consistente
in quella condizione psicologica collettiva, inerente
all'assenza di perturbamento e di molestia nel corpo
sociale. Il bene giuridico protetto viene offeso dal
disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone,
cagionato mediante rumori, e cioè da suoni intensi e
prolungati, di qualunque specie e natura, atti a determinare
il turbamento della tranquillità pubblica, o da schiamazzi
(la giurisprudenza ha sempre definito gli schiamazzi delle
grida scomposte e clamorose, Cfr. Cass. Sez. 6, n. 1789 del
11/10/1969, Bonazza).
La rilevanza penale delle grida, in
particolare di quelle notturne, integra il reato di disturbo
delle occupazioni o del riposo delle persone di cui all'art.
659, comma 1, cod. pen.
(Cass. Sez. 1, n. 13000 del 18/02/2009, Staltari, soggetto
che per più giorni, si dia a schiamazzi e grida notturne,
alla guida di una autovettura i cui pneumatici faccia
reiteratamente stridere, percorrendo in un senso e in quello
opposto le strade di un centro abitato).
Va ribadito, che la contravvenzione ex art.
659 cod. pen. è un reato di pericolo e che la valutazione
circa l'entità del fenomeno rumoroso deve essere d'altro
canto compiuta in rapporto alla media sensibilità del gruppo
sociale in cui il fenomeno rumoroso si verifica, considerate
le circostanze di luogo e tempo della azione.
INQUINAMENTO ACUSTICO - Disturbo delle occupazioni e del
riposo delle persone - Prova del reato di cui all'articolo
659 cod. pen. - Testimoni o qualsiasi altro mezzo idoneo -
Superamento della normale tollerabilità - Apprezzamento del
giudice di merito.
La prova del reato di cui all'articolo
659 cod. pen. può essere fornita anche mediante la prova per
testimoni (Cass.
Sez. 3, n. 11031 del 05/02/2015, Montoli, che ha affermato,
in tema di disturbo delle occupazioni e del riposo delle
persone, che l'effettiva idoneità delle emissioni sonore ad
arrecare pregiudizio ad un numero indeterminato di persone
costituisce un accertamento di fatto rimesso
all'apprezzamento del giudice di merito, il quale non è
tenuto a basarsi esclusivamente sull'espletamento di
specifiche indagini tecniche, ben potendo fondare il proprio
convincimento su altri elementi probatori in grado di
dimostrare la sussistenza di un fenomeno in grado di
arrecare oggettivamente disturbo della pubblica quiete).
Nel caso esaminato, l'intensità delle
emissioni sonore è stata ricostruita mediante la deposizione
dei testimoni, i quali avevano riferito di non riuscire a
seguire i programmi televisivi. Sono pertanto irrilevanti le
critiche rivolte alla motivazione della sentenza con le
quali la difesa ha richiesto l'espletamento di una prova
tecnica scientifica per la valutazione della sussistenza
della condotta e del superamento della normale
tollerabilità.
DANNO AMBIENTALE - Risarcimento del danno risarcibile non
rinvenibile da componenti patrimoniali suscettibili di
precisa determinazione - Ricorso del giudice a criteri
equitativi - Legittimità.
In tema di risarcimento di danni, è
legittimo il ricorso del giudice a criteri equitativi nella
quantificazione del danno risarcibile ove in esso non siano
rinvenibili componenti patrimoniali suscettibili di precisa
determinazione
(Cass. Sez. 5, n. 43053 del 30/09/2010, Arena) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 19.10.2018 n. 47719 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In linea di diritto, l'onere della prova
dell'ultimazione entro una certa data di un'opera edilizia
abusiva, allo scopo di dimostrare che essa rientra fra
quelle per le quali si può ottenere una sanatoria speciale
ovvero fra quelle per cui non era richiesto un titolo ratione temporis,
incombe sul privato a ciò interessato, unico soggetto ad
essere nella disponibilità di documenti e di elementi di
prova, in grado di dimostrare con ragionevole certezza
l'epoca di realizzazione del manufatto.
Analogamente va richiamata la predominante giurisprudenza che pone
in capo al proprietario (o al responsabile dell'abuso)
assoggettato a ingiunzione di demolizione l'onere di provare
il carattere risalente del manufatto della cui demolizione
si tratta con riferimento a epoca anteriore alla c. d. legge
"ponte" n. 761 del 1967, con la quale l'obbligo di previa
licenza edilizia venne esteso alle costruzioni realizzate al
di fuori del perimetro del centro urbano (come accade nel
caso in esame, a detta dei ricorrenti, trovandosi l'immobile
al di fuori del "perimetro urbano").
Tuttavia, questa stessa prevalente opinione giurisprudenziale ammette un temperamento secondo
ragionevolezza nel caso in cui, il privato da un lato porti
a sostegno della propria tesi sulla realizzazione
dell'intervento prima del 1967 elementi non implausibili (aerofotogrammetrie,
dichiarazioni sostitutive di edificazione ante 01.09.1967) e,
dall'altro, il Comune fornisca elementi incerti in ordine
alla presumibile data della realizzazione del manufatto
privo di titolo edilizio, o con variazioni essenziali.
---------------
Nelle controversie in materia edilizia, soggette alla
giurisdizione del giudice amministrativo, i principi di
prova oggettivi concernenti la collocazione dei manufatti
tanto nello spazio, quanto nel tempo, si rinvengono nei
ruderi, fondamenta, aerofotogrammetrie, mappe catastali,
laddove la prova per testimoni è del tutto residuale.
Data la premessa, da essa discende che la prova dell'epoca
di realizzazione si desume da dati oggettivi, che resistono
a quelli risultanti dagli estratti catastali ovvero alla
prova testimoniale ed è onere del privato, che contesti il
dato dell'Amministrazione, fornire prova rigorosa della
diversa epoca di realizzazione dell'immobile, superando
quella fornita dalla parte pubblica.
---------------
4. Le considerazioni di cui alla sentenza appellata non
sono condivisibili e l’appello è fondato.
4.1 In linea di diritto, l'onere della prova
dell'ultimazione entro una certa data di un'opera edilizia
abusiva, allo scopo di dimostrare che essa rientra fra
quelle per le quali si può ottenere una sanatoria speciale
ovvero fra quelle per cui non era richiesto un titolo
ratione temporis, incombe sul privato a ciò interessato,
unico soggetto ad essere nella disponibilità di documenti e
di elementi di prova, in grado di dimostrare con ragionevole
certezza l'epoca di realizzazione del manufatto (cfr. ad es.
Consiglio di Stato sez. VI 05.03.2018 n. 1391).
Analogamente va richiamata la predominante -e qui
condivisa, in linea di principio- giurisprudenza che pone
in capo al proprietario (o al responsabile dell'abuso)
assoggettato a ingiunzione di demolizione l'onere di provare
il carattere risalente del manufatto della cui demolizione
si tratta con riferimento a epoca anteriore alla c. d. legge
"ponte" n. 761 del 1967, con la quale l'obbligo di previa
licenza edilizia venne esteso alle costruzioni realizzate al
di fuori del perimetro del centro urbano (come accade nel
caso in esame, a detta dei ricorrenti, trovandosi l'immobile
al di fuori del "perimetro urbano").
Tuttavia, questa stessa, prevalente opinione
giurisprudenziale (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI,
18.07.2016, n. 3177) ammette un temperamento secondo
ragionevolezza nel caso in cui, il privato da un lato porti
a sostegno della propria tesi sulla realizzazione
dell'intervento prima del 1967 elementi non implausibili (aerofotogrammetrie,
dichiarazioni sostitutive di edificazione ante 01.09.1967) e,
dall'altro, il Comune fornisca elementi incerti in ordine
alla presumibile data della realizzazione del manufatto
privo di titolo edilizio, o con variazioni essenziali
(sembrerebbe essere questa la fattispecie per la quale è
causa, in cui lo stesso Comune alla fine dà atto
dell’esistenza di una tettoia o comunque di un manufatto poi
consolidato, pur entro una situazione in punto di fatto non
del tutto perspicua e caratterizzata da elementi documentali
non sempre univoci e sicuri, che dovrà costituire oggetto di
approfondimento istruttorio nella naturale sede procedimentale).
4.2 Sulla scorta di tali linee direttrici la fattispecie in
esame appare connotata da elementi ben diversi rispetto a
quanto rilevato dal Tar con la sentenza, resa in forma
semplificata, qui appellata.
Dall’analisi della documentazione versata in atti emerge,
infatti, come gli elementi prodotti da parte odierna
appellante non si siano limitati alle richiamate
dichiarazioni.
In particolare, emergono i seguenti elementi.
4.2.1 In primo luogo le risultanze degli atti pubblici di
compravendita degli immobili interessati. In particolare,
già il contratto di compravendita del 1940 tra gli originari
proprietari ed il dante causa dell’odierno appellante,
contiene il riferimento all’alienazione di una “casa civile
con stalla, portico e fienile” e, quindi, un immobile
composto non solo dalla casa di civile abitazione, ma anche
da altri due corpi di fabbrica ovvero un portico ed un
fienile che, presumibilmente, sono stati trasformati –con
un intervento che la p.a. è chiamata a qualificare– nel
manufatto in contestazione.
Ai fini della presente causa
rileva che, contrariamente a quanto posto a fondamento del
provvedimento demolitorio e della sentenza impugnata, lungi
dal trattarsi di un manufatto ex novo l’ampliamento esisteva
da epoca risalente –anche ante 1942– con conseguente onere
di approfondimento istruttorio e motivazionale, ben distinto
rispetto alla conclusione sottesa alla ordinata demolizione,
sulla dimostrazione e sulla consistenza della presunta
modifica successiva.
4.2.2 In secondo luogo, le aerofotogrammetrie, con
particolare riferimento a quella rilasciata dall’Istituto
Geografico militare del 1962, dalla quale è rilevabile la
presenza di un manufatto, collocato nel punto riferibile
all’ampliamento in contestazione. Tale fondamentale
elemento, neppure esaminato o controdedotto dalla p.a. in
sede procedimentale, evidenzia la presenza di un manufatto
realizzato in epoca ante 1962.
Sul punto la concisa
considerazione svolta dalla sentenza appellata appare tanto
generica quanto contraddittoria, laddove prende atto che una
copertura (e quindi un manufatto) vi fosse, in termini
quindi opposti alla contestazione, di cui all’ordinanza
impugnata, circa la presenza di un ampliamento abusivamente
realizzato ex novo.
4.2.3 In terzo luogo, le diverse dichiarazioni sostitutive
le quali, seppur in astratto non sufficienti ex sé, in
concreto, a fronte della loro pluralità e della coerenza con
gli altri richiamati elementi, impongono alla p.a. uno
sforzo ben maggiore di quello posto a fondamento del
provvedimento condiviso dal Tar.
Anche sul punto le concise
considerazioni del Tar si basano su di un’affermazione
generale non coerente con i principi sopra richiamati e
basata sul richiamo di precedenti non pertinenti, in quanto
relativi a fattispecie ben distinte: la prima, (Tar Veneto
121/2017) concernente una sola dichiarazione contrastante
con plurime altre; la seconda (Tar Basilicata 164/2015)
concernente un caso di irrilevanza della prova in quanto
attestante la realizzazione di un manufatto nel 1970, cioè
quando già sussisteva la generalizzata necessità del titolo
edilizio.
In dettaglio, vano richiamate le tre dichiarazioni
sostitutive, erroneamente considerate come isolate dal Tar:
quella della signora Bi.Ma.Te., nata nel 1949
nei luoghi di causa (cosicché è ben ipotizzabile che possa
correttamente riferire per un’epoca quantomeno anteriore al
1967), la quale conferma la circostanza che si evince
dall’atto di compravendita del 1940 in merito all’esistenza
di un porticato e, quindi, di un corpo di fabbrica già dagli
anni ’40, che, negli anni ‘50 è stato tamponato ed ha
assunto l’attuale consistenza; quella della signora La.Zu., acquirente pro quota, con il Br. nel 1982
dell’immobile oggetto dell’ordinanza di demolizione, che
afferma che l’ampliamento all’epoca esisteva e che nello
stesso vi era già quello che è ancora l’unico servizio
igienico della casa; quella del signor Gr.Vi.,
mediatore che si era occupato dell’acquisto dell’immobile
per conto del signor Br., il quale conferma la
sussistenza dell’ampliamento nel 1982.
Tali ultime due
dichiarazioni, pur riferendosi ad un’epoca posteriore al
1967, assumono rilievo sia in generale, quale conferma degli
elementi desumibili dagli altri documenti, sia nello
specifico quale esistenza del manufatto nell’attuale
consistenza in epoca ben anteriore all’apposizione del
vincolo paesaggistico.
5. In definitiva, conformemente ai principi sopra
richiamati, la parte privata ha fornito una serie di
elementi coerenti e plurimi in ordine alla risalenza del
manufatto ad un’epoca anteriore alle date rilevanti in
materia (1942 e 1967) e nella presente fattispecie (1987).
Rispetto a tali elementi, non risulta che la p.a. abbia
svolto il necessario approfondimento istruttorio e
motivazionale, essendosi limitata a formule generiche e
sostanzialmente di stile.
Inoltre, a fronte delle richiamate emergenze documentali, il
Comune ha comunque erroneamente valutato come interamente
abusivo l’ampliamento, considerandolo come realizzato ex
novo; vizio in cui è incorso anche il giudice di prime cure.
All’opposto, risulta provato per tabulas che un’opera era
già esistente addirittura nel 1940 (oltre che nel 1962, come
da aerofotogrammetria); conseguentemente appare fondato
anche in parte qua il vizio dedotto in termini di
travisamento fatti, difetto di motivazione e istruttoria
sull’epoca e sulla consistenza dell’intervento asseritamente
abusivo in quanto realizzato post 1967.
La p.a. è chiamata
altresì a rivalutare il manufatto sotto il profilo
paesaggio, in quanto risulta provata l’epoca di
realizzazione anteriormente al vincolo, apposto solo nel
1987; al riguardo, se è pur vero che in caso di sanatoria
assume rilievo unicamente l’epoca di valutazione
dell’istanza, nel caso di specie, in assenza di un’istanza
dell’odierno appellante, la p.a. è preliminarmente chiamata
a verificare e valutare la consistenza dell’opera ed a
dimostrare la realizzazione di un intervento, ante
imposizione del vincolo, rilevante ai fini del vincolo
stesso.
6. Sempre in linea generale, rispetto agli elementi
rilevanti acquisiti nella presente controversia, vanno
svolte le ulteriori considerazioni, sempre sulla scorta
della prevalente e condivisa seguente opinione
giurisprudenziale: nelle controversie in materia edilizia,
soggette alla giurisdizione del giudice amministrativo, i
principi di prova oggettivi concernenti la collocazione dei
manufatti tanto nello spazio, quanto nel tempo, si
rinvengono nei ruderi, fondamenta, aerofotogrammetrie, mappe
catastali, laddove la prova per testimoni è del tutto
residuale; data la premessa, da essa discende che la prova
dell'epoca di realizzazione si desume da dati oggettivi, che
resistono a quelli risultanti dagli estratti catastali
ovvero alla prova testimoniale ed è onere del privato, che
contesti il dato dell'Amministrazione, fornire prova
rigorosa della diversa epoca di realizzazione dell'immobile,
superando quella fornita dalla parte pubblica (Consiglio di
Stato sez. IV 09.02.2016 n. 511).
Nel caso di specie la p.a. non ha fornito la necessaria
prova, limitandosi a valutare come irrilevanti gli elementi
concreti forniti, attraverso formule di stile non
sufficienti alla luce dei principi sopra richiamati.
Parimenti irrilevante (in disparte della questione di
ammissibilità che accomuna la perizia tecnica da ultimo
prodotta da parte appellante, non richiamata dal Collegio in
quanto reputata irrilevante), è la documentazione da ultimo
prodotta dalla difesa comunale, sia in quanto integrante una
inammissibile integrazione giudiziale della motivazione, sia
per irrilevanza della stessa: per ciò che concerne i dati
catastali, gli stessi non sono rilevanti, nei termini appena
richiamati; per ciò che concerne la nuova dichiarazione
sostitutiva la stessa, oltre a non contraddire in gran parte
gli elementi già acquisiti e sopra descritti, dovrà comunque
essere debitamente valutata nella naturale sede
procedimentale insieme a tutti i numerosi elementi rilevanti
nella fattispecie.
7. Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello va
accolto e per l’effetto, in riforma della sentenza
appellata, va parimenti accolto il ricorso di primo grado (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 19.10.2018 n. 5988 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In termini generali costituiscono interventi di
ristrutturazione edilizia quegli interventi rivolti a
trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme
sistematico di opere che possano portare ad un organismo
edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente.
In tale
prospettiva, la ristrutturazione ‒nelle forme
dell’intervento “conservativo” o “ricostruttivo”‒ si pone
in continuità con tutti gli altri interventi edilizi
cosiddetti minori (manutenzione ordinaria, manutenzione
straordinaria, restauro e risanamento conservativo), che
hanno per finalità il recupero del patrimonio edilizio
esistente.
Ai sensi dell’art. 10, comma 1, lettera c), del TUE, le
opere di ristrutturazione edilizia necessitano di permesso
di costruire se consistenti in interventi che portino ad un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente e che comportino, modifiche del volume, dei
prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi
nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della
destinazione d’uso (ristrutturazione edilizia).
In via
residuale, la SCIA assiste invece i restanti interventi di
ristrutturazione c.d. «leggera» (compresi gli interventi di
demolizione e ricostruzione che non rispettino la sagoma
dell’edificio preesistente). In relazione, invece, agli
immobili sottoposti a vincolo ai sensi del d.lgs. n. 42 del
2004 sono soggetti a SCIA solo gli interventi che non
alterano la sagoma dell’edificio.
L’art. 22, comma 3, del TUE prevede tre diverse tipologie di
interventi edificatori ‒di cui la prima è costituita proprio
da quelli di ristrutturazione, come individuati dal
precedente art. 10, comma 1, lettera c)‒ sottoposti al
regime del permesso di costruire, per i quali, per ragioni
di carattere acceleratorio, si consente all’interessato di
optare per la presentazione della DIA (c.d. “super DIA”).
Tale facoltà di opzione esaurisce i propri effetti sul piano
prettamente procedimentale, atteso che su quello sostanziale
(dei presupposti), penale e contributivo resta ferma
l’applicazione della disciplina dettata per il permesso di
costruire.
---------------
Il rilascio del permesso di costruire per la realizzazione
di una tettoia è necessario solo quando, per le sue
caratteristiche costruttive, essa sia idonea ad alterare la
sagoma dell’edificio.
L’installazione della tettoia è invece sottratta al regime
del permesso di costruire ove la sua conformazione e le
ridotte dimensioni ne rendano evidente e riconoscibile la
finalità di mero arredo e di riparo e protezione
dell’immobile cui accedono.
---------------
1.– Il presente giudizio di appello riguarda il provvedimento
del Comune di Roma prot. n. 16018, notificato il 26.04.2006, recante demolizione d’ufficio di una tettoia di 64 mq
e di un bagno di 4 mq, collocati su un plateatico in
calcestruzzo, realizzati su terreno di proprietà degli
odierni appellanti, ubicato in Roma, via ... n. 32,
gravato da vincolo paesaggistico.
2.– Secondo il Collegio, la sentenza appellata ha
correttamente rilevato che per la realizzazione delle opere
in contestazione sarebbe stato necessario il previo rilascio
del permesso di costruire.
2.1.– In termini generali costituiscono interventi di
ristrutturazione edilizia quegli interventi rivolti a
trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme
sistematico di opere che possano portare ad un organismo
edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente.
In tale
prospettiva, la ristrutturazione ‒nelle forme
dell’intervento “conservativo” o “ricostruttivo”‒ si pone
in continuità con tutti gli altri interventi edilizi
cosiddetti minori (manutenzione ordinaria, manutenzione
straordinaria, restauro e risanamento conservativo), che
hanno per finalità il recupero del patrimonio edilizio
esistente.
Ai sensi dell’art. 10, comma 1, lettera c), del TUE, le
opere di ristrutturazione edilizia necessitano di permesso
di costruire se consistenti in interventi che portino ad un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente e che comportino, modifiche del volume, dei
prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi
nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della
destinazione d’uso (ristrutturazione edilizia).
In via
residuale, la SCIA assiste invece i restanti interventi di
ristrutturazione c.d. «leggera» (compresi gli interventi di
demolizione e ricostruzione che non rispettino la sagoma
dell’edificio preesistente). In relazione, invece, agli
immobili sottoposti a vincolo ai sensi del d.lgs. n. 42 del
2004 sono soggetti a SCIA solo gli interventi che non
alterano la sagoma dell’edificio.
L’art. 22, comma 3, del TUE prevede tre diverse tipologie di
interventi edificatori ‒di cui la prima è costituita proprio
da quelli di ristrutturazione, come individuati dal
precedente art. 10, comma 1, lettera c)‒ sottoposti al
regime del permesso di costruire, per i quali, per ragioni
di carattere acceleratorio, si consente all’interessato di
optare per la presentazione della DIA (c.d. “super DIA”).
Tale facoltà di opzione esaurisce i propri effetti sul piano
prettamente procedimentale, atteso che su quello sostanziale
(dei presupposti), penale e contributivo resta ferma
l’applicazione della disciplina dettata per il permesso di
costruire.
2.2.– Il rilascio del permesso di costruire per la
realizzazione di una tettoia è necessario solo quando, per
le sue caratteristiche costruttive, essa sia idonea ad
alterare la sagoma dell’edificio (Consiglio di Stato, sez.
VI, 16.02.2017, n. 694). L’installazione della tettoia
è invece sottratta al regime del permesso di costruire ove
la sua conformazione e le ridotte dimensioni ne rendano
evidente e riconoscibile la finalità di mero arredo e di
riparo e protezione dell’immobile cui accedono (Consiglio di
Stato, sez. V, 13.03.2014 n. 1272).
2.3.– Nel caso in esame, la realizzazione di una tettoia di
rilevanti dimensioni e di un nuovo volume (il bagno), avendo
innovato il preesistente fabbricato, sia dal punto di vista
morfologico che funzionale, era soggetta al regime
autorizzatorio. Peraltro, l’esecuzione delle opere in
discorso è avvenuta all’interno del Parco di Veio, istituito
per l’elevato valore paesaggistico dell’area (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 19.10.2018 n. 5983 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Costituisce principio
consolidato che l’onere di provare la data di realizzazione
dell’immobile abusivo spetti a colui che ha commesso l’abuso
e che solo la deduzione, da parte di quest’ultimo, di concreti elementi ‒i quali non possono limitarsi a sole allegazioni documentali
a sostegno delle proprie affermazioni‒ trasferisce il
suddetto onere di prova contraria in capo
all’amministrazione.
Solo l’interessato infatti può fornire
inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che
siano in grado di radicare la ragionevole certezza
dell’epoca di realizzazione di un manufatto e, in difetto di
tali prove, resta integro il potere dell’Amministrazione di
negare la sanatoria dell’abuso e il suo dovere di irrogare
la sanzione demolitoria.
---------------
3.– Sotto altro profilo, non è assistita da prova la tesi
secondo cui la tettoia sarebbe stata assai risalente nel
tempo –segnatamente, si tratterebbe di una tettoia
preesistente sin dal 1927, usata come concimaia, per la
quale all’epoca non abbisognava alcun tipo di permesso
autorizzatorio–, cosicché l’intervento edilizio contestato
si sarebbe limitato ad un’opera di manutenzione
straordinaria e restauro.
3.1.– Costituisce principio consolidato che l’onere di
provare la data di realizzazione dell’immobile abusivo
spetti a colui che ha commesso l’abuso e che solo la
deduzione, da parte di quest’ultimo, di concreti elementi ‒i quali non possono limitarsi a sole allegazioni documentali
a sostegno delle proprie affermazioni‒ trasferisce il
suddetto onere di prova contraria in capo
all’amministrazione.
Solo l’interessato infatti può fornire
inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che
siano in grado di radicare la ragionevole certezza
dell’epoca di realizzazione di un manufatto e, in difetto di
tali prove, resta integro il potere dell’Amministrazione di
negare la sanatoria dell’abuso e il suo dovere di irrogare
la sanzione demolitoria.
3.2.– Nel caso di specie, gli appellanti non hanno fornito
elementi idonei a comprovare la preesistenza del manufatto,
nella sua attuale consistenza.
Dall’atto di divisione in data 11.01.2006, risulta sì
una tettoia ma, a quel tempo «fatiscente» e dunque
bisognevole di sostanziale rispristino, che dunque ha subito
–come confermato anche dalle foto– una radicale alterazione
di struttura e fisionomia.
Che la «concimaia» esistente prima degli interventi edilizi
realizzati dal Sig. Vi.Gi., fosse un manufatto del
tutto diverso da come oggi appare –collocato peraltro su un
plateatico di calcestruzzo– risulta dalle stesse
dichiarazioni del perito depositate in atti, secondo cui:
-
«il sottoscritto non conoscendo personalmente, lo stato di
fatto dell’immobile prima dell’esecuzione delle opere di
manutenzione effettuate, può determinare l’entità di queste
per confronto tra lo stato attuale e quello precedente
riferendosi esclusivamente ad una descrizione del fabbricato
preesistente, che seppur in forma sommaria è stata riportata
nell’atto di divisione dell’11.01.2006 rep 48061 racc.
17534»;
- «dalla stringata descrizione si evince che si trattava di
una tettoia fatiscente che per maggior precisazione
riportata in via verbale al sottoscritto dai proprietari,
era realizzata con profilati metallici e lamiere posticce,
quindi i lavori di manutenzione straordinaria hanno senza
dubbio riguardato il rinnovo delle pareti strutturali
principali e la sostituzione della copertura con i materiali
descritti che hanno reso definitiva la tettoia»;
- «nulla
può essere detto a riguardo del piccolo bagno adiacente la
tettoia coperto dalle falde di tetto della stessa, in quanto
in nessuna descrizione precedente lo stesso è stato citato» (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 19.10.2018 n. 5983 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
La consegna in via d’urgenza delle prestazioni
contrattuali non comporta l’insorgere di vincoli
contrattuali di tipo privatistico tra amministrazione
appaltante ed appaltatore.
Essa, infatti, è un provvedimento di natura eccezionale, dal
quale non deriva il perfezionamento del contratto.
Trattasi, infatti, di un provvedimento tipicamente adottato
nelle more della stipulazione, allorché ricorrano
circostanze di urgenza che non consentono gli indugi delle
formalità necessarie alla stipulazione: con la conseguenza
che la consegna d’urgenza limita i rapporti tra le parti
alle sole prestazioni oggetto dell’ordine
dell’Amministrazione pubblica e non coinvolge l’intero
complesso dell’esecuzione delle opere.
Va, quindi, escluso che, nella fattispecie, fosse necessaria
la previa stipula del contratto ai fini dell’attivazione, in
capo alla Stazione appaltante, della prevista possibilità di
chiedere l’esecuzione d’urgenza di talune prestazioni.
---------------
1. Dato, quindi, atto della ammissibilità dell’impugnativa,
è infondato il primo degli argomenti di censura con essa
esposti.
Parte ricorrente assume che il sig. Tr.Da., dipendente della
stessa Co. s.r.l., difettasse dei poteri per ricevere la
consegna anticipata dei lavori in mancanza della previa
stipula del contratto, ipotesi che nella fattispecie non era
affatto configurabile; e ciò in quanto nei confronti del
predetto nominativo sarebbe stato conferito, con procura
speciale, il solo potere di stipulare il contratto e di
procedere alla successiva ordinaria consegna dei lavori.
1.1 Va, innanzi tutto, osservato come il comma 8 dell’art.
32 del D.Lgs. 50/2016 stabilisca che: “Divenuta efficace
l'aggiudicazione, e fatto salvo l'esercizio dei poteri di
autotutela nei casi consentiti dalle norme vigenti, la
stipulazione del contratto di appalto o di concessione ha
luogo entro i successivi sessanta giorni, salvo diverso
termine previsto nel bando o nell'invito ad offrire, ovvero
l'ipotesi di differimento espressamente concordata con
l'aggiudicatario. Se la stipulazione del contratto non
avviene nel termine fissato, l'aggiudicatario può, mediante
atto notificato alla stazione appaltante, sciogliersi da
ogni vincolo o recedere dal contratto. All'aggiudicatario
non spetta alcun indennizzo, salvo il rimborso delle spese
contrattuali documentate. Nel caso di lavori, se è
intervenuta la consegna dei lavori in via di urgenza e nel
caso di servizi e forniture, se si è dato avvio
all'esecuzione del contratto in via d'urgenza,
l'aggiudicatario ha diritto al rimborso delle spese
sostenute per l'esecuzione dei lavori ordinati dal direttore
lavori, ivi comprese quelle per opere provvisionali. Nel
caso di servizi e forniture, se si è dato avvio
all'esecuzione del contratto in via d'urgenza,
l'aggiudicatario ha diritto al rimborso delle spese
sostenute per le prestazioni espletate su ordine del
direttore dell'esecuzione. L'esecuzione d'urgenza di cui al
presente comma è ammessa esclusivamente nelle ipotesi di
eventi oggettivamente imprevedibili, per ovviare a
situazioni di pericolo per persone, animali o cose, ovvero
per l'igiene e la salute pubblica, ovvero per il patrimonio,
storico, artistico, culturale ovvero nei casi in cui la
mancata esecuzione immediata della prestazione dedotta nella
gara determinerebbe un grave danno all'interesse pubblico
che è destinata a soddisfare, ivi compresa la perdita di
finanziamenti comunitari”.
1.2 La consegna in via d’urgenza delle prestazioni
contrattuali non comporta l’insorgere di vincoli
contrattuali di tipo privatistico tra amministrazione
appaltante ed appaltatore.
Essa, infatti, è un provvedimento di natura eccezionale, dal
quale non deriva il perfezionamento del contratto.
Trattasi, infatti, di un provvedimento tipicamente adottato
nelle more della stipulazione, allorché ricorrano
circostanze di urgenza che non consentono gli indugi delle
formalità necessarie alla stipulazione: con la conseguenza
che la consegna d’urgenza limita i rapporti tra le parti
alle sole prestazioni oggetto dell’ordine
dell’Amministrazione pubblica e non coinvolge l’intero
complesso dell’esecuzione delle opere.
Va, quindi, escluso che, come dalla ricorrente sostenuto,
fosse necessaria la previa stipula del contratto ai fini
dell’attivazione, in capo alla Stazione appaltante, della
prevista possibilità di chiedere l’esecuzione d’urgenza di
talune prestazioni
(TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 19.10.2018 n. 1003 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La
cauzione provvisoria è configurata dal Codice come strumento
di garanzia dell’offerta.
In tal senso, depone il disposto dell’art. 93, comma 1, del
D.Lgs. 50/2016, laddove prevede che “L'offerta è corredata
da una garanzia fideiussoria, denominata "garanzia
provvisoria" pari al 2 per cento del prezzo base indicato
nel bando o nell'invito, sotto forma di cauzione o di
fideiussione, a scelta dell'offerente”.
Di talché un costante insegnamento giurisprudenziale ha
affermato che “la cauzione costituisce parte integrante
dell’offerta e non mero elemento di corredo della stessa;
sicché essa si pone come strumento di garanzia della serietà
ed affidabilità dell’offerta che vincola le imprese
partecipanti ad una gara pubblica all’osservanza
dell’impegno assunto a rispettarne le regole,
responsabilizzandole, mediante l’anticipata liquidazione dei
danni subiti dall’amministrazione, in ordine alle
dichiarazioni rese anche con riguardo al possesso dei
requisiti di ammissione alla procedura. La cauzione
provvisoria costituisce, dunque, una misura di natura
patrimoniale che, da un lato, è finalizzata, come la caparra
confirmatoria, a confermare la serietà di un impegno da
assumere in futuro, dall’altro costituisce, ove prevista,
naturale effetto della violazione di regole e doveri
contrattuali espressamente accettati”; con la conseguenza
che “l’escussione della cauzione provvisoria costituisce
conseguenza della violazione dell’obbligo di diligenza
gravante sull’offerente e dell’inosservanza della lex
specialis avente carattere di gravità”.
---------------
3. Lamenta, da
ultimo, parte ricorrente che la Provincia di Mantova, a
fronte degli inadempimenti dalla medesima valutati quali
presupposti di revoca dell’aggiudicazione, avrebbe potuto
procedere alla sola escussione della garanzia provvisoria: e
non anche di quella definitiva.
Anche tale profilo di doglianza non si presta a
condivisione.
3.1 Va, in proposito, osservato come, ai sensi del comma 1
dell’art. 103 del Codice dei contratti, di cui al D.Lgs.
50/2016, “L'appaltatore per la sottoscrizione del
contratto deve costituire una garanzia, denominata "garanzia
definitiva" a sua scelta sotto forma di cauzione o
fideiussione con le modalità di cui all'articolo 93, commi 2
e 3, pari al 10 per cento dell'importo contrattuale e tale
obbligazione è indicata negli atti e documenti a base di
affidamento di lavori, di servizi e di forniture. … La
cauzione è prestata a garanzia dell'adempimento di tutte le
obbligazioni del contratto e del risarcimento dei danni
derivanti dall'eventuale inadempimento delle obbligazioni
stesse, nonché a garanzia del rimborso delle somme pagate in
più all'esecutore rispetto alle risultanze della
liquidazione finale, salva comunque la risarcibilità del
maggior danno verso l'appaltatore”.
Diversamente, la cauzione provvisoria è configurata dallo
stesso Codice come strumento di garanzia dell’offerta.
In tal senso, depone il disposto dell’art. 93, comma 1, del
D.Lgs. 50/2016, laddove prevede che “L'offerta è
corredata da una garanzia fideiussoria, denominata "garanzia
provvisoria" pari al 2 per cento del prezzo base indicato
nel bando o nell'invito, sotto forma di cauzione o di
fideiussione, a scelta dell'offerente”.
Di talché un costante insegnamento giurisprudenziale (cfr.,
ex multis, Cons. Stato, sez. V, 10.04.2018 n. 2181)
ha affermato che “la cauzione costituisce parte
integrante dell’offerta e non mero elemento di corredo della
stessa; sicché essa si pone come strumento di garanzia della
serietà ed affidabilità dell’offerta che vincola le imprese
partecipanti ad una gara pubblica all’osservanza
dell’impegno assunto a rispettarne le regole,
responsabilizzandole, mediante l’anticipata liquidazione dei
danni subiti dall’amministrazione, in ordine alle
dichiarazioni rese anche con riguardo al possesso dei
requisiti di ammissione alla procedura. La cauzione
provvisoria costituisce, dunque, una misura di natura
patrimoniale che, da un lato, è finalizzata, come la caparra
confirmatoria, a confermare la serietà di un impegno da
assumere in futuro, dall’altro costituisce, ove prevista,
naturale effetto della violazione di regole e doveri
contrattuali espressamente accettati”; con la
conseguenza che “l’escussione della cauzione provvisoria
costituisce conseguenza della violazione dell’obbligo di
diligenza gravante sull’offerente e dell’inosservanza della
lex specialis avente carattere di gravità”.
3.2 È ben vero che, secondo quanto disposto dal comma 6
dello stesso art. 93, “la garanzia copre la mancata
sottoscrizione del contratto dopo l'aggiudicazione dovuta ad
ogni fatto riconducibile all'affidatario o all'adozione di
informazione antimafia interdittiva…; la garanzia è
svincolata automaticamente al momento della sottoscrizione
del contratto”.
Ma è altrettanto vero che, nella fattispecie, non è venuta
in considerazione la sola mancata sottoscrizione del
contratto (non imputabile, come precedentemente illustrato,
a fatto proprio della Stazione appaltante), quanto,
ulteriormente, il mancato adempimento (anticipata esecuzione
dei lavori in via d’urgenza) di un’obbligazione dalla
ricorrente assunta mediante consenso prestato alla richiesta
in tal senso formulata dall’Amministrazione.
Ne deriva che la fattispecie viene ad integrare una
tipologia pluriarticolata di inadempimento: a fronte della
quale, non venendo in considerazione un vizio dell’offerta
(“garantita” dalla prestazione della cauzione
provvisoria, che assiste l’intera fase di partecipazione
alla gara, fino al conclusivo provvedimento aggiudicatorio),
la Stazione appaltante ha, nel caso di specie, correttamente
provveduto all’incameramento della cauzione definitiva dalla
parte prestata a garanzia della sottoscrizione del contratto
(TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 19.10.2018 n. 1003 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Acquisizione patrimoniale dei beni immobili necessari alla
realizzazione degli impianti di reti di comunicazione
elettronica ad uso pubblico.
---------------
Espropriazione per pubblica utilità - Stazione radio base
ad uso pubblico – Espropriazione ex art. 90, d.lgs. n. 259
del 2003 - Immobile su area già in possesso della società di
telefonia mobile – Legittimità.
E' legittimo il provvedimento teso
all'espropriazione ex art. 90, d.lgs. 01.08.2003, n. 259 per
l'acquisizione in proprietà di un'area già in possesso della
società di telefonia mobile, anche nel caso in cui
l'impianto sia già stato realizzato e il contratto di
locazione sia in corso, dato che l'interesse presidiato
dalla norma consiste nella garanzia di stabilità
dell'impianto stesso e nella certezza e produttività
dell'investimento necessario alla sua realizzazione (1).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che il terzo comma dell’art. 90 dispone che
“Per l’acquisizione patrimoniale dei beni immobili
necessari alla realizzazione degli impianti e delle opere di
cui ai commi 1 e 2, può esperirsi la procedura di esproprio
prevista dal decreto del Presidente della Repubblica
08.06.2001, n. 327. Tale procedura può essere esperita dopo
che siano andati falliti, o non sia stato possibile
effettuare, i tentativi di bonario componimento con i
proprietari dei fondi sul prezzo di vendita offerto, da
valutarsi da parte degli uffici tecnici erariali competenti”.
Un’interpretazione letterale potrebbe indurre a ritenere
che, essendo la procedura funzionale alla “acquisizione
patrimoniale dei beni immobili necessari alla realizzazione
degli impianti”, esulino dal suo ambito di applicazione
le procedure finalizzate all’acquisizione di immobili su cui
insistono impianti già realizzati.
Tuttavia tale interpretazione -oltre ad essere stata
smentita, seppur implicitamente, dalla giurisprudenza (Tar
Lazio, sez. III-ter, n. 8267 del 2012)- porta a conseguenze
per vero inaccettabili. Emblematico è il caso in cui il
gestore per realizzare l’impianto abbia stipulato di un
contratto di locazione, alla scadenza del quale il
proprietario dell’immobile si mostri indisponibile a
rinnovarlo, e non vi siano soluzioni alternative (ivi
comprese le forme di coubicazione di cui all’art. 89, d.lgs.
n. 259 del 2003).
Oppure si pensi alla fattispecie all’esame del Tar, nella
quale la società di telefoni per acquisire coattivamente
l’area di cui trattasi utilizzando, come le è consentito, la
procedura espropriativa dovrebbe rimuovere l’impianto per
poi richiedere l’autorizzazione a reinstallarlo sul medesimo
sito.
In definitiva un’interpretazione costituzionalmente
orientata (con riferimento al principio di ragionevolezza di
cui all’art. 3 Cost.) della disposizione in esame induce a
ritenere che la stessa si applichi anche nel caso in cui si
renda necessario acquisire un immobile su cui insista un
impianto già realizzato
(TRGA Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 19.10.2018 n. 228 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
All’Adunanza plenaria la questione se è consentito ad
un’impresa componente il raggruppamento di ridurre la
propria quota di esecuzione.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Raggruppamento
temporaneo di imprese – Quota di lavori dichiarata in
offerta - Requisito di un componente insufficiente –
Riduzione della quota se il raggruppamento nel suo insieme
ha i requisiti – Contrasti in giurisprudenza - Rimessione
all’Adunanza plenaria.
E’ rimessa all’Adunanza plenaria la
questione se è consentito ad un’impresa componente
raggruppamento temporaneo di imprese, che possegga il
requisito di qualificazione in misura insufficiente per la
quota di lavori dichiarata in sede di presentazione
dell’offerta, di ridurre la propria quota di esecuzione,
così da renderla coerente con il requisito di qualificazione
effettivamente posseduto, nel caso in cui il raggruppamento
nel suo insieme sia in possesso di requisiti di
qualificazione sufficienti a coprire l’intera quota di
esecuzione dei lavori (1).
---------------
(1)
Ha ricordato la Sezione che sul punto si sono registrati
diversi orientamenti.
Secondo un primo orientamento (Cons,
St., sez. V, 02.07.2018, n. 4036; id.
22.08.2016, n. 3666; id,
25.02.2016, n. 786) la mancanza del requisito di
qualificazione in misura corrispondente alla quota di lavori
cui si era impegnata una delle imprese costituenti il
raggruppamento in sede di presentazione dell’offerta è causa
di esclusione dell’intero raggruppamento, anche se, per
ipotesi, il raggruppamento nel suo insieme sia in possesso
del requisito di qualificazione sufficiente all’esecuzione
dell’intera quota dei lavori.
Tale orientamento muove dalla distinzione tra requisiti di
qualificazione, quote di partecipazione e quote di
esecuzione.
I requisiti di qualificazione attengono alle caratteristiche
soggettive del concorrente che aspira all’aggiudicazione e
consentono alla stazione appaltante di valutare la capacità
imprenditoriale del concorrente a realizzare quella parte di
lavoro che gli sarà poi eventualmente aggiudicata. La quota
di partecipazione, invece, altro non è che la percentuale di
“presenza” all’interno del raggruppamento e ha
riflessi sulla responsabilità del componente all’interno del
raggruppamento stesso. La quota di esecuzione è infine la
parte di lavoro, servizio o fornitura che verrà
effettivamente realizzata nel caso di affidamento.
Così definiti questi tre elementi, si esclude che il
requisito di qualificazione possa essere preso in
considerazione per il raggruppamento nel suo complesso,
dovendo necessariamente riguardare il singolo componente del
raggruppamento. Si precisa peraltro che questo non significa
reintrodurre surrettiziamente il principio della triplice
corrispondenza, ma soltanto rendere necessaria la
corrispondenza tra la quota di esecuzione e quella di
qualificazione, in applicazione del dettato normativo.
Secondo altro orientamento (Cons.
St., sez. V, 08.11.2017, n. 5160; id.,
sez. IV, 12.03.2015, n. 1293) non è consentita
l’esclusione dell’operatore economico dalla procedura, in
presenza di tre condizioni: che lo scostamento tra il
requisito di qualificazione dichiarato e la quota di lavori
per la quale l’operatore si è impegnato non sia eccessivo;
che il raggruppamento nel suo complesso sia comunque in
possesso dei requisiti sufficienti a coprire l’intero
ammontare dell’appalto; che il raggruppamento abbia la forma
di raggruppamento orizzontale. A sostegno della tesi della
non esclusione del raggruppamento, è stato addotto, prima di
tutto, il principio del favor partecipationis, che
risulterebbe frustrato dall’esclusione di un raggruppamento
che, nel suo complesso, possegga i requisiti di
partecipazione.
Ha quindi chiarito il Tar che i due orientamenti richiamati
accolgono una diversa concezione del requisito di
qualificazione.
Il primo orientamento lo ritiene “personale”, ossia
riferito alla singola impresa facente parte del
raggruppamento; il secondo orientamento invece lo ritiene
riferibile al raggruppamento nel suo complesso, con la
conseguenza che non costituisce motivo di esclusione il caso
in cui il singolo componente non possieda un requisito di
qualificazione sufficiente per l’esecuzione della propria
quota di lavori, se il raggruppamento nel suo complesso è “sovrabbondante”
rispetto al requisito richiesto dal bando.
Ha quindi rilevato la Sezione che a seconda della soluzione
che si intenda dare al contrasto tra opposti orientamenti
sottoposto all’Adunanza plenaria, altra questione viene a
porsi in via subordinata.
Qualora si consenta all’impresa, che ha assunto una quota di
lavori eccessiva rispetto al requisito di qualificazione
posseduto, la modifica in corso di procedura (per essere
nella fase successiva a quella di presentazione delle
offerte) della quota di esecuzione dei lavori, così da
impedire l’esclusione del raggruppamento, occorre definire
le condizioni in presenza delle quali detta modifica può
ammettersi. Le sentenze richiamate nel secondo orientamento,
infatti, hanno posto la condizione che lo scostamento (tra
quota di esecuzione assunta e requisito di qualificazione
posseduto) sia minimo, al punto da poter qualificare lo
stesso alla stregua di un errore materiale (Cons.
St., sez. V, 06.03.2017, n. 1041).
Ove si voglia dar seguito a tale impostazione, sarà
necessario determinare la soglia, superata la quale, lo
scostamento non possa più essere considerato “minimo”.
Sempre nell’ipotesi in cui si sposi il secondo orientamento
che, mediante la modifica della quota di esecuzione
dichiarata, evita l’esclusione del raggruppamento, è
opportuno chiarire se la stazione appaltante, che lo
scostamento riconosca, debba ricorrere al soccorso
istruttorio (opzione esclusa da
Cons. St., sez. V, 02.07.2018, n. 4036) per
concedere al raggruppamento di operare la modifica
consentita, o possa farne a meno procedendo direttamente
alla valutazione dell’offerta, per avere essa stessa –si
potrebbe dire “d’ufficio”– accertato che la riduzione
della quota di esecuzione in capo ad una delle imprese è
compensata dal maggior requisito di qualificazione posseduto
da altro componente (Consiglio
di Stato, Sez. V,
ordinanza 18.10.2018 n. 5957 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
7. Con l’unico motivo di appello proposto Pe.Gi. s.p.a. rileva che il giudice di primo grado si è
posto in consapevole contrasto con l’orientamento della
giurisprudenza amministrativa per il quale, ferma la
doverosa e necessaria corrispondenza tra i requisiti di
partecipazione di ciascun raggruppamento e il valore dei
lavori da eseguire, nel caso di scostamento tra la quota di
lavori da eseguire dal singolo partecipante al
raggruppamento e il requisito di partecipazione da questi
posseduto non v’è ragione di esclusione se: a) lo
scostamento non è di rilevante entità; b) il raggruppamento
sia nel complesso in possesso dei requisiti necessari
all’esecuzione dei lavori; c) il raggruppamento abbia natura
orizzontale.
L’orientamento esposto, aggiunge l’appellante, è conforme
alle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza della
Corte di Giustizia dell’Unione europea di disporre
l’esclusione dalla procedura come sanzione massima solo in
caso di violazioni gravemente conculcanti i canoni che
regolano il settore dei contratti pubblici, per il
necessario bilanciamento tra il principio del libero accesso
alle gare e quello della necessaria affidabilità degli
offerenti.
Conclude l’appellante che la stazione appaltante avrebbe
dovuto, pertanto, avviare un dialogo con il raggruppamento
per consentirle di modificare le quote di esecuzione dei
lavori dei partecipanti così da ripartire tra gli altri la
parte mancante ad una di essi.
8. Rileva il Collegio che la questione posta dall’unico
motivo di appello proposto ha dato luogo a contrastanti
orientamenti nella giurisprudenza di questo Consiglio di
Stato e deve, per questo, essere rimessa all’Adunanza
plenaria ex art. 99, comma 1, Cod. proc. amm.
9. Prima di esporre i termini del contrasto, è opportuno
precisare che l’appalto oggetto di causa è disciplinato dal
nuovo codice dei contratti pubblici, d.lgs. 05.04.2016,
n. 50, in quanto il bando è pubblicato il 03.08.2017.
L’art. 217, comma 1, lett. u), d.lgs. 05.04.2016, n. 50 ha
disposto l’abrogazione del d.p.r. 05.10.2010, n. 207,
regolamento di attuazione ed esecuzione del vecchio codice
dei contratti pubblici, d.lgs. 12.04.2006, n. 163,
specificando, però, quali disposizioni sono immediatamente
abrogate (a far data dalla sua entrata in vigore) e quali,
invece, restano in vigore in attesa dell’adozione degli atti
attuativi del nuovo codice.
Tra queste ultime rientrano le disposizioni di cui alla
Parte II, Titolo III, Capo IV, rilevanti nel presente
giudizio.
9.1. L’art. 92, comma 2, d.P.R. 05.10.2010, n. 207
prevede che: “Le quote di partecipazione al raggruppamento o
consorzio, indicate in sede di offerta, possono essere
liberamente stabilite entro i limiti consentiti dai
requisiti di qualificazione posseduti dall'associato o dal
consorziato”; la norma sancisce il principio di necessaria
corrispondenza tra le quote di partecipazione al
raggruppamento e i requisiti di qualificazione posseduti.
Tale principio è rafforzato dalla previsione contenuta
nell’ultima parte del 2° comma dell’art. 92, per la quale: “I
lavori sono eseguiti dai concorrenti riuniti secondo le
quote indicate in sede di offerta, fatta salva la facoltà di
modifica delle stesse, previa autorizzazione della stazione
appaltante che ne verifica la compatibilità con i requisiti
di qualificazione posseduti dalle imprese interessate”.
9.2. In precedenza, era richiesta una triplice
corrispondenza tra quota di partecipazione, quota di
esecuzione e requisito di qualificazione.
L’art. 37, comma 13, d.lgs. 12.04.2006 n. 163 prevedeva,
infatti, che “i concorrenti riuniti in raggruppamento
temporaneo devono eseguire le prestazioni nella percentuale
corrispondente alla quota di partecipazione al
raggruppamento”.
Successivamente, la triplice corrispondenza fu limitata agli
appalti di lavori (dall’art. 1, comma 2-bis, lettera a), del
d.l. 06.07.2012 n. 95 conv. in l. 07.08.2012, n. 135),
per poi essere definitivamente superata dall’art. 12, comma
8, d.l. 28.03.2014, n. 47 conv. in l. 23.05.2014, n.
80 che ha abrogato la disposizione contenuta nell’art. 37,
comma 13, d.lgs. 12.04.2006, n. 163.
Il d.lgs. 05.04.2016 n. 50, attualmente vigente, non
prevede la triplice corrispondenza, bensì soltanto
l’obbligo, nel caso di lavori, forniture o servizi di
specificare nell’offerta “le categorie di lavori o le parti
del servizio o della fornitura che saranno eseguite dai
singoli operatori economici riuniti o consorziati” (art. 48,
comma 4).
9.3. Pur essendo venuto meno l’obbligo di corrispondenza tra
quote di partecipazione al raggruppamento e quote di
esecuzione dei lavori, costituisce orientamento consolidato
che se le imprese componenti il raggruppamento dichiarano,
in sede di offerta, una quota di partecipazione
corrispondente alla quota di lavori da eseguire, è
necessario che il requisito di qualificazione sia coerente
con entrambi (cfr. Cons. Stato, sez. V, 02.07.2018, n.
4036; V, 13.06.2018, n. 3623; V, 05.02.2018, n.
730; V, 25.02.2016 n. 786).
10. E’ sorta, allora, la questione se sia consentito ad
un’impresa componente il raggruppamento, che possegga il
requisito di qualificazione in misura insufficiente per la
quota di lavori dichiarata in sede di presentazione
dell’offerta, di ridurre la propria quota di esecuzione,
così da renderla coerente con il requisito di qualificazione
effettivamente posseduto, nel caso in cui il raggruppamento
nel suo insieme sia in possesso di requisiti di
qualificazione sufficienti a coprire l’intera quota di
esecuzione dei lavori.
Su tale questione si registra il contrasto giurisprudenziale
che si intende rimettere all’Adunanza plenaria.
11. Secondo un primo orientamento, la mancanza del requisito
di qualificazione in misura corrispondente alla quota di
lavori cui si era impegnata una delle imprese costituenti il
raggruppamento in sede di presentazione dell’offerta è causa
di esclusione dell’intero raggruppamento, anche se, per
ipotesi, il raggruppamento nel suo insieme sia in possesso
del requisito di qualificazione sufficiente all’esecuzione
dell’intera quota dei lavori.
11.1. In tal senso si è recentemente espressa la sentenza di
questo Consiglio di Stato, sez. V, 02.07.2018, n. 4036.
La sentenza muove dalla distinzione tra requisiti di
qualificazione, quote di partecipazione e quote di
esecuzione.
I requisiti di qualificazione attengono alle caratteristiche
soggettive del concorrente che aspira all’aggiudicazione e
consentono alla stazione appaltante di valutare la capacità
imprenditoriale del concorrente a realizzare quella parte di
lavoro che gli sarà poi eventualmente aggiudicata.
La quota di partecipazione, invece, altro non è che la
percentuale di “presenza” all’interno del raggruppamento e
ha riflessi sulla responsabilità del componente all’interno
del raggruppamento stesso.
La quota di esecuzione è infine la parte di lavoro, servizio
o fornitura che verrà effettivamente realizzata nel caso di
affidamento.
Così definiti questi tre elementi, la sentenza esclude che
il requisito di qualificazione possa essere preso in
considerazione per il raggruppamento nel suo complesso,
dovendo necessariamente riguardare il singolo componente del
raggruppamento (si legge: “Né può ritenersi che il possesso
dei requisiti di qualificazione prescritti dalla legge di
gara potesse essere soddisfatto dal raggruppamento
complessivamente considerato, come sostiene parte
appellante, dovendo invece ciascuna impresa del
raggruppamento essere adeguatamente qualificata in relazione
alla specifica parte del servizio che assume: condizione
questa non soddisfatta per le due mandanti che, compilando
il modulo predisposto dalla Stazione appaltante, hanno
attestato di non essere qualificate per eseguire le parti di
servizio assunte.”).
Conclude la sentenza che questo non significa reintrodurre
surrettiziamente il principio della triplice corrispondenza,
ma soltanto rendere necessaria la corrispondenza tra la
quota di esecuzione e quella di qualificazione, in
applicazione del dettato normativo.
11.2. Sono riconducibili all’orientamento appena descritto
anche Cons. Stato, sez. V, 22.08.2016, n. 3666; sez. V,
22.02.2016, n. 786.
11.3. Un secondo orientamento invece ritiene non consentita
l’esclusione dell’operatore economico dalla procedura, in
presenza di tre condizioni: che lo scostamento tra il
requisito di qualificazione dichiarato e la quota di lavori
per la quale l’operatore si è impegnato non sia eccessivo;
che il raggruppamento nel suo complesso sia comunque in
possesso dei requisiti sufficienti a coprire l’intero
ammontare dell’appalto; che il raggruppamento abbia la forma
di raggruppamento orizzontale.
A sostegno della tesi della non esclusione del
raggruppamento, è stato addotto, prima di tutto, il
principio del favor partecipationis, che risulterebbe
frustrato dall’esclusione di un raggruppamento che, nel suo
complesso, possegga i requisiti di partecipazione (cfr.
Cons. St., sez. V, 08.11.2017, n. 5160).
A ciò è aggiunta la considerazione che una modesta rettifica
delle quote di partecipazione non è idonea a incidere
sull’affidabilità del raggruppamento, né è in grado di
modificare il regime della responsabilità dello stesso,
soprattutto nei casi di raggruppamento orizzontale, nel
quale la suddivisione delle quote attiene solo al profilo
quantitativo. In altre parole, nei raggruppamenti
orizzontali, per essere la responsabilità delle imprese
consociate è paritaria e solidale (come si ricava dall’art.
48 d.lgs. 18.04.2016, n. 50), non v’è rischio per la
stazione appaltante di ricevere una prestazione non adeguata
all’impegno assunto dall’aggiudicatario.
Non viene peraltro messo in discussione il principio della
par condicio o la serietà ed affidabilità dell’offerta, che
viene posta in linea con i requisiti di qualificazione
effettivi di ogni impresa riunita.
Del resto, la ripartizione delle quote nelle A.t.i.
orizzontali può essere la più varia, e pertanto non si vede
perché, atteso il possesso dei requisiti da parte dell’ATI
nel suo complesso, si debba vietare la modifica delle quote
di esecuzione (Cons. St., sez. V, 06.03.2017, n. 1041).
11.4. Si iscrive a questo orientamento anche la sentenza
Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2015 n. 1293.
12. Appare, dunque, al Collegio che i due orientamenti
richiamati accolgono una diversa concezione del requisito di
qualificazione.
Il primo orientamento lo ritiene “personale”, ossia riferito
alla singola impresa facente parte del raggruppamento; il
secondo orientamento invece lo ritiene riferibile al
raggruppamento nel suo complesso, con la conseguenza che non
costituisce motivo di esclusione il caso in cui il singolo
componente non possieda un requisito di qualificazione
sufficiente per l’esecuzione della propria quota di lavori,
se il raggruppamento nel suo complesso è “sovrabbondante”
rispetto al requisito richiesto dal bando.
12.1. È bene precisare che, in questo contesto, il
riferimento al concetto di raggruppamento sovrabbondante ha
un significato diverso rispetto a quello assunto in altre
pronunce di questo Consiglio di Stato (Cons. St., sez. V, 08.02.2017, n. 560).
In particolare, la giurisprudenza amministrativa ha
utilizzato tale espressione con riferimento ai
raggruppamenti nei quali ogni impresa componente possiede
autonomamente il requisito di partecipazione alla gara ma,
nonostante questo, decida di dar vita ad una forma
associativa per l’esecuzione dell’appalto.
Il Consiglio di Stato ha escluso che il carattere
“sovrabbondante” costituisca di per sé un motivo di
esclusione del raggruppamento, invitando il giudice a
verificare caso per caso se vi sia un intento elusivo della
disciplina della concorrenza (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 29.12.2010, n. 9577).
Nel caso oggetto del presente giudizio invece, il termine
“sovrabbondante” va inteso come riferito solo al requisito
di qualificazione di una delle consociate, vale a dire nel
senso che quel requisito mancante, per essere posseduto da
altre imprese, in misura maggiore alla quota di esecuzione
da quest’ultima assunta, risulta essere per essa
sovrabbondante.
13. A seconda della soluzione che si intenda dare al
contrasto tra opposti orientamenti sottoposto all’Adunanza
plenaria, altra questione viene a porsi in via subordinata.
13.1. Qualora si consenta all’impresa, che ha assunto una
quota di lavori eccessiva rispetto al requisito di
qualificazione posseduto, la modifica in corso di procedura
(per essere nella fase successiva a quella di presentazione
delle offerte) della quota di esecuzione dei lavori, così da
impedire l’esclusione del raggruppamento, occorre definire
le condizioni in presenza delle quali detta modifica può
ammettersi.
Le sentenze richiamate nel secondo orientamento, infatti,
hanno posto la condizione che lo scostamento (tra quota di
esecuzione assunta e requisito di qualificazione posseduto)
sia minimo, al punto da poter qualificare lo stesso alla
stregua di un errore materiale (come sostenuto da Cons. St.,
sez. V, 06.03.2017, n. 1041).
Ove si voglia dar seguito a tale impostazione, sarà
necessario determinare la soglia, superata la quale, lo
scostamento non possa più essere considerato “minimo”.
13.2. Sempre nell’ipotesi in cui si sposi il secondo
orientamento che, mediante la modifica della quota di
esecuzione dichiarata, evita l’esclusione del
raggruppamento, è opportuno chiarire se la stazione
appaltante, che lo scostamento riconosca, debba ricorrere al
soccorso istruttorio (opzione esclusa da Cons. St., sez. V,
02.07.2018, n. 4036) per concedere al raggruppamento di
operare la modifica consentita, o possa farne a meno
procedendo direttamente alla valutazione dell’offerta, per
avere essa stessa –si potrebbe dire “d’ufficio”– accertato
che la riduzione della quota di esecuzione in capo ad una
delle imprese è compensata dal maggior requisito di
qualificazione posseduto da altro componente.
Il Consiglio di Stato, con riferimento al diverso caso in
cui la quota di qualificazione dichiarata era inferiore a
quella realmente posseduta ha affermato che “l’errata
specificazione delle quote di partecipazione non determina
di per sé l’esclusione dalla procedura selettiva, potendo al
più indurre l’amministrazione ad esercitare il potere di
soccorso istruttorio per l’acquisizione degli eventuali
chiarimenti, con l’ulteriore precisazione per cui laddove la
legge di gara preveda misure espulsive per le predette
ipotesi di irregolarità, queste, essendo in contrasto con il
principio di tassatività delle cause di esclusione sancito
dall’art. 46, comma 1-bis, c.c.p. sono da considerare nulle e
improduttive di effetti” (Cons. St., sez. V, 19.02.2018, n. 1026).
Se è vero che i principi delineati dal Consiglio di Stato
riguardano un caso diverso da quello in esame, essi
potrebbero considerarsi validi per tutti i casi di erronea
indicazione delle quote, anche a fronte di un diverso
requisito di qualificazione.
14. La questione posta con l’odierna ordinanza è decisiva ai
fini della risoluzione dell’odierna controversia.
14.1. E’ ammesso dallo stesso appellante che una delle
imprese componenti il raggruppamento, la Ad.Bi. s.p.a.
non era in possesso del requisito di qualificazione utile
all’esecuzione della quota di lavori assunta (per una quota
di € 4.144.000,00 aveva dichiarato il possesso della
classifica IVbis che consente l’esecuzione di lavori fino a
€ 3.500.000,00).
14.2. D’altra parte, però, è da dire che non è dal
raggruppamento data fornita alcuna ragionevole motivazione
per la quale lo scostamento tra requisiti di qualificazione
e quota di lavori da eseguire possa essere considerata quale
“errore materiale” nel quale è incorso l’operatore al
momento della compilazione dell’offerta.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione
Quinta), non definitivamente pronunciando sul ricorso in
epigrafe, ne dispone il deferimento all'adunanza plenaria
del Consiglio di Stato. |
EDILIZIA PRIVATA:
Circa la realizzazione di una recinzione in
mattoni e l’apposizione di tre cancelli, non v'è dubbio che
tali opere, avendo natura permanente ed essendo idonee ad
incidere in modo durevole sull’assetto edilizio del
territorio, abbisognano del previo rilascio del permesso di
costruzione. La mancanza ne giustifica la sanzione
demolitoria ai sensi dell’art. 31 del d.p.r. 380/2001.
Invero, “è necessario il permesso di costruire quando la
recinzione costituisca opera di carattere permanente,
incidendo in modo durevole e non precario sull'assetto
edilizio del territorio, come ad esempio se è costituita da
un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete
metallica o da opera muraria”.
---------------
3. Il ricorso è infondato.
3.1. Deve anzitutto osservarsi che la vicenda in esame
riguarda una recinzione in mattoni e l’apposizione di tre
cancelli, sicché non vi è dubbio che tali opere, avendo
natura permanente ed essendo idonee ad incidere in modo
durevole sull’assetto edilizio del territorio avrebbero
dovuto essere realizzate previo rilascio del permesso di
costruzione, ciò che giustifica la sanzione demolitoria ai
sensi dell’art. 31 del d.p.r. 380/2001: “è necessario il
permesso di costruire quando la recinzione costituisca opera
di carattere permanente, incidendo in modo durevole e non
precario sull'assetto edilizio del territorio, come ad
esempio se è costituita da un muretto di sostegno in
calcestruzzo con sovrastante rete metallica o da opera
muraria” (cfr. TAR Lombardia Milano, Sez. II, 25.10.2017
n. 2022).
Né le cose cambiano in ragione del fatto che, a detta del
perito di parte, la realizzazione delle opere risalirebbe ad
epoca anteriore al 1996, ciò che ne avrebbe consentito la
realizzazione in forza di DIA, dal momento che, a
prescindere da ogni considerazione sulla normativa
applicabile ratione temporis, è decisivo considerare
che, allo stato, le opere in questione non risultano
assistite da alcun titolo edilizio (TAR Calabria-Catanzaro,
Sez. I,
sentenza 18.10.2018 n. 1773 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Trattandosi di attività vincolata, le violazioni
formali non consentono l’annullamento del provvedimento
impugnato: “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia
pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e
giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura
vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi
presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione
in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da
quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che
impongono la rimozione dell'abuso neanche nell'ipotesi in
cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di
tempo dalla realizzazione dell'abuso, il titolare attuale
non sia responsabile dell'abuso e il trasferimento non
denoti intenti elusivi dell'onere di ripristino”.
---------------
3.2. Trattandosi di attività vincolata, le violazioni
formali pure denunciate con il ricorso non consentono
l’annullamento del provvedimento impugnato: “il
provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente,
la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da
alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente
ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in
diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di
pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino
della legittimità violata) che impongono la rimozione
dell'abuso neanche nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di
demolizione intervenga a distanza di tempo dalla
realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia
responsabile dell'abuso e il trasferimento non denoti
intenti elusivi dell'onere di ripristino” (Cons. Stato,
Ad. Plen., 17.10.2017 n. 9).
3.3. L’ordinanza di demolizione non è stata notificata alla
sig.ra Gi.Se. a titolo personale, ma quale amministratrice
del condominio, in quanto tale sicuramente legittimata ai
sensi dell’art. 1131, co. 2, c.c. a ricevere i provvedimenti
dell’autorità concernenti le parti comuni.
3.4. Il riferimento alla sussistenza del deposito di rifiuti
deve ritenersi neutro ai fini dell’ingiunzione demolitoria,
essendo questa sufficientemente motivata in ragione della
riscontrata abusività delle opere (TAR Calabria-Catanzaro,
Sez. I,
sentenza 18.10.2018 n. 1773 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Alla domanda "se la speciale disciplina contenuta nell’art. 53 del D.Lgs.
n. 50/2016 (ed in particolare l’espresso richiamo
all’applicabilità delle regole in materia di diritto di
accesso “ordinario”) debba considerarsi come un caso di
esclusione della disciplina dell’accesso civico ai sensi
dell’art. 5-bis, comma 3, del D.Lgs. n. 33/2013" la risposta è
affermativa, in base ad un duplice ordine di considerazioni.
Dal punto di vista testuale, l’art. 5-bis, comma 3, del D.Lgs. n. 33/2013 è inequivocabile nello stabilire che il
diritto di accesso civico generalizzato “…è escluso…” nei
casi in cui l'accesso è subordinato dalla disciplina vigente
al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti. E
non c’è dubbio che l’accesso agli atti delle procedure ad
evidenza pubblica sia soggetto al rispetto di particolari
condizioni e limiti.
In effetti, l’art. 53 del D.Lgs. n.
50/2016 detta espressamente una disciplina sull’accesso in
parte derogatoria rispetto alle ordinarie regole, prevedendo
però, a monte, che il diritto di accesso agli atti delle
procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti
pubblici è disciplinato dalle pertinenti norme della L. n.
241/1990.
Dal punto di vista della successione delle leggi nel tempo se è vero che alla data
dell’entrata in vigore del nuovo codice dei contratti
pubblici l’accesso pubblico generalizzato non era stato
ancora introdotto nell’ordinamento, è altrettanto vero che è
lo stesso legislatore del D.Lgs. n. 97/2016 a regolamentare
l’ipotesi di discipline sottratte per voluntas legis, anche
se precedente all’introduzione del nuovo istituto, alla
possibilità di accesso generalizzato.
Dal punto di vista interpretativo, si rileva invece che gli
atti delle procedure di affidamento ed esecuzione di
contratti pubblici sono formati e depositati all’interno di
una disciplina del tutto speciale e a sé stante, che
costituisce un complesso chiuso nel cui ambito vengono
contemperati interessi di varia e contrapposta natura, di
talché risulta del tutto giustificata la scelta del
legislatore volta ad impedire a soggetti non qualificati la
possibilità indiscriminata di accesso alla documentazione di
gara e post-gara;
- tale documentazione -si sottolinea- da un lato è
soggetta a penetranti controlli pubblicistici da parte dell’ANAC
e dall’altro coinvolge interessi privati di natura economica
e imprenditoriale di per sé sensibili (e quindi
astrattamente riconducibili alla causa di esclusione di cui
al comma 2, lett. c), dell’art. 5-bis del D.Lgs. n.
33/2013);
- nulla esclude che il legislatore
possa in futuro compiere una scelta diversa, ma tale scelta,
proprio in ragione del quadro normativo dianzi esposto,
dovrà essere espressa ed inequivoca.
---------------
Si
ritiene di dover aggiungere che:
- il c.d. diritto di accesso civico –mutuato dal Freedom of
Information Act statunitense– è istituto che si aggiunge a
quelli da tempo previsti nel nostro ordinamento a tutela
della trasparenza dell’azione amministrativa;
- non va infatti dimenticato che già dal 1990 il nostro
legislatore ha disciplinato il diritto di accesso tout court
(e, per la verità, già dal 1985 era stato introdotto il
diritto di accesso agli atti degli enti locali) e che, anche
in applicazione di specifiche direttive comunitarie, sono
state introdotte ulteriori, seppure settoriali, disposizioni
tese ad incrementare il livello di trasparenza dell’azione
amministrativa (si pensi, ad esempio, al diritto di accesso
alle informazioni in materia ambientale o al diritto di
accesso dei consiglieri comunali, regionali, etc.).
Va poi
ulteriormente ricordato che per la gran parte dei
procedimenti amministrativi è ormai previsto il modulo della
conferenza dei servizi (nell’ambito della quale qualunque
soggetto interessato può presentare memorie e documenti e
richiedere ovviamente l’accesso agli atti della procedura) e
che, in generale, gli artt. 7 e ss. e 10-bis della L. n.
241/1990 impongono alla P.A. di non adottare provvedimenti
“a sorpresa”.
Da ultimo, il legislatore ha introdotto un
obbligo pressoché generalizzato di pubblicazione degli atti
amministrativi nella sezione “Amministrazione trasparente”
del sito informatico di ciascuna amministrazione;
- da tutto ciò consegue che, in disparte la specifica
materia delle pubbliche commesse (per cui valgono le
considerazioni espresse dal TAR Parma e a cui il Collegio
ritiene di aderire), nei casi non coperti dal compendio
normativo di cui si è cercato di operare una rapida
ricognizione debbono pur sempre sussistere le ragioni
fondative del diritto di accesso civico generalizzato
(ossia, come dispone l’art. 5, comma 2, del D.Lgs. n.
33/2013 “… favorire forme diffuse di controllo sul
perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo
delle risorse pubbliche e … promuovere la partecipazione al
dibattito pubblico….”).
---------------
Va premesso che, ad onta di quanto risulta dall’epigrafe
del ricorso (in cui è richiamato solo l’art. 116 cod. proc.
amm.), in realtà parte ricorrente introduce due distinte
domande, la prima finalizzata a denunciare l’illegittimità
del silenzio serbato dal Comune sull’istanza di accesso, la
seconda finalizzata invece ad ottenere una sentenza di
accertamento (del diritto di accesso) e di condanna
(all’esibizione degli atti in questione).
Ciò non pone peraltro alcun problema di ordine processuale,
visto che i giudizi di cui, rispettivamente, agli artt. 31 e
117 cod. proc. amm. e 116 cod. proc. amm., seguono entrambi
il rito camerale e sono dunque parimenti soggetti alle
disposizioni dell’art. 87 del codice processuale
amministrativo.
5. Con riguardo al contenuto della presente sentenza va però
osservato che nella specie il rito sull’accesso “assorbe”
evidentemente anche quello sul silenzio, visto che nel
giudizio sull’accesso al giudice amministrativo viene
chiesto di pronunciarsi comunque sulla fondatezza della
pretesa sostanziale, id est sul riconoscimento o meno del
diritto di accesso.
In ogni caso, nella specie non si pone
alcun problema di eventuale sconfinamento dai limiti esterni
della giurisdizione o di violazione dell’art. 31, comma 3,
cod. proc. amm., in quanto, per stessa prospettazione di
parte ricorrente, nel caso di accesso civico generalizzato
l’amministrazione destinataria della richiesta non dispone
di alcun potere discrezionale circa l’accoglimento o meno
della domanda, avendo già il legislatore stabilito a monte
quali sono le categorie di documenti sottratti all’accesso
civico.
6. Ciò detto, il Tribunale ritiene che il ricorso non sia
meritevole di accoglimento, e questo, sostanzialmente, per
le medesime ragioni evidenziate dal TAR Parma nella suddetta
sentenza n. 197/2018.
Questi i passaggi principali del percorso argomentativo che
il Tribunale emiliano ha seguito per pervenire al rigetto
del ricorso:
- la documentazione richiesta dal ricorrente concerneva, per
una parte, i documenti di una gara di appalto già espletata
e dalla quale lo stesso ricorrente era stato escluso, per la
restante parte, una serie di dati inerenti ad aspetti
relativi all’esecuzione del rapporto contrattuale scaturito
da tale gara (rapporto anch’esso allo stato esaurito).
Tale
documentazione poteva pertanto essere ricompresa nella sua
globalità nel concetto più generale di “….atti delle
procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti
pubblici….” di cui al comma 1 dell’art. 53 del D.Lgs. n.
50/2016;
- l’art. 53 reca una disciplina speciale per l’accesso agli
atti afferenti alle procedure ad evidenza pubblica. La prima
regola stabilita da questa norma è quella per cui “….il
diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento
e di esecuzione dei contratti pubblici, ivi comprese le
candidature e le offerte, è disciplinato dagli articoli 22 e
seguenti della legge 07.08.1990, n. 241…”;
- a sua volta, l’art. 5-bis, comma 3, del D.Lgs. n. 33/2013
stabilisce che “…il diritto di cui all'articolo 5, comma 2,
è escluso nei casi di segreto di Stato e negli altri casi di
divieti di accesso o divulgazione previsti dalla legge, ivi
compresi i casi in cui l'accesso è subordinato dalla
disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni,
modalità o limiti, inclusi quelli di cui all'articolo 24,
comma 1, della legge n. 241 del 1990…”. Tale disposizione
stabilisce i casi di “esclusione assoluta”, nei quali cioè è
lo stesso legislatore ad avere indicato i casi nel quali il
diritto di accesso civico generalizzato non può essere
azionato, per cui l’amministrazione che detiene i documenti
richiesti non conserva alcuna possibilità di comparazione
discrezionale degli interessi coinvolti;
- ci si deve quindi domandare –si osserva nella sentenza-
se la speciale disciplina contenuta nell’art. 53 del D.Lgs.
n. 50/2016 (ed in particolare l’espresso richiamo
all’applicabilità delle regole in materia di diritto di
accesso “ordinario”) debba considerarsi come un caso di
esclusione della disciplina dell’accesso civico ai sensi
dell’art. 5-bis, comma 3, del D.Lgs. n. 33/2013;
- la risposta al quesito, secondo il TAR Parma, è
affermativa, in base ad un duplice ordine di considerazioni.
Dal punto di vista testuale, l’art. 5-bis, comma 3, del D.Lgs. n. 33/2013 è inequivocabile nello stabilire che il
diritto di accesso civico generalizzato “…è escluso…” nei
casi in cui l'accesso è subordinato dalla disciplina vigente
al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti. E
non c’è dubbio che l’accesso agli atti delle procedure ad
evidenza pubblica sia soggetto al rispetto di particolari
condizioni e limiti.
In effetti, l’art. 53 del D.Lgs. n.
50/2016 detta espressamente una disciplina sull’accesso in
parte derogatoria rispetto alle ordinarie regole, prevedendo
però, a monte, che il diritto di accesso agli atti delle
procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti
pubblici è disciplinato dalle pertinenti norme della L. n.
241/1990.
Dal punto di vista della successione delle leggi nel tempo –si rileva ancora nella sentenza- se è vero che alla data
dell’entrata in vigore del nuovo codice dei contratti
pubblici l’accesso pubblico generalizzato non era stato
ancora introdotto nell’ordinamento, è altrettanto vero che è
lo stesso legislatore del D.Lgs. n. 97/2016 a regolamentare
l’ipotesi di discipline sottratte per voluntas legis, anche
se precedente all’introduzione del nuovo istituto, alla
possibilità di accesso generalizzato.
Dal punto di vista interpretativo, si rileva invece che gli
atti delle procedure di affidamento ed esecuzione di
contratti pubblici sono formati e depositati all’interno di
una disciplina del tutto speciale e a sé stante, che
costituisce un complesso chiuso nel cui ambito vengono
contemperati interessi di varia e contrapposta natura, di
talché risulta del tutto giustificata la scelta del
legislatore volta ad impedire a soggetti non qualificati la
possibilità indiscriminata di accesso alla documentazione di
gara e post-gara;
- tale documentazione -si sottolinea- da un lato è
soggetta a penetranti controlli pubblicistici da parte dell’ANAC
e dall’altro coinvolge interessi privati di natura economica
e imprenditoriale di per sé sensibili (e quindi
astrattamente riconducibili alla causa di esclusione di cui
al comma 2, lett. c), dell’art. 5-bis del D.Lgs. n.
33/2013);
- nulla esclude -conclude il TAR Parma- che il legislatore
possa in futuro compiere una scelta diversa, ma tale scelta,
proprio in ragione del quadro normativo dianzi esposto,
dovrà essere espressa ed inequivoca.
7. Rispetto a tali condivisibili argomenti, il Collegio
ritiene di dover aggiungere che:
- il c.d. diritto di accesso civico –mutuato dal Freedom of
Information Act statunitense– è istituto che si aggiunge a
quelli da tempo previsti nel nostro ordinamento a tutela
della trasparenza dell’azione amministrativa;
- non va infatti dimenticato che già dal 1990 il nostro
legislatore ha disciplinato il diritto di accesso tout court
(e, per la verità, già dal 1985 era stato introdotto il
diritto di accesso agli atti degli enti locali) e che, anche
in applicazione di specifiche direttive comunitarie, sono
state introdotte ulteriori, seppure settoriali, disposizioni
tese ad incrementare il livello di trasparenza dell’azione
amministrativa (si pensi, ad esempio, al diritto di accesso
alle informazioni in materia ambientale o al diritto di
accesso dei consiglieri comunali, regionali, etc.).
Va poi
ulteriormente ricordato che per la gran parte dei
procedimenti amministrativi è ormai previsto il modulo della
conferenza dei servizi (nell’ambito della quale qualunque
soggetto interessato può presentare memorie e documenti e
richiedere ovviamente l’accesso agli atti della procedura) e
che, in generale, gli artt. 7 e ss. e 10-bis della L. n.
241/1990 impongono alla P.A. di non adottare provvedimenti
“a sorpresa”.
Da ultimo, il legislatore ha introdotto un
obbligo pressoché generalizzato di pubblicazione degli atti
amministrativi nella sezione “Amministrazione trasparente”
del sito informatico di ciascuna amministrazione;
- da tutto ciò consegue che, in disparte la specifica
materia delle pubbliche commesse (per cui valgono le
considerazioni espresse dal TAR Parma e a cui il Collegio
ritiene di aderire), nei casi non coperti dal compendio
normativo di cui si è cercato di operare una rapida
ricognizione debbono pur sempre sussistere le ragioni
fondative del diritto di accesso civico generalizzato
(ossia, come dispone l’art. 5, comma 2, del D.Lgs. n.
33/2013 “… favorire forme diffuse di controllo sul
perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo
delle risorse pubbliche e … promuovere la partecipazione al
dibattito pubblico….”).
8. Ora, con riguardo al caso di specie, risulta evidente che
l’istanza del Consorzio ricorrente sia stata proposta in
stretta correlazione con la nuova gara indetta dal Comune di
Porto Recanati e che sia finalizzata, non ad un controllo
sul perseguimento di funzioni istituzionali o sull'utilizzo
di risorse pubbliche, ma ad acquisire informazioni utili con
riguardo all’esecuzione del precedente appalto (per esempio,
al fine di verificare se la ditta controinteressata -che
quasi certamente parteciperà alla nuova selezione- abbia
commesso errori professionali gravi, tali da determinarne
l’esclusione dalla nuova procedura).
Va infatti rilevato che
il servizio in parola (come questo Tribunale ha ritenuto
nella sentenza n. 45/2018) presenta caratteristiche di
standardizzazione tali per cui sembra da escludere che la
domanda presentata dal Consorzio sia finalizzata a conoscere
quali soluzioni tecniche innovative la ditta controinteressata abbia offerto al fine di aggiudicarsi la
commessa (ma in questo caso potrebbero eventualmente
rilevare ragioni ostative inerenti la tutela del know-how
industriale).
Deve dunque ritenersi che il diritto alla visione ed
estrazione di copia della documentazione in parola possa
essere esercitato secondo la disciplina generale dettata dal
Capo V della legge n. 241 del 1990 (“Accesso ai documenti
amministrativi”) la quale richiede, tra l’altro,
l’indicazione dello specifico interesse che giustifica
l’istanza (art. 22, comma 1, lett. a e b).
9. Per tutte queste ragioni il ricorso va respinto (TAR
Marche,
sentenza 18.10.2018 n. 677 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Tutela delle bellezze
naturali - Nozione di paesaggio - Difesa del complessivo
equilibrio estetico e culturale in un determinato ambito -
Autorizzazione paesaggistica rilasciata in sanatoria - C.d.
interventi minori - Fattispecie: unità produttiva,
interventi di potenziamento e di rimaneggiamento in difetto
di autorizzazione - Artt. 146, 167 e 181, d.lgs. n. 42/2004.
In tema di protezione delle bellezze
naturali, il paesaggio deve essere inteso come complesso di
valori estetici e naturali considerati unitariamente in una
determinata area, e la modificazione del territorio, oggetto
del divieto penalmente sanzionato, può essere attuata
attraverso qualsiasi opera non soltanto edilizia
(cfr. Sez. 3, n. 10484 del 12/11/2014, dep. 2015, Grue).
La tutela del paesaggio, quindi, non può
essere limitata alla verifica della compatibilità del
singolo bene ma come difesa del complessivo equilibrio
estetico e culturale in un determinato ambito, sicché, la
deroga al principio generale per il quale l'autorizzazione
paesaggistica non può essere rilasciata in sanatoria
successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli
interventi, fissata dall'art. 146, comma dodicesimo, del
d.lgs. 22.01.2004, n. 42, è limitata agli interventi minori
individuati dall'art. 181, comma 1-ter, del d.lgs. n.
42/2004, per i quali soltanto non si applicano le sanzioni
penali di cui al comma primo del medesimo art. 181, ferme
restando quelle amministrative di cui all'art. 167 del
predetto d.lgs. (Sez.
3, n. 35965 del 05/02/2015, Seratoni Gualdoni e altro).
Fattispecie: unità produttiva collocata in
zona vincolata paesaggisticamente, con l'iniziale attività
di escavazione sostituita da un'attività di frantoio per la
produzione e commercializzazione di sabbia e ghiaie, in
assenza di autorizzazione ambientale dell'impianto nella sua
interezza. Inoltre, impianto non compatibile col Piano
Regolatore Generale Comunale, trovandosi all'interno di area
riconosciuta a rischio alluvionale ed essendo stati ammessi
solamente siti per le attività estrattive.
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Protezione delle bellezze
naturali - Rilascio postumo dell'autorizzazione
paesaggistica in sede di rilascio del permesso di costruire
in sanatoria - Effetti - Inibiscono la demolizione o/e la
remissione in pristino - Estinzione del reato ex 181, d.lgs.
n. 42/2004 - Esclusione.
Il rilascio postumo dell'autorizzazione
paesaggistica da parte dell'autorità preposta alla tutela
del vincolo, nonché il parere favorevole espresso in sede di
rilascio del permesso di costruire in sanatoria, non
estinguono il reato previsto dall'art. 181 del d.lgs. n. 42
del 2004, ma inibiscono la demolizione o la remissione in
pristino dello stato dei luoghi, atteso che tali
provvedimenti comportano una qualificata ricognizione
dell'assenza di conseguenze dannose o pericolose per
l'ambiente (Sez.
3, n. 24410 del 09/02/2016, Pezzuto e altro).
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Edificazione in area
vincolata - Difetto della preventiva autorizzazione
paesaggistica ex d.lgs. n. 42/2004 - Rilascio di concessione
in sanatoria ex artt. 36, 44 e 45 d.P.R. n. 380/2001 -
Limiti - Autonomia strutturale dei due provvedimenti -
Giurisprudenza.
Nel caso di interventi edilizi eseguiti
in zona vincolata, l'esistenza dell'autorizzazione
paesaggistica non può desumersi dall'intervenuto rilascio di
concessione in sanatoria ex artt. 36 e 44 d.P.R. 06.06.2001,
n. 380, non soltanto per l'autonomia strutturale dei due
provvedimenti, ma anche perché l'interesse paesaggistico è
funzionalmente differenziato da quello urbanistico
(Sez. 3, n. 47331 del 16/11/2007, Minaudo e altr).
Nella specie, inoltre, la realizzazione di
una cava in difetto della preventiva autorizzazione
paesaggistica è tuttora condotta penalmente rilevante ai
sensi dell'art. 181 d.lgs. n. 42 del 2004, disposizione
nella quale è stata trasfusa la precedente fonte
dell'incriminazione, costituita dall'abrogato art. 163 del
d.lgs. n. 490 del 1999
(Sez. 4, n. 1781 del 02/12/2008, dep. 2009, Boscacci; Sez.
3, n. 20195 del 19/04/2006, Ciullo; cfr. anche Sez. 3, n.
34102 del 12/04/2005, Nardilli, nonché Sez. 3, n. 28080 del
22/03/2017, Dileo).
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Differenza tra
autorizzazione paesaggistica e permesso urbanistico ex art.
36 d.P.R. n. 380/2001 - Accertamento di conformità e visione
unitaria e complessiva.
L'autorizzazione paesistica di cui
all'art. 151 del d.lgs. n. 490 del 1999 è finalizzata alla
salvaguardia del paesaggio -bene costituzionalmente protetto
non soltanto sotto l'aspetto estetico-culturale, ma anche
sotto il profilo di risorsa economica- ed è pertanto un
provvedimento distinto ed autonomo rispetto alla concessione
edilizia, la quale è invece volta ad assicurare la corretta
gestione del territorio, sotto il profilo dell'uso e della
trasformazione programmata di esso in una visione unitaria e
complessiva (cfr.
Sez. 3, n. 23230 del 22/04/2004, Verdelocco).
Infatti la concessione rilasciata a seguito
di accertamento di conformità (art. 36 d.P.R. 06.06.2001, n.
380) estingue i reati contravvenzionali previsti dalle norme
urbanistiche vigenti, ma non i reati paesaggistici previsti
dal d.lgs. 22.01.2004, n. 42, che sono soggetti ad una
disciplina difforme e differenziata, legittimamente e
costituzionalmente distinta, avente oggettività giuridica
diversa, rispetto a quella che riguarda l'assetto del
territorio sotto il profilo edilizio
(Sez. 3, n. 40375 del 09/09/2015, Casalanguida e altro; cfr.
altresì Sez. 7, n. 11254 del 20/10/2017, dep. 2018,
Franchino e altri, che ha appunto osservato come l'art. 45,
comma 3, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, si riferisce ai soli
reati contravvenzionali previsti dal medesimo d.P.R. n. 380
del 2001, in cui sono contemplate le ipotesi suscettibili di
sanatoria, quali gli interventi in assenza di permesso di
costruire o in difformità da esso).
DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Opere ultimate in zone
vincolate paesaggisticamente - Ordinanza di sequestro
preventivo - Presupposto del periculum in mora.
In tema di sequestro preventivo per
reati paesaggistici, il presupposto del periculum in mora
non può essere desunto solo dalla esistenza delle opere
ultimate, ma è necessario dimostrare che l'effettiva
disponibilità materiale o giuridica del bene, da parte del
soggetto indagato o di terzi, possa ulteriormente
deteriorare l'ecosistema protetto dal vincolo paesaggistico,
dovendo valutarsi l'incidenza degli abusi sulle diverse
matrici ambientali ovvero il loro impatto sulle zone oggetto
di particolare tutela
(Sez. 3, n. 2001 del 24/11/2017, dep. 2018, Dessi e altri;
Sez. 3, n. 50336 del 05/07/2016, Del Gaizo) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.10.2018 n. 46997 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La sanzione demolitoria di cui all’art. 31 D.P.R. 380/2001 ha natura
ripristinatoria e prescinde dalla responsabilità personale
del destinatario nella commissione dell’illecito, essendo
invece rivolta ai soggetti che, trovandosi in rapporto con
la res, abbiano il potere di rimuovere concretamente
l’abuso.
---------------
Il ricorso è infondato.
Non è condivisibile la prima censura, secondo cui i
proprietari sarebbero estranei alla realizzazione dell’abuso
edilizio, avendo acquistato l’immobile dopo la sua
edificazione (censura qualificata dai ricorrenti come
“difetto di legittimazione passiva”).
Come ripetutamente osservato dalla giurisprudenza anche di
questa Sezione (TAR Napoli, n. 1501/2018) la sanzione demolitoria di cui all’art. 31 D.P.R. 380/2001 ha natura
ripristinatoria e prescinde dalla responsabilità personale
del destinatario nella commissione dell’illecito, essendo
invece rivolta ai soggetti che, trovandosi in rapporto con
la res, abbiano il potere di rimuovere concretamente l’abuso
(cfr. da ultimo Cons. St., Ad plen. 9/2017).
Peraltro va aggiunto, con riguardo al caso concreto, che in
forza delle clausole del contratto di compravendita sopra
richiamato, gli acquirenti erano stati resi edotti del
cambiamento d’uso del fabbricato, originariamente rurale, in
abitazione ad uso residenziale e della circostanza che tale
cambiamento costituiva oggetto da parte della venditrice di
una Dichiarazione Inizio Attività, sul cui esito
procedimentale era pienamente esigibile, secondo un
principio di ordinaria diligenza, una verifica da parte
degli odierni ricorrenti (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 15.10.2018 n. 5974 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non si può applicare a un fatto illecito
(l’abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in tema
di valutazione dell’interesse pubblico, è stato enucleato
per la diversa ipotesi dell’autotutela decisoria.
Non
sarebbe in alcun modo concepibile l’idea stessa di
connettere al decorso del tempo e all’inerzia
dell’amministrazione la sostanziale perdita del potere di
contrastare il grave fenomeno dell’abusivismo edilizio,
ovvero di legittimare in qualche misura l’edificazione
avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna
possibile giustificazione normativa a una siffatta –e
inammissibile– forma di sanatoria automatica o praeter
legem.
---------------
Non sussiste
l'illegittimità del provvedimento
di demolizione per la mancata indicazione del bene da
acquisire al patrimonio comunale.
Invero, il manufatto è sufficientemente
descritto sia nella conformazione fisica che con i
riferimento catastali, così da non risultare lese le
esigenze difensive degli interessati.
Ogni ulteriore
analitica descrizione, anche dell’area di sedime, afferisce
alla successiva eventuale fase di accertamento dell’avvenuta
acquisizione al patrimonio comunale ex art. 31, co. 3, DPR
380/2001, effetto che la legge connette automaticamente dal
decorso del tempo e alla inottemperanza dell’ordine di
demolizione.
---------------
Non è fondata la seconda doglianza, con cui si contesta la
insufficienza della motivazione in relazione al decorso del
tempo e alla violazione del legittimo affidamento.
La
questione -invero controversa al momento dell’introduzione
del giudizio, (in senso contrario a quanto dedotto da parte
ricorrente, cfr. peraltro Consiglio di Stato, Sez. VI, 27.03.2017 n. 1386 e 28.02.2017 n. 908; Consiglio di
Stato, Sez. IV, 12.10.2016 n. 4205 e 31.08.2016 n.
3750)– è stata come è noto oggetto di una recente
pronuncia dell’Adunanza Plenaria (Cons. St., A.P., 17.10.2017, n. 9); pertanto il principio di sinteticità ex
art. 3 c.p.a. consente di richiamare quanto ivi affermato,
secondo cui “non si può applicare a un fatto illecito
(l’abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in tema
di valutazione dell’interesse pubblico, è stato enucleato
per la diversa ipotesi dell’autotutela decisoria. Non
sarebbe in alcun modo concepibile l’idea stessa di
connettere al decorso del tempo e all’inerzia
dell’amministrazione la sostanziale perdita del potere di
contrastare il grave fenomeno dell’abusivismo edilizio,
ovvero di legittimare in qualche misura l’edificazione
avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna
possibile giustificazione normativa a una siffatta –e
inammissibile– forma di sanatoria automatica o praeter
legem”.
E ciò a prescindere dalla specifica cognizione degli
aventi causa circa la regolarità urbanistica dell’immobile,
evincibile dal contratto di acquisto.
Infine, non può essere condivisa la terza censura, con cui i
ricorrenti si dolgono della illegittimità del provvedimento
di demolizione per la mancata indicazione del bene da
acquisire al patrimonio comunale.
Il manufatto –sulla cui abusività non vi è contestazione– è sufficientemente
descritto sia nella conformazione fisica che con i
riferimento catastali, così da non risultare lese le
esigenze difensive degli interessati.
Ogni ulteriore
analitica descrizione, anche dell’area di sedime, afferisce
alla successiva eventuale fase di accertamento dell’avvenuta
acquisizione al patrimonio comunale ex art. 31, co. 3, DPR
380/2001, effetto che la legge connette automaticamente dal
decorso del tempo e alla inottemperanza dell’ordine di
demolizione (cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sez. V, 07.07.2014 n. 3438; TAR Campania Napoli, Sez II,
09.07.2018, n. 4530; TAR Campania Napoli, Sez. VII, 09.01.2015
n. 68) (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 15.10.2018 n. 5974 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In materia di vincolo cimiteriale.
La consolidata giurisprudenza di questo Consiglio è nel
senso che:
- il vincolo cimiteriale determina una situazione di
inedificabilità ex lege e integra una limitazione legale
della proprietà a carattere assoluto, direttamente incidente
sul valore del bene e non suscettibile di deroghe di fatto,
tale da configurare in maniera obbiettiva e rispetto alla
totalità dei soggetti il regime di appartenenza di una
pluralità indifferenziata di immobili che si trovino in un
particolare rapporto di vicinanza o contiguità con i
suddetti beni pubblici;
- il vincolo ha carattere assoluto e non consente in alcun modo
l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con
il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici
interessi pubblici che la fascia di rispetto intende
tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la
salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi
destinati alla inumazione e alla sepoltura, il mantenimento
di un’area di possibile espansione della cinta cimiteriale;
- il vincolo, d’indole conformativa, è sganciato dalle esigenze
immediate della pianificazione urbanistica, nel senso che
esso si impone di per sé, con efficacia diretta,
indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti
urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro
natura, ad incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti;
- la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è
suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e
comunque solo per considerazioni di interesse pubblico, in
presenza delle condizioni specificate nell'art. 338, quinto
comma;
- l’art. 338, quinto comma, non presidia interessi privati e non
può legittimare interventi edilizi futuri su un'area
indisponibile per ragioni di ordine igienico-sanitario,
nonché per la sacralità dei luoghi di sepoltura;
- il procedimento attivabile dai singoli proprietari all’interno
della zona di rispetto è soltanto quello finalizzato agli
interventi di cui al settimo comma dell’art. 338, settimo
comma (recupero o cambio di destinazione d’uso di
edificazioni preesistenti); mentre resta attivabile nel solo
interesse pubblico, come valutato dal legislatore
nell’elencazione, al quinto comma, delle opere ammissibili
ai fini della riduzione, la procedura di riduzione della
fascia inedificabile.
---------------
1.‒ L’appello è infondato.
2.‒ Va innanzitutto considerato che l’ordine demolitorio
trova autonomo fondamento giuridico nella norma speciale che
prescrive il vincolo c.d. “cimiteriale”.
Come è noto, nel caso in cui il provvedimento impugnato si
fondi su una pluralità di ragioni autonome, il giudice,
qualora registri l’infondatezza delle censure indirizzate
verso uno dei motivi assunti a base dell’atto controverso,
idoneo, di per sé, a comprovarne la legittimità e a
sostenerne il dispositivo, ha la potestà di respingere il
ricorso sulla sola base di tale rilievo, con assorbimento
delle censure dedotte avverso altri capi del provvedimento,
in quanto la conservazione dell’atto implica la perdita di
interesse del ricorrente all’esame delle altre doglianze.
3.– L’art. 338 del regio-decreto 27.07.1934, n. 1265
(Approvazione del testo unico delle leggi sanitarie),
prevede che: «I cimiteri devono essere collocati alla
distanza di almeno 200 metri dal centro abitato. È vietato
costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici entro il raggio
di 200 metri dal perimetro dell'impianto cimiteriale, quale
risultante dagli strumenti urbanistici vigenti nel comune o,
in difetto di essi, comunque quale esistente in fatto, salve
le deroghe ed eccezioni previste dalla legge.
Le disposizioni di cui al comma precedente non si applicano
ai cimiteri militari di guerra quando siano trascorsi 10
anni dal seppellimento dell'ultima salma.
Il contravventore è punito con la sanzione amministrativa
fino a lire 200.000 e deve inoltre, a sue spese, demolire
l'edificio o la parte di nuova costruzione, salvi i
provvedimenti di ufficio in caso di inadempienza.
Il consiglio comunale può approvare, previo parere
favorevole della competente azienda sanitaria locale, la
costruzione di nuovi cimiteri o l’ampliamento di quelli già
esistenti ad una distanza inferiore a 200 metri dal centro
abitato, purché non oltre il limite di 50 metri, quando
ricorrano, anche alternativamente, le seguenti condizioni:
a) risulti accertato dal medesimo consiglio comunale che, per
particolari condizioni locali, non sia possibile provvedere
altrimenti;
b) l’impianto cimiteriale sia separato dal centro urbano da strade
pubbliche almeno di livello comunale, sulla base della
classificazione prevista ai sensi della legislazione
vigente, o da fiumi, laghi o dislivelli naturali rilevanti,
ovvero da ponti o da impianti ferroviari.
Per dare esecuzione ad un’opera pubblica o all'attuazione di
un intervento urbanistico, purché non vi ostino ragioni
igienico-sanitarie, il consiglio comunale può consentire,
previo parere favorevole della competente azienda sanitaria
locale, la riduzione della zona di rispetto tenendo conto
degli elementi ambientali di pregio dell'area, autorizzando
l'ampliamento di edifici preesistenti o la costruzione di
nuovi edifici. La riduzione di cui al periodo precedente si
applica con identica procedura anche per la realizzazione di
parchi, giardini e annessi, parcheggi pubblici e privati,
attrezzature sportive, locali tecnici e serre.
Al fine dell’acquisizione del parere della competente
azienda sanitaria locale, previsto dal presente articolo,
decorsi inutilmente due mesi dalla richiesta, il parere si
ritiene espresso favorevolmente.
All’interno della zona di rispetto per gli edifici esistenti
sono consentiti interventi di recupero ovvero interventi
funzionali all’utilizzo dell’edificio stesso, tra cui
l’ampliamento nella percentuale massima del 10 per cento e i
cambi di destinazione d’uso, oltre a quelli previsti dalle
lettere a), b), c) e d) del primo comma dell’articolo 31
della legge 05.08.1978, n. 457» (comma quest’ultimo così
sostituito dall’articolo 28, comma 1, lettera b), della
legge 01.08.2002, n. 166).
3.1.– La consolidata giurisprudenza di questo Consiglio è
nel senso che:
- il vincolo cimiteriale determina una situazione di
inedificabilità ex lege e integra una limitazione
legale della proprietà a carattere assoluto, direttamente
incidente sul valore del bene e non suscettibile di deroghe
di fatto, tale da configurare in maniera obbiettiva e
rispetto alla totalità dei soggetti il regime di
appartenenza di una pluralità indifferenziata di immobili
che si trovino in un particolare rapporto di vicinanza o
contiguità con i suddetti beni pubblici;
- il vincolo ha carattere assoluto e non consente in alcun modo
l'allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con
il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici
interessi pubblici che la fascia di rispetto intende
tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la
salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi
destinati alla inumazione e alla sepoltura, il mantenimento
di un’area di possibile espansione della cinta cimiteriale (Cons.
Stato, sez. VI, 09.03.2016, n. 949);
- il vincolo, d’indole conformativa, è sganciato dalle esigenze
immediate della pianificazione urbanistica, nel senso che
esso si impone di per sé, con efficacia diretta,
indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti
urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro
natura, ad incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti (Cons.
Stato, sez. IV, 22.11.2013, n. 5544);
- la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è
suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e
comunque solo per considerazioni di interesse pubblico, in
presenza delle condizioni specificate nell'art. 338, quinto
comma;
- l’art. 338, quinto comma, non presidia interessi privati e non
può legittimare interventi edilizi futuri su un'area
indisponibile per ragioni di ordine igienico-sanitario,
nonché per la sacralità dei luoghi di sepoltura;
- il procedimento attivabile dai singoli proprietari all’interno
della zona di rispetto è soltanto quello finalizzato agli
interventi di cui al settimo comma dell’art. 338, settimo
comma (recupero o cambio di destinazione d’uso di
edificazioni preesistenti); mentre resta attivabile nel solo
interesse pubblico, come valutato dal legislatore
nell’elencazione, al quinto comma, delle opere ammissibili
ai fini della riduzione, la procedura di riduzione della
fascia inedificabile (cfr. da ultimo Cons. Stato, sez. VI,
04.07.2014, n. 3410; sez. VI, 27.07.2015, n. 3667; ivi
riferimenti ulteriori).
4.– Su questa premessa ricostruttiva, la doglianza del
ricorrente, secondo cui il limite della percentuale di
ampliamento (prescritta dall’ultimo comma dell’art. 338 del
t.u.l.s.) dovrebbe essere riferita all’intero edifico e non
già alla singola unità abitativa, non può essere accolta,
sia pure con le seguenti precisazioni rispetto a quanto
affermato dal giudice di prime cure.
La disposizione invocata ricollega il limite percentuale
della facoltà di ampliamento all’edificio nel suo complesso.
Tuttavia, per evitare facili elusioni della suddetta
prescrizione –segnatamente: in caso di proprietà divisa, ove
fosse consentito a ciascun proprietario di realizzare sulla
singola unità abitativa l’incremento percentuale assoluto,
si otterrebbe il risultato o di ammettere, in relazione
all’edificio, complessivamente considerato, un ampliamento
eccedente la percentuale ammessa, ovvero di privare gli
altri proprietari di analoga facoltà– deve ritenersi che il
singolo condomino sia legittimato a chiedere l’ampliamento
volumetrico nei soli limiti percentuali calcolati in
relazione alle dimensioni della propria unità immobiliare.
Restano, tuttavia, salve le ipotesi (nessuna delle quali
ricorrenti nel caso in esame) in cui: l’istanza sia proposta
congiuntamente da tutti i proprietari, con progetto relativo
all’intero immobile; ovvero, il singolo condomino corredi la
propria istanza con un atto d’obbligo degli altri
comproprietari (si osserva che l’atto d’obbligo,
tradizionalmente qualificato in termini di servitù
obbligatoria, dovrebbe oggi integrare la fattispecie, ora
prevista dall’art. 2643, n. 2-bis, c.c., di contratto che
trasferisce o modifica i «diritti edificatori comunque
denominati, previsti da normative statali o regionali,
ovvero da strumenti di pianificazione territoriale») (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 15.10.2018 n. 5911 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il potere di sospensione dei lavori edili in
corso, attribuito all’autorità comunale dall’art. 27, comma
3, del d.P.R. n. 380/2001, è di tipo cautelare, in quanto
destinato ad evitare che la prosecuzione dei lavori
determini un aggravarsi del danno urbanistico, e alla
descritta natura interinale del potere segue che il
provvedimento emanato nel suo esercizio ha la caratteristica
della provvisorietà, fino all’adozione dei provvedimenti
definitivi.
Ne discende che, a seguito dello spirare del
termine di 45 giorni, ove l’amministrazione non abbia
emanato alcun provvedimento sanzionatorio definitivo,
l’ordine di sospensione dei lavori perde ogni efficacia,
mentre, nell’ipotesi di emissione del definitivo
provvedimento sanzionatorio, è in virtù di quest’ultimo che
viene a determinarsi la lesione della sfera giuridica del
destinatario, con conseguente assorbimento della disposta
misura sospensiva.
---------------
1. Con il gravame in trattazione, la ricorrente, che espone di
essere proprietaria di un fabbricato di due piani fuori
terra, oltre a piano seminterrato, ubicato in Striano alla
Via ... e concesso in locazione a fini produttivo-artigianali, impugna l’ordinanza dirigenziale del
Comune di Arzano n. 19 del 02.05.2017, con la quale le è
stata ingiunta, ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n.
380/2001, il ripristino della destinazione residenziale
originaria, come risultante dal certificato di agibilità
prot. n. 5495 del 16.06.2016.
In particolare, con la
predetta ordinanza le è stata contestata la realizzazione,
in assenza di permesso di costruire, di un cambio di
destinazione d’uso del piano terra e del piano seminterrato,
che avrebbero visto rispettivamente la trasformazione da
locale ad uso residenziale in locale ad uso produttivo-artigianale e da locale autorimessa (servente la
residenza) in locale deposito dell’attività artigianale;
inoltre, è stato posto a base dell’ordinanza, come motivo
ulteriore del dovere di ripristino, il contrasto della
trasformazione edilizia posta in essere con l’art. 4, comma
5, della legge regionale n. 19/2009 (cd. legge piano casa),
che così recita: “Per gli edifici e loro frazionamento, sui
quali sia stato realizzato l’ampliamento ai sensi della
presente legge, non può essere modificata la destinazione
d’uso se non siano decorsi almeno cinque anni dalla
comunicazione di ultimazione dei lavori.”.
La ricorrente aggiunge al riguardo di aver prodotto, in data
11.07.2016, CILA ai fini del cambio di destinazione
d’uso del piano terra in locale ad uso
produttivo-artigianale (seguito dalla relativa SCA del 28.07.2016) e che il suo inquilino, prima di avviare
l’attività artigianale, presentava regolarmente SCIA
commerciale in data 02.09.2016.
L’impugnativa ricomprende la comunicazione di avvio del
procedimento di ripristino e la disposizione dirigenziale
sospensiva dell’intervento di cambio di destinazione d’uso,
entrambi atti meglio in epigrafe individuati.
L’intimata amministrazione comunale conclude nella sua
memoria di costituzione per il rigetto del gravame.
Parte ricorrente insiste nelle sue ragioni con ulteriore
memoria difensiva.
L’istanza cautelare è stata respinta con ordinanza n. 1261
del 13.09.2017, poi riformata in appello dal
Consiglio di Stato con ordinanza n. 4600 del 20.10.2017, che ha ritenuto di accordare tutela cautelare sulla
scorta della seguente motivazione: “Considerato che, ad un
primo esame, l’impugnato ordine di ripristino non appare
un’implicita rimozione degli effetti favorevoli della CILA,
né per questi ultimi sarebbe potuta bastare la mera
sospensione disposta dal Comune (misura cautelare che scade
decorso inutilmente il termine di cui all’art. 19, c. 3,
della l. 241/1990: al più gg. 45 dalla sua emanazione, ai
sensi dell’art. 27, c. 3, del DPR 380/2001), quand’anche
detto Comune la volesse intendere a guisa di presupposto
della statuizione ripristinatoria; Considerato infatti che
l’art. 19, c. 6-bis, II per. della l. 241/1990 fa sì salvi i
poteri repressivi ex DPR 380/2001, ma nei limiti di cui ai
precedenti commi 3 e 4, onde occorre pur sempre l’esercizio
espresso dell’autotutela prima dell’emanazione d’ogni misura
repressiva o ripristinatoria; Considerato quindi che, allo
stato, va accolto l’appello cautelare.”.
La causa, infine, è stata trattenuta in decisione
all’udienza pubblica del 05.06.2018.
2. Il più approfondito esame dell’intera vicenda
contenziosa, proprio del merito, fa propendere il Collegio
per la complessiva infondatezza del ricorso, sebbene con
motivazioni alquanto diverse da quelle esposte in prima
battuta in sede cautelare.
3. In via preliminare, va chiarito che l’unico provvedimento
passibile di cognizione è l’ordinanza di ripristino n.
29/2017, dal momento che sui rimanenti atti gravati non può
intervenire alcuna pronuncia di merito, essendo le relative
impugnative inammissibili, irricevibili e/o improcedibili
per le ragioni che si andranno di seguito sinteticamente ad
esporre con riferimento ad ogni singola determinazione:
1)
comunicazione di avvio del procedimento prot. n. 739 del 27.01.2017: inammissibilità per carenza di interesse,
perché nella specie si tratta di mero atto endoprocedimentale destinato ad essere recepito nel
provvedimento ripristinatorio finale e, quindi, di atto
privo di autonoma lesività;
2) disposizione dirigenziale prot. n. 7315 del 22.08.2016, recante la sospensione
dell’intervento di cambio di destinazione d’uso: irricevibilità per tardività, essendo il presente ricorso
stato portato alla notifica (a mezzo ufficiale giudiziario)
il 20.06.2017, mentre la disposizione in parola è
entrata nella piena cognizione della ricorrente –come dalla
stessa ammesso e documentalmente provato in atti– almeno a
far data dall’08.09.2016, con conseguente sforamento
del termine perentorio di sessanta giorni per proporre
impugnativa.
Ad ogni modo, atteggiandosi tale provvedimento
come un sostanziale ordine di sospensione lavori,
l’impugnativa è anche improcedibile per sopravvenuta carenza
di interesse, essendo decorso il termine di efficacia di 45
giorni previsto dall’art. 27, comma 3, del d.P.R. n.
380/2001.
Invero, il potere di sospensione dei lavori edili
in corso, attribuito all’autorità comunale dalla suddetta
disposizione normativa, è di tipo cautelare, in quanto
destinato ad evitare che la prosecuzione dei lavori
determini un aggravarsi del danno urbanistico, e alla
descritta natura interinale del potere segue che il
provvedimento emanato nel suo esercizio ha la caratteristica
della provvisorietà, fino all’adozione dei provvedimenti
definitivi.
Ne discende che, a seguito dello spirare del
termine di 45 giorni, ove l’amministrazione non abbia
emanato alcun provvedimento sanzionatorio definitivo,
l’ordine di sospensione dei lavori perde ogni efficacia,
mentre, nell’ipotesi di emissione del definitivo
provvedimento sanzionatorio, è in virtù di quest’ultimo che
viene a determinarsi la lesione della sfera giuridica del
destinatario, con conseguente assorbimento della disposta
misura sospensiva (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 22.06.2016 n. 2758; TAR Lazio Roma, Sez. II,
04.04.2017
n. 4225; TAR Sicilia Catania, Sez. I, 24.01.2017 n.
173; TAR Campania Napoli, Sez. VIII, 05.05.2016 n. 2282) (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 15.10.2018 n. 5964 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il cambio di destinazione d’uso posto in essere,
con passaggio dalla categoria residenziale a quella
produttiva, è giuridicamente rilevante e non può essere
eseguito liberamente ma necessita del rilascio del permesso di
costruire.
Al riguardo, l’art. 23-ter, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001, alla cui stregua deve essere letto anche
il successivo art. 32, comma 1, lett. a), in tema di
variazioni essenziali al permesso di costruire, così
dispone: “Salva diversa previsione da parte delle leggi
regionali, costituisce mutamento rilevante della
destinazione d’uso ogni forma di utilizzo dell’immobile o
della singola unità immobiliare diversa da quella
originaria, ancorché non accompagnata dall’esecuzione di
opere edilizie, purché tale da comportare l’assegnazione
dell’immobile o dell’unità immobiliare considerati ad una
diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a)
residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e
direzionale; c) commerciale; d) rurale.”.
Ne discende, ai sensi della disposizione in commento, che il
mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante,
assentibile solo mediante permesso di costruire sia in
presenza che in assenza di opere edilizie, è quello tra
categorie funzionalmente autonome dal punto di vista
urbanistico ed influisce, in via conseguenziale e
automatica, sul carico urbanistico senza necessità di
ulteriori accertamenti in concreto, poiché la
semplificazione delle attività voluta dal legislatore non si
è spinta fino al punto di rendere tra loro omogenee tutte le
categorie funzionali, le quali rimangono consustanzialmente
non assimilabili anche in caso di mancato incremento degli
standard urbanistici, a conferma della scelta già operata
con il decreto ministeriale n. 1444/1968.
Pertanto, la
trasformazione, avvenuta nella specie, di unità immobiliari
da locali residenziali a locali ad uso produttivo-artigianale,
configurando un passaggio tra categorie funzionali autonome,
costituisce per espressa qualificazione di legge un
mutamento giuridicamente rilevante della destinazione d’uso.
---------------
In definitiva, perché si abbia mutamento rilevante della
destinazione d’uso basta appurare il solo passaggio di
categoria funzionale, essendo ultroneo (e non richiesto)
ogni accertamento sul maggior peso urbanistico determinato
dalla trasformazione edilizia posta in essere.
---------------
L’acquisizione gratuita al patrimonio comunale consegue
automaticamente ad ogni ipotesi di inottemperanza all’ordine
di demolizione/ripristino, non prevedendo l’art. 31 del
d.P.R. n. 380/2001 eccezioni all’operatività di tale
istituto connesse al mancato incremento degli standard
urbanistici a seguito di cambio di destinazione d’uso.
---------------
4. Perimetrato l’ambito del giudizio al su indicato
provvedimento di ripristino, si può dare corso allo
scrutinio di un primo gruppo di censure articolate avverso
quest’ultimo, le quali sono così riassumibili:
a) l’effettuato cambio di destinazione d’uso era
“liberamente eseguibile” e non assoggettabile a permesso di
costruire, in virtù del combinato disposto degli artt.
23-ter e 32, comma 1, lett. a), del d.P.R. n. 380/2001, non
avendo giuridica rilevanza per mancato apporto di aggravio
urbanistico in termini di ulteriori standard. L’inesistenza
del maggior peso urbanistico è comprovata dai seguenti
indici:
i) “prima di avere una destinazione residenziale, la
porzione di immobile della sig.ra Storno aveva già una
destinazione produttiva, sicché l’odierna ricorrente non ha
fatto altro che ripristinare l’originaria destinazione d’uso
produttiva impressa ad una parte dell’immobile fin dalla sua
costruzione”;
ii) “proprio la destinazione d’uso produttiva
dell’immobile era stata presa in considerazione dal Comune
al momento dell’adozione del P.R.G., sicché lo strumento
urbanistico già tiene conto dell’impatto della destinazione
produttiva (originaria) dell’immobile della sig.ra Storno ed
ha previsto degli standard urbanistici adeguati e correlati
direttamente all’utilizzo produttivo dell’immobile”;
iii)
“il mutamento di destinazione d’uso concerne una porzione di
un edificio che è inserito in un contesto già ampiamente
urbanizzato (strade, illuminazione) e dotato altresì di
allacci idrici e fognari”;
b) il cambio di destinazione d’uso in questione “oltre a non
avere alcun impatto urbanistico, è anche funzionale
all’esercizio di un’attività artigianale, sicché non può
omettersi di rilevare che ai sensi dell’art. 6, comma 2,
lett. e-bis), del D.P.R. n. 380/2001 rientrano tra
l’attività di edilizia libera anche “le modifiche interne di
carattere edilizio sulla superficie coperta dei fabbricati
adibiti ad esercizio d’impresa, sempre che non riguardino le
parti strutturali, ovvero le modifiche della destinazione
d’uso dei locali adibiti ad esercizio d’impresa””;
c) la legittimità del cambio di destinazione d’uso era
comunque asseverata dalla CILA dell’11.07.2016 e dalla
SCIA commerciale del 02.09.2016, con la conseguenza
che l’amministrazione non avrebbe potuto adottare l’ordine
di ripristino senza prima annullare in autotutela i suddetti
titoli abilitativi;
d) l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale
prospettata nell’ordinanza di ripristino in caso di
inottemperanza non può trovare applicazione a casi, come
quello di specie, in cui il cambio di destinazione d’uso da
residenziale a produttivo non comporti incremento degli
standard urbanistici.
Tutte le prefate censure non meritano condivisione per le
ragioni di seguito esplicitate.
5. Il cambio di destinazione d’uso posto in essere dalla
ricorrente, con passaggio dalla categoria residenziale a
quella produttiva, era giuridicamente rilevante e non poteva
essere eseguito liberamente, anche previa CILA come nello
specifico, ma necessitava del rilascio del permesso di
costruire.
Al riguardo, l’art. 23-ter, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001
(introdotto dal decreto legge n. 133/2014, convertito nella
legge n. 164/2014), alla cui stregua deve essere letto anche
il successivo art. 32, comma 1, lett. a), in tema di
variazioni essenziali al permesso di costruire, così
dispone: “Salva diversa previsione da parte delle leggi
regionali, costituisce mutamento rilevante della
destinazione d’uso ogni forma di utilizzo dell’immobile o
della singola unità immobiliare diversa da quella
originaria, ancorché non accompagnata dall’esecuzione di
opere edilizie, purché tale da comportare l’assegnazione
dell’immobile o dell’unità immobiliare considerati ad una
diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a)
residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e
direzionale; c) commerciale; d) rurale.”.
Ne discende, ai sensi della disposizione in commento, che il
mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante,
assentibile solo mediante permesso di costruire sia in
presenza che in assenza di opere edilizie, è quello tra
categorie funzionalmente autonome dal punto di vista
urbanistico ed influisce, in via conseguenziale e
automatica, sul carico urbanistico senza necessità di
ulteriori accertamenti in concreto, poiché la
semplificazione delle attività voluta dal legislatore non si
è spinta fino al punto di rendere tra loro omogenee tutte le
categorie funzionali, le quali rimangono consustanzialmente
non assimilabili anche in caso di mancato incremento degli
standard urbanistici, a conferma della scelta già operata
con il decreto ministeriale n. 1444/1968.
Pertanto, la
trasformazione, avvenuta nella specie, di unità immobiliari
da locali residenziali a locali ad uso produttivo-artigianale, configurando un passaggio tra
categorie funzionali autonome, costituisce per espressa
qualificazione di legge un mutamento giuridicamente
rilevante della destinazione d’uso (cfr. Cass. Pen., Sez.
III, 22.09.2017 n. 5770; Consiglio di Stato, Sez. VI,
13.05.2016 n. 1951; Consiglio di Stato, Sez. IV, 26.02.2015 n. 974; Cass. Pen., Sez. III,
03.12.2015
n. 12904; TAR Campania Napoli, Sez. III, 05.09.2017 n.
4249; TAR Lombardia Milano, Sez. II, 17.02.2016 n.
344).
5.1 Né può ritenersi, come sostiene parte ricorrente
richiamando un orientamento giurisprudenziale ormai
minoritario (cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sez. V, 03.05.2016 n. 1684), che per aversi mutamento di
destinazione d’uso giuridicamente rilevante occorrerebbe
appurare, in aggiunta al passaggio tra categorie funzionali
diverse, l’effettivo aggravio urbanistico incidente sul
tessuto edilizio in termini di incremento degli standard
urbanistici (nella specie, parte ricorrente rimarca per
l’appunto l’inesistenza di tale maggior peso urbanistico).
Tale tesi merita di essere disattesa perché contrastante sia
con la lettera sia con la ratio dell’art. 23-ter del d.P.R.
n. 380/2001.
Infatti, nell’enunciato della disposizione in parola non si
rinviene alcun riferimento all’accertamento in concreto
dell’aggravio urbanistico, ma semplicemente si ricollega il
concetto di rilevanza del mutamento di destinazione d’uso ad
una diversa assegnazione della categoria funzionale di
appartenenza, la quale di per sé impatterebbe sul carico
urbanistico, inteso come rapporto di proporzione
quali-quantitativa tra insediamenti e standard per servizi
di una determinata zona territoriale.
Inoltre, inserendosi l’intervento di trasformazione
funzionale nell’ambito di un preesistente piano urbanistico,
è evidente, in considerazione della differenziazione
infrastrutturale tra le singole zone, che la ratio
perseguita dalla norma riposa sulla salvaguardia del
corretto ed ordinato assetto del territorio piuttosto che
sul mero contrasto di eventuali aggravi urbanistici, avendo
la finalità di mantenere inalterato il carico urbanistico di
ogni zona e di impedire lo stravolgimento degli equilibri
prefigurati dalla strumentazione urbanistica mediante
appositi standard (cfr. Cass. Pen., Sez. III, n. 5770/2017
cit.).
In definitiva, perché si abbia mutamento rilevante della
destinazione d’uso basta appurare il solo passaggio di
categoria funzionale, essendo ultroneo (e non richiesto)
ogni accertamento sul maggior peso urbanistico determinato
dalla trasformazione edilizia posta in essere.
...
8. Infine, l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale
consegue automaticamente ad ogni ipotesi di inottemperanza
all’ordine di demolizione/ripristino, non prevedendo l’art.
31 del d.P.R. n. 380/2001 eccezioni all’operatività di tale
istituto connesse al mancato incremento degli standard
urbanistici a seguito di cambio di destinazione d’uso (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 15.10.2018 n. 5964 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La CILA, a differenza della
SCIA, si configura come un mero atto di comunicazione privo
di effetti abilitativi propri, che viceversa derivano
direttamente dalla legge in forza della libera eseguibilità
di determinate attività edilizie.
Ne costituisce conferma il
fatto che l’atto con cui l’amministrazione comunale respinge
(archiviando o dichiarando irricevibile/improponibile) una
CILA presentata per l’effettuazione di alcuni lavori non ha
valore provvedimentale, bensì di semplice avviso, privo di
esecutorietà, circa la (non) regolarità delle opere oggetto
di comunicazione, vertendosi appunto in ambito di attività
di edilizia libera e non essendo, peraltro, legislativamente
previsto che il comune debba riscontrare le comunicazioni di
attività di tal fatta con provvedimenti di assenso o di
diniego.
Resta, beninteso, fermo l’esercizio del potere sanzionatorio
nel caso in cui l’attività libera non coincida con
l’attività ammessa, come avvenuto nella specie.
---------------
7. Nemmeno l’amministrazione era tenuta ad esercitare
preventivamente i poteri di autotutela per rimuovere gli
effetti della CILA e della SCIA commerciale, e ciò per le
seguenti dirimenti ragioni:
i) la CILA, a differenza della
SCIA, si configura come un mero atto di comunicazione privo
di effetti abilitativi propri, che viceversa derivano
direttamente dalla legge in forza della libera eseguibilità
di determinate attività edilizie. Ne costituisce conferma il
fatto che l’atto con cui l’amministrazione comunale respinge
(archiviando o dichiarando irricevibile/improponibile) una
CILA presentata per l’effettuazione di alcuni lavori non ha
valore provvedimentale, bensì di semplice avviso, privo di
esecutorietà, circa la (non) regolarità delle opere oggetto
di comunicazione, vertendosi appunto in ambito di attività
di edilizia libera e non essendo, peraltro, legislativamente
previsto che il comune debba riscontrare le comunicazioni di
attività di tal fatta con provvedimenti di assenso o di
diniego. Resta, beninteso, fermo l’esercizio del potere sanzionatorio nel caso in cui l’attività libera non coincida
con l’attività ammessa, come avvenuto nella specie (cfr. TAR
Campania Napoli, Sez. II, 17.09.2018 n. 5516; TAR
Veneto, Sez. II, 15.04.2015 n. 415);
ii) gli effetti
della SCIA commerciale, presentata dall’inquilino della
ricorrente, erano stati già inibiti con provvedimento
comunale del 27.01.2017 (cfr. documentazione allegata alla
memoria di costituzione dell’amministrazione), ben prima
dell’emanazione dell’ordinanza di ripristino (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 15.10.2018 n. 5964 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Decorrenza del termine per impugnare l’esclusione dalla gara.
---------------
Processo amministrativo – Rito appalti – Esclusioni –
Dies a quo – Dalla piena conoscenza – Quando si verifica –
Individuazione.
L’art. 120, comma 2-bis, c.p.a. non
implica l’assoluta inapplicabilità del generale principio
sancito dagli artt. 41, comma 2 e 120, comma 5, ultima
parte, c.p.a., per cui, in difetto della formale
comunicazione dell’atto o in mancanza di pubblicazione di un
autonomo atto di esclusione sulla piattaforma telematica
della stazione appaltante il termine decorre, comunque, dal
momento dell’intervenuta piena conoscenza del provvedimento
da impugnare, conoscenza che per i provvedimenti di
esclusione è insita nella percezione della sua adozione da
parte dell’impresa esclusa, tanto più se acquisita
congiuntamente a quella delle relative ragioni determinanti
(1).
---------------
(1)
Sebbene il comma 2-bis dell’art. 120 c.p.a., inserito
dall’art. 204, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 50 del 2016,
nella disciplina del c.d. rito super-speciale previsto per
l’impugnazione degli atti di esclusione e di ammissione
(d)alle procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi
e forniture, faccia riferimento, ai fini della decorrenza
dell’ivi previsto termine d’impugnazione di trenta giorni,
esclusivamente alla pubblicazione del provvedimento di
ammissione o esclusione sul profilo telematico della
stazione appaltante ai sensi dell’art. 29, comma 1, d.lgs.
n. 50 del 2016, ciò non implica l’inapplicabilità del
generale principio sancito dall’art. 41, comma 2, c.p.a. e
riaffermato nel comma 5, ultima parte, dell’art. 120 c.p.a.,
per cui, in difetto della formale comunicazione dell’atto
-o, per quanto qui interessa, in difetto di pubblicazione
dell’atto di ammissione sulla piattaforma telematica della
stazione appaltante-, il termine decorre dal momento
dell’avvenuta conoscenza dell’atto stesso, purché siano
percepibili i profili che ne rendano evidente la lesività
per la sfera giuridica dell’interessato in rapporto al tipo
di rimedio apprestato dall’ordinamento processuale.
In altri termini, in difetto di un’espressa e univoca
correlativa espressa previsione legislativa a valenza
derogatoria e in assenza di un rapporto di incompatibilità,
deve escludersi che il comma 2-bis dell’art. 120 c.p.a.
abbia apportato una deroga all’art. 41, comma 2, c.p.a. e al
principio generale della decorrenza del termine di
impugnazione dalla conoscenza completa dell’atto.
La piena conoscenza dell’atto di ammissione della
controinteressata, acquisita prima o in assenza della sua
pubblicazione sul profilo telematico della stazione
appaltante, può dunque provenire da qualsiasi fonte e
determina la decorrenza del termine decadenziale per la
proposizione del ricorso
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 15.10.2018 n. 1297 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
Rilevato, a tal riguardo, che:
- Il cd. rito super accelerato di cui all’art. 120, comma 2-bis, cod. proc. amm. -secondo la più recente giurisprudenza
amministrativa- non comporta l’inapplicabilità del generale
principio sancito dall’art. 41, comma 2, cod. proc. amm.
secondo cui il termine per l’impugnazione dei provvedimenti
amministrativi decorre in ogni caso dal momento
dell’avvenuta conoscenza degli stessi, purché siano
immediatamente percepibili i profili che ne rendano evidente
la lesività per la sfera giuridica dell’interessato.
Infatti, sul punto specifico Cons. Stato, Sez. VI,
13.12.2017, n. 5870 ha rimarcato: «… Sebbene il comma
2-bis dell’art. 120 cod. proc. amm., inserito dall’art. 204,
comma 1, lett. b), d.lgs. n. 50/2016 (a decorrere dal 19.04.2016, ai sensi di quanto disposto dall’art. 220 d.lgs. n. 50/2016),
nella disciplina del c.d. rito
super-speciale previsto per l’impugnazione degli atti di
esclusione e di ammissione (d)alle procedure di affidamento
di pubblici lavori, servizi e forniture, faccia riferimento,
ai fini della decorrenza dell’ivi previsto termine
d’impugnazione di trenta giorni, esclusivamente alla
pubblicazione del provvedimento di ammissione o esclusione
sul profilo telematico della stazione appaltante ai sensi
dell’art. 29, comma 1, d.lgs. n. 50/2016, ritiene il
Collegio che ciò non implichi l’inapplicabilità del generale
principio sancito dall’art. 41, comma 2, cod. proc. amm. e
riaffermato nel comma 5, ultima parte, dell’art. 120 cod.
proc. amm., per cui, in difetto della formale comunicazione
dell’atto -o, per quanto qui interessa, in difetto di
pubblicazione dell’atto di ammissione sulla piattaforma
telematica della stazione appaltante-, il termine decorre
dal momento dell’avvenuta conoscenza dell’atto stesso,
purché siano percepibili i profili che ne rendano evidente
la lesività per la sfera giuridica dell’interessato in
rapporto al tipo di rimedio apprestato dall’ordinamento
processuale.
In altri termini, in difetto di un’espressa e
univoca correlativa espressa previsione legislativa a
valenza derogatoria e in assenza di un rapporto di
incompatibilità, deve escludersi che il comma 2-bis
dell’art. 120 cod. proc. amm. abbia apportato una deroga
all’art. 41, comma 2, cod. proc. amm. e al principio
generale della decorrenza del termine di impugnazione dalla
conoscenza completa dell’atto. La piena conoscenza dell’atto
di ammissione della controinteressata, acquisita prima o in
assenza della sua pubblicazione sul profilo telematico della
stazione appaltante, può dunque provenire da qualsiasi fonte
e determina la decorrenza del termine decadenziale per la
proposizione del ricorso. …».
- La regola in esame è stata recentemente riaffermata dal
Consiglio di Stato (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 17.09.2018,
n. 5434) proprio con riferimento ad una vicenda
sovrapponibile a quella per cui è causa, ove il ricorso era
stata proposto, come nel caso di specie, per l’impugnazione
di un provvedimento che si limitava a recepire e confermare
l’esclusione da una procedura di gara (rectius declaratoria
della “non accettabilità” dell’offerta) in realtà già
disposta dalla Commissione nell’ambito di seduta pubblica
ove era presente un rappresentante dell’impresa, il quale
era dunque pienamente a conoscenza delle ragioni poste a
fondamento del provvedimento di esclusione.
La fattispecie è stata decisa dal Consiglio di Stato con la
seguente motivazione: «… Rilevato infatti che alla seduta
della commissione del 30.03.2018, alla quale era presente un
rappresentante dell’impresa appellante, è stata data lettura
integrale dei precedenti verbali, compreso di quello del
15.02.2018, recante la motivata declaratoria della “non
accettabilità” delle offerte della medesima appellante, che
la stazione appaltante, con l’impugnata determina n. 584 del
26.04.2018, si è limitata a recepire e confermare;
Rilevato infatti che, come recentemente evidenziato da
questo giudice (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 4180
del 09.07.2018), “la disposizione in parola (art. 120,
comma 2-bis, cod. proc. amm.: n.d.e.) non implica l’assoluta
inapplicabilità del generale principio sancito dagli artt.
41, comma 2 e 120, comma 5, ultima parte, del cod. proc.
amm., per cui, in difetto della formale comunicazione
dell’atto -o, per quanto qui interessa, in mancanza di
pubblicazione di un autonomo atto di ammissione sulla
piattaforma telematica della stazione appaltante- il
termine decorre, comunque, dal momento dell’intervenuta
piena conoscenza del provvedimento da impugnare, ma ciò a
patto che l’interessato sia in grado di percepire i profili
che ne rendano evidente la lesività per la propria sfera
giuridica in rapporto al tipo di rimedio apprestato
dall’ordinamento processuale. In altri termini, “la piena
conoscenza dell’atto di ammissione della controinteressata,
acquisita prima o in assenza della sua pubblicazione sul
profilo telematico della stazione appaltante, può dunque
provenire da qualsiasi fonte e determina la decorrenza del
termine decadenziale per la proposizione del ricorso” (Cons.
St. 5870 del 2017)”;
Evidenziato che, laddove si tratti -come nella specie-
della impugnazione di un provvedimento di esclusione, la
conoscenza dei relativi profili lesivi deve ritenersi insita
nella percezione della sua adozione da parte dell’impresa
esclusa, tanto più se acquisita congiuntamente a quella
delle relative ragioni determinanti;
Evidenziato conseguentemente che il ricorso introduttivo del
giudizio di primo grado, proposto dalla parte ricorrente
solo in data 25.05.2018, non può che essere considerato
tardivo, nella parte in cui si rivolge avverso il
provvedimento di esclusione, di fatto adottato dalla
commissione di gara in occasione della seduta del 15.02.2018
e portato a conoscenza dell’impresa appellante (per il
tramite del suo rappresentante) alla seduta del 30.03.2018 …».
È pur vero che questo Collegio con sentenza n. 340 del
05.04.2017 (citata nella memoria di parte ricorrente del
05.10.2018) ha evidenziato, con riferimento ad una
fattispecie in cui veniva in contestazione la differente
ipotesi della omessa tempestiva impugnazione di una
ammissione, che: «… Per tutto quanto rilevato, il
Collegio ritiene che, nel caso di specie, essendo mancata la
pubblicazione sul profilo del committente, soltanto dalla
data di invio della pec decorra il termine dei trenta giorni
previsto per l’impugnativa dell’unico provvedimento che ha
reso noto l’elenco delle ditte ammesse e di quella risultata
aggiudicataria.
In tal senso depone quanto da ultimo
ribadito dal Consiglio di Stato (sez. Cons. Sato, sez. III,
sent. 4994 del 25.11.2016, richiamata anche dal ricorrente e
riferita all’applicazione dell’art. 120, comma 6-bis, c.p.a,
introdotto dall’art. 204 D.Lgs. n. 50 del 2016, seppure con
riferimento al diverso profilo del regime temporale di
applicazione delle nuove regole processuali) ai sensi del
quale “in difetto del (contestuale) funzionamento delle
regole che assicurano la pubblicità e la comunicazione dei
provvedimenti di cui si introduce l’onere di immediata
impugnazione -che devono, perciò, intendersi legate da un
vincolo funzionale inscindibile- la relativa prescrizione
processuale si rivela del tutto inattuabile, per la mancanza
del presupposto logico della sua operatività e, cioè, la
predisposizione di un apparato regolativo che garantisca la
tempestiva informazione degli interessati circa il contenuto
del provvedimento da gravare nel ristretto termine di
decadenza ivi stabilito” e che i dubbi circa l’applicazione
delle nuove regole processuali debbono “essere risolti
preferendo l’opzione ermeneutica meno sfavorevole per
l’esercizio del diritto di difesa (e, quindi, maggiormente
conforme ai principi costituzionali espressi dagli artt. 24 e
113)”.
Tale orientamento, del resto, risulta conforme ai
principi più volte ribaditi in ambito comunitario (il
riferimento è alle più recenti sentenze della Corte di
Giustizia 26.11.2015, C-166/14 e 08.05.2014,
C-161/13 che evidenziano la violazione del principio di
effettività laddove la normativa nazionale obbliga alla
proposizione di determinati ricorsi senza consentire una
previa completa conoscenza degli atti). …».
Tuttavia, la fattispecie in esame -come si illustrerà di
qui a breve- si caratterizza per una immediata e piena
cognizione, da parte della impresa interessata, delle
ragioni della esclusione fin dalla data del 09.03.2018 quando
il delegato della Na. era presente nel corso della
seduta pubblica in cui si decideva l’esclusione della stessa
ditta.
Inoltre, quelle stesse ragioni di esclusione
confluiscono nel successivo provvedimento del 27.04.2018 ed
attorno ad esse (in particolare la carenza, in capo alla
società istante, del requisito di capacità tecnico-professionale di cui al punto III.1.3 del bando ed al par.
2.2.3 del disciplinare di gara) ruota l’intero impianto del
ricorso introduttivo notificato solo in data 28.05.2018.
Ne consegue che se il dies a quo di cui al combinato
disposto degli artt. 120, comma 2-bis cod. proc. amm. e 29,
comma 1, dlgs n. 50/2016 come novellato sul punto dal dlgs 19.04.2017, n. 56 (“Il termine per l’impugnativa di cui al
citato articolo 120, comma 2-bis, decorre dal momento in cui
gli atti di cui al secondo periodo sono resi in concreto
disponibili, corredati di motivazione”) ha una ratio garantista nel senso di affermare l’impugnabilità del
provvedimento sin dal momento in cui si può avere piena
conoscenza dei relativi vizi, nel caso di specie non è
possibile mettere in discussione che sin dalla data del
09.03.2018 il delegato dell’impresa e quindi l’impresa stessa
avessero piena consapevolezza dei vizi della esclusione
medesima.
Pertanto, non vi è giustificazione alcuna nella fattispecie
de qua per derogare ai principi generali sanciti dall’art.
41, comma 2, cod. proc. amm., se non a patto di consentire
alla impresa ricorrente una ingiustificata remissione in
termini rispetto al termine decadenziale per impugnare, a
fronte di un comportamento indubbiamente negligente della
stessa ditta e quindi non meritevole di tutela sul piano
giuridico.
Peraltro, sul punto specifico dell’onere di immediata
impugnazione del provvedimento di esclusione si può ritenere
che l’art. 120, comma 2-bis, primo periodo cod. proc. amm.
non abbia portata innovativa rispetto al precedente quadro
normativo, come interpretato dalla giurisprudenza
amministrativa dell’epoca, diversamente da quanto affermato
da questo Collegio con le ordinanze n. 903 del 20.06.2018 e
n. 1097 del 20.07.2018 con riferimento al “provvedimento di
ammissione”.
Infatti, in precedenza (i.e. in epoca antecedente
all’entrata in vigore del dlgs n. 50/2016 che ha introdotto
la previsione di cui al comma 2-bis, primo periodo dell’art.
120 cod. proc. amm.), la necessità della immediata
impugnazione di un atto endoprocedimentale era stata
affermata dal Consiglio di Stato con riguardo al
provvedimento di esclusione adottato dalla Commissione nel
corso di una seduta alla quale avesse partecipato un
rappresentante della concorrente esclusa (cfr. Cons. Stato,
Sez. V, 23.02.2015, n. 856: “… Il termine decadenziale per
impugnare gli atti delle procedure di affidamento di appalti
pubblici, ed in particolare l’aggiudicazione definitiva in
favore di terzi, decorre dalla conoscenza di quest’ultima
comunque acquisita dall’impresa partecipante alla gara (da
ultimo: Sez. IV, 20.01.2015, n. 143 e Sez. III, 07.01.2015, n. 25; in precedenza: Ad. plen. 31.07.2012, n. 31). A questo principio di diritto, ripetutamente
affermato dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, fa
unica eccezione il caso in cui sia impugnato il
provvedimento di esclusione dalla gara adottato dalla
commissione nel corso della stessa ed in una seduta alla
quale abbia partecipato un rappresentante della concorrente
esclusa. Trattandosi infatti di determinazione
immediatamente lesiva, malgrado il suo carattere endoprocedimentale, la giurisprudenza fissa la decorrenza
del termine decadenziale ex art. 29 cod. proc. amm. in tale
momento (in questi termini: Sez. III, 22.08.2012, n.
4593; Sez. IV, 17.02.2014, n. 740; Sez. V, 22.12.2014, n. 6264, 14.05.2013, n. 2614; Sez. VI, 13.12.2011, n. 6531). …”).
Quindi, la regola applicabile nel caso concreto all’esame di
questo Giudice non costituisce reale deviazione rispetto
alla giurisprudenza, in precedenza formatasi, del Consiglio
di Stato (Cons. Stato, Sez. III, sent. 4994 del 25.11.2016)
e di questo TAR (sent. n. 340/2017) in ordine alla
generale affermazione della operatività del dies a quo
ex
art. 120, comma 2-bis, cod. proc. amm. unicamente se è attivo
il meccanismo di pubblicazione (dell’elenco di ammessi ed
esclusi) sul sito internet della stazione appaltante.
Invero, la giurisprudenza amministrativa menzionata (Cons.
Stato, Sez. III, 25.11.2016, n. 4994 e TAR Puglia, Bari, Sez. III,
05.04.2017, n. 340) è comunque temporalmente
antecedente rispetto al correttivo al codice dei contratti
pubblici di cui al decreto legislativo n. 57 del 19.04.2017 in forza del quale (cfr. novellato art. 29, comma 1, dlgs n. 50/2016) il
dies a quo per impugnare il
provvedimento di ammissione/esclusione ai sensi dell’art.
120, comma 2-bis, cod. proc. amm. non è più dato puramente e
semplicemente dalla pubblicazione sul profilo internet del
committente dei suddetti provvedimenti, bensì è costituito
dal momento (posticipato rispetto al primo) in cui gli atti
di cui al secondo periodo del citato art. 29, comma 1 (i.e.
documentazione attestante l’assenza dei motivi di esclusione
di cui all’art. 80 dlgs n. 50/2016, nonché la sussistenza
dei requisiti economico-finanziari e tecnico-professionali)
sono resi in concreto disponibili, corredati di motivazione.
È quindi evidente -come rilevato in precedenza- che la
ratio garantista della nuova formulazione del citato art.
29, comma 1, dlgs n. 50/2016 (rectius dies a quo per impugnare
decorrente dalla piena conoscenza o conoscibilità dei vizi
dell’atto) si rinviene parimenti nella affermazione della
permanente validità del tradizionale orientamento che onera
l’impresa concorrente dall’impugnare immediatamente il
verbale di esclusione se reso nel corso di una seduta
pubblica ove era presente il delegato di detta impresa, come
appunto accaduto nella vicenda per cui è causa.
- Dunque, i suesposti principi possono -come anticipato-
trovare applicazione nel caso di specie. |
EDILIZIA PRIVATA:
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Reati urbanistici - Opere
edilizie in assenza o in totale difformità dal permesso di
costruire - Responsabilità del progettista e del direttore
dei lavori - Individuazione del dies a quo per la
decorrenza della prescrizione - Giurisprudenza - Art. 44,
d.P.R. n. 380/2001 - Fattispecie: piano seminterrato
palesemente non era ancora ultimato.
In tema di reati edilizi, la valutazione
dell'opera ai fini della individuazione del dies a quo per
la decorrenza della prescrizione deve riguardare la stessa
nella sua unitarietà, senza che sia consentito considerare
separatamente i suoi singoli componenti
(Sez. 3, n. 30147 del 19/04/2017, Tomasulo).
Inoltre, ai fini del decorso del termine di
prescrizione del reato, di cui all'art. 44, primo comma,
lett. b), d.P.R. 380/2001, l'uso effettivo dell'immobile,
accompagnato dall'attivazione delle utenze e dalla presenza
di persone al suo interno, non è sufficiente al fine di
ritenere "ultimato" l'immobile abusivamente realizzato,
coincidendo l'ultimazione con la conclusione dei lavori di
rifinitura interni ed esterni, quali gli intonaci e gli
infissi (Sez. 3,
n. 39733 del 18/10/2011, Ventura; Sez. 3, n. 48002 del
17/09/2014, Surano, che ha specificato essere onere del
ricorrente che voglia retrodatare la consumazione del reato
dimostrare di avere non solo sospeso l'attività edilizia, ma
anche di aver inteso lasciare volutamente l'opera abusiva
nello stato in cui è stata rinvenuta). L'ultimazione dei
lavori, coincidente con la realizzazione delle rifiniture,
deve riferirsi anche per le parti che costituiscono annessi
dell'abitazione, come i locali destinati a magazzino e
garage (Sez. 3, n. 8172 del 27/01/2010, Vitali).
Del resto, nel caso di specie, le
difformità dal permesso di costruire rilasciato concernevano
non tanto il piano abitativo dell'edificio -in effetti già
occupato- quanto il sottostante piano seminterrato, vale a
dire proprio quello che, secondo la non contestata
ricostruzione della sentenza impugnata, palesemente non era
ancora ultimato al momento del sopralluogo (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 12.10.2018 n. 46215 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Gli atti vincolati (ndr:
di demolizione) devono intendersi congruamente motivati con
la mera giustificazione del potere esercitato, mediante la
sola indicazione dei presupposti normativi e fattuali.
---------------
Più in generale, va detto che i provvedimenti di repressione
degli abusi edilizi sono atti dovuti con carattere
essenzialmente vincolato e privi di margini discrezionali,
per cui è da escludere la necessità di una specifica
valutazione delle ragioni di interesse pubblico concreto ed
attuale o di una comparazione di quest’ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati.
Ne discende che essi sono sufficientemente motivati con
riguardo all’oggettivo riscontro dell’abusività delle opere
ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime dei
titoli abilitativi edilizi e del corrispondente trattamento
sanzionatorio, non rivelandosi necessario alcun ulteriore
obbligo motivazionale.
---------------
4. La disposizione impugnata indica in motivazione, in
maniera sufficientemente chiara e precisa, sia la normativa
urbanistico-edilizia ritenuta violata (disciplina
urbanistica comunale), sia la tipologia dell’illecito
commesso (costruzione di sottotetto ad uso abitativo non
assoggettabile a sanatoria); ne consegue che, trattandosi
nella specie di attività vincolata tesa alla repressione di
illeciti, il corredo motivazionale appare sicuramente
adeguato nonché conforme al consolidato principio secondo il
quale gli atti vincolati devono intendersi congruamente
motivati con la mera giustificazione del potere esercitato,
mediante la sola indicazione dei presupposti normativi e
fattuali (cfr. TAR Lazio Roma, Sez. II-bis, 23.04.2008 n.
3498).
4.1 Più in generale, va detto che i provvedimenti di
repressione degli abusi edilizi sono atti dovuti con
carattere essenzialmente vincolato e privi di margini
discrezionali, per cui è da escludere la necessità di una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico
concreto ed attuale o di una comparazione di quest’ultimo
con gli interessi privati coinvolti e sacrificati; ne
discende che essi sono sufficientemente motivati con
riguardo all’oggettivo riscontro dell’abusività delle opere
ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime dei
titoli abilitativi edilizi e del corrispondente trattamento
sanzionatorio, non rivelandosi necessario alcun ulteriore
obbligo motivazionale (cfr. Consiglio di Stato, A.P.,
17.10.2017 n. 9; Consiglio di Stato, Sez. VI, 27.03.2017 n.
1386 e 28.02.2017 n. 908; Consiglio di Stato, Sez. IV,
12.10.2016 n. 4205 e 31.08.2016 n. 3750).
5. Né è rinvenibile il denunciato difetto di istruttoria,
soffermandosi diffusamente il provvedimento impugnato sulle
concrete ragioni che non rendevano praticabile la sanabilità
del sottotetto (TAR Campania-Napoli, Sez.
II,
sentenza 12.10.2018 n. 5900 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Vale osservare come anche
il permesso di costruire in sanatoria (emesso a seguito di
istanza di accertamento di conformità) abbia carattere
vincolato, dal momento che, ai sensi dell’art. 36 d.P.R. n. 380/2001, esso
può essere rilasciato solo laddove sia constatata la
conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica ed
edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello
stesso, sia al momento della presentazione della domanda
(cd. requisito della doppia conformità urbanistico-edilizia).
Ebbene, sulla scorta dell’enunciato di cui all’art.
21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 e del principio
dei cosiddetti vizi non invalidanti, la violazione delle
norme sul procedimento nei provvedimenti vincolati assume
una connotazione di tipo sostanziale e sussiste ogni
qualvolta l’amministrazione possa effettivamente beneficiare
degli apporti procedimentali mediante l’acquisizione di un
contributo rappresentativo degli interessi contrapposti, e
non anche nelle ipotesi in cui il
provvedimento sarebbe stato in ogni caso emanato in quanto
atto in concreto necessitato.
Infatti, l’eventuale intermediazione del preavviso di
rigetto ex art. 10-bis della legge n. 241/1990 comunque non
avrebbe fatto sortire all’istanza di accertamento di
conformità in questione un esito diverso, atteso il suo
innegabile contrasto con la disciplina urbanistica comunale.
---------------
5.1 Infine, quanto alla lamentata violazione delle garanzie
procedimentali, vale osservare come anche il permesso di
costruire in sanatoria (emesso a seguito di istanza di
accertamento di conformità) abbia carattere vincolato, dal
momento che, ai sensi dell’art. 36 d.P.R. n. 380/2001, esso
può essere rilasciato solo laddove sia constatata la
conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica ed
edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello
stesso, sia al momento della presentazione della domanda
(cd. requisito della doppia conformità urbanistico-edilizia).
Ebbene, sulla scorta dell’enunciato di cui all’art.
21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 e del principio
dei cosiddetti vizi non invalidanti, la violazione delle
norme sul procedimento nei provvedimenti vincolati assume
una connotazione di tipo sostanziale e sussiste ogni
qualvolta l’amministrazione possa effettivamente beneficiare
degli apporti procedimentali mediante l’acquisizione di un
contributo rappresentativo degli interessi contrapposti, e
non anche nelle ipotesi, come quella di specie, in cui il
provvedimento sarebbe stato in ogni caso emanato in quanto
atto in concreto necessitato (orientamento consolidato: cfr.
per tutte Consiglio di Stato, Sez. IV, 27.01.2011 n. 609);
infatti, l’eventuale intermediazione del preavviso di
rigetto ex art. 10-bis della legge n. 241/1990 comunque non
avrebbe fatto sortire all’istanza di accertamento di
conformità in questione un esito diverso, atteso il suo
innegabile contrasto con la disciplina urbanistica comunale,
come già rimarcato al precedente paragrafo 3 (TAR Campania-Napoli, Sez.
II,
sentenza 12.10.2018 n. 5900 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In materia di sanzioni
amministrative (nella specie, quelle urbanistico-edilizie),
non vige il principio di irretroattività della legge, che la
Costituzione pone solo per le norme penali, per cui per
determinare la sfera di applicabilità della disciplina
sanzionatoria edilizia occorre aver riguardo non alla data
della costruzione abusiva, ma al momento in cui la pubblica
amministrazione accerta l’esistenza dell’illecito.
---------------
La doglianza è infondata.
Infatti, questa Sezione ha più volte affermato che in
materia di sanzioni amministrative (nella specie, quelle
urbanistico-edilizie), non vige il principio di
irretroattività della legge, che la Costituzione pone solo
per le norme penali (cfr. Cons. Stato, VI, 31.05.1982, n.
275; V, 30.09.1980, n. 800), per cui per determinare la
sfera di applicabilità della disciplina sanzionatoria
edilizia occorre aver riguardo non alla data della
costruzione abusiva, ma al momento in cui la pubblica
amministrazione accerta l’esistenza dell’illecito (Cons.
Stato, V, 29.04.2000, n. 2544 e 09.02.1996, n. 152).
La riferita conclusione trova una specifica conferma negli
artt. 32, comma 3, 33, comma 3, e 40, comma 1, della citata
legge n. 47 del 1985, che assoggettano alla demolizione le
opere abusive realizzate prima dell’entrata in vigore della
legge non suscettibili di sanatoria.
Va comunque rilevato che la sanzione demolitoria non è stata
introdotta per la prima volta dalla legge n. 47 del 1985, ma
era già prevista dall'articolo 32 della legge urbanistica
del 1942 (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 12.10.2018 n. 5887 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non
ha alcuna rilevanza che dalla motivazione dell’ordinanza di
demolizione non emerga una valutazione unitaria e
complessiva degli interventi sanzionati; ciò che conta è,
infatti, che oggettivamente esista tra loro quell’intrinseco
collegamento funzionale che ne impone una considerazione
unitaria.
---------------
Un consolidato orientamento giurisprudenziale, da cui la
Sezione non ritiene di doversi discostare, esclude che
l'ordine di demolizione di opere abusive debba essere
preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento,
avendo la misura sanzionatoria carattere vincolato.
---------------
Il decorso del tempo non può incidere sull'ineludibile
doverosità degli atti volti a perseguire l'illecito
attraverso l'emanazione di provvedimenti doverosi per legge.
Conseguentemente deve escludersi che l'ordinanza di
demolizione di un immobile abusivo richieda una particolare
esposizione delle ragioni che la sorreggono risultando la
stessa adeguatamente motivata mercé il richiamo al
comprovato carattere abusivo delle opere, senza che si
impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali.
---------------
Col secondo motivo si deduce che il giudice di prime
cure avrebbe errato a respingere la doglianza con cui si era
lamentato che il Sindaco non avrebbe potuto ingiungere la
demolizione delle opere accessorie rispetto alla piscina
(vialetto, solarium e pavimentazione esterna) non essendo la
detta sanzione applicabile agli interventi soggetti a
semplice autorizzazione come quelli di specie.
Il Tribunale ha motivato la reiezione affermando che “Tali
opere sono state ritenute, nel loro insieme, contrastanti
rispetto al vincolo idrogeologico.
Coerentemente il diniego di sanatoria ha interessato tali
interventi unitariamente considerati.
L’impugnato ordine di demolizione ha considerato gli stessi,
nel loro complesso, assoggettati a regime concessorio,
trattandosi di abusi edilizi rispondenti ad un disegno
unitario, ovvero costituenti l’uno il completamento
dell’altro, stante la stretta connessione tra piscina,
relativi accessi, solarium, e volumi tecnici …. Non è quindi
dato scorporare le opere di trasformazione del territorio
nei singoli interventi che le compongono, onde valutarne
l’impatto e la disciplina isolandone l’una dall’altra,
trattandosi di manufatti che rilevano, sul piano degli
effetti lesivi per il territorio, nel loro insieme. Inoltre,
va esclusa l’applicabilità del regime autorizzatorio proprio
delle pertinenze laddove l’opera accessoria acceda ad un
manufatto principale abusivo assoggettabile alla sanzione
demolitoria …, estendendosi l’esigenza ripristinatoria al
complesso dei beni realizzati abusivamente, compresi quelli
accessori al manufatto principale abusivo”.
Tuttavia, per un verso tale motivazione risulterebbe
estranea al provvedimento impugnato, per altro verso
le opere in questione, seppur correlate alla piscina, da
essa si distinguerebbero “per le ridotte dimensioni, per
l’ubicazione, per il modesto valore economico, per l’assenza
di carico urbanistico”.
La censura non merita accoglimento.
Diversamente da quanto l’appellante sostiene non ha alcuna
rilevanza che dalla motivazione dell’ordinanza di
demolizione non emerga una valutazione unitaria e
complessiva degli interventi sanzionati, ciò che conta è,
infatti, che oggettivamente esista tra loro quell’intrinseco
collegamento funzionale che ne impone una considerazione
unitaria.
Nella fattispecie non è dubbio che vialetto, solarium e
pavimentazione esterna siano opere a servizio della piscina
che, assieme ad essa danno luogo, dal punto di vista
urbanistico-edilizio, a un unitario intervento, senza che,
in contrario, possano rilevare le caratteristiche delle
dette opere accessorie invocate dall’appellante: “ridotte
dimensioni, … ubicazione, … modesto valore economico, …
assenza di carico urbanistico”.
Col terzo motivo si denuncia l’errore commesso dal
giudice di prime cure nel disattendere la censura con la
quale era stata dedotta l’omessa comunicazione di avvio del
procedimento.
Il mezzo di gravame è infondato.
Un consolidato orientamento giurisprudenziale, da cui la
Sezione non ritiene di doversi discostare, esclude che
l'ordine di demolizione di opere abusive debba essere
preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento,
avendo la misura sanzionatoria carattere vincolato (ex
plurimis Cons. Stato, IV, 31.08.2018, n. 5123;
19.03.2018, n. 1717 e 29.11.2017, n. 5595; VI, 16.03.2018,
n. 1688).
Col quarto motivo si lamenta che il Tribunale avrebbe
errato a respingere la censura con cui era stato dedotto che
in considerazione del lungo tempo trascorso dalla
commissione dell’abuso, l’ordine di demolizione avrebbe
dovuto essere sorretto da adeguata motivazione.
La doglianza è infondata.
Il decorso del tempo non può incidere sull'ineludibile
doverosità degli atti volti a perseguire l'illecito
attraverso l'emanazione di provvedimenti doverosi per legge.
Conseguentemente deve escludersi che l'ordinanza di
demolizione di un immobile abusivo richieda una particolare
esposizione delle ragioni che la sorreggono risultando la
stessa adeguatamente motivata mercé il richiamo al
comprovato carattere abusivo delle opere, senza che si
impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali (Cons.
Stato, Cons. Stato, Ad. Plen. 17.10.2017, n. 9; VI,
06.07.2018, n. 4135; 19.06.2018, n. 3773; 02.05.2018, n.
2612 e 26.03.2018, n. 1887) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 12.10.2018 n. 5887 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
PROCESSO AMMINISTRATIVO - Responsabilità precontrattuale del
privato - Violazione degli obblighi di buona fede e
correttezza - Domanda risarcitoria della P.A. -
Giurisdizione del giudice ordinario.
L’attrazione della tutela risarcitoria
dinanzi al giudice amministrativo può verificarsi soltanto
qualora il danno patito dal soggetto che agisce nei
confronti della pubblica amministrazione sia conseguenza
immediata e diretta della dedotta illegittimità del
provvedimento che ha impugnato
(cfr. Cass. civ. S.U. ordinanze nn. 17586 del 04.09.2015,
12799 del 22.05.2017, 1654 del 23.01.2018, Cass. civ. sez. I
n. 25644 del 27.10.2017 e Cass. sez. Lavoro n. 2327 del
05.02.2016).
In relazione a fattispecie vertenti su una
domanda risarcitoria avanzata dall’Amministrazione nei
confronti di un privato a titolo di responsabilità
precontrattuale, imperniata sulla violazione di obblighi di
buona fede e correttezza e sull’assenza di un provvedimento
da caducare, la Suprema Corte ha affermato l’attrazione
nella giurisdizione dell’A.G.O.
(cfr. Sez. un., 04.07.2017, n. 16419).
In senso analogo si è espressa anche la
giurisprudenza amministrativa, sul presupposto che la
giurisdizione amministrativa esclusiva trova il suo limite e
la sua giustificazione nelle situazioni connotate
dall’esercizio di un potere pubblicistico nelle quali
l’intreccio tra interessi legittimi e diritti soggettivi
rende difficile individuare di volta in volta il plesso
giurisdizionale competente, sicché ove l’Amministrazione si
reclama danneggiata da un comportamento attuato da privati,
senza alcuna inerenza ad un potere pubblico deve essere
declinata la giurisdizione a favore del giudice ordinario
(cfr. TAR Toscana, I Sezione, sentenza 12/05/2011, n. 818) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 12.10.2018 n. 2267 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI:
Responsabilità precontrattuale dell’offerente e
giurisdizione giudice ordinario.
---------------
Giurisdizione - Risarcimento danni – Responsabilità
precontrattuale – Dell’offerente che ha coinvolto la
stazione appaltante in trattative inutili – Giurisdizione
giudice ordinario.
La domanda risarcitoria proposta in
via riconvenzionale dall’Amministrazione, facendo valere la
responsabilità precontrattuale del privato per i danni da
essa sofferti in conseguenza del coinvolgimento in
trattative rivelatesi inutili -avendo partecipato ad una
gara senza verificare, alla stregua di elementi che dovevano
già essere conosciuti o conoscibili, la propria possibilità
di impegnarsi contrattualmente- si colloca al di fuori della
giurisdizione del giudice adito, rientrando in quella del
giudice ordinario (1).
---------------
(1)
Ha chiarito il Tar che l’attrazione della tutela
risarcitoria dinanzi al giudice amministrativo può
verificarsi soltanto qualora il danno patito dal soggetto
che agisce nei confronti della pubblica amministrazione sia
conseguenza immediata e diretta della dedotta illegittimità
del provvedimento che ha impugnato (Cass. civ., S.U., ordd.
nn. 17586 del 04.09.2015, 12799 del 22.05.2017, 1654
del 23.01.2018).
Con la recente ordinanza delle Sezioni unite civili del
24.09.2018, n. 22435, poi, la Suprema Corte ha ribadito che
“si è al di fuori della giurisdizione amministrativa se
viene in rilievo una fattispecie complessa in cui
l’emanazione di un provvedimento favorevole, che venga
successivamente annullato in quanto illegittimo, si
configura solo come uno dei presupposti dell’azione
risarcitoria che si fonda altresì sulla capacità del
provvedimento di determinare l’affidamento dell’interessato
e la lesione del suo patrimonio che consegue a tale
affidamento e alla sopravvenuta caducazione del
provvedimento favorevole”.
Di particolare rilievo è l’ulteriore osservazione, svolta
nell’ordinanza n. 22435, a proposito delle materie
attribuite alla giurisdizione esclusiva del G.A., rispetto
alle quali si afferma che “permane la linea di discrimine
fra azioni risarcitorie dipendenti dall’illegittimità
dell’atto e azioni risarcitorie dipendenti dall’affidamento
derivato dal comportamento della pubblica amministrazione,
rimanendo privo di rilievo che tale comportamento sia più o
meno direttamente connesso all’esercizio dell’attività
appartenente al settore di competenza esclusiva. Nel secondo
caso il soggetto leso denuncia non già la lesione del suo
interesse legittimo pretensivo bensì quella della sua
integrità patrimoniale derivata dall’affidamento incolpevole
sulla legittimità dell’attribuzione favorevole poi caducata.
Viene quindi in rilievo in questa ipotesi non solo la
situazione lesa, che peraltro è riferibile a un diritto
soggettivo e non a un interesse legittimo, ma anche la
natura stessa del comportamento lesivo che non consiste
tanto ed esclusivamente nella illegittimità dell’agire della
p.a. ma piuttosto nella violazione del principio generale
del neminem laedere”.
Anche in precedenza, in relazione a fattispecie vertenti,
come quella in esame, su una domanda risarcitoria avanzata
dall’Amministrazione nei confronti di un privato a titolo di
responsabilità precontrattuale, imperniata sulla violazione
di obblighi di buona fede e correttezza e sull’assenza di un
provvedimento da caducare, la Suprema Corte ne aveva
affermato l’attrazione nella giurisdizione dell’A.G.O.
(Cass. civ., S.U., 04.07.2017, n. 16419).
In senso analogo, del resto, si è espressa anche la
giurisprudenza amministrativa, sul presupposto che la
giurisdizione amministrativa esclusiva, come chiarito dalla
Corte Costituzionale nella sentenza n. 204/2004, trova “il
suo limite e la sua giustificazione nelle situazioni
connotate dall’esercizio di un potere pubblicistico nelle
quali l’intreccio tra interessi legittimi e diritti
soggettivi rende difficile individuare di volta in volta il
plesso giurisdizionale competente”, sicché ove
l’Amministrazione “si reclama danneggiata da un
comportamento attuato da privati, senza alcuna inerenza ad
un potere pubblico” deve essere declinata la giurisdizione a
favore del giudice ordinario (Tar Toscana, sez. I,
12.05.2011, n. 818)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 12.10.2018 n. 2267 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
9) Sempre in via preliminare, si rende necessario, per
la soluzione della controversia in esame, qualificare il
titolo di responsabilità invocato da parte ricorrente.
9.1) A tale scopo,
il Collegio rammenta che la
giurisprudenza, sia civile che amministrativa, ha in più
occasioni affermato come, anche nello svolgimento
dell’attività autoritativa, l’amministrazione sia tenuta a
rispettare, non soltanto, le norme di diritto pubblico (la
cui violazione implica, di regola, l’invalidità del
provvedimento e l’eventuale responsabilità da provvedimento
per lesione dell’interesse legittimo), ma, anche le norme
generali dell’ordinamento civile, che impongono di agire con
lealtà e correttezza; la violazione di queste ultime,
quindi, può far nascere una responsabilità da comportamento
scorretto, che incide non sull’interesse legittimo ma sul
diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei
rapporti negoziali, cioè sulla libertà di compiere le
proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illegittime
frutto dell’altrui scorrettezza (cfr., fra le altre, Cons.
Stato, sez. VI, 06.02.2013, n. 633; id., sez. IV, 06.03.2015, n. 1142; id., Ad. plen.,
05.09.2005, n. 6;
Cass. civ., Sez. un., 12.05.2008, n. 11656; Cass. civ.,
sez. I, 12.05.2015, n. 9636; Cass. civ., sez. I, 03.07.2014, n. 15250).
Recentemente, anche il Consiglio di Stato, in Adunanza
Plenaria, ha ribadito che: “Le regole di diritto pubblico
hanno ad oggetto il provvedimento (l’esercizio diretto ed
immediato del potere) e la loro violazione determina, di
regola, l’invalidità del provvedimento adottato. Al
contrario, la regole di diritto privato hanno ad oggetto il
comportamento (collegato in via indiretta e mediata
all’esercizio del potere) complessivamente tenuto dalla
stazione appaltante nel corso della gara. La loro violazione
non dà vita ad invalidità provvedimentale, ma a
responsabilità. Non diversamente da quanto accade nei
rapporti tra privati, anche per la P.A. le regole di
correttezza e buona fede non sono regole di validità (del
provvedimento), ma regole di responsabilità (per il
comportamento complessivamente tenuto)” (così, sentenza
04/05/2018, n. 5).
9.2) Ebbene, applicando le suesposte coordinate ermeneutiche
al caso di specie, è agevole ricavare come l’esponente
alleghi e argomenti, in concreto, una responsabilità
dell’intimato Comune da provvedimento illegittimo, la
revoca, che, tuttavia, non ha impugnato, provocandone così
la inoppugnabilità.
9.3) In siffatte evenienze, reputa il Collegio che, pur non
essendovi preclusioni in rito in ordine all’ammissibilità
dell’azione risarcitoria per lesione dell’interesse
legittimo non accompagnata dall’impugnazione del
provvedimento asseritamente causativo dei danni, nondimeno,
occorre fare applicazione dell’art. 30, co. 3 c.p.a., a
tenore del quale “Nel determinare il risarcimento il giudice
valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento
complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento
dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria
diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di
tutela previsti”.
La disposizione, pur non evocando in modo esplicito il
disposto dell'art. 1227, comma 2, cod. civ., afferma che
l'omessa attivazione degli strumenti di tutela previsti
costituisce, nel quadro del comportamento complessivo delle
parti, dato valutabile, alla stregua del canone di buona
fede e del principio di solidarietà, ai fini dell'esclusione
o della mitigazione del danno evitabile con l'ordinaria
diligenza (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., Sent. 23.03.2011, n.
3, per cui “… il codice del processo amministrativo sancisce
la regola secondo cui la tenuta, da parte del danneggiato,
di una condotta, attiva od omissiva, contraria al principio
di buona fede ed al parametro della diligenza, che consenta
la produzione di danni che altrimenti sarebbero stati
evitati secondo il canone della causalità civile imperniato
sulla probabilità relativa (secondo il criterio del "più
probabilmente che non": Cass., sezioni unite, 11.01.1008, n. 577; sez. III, 12.03.2010, n. 6045),
recide, in
tutto o in parte, il nesso casuale che, ai sensi dell'art.
1223 c.c., deve legare la condotta antigiuridica alle
conseguenze dannose risarcibili. Di qui la rilevanza
sostanziale, sul versante prettamente causale, dell'omessa o
tardiva impugnazione come fatto che preclude la
risarcibilità di danni che sarebbero stati presumibilmente
evitati in caso di rituale utilizzazione dello strumento di
tutela specifica predisposto dall'ordinamento a protezione
delle posizioni di interesse legittimo onde evitare la
consolidazione di effetti dannosi”).
9.4) Ebbene, nella specie, rileva il Collegio che
l’esponente, che aveva già avviato d’urgenza il servizio sin
dal 12.09.2011, ricevuta la revoca del 09.11.2011, i cui effetti erano differiti al successivo 14.11.2011, ben avrebbe potuto, onde evitare danni,
promuovere tempestivamente la domanda annullatoria, con
annessa tutela cautelare, anche monocratica, allo scopo di
impedire –se del caso– l’interruzione del servizio, dalla
stessa già in corso di espletamento.
Di contro, la scelta di
rimanere inerte e di attendere, dopo quasi quattro mesi dal
provvedimento asseritamente lesivo, l’attivazione della
tutela risarcitoria, non risulta rispettosa delle ordinarie
regole di diligenza. Ciò, tanto più in quanto, come si legge
nel ricorso, il predetto provvedimento assume un rilievo
pregnante nella descrizione degli elementi costitutivi
dell’illecito, così come operata da parte esponente, che non
si premura neppure di provare l’elemento soggettivo a carico
dell’Amministrazione, ritenendolo insito nell’illegittimità
dell’atto non impugnato.
Risulta allora evidente, in siffatte evenienze, la mancanza
del prescritto nesso eziologico fra la revoca e l’asserito
danno. Detto collegamento causale, infatti, è stato
irrimediabilmente reciso dal comportamento dell’esponente
che, omettendo colposamente l’esperimento dei mezzi di
tutela all’uopo previsti e in precedenza richiamati, non ha
evitato, come avrebbe potuto, i danni qui lamentati come
conseguenti alla predetta revoca.
10) Per le considerazioni sin qui esposte, il ricorso
introduttivo va respinto stante l’insussistenza degli
elementi costitutivi della domanda risarcitoria, come in
epigrafe formulata.
11) Si può così passare all’esame della domanda
riconvenzionale del Comune, sulla quale si osserva quanto
segue.
11.1) La resistente fa valere la responsabilità
precontrattuale del ricorrente poiché “dapprima ha
colposamente coinvolto in trattative inutili la P.A., avendo
partecipato ad una gara senza verificare, alla stregua di
elementi che dovevano già essere conosciuti o conoscibili,
la propria possibilità di impegnarsi contrattualmente e
successivamente ha colposamente posto in essere
comportamenti determinanti un danno ingiusto per
l’amministrazione e gli utenti del servizio di trasporto
scolastico di cui è causa” (cfr. domanda riconvenzionale,
pagine 14-15, in atti).
Ebbene, già in sede di udienza pubblica sono stati
rappresentati all’attrice riconvenzionale i possibili
profili di inammissibilità della formulata domanda, per
estraneità della stessa dalla giurisdizione esclusiva del
Giudice adito.
Al riguardo, è noto, essendo stato ripetutamente affermato
dalla Corte di Cassazione, a partire dalle ordinanze nn.
6594-6596 del 23.03.2011, che l’attrazione della tutela risarcitoria dinanzi al giudice amministrativo può
verificarsi soltanto qualora il danno patito dal soggetto
che agisce nei confronti della pubblica amministrazione sia
conseguenza immediata e diretta della dedotta illegittimità
del provvedimento che ha impugnato (cfr. Cass. civ. S.U.
ordinanze nn. 17586 del 04.09.2015, 12799 del 22.05.2017, 1654 del 23.01.2018, Cass. civ. sez. I n.
25644 del 27.10.2017 e Cass. sez. Lavoro n. 2327 del 05.02.2016).
Con la recente ordinanza delle Sezioni unite civili del 24.09.2018, n. 22435, poi, la Suprema Corte ha ribadito
che “si è al di fuori della giurisdizione amministrativa se
viene in rilievo una fattispecie complessa in cui
l’emanazione di un provvedimento favorevole, che venga
successivamente annullato in quanto illegittimo, si
configura solo come uno dei presupposti dell’azione risarcitoria che si fonda altresì sulla capacità del
provvedimento di determinare l’affidamento dell’interessato
e la lesione del suo patrimonio che consegue a tale
affidamento e alla sopravvenuta caducazione del
provvedimento favorevole”.
Di particolare rilievo, in relazione al caso in esame, si
presenta l’ulteriore osservazione, svolta nell’ordinanza n. 22435,
a proposito delle materie attribuite alla giurisdizione
esclusiva del G.A., rispetto alle quali si afferma che
“permane la linea di discrimine fra azioni risarcitorie
dipendenti dall’illegittimità dell’atto e azioni
risarcitorie dipendenti dall’affidamento derivato dal
comportamento della pubblica amministrazione, rimanendo
privo di rilievo che tale comportamento sia più o meno
direttamente connesso all’esercizio dell’attività
appartenente al settore di competenza esclusiva. Nel secondo
caso il soggetto leso denuncia non già la lesione del suo
interesse legittimo pretensivo bensì quella della sua
integrità patrimoniale derivata dall’affidamento incolpevole
sulla legittimità dell’attribuzione favorevole poi caducata.
Viene quindi in rilievo in questa ipotesi non solo la
situazione lesa, che peraltro è riferibile a un diritto
soggettivo e non a un interesse legittimo, ma anche la
natura stessa del comportamento lesivo che non consiste
tanto ed esclusivamente nella illegittimità dell’agire della
p.a. ma piuttosto nella violazione del principio generale
del neminem laedere”.
Anche in precedenza, in relazione a fattispecie vertenti,
come quella in esame, su una domanda risarcitoria avanzata
dall’Amministrazione nei confronti di un privato a titolo di
responsabilità precontrattuale, imperniata sulla violazione
di obblighi di buona fede e correttezza e sull’assenza di un
provvedimento da caducare, la Suprema Corte ne aveva
affermato l’attrazione nella giurisdizione dell’A.G.O. (cfr.
Sez. un., 04.07.2017, n. 16419).
In senso analogo, del resto, si è espressa anche la
giurisprudenza amministrativa, sul presupposto che
la
giurisdizione amministrativa esclusiva, come chiarito dalla
Corte Costituzionale nella sentenza n. 204/2004,
trova “il
suo limite e la sua giustificazione nelle situazioni
connotate dall’esercizio di un potere pubblicistico nelle
quali l’intreccio tra interessi legittimi e diritti
soggettivi rende difficile individuare di volta in volta il
plesso giurisdizionale competente”, sicché ove
l’Amministrazione “si reclama danneggiata da un
comportamento attuato da privati, senza alcuna inerenza ad
un potere pubblico” deve essere declinata la giurisdizione a
favore del giudice ordinario (cfr. TAR Toscana, I
Sezione, sentenza 12/05/2011, n. 818).
11.2) Da quanto sin qui esposto si ricava che,
la domanda risarcitoria proposta in via riconvenzionale
dall’Amministrazione, facendo valere la responsabilità
precontrattuale del privato per i danni da essa sofferti in
conseguenza del coinvolgimento in trattative rivelatesi
inutili, si colloca al di fuori della giurisdizione del
giudice adito, rientrando in quella dell’A.G.O..
12) Conclusivamente, quindi, il ricorso introduttivo va
respinto mentre la domanda riconvenzionale va dichiarata
inammissibile per difetto di giurisdizione del G.A. adito,
rientrando la stessa nella giurisdizione dell’A.G.O.,
dinanzi al quale potrà essere riproposta, ai sensi e per gli
effetti di cui all’art. 11 c.p.a.. |
URBANISTICA:
La tradizionale giurisprudenza opera una
distinzione tra i casi di retrocessione totale e di retrocessione parziale,
collocando la prima ipotesi nell’alveo della giurisdizione
ordinaria e la seconda in quello della giurisdizione
amministrativa.
Tale distinzione trova fondamento nella circostanza che, in
caso di retrocessione totale, sussiste un diritto
soggettivo immediatamente azionabile; nei casi di
retrocessione parziale tale diritto è invece destinato a
sorgere, come detto, solo a seguito dell’eventuale
dichiarazione di inservibilità del bene, mentre prima di
allora la situazione soggettiva del privato è qualificabile
in termini di interesse legittimo.
Va, tuttavia, considerato che la Corte
regolatrice afferma la
giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo
“nell’ipotesi in cui siano proposte, dopo l'espropriazione
di un'area, due azioni congiunte o alternative
dall'espropriato, di retrocessione totale per la parte delle
superfici acquisite rimasta inutilizzata e parziale per
quella su cui si sia realizzata un'opera di pubblica utilità
diversa da quella per cui si era proceduto all'esproprio”.
Un decisivo revirement dell’intera materia si
registra con la sentenza delle Sezioni unite n. 1092 del
2017 secondo cui “è fuorviante la prospettiva tradizionale
del carattere parziale o totale della retrocessione e della
connessa configurazione, in capo al soggetto espropriato, di
una posizione di interesse legittimo ovvero di diritto
soggettivo a seconda della sussistenza o meno di un potere
discrezionale di disporre la retrocessione stessa da parte
dell'amministrazione. La materia, infatti, trova attualmente
una specifica disciplina nel codice del processo
amministrativo approvato con D.Lgs. 02.07.2010, n. 104
[…] che all'art. 133, comma 1, lett. g), contempla, tra le
ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo, quella delle "controversie aventi ad oggetto
(...) i comportamenti, riconducibili, anche mediatamente,
all'esercizio di un pubblico potere, delle pubbliche
amministrazioni in materia di espropriazione per pubblica
utilità, ferma restando la giurisdizione del giudice
ordinario per quelle riguardanti la determinazione e la
corresponsione dell'indennità in conseguenza dell'adozione
di atti di natura espropriativa o ablativa".
Invero, le
Sezioni unite chiariscono che “una situazione di "mediata" riconducibilità del comportamento della pubblica
amministrazione all'esercizio di un potere si verifica anche
nel caso di protrazione dell'occupazione di un suolo pur
dopo la sopraggiunta inefficacia della dichiarazione di
pubblica utilità, ricorrendo anche in tale ipotesi
l'elemento decisivo -per l'affermazione della giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo- del concreto
esercizio del potere ablatorio, riconoscibile per tale in
base al procedimento svolto ed alle forme adottate, in
consonanza con le norme che lo regolano, pur se poi
l'ingerenza nella proprietà privata e la sua utilizzazione
siano avvenute senza alcun titolo che le consentiva: infatti
il comportamento dell'amministrazione, che omette di
restituire il terreno occupato in virtù di decreto di
occupazione, nonostante quest'ultimo sia stato travolto
dalla sopravvenuta inefficacia della dichiarazione di
pubblica utilità, deve ritenersi connesso, ancorché in via
mediata, a quel provvedimento, senza il quale non vi sarebbe
stata apprensione e, quindi, neppure la mancata
restituzione”.
Del pari, nel caso di retrocessione si
assiste ad un comportamento dell’Amministrazione speculare
al potere espropriativo a base del proprio agire. Infatti,
“si è dinanzi al concreto esercizio di un potere ablatorio,
culminato nel decreto di espropriazione, e un comportamento
ad esso collegato (che non si sarebbe verificato se non vi
fosse stato l'esproprio) della pubblica amministrazione, la
quale omette la retrocessione del bene nonostante la
sussistenza dei presupposti di legge”.
Pertanto, la domanda
articolata con il secondo ricorso per motivi aggiunti e
volta ad ottenere la retrocessione totale del bene deve
ritenersi, comunque, attratta alla giurisdizione del Giudice
amministrativo, fatte salve le precisazioni in ordine al quantum debeatur su cui si dirà nel prosieguo della presente
sentenza.
---------------
1. Parte ricorrente censura la deliberazione del Consiglio
Comunale di Livigno n. 63 del 29.09.2014 con la quale
l’Ente provvede a prorogare i termini di efficacia del Piano
di Lottizzazione approvato con le delibere n. 27 del 01.06.2004 e n. 48 del 29.09.2004 e finalizzato alla
realizzazione di un insediamento a destinazione industriale
idoneo a soddisfare le richieste di nuovi insediamenti
produttivi e di trasferimento degli insediamenti esistenti
in Livigno.
Articola due motivi di ricorso facendo valere
l’illegittimità della proroga per violazione della normativa
richiamata che imporrebbe un termine di efficacia pari a
dieci anni e per mancata esplicitazione delle ragioni
fattuali e giuridiche a sostegno della proroga.
Con il primo
ricorso per motivi aggiunti la sig.ra Ga. impugna la
delibera della Giunta comunale n. 51 del 20.05.2017 per
l’esecuzione delle opere di urbanizzazione primaria del PLU,
e chiede, inoltre, che sia dichiarati nulli e/o inefficaci:
a) la convenzione di lottizzazione stipulata tra il Comune
di Livigno e la Co.Ar.Li.;
b) l’atto di
ricomposizione fondiaria di pari data;
c) l’accordo per
l’esecuzione delle opere di urbanizzazione primaria previsto
dagli atti impugnati. Con tale atto la ricorrente deduce, in
primo luogo, l’invalidità derivata del provvedimento
impugnato richiamando i motivi articolati nel ricorso
principale. Propone, inoltre, un unico motivo di ricorso per
invalidità propria del provvedimento impugnato rubricato:
“Violazione dell’articolo 78, comma 2, del d.lgs. 267/2000”.
Con l’ultimo ricorso per motivi aggiunti la sig.ra Ga.
chiede a questo Tribunale di accertare e dichiarare il
diritto alla retrocessione del terreno identificato catastalmente al foglio 49, mappale 475 del N.C.T. del
Comune di Livigno, previa eventuale concessione di “un
termine per la chiedere alla Commissione provinciale
espropri la determinazione dell’indennità di cui
all’articolo 46, comma 1, del D.P.R. 327/2001 e con deposito
o pagamento diretto (in caso di accettazione) della predetta
indennità, da effettuarsi nei modi, nei termini [ritenuti]
di giustizia”.
1.1. Individuato l’intero thema decidendum, il
Collegio ritiene di affrontare, in via preliminare, le varie
questioni processuali involte nel giudizio, incentrando la
successiva disamina sul merito del ricorso introduttivo e
dei due ricorsi per motivi aggiunti.
1.2. A tal fine, occorre esaminare, in primo luogo, la
questione di giurisdizione sulla domanda di retrocessione
fatta valere con il secondo ricorso per motivi aggiunti che
sorregge –secondo la prospettiva della ricorrente- anche
l’interesse all’impugnazione della delibera impugnata con il
ricorso introduttivo.
Sul punto, osserva il Collegio come la
tradizionale giurisprudenza operi una distinzione tra i casi
di retrocessione totale e di retrocessione parziale,
collocando la prima ipotesi nell’alveo della giurisdizione
ordinaria e la seconda in quello della giurisdizione
amministrativa.
Tale distinzione trova fondamento nella
circostanza che, in caso di retrocessione totale, sussiste
un diritto soggettivo immediatamente azionabile; nei casi di
retrocessione parziale tale diritto è invece destinato a
sorgere, come detto, solo a seguito dell’eventuale
dichiarazione di inservibilità del bene, mentre prima di
allora la situazione soggettiva del privato è qualificabile
in termini di interesse legittimo (cfr., da ultimo, TAR
per il Lazio – sede di Roma, sezione II, 06.09.2018,
n. 9190).
Va, tuttavia, considerato che la Corte
regolatrice, già con sentenza n. 14805 del 2009, afferma la
giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo
“nell’ipotesi in cui siano proposte, dopo l'espropriazione
di un'area, due azioni congiunte o alternative
dall'espropriato, di retrocessione totale per la parte delle
superfici acquisite rimasta inutilizzata e parziale per
quella su cui si sia realizzata un'opera di pubblica utilità
diversa da quella per cui si era proceduto all'esproprio” (cfr.,
inoltre, Corte di Cassazione, sezioni unite, 27.01.2014, n. 1520).
Un decisivo revirement dell’intera materia si
registra con la sentenza delle Sezioni unite n. 1092 del
2017 secondo cui “è fuorviante la prospettiva tradizionale
del carattere parziale o totale della retrocessione e della
connessa configurazione, in capo al soggetto espropriato, di
una posizione di interesse legittimo ovvero di diritto
soggettivo a seconda della sussistenza o meno di un potere
discrezionale di disporre la retrocessione stessa da parte
dell'amministrazione. La materia, infatti, trova attualmente
una specifica disciplina nel codice del processo
amministrativo approvato con D.Lgs. 02.07.2010, n. 104
[…] che all'art. 133, comma 1, lett. g), contempla, tra le
ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo, quella delle "controversie aventi ad oggetto
(...) i comportamenti, riconducibili, anche mediatamente,
all'esercizio di un pubblico potere, delle pubbliche
amministrazioni in materia di espropriazione per pubblica
utilità, ferma restando la giurisdizione del giudice
ordinario per quelle riguardanti la determinazione e la
corresponsione dell'indennità in conseguenza dell'adozione
di atti di natura espropriativa o ablativa".
Invero, le
Sezioni unite, già con le ordinanze nn. 10879 e 12179 del
2015 chiariscono che “una situazione di "mediata" riconducibilità del comportamento della pubblica
amministrazione all'esercizio di un potere si verifica anche
nel caso di protrazione dell'occupazione di un suolo pur
dopo la sopraggiunta inefficacia della dichiarazione di
pubblica utilità, ricorrendo anche in tale ipotesi
l'elemento decisivo -per l'affermazione della giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo- del concreto
esercizio del potere ablatorio, riconoscibile per tale in
base al procedimento svolto ed alle forme adottate, in
consonanza con le norme che lo regolano, pur se poi
l'ingerenza nella proprietà privata e la sua utilizzazione
siano avvenute senza alcun titolo che le consentiva: infatti
il comportamento dell'amministrazione, che omette di
restituire il terreno occupato in virtù di decreto di
occupazione, nonostante quest'ultimo sia stato travolto
dalla sopravvenuta inefficacia della dichiarazione di
pubblica utilità, deve ritenersi connesso, ancorché in via
mediata, a quel provvedimento, senza il quale non vi sarebbe
stata apprensione e, quindi, neppure la mancata
restituzione”.
Del pari, nel caso di retrocessione si
assiste ad un comportamento dell’Amministrazione speculare
al potere espropriativo a base del proprio agire. Infatti,
“si è dinanzi al concreto esercizio di un potere ablatorio,
culminato nel decreto di espropriazione, e un comportamento
ad esso collegato (che non si sarebbe verificato se non vi
fosse stato l'esproprio) della pubblica amministrazione, la
quale omette la retrocessione del bene nonostante la
sussistenza dei presupposti di legge”.
Pertanto, la domanda
articolata con il secondo ricorso per motivi aggiunti e
volta ad ottenere la retrocessione totale del bene deve
ritenersi, comunque, attratta alla giurisdizione del Giudice
amministrativo, fatte salve le precisazioni in ordine al
quantum debeatur su cui si dirà nel prosieguo della
presente sentenza
(TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 12.10.2018 n. 2265 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La mancata realizzazione delle opere previste nel
permesso di costruire determina l’inesistenza del
presupposto dell’obbligo di corrispondere gli oneri di
urbanizzazione e il contributo per costo di costruzione.
Invero, tale obbligo economico trova la propria causa
nell’attività di trasformazione del territorio eseguita in
forza del titolo edilizio rilasciato.
Pertanto nel caso di specie, essendo l’opera oggetto del
permesso di costruire non realizzabile, stante la pacifica
impossibilità dell’allaccio alla rete idrica, il Comune è
tenuto a restituire le somme incassate quale contributo per
oneri di urbanizzazione e costo di costruzione.
L’azione della ricorrente costituisce quindi un’azione di
ripetizione dell’indebito oggettivo, legittimamente fondata
sull’assenza dei presupposti del pagamento effettuato.
L’Amministrazione è quindi tenuta a restituire quanto pagato
dalla società istante, in forza dell’art. 2033 cod. civ..
Sulla somma da restituire maturano gli interessi legali
previsti dalla suddetta norma, con decorrenza dalla domanda
di restituzione dell’importo corrisposto in relazione al
permesso di costruire (inutilizzato).
Non spetta invece la rivalutazione monetaria o il maggior
danno previsto dall’art. 1224, comma 2, cod. civ.,
trattandosi di pagamento di indebito oggettivo, il quale
genera la sola obbligazione di restituzione con gli
interessi ex art. 2033 c.c., stante la buona fede del
Comune.
Peraltro, la ricorrente non ha fornito alcun principio di
prova in ordine all’esistenza di un nocumento superiore
all’importo corrispondente agli interessi legali.
---------------
Il Collegio osserva che, come riconosciuto dalla stessa
difesa del Comune, la mancata realizzazione delle opere
previste nel permesso di costruire determina l’inesistenza
del presupposto dell’obbligo di corrispondere gli oneri di
urbanizzazione e il contributo per costo di costruzione.
Invero, tale obbligo economico trova la propria causa
nell’attività di trasformazione del territorio eseguita in
forza del titolo edilizio rilasciato.
Pertanto nel caso di specie, essendo l’opera oggetto del
permesso di costruire non realizzabile, stante la pacifica
impossibilità dell’allaccio alla rete idrica, il Comune era
tenuto a restituire le somme incassate quale contributo per
oneri di urbanizzazione e costo di costruzione.
L’azione della ricorrente costituisce quindi un’azione di
ripetizione dell’indebito oggettivo, legittimamente fondata
sull’assenza dei presupposti del pagamento effettuato.
L’Amministrazione è quindi tenuta a restituire quanto pagato
dalla società istante, in forza dell’art. 2033 cod. civ..
Sulla somma da restituire maturano gli interessi legali
previsti dalla suddetta norma, con decorrenza dalla domanda
di restituzione dell’importo corrisposto in relazione al
permesso di costruire n. 6/2007, ovvero dal 21.10.2010 (si
vedano la pagina 5 del ricorso e la pagina 4 della memoria
difensiva depositata in giudizio dal Comune).
Non spetta invece la rivalutazione monetaria o il maggior
danno previsto dall’art. 1224, comma 2, cod. civ.,
trattandosi di pagamento di indebito oggettivo, il quale
genera la sola obbligazione di restituzione con gli
interessi ex art. 2033 c.c., stante la buona fede del Comune
(TAR Lombardia, Milano, II, 18.09.2013, n. 2172). Peraltro,
la ricorrente non ha fornito alcun principio di prova in
ordine all’esistenza di un nocumento superiore all’importo
corrispondente agli interessi legali.
In conclusione, il ricorso va accolto quanto alla domanda di
ripetizione dell’indebito e di pagamento degli interessi
legali (TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 12.10.2018 n. 1312 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Al fine di impedire la
decadenza del permesso di costruire, l'avvio delle opere
deve essere reale ed effettivo ovvero manifestazione di un
serio e comprovato intento di esercitare il diritto ad
edificare, e non solo apparente o fittizio, volto al solo
scopo di evitare la temuta perdita di efficacia del titolo,
con conseguente irrilevanza di operazioni quali la
ripulitura del sito, l'approntamento del cantiere e dei
materiali occorrenti per l'esecuzione dei lavori
nell'immobile, lo sbancamento del terreno.
---------------
In ogni caso, ad evitare la decadenza del permesso di
costruire tanto la normativa nazionale che quella regionale
chiariscono che la proroga del termine di inizio e fine
lavori “…può essere accordata, con provvedimento motivato,
per fatti sopravvenuti, estranei alla volontà del titolare
del permesso”, ma evidentemente prima della scadenza del
termine di validità del titolo e comunque solo con un
provvedimento espresso e motivato, fondato sulla verifica
dell'idoneità delle condizioni oggettive che giustificano la
richiesta.
---------------
E’ pacifico che la decadenza del permesso di costruire
costituisce l'effetto automatico dell'inutile decorso del
termine entro cui i lavori si sarebbero dovuti iniziare e
concludere; pertanto, essa ha natura non già costitutiva,
bensì dichiarativa con efficacia ex tunc di un effetto
verificatosi ex se e direttamente e in tal modo va letto
l'art. 15, comma 2, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, in virtù del
quale, inutilmente decorsi detti termini, il permesso decade
di diritto per la parte non eseguita, tranne che,
anteriormente alla scadenza, venga richiesta una proroga.
Di qui l’evidente ultroneità della comunicazione di avvio
del procedimento dal momento che la partecipazione
dell’interessata non avrebbe comunque potuto determinare
alcun effetto in relazione all’oggettivo decorso del
termine.
---------------
2. Con il primo dei gravami all’esame la società
ricorrente contesta il provvedimento con cui il Comune di
Siena ha dichiarato la decadenza del permesso di costruire
n. 22/2016 rilasciato il 05.04.2016, “per la esecuzione
dei lavori di realizzazione nuovo complesso per varie
attività in Strada Massetana Romana” oltre a opere di
urbanizzazione (viabilità e parcheggi) per circa 6.925 mq.,
ordinando la rimozione di quanto occorrente all’impianto del
cantiere.
Il ricorso è infondato.
3. Con il primo e secondo motivo la società
lamenta la violazione dell'art. 15 del D.P.R. 380/2001 e
dell'art. 133 della L.R. Toscana 65/2014 giacché, a seguito
del rilascio del titolo edilizio, avrebbe posto in essere
tutte le attività che era possibile avviare, allestendo il
cantiere, depositando i materiali necessari all'esecuzione
dei lavori e sistemando il piazzale con materiale di cava.
Dopo di che l’esecuzione dei lavori sarebbe stata interrotta
da cause di forza maggiore sopravvenute, identificate in
primo luogo nella necessità di spostamento della fognatura
pubblica che sarebbe stata eseguibile solo a mezzo di una
preventiva intesa con il Comune (attesa la natura pubblica
dell’infrastruttura) per la quale quest’ultimo sarebbe stato
interpellato con le note del 16-17.06.2016, senza
tuttavia ottenere alcun riscontro.
In secondo luogo, atteso che l’area è sita in fregio alla
strada statale n. 674, si riteneva necessario acquisire
l’autorizzazione dell’ANAS per l’occupazione di un terreno
ai margini del lotto e della strada, con i materiali ed i
mezzi d’opera, oltre che per aprire un varco di accesso
necessario per raggiungere l’area di costruzione.
3.1. La tesi non merita adesione.
E’ indubbio (e del resto neppure contestato
dall’interessata) che le attività preliminari poste in
essere dalla società sulla porzione di terreno interessata
dalla nuova edificazione non potevano ritenersi sufficienti
ad integrare il presupposto dell’effettivo inizio dei lavori
entro l’anno dal rilascio del permesso.
In tal senso la giurisprudenza è unanime nel ritenere che al
fine di impedire la decadenza del permesso di costruire,
l'avvio delle opere deve essere reale ed effettivo ovvero
manifestazione di un serio e comprovato intento di
esercitare il diritto ad edificare, e non solo apparente o
fittizio, volto al solo scopo di evitare la temuta perdita
di efficacia del titolo, con conseguente irrilevanza di
operazioni quali la ripulitura del sito, l'approntamento del
cantiere e dei materiali occorrenti per l'esecuzione dei
lavori nell'immobile, lo sbancamento del terreno (Cons. St.,
sez. VI, 19.09.2017 n. 4381; id., sez. V, 31.08.2017 n. 4150; TAR Campania Salerno, sez. II, 15.06.2018 n. 961).
3.2. Quanto ai fatti che avrebbero impedito in assenza della
volontà della ricorrente, e quindi per forza maggiore,
l’effettivo avvio dei lavori, in relazione alla problematica
della traslazione della condotta fognaria si rileva come
dagli atti di causa emerga che il titolo edificatorio era
stato rilasciato in conformità al progetto esecutivo, parte
integrante e sostanziale dello stesso, dopo l’adeguamento a
tutte le prescrizioni indicate nella premessa e quindi anche
a quelle inerenti al tracciato del tratto di fognatura
bianca. Non era perciò necessaria alcuna ulteriore intesa o
autorizzazione da parte del Comune.
In relazione poi all’autorizzazione richiesta ad ANAS è la
stessa ricorrente ad ammettere che detta Azienda,
riscontrando l’istanza, aveva comunicato che non era
necessaria alcuna autorizzazione, competendo semmai al
Comune di Siena il rilascio di eventuali permessi, peraltro
mai richiesti dall’interessata.
3.3. In ogni caso, ad evitare la decadenza del permesso di
costruire, tanto la normativa nazionale che quella regionale
chiariscono che la proroga del termine di inizio e fine
lavori “…può essere accordata, con provvedimento motivato,
per fatti sopravvenuti, estranei alla volontà del titolare
del permesso”, ma evidentemente prima della scadenza del
termine di validità del titolo e comunque solo con un
provvedimento espresso e motivato, fondato sulla verifica
dell'idoneità delle condizioni oggettive che giustificano la
richiesta.
4. Con il terzo motivo parte ricorrente si duole che
il Comune abbia adottato la decadenza del permesso di
costruire senza comunicazione dell’avvio del relativo
procedimento.
La doglianza è infondata.
E’ pacifico, infatti, che la decadenza del permesso di
costruire costituisce l'effetto automatico dell'inutile
decorso del termine entro cui i lavori si sarebbero dovuti
iniziare e concludere; pertanto, essa ha natura non già
costitutiva, bensì dichiarativa con efficacia ex tunc di un
effetto verificatosi ex se e direttamente e in tal modo va
letto l'art. 15, comma 2, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, in
virtù del quale, inutilmente decorsi detti termini, il
permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne
che, anteriormente alla scadenza, venga richiesta una
proroga (Cons. St., sez. IV, 04.03.2014, n. 1013; id.,
sez. IV, 15.04.2016 n. 1520).
Di qui l’evidente ultroneità della comunicazione di avvio
del procedimento dal momento che la partecipazione
dell’interessata non avrebbe comunque potuto determinare
alcun effetto in relazione all’oggettivo decorso del
termine.
In conclusione per quanto appena esposto il ricorso va
rigettato (TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza 12.10.2018 n. 1309 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Come è noto, le condizioni dell'azione giurisdizionale
amministrativa sono rinvenibili nella legittimazione ad
agire e nell'interesse a ricorrere, la prima intesa come
titolarità di una situazione soggettiva qualificata, la
seconda come vantaggio dall'accoglimento del ricorso ex art.
100 c.p.c., il che vale a qualificare la posizione
dell'istante distinguendola da quella, indifferenziata, del quisque de populo.
Nel caso di specie, se può convenirsi in merito
all’esistenza di un interesse della società che in tale
senso argomenta in ordine al pregiudizio che assume possa
derivarne alla propria posizione di promissario acquirente,
tale posizione si qualifica come interesse di mero fatto.
Non è infatti sufficiente che dalla proposizione del gravame
il ricorrente si proponga di conseguire una utilità o
posizione di vantaggio che attiene ad uno specifico bene
della vita, ma occorre anche, sul presupposto piano
sostanziale, che l’interessato sia titolare di una posizione
personale differenziata che lo ponga in relazione diretta
con l’atto che intende contestare tale da collocarlo in una
situazione differente dall'aspirazione alla mera ed astratta
legittimità dell'azione amministrativa genericamente
riferibile a tutti i consociati.
---------------
5. Con il ricorso rubricato al n. RG 336/2018 le società La
Pr. e Op. S.r.l. (promissaria acquirente del
terreno di cui la prima è proprietaria) contestano il
provvedimento del 28.12.2017 con cui il Comune di
Siena ha respinto l’istanza di permesso di costruire
nuovamente presentata.
6. Preliminarmente va esaminata l’eccezione, avanzata dalla
difesa del Comune, di difetto di legittimazione attiva a
ricorrere della Op. s.r.l. in quanto non titolare di
alcuna posizione sostanziale che ne sorregga in giudizio
l’azione proposta.
L’eccezione è fondata.
Come è noto, le condizioni dell'azione giurisdizionale
amministrativa sono rinvenibili nella legittimazione ad
agire e nell'interesse a ricorrere, la prima intesa come
titolarità di una situazione soggettiva qualificata, la
seconda come vantaggio dall'accoglimento del ricorso ex art.
100 c.p.c., il che vale a qualificare la posizione
dell'istante distinguendola da quella, indifferenziata, del
quisque de populo (Cons. Stato, sez. V, 29.03.2011 n.
1928; id., sez. IV n. 8364/2010; id., sez. VI n. 413/2010).
Nel caso di specie, se può convenirsi in merito
all’esistenza di un interesse della società che in tale
senso argomenta in ordine al pregiudizio che assume possa
derivarne alla propria posizione di promissario acquirente,
tale posizione si qualifica come interesse di mero fatto.
Non è infatti sufficiente che dalla proposizione del gravame
il ricorrente si proponga di conseguire una utilità o
posizione di vantaggio che attiene ad uno specifico bene
della vita, ma occorre anche, sul presupposto piano
sostanziale, che l’interessato sia titolare di una posizione
personale differenziata che lo ponga in relazione diretta
con l’atto che intende contestare tale da collocarlo in una
situazione differente dall'aspirazione alla mera ed astratta
legittimità dell'azione amministrativa genericamente
riferibile a tutti i consociati (Cons. Stato, sez. IV, 22.01.2018 n. 389).
Ne segue che va dichiarato il difetto di legittimazione
attiva della società Op. s.r.l. (TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza 12.10.2018 n. 1309 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Legittimazione del creditore ipotecario ad impugnare il
provvedimento di acquisizione al patrimonio comunale di un
immobile abusivo.
---------------
Processo amministrativo – Legittimazione attiva -
Acquisizione al patrimonio comunale di un immobile abusivo –
Impugnazione – Creditore ipotecario – Non è legittimato
E’ inammissibile il ricorso proposto
da un istituto bancario avverso il provvedimento di
acquisizione al patrimonio comunale di un immobile sul quale
è stato realizzato un abuso da un terzo destinatario di un
mutuo ipotecario, sul rilievo che l’eventuale mancata
inottemperanza comporti l’acquisizione dell’immobile al
patrimonio comunale con perdita del credito ipotecario (1).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che il creditore ipotecario, non rientrando
tra i soggetti che possono disporre giuridicamente e
materialmente del bene in modo da rimuovere le difformità
edilizie, non può ritenersi inciso in via diretta dal
provvedimento in esame.
La legittimazione ad impugnare un provvedimento
amministrativo deve essere direttamente correlata alla
situazione giuridica sostanziale che si assume lesa dal
provvedimento e postula l'esistenza di un interesse attuale
e concreto all'annullamento dell'atto; altrimenti
l'impugnativa verrebbe degradata al rango di azione popolare
a tutela dell'oggettiva legittimità dell'azione
amministrativa, con conseguente ampliamento della
legittimazione attiva al di fuori dei casi espressamente
previsti dalla legge, in insanabile contrasto con il
carattere di giurisdizione soggettiva che la normativa
legislativa e quella costituzionale hanno attribuito al
vigente sistema di giustizia amministrativa (Cons. St., sez.
IV, 13.12.2012, n. 6411).
Non solo, ma un interesse, perché possa essere tutelabile
con un'azione giurisdizionale amministrativa, deve essere,
oltre che attuale, personale, ossia differenziato
dall'interesse generico di ogni cittadino alla legalità
dell'azione amministrativa, ed anche la lesione, da cui
discende l'interesse all'impugnativa, oltre che attuale,
deve essere diretta, nel senso che incide in maniera
immediata sull'interesse legittimo della parte ricorrente;
di conseguenza un soggetto giuridico, pur dotato di
interesse di fatto, può essere privo di giuridica
legittimazione a proporre un'azione giudiziaria, qualora la
stessa, sia pure strumentalmente, sia volta a provocare
effetti giuridici (ancorché indiretti e mediati) nella sfera
di un altro soggetto, in quanto l'esercizio nell'ambito del
giudizio amministrativo dell'azione non può essere delegato
fuori da una espressa previsione di legge, né surrogato
dall'azione sostitutoria di un altro soggetto, ancorché
portatore di interessi convergenti o connessi (Cons. St.,
sez. V, 13.05.2014, n. 2439).
Quindi, anche se si potesse valorizzare il riferimento al
successivo, e solo eventuale, provvedimento di acquisizione
del bene al patrimonio comunale, rimane ferma
l’impossibilità per il creditore ipotecario a ricorrere in
via diretta ed autonoma avverso l’ordinanza di demolizione,
posto che, altrimenti, finirebbe, sostanzialmente, per
surrogarsi nelle azioni che avrebbe dovuto azionare il
destinatario dei provvedimenti ex art. 31, d.P.R. n. 380 del
2001 (TAR Valle
d’Aosta,
sentenza 12.10.2018 n. 48 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
2. Ciò detto, il ricorso è inammissibile.
2.1. E’ indubbio che laddove l’ordine di demolizione delle
opere abusive non venga adempiuto, il Comune potrà procedere
all’acquisizione dell’immobile sul quale insiste l’opera
abusiva, alle condizioni di cui all’art. 31 d.p.r. 380/2001.
D’altronde,
ai fini della legittimazione ad impugnare
l'ordine di demolizione, deve considerarsi come l'art. 31, d.P.R. n. 380 del 2001, nell'individuare i soggetti
destinatari delle misure repressive nel proprietario e nel
responsabile dell'abuso, considera quale soggetto passivo
della demolizione il soggetto che ha il potere di rimuovere
concretamente l'abuso, potere che compete indubbiamente al
proprietario, anche se non responsabile in via diretta
(TAR Roma, (Lazio), sez. II, 01/12/2017, n. 11903).
Per contro, il creditore ipotecario, non rientrando tra i
soggetti che possono disporre giuridicamente e materialmente
del bene in modo da rimuovere le difformità edilizie, non
può ritenersi inciso in via diretta dal provvedimento in
esame.
La legittimazione ad impugnare un provvedimento
amministrativo deve essere direttamente correlata alla
situazione giuridica sostanziale che si assume lesa dal
provvedimento e postula l'esistenza di un interesse attuale
e concreto all'annullamento dell'atto; altrimenti
l'impugnativa verrebbe degradata al rango di azione popolare
a tutela dell'oggettiva legittimità dell'azione
amministrativa, con conseguente ampliamento della
legittimazione attiva al di fuori dei casi espressamente
previsti dalla legge, in insanabile contrasto con il
carattere di giurisdizione soggettiva che la normativa
legislativa e quella costituzionale hanno attribuito al
vigente sistema di giustizia amministrativa (Cons. Stato,
sez. IV, 13/12/2012, n. 6411).
Non solo, ma un interesse, perché possa essere tutelabile
con un'azione giurisdizionale amministrativa, deve essere,
oltre che attuale, personale, ossia differenziato
dall'interesse generico di ogni cittadino alla legalità
dell'azione amministrativa, ed anche la lesione, da cui
discende l'interesse all'impugnativa, oltre che attuale,
deve essere diretta, nel senso che incide in maniera
immediata sull'interesse legittimo della parte ricorrente;
di conseguenza un soggetto giuridico, pur dotato di
interesse di fatto, può essere privo di giuridica
legittimazione a proporre un'azione giudiziaria, qualora la
stessa, sia pure strumentalmente, sia volta a provocare
effetti giuridici (ancorché indiretti e mediati) nella sfera
di un altro soggetto, in quanto l'esercizio nell'ambito del
giudizio amministrativo dell'azione non può essere delegato
fuori da una espressa previsione di legge, né surrogato
dall'azione sostitutoria di un altro soggetto, ancorché
portatore di interessi convergenti o connessi (Cons. Stato,
sez. V, 13/05/2014, n. 2439).
Quindi, anche se si potesse valorizzare il riferimento al
successivo, e solo eventuale, provvedimento di acquisizione
del bene al patrimonio comunale, rimane ferma
l’impossibilità per il creditore ipotecario a ricorrere in
via diretta ed autonoma avverso l’ordinanza di demolizione,
posto che, altrimenti, finirebbe, sostanzialmente, per
surrogarsi nelle azioni che avrebbe dovuto azionare il
destinatario dei provvedimenti ex art. 31 d.p.r. 380/2001.
In questo senso, è certamente ammissibile per il creditore
ipotecario intervenire ad adiuvandum nel caso di
impugnazione proposta dal destinatario dell’ordine di
demolizione (o del successivo provvedimento dichiarativo
dell’acquisizione al patrimonio comunale), ma, al contrario,
laddove quest’ultimo rimanga inerte e, quindi, lasci spirare
il termine decadenziale per l’impugnazione dei provvedimenti
di diffida e di ordine di demolizione, un ricorso autonomo
da parte del creditore pignorante non può ritenersi
ammissibile perché chiaramente avente natura “surrogatoria”
e comunque inconciliabile con la già intervenuta definitività degli accertamenti relativamente al carattere
abusivo delle opere e, quindi, alla necessità di procedere
con la demolizione.
Pertanto, in via generale, il creditore ipotecario deve
ritenersi privo di legittimazione ad agire con riguardo
all’intera serie dei provvedimenti contemplati dall’art 31
T.U. edilizia.
2.2. La conferma di quanto sopra emerge chiaramente anche
dall’esame della disciplina civilistica dell’ipoteca.
Pur trattandosi di un diritto che, secondo l’opinione
prevalente, ha natura “reale”, la caratteristica principale
dello stesso è che non conferisce poteri o facoltà di
godimento del bene ipotecato, ma si limita, da un lato, ad
attribuire al titolare un diritto potestativo di duplice
contenuto (espropriare e far vendere la cosa e poi
soddisfarsi sul ricavato con preferenza sugli altri
creditori) e, dall’altro lato, a vincolare la cosa senza
però impedirne o limitarne l’attuale godimento o
disposizione importando soltanto una possibile
espropriazione futura.
In questo senso, i poteri del creditore ipotecario a tutela
della propria garanzia con riguardo all’esistenza e
consistenza del bene ipotecato sono limitati.
L’art. 2813 c.c., ai sensi del quale <<qualora il debitore o
un terzo compia atti da cui possa derivare il perimento o il
deterioramento dei beni ipotecati, il creditore può
domandare all'autorità giudiziaria che ordini la cessazione
di tali atti o disponga le cautele necessarie per evitare il
pregiudizio della sua garanzia>>, infatti, si riferisce ai
soli pericoli di “danni materiali” (come emerge chiaramente
anche dall’esame della relazione al codice civile).
Per contro, l’art. 2878, n. 4 c.c. prevede, quale causa di
estinzione dell’ipoteca, il “perimento del bene ipotecato”.
Al riguardo, la Corte di Cassazione ha sottolineato che
l'ordinanza di acquisizione gratuita al patrimonio
indisponibile del Comune dell'immobile costruito in totale
difformità o assenza della concessione, emessa dal Sindaco
ai sensi dell'art. 7 della legge n. 47 del 1985, che si
connota per la duplice funzione di sanzionare comportamenti
illeciti e di prevenire perduranti effetti dannosi di essi,
dà luogo ad acquisto a titolo originario, con la conseguenza
che l'ipoteca e gli altri eventuali pesi e vincoli
preesistenti vengono caducati unitamente al precedente
diritto dominicale, senza che rilevi l'eventuale anteriorità
della relativa trascrizione o iscrizione.
La fattispecie è
assimilabile al perimento del bene, ipotesi nella quale si
estingue l'ipoteca, giacché l'immobile abusivo è destinato
al "perimento giuridico", normalmente conseguente alla
demolizione, salva la eccezionale acquisizione al patrimonio
comunale, che lo trasforma irreversibilmente in "res extra commercium" sotto il profilo dei diritti del debitore e dei
terzi che vantino diritti reali limitati sul bene (così, Cass., ord. n. 23453 del 06/10/2017).
E’ evidente, allora, che il provvedimento di acquisizione
gratuita si pone come un evento esterno alla sfera di
controllo e al potere di intervento del creditore ipotecario
che ne subisce le conseguenze senza poter concretamente
opporsi allo stesso.
2.3. Sotto altro profilo, poi, laddove si ammettesse la
legittimazione e l’interesse ad agire in capo a parte
ricorrente avverso l’ordinanza di demolizione, si dovrebbe,
altresì, affermare la medesima situazione con riguardo al
precedente provvedimento di diffida a demolire.
Ma, in tal caso, il ricorso in esame risulterebbe comunque
inammissibile in quanto Banca Sella per un verso, non ha
impugnato in questa sede anche le diffide a demolire nn.
1/17 e 2/17 e, dall’altro lato, ha dedotto la difformità tra
l’ordine di demolizione e la diffida 1/17, quando
l’ordinanza di demolizione consegue alla diffida n. 2/17,
che è motivata specificamente con riguardo all’art. 78 e non
80 d.p.r. 380/2001.
Al riguardo, occorre rammentare che, secondo la
giurisprudenza di questo TAR, la diffida a demolire è
idonea a produrre un doppio effetto lesivo a carico del
destinatario dell'atto atteso che, in primo luogo, qualifica
come abusivi manufatti aventi rilievo edilizio che il Comune
assume essere stati realizzati in assenza o in difformità
dal titolo abilitativo; in secondo luogo, mette in mora il
destinatario a dare esecuzione all'ordine entro il termine
previsto dalla legge, pena l'esecuzione in danno e
l'applicazione di eventuali sanzioni accessorie; ne consegue
che la diffida a demolire va impugnata tempestivamente, onde
impedire il consolidamento quantomeno del primo effetto
lesivo (ossia la qualificazione delle opere come abusive)….
(TAR Valle d'Aosta, sez. I, 17/04/2018, n. 25).
Il procedimento di repressione degli abusi edilizi delineato
dall'art. 77, l.reg. Valle d'Aosta n. 11 del 1998, infatti,
è articolato in due fasi che danno luogo a distinti sub
procedimenti; il primo si conclude con la diffida a demolire
e il secondo, nel presupposto di quest'ultima, con
l'ordinanza di demolizione; i due atti sono autonomi ed
entrambi impugnabili per i vizi loro propri, dato che
incidono in modo pregiudizievole sugli interessi del
destinatario; la diffida è un necessario presupposto
dell'ordinanza di demolizione (e infatti quest’ultima è
illegittima se emanata in difetto della prima) cosicché il
suo annullamento facendo venir meno il presupposto
necessario dell’ordinanza di demolizione determina
l’automatica caducazione di quest’ultima (secondo lo schema
della c.d. invalidità caducante) (TAR Valle d'Aosta, sez.
I, 10/07/2013, n. 46).
2.4. Conclusivamente, il ricorso deve essere dichiarato
inammissibile. |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
In tema di abuso d'ufficio, la
prova del dolo
intenzionale, che qualifica la fattispecie di cui all'art.
323 cod. pen., prescinde
dall'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che
si intende favorire,
potendo essere desunta anche dalla macroscopica
illegittimità dell'atto, sempre
che tale valutazione non discenda in modo apodittico e
parziale dal
comportamento non iure dell'agente, ma risulti anche da
elementi ulteriori
concordemente dimostrativi dell'intento di conseguire un
vantaggio patrimoniale
o di cagionare un danno ingiusto, profilo questo che nel
caso di specie è stato
adeguatamente approfondito dai giudici di merito, attraverso
il richiamo alla
reiterazione dei provvedimenti palesemente illegittimi,
nonostante le plurime
"anomalie" della procedura amministrativa, da parte di un
funzionario che, anche
in considerazione della contenuta estensione del Comune dove
sono avvenuti i
fatti, avrebbe avuto tutti gli strumenti per poter porre
rimedio alle carenze e alle
contraddizioni di una istanza insuscettibile di essere
accolta, per come formulata,
non essendo di per sé dirimente in senso contrario il
conseguimento di pareri
interlocutori favorevoli da parte di altri Enti, alla luce
del ruolo maggiormente
incisivo riconosciuto al titolare del potere di rilasciare
il provvedimento finale.
---------------
4. Passando infine al ricorso proposto nell'interesse di Mo., occorre
iniziare dai primi due motivi, che possono essere trattati
congiuntamente,
inerendo entrambi il giudizio sulla sussistenza del delitto
di abuso d'ufficio.
Al riguardo, le due conformi sentenze di merito hanno
ricostruito i singoli
passaggi dell'iter amministrativo che ha portato al
rilascio, da parte di Mo.,
Responsabile dell'Ufficio Tecnico del Comune di Patù, del
permesso di costruire
n. 14 del 06.03.2008 in favore della Mi., con il quale
veniva assentito
l'intervento richiesto, cioè il recupero di un vecchio
fabbricato rurale, da
destinare ad abitazione, mentre nell'area interessata non
era mai preesistito
alcun fabbricato rurale e doveva parlarsi non di
manutenzione straordinaria, ma
di una vera e propria "nuova costruzione", non assentibile
nel caso concreto.
Come correttamente osservato nella sentenza impugnata,
stante la pochezza di
informazioni presenti negli atti forniti dai richiedenti e
anzi in presenza di una
foto eloquente dell'immobile preesistente, di cui era stata
omessa l'indicazione di
qualsiasi dimensione, l'imputato avrebbe potuto e dovuto
sciogliere le evidenti
perplessità derivanti dal contenuto ambiguo degli atti a sua
disposizione
attivando i suoi poteri di controllo, anche mediante un
eventuale sopralluogo.
Se è vero infatti che il sopralluogo del tecnico comunale
nella prassi non
costituisce un'evenienza frequente, è altrettanto innegabile
che lo stesso si rende
doveroso, in alternativa al rigetto allo stato dell'istanza,
qualora la pratica
amministrativa presenti incongruenze meritevoli di necessari
approfondimenti.
E nel caso di specie, ribadito lo scarso valore probatorio
delle già richiamate
dichiarazioni dei testi della difesa, non c'è dubbio che
l'intera procedura è
risultata scandita da profonde anomalie: l'assenza
nell'istanza di riferimenti alla
volumetria, la falsa rappresentazione di un immobile
preesistente, l'omessa
comunicazione dei tecnici e della ditta appaltatrice dei
lavori, la mancata
allegazione del Durc, la reiterazione della condotte, stante
il rilascio del
permesso in sanatoria, e la circostanza che, rispetto al
tratturo, per il quale vi
era solo una comunicazione di inizio lavori, erano state
sequestrate delle bozze
dei provvedimenti di sospensione dei predetti lavori prive
di data certa e inviate
sei mesi dopo la comunicazione e l'invito del Sindaco di
eseguire un sopralluogo.
Tutte queste circostanze hanno ragionevolmente indotto i
giudici di merito a
ritenere ravvisabile una macroscopica violazione della
normativa urbanistica, che
ha consentito alla Mi. di conseguire un titolo abilitativo
cui non aveva diritto, a
seguito di un'istruttoria palesemente lacunosa, nonostante
la presenza di plurimi
indizi di illegittimità della tipologia dell'intervento
edilizio oggetto della richiesta.
A fronte di tali elementi, correttamente è stata ritenuta
non necessaria ai fini
della sussistenza del reato contestato la prova di un vero e
proprio patto
collusivo tra la Mi. e Mo., dovendosi richiamare al
riguardo la costante
affermazione di questa Corte (cfr. ex multis Sez. 3, n.
57914 del 28/09/2017,
Rv. 272331), secondo cui, in tema di abuso d'ufficio, la
prova del dolo
intenzionale, che qualifica la fattispecie di cui all'art.
323 cod. pen., prescinde
dall'accertamento dell'accordo collusivo con la persona che
si intende favorire,
potendo essere desunta anche dalla macroscopica
illegittimità dell'atto, sempre
che tale valutazione non discenda in modo apodittico e
parziale dal
comportamento non iure dell'agente, ma risulti anche da
elementi ulteriori
concordemente dimostrativi dell'intento di conseguire un
vantaggio patrimoniale
o di cagionare un danno ingiusto, profilo questo che nel
caso di specie è stato
adeguatamente approfondito dai giudici di merito, attraverso
il richiamo alla
reiterazione dei provvedimenti palesemente illegittimi,
nonostante le plurime
"anomalie" della procedura amministrativa, da parte di un
funzionario che, anche
in considerazione della contenuta estensione del Comune dove
sono avvenuti i
fatti, avrebbe avuto tutti gli strumenti per poter porre
rimedio alle carenze e alle
contraddizioni di una istanza insuscettibile di essere
accolta, per come formulata,
non essendo di per sé dirimente in senso contrario il
conseguimento di pareri
interlocutori favorevoli da parte di altri Enti, alla luce
del ruolo maggiormente
incisivo riconosciuto al titolare del potere di rilasciare
il provvedimento finale.
In definitiva, la motivazione della sentenza impugnata, in
quanto aderente alle
risultanze probatorie acquisite e in linea con le
coordinate interpretative prima
richiamate, resiste ampiamente alle censure difensive, che
si limitano a
riproporre temi già trattati ed efficacemente superati dai
giudici di appello con
arg omenti privi di elementi di illogicità e dunque non
censurabili in questa sede (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 11.10.2018 n. 46080). |
EDILIZIA PRIVATA:
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Realizzazione di
insediamenti civili e ad attività produttive in zone boscate
- INCENDI BOSCHIVI - Edificazione in aree percorse dal fuoco
- BOSCHI E MACCHIA MEDITERRANEA - Destinazione dell'area e
vincoli - Art. 10 L. n. 353/2000 - Art. 44, d.P.R. n.
380/2001 - Giurisprudenza.
La realizzazione di edifici, strutture
ed infrastrutture, finalizzati ad insediamenti civili e ad
attività produttive in zone boscate o di pascolo, i cui
soprassuoli siano stati percorsi dal fuoco, è consentita nei
casi in cui tale possibilità sia stata prevista prima
dell'incendio dagli strumenti urbanistici all'epoca vigenti,
e richiede altresì che l'area sia già stata riservata a tale
scopo dallo strumento urbanistico (irrilevante essendo la
generica compatibilità dell'intervento con la destinazione
dell'area) (Sez.
3, n. 32807 del 23/04/2013, Timori; Sez. 3, n. 16592 del
31/03/2011, Siracusa; Sez. 3, n. 36106 del 22/09/2011,
Canedi).
In proposito, si riporta il tenore della
norma di cui all'art. 10, comma 1, della legge 21.11.2000,
n. 353, Legge quadro in materia di incendi boschivi ("Le
zone boscate ed i pascoli i cui soprassuoli siano stati
percorsi dal fuoco non possono avere una destinazione
diversa da quella preesistente all'incendio per almeno
quindici anni [ ... ] E' inoltre vietata per dieci anni, sui
predetti soprassuoli, la realizzazione di edifici nonché di
strutture e infrastrutture finalizzate ad insediamenti
civili ed attività produttive, fatti salvi i casi in cui
detta realizzazione sia stata prevista in data precedente
l'incendio dagli strumenti urbanistici vigenti a tale data") (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 11.10.2018 n. 46042 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' ben noto che per consolidata giurisprudenza
civile ed amministrativa “l’iscrizione di una strada
nell'elenco delle vie pubbliche o gravate da uso pubblico
riveste funzione puramente dichiarativa della pretesa del
comune, ponendo una semplice presunzione di pubblicità
dell’uso, superabile con la prova contraria della natura
della strada e dell’inesistenza di un diritto di godimento
da parte della collettività mediante un’azione negatoria di
servitù".
Tal iscrizione è quindi superabile con la prova contraria
della sua natura privata e dell'inesistenza di un diritto di
godimento da parte della collettività.
---------------
Senza alcuna pretesa di completezza, si rammenta in
proposito che costituirebbero principi consolidati quelli
secondo cui:
● "per l'attribuzione del carattere di demanialità
comunale ad una via privata è necessario che con la
destinazione della strada all'uso pubblico concorra
l'intervenuto acquisto, da parte dell'ente locale, della
proprietà del suolo relativo (per effetto di un contratto,
in conseguenza di un procedimento d'esproprio, per effetto
di usucapione o dicatio ad patriam, ecc.), non valendo, in
difetto dell'appartenenza della sede viaria al Comune,
l'iscrizione della via negli elenchi delle strade comunali,
giacché tale iscrizione non può pregiudicare le situazioni
giuridiche attinenti alla proprietà del terreno e connesse
con il regime giuridico della medesima, né la natura
pubblica di una strada può essere desunta dalla
prospettazione della mera previsione programmatica di tale
destinazione, dall'espletamento su di essa, di fatto, del
pubblico transito per un periodo infraventennale, o
dall'intervento di atti di riconoscimento
dell'amministrazione medesima circa la funzione assolta da
una determinata strada". Invero:
- "affinché un'area assuma la
natura di strada pubblica, non basta né che vi si esplichi
di fatto il transito del pubblico (con la sua concreta,
effettiva ed attuale destinazione al pubblico transito e la
occupazione sine titulo dell'area da parte della p.a.) né
l'intervento di atti di riconoscimento da parte
dell'Amministrazione medesima circa la funzione da essa
assolta, ma è invece necessario, ai sensi dell'art. 824 c.c.,
che la strada risulti di proprietà di un ente pubblico
territoriale in base ad un atto o fatto (fra cui anche
l'usucapione) idoneo a trasferire il dominio, ovvero che su
di essa sia stata costituita a favore dell'Ente una servitù
di uso pubblico e che essa venga destinata, con una
manifestazione di volontà espressa o tacita, all'uso
pubblico, ossia per soddisfare le esigenze di una
collettività di persone qualificate dall'appartenenza ad una
comunità territoriale";
●
ulteriore necessaria precisazione
sarebbe che "una strada rientra nella categoria delle vie
vicinali pubbliche se sussistono i requisiti del passaggio
esercitato jure servitutis publicae da una collettività di
persone qualificate dall'appartenenza ad una comunità
territoriale, della concreta idoneità della strada a
soddisfare esigenze di generale interesse, anche per il
collegamento con la pubblica via, e dell'esistenza di un
titolo valido a sorreggere l'affermazione del diritto di uso
pubblico";
●
del resto, "l'adibizione
ad uso pubblico di una strada è desumibile quando il tratto
viario, per le sue caratteristiche, assuma una esplicita
finalità di collegamento, essendo destinato al transito di
un numero indifferenziato di persone oppure quando vi sia
stato, con la cosiddetta dicatio ad patriam, l'asservimento
del bene da parte del proprietario all'uso pubblico di una
comunità, di talché il bene stesso viene ad assumere le
caratteristiche analoghe a quelle dí un bene demaniale".
Invero:
-
"affinché un'area possa ritenersi sottoposta ad un uso
pubblico è necessario oltre che l'intrinseca idoneità del
bene, che l'uso avvenga ad opera di una collettività
indeterminata di persone e per soddisfare un pubblico,
generale interesse";
- "ai
fini della qualificazione di una strada come vicinale
pubblica, occorre avere riguardo alle sue condizioni
effettive, [...], la concreta idoneità del bene a soddisfare
esigenze di carattere generale, anche per il collegamento
con la pubblica via e un titolo valido a sorreggere
l'affermazione del diritto di uso pubblico, che può anche
identificarsi nella protrazione dell'uso da tempo
immemorabile. Qualora difetti l'iscrizione della strada
nell'elenco delle strade vicinali di uso pubblico
(iscrizione costituente presunzione iuris tantum, superabile
con la prova contraria, dell'esistenza di un diritto di uso
o di godimento della strada da parte della collettività), è
l'Amministrazione che ha l'onere di accertare, con rigorosa
istruttoria, la sussistenza dei sopra indicati requisiti";
●
peraltro "la sdemanializzazione di un bene pubblico -ed a fortiori la sottrazione di un bene patrimoniale
indisponibile alla sua originaria destinazione- oltre che
frutto di una esplicita determinazione, può essere il
portato di comportamenti univoci tenuti dall'Amministrazione
proprietaria che si appalesano in modo concludente
[incompatibili con la volontà di conservare la destinazione
del bene all'uso pubblico]".
---------------
2. Nel merito, (e considerato che il capo con il quale il Tar ha affermato la propria giurisdizione è rimasto
inimpugnato) come in premessa anticipato l’appello è
infondato in quanto:
a) è ben noto che per consolidata giurisprudenza civile ed
amministrativa (tra le tante, Cassazione civile, sez. un.,
23/12/2016, n. 26897 Cons. di Stato sez. IV, n. 1515 del
19.03.2015; Cons. di Stato sez, VI, n. 4952 dell'08.10.2013;
Cass. Civ. n. 21125 del 19.10.2015 TAR Napoli,
(Campania), sez. VIII, 10/10/2016, n. 4640 “l’iscrizione di
una strada nell'elenco delle vie pubbliche o gravate da uso
pubblico riveste funzione puramente dichiarativa della
pretesa del comune, ponendo una semplice presunzione di
pubblicità dell’uso, superabile con la prova contraria della
natura della strada e dell’inesistenza di un diritto di
godimento da parte della collettività mediante un’azione
negatoria di servitù;”;
b) tale iscrizione è quindi superabile con la prova
contraria della sua natura privata e dell'inesistenza di un
diritto di godimento da parte della collettività;
c) sennonché, nel caso di specie, tale prova non è stata
fornita, ed anzi l’appellante continua a fare riferimento al
proprio atto di acquisto, ma non apporta alcun elemento atto
a contestare la tesi del comune.
d) come è noto, la questione concernente la riconducibilità
di una strada ad uso pubblico è stata assai sovente
esaminata dalla giurisprudenza amministrativa e civile.
Senza alcuna pretesa di completezza, si rammenta in
proposito che costituirebbero principi consolidati quelli
secondo cui:
● "per l'attribuzione del carattere di demanialità
comunale ad una via privata è necessario che con la
destinazione della strada all'uso pubblico concorra
l'intervenuto acquisto, da parte dell'ente locale, della
proprietà del suolo relativo (per effetto di un contratto,
in conseguenza di un procedimento d'esproprio, per effetto
di usucapione o dicatio ad patriam, ecc.), non valendo, in
difetto dell'appartenenza della sede viaria al Comune,
l'iscrizione della via negli elenchi delle strade comunali,
giacché tale iscrizione non può pregiudicare le situazioni
giuridiche attinenti alla proprietà del terreno e connesse
con il regime giuridico della medesima, né la natura
pubblica di una strada può essere desunta dalla
prospettazione della mera previsione programmatica di tale
destinazione, dall'espletamento su di essa, di fatto, del
pubblico transito per un periodo infraventennale, o
dall'intervento di atti di riconoscimento
dell'amministrazione medesima circa la funzione assolta da
una determinata strada" [v. Cons. Stato, sez. VI, 08.10.2013, n. 4952; v., altresì, TAR Trento, sez. 1, 21.11.2012, n. 341, per cui "affinché un'area assuma la
natura di strada pubblica, non basta né che vi si esplichi
di fatto il transito del pubblico (con la sua concreta,
effettiva ed attuale destinazione al pubblico transito e la
occupazione sine titulo dell'area da parte della p.a.) né
l'intervento di atti di riconoscimento da parte
dell'Amministrazione medesima circa la funzione da essa
assolta, ma è invece necessario, ai sensi dell'art. 824 c.c.,
che la strada risulti di proprietà di un ente pubblico
territoriale in base ad un atto o fatto (fra cui anche
l'usucapione) idoneo a trasferire il dominio, ovvero che su
di essa sia stata costituita a favore dell'Ente una servitù
di uso pubblico e che essa venga destinata, con una
manifestazione di volontà espressa o tacita, all'uso
pubblico, ossia per soddisfare le esigenze di una
collettività di persone qualificate dall'appartenenza ad una
comunità territoriale"];
● ulteriore necessaria precisazione
sarebbe che "una strada rientra nella categoria delle vie
vicinali pubbliche se sussistono i requisiti del passaggio
esercitato jure servitutis publicae da una collettività di
persone qualificate dall'appartenenza ad una comunità
territoriale, della concreta idoneità della strada a
soddisfare esigenze di generale interesse, anche per il
collegamento con la pubblica via, e dell'esistenza di un
titolo valido a sorreggere l'affermazione del diritto di uso
pubblico" (v. Cass. 05.07.2013, n. 16864);
● del resto, "l'adibizione
ad uso pubblico di una strada è desumibile quando il tratto
viario, per le sue caratteristiche, assuma una esplicita
finalità di collegamento, essendo destinato al transito di
un numero indifferenziato di persone oppure quando vi sia
stato, con la cosiddetta dicatio ad patriam, l'asservimento
del bene da parte del proprietario all'uso pubblico di una
comunità, di talché il bene stesso viene ad assumere le
caratteristiche analoghe a quelle dí un bene demaniale" (v. Cons. Stato, sez. IV, 21.10.2013, n. 5116; v., altresì, Cons. Stato, sez. IV, 25.06.2012, n. 3531, per la quale
"affinché un'area possa ritenersi sottoposta ad un uso
pubblico è necessario oltre che l'intrinseca idoneità del
bene, che l'uso avvenga ad opera di una collettività
indeterminata di persone e per soddisfare un pubblico,
generale interesse"; TAR Milano, sez. Il, 09.01.2013,
n. 42; v. TAR Lecce, sez. I, 11.02.2013, n. 297 "ai
fini della qualificazione di una strada come vicinale
pubblica, occorre avere riguardo alle sue condizioni
effettive, [...], la concreta idoneità del bene a soddisfare
esigenze di carattere generale, anche per il collegamento
con la pubblica via e un titolo valido a sorreggere
l'affermazione del diritto di uso pubblico, che può anche
identificarsi nella protrazione dell'uso da tempo
immemorabile. Qualora difetti l'iscrizione della strada
nell'elenco delle strade vicinali di uso pubblico
(iscrizione costituente presunzione iuris tantum, superabile
con la prova contraria, dell'esistenza di un diritto di uso
o di godimento della strada da parte della collettività), è
l'Amministrazione che ha l'onere di accertare, con rigorosa
istruttoria, la sussistenza dei sopra indicati requisiti"
(v. TAR Napoli, sez. VIII, 19.12.2012, n. 5250; v.,
altresì, TAR Napoli, sez. II, 17.07.2008, n. 8869);
● peraltro
"la sdemanializzazione di un bene pubblico -ed a fortiori la sottrazione di un bene patrimoniale
indisponibile alla sua originaria destinazione- oltre che
frutto di una esplicita determinazione, può essere il
portato di comportamenti univoci tenuti dall'Amministrazione
proprietaria che si appalesano in modo concludente
[incompatibili con la volontà di conservare la destinazione
del bene all'uso pubblico]" (v. Cons. Stato, sez. VI, 27.11.2002, n. 6597; TAR Pescara 17.10.2005, n.
580).
3.1. Nel caso di specie, la vicenda è connotata dalle
seguenti emergenze processuali:
a) l’inclusione della via sulla cui natura si controverte
nell’elenco delle strade comunali ai sensi della L. 12.02.1958 n. 126 con correlativa presunzione (seppur
iuris tantum) della natura pubblicistica della stessa;
b) l’ulteriore dato della insistenza, sulla predetta via
della pubblica illuminazione (così la giurisprudenza sin da
tempo risalente TAR, Lazio, sez. II, 19/03/1990, n. 729
“l'insistenza di segnaletica stradale, la percorrenza di
linee pubbliche urbane, l'illuminazione, la funzione di
raccordo con altre strade ed a sbocco su piazza e su
pubbliche vie sono tutti elementi univoci per il
riconoscimento della qualità di strada comunale all'interno
degli abitati ai sensi dell'art. 7 sub c) l. 12.02.1958 n. 126.”);
c) l’assenza di prove di segno contrario prospettate da
parte appellante, tali non potendo considerarsi le
apodittiche affermazioni in punto di insussistenza di un
interesse della collettività all’utilizzo della detta via.
4.Alla stregua dei superiori dati, l’appello deve essere
quindi in parte dichiarato inammissibile, ed in parte
respinto (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.10.2018 n. 5820 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI
LOCALI - VARI:
Sulla vendita di pane -non confezionato- sulla pubblica via
esposto agli agenti atmosferici in grado di alternarne le
proprietà intrinseche.
Ai fini della configurabilità della contravvenzione
prevista dall'art. 5, lett. b, della legge 30.04.1962 n.
283, che vieta l'impiego nella produzione di alimenti, la
vendita, la detenzione per la vendita, la somministrazione,
o comunque la distribuzione per il consumo, di sostanze
alimentari in cattivo stato di conservazione, non è
necessario che quest'ultimo si riferisca alle
caratteristiche intrinseche di dette sostanze, ma è
sufficiente che esso concerna le modalità estrinseche con
cui si realizza, le quali devono uniformarsi alle
prescrizioni normative, se sussistenti, ovvero, in caso
contrario, a regole di comune esperienza.
In questo senso, lo stato di cattiva
conservazione riguarda quelle situazioni in cui le sostanze
alimentari, pur potendo essere ancora genuine e sane, si
presentano mal conservate, e cioè preparate, confezionate o
messe in vendita senza l'osservanza delle prescrizioni
dirette a prevenire il pericolo di una loro precoce
degradazione contaminazione o comunque alterazione del
prodotto.
In particolare,
il termine "stato di conservazione", seppur
ambiguo, nella maggior parte delle ipotesi indica l'insieme
della attività volte al mantenimento delle caratteristiche
originarie di una cosa.
A sostegno di questa ricostruzione milita
anche un altro aspetto di carattere sistematico:
diversamente ragionando nessuno spazio di operatività
avrebbe la disposizione di cui all'art. 5, lett. b, a fronte
delle lett. a, c, d, le quali, nell'arco che va dalla
privazione degli elementi nutritivi all'alterazione degli
stessi, abbracciano tutti gli aspetti oggettivamente
rilevabili di degenerazione delle caratteristiche
intrinseche degli alimenti.
Da qui la conclusione che il cattivo stato
di conservazione della lett. b riguarda quelle situazioni in
cui le sostanze alimentari, pur potendo essere ancora
perfettamente genuine e sane, si presentano mal conservate e
cioè preparate o confezionate o messe in vendita senza
l'osservanza di quelle prescrizioni di leggi, regolamenti o
atti amministrativi generali che sono dettate a garanzia
della buona conservazione al fine di prevenire il pericolo
di una loro precoce degradazione, contaminazione o comunque
alterazione (scatolame bombato, arrugginito, involucri
forati, intaccati, unti, bagnati, esposizione prolungata ai
raggi solari di vino e olio, latte lasciato a temperature
inadeguate, alimenti collocati in prossimità di insetti e
simili).
Dunque, ai fini dell'integrazione della
contravvenzione in esame si deve ritenere sufficiente
l'inosservanza delle prescrizioni igienico-sanitarie volte a
garantire la buona conservazione del prodotto.
Tale è il caso della messa in vendita di
pane non confezionato sulla pubblica via esposto, perciò,
agli agenti atmosferici in grado di alternarne le proprietà
intrinseche.
---------------
1. Con sentenza in data 12.06.2015, il Tribunale di Napoli
ha condannato Sa.Ca., alla pena di € 206,00 di ammenda, con
il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche,
per il reato di cui agli artt. 5, lett. b), e 6 della legge
n. 283 del 1962 perché, in forma ambulante, deteneva per la
vendita Kg 10 di pane in cattivo stato di conservazione
sotto il profilo igienico-sanitario, in quanto privo di
protezione ed esposto ad inquinamento ambientale.
...
4. Il ricorso è manifestamente infondato.
Va osservato che costituisce orientamento consolidato nella
giurisprudenza di legittimità quello secondo cui, ai fini della configurabilità della contravvenzione
prevista dall'art. 5, lett. b, della legge 30.04.1962 n.
283, che vieta l'impiego nella produzione di alimenti, la
vendita, la detenzione per la vendita, la somministrazione,
o comunque la distribuzione per il consumo, di sostanze
alimentari in cattivo stato di conservazione, non è
necessario che quest'ultimo si riferisca alle
caratteristiche intrinseche di dette sostanze, ma è
sufficiente che esso concerna le modalità estrinseche con
cui si realizza, le quali devono uniformarsi alle
prescrizioni normative, se sussistenti, ovvero, in caso
contrario, a regole di comune esperienza
(Sez. U, n. 443 del 19/12/2001, Butti, Rv. 220716; Sez. 3,
n. 44927 del 14/06/2016, Ballico, Rv. 268715; Sez. 3, n.
15094 del 11/03/2010, Greco, Rv. 246970).
In questo senso, lo stato di cattiva
conservazione riguarda quelle situazioni in cui le sostanze
alimentari, pur potendo essere ancora genuine e sane, si
presentano mal conservate, e cioè preparate, confezionate o
messe in vendita senza l'osservanza delle prescrizioni
dirette a prevenire il pericolo di una loro precoce
degradazione contaminazione o comunque alterazione del
prodotto (Sez. 3,
n. 33313 del 28/11/2012, Maretto, Rv. 257130; Sez. 3, n.
35234 del 28/06/2007, Lepori, Rv. 237519).
In particolare, secondo l'arresto delle S.U. Butti il termine "stato di conservazione", seppur
ambiguo, nella maggior parte delle ipotesi indica l'insieme
della attività volte al mantenimento delle caratteristiche
originarie di una cosa.
Si è poi sottolineato che a sostegno di
questa ricostruzione milita anche un altro aspetto di
carattere sistematico: diversamente ragionando nessuno
spazio di operatività avrebbe la disposizione di cui
all'art. 5, lett. b, a fronte delle lett. a, c, d, le quali,
nell'arco che va dalla privazione degli elementi nutritivi
all'alterazione degli stessi, abbracciano tutti gli aspetti
oggettivamente rilevabili di degenerazione delle
caratteristiche intrinseche degli alimenti.
Da qui la conclusione che il cattivo stato
di conservazione della lett. b riguarda quelle situazioni in
cui le sostanze alimentari, pur potendo essere ancora
perfettamente genuine e sane, si presentano mal conservate e
cioè preparate o confezionate o messe in vendita senza
l'osservanza di quelle prescrizioni di leggi, regolamenti o
atti amministrativi generali che sono dettate a garanzia
della buona conservazione al fine di prevenire il pericolo
di una loro precoce degradazione, contaminazione o comunque
alterazione (scatolame bombato, arrugginito, involucri
forati, intaccati, unti, bagnati, esposizione prolungata ai
raggi solari di vino e olio, latte lasciato a temperature
inadeguate, alimenti collocati in prossimità di insetti e
simili).
Dunque, ai fini dell'integrazione della
contravvenzione in esame si deve ritenere sufficiente
l'inosservanza delle prescrizioni igienico-sanitarie volte a
garantire la buona conservazione del prodotto.
5. Tale è il caso della messa in vendita di
pane non confezionato sulla pubblica via esposto, perciò,
agli agenti atmosferici in grado di alternarne le proprietà
intrinseche.
Il Tribunale ha fatto buon governo dei principi qui
rammentati e con motivazione congrua e tutt'altro che
illogica, oltre che corretta in diritto, ha confermato la
responsabilità dell'imputato per il reato contestato (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.10.2018 n. 45274). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le controversie attinenti alla determinazione e
liquidazione degli oneri concessori sono riconducibili a
quegli aspetti dell’uso del territorio costituenti
prerogativa della P.A., e per questo riservate alla
giurisdizione esclusiva del G.A., nel rispetto
dell’indirizzo legislativo previsto in origine dall’art. 16
L. 10/1977, confermato poi dall’art. 34 Decr. Leg.vo 80/1998
(come sostituito dalla L. 205/2000), rimodulato in seguito
dall’intervento correttivo della Corte Cost. n. 204/2004, e
da ultimo fissato dall’art. 133, co. 1, lett. f), cpa (alla
stregua del quale sono devolute appunto alla giurisdizione
esclusiva del G.A. “le controversie aventi ad oggetto gli
atti e i provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in
materia di urbanistica ed edilizia, concernenti tutti gli
aspetti dell’uso del territorio”.
Sempre alla giurisdizione esclusiva del G.A. risulta,
altresì, ascrivibile la controversia introdotta a mezzo del
ricorso per motivi aggiunti, avente ad oggetto la
restituzione di somme versate a titolo di oneri concessori
connessi ad un P.d.c. poi non utilizzato, ancorché si versi
in ipotesi di indebito oggettivo, a seguito del venire meno
dell’originaria obbligazione legale.
Peraltro, ai sensi dell'art. 133, comma 1, lett. f), cod.
proc. amm., rientra nella giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo anche la controversia avente ad
oggetto la cartella di pagamento emessa da Equitalia Servizi
di Riscossione spa ed avente ad oggetto somme dovute per
oneri concessori, nel corso della quale non vengano dedotte
censure derivanti da atti generali autoritativi relativi
alla determinazione degli oneri presupposti di quello
impugnato; atteso anche che detti oneri non hanno natura
tributaria, bensì costituiscono un corrispettivo di diritto
pubblico avente la funzione di partecipazione ai costi delle
opere di urbanizzazione.
---------------
Le controversie in materia di determinazione e pagamento
degli oneri concessori, investendo l’esistenza o l’entità di
un’obbligazione legale, concernono diritti soggettivi, con
la conseguenza che la relativa domanda non soggiace al
regime di decadenza proprio del processo di impugnazione, ma
può essere proposta nel termine di prescrizione ordinaria ed
indipendentemente dall’impugnazione di eventuali atti.
In particolare, va osservato che gli atti emessi nella
materia degli oneri concessori dal Comune non presentano
carattere autoritativo, e, quindi, attitudine a divenire
incontestabili se non impugnati nel termine decadenziale di
gg. 60 (come accade, invece, per i provvedimenti
amministrativi), tanto più che non ha natura tributaria
l’obbligazione riguardante gli oneri in parola, per cui sul
punto non può neppure parlarsi di atti di accertamento
(suscettibili di far divenire incontestabile la pretesa, se
non impugnati nei termini), ancorché vi sia stata emissione
di ordinanza ingiunzione ex R.D. 14.04.1910 n. 639 (posto
che, comunque, la giurisdizione viene determinata sulla base
della tipologia della pretesa fatta valere con tale mezzo di
riscossione, per cui si applicano in definitiva le regole
del giudice fornito di giurisdizione: ma nella fattispecie
vi è giurisdizione esclusiva e le posizioni sono di
diritto/obbligo, cosicché il termine per impugnare
l’ingiunzione –cui è riconoscibile valore di atto
amministrativo paritetico– è quello decennale di
prescrizione ordinaria.
Quindi, va sottolineato come l’azione volta alla
declaratoria di insussistenza o diversa entità del debito
contributivo per oneri concessori possa essere intentata a
prescindere dalla impugnazione o esistenza dell’atto con il
quale viene richiesto il pagamento, trattandosi di un
giudizio di accertamento di un rapporto obbligatorio
pecuniario proponibile nel termine di prescrizione, e pur
dopo decorsi i termini per opporsi all’ingiunzione ex R.D.
14.04.1910 n. 639, ovvero ad una cartella di pagamento
(essendo questi meri strumenti per procedere ad esecuzione
coattiva).
---------------
Le sanzioni irrogabili per il ritardato pagamento del
contributo di costruzione soggiaciono al termine
prescrizionale di cinque anni.
Sempre in relazione alla somma di cui si discute, sono
dovuti gli interessi di mora maturati nel periodo tra la
scadenza dei singoli ratei e la data del pagamento. E sugli
stessi è applicabile il diverso termine prescrizionale di
dieci anni.
---------------
La presente controversia è incentrata sulle contestazioni
mosse dalla Im.Sa.St. srl alla richiesta del Comune di
Telese Terme di avere la corresponsione di una cospicua
somma di denaro, che gli sarebbe dovuta a titolo di oneri
concessori (contributo di costruzione e oneri di
urbanizzazione), nonché di sanzioni e interessi per
ritardato pagamento di questi, in dipendenza del rilascio,
in tempi diversi, di più permessi di costruire appunto in
favore della odierna ricorrente; richiesta infine
concretatasi nella notifica, in data 16.2.2017, a cura della
Equitalia Servizi di Riscossione spa (quale concessionario
per la riscossione) della cartella n. 07120170016377737,
contenente l’ingiunzione alla società ricorrente a pagare
entro gg. 60 dalla notifica la complessiva somma di euro
185.894,73, in forza del ruolo n. 2017/000863 reso esecutivo
in data 11.11.2016.
...
Ciò posto, va preliminarmente osservato che le controversie
–quale la presente– attinenti alla determinazione e
liquidazione degli oneri concessori sono riconducibili a
quegli aspetti dell’uso del territorio costituenti
prerogativa della P.A., e per questo riservate alla
giurisdizione esclusiva del G.A., nel rispetto
dell’indirizzo legislativo previsto in origine dall’art. 16
L. 10/1977, confermato poi dall’art. 34 Decr. Leg.vo 80/1998
(come sostituito dalla L. 205/2000), rimodulato in seguito
dall’intervento correttivo della Corte Cost. n. 204/2004, e
da ultimo fissato dall’art. 133, co. 1, lett. f), cpa (alla
stregua del quale sono devolute appunto alla giurisdizione
esclusiva del G.A. “le controversie aventi ad oggetto gli
atti e i provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in
materia di urbanistica ed edilizia, concernenti tutti gli
aspetti dell’uso del territorio” – cfr. Cons. di Stato
sez. IV, n. 2960 del 10.06.2014; TAR Campania-Napoli n. 2170
del 16.04.2014, TAR Liguria n. 552 del 28.03.2013; TAR
Campania-Salerno n. 1676 del 24.09.2012; TAR Campania-Napoli
n. 2136 del 09.05.2012).
Sempre alla giurisdizione esclusiva del G.A. risulta,
altresì, ascrivibile la controversia introdotta a mezzo del
ricorso per motivi aggiunti, avente ad oggetto la
restituzione di somme versate a titolo di oneri concessori
connessi ad un P.d.c. poi non utilizzato, ancorché si versi
in ipotesi di indebito oggettivo, a seguito del venire meno
dell’originaria obbligazione legale (cfr. Cons. di Stato
sez. V, n. 894 del 12.06.1995; TAR Sicilia-Catania n. 189
del 27.01.2017; TAR Sicilia-Catania n. 159 del 18.01.2013).
Peraltro, ai sensi dell'art. 133, comma 1, lett. f), cod.
proc. amm., rientra nella giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo anche la controversia avente ad
oggetto la cartella di pagamento emessa da Equitalia Servizi
di Riscossione spa ed avente ad oggetto somme dovute per
oneri concessori, nel corso della quale non vengano dedotte
censure derivanti da atti generali autoritativi relativi
alla determinazione degli oneri presupposti di quello
impugnato (così Cons. di Stato sez. IV, n. 4208 del
21.08.2013; nonché Cass. SS.UU. n. 22514 del 20.10.2006; TAR
Sicilia-Catania n. 2531 dell’11.10.2016; TAR Sicilia Palermo
n. 1730 del 12.07.2016; TAR Toscana n. 265 dell’11.02.2011);
atteso anche che detti oneri non hanno natura tributaria,
bensì costituiscono un corrispettivo di diritto pubblico
avente la funzione di partecipazione ai costi delle opere di
urbanizzazione (così Cons. di Stato sez. IV, n. 4208 del
21.08.2013; nonché TAR Campania-Napoli n. 19792 del
18.11.2008).
Ancora, deve osservarsi che le controversie in materia di
determinazione e pagamento degli oneri concessori,
investendo l’esistenza o l’entità di un’obbligazione legale,
concernono diritti soggettivi, con la conseguenza che la
relativa domanda non soggiace al regime di decadenza proprio
del processo di impugnazione, ma può essere proposta nel
termine di prescrizione ordinaria ed indipendentemente
dall’impugnazione di eventuali atti (cfr. Cons. di Stato
sez. IV, n. 4208 del 21.08.2013; TAR Sicilia-Catania n. 189
del 27.01.2017; TAR Sicilia-Palermo n. 2581 del 10.11.2016;
TAR Puglia-Bari n. 1596 del 03.12.2015TAR Puglia-Lecce n.
3114 del 30.10.2015; TAR Sicilia-Catania n. 1881 del
09.07.2015).
In particolare, va osservato che gli atti emessi nella
materia degli oneri concessori dal Comune non presentano
carattere autoritativo, e, quindi, attitudine a divenire
incontestabili se non impugnati nel termine decadenziale di
gg. 60 (come accade, invece, per i provvedimenti
amministrativi), tanto più che –come già detto– non ha
natura tributaria l’obbligazione riguardante gli oneri in
parola, per cui sul punto non può neppure parlarsi di atti
di accertamento (suscettibili di far divenire incontestabile
la pretesa, se non impugnati nei termini), ancorché vi sia
stata emissione di ordinanza ingiunzione ex R.D. 14.04.1910
n. 639 (posto che, comunque, la giurisdizione viene
determinata sulla base della tipologia della pretesa fatta
valere con tale mezzo di riscossione –cfr. Cass. SS.UU. 29
del 05.01.2016; TAR Emilia Romagna, Parma, n. 134 del
18.04.2016; TAR Sicilia, Catania, n. 109 del 15.01.2015-,
per cui si applicano in definitiva le regole del giudice
fornito di giurisdizione: ma nella fattispecie vi è
giurisdizione esclusiva e le posizioni sono di
diritto/obbligo, cosicché il termine per impugnare
l’ingiunzione –cui è riconoscibile valore di atto
amministrativo paritetico; cfr. Cass. Civ. n. 29653 del
12.12.2017– è quello decennale di prescrizione ordinaria; su
quest’ultimo punto cfr. TAR Calabria, Catanzaro, n. 1976 del
10.12.2007).
Quindi, va sottolineato come (cfr. Cons. di Stato sez. V, n.
810 del 04.12.1990; nonché Cons. di Stato sez. IV, n. 4208
del 21.08.2013) l’azione volta alla declaratoria di
insussistenza o diversa entità del debito contributivo per
oneri concessori possa essere intentata a prescindere dalla
impugnazione o esistenza dell’atto con il quale viene
richiesto il pagamento, trattandosi di un giudizio di
accertamento di un rapporto obbligatorio pecuniario
proponibile nel termine di prescrizione, e pur dopo decorsi
i termini per opporsi all’ingiunzione ex R.D. 14.04.1910 n.
639, ovvero ad una cartella di pagamento (essendo questi
meri strumenti per procedere ad esecuzione coattiva).
Pertanto, va disattesa l’eccezione di inammissibilità del
presente gravame, sollevata in limine litis dalla
difesa del Comune di Telese Terme, poiché le ingiunzioni e
le richieste di pagamento (nonché la cartella di pagamento
notificata) cui viene fatto riferimento, possono, in
definitiva, valere nella specie soltanto ad interrompere il
termine prescrizionale decorrente in favore del debitore.
Nel merito, va detto che la prima pretesa creditoria del
Comune di Telese Terme si riferisce all’asserito omesso
versamento di € 22.598,50 dovuti a titolo di oneri di
urbanizzazione (e non di costo di costruzione, come
erroneamente riportato nella cartella di pagamento n.
07120170016377737 – cfr. documentazione in atti) in
relazione all’intervento edilizio assentito con il P.d.C. n.
44/2005 (rilasciato a Pellegrino Raffaele, e poi volturato,
in data 20.10.2005, in favore della Im.Sa.St. srl).
Per tale credito, il Comune di Telese Terme ha emesso
dapprima un invito al pagamento in data 30.10.2008 – prot.
n. 15401 (spedito a mezzo racc. a/r, di cui non è stata però
fornita la prova del recapito, ancorché nella relazione
tecnica a firma dell’arch. Al.Pe. si faccia riferimento
all’a/r di racc. n. 13226606266-9); e comunque,
successivamente, l’ingiunzione di pagamento prot. n. 1210
del 27.1.2009, ricevuta in data 10.2.2009 dai destinatari
(come da a/r di racc. versato in atti).
Sennonché, la società ricorrente sostiene di aver provveduto
al pagamento della somma suddetta nell’anno 2009, ed a
sostegno di tale asserzione ha prodotto una bolletta di
versamento dell’importo in parola, per il tramite della
Banca Popolare di Novara e in favore del Comune Telese
Terme, riportante la seguente causale “saldo costi di
urbanizzazione concessione 44/05 rate 2-3-5-4”.
Dal suo canto, il Comune di Telese Terme ha, tuttavia,
affermato di non aver mai ricevuto il detto pagamento; ma
risolutiva sul punto appare la documentazione acquisita
dall’Im.Sa.St. srl a mezzo di procedura di accesso agli atti
del Comune interessato, e poi prodotta in giudizio in data
30.04.2018, ovvero una certificazione a firma del
responsabile dell’Area Economico/Finanziaria dell’ente, in
cui viene attestato che tra le somme dallo stesso incassate
a seguito di pagamenti effettuati dalla Im.Sa.St. srl (“mediante
bonifici pervenuti sul c/c di Tesoreria Comunale e
introitate con le Reversali di incasso di seguito riportate…”),
figura anche la “Reversale n. 1102/2009 di importo pari
ad € 22.598,50”, evidentemente riferibile al rapporto in
questione, in mancanza di diversa spiegazione: perciò deve
concludersi che la suddetta somma non è più dovuta, in
quanto pagata in data 23.06.2009.
Neppure, poi, risultano dovute le sanzioni irrogabili per il
ritardato pagamento della somma in parola, poiché,
applicandosi nella specie il termine prescrizionale di
cinque anni (cfr. sul punto TAR Campania-Napoli, sez. VIII,
n. 2170 del 16.04.2014), lo stesso risulta ormai decorso
dall’ultimo atto interruttivo, costituito dalla sopra
ricordata ingiunzione di pagamento n. 1210 del 27.01.2009,
notificata il 10.02.2009 (posto che la successiva cartella
di pagamento è stata notificata solo in data 16.02.2017).
Viceversa, sempre in relazione alla somma di cui si discute,
sono dovuti gli interessi di mora maturati nel periodo tra
la scadenza dei singoli ratei e il 23.06.2009, ovvero la
data del pagamento: ciò in quanto per gli interessi è
applicabile il diverso termine prescrizionale di dieci anni
(cfr. sul punto TAR Campania-Salerno, nn. 2599 e 2600 del
30.12.2003), che, per quanto prima evidenziato, non
risultava ancora decorso al momento della notifica della
cartella di pagamento, dopo l’interruzione operata con
l’ingiunzione n. 1210 del 27.01.2009.
Quanto alle somme richieste per oneri concessori in
relazione ai P.d.C. n. 102/2007 e n. 103/2007 (in variante
al P.d.C. n. 93/2006), risultano dovute le sorti capitale
(in mancanza di prova del loro pagamento), mentre sono
prescritte le sanzioni irrogabili per il loro tardivo
pagamento (e sul punto concorda anche il responsabile
dell’Area Tecnica del Comune di Telese Terme, secondo la
ricostruzione nella relazione a sua firma), per essere
maturato il relativo termine quinquennale, ancorché in
proposito fossero stati inoltrati solo nell’anno 2015 gli
avvisi di avvio del procedimento di riscossione coattiva n.
9422/2015 e n. 9421/2015 (dei quali, peraltro, non risulta
provato il recapito a destinazione).
Viceversa, non è maturata la prescrizione decennale (atteso
che il rilascio dei P.d.C. 102/2007 e 103/2007 si è avuto il
03.12.2007) riguardante gli interessi moratori, perciò
dovuti a partire dalle date di scadenza dei vari ratei
eventualmente concordati, fino all’estinzione
dell’obbligazione per compensazione legale, secondo quanto
si dirà più avanti.
E’, infatti, fondata anche la richiesta formulata dalla
ricorrente di restituzione degli importi versati a titolo di
oneri concessori per il rilascio, in data 20.01.2009, del
P.d.C. n. 4/2009; ed ancor prima l’eccezione sollevata sul
punto in via sostanziale, sulla scorta delle argomentazioni
svolte già con il ricorso introduttivo.
Invero, risulta incontestato (e anche ammesso dallo stesso
ente territoriale, sempre nella ricordata relazione a firma
dell’arch. Al.Pe.), che, in riferimento a tale P.d.C., la
società ricorrente ha versato al Comune di Telese Terme
complessivi euro 72.307,76 (di cui, euro 47.322,58, a titolo
di oneri di urbanizzazione; euro 2.324,00, a titolo di
diritti di segreteria; ed euro 22.661,18, a titolo di costo
di costruzione); e che l’intervento così assentito non è poi
stato realizzato, per non essere i lavori iniziati nel
prescritto termine di un anno dal rilascio (con conseguente
decadenza “di diritto” del titolo, ai sensi dell’art.
15 D.P.R. 380/2001): tanto ha determinato una situazione di
indebito oggettivo ex art. 2033 c.c., e perciò il sorgere,
con decorrenza dalla data di decadenza del rilasciato titolo
edilizio, dell’obbligo del Comune di restituire quanto
percepito a titolo di oneri concessori, ancorché con
esclusione dei versati diritti di segreteria (trattandosi di
attribuzione patrimoniale giustificata appunto dall’attività
di segreteria comunque svolta per pervenire al rilascio del
P.d.C., e indipendente dal successivo effettivo utilizzo di
questo).
La contemporanea pendenza, di tale credito della Im.Sa.St.
srl nei confronti del Comune di Telese Terme (comprendente
anche gli interessi compensativi, decorrenti dal giorno
della domanda ripetitiva dell’indebito nella ipotesi di
buona fede del percettore, che deve ritenersi nel caso di
specie ricorrere – cfr. TAR Lazio-Roma n. 2294 del
12.03.2008), e del credito di detto Comune verso l’odierna
ricorrente, ha fatto sì che, sussistendo i presupposti
richiesti dall’art. 1241 c.c., si verificasse la
compensazione legale dei due debiti, fino alla concorrenza
di quello di minore importo (ovvero quello vantato dalla
Im.Sa.St. srl): di tanto va dato atto in questa sede,
cosicché non può farsi luogo alla restituzione chiesta con i
motivi aggiunti.
Pertanto, in definitiva, la domanda complessivamente
proposta in questa sede va accolta nei sensi e nei limiti di
quanto fin qui esposto, e va, altresì, annullata l’impugnata
cartella di pagamento.
Quanto alla posizione della Equitalia Riscossioni spa,
seppure effettivamente deve dirsi estranea al rapporto
intercorrente tra la Im.Sa.St. srl e il Comune di Telese
Terme, tuttavia risulta essere stata correttamente intimata
in questo giudizio, poiché soggetto che aveva emesso la
contestata cartella di pagamento, per cui non può essere
disposta la sua estromissione, come da essa richiesto (cfr.
TAR Sardegna n. 82 dell’8.2.2007; TAR Campania-Salerno n.
766 dell’1.7.2003) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 09.10.2018 n. 5835 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nel
settore paesaggistico, la motivazione può ritenersi adeguata
quando risponde ad un modello che contempli, in modo
dettagliato, la descrizione:
i) dell’edificio mediante indicazione delle dimensioni, delle
forme, dei colori e dei materiali impiegati;
ii) del contesto paesaggistico in cui esso si colloca, anche
mediante indicazione di eventuali altri immobili esistenti,
della loro posizione e dimensioni;
iii) del rapporto tra edificio e contesto, anche mediante
l'indicazione dell'impatto visivo al fine di stabilire se
esso si inserisca in maniera armonica nel paesaggio.
---------------
1. È appellata la sentenza del Tar Lazio, sezione staccata
di Latina, sez. I, di reiezione del ricorso proposto dalla
sig.ra An.Gr. avverso il diniego opposto dal comune di Gaeta
sull’istanza di concessione edilizia a sanatoria avente ad
oggetto la realizzazione di una veranda di mq 4,50 su un
immobile di proprietà in via ... n. 26.
Il gravame è stato esteso al parere negativo a fini
ambientali espresso ai sensi dell’art. 32 l. 28.02.1985, n.
47.
...
6. Il motivo è fondato.
Nel parere negativo si legge che “la vetrata in
trattazione si inserisce come elemento isolato nella
facciata dell’edificio inserendo elementi estranei per
materiali e forme all’ordinaria composizione determinando
contrasti e disomogeneità”.
6.1 Lungi dal riferirsi al contesto ambientale, il contrasto
e la disomogeneità è parametrata all’edificio, considerato
come avulso dal profilo paesaggistico.
Semanticamente il parere –nell’ambito della sintattica
complessiva delle proposizioni adoperate– è testualmente
riferito al manufatto, senza affatto considerare il
pregiudizio arrecato al paesaggio dalla vetrata posizionata
sulla terrazza di casa della ricorrente.
6.2 Né supplisce al difetto di motivazione il richiamo
dell’art. 37 del testo coordinato delle n.t.a. del P.T.P.
relativo all’ambito territoriale n. 14 approvate dalla legge
regionale 06.07.1998, n. 24.
La norma è entrata in vigore in epoca successiva alla
realizzazione della vetrata; in aggiunta, non è specificato
il contrasto di un’opera precaria priva d’impatto edilizio
con la norma regolamentare a carattere generale ed astratto.
7. Sicché va data continuità all’indirizzo giurisprudenziale
qui condiviso a mente “nel
settore paesaggistico, la motivazione può ritenersi adeguata
quando risponde ad un modello che contempli, in modo
dettagliato, la descrizione:
i) dell’edificio mediante indicazione delle dimensioni, delle
forme, dei colori e dei materiali impiegati;
ii) del contesto paesaggistico in cui esso si colloca, anche
mediante indicazione di eventuali altri immobili esistenti,
della loro posizione e dimensioni;
iii) del rapporto tra edificio e contesto, anche mediante
l'indicazione dell'impatto visivo al fine di stabilire se
esso si inserisca in maniera armonica nel paesaggio"
(cfr., Cons. Stato, sez. VI, 23.12.2013, n. 6223; Cons.
Stato, sez. VI, 04.10.2013, n. 4899; Cons. Stato, sez. VI,
10.05.2013, n. 2535).
7.1 Nella fattispecie in esame è stato omesso del tutto il
riscontro dell’opera con il contesto paesaggistico tutelato
ai fini dell’effettiva valutazione della compromissione
all’ambiente causato dall’opera (Consiglio di Stato, Sez.
VI,
sentenza 09.10.2018 n. 5807 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le verande realizzate sulla balconata di un
appartamento, in quanto determinano una variazione planovolumetrica ed architettonica dell’immobile nel quale
vengono realizzate, sono senza dubbio soggette al preventivo
rilascio di permesso di costruire.
Si tratta, infatti, di strutture fissate in maniera stabile
al pavimento che comportano la chiusura di una parte del
balcone, con conseguente aumento di volumetria e modifica
del prospetto. Né può assumere rilievo la natura dei
materiali utilizzati, in quanto la chiusura, anche ove
realizzata (come nella specie) con pannelli in alluminio,
costituisce comunque un aumento volumetrico.
In proposito,
va ricordato che, nell’Intesa sottoscritta il 20.10.2016, ai sensi dell’articolo 8, comma 6, della legge
05.06.2003, n. 131, tra il Governo, le Regioni e i Comuni,
concernente l’adozione del regolamento edilizio-tipo di cui
all’articolo 4, comma 1-sexies, del decreto del Presidente
della Repubblica 06.06.2001, n. 380, la veranda è stata
definita (nell’Allegato A) «Locale o spazio coperto avente
le caratteristiche di loggiato, balcone, terrazza o portico,
chiuso sui lati da superfici vetrate o con elementi
trasparenti e impermeabili, parzialmente o totalmente
apribili».
---------------
Deve anche escludersi che la trasformazione di un balcone o
di un terrazzo in veranda costituisca una «pertinenza» in
senso urbanistico.
La veranda integra, infatti, un nuovo
locale autonomamente utilizzabile, il quale viene ad
aggregarsi ad un preesistente organismo edilizio, per ciò
solo trasformandolo in termini di sagoma, volume e
superficie.
---------------
1.‒ L’appello è fondato.
2.‒ Va premesso che, ai sensi dell’art. 10, comma 1, lettera
c), del testo unico dell’edilizia (d.P.R. n. 380 del 2001),
le opere di ristrutturazione edilizia necessitano di
permesso di costruire se consistenti in interventi che
portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso
dal precedente e che comportino, modifiche del volume, dei
prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi
nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della
destinazione d’uso (ristrutturazione edilizia).
In via
residuale, la SCIA assiste invece i restanti interventi di
ristrutturazione c.d. «leggera» (compresi gli interventi di
demolizione e ricostruzione che non rispettino la sagoma
dell’edificio preesistente).
Ebbene, le verande realizzate sulla balconata di un
appartamento, in quanto determinano una variazione
planovolumetrica ed architettonica dell’immobile nel quale
vengono realizzate, sono senza dubbio soggette al preventivo
rilascio di permesso di costruire.
Si tratta, infatti, di strutture fissate in maniera stabile
al pavimento che comportano la chiusura di una parte del
balcone, con conseguente aumento di volumetria e modifica
del prospetto. Né può assumere rilievo la natura dei
materiali utilizzati, in quanto la chiusura, anche ove
realizzata (come nella specie) con pannelli in alluminio,
costituisce comunque un aumento volumetrico.
In proposito,
va ricordato che, nell’Intesa sottoscritta il 20.10.2016, ai sensi dell’articolo 8, comma 6, della legge
05.06.2003, n. 131, tra il Governo, le Regioni e i Comuni,
concernente l’adozione del regolamento edilizio-tipo di cui
all’articolo 4, comma 1-sexies, del decreto del Presidente
della Repubblica 06.06.2001, n. 380, la veranda è stata
definita (nell’Allegato A) «Locale o spazio coperto avente
le caratteristiche di loggiato, balcone, terrazza o portico,
chiuso sui lati da superfici vetrate o con elementi
trasparenti e impermeabili, parzialmente o totalmente
apribili».
Deve anche escludersi che la trasformazione di un balcone o
di un terrazzo in veranda costituisca una «pertinenza» in
senso urbanistico. La veranda integra, infatti, un nuovo
locale autonomamente utilizzabile, il quale viene ad
aggregarsi ad un preesistente organismo edilizio, per ciò
solo trasformandolo in termini di sagoma, volume e
superficie.
3.‒ Su queste basi, correttamente l’Amministrazione comunale
ha ritenuto che la realizzazione del manufatto in
contestazione consistente nell’«ampliamento volumetrico
dell’unità immobiliare eseguito con la realizzazione di una
struttura in cemento armato (costituita da pilastri e travi)
sui lati nord e ovest della tettoia, tamponature laterali in
vetro, con l’allungamento della trasanna della copertura
sovrastante sostenuta da travi doppio T, e con la
realizzazione»‒ rendesse necessario il preventivo rilascio
del permesso di costruire (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 09.10.2018 n. 5801 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Caratteri dell’interdittiva prefettizia antimafia.
---------------
● Informativa antimafia – Finalità – Individuazione.
●
Informativa antimafia – Presupposti – Fatti risalenti nel
tempo - Possibilità.
●
Informativa antimafia – Presupposti – Attualità del fatto di
reato – Non occorre.
● La c.d. interdittiva prefettizia antimafia, di cui agli artt.
91 e ss., d.lgs. 06.09.2011, n. 159, costituisce una
misura preventiva volta ad impedire i rapporti contrattuali
con la P.A. di società, formalmente estranee ma,
direttamente o indirettamente, comunque collegate con la
criminalità organizzata; l'interdittiva antimafia è cioè
diretta ad impedire che possa essere titolare di rapporti,
specie contrattuali, con le pubbliche Amministrazioni un
imprenditore sia comunque coinvolto, colluso o condizionato
dalla delinquenza organizzata (1).
● L'interdittiva antimafia può legittimamente fondarsi anche
su fatti risalenti nel tempo, purché dall'analisi del
complesso delle vicende esaminate emerga, comunque, un
quadro indiziario idoneo a giustificare il necessario
giudizio di attualità e di concretezza del pericolo di
infiltrazione mafiosa nella gestione dell'attività di
impresa (2).
●
I tentativi d'infiltrazione mafiosa, che danno luogo
all'adozione dell'informativa antimafia interdittiva,
possono essere desunti anche da una sentenza penale che,
ancorché intervenuta tempo prima ed ancora oggetto
d'impugnazione, ha condannato l'interessato per il delitto
di usura di cui all'art. 644 c.p., atteso che ritenere che
detta sentenza è irrilevante solo perché ha ad oggetto fatti
risalenti nel tempo, significa introdurre un elemento della
fattispecie —l'attualità del fatto di reato, oggetto di
condanna— che non è previsto dalla disposizione, la quale si
limita a prevedere che la condanna per uno dei delitti-spia,
quale che sia il tempo in cui è intervenuta, debba essere
presa in considerazione dal Prefetto ai fini del rilascio
dell'informativa (3).
---------------
(1)
Cons. St., sez. III,
09.05.2016, n. 1846.
Ha ricordato la Sezione che l’introduzione della c.d.
interdittiva prefettizia antimafia è stata la risposta
cardine dell’Ordinamento per attuare un contrasto
all’inquinamento dell’economia sana da parte delle imprese
che sono strumentalizzate o condizionate dalla criminalità
organizzata.
In tale direzione la valutazione della legittimità
dell’informativa deve essere effettuata sulla base di una
valutazione unitaria degli elementi e di fatti che, valutati
nel loro complesso, possono costituire un’ipotesi
ragionevole e probabile di permeabilità della singola
impresa ad ingerenze della criminalità organizzata di stampo
mafioso sulla base della regola causale del “più probabile
che non”, integrata da dati di comune esperienza, evincibili
dall’osservazione dei fenomeni sociali (qual è quello
mafioso), e che risente della estraneità al sistema delle
informazioni antimafia di qualsiasi logica penalistica di
certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole
dubbio (Cons. St., sez. III, 18.04.2018, n. 2343).
Ai fini della sua adozione, da un lato, occorre non già
provare l'intervenuta infiltrazione mafiosa, bensì soltanto
la sussistenza di elementi sintomatico-presuntivi dai quali
–secondo un giudizio prognostico latamente discrezionale–
sia deducibile il pericolo di ingerenza da parte della
criminalità organizzata; d’altro lato, detti elementi vanno
considerati in modo unitario, e non atomistico, cosicché
ciascuno di essi acquisti valenza nella sua connessione con
gli altri (Cons. St., sez. III, 18.04.2018, n. 2343).
Ha ancora affermato la Sezione che la violazione del divieto
di discriminazione di cui all’art. 14 della Convenzione
Europea dei Diritti dell’Uomo (firmata a Roma il 04.11.1950, ratificata e resa esecutiva con legge
04.08.1955,
n. 848), e del divieto dell’abuso di diritto di cui agli artt. 17 e 18 della predetta CEDU, nonché eccesso di potere
per difetto di proporzionalità, si fa presente, in primo
luogo, che il comma 2 dell’art. 1 ”Protezione della
proprietà” espressamente prevede che:
“Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al
diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi
ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo
conforme all’interesse generale o per assicurare il
pagamento delle imposte o di altri contributi o delle
ammende.”
In tale ottica va inquadrato proprio l’invocato art. 18, per
cui "Le restrizioni che, in base alla presente convenzione,
sono posti a detti diritti e libertà possono essere
applicate solo allo scopo per cui sono state previste". È
dunque fatta salva la possibilità degli Stati di porre in
vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare
l’uso di di beni in modo conforme all’interesse generale.
In sostanza, la legge nazionale può porre restrizioni ai
predetti diritti per scopi comunque determinati, leciti e di
interesse pubblico generale.
In tale scia ricostruttiva, a conferma delle predette
conclusioni, si deve ancora ricordare che, sia pure in un
differente ambito oggettivo, l’art. 2, commi 3 e 4 del
Protocollo n. 4 estrinsecano il principio di non
discriminazione specificando che: “3. L’esercizio di tali
diritti non può essere oggetto di restrizioni diverse da
quelle che sono previste dalla legge e che costituiscono, in
una società democratica, misure necessarie alla sicurezza
nazionale, alla pubblica sicurezza, al mantenimento
dell’ordine pubblico, alla prevenzione delle infrazioni
penali, alla protezione della salute o della morale o alla
protezione dei diritti e libertà altrui.
4. I diritti riconosciuti al paragrafo 1 possono anche, in
alcune zone determinate, essere oggetto di restrizioni
previste dalla legge e giustificate dall’interesse pubblico
in una società democratica.”
La normativa dell’antimafia è infatti espressione della
potestà di cui all’art. 117 lett. h) ordine pubblico e
sicurezza ed “e) …tutela della concorrenza…” in relazione
all’art. 1 del Protocollo addizionale 1 alla CEDU, sul
presupposto che la formula elastica adottata dal legislatore
per la disciplina delle interdittive antimafia –che
consente di procedere in tal senso anche solo su base
indiziaria– deve ritenersi quale corretto bilanciamento dei
valori coinvolti. Infatti, se da una parte è opportuno
fornire adeguata tutela alla libertà di esercizio
dell’attività imprenditoriale, dall’altra non può che
considerarsi preminente l’esigenza di salvaguardare
l’interesse pubblico al presidio del sistema socio-economico
da qualsivoglia inquinamento mafioso.
Non vi sono dubbi che l’esigenza di tutela della libertà di
tutti i cittadini e di salvaguardia della convivenza
democratica sono finalità perfettamente coincidenti con i
principi della CEDU, ed anche la formula “elastica” adottata
dal legislatore nel disciplinare l’informativa interdittiva
antimafia su base indiziaria ha il suo fondamento nella
ragionevole esigenza del bilanciamento tra la libertà di
iniziativa economica riconosciuta dall’art. 41 Cost. e
l’interesse pubblico alla salvaguardia dell’ordine pubblico
e alla prevenzione dei fenomeni mafiosi che, del resto,
mediante l’infiltrazione nel tessuto economico e nei mercati,
compromettono anche –oltre alla sicurezza pubblica– il
valore costituzionale di libertà economica,
indissolubilmente legato alla trasparenza e alla corretta
competizione nelle attività con cui detta libertà si
manifesta in concreto nei rapporti tra soggetti
dell’ordinamento.
Per quanto poi concerne la "presunzione di non
colpevolezza", si deve ricordare come il giudizio, fondato
secondo il criterio del "più probabile che non", costituisce
un regola che si palesa "consentanea alla garanzia
fondamentale della presunzione di non colpevolezza", di cui
all’art. 27 Cost. , comma 2, cui è ispirato anche il p. 2
del citato art. 6 CEDU", in quanto "non attiene ad ipotesi
di affermazione di responsabilità penale" ed è "estranea al
peri-OMISSIS- delle garanzie innanzi ricordate" (Cass., sez.
I, 30.09.2016, n. 19430).
Da molto tempo infatti le consorterie di tipo mafioso hanno
esportato fuori dai tradizionali territori di origine l’uso
intimidatorio della violenza, ed hanno creato vere e proprie
holding.
Si tratta di quelle aree opache nelle quali notoriamente i
proventi di attività illecite vengono reinvestiti in imprese
formalmente estranee (perché intestate a prestanome
“puliti”) e dispersi in una miriade di società collegate da
vincoli di vario tipo con l’organizzazione criminale.
Il legislatore, allontanandosi dal modello della repressione
penale, ha conseguentemente impostato l'interdittiva
antimafia come strumento di interdizione e di controllo
sociale, al fine di contrastare le forme più subdole di
aggressione all'ordine pubblico economico, alla libera
concorrenza ed al buon andamento della pubblica
Amministrazione.
Il carattere preventivo del provvedimento, prescinde quindi
dall'accertamento di singole responsabilità penali, essendo
il potere esercitato dal Prefetto espressione della logica
di anticipazione della soglia di difesa sociale, finalizzata
ad assicurare una tutela avanzata nel campo del contrasto
alle attività della criminalità organizzata (Cons. St., sez.
III, 30.01.2015, n. 455; id.
23.02.2015, n. 898.
(2)
Cons. St., sez. III, 16.05.2017, n. 2327; id.
05.05.2017, n. 2085.
(3)
Cons. St., sez. III, 24.07.2015, n. 3653
(Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 09.10.2018 n. 5784 - commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
APPALTI - Vizi palesi o occulti - Difformità dell'opera -
Appaltatore - Denuncia tempestiva al subappaltatore -
Denuncia effettuata dal committente direttamente al
subappaltatore - Inidoneità ex art. 1670 c.c..
L'appaltatore è tenuto a denunciare
tempestivamente al subappaltatore i vizi o le difformità
dell'opera a lui contestati dal committente e, prima della
formale denuncia di quest'ultimo, non ha interesse ad agire
in regresso nei confronti del subappaltatore, atteso che il
committente potrebbe accettare l'opera nonostante i vizi
palesi, non denunciare mai i vizi occulti oppure denunciarli
tardivamente.
La denuncia effettuata dal committente direttamente al
subappaltatore non è idonea a raggiungere il medesimo scopo
della comunicazione effettuata dall'appaltatore ai sensi
dell'art. 1670 cod. civ., dovendo tale comunicazione
provenire dall'appaltatore o da suo incaricato.
APPALTI - Garanzia per le difformità e i vizi dell'opera -
Committente e denunzia del vizio nel termine di decadenza -
Reciproca indipendenza del subappalto e dell'appalto - Art.
1667 cod. civ..
Ai fini della garanzia per le difformità
e i vizi dell'opera, il riconoscimento del vizio proveniente
non dall'appaltatore ma da un subappaltatore, che non abbia
operato in rappresentanza o su indicazione dell'appaltatore,
non esima il committente dalla denunzia del vizio nel
termine di decadenza, stante la reciproca indipendenza del
subappalto e dell'appalto, i quali restano distinti e
autonomi, nonostante il nesso di derivazione dell'uno
dall'altro, sicché nessuna diretta relazione si instaura tra
il committente e il subappaltatore; ne consegue che
l'eventuale ammissione da parte del subappaltatore
dell'esistenza di difformità o vizi dell'opera non può
ritenersi equipollente al loro riconoscimento, il quale deve
provenire dall'appaltatore ex art. 1667 cod. civ., per poter
costituire ragione di esonero dalla denunzia che la stessa
norma impone al committente di rivolgere, ugualmente
all'appaltatore, entro un certo termine, a pena di decadenza
dalla garanzia
(Cass. n. 22344 del 21/10/2009).
APPALTI -
Disciplina codicistica del subappalto - Inesistenza di
rapporto diretto tra committente e subappaltatore -
Autonomia dei rapporti - Norma eccezionale - Art. 1676 cod.
civ..
In tema di appalti non può ritenersi che
la specifica disciplina codicistica del subappalto renda
possibile considerare l'appaltatore principale, direttamente
o utendo iuribus, legittimato alla comunicazione diretta ex
art. 1670 cod. civ. nei confronti del subappaltatore.
La disciplina stessa, infatti, per la quale il
subappaltatore assume, sia nei confronti dell'appaltatore
suo committente sia nei confronti dei terzi, le stesse
responsabilità dell'appaltatore verso il committente e verso
i terzi, è ispirata al principio per cui tra committente e
subappaltatore, nonostante l'autorizzazione ex art. 1656
cod. civ., non si costituisce alcun rapporto giuridico; in
tal senso, si è sottolineato -anche in base a confronto con
l'art. 1676 cod. civ. quale norma eccezionale- come l'art.
1670 venga a escludere l'esistenza di qualsiasi
responsabilità diretta del subappaltatore nei confronti del
committente.
Ne deriva che, stante l'autonomia dei rapporti
(per l'inesistenza di rapporto diretto tra committente e
subappaltatore, ad altri fini, v. Cass. n. 16917 del
02/08/2011), nessuna legittimazione può
spettare all'appaltante principale - al di là di negozi
autorizzativi a effettuare direttamente la comunicazione ex
art. 1670 cod. civ. (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 08.10.2018 n. 24717 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' illegittimo il diniego opposto dal comune avverso
un’istanza tendente a ottenere il rilascio di un permesso di
costruire ove motivato con esclusivo riferimento al difetto,
in capo al richiedente, di un titolo legittimante la
richiesta di rilascio dell’atto di assenso edificatorio, nel
caso in cui lo stesso sia stato tra l’altro riconosciuto,
con sentenza del G.O., legittimo possessore del terreno
interessato.
Il permesso di
costruire non è riservato unicamente al proprietario, ma
anche a chi abbia "titolo per richiederlo", espressione che
si identifica con la legittima disponibilità dell'area, in
base ad una relazione qualificata con la stessa di natura
anche solo obbligatoria.
---------------
Con ricorso ritualmente notificato la ricorrente ha
impugnato il provvedimento di diniego dell’istanza di
permesso di costruire, motivato dall’amministrazione
comunale sulla scorta della mancanza di un titolo
legittimante al rilascio del provvedimento abilitativo.
Con il primo motivo di ricorso, la ricorrente deduce
di aver presentato un’attestazione della sussistenza del
titolo, di per sé sufficiente, e di aver comunque poi
integrato la documentazione richiesta anche attraverso una
perizia di parte.
...
1. Il primo
motivo di ricorso è fondato.
Invero, per pacifica giurisprudenza del giudice
amministrativo si ritiene che: “Il permesso di costruire
non è riservato unicamente al proprietario, ma anche a chi
abbia "titolo per richiederlo", espressione che si
identifica con la legittima disponibilità dell'area, in base
ad una relazione qualificata con la stessa di natura anche
solo obbligatoria” (cfr. Cons. Stato Sez. VI,
22.05.2018, n. 3048).
1.2 Nel caso di specie, dalla disamina degli atti, emerge
una situazione, quantomeno di fatto, se non di piena
titolarità, tale da legittimare l’originaria ricorrente a
richiedere il titolo edilizio.
Tra gli elementi più significativi in tal senso, è
sufficiente citare la sentenza del Pretore di Vallo della
Lucania, n. 96 del 1994, che riconosce la sig.ra Cl.Ma.
possessore del fondo di cui al foglio 18 part. 479; la
C.T.U. dell’Arch. Al., che, nel rispondere al quesito n. 2,
posto proprio da questo TAR, nel giudizio n.r.g. 61 del
2005, definito con la sentenza n. 1747 del 2009, ha
evidenziato che “la particella n. 479 – Foglio 18, appare
essere di proprietà della sig.ra Ma.Cl. in virtù degli atti
e dei documenti allo stato disponibili”; nonché, infine,
la C.T.U. del Dott. Agronomo Cr., resa nel giudizio innanzi
al Commissario liquidatore degli usi civici, causa n. 2 del
2013.
Né peraltro il Comune ha opposto alla Ma., che, per parte
sua, ha dichiarato documentalmente di essere titolare di una
situazione legittimante la richiesta, l’esistenza di
possibili altri titolari del diritto che rendessero
incompatibile la rappresentata volontà di esercizio dei
poteri connessi alla disponibilità della res.
2. Occorre, peraltro, rilevare come colga nel segno anche la
seconda delle censure proposte, considerato che, seppure
l’ente locale avesse voluto contestare all’interessata la
legittimazione a richiedere il titolo ad aedificandum,
ciò sarebbe dovuto avvenire sulla scorta di ben altra
istruttoria procedimentale, tesa a disvelare le ragioni del
convincimento dell’amministrazione di una situazione
proprietaria (o, comunque, legittimante) poco chiara o
dubbiosa.
Analoghe statuizioni possono formularsi con riferimento alla
(lacunosità della) motivazione sviluppata a sostegno del
provvedimento.
2.1 Dagli atti non è però possibile evincere nessun
approfondimento procedimentale di tal fatta, sicché, a
fronte delle censure articolate dagli interessati, si
ritiene di doversi disporre l’accoglimento del secondo
motivo di ricorso.
3. Né, del resto, nel corso del presente giudizio,
l’amministrazione comunale, seppure costituitasi in
giudizio, ha prodotto un qualsivoglia elemento del
procedimento prodromico all’atto impugnato.
4. Va invece disattesa la terza ed ultima censura del
ricorso, considerato che il mero decorso del tempo non
determina l’illegittimità degli atti emanati
dall’amministrazione.
5. In conclusione, il ricorso va accolto limitatamente al
primo e al secondo motivo di ricorso (TAR
Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 08.10.2018 n. 1388 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E’ noto il consolidato indirizzo
giurisprudenziale che esclude dall’ambito di applicazione
della norma sulla comunicazione di avvio i procedimenti
volti a esercitare i poteri repressivi in materia edilizia,
mediante adozione dell’ordinanza di demolizione, trattandosi
di procedimenti che mettono capo a provvedimenti di
contenuto vincolato.
L’attività amministrativa è caratterizzata, in queste
ipotesi, dall’accertamento di presupposti di fatto
interamente tipizzati dalla norma attributiva del potere,
che integrano, alla luce della disciplina
urbanistico-edilizia rilevante, l’abuso; per cui gli apporti
partecipativi dei destinatari dell’ordinanza non possono
svolgere alcuna utile funzione al fine di orientare la
decisione amministrativa, che non potrebbe avere un
contenuto diverso rispetto a quello prefigurato dalla norma
di repressione dell’abuso.
L’orientamento ha trovato autorevole avallo nella recente
pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, n.
9 del 2017, che ha sottolineato e ribadito quanto sopra
anticipato, ossia che «l’ordine di demolizione è un atto
vincolato ancorato esclusivamente alla sussistenza di opere
abusive e non richiede una specifica motivazione circa la
ricorrenza del concreto interesse pubblico alla rimozione
dell’abuso. In sostanza, verificata la sussistenza dei
manufatti abusivi, l’Amministrazione ha il dovere di
adottarlo, essendo la relativa ponderazione tra l'interesse
pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore.
In ragione della natura vincolata dell’ordine di
demolizione, non è pertanto necessaria la preventiva
comunicazione di avvio del procedimento […] né un'ampia
motivazione».
---------------
Non può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva, che il tempo non può in alcun modo legittimare, per
il sol fatto di aver versato le imposte comunali (ICI, IMU,
TARI).
Invero, diversi sono i presupposti in base ai quali si
formano i predetti obblighi tributari [si veda sul punto
Cass. civ., Sez. trib., 28.01.2010, n. 1850, in tema di
TARSU, in cui si osserva che il «presupposto della tassa de
qua ai sensi del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 62, è
l'occupazione o la detenzione dì locali o aree scoperte
nelle zone del territorio comunale in cui il servizio di
smaltimento dei rifiuti sia attivo (e ciò -per quanto
concerne l'occupazione o detenzione di locali- a prescindere
dal completamento o meno del manufatto e/o dalla abusività o
meno della costruzione) …»].
---------------
1. – Con il ricorso in esame, il Sig. Sa.Pi. chiede
l’annullamento dell'ordinanza del 14.04.2011, con la quale
il responsabile del Servizio Edilizia Privata ed Urbanistica
del Comune di Aglientu, ha ordinato all’odierno ricorrente
la demolizione delle opere realizzate senza titolo,
consistenti in un "...edificio di forma rettangolare
adibito a casa di civile abitazione avente una superficie di
mq. 79, quasi completamente fuori terra con quattro aperture
di cui tre sul prospetto principale e una sul prospetto
laterale ad una veranda di mq 33 con sottostante
pavimentazione e coperta da travi in legno e soprastante
copertura in cemento..." e in un "... muretto
perimetrale in blocchetti di cemento e locale adibito a
forno per la cottura degli alimenti".
...
6. - Le censure sopra esposte sono manifestamente infondate.
6.1. - In linea di fatto, occorre riprendere la motivazione
dell’ordinanza di demolizione e del rapporto del 31.03.2011,
del Corpo Forestale e di Vigilanza Ambientale (Stazione
Forestale di Luogosanto), da cui si evince che le opere,
ricadenti in zona E (agricola) e in area soggetta a vincolo
paesaggistico, sono state realizzate senza autorizzazione
paesaggistica; e che, sotto il profilo edilizio e
urbanistico, il Sig. Pi. aveva a suo tempo ottenuto una
autorizzazione edilizia (n. 625 del 17.12.1996) per la “realizzazione
di una cisterna idrica interrata”.
Dai rilievi effettuati, veniva accertata, invece, la
realizzazione di una casa di civile abitazione di mq 79,
oltre a un muro perimetrale in blocchetti di cemento e un
locale adibito a forno per la cottura di alimenti.
6.2. - Ciò posto, passando alle censure dedotte dal
ricorrente, in primo luogo va rilevata la manifesta
infondatezza della censura basata sull’omessa comunicazione
di avvio del procedimento.
E’ noto, infatti, il consolidato indirizzo giurisprudenziale
che esclude dall’ambito di applicazione della norma sulla
comunicazione di avvio i procedimenti volti a esercitare i
poteri repressivi in materia edilizia, mediante adozione
dell’ordinanza di demolizione, trattandosi di procedimenti
che mettono capo a provvedimenti di contenuto vincolato (cfr.,
ex multis, Cons. St., sez. III, 14.05.2015, n. 2411;
da ultimo, Sez. IV, n. 5524/2018).
L’attività amministrativa è caratterizzata, in queste
ipotesi, dall’accertamento di presupposti di fatto
interamente tipizzati dalla norma attributiva del potere,
che integrano, alla luce della disciplina
urbanistico-edilizia rilevante, l’abuso; per cui gli apporti
partecipativi dei destinatari dell’ordinanza non possono
svolgere alcuna utile funzione al fine di orientare la
decisione amministrativa, che non potrebbe avere un
contenuto diverso rispetto a quello prefigurato dalla norma
di repressione dell’abuso.
L’orientamento ha trovato autorevole avallo nella recente
pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, n.
9 del 2017, che ha sottolineato e ribadito quanto sopra
anticipato, ossia che «l’ordine di demolizione è un atto
vincolato ancorato esclusivamente alla sussistenza di opere
abusive e non richiede una specifica motivazione circa la
ricorrenza del concreto interesse pubblico alla rimozione
dell’abuso. In sostanza, verificata la sussistenza dei
manufatti abusivi, l’Amministrazione ha il dovere di
adottarlo, essendo la relativa ponderazione tra l'interesse
pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore.
In ragione della natura vincolata dell’ordine di
demolizione, non è pertanto necessaria la preventiva
comunicazione di avvio del procedimento […] né un'ampia
motivazione».
6.3. - Nemmeno può ammettersi l’esistenza di alcun
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione
di fatto abusiva, che il tempo non può in alcun modo
legittimare. Anche la circostanza dell’aver versato le
imposte comunali (ICI, IMU, TARI), fatta valere dal
ricorrente con la memoria conclusiva, non rileva sotto
questo profilo, poiché diversi sono i presupposti in base ai
quali si formano i predetti obblighi tributari [si veda sul
punto Cass. civ., Sez. trib., 28.01.2010, n. 1850, in tema
di TARSU, in cui si osserva che il «presupposto della
tassa de qua ai sensi del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 62, è
l'occupazione o la detenzione dì locali o aree scoperte
nelle zone del territorio comunale in cui il servizio di
smaltimento dei rifiuti sia attivo (e ciò -per quanto
concerne l'occupazione o detenzione di locali- a prescindere
dal completamento o meno del manufatto e/o dalla abusività o
meno della costruzione) …»] (TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 08.10.2018 n. 840 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Divieto, in Umbria, di recinzione nelle zone agricole.
---------------
Edilizia – Zone agricole - Recinzione – Umbria –
Esclusione – Art. 89, comma 2, l.reg. n. 1 del 2015 –
Violazione artt. 3. 42, 97, 117 Cost. – Rilevanza e non
manifesta infondatezza.
E’ rilevante e non manifestamente
infondata, in relazione agli artt. 3, 42, 97 e 117, commi 2,
lett. l) e 3, Cost., la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 89, comma 2, l.reg. Umbria
21.01.2015, n. 1, nella parte in cui prevede che “Nelle zone
agricole è esclusa ogni forma di recinzione dei terreni o
interruzione di strade di uso pubblico se non espressamente
previste dalla legislazione di settore o recinzioni da
installare per motivi di sicurezza purché strettamente
necessarie a protezione di edifici ed attrezzature
funzionali, anche per attività zootecniche” (1).
---------------
(1)
Ha preliminarmente affermato il Tar che non può accogliersi
una interpretazione dell’art. 89, comma 2, l.reg. Umbria
21.01.2015, n. 1 tale da far concludere per l’espunzione
delle recinzioni elettrificate dal novero delle opere a
difesa della proprietà, atteso che, per costante indirizzo
giurisprudenziale, “la recinzione senza opere murarie è
un manufatto essenzialmente destinato a delimitare una
determinata proprietà allo scopo di separarla dalle altre,
di custodirla e difenderla da intrusioni, secondo la nozione
elaborata dalla giurisprudenza civile in materia di muro di
cinta ex art. 878 c.c.” (Tar
Brescia, sez. I, 05.02.2008, n. 40).
Persino la presenza di un vincolo paesistico non costituisce
un impedimento insuperabile all'introduzione ex novo di
recinzioni al servizio della proprietà privata, poiché come
tutti gli altri interventi edilizi, anche le recinzioni sono
da considerare ammissibili quando non impediscano la
fruizione delle componenti del paesaggio tutelate dal
vincolo (Tar
Brescia sez. I, 03.07.2017, n. 868).
Ciò significa che la recinzione “leggera” in una zona
sottoposta a vincolo paesaggistico impone che l'autorità
preposta esprima il proprio parere, dando conto
dell’effettivo impatto del manufatto nel contesto tutelato e
della sua tollerabilità nella zona destinata ad ospitarlo.
Ha aggiunto il Tar che la Corte costituzionale (nn. 231 del
2015; id. 282 del 2016; id. 05.04.2018, n. 68 quest’ultima
in riferimento proprio alla legge regionale umbra n. 1 del
2015) è del tutto ferma nell’affermare che la definizione
delle categorie di interventi edilizi a cui si collega il
regime dei titoli abilitativi costituisce principio
fondamentale della materia concorrente del «governo del
territorio», vincolando la legislazione regionale di
dettaglio, cosicché, pur non essendo precluso al legislatore
regionale di esemplificare gli interventi edilizi che
rientrano nelle definizioni statali, tale esemplificazione,
per essere costituzionalmente legittima, deve essere
coerente con le definizioni contenute nel testo unico
dell’edilizia.
Le Regioni non possono “differenziarne il regime
giuridico, dislocando diversamente gli interventi edilizi
tra le attività deformalizzate, soggette a C.I.L. e C.I.L.A.”
(sentenza n. 231 del 2016). La “omogeneità funzionale
della comunicazione preventiva [...] rispetto alle altre
forme di controllo delle costruzioni (permesso di costruire,
DIA, SCIA) deve indurre a riconoscere alla norma che la
prescrive -al pari di quelle che disciplinano i titoli
abilitativi edilizi- la natura di principio fondamentale
della materia del governo del territorio”, in quanto
volto a garantire l'interesse unitario ad un corretto uso
del territorio (sentenza n. 231 del 2016).
Il legislatore regionale, che è vincolato alle categorie
edilizie tracciate dallo Stato, non può dunque restringere
il novero degli interventi edilizi liberi fissato dalla
legge statale (art. 6 T.U.) né invero introdurre fattispecie
del tutto nuove (e non ulteriori) se non travalicando
l’assetto delle competenze in subiecta materia (Corte
cost. 21.12.2016, n. 282).
Anche poi a voler ritenere la recinzioni di che trattasi, in
considerazione delle dimensioni (seppur in assenza di opere
murarie) intervento sottoposto a C.I.L.A. ai sensi dell’art.
6-bis, d.P.R. n. 380 del 2001, come inserito dall'articolo
1, comma 1, lettera c), d.lgs. 25.11.2016, n. 222 (c.d.
S.C.I.A. 2), permarrebbe il descritto contrasto con l’art.
117, comma 3, Cost., dal momento che alla potestà
legislativa regionale è consentito di apporre ulteriori
semplificazioni ma vietata la previsione di regimi più
restrittivi.
Ciò, tra l’altro, suscita l’ulteriore dubbio di
costituzionalità in punto di disparità di trattamento ed
irragionevolezza (art. 3 Cost.) oltre che di buon andamento
(art. 97 Cost.) dal momento che l’art. 118, lett. l), della
stessa l.reg. n. 1 del 2015, ancorché non faccia espresso
riferimento in termini di applicabilità alle zone agricole,
liberalizza invece “le delimitazioni per le attività di
protezione della fauna selvatica e dei territori”,
consentendo all’agricoltore di realizzare liberamente
recinzioni a protezione dei propri edifici ed animali, ma
non anche per impedire dall’esterno l’ingresso involontario
della fauna selvatica che, come i cinghiali, è notoriamente
causa di ingenti danni per le coltivazioni (tanto da indurre
la stessa Regione -con la l.reg. n. 17 del 2009 e relativo
regolamento di attuazione- a prevedere indennizzi), se non
subordinatamente, come visto, alle autorizzazioni previste
nell’ambito dei piani di prevenzione predisposti dagli
A.T.C.
Del resto, con riferimento alle zone agricole, è stato
evidenziato che il divieto di recintare il fondo è non solo
antigiuridico ma anche macroscopicamente irragionevole,
essendo un elemento imprescindibile di molte coltivazioni e
degli allevamenti di bestiame, attività che possono essere
svolte anche in aree finitime alle abitazioni (Tar
Umbria 07.04.2006, n. 218). In proposito la
ricorrente ha dedotto di coltivare frutteti sull’area di
proprietà, attività che sarebbe pressoché impossibile
svolgere in assenza di qualsivoglia recinzione.
Appare inoltre contraddittoria ed irragionevole la stessa
incentivazione contenuta nella l.reg. n. 17 del 2009
all’utilizzo degli strumenti difensivi (art. 6) per la
prevenzione del danno alle colture agricole, se raffrontata
al generale divieto di cui all’art. 89, l.reg. n. 1 del 2015
(TAR Umbria,
ordinanza 08.10.2018 n. 521 - commento tratto da
e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
Considerato in diritto:
1. In via preliminare deve rilevare il Collegio come non
possa trovare accoglimento l’eccezione di inammissibilità
per omessa impugnazione del parere della Regione Umbria del
06.07.2017 (richiamato nel provvedimento impugnato) e della
direttiva regionale n. 67738 in data 11.05.2015, trattandosi
il primo di atto evidentemente endoprocedimentale privo di
contenuto decisorio ed il secondo di atto non immediatamente
lesivo della posizione di parte ricorrente, in quanto
recante la sola conferma del fatto che le recinzioni sono
ammissibili se previste da leggi settoriali (elencando
alcuni casi, non esaustivi, in cui la legislazione ammette
la possibilità di cingere i terreni).
1.1. A medesime conclusioni deve giungersi in ordine alla
dedotta mancata impugnazione dell’art. 42 delle N.T.A. del
P.R.G., atteso che detta disposizione, ancorché richiamata
nel provvedimento gravato, nulla prevede in ordine al
divieto in contestazione ed anzi pare ammettere gli
interventi di tipo manutentivo quale quello di specie, a
tacer del fatto che non vi è prova dell’ubicazione dell’area
in questione all’interno del “Parco culturale” ove
insisterebbe l’asserito divieto.
2. Del pari infondata risulta poi anche l’altra eccezione di
inammissibilità del ricorso per intempestiva impugnazione
dell’ordinanza di sospensione dei lavori n. 3 del 13.04.2017
e della diffida dalla prosecuzione dei lavori ripresi prot.
n. 21785 del 22.06.2016, trattandosi la prima di
provvedimento che ha esaurito i suoi effetti temporali
(massimo 45 giorni) prima dell’emanazione dell’ordinanza di
demolizione -e dunque privo di capacità lesiva (ex multis
TAR Lazio Roma sez. I, 08.06.2011, n. 5121)- e la seconda di
atto che per giurisprudenza costante è insuscettibile di
integrare l’interesse a ricorrere (cfr., ex multis,
Consiglio di Stato, sez. V, 20.08.2015, n. 3955).
3. Per quanto riguarda il merito del ricorso, occorre
premettere, in punto di fatto, come la recinzione in
questione estesa per circa 3 km. senza soluzione di
continuità, sia posta in area agricola non soggetta a
vincolo paesaggistico e costituita da paletti metallici ad
altezza massima di mt. 1,50 distanziati tra loro mt. 6 con
n. 4 ordini di filo metallico elettrificato (il primo posto
a circa 30 cm. da terra) e n. 8 aperture, di circa 6 metri
l’una, “a molla”; tali modalità costruttive - secondo
la documentazione depositata in giudizio - appaiono atte a
garantire il normale passaggio di animali di piccole e medie
dimensioni, fatta eccezione per gli ungulati. La recinzione
elettrificata appariva in corso di realizzazione alla data
del 03.04.2017 (come da verbale Comune di Orvieto) ed è
utilizzata dall’impresa ricorrente unicamente a protezione
dei propri frutteti.
4. Ciò premesso, deve essere esaminato in ordine logico il
IV motivo di gravame, con il quale viene denunciata
l’illegittimità costituzionale dell’art. 89 della legge
regionale n. 1/12015, nell’ipotesi in cui detta norma debba
intendersi nel senso di escludere l’ammissibilità dei
sistemi di difesa passivi nei confronti degli animali
selvatici; interpretazione questa che secondo la
prospettazione di parte ricorrente avrebbe l’effetto di
comprimere illegittimamente una libertà riconosciuta
direttamente dalla Costituzione e garantita dalla legge
statale quale materia esclusiva in tema di “ordinamento
civile” (art. 117, comma 2, lett. l), della Costituzione).
5. A tale riguardo, ritiene anzitutto il Collegio che non
possa accogliersi una interpretazione della norma in
argomento tale da far concludere per l’espunzione delle
recinzioni elettrificate dal novero delle opere a difesa
della proprietà, atteso che per costante indirizzo
giurisprudenziale -come si esporrà più avanti- “la
recinzione senza opere murarie è un manufatto essenzialmente
destinato a delimitare una determinata proprietà allo scopo
di separarla dalle altre, di custodirla e difenderla da
intrusioni, secondo la nozione elaborata dalla
giurisprudenza civile in materia di muro di cinta ex art.
878 c.c.” (cfr., ex multis TAR Lombardia, Brescia,
sez. I, 05.02.2008, n. 40).
Persino la presenza di un vincolo paesistico -assente nel
caso di specie-
non costituisce un impedimento insuperabile
all'introduzione ex novo di recinzioni al servizio della
proprietà privata, poiché come tutti gli altri interventi
edilizi, anche le recinzioni sono da considerare ammissibili
quando non impediscano la fruizione delle componenti del
paesaggio tutelate dal vincolo (TAR Lombardia, Brescia sez.
I, 03.07.2017, n. 868).
Ciò significa che la recinzione “leggera” in una zona
sottoposta a vincolo paesaggistico impone che l'autorità
preposta esprima il proprio parere, dando conto
dell’effettivo impatto del manufatto nel contesto tutelato e
della sua tollerabilità nella zona destinata ad ospitarlo.
6. Di qui l’evidente rilevanza, ai fini del presente
giudizio, della questione di legittimità costituzionale che
si intende sollevare in ordine all’art. 89, comma 2, della
legge regionale n. 1 del 2015, dal momento che il
provvedimento impugnato si fonda essenzialmente sul divieto
ivi previsto di innalzare in zona agricola “ogni forma di
recinzione dei terreni” divieto -come si vedrà- che in
quanto del tutto scollegato da dimensioni e caratteristiche
costruttive, appare prescindere dalla tutela di interessi
ambientali, paesaggistici e/o estetici.
Pare al Collegio del tutto logico -secondo le argomentazioni
che si articoleranno- come la difesa del proprio fondo dalle
intrusioni discendente dagli artt. 841 e 878 c.c. sia
diretta nei confronti non solo delle persone non autorizzate
bensì della stessa fauna selvatica, in considerazione degli
ingenti danni che notoriamente essa arreca alle colture
degli agricoltori, apparendo la recinzione elemento
imprescindibile delle coltivazioni oltre che degli
allevamenti di bestiame.
6.1. Giova evidenziare come ai sensi della legge regionale
n. 17 del 2009 “Norme per l'attuazione del fondo
regionale per la prevenzione e l’indennizzo dei danni
arrecati alla produzione agricola dalla fauna selvatica ed
inselvatichita e dall'attività venatoria” e del
regolamento regionale attuativo n. 5/2010, l’installazione
di sistemi di difesa delle colture -tutt’altro che
liberalizzata- è collegata alla duplice condizione della
presentazione di apposita domanda di autorizzazione per
emergenze agricole (art. 4, comma 1, lett. c), R.R. n. 5/2010)
e della programmazione da parte degli A.T.C. nei propri
piani di prevenzione (art. 2, comma 3, R.R. 5/2010). Detti
piani possono comprendere, quali misure preventive dei danni
alle coltivazioni, le recinzioni elettriche (art. 4. comma
2, lett. c), regolamento regionale n. 5/2010) solamente per “emergenze
agricole”, predeterminandone l’estensione ed il numero.
Di qui l’impossibilità di ritenere -pur come vorrebbe parte
ricorrente- la realizzazione della recinzione de qua
consentita “dalla legislazione di settore” ai sensi
dell’art. 89 della legge regionale n. 1 del 2005, non avendo
peraltro l’A.T.C. n. 3 (competente per il territorio di
Orvieto) adottato per l’anno di riferimento il prescritto
piano di prevenzione né l’impresa agricola ricorrente,
conseguentemente, presentato la prescritta domanda.
6.2. Sempre ai fini del parametro della rilevanza emerge
l’infondatezza delle altre doglianze che presentano priorità
logico-giuridica (ex multis Corte Cost. 15.07.2015,
n. 161).
6.3. In necessaria sintesi, infatti, emerge quanto al II
motivo di gravame il carattere non temporaneo delle opere in
contestazione, dal momento che la stessa parte ricorrente ha
ammesso (vedi pag. 4 del ricorso introduttivo) il
posizionamento per almeno due anni (ovvero per il tempo
necessario alla crescita delle piante) in palese deroga allo
stesso limite temporale di 90 giorni previsto dall’art. 118,
c. 2, lett. b), L.R. 1/2005; quanto alla doglianza di cui al
V motivo, logicamente di natura subordinata, consistente
nella invocata applicazione della sanzione pecuniaria in
luogo dell’impugnata demolizione, ai sensi dell’art. 37
d.P.R. n. 380/2001, essa non è certo di per sé in grado di
elidere l’interesse allo scrutinio di costituzionalità,
invocando parte ricorrente, pregiudizialmente, l’indebita
esclusione dell’intervento per cui è causa dal novero degli
interventi edilizi liberi.
6.4. Parimenti irrilevante, ai fini della decisione nel
merito, è il VI motivo in tema di asserita violazione delle
distanze dalle strade di cui all’art. 25, comma 4, del
regolamento regionale n. 1 del 2015, quale motivazione
ulteriore a supporto dell’ordinanza gravata, dal momento che
né il provvedimento impugnato né i verbali di sopralluogo
riportano misurazioni di sorta né l’indicazione delle strade
(comunali, vicinali) dalla cui classificazione discende la
stessa misurazione della distanza.
6.5. Giova infine evidenziare, al fine di confutare
l’eccezione di Italia Nostra -peraltro inammissibile in
quanto nuova ed irritualmente ampliativa del “thema
decidendum” (ex multis Consiglio di Stato, sez.
IV, 16.12.2016, n. 5340)- l’irrilevanza nel presente
giudizio del presunto ed indimostrato vincolo idrogeologico
insistente sull’area di che trattasi, dal momento che detto
vincolo, in ipotesi potenzialmente ostativo ex art. 6, comma
1, d.P.R. 380/2001 ai fini della liberalizzazione edilizia,
non è indicato tra i motivi a fondamento del provvedimento
comunale impugnato, né vi è invero prova della sua stessa
esistenza.
7. Quanto alla non manifesta infondatezza della questione di
costituzionalità, deve in primo luogo rilevarsi, quanto al
quadro normativo statale di riferimento, che
devono
normalmente considerarsi attività libera, (ai sensi
dell’art. 6, comma 1, lett. a), del d.P.R. n. 380/2001) le
recinzioni che, come nel caso di specie, non configurino
un’opera edilizia permanente, bensì manufatti di precaria
installazione e di immediata asportazione (quali, ad
esempio, recinzioni in rete metalliche, sorretta da paletti
in ferro o di legno e senza muretto di sostegno), in quanto
entro tali limiti la loro posa in essere rientra tra le
manifestazioni del diritto di proprietà, comprendenti lo
“ius excludendi alios”, oltre a non comportare
un’apprezzabile alterazione ambientale, estetica e
funzionale (ex multis Consiglio di Stato sez. IV, 14.06.2018, n. 3661; id. 15.12.2017, n. 5908; C.G.A.
Sicilia, sez. consultive, 18.12.2013, n. 1548; TAR
Lombardia, Brescia, sez. I, 03.07.2017, n. 868; TAR
Campania, Salerno, sez. II, 11.09.2015, n. 1902;
TAR Umbria, 18.08.2016, n. 571).
Il titolo edilizio
(SCIA o permesso di costruire) è dunque richiesto solamente
ove la recinzione, per dimensioni e caratteristiche
tecniche, riveli un consistente impatto sul territorio (ex multis TAR Lombardia Brescia sez. I,
05.02.2008, n.
40; TAR Sardegna sez. II, 16.01.2017, n. 18;
Consiglio di Stato sez. V, 09.04.2013, n. 1922).
7.1.
Quanto alla disciplina civilistica, l’art. 841 c.c. è
chiaro nel fare rientrare nelle facoltà dominicali la
realizzazione di recinzioni: la recinzione è un manufatto
essenzialmente destinato a delimitare una determinata
proprietà allo scopo di separarla dalle altre, di custodirla
e “difenderla da intrusioni”, secondo la stessa
nozione elaborata dalla giurisprudenza civile in materia di
muro di cinta ex art. 878 c.c. (cfr. Corte di Cassazione,
sez. II civile, 03.09.1991, n. 9348; 15.11.1986, n. 6737).
7.2. Quanto invece alla normativa regionale, l’art. 118,
comma 1, della legge regionale 1 del 2015, pur affermando in
generale e coerentemente con il suesposto art. 6 del T.U. la riconducibilità degli interventi di manutenzione ordinaria
all’attività libera, limita la realizzazione di strutture e
delimitazioni per le attività di protezione (lett. l) “della
fauna selvatica e dei territori, nonché per il prelievo
venatorio di cui all’art. 89, comma 2, terzo periodo”
lasciando così intendere come escluse le recinzioni delle
colture agricole a protezione “dalla fauna selvatica”.
Questa, d’altronde, è la lettura autentica offerta dalla
stessa Regione nel parere del 06.07.2017 rilasciato dal
Dirigente del Servizio Urbanistica (richiamato
nell’ordinanza comunale impugnata) secondo cui nelle zone
agricole le recinzioni sono consentite “solo a protezione di
edifici ed attrezzature funzionali o per attività
zootecniche” ed invece escluse se a protezione delle colture
“dalla fauna selvatica”, oltre che nella stessa direttiva
regionale prot. 67738 dell’11.05.2015.
Anche la lett. g) della suddetto primo comma, nel
liberalizzare tra l’altro la realizzazione di “chiudende e
tettoie mobili con strutture aperte di modeste dimensioni
per le attività zootecniche” non pare includere le
recinzioni delle coltivazioni a protezione dalla fauna
selvatica.
L’art. 21, comma 3, lett. l), del regolamento regionale attuativo 18.02.2015, n. 2, a sua volta, fa rientrare
nel regime delle opere pertinenziali libere “le recinzioni,
i muri di cinta e le cancellate che non fronteggiano strade
o spazi pubblici o che non interessino superfici superiore a
metri quadrati 3.000”, norma evidentemente applicabile
laddove le recinzioni siano poste a servizio di edificio già
esistente.
Completano il sistema, per quanto qui rileva, la già
richiamata (vedi punto 6.1) legge regionale n. 17 del 2009 e
relativo regolamento attuativo n. 5/2010, in tema di
indennizzi dei danni arrecati alla produzione agricola dalla
fauna selvatica, la quale -come anticipato- assoggetta la
realizzazione delle recinzioni elettriche ad autorizzazione
secondo la programmazione da parte degli A.T.C.
Tale ultima normativa non presenta all’evidenza valenza
urbanistico edilizia e non può nemmeno concretamente valere
quale “norma di settore” ai fini della deroga al divieto
contenuto nell’art. 89 della legge regionale n. 1 del 2015,
in carenza dei prescritti piani di prevenzione predisposti
dagli A.T.C.
8. Così sinteticamente descritto il quadro normativo di
riferimento, ne discende che
la descritta facoltà di cui
all’art. 841 c.c. è legittimamente sacrificabile mediante il
potere conformativo dello “ius aedificandi” ai sensi
dell’art. 42 della Costituzione, solamente quando ricorrano
le condizioni previste dall’ordinamento in funzione di
superiori interessi pubblici, dei quali va dato conto
attraverso il loro bilanciamento con le opposte ragioni di
cui sono portatori i soggetti privati coinvolti (cfr. TAR
Lombardia Brescia 05.12.2006 n. 1545; id. 04.03.2015,
n. 362):
così il P.R.G. -in materia di recinzioni della
proprietà privata- può dettare particolari prescrizioni
ispirate a fini di tutela ambientale, ad esempio
individuando particolari modalità costruttive da adottare e
disponendo l’uso di specifici materiali, purché ciò avvenga
nel rispetto del principio generale di buona
amministrazione, sancito dall’art. 97 della Carta
costituzionale, e dei canoni di logicità, equità,
imparzialità ed economicità, nonché delle norme di diritto
positivo di carattere inderogabile (TAR Friuli Venezia
Giulia, 23.07.2001 n. 421).
9. Nella fattispecie in contestazione il divieto di
recinzione nelle zone agricole è posto esclusivamente e
direttamente da una norma regionale (l’art. 89 della legge
regionale n. 1 del 2015 più volte citato), che in quanto
incidente “in peius” sulle facoltà dominicali proprie del
diritto di proprietà, va illegittimamente a comprimere una
libertà oggetto di competenza statale esclusiva ex art. 117,
comma 2, lett. l), della Costituzione in materia di
“ordinamento civile”.
La Consulta ha ripetutamente ribadito che in subiecta
materia la potestà legislativa è riservata allo Stato, in
via esclusiva, dall'art. 117, secondo comma, lett. l), Cost.
(sent nn. 18 del 2013; 19, 22, 77, 131, 137, 159, 162, 218,
225, 228 e 229 del 2013; 19, 27, 61, 126, 134, 141, 188 e
269 del 2014; 124, 180 e 245 del 2015; 1, 175, 178, 185,
186, 228, 231, 257 e 262 del 2016).
Nel caso di specie il divieto posto dal legislatore
regionale, completamente scisso dalle dimensioni e dalle
caratteristiche costruttive delle recinzioni e dunque da
ogni apprezzabile alterazione ambientale, estetica e
funzionale id est dalla salvaguardia dei valori culturali ed
ambientali, non pare potersi ricondurre all’esercizio delle
prerogative regionali concorrenti in materia
urbanistico-edilizia.
10. E’ altresì dubbia, ad avviso del Collegio, la stessa
rilevanza del suddetto divieto per la funzione sociale quale
limite connaturato allo “ius aedificandi” (Corte Cost. 29.05.1968 n. 56;
04.07.1974 n. 202) con conseguente
sospetto di violazione anche dell’art. 42 della
Costituzione.
11. Sotto altro profilo,
il divieto in argomento -ove
riconducibile a giudizio del giudice delle leggi
all’esercizio delle prerogative regionali urbanistiche-
appare comunque illegittimo per contrasto con l’art. 117,
comma 3, della Costituzione, il quale in materia di “governo
del territorio” consente alle Regioni di porre la disciplina
di dettaglio nel rispetto dei principi stabiliti dalla
normativa statale, che per quanto in questa sede interessa,
appaiono palesemente violati ove si consideri che a norma
dell’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001, le recinzioni senza
opere murarie costituiscono di regola interventi edilizi
liberi, nei confronti dei quali deve ritenersi precluso
l’introduzione per potestà normativa regionale concorrente
di regimi particolarmente restrittivi non giustificati da
superiori interessi pubblici, ovvero di divieti in senso
assoluto non sorretti da apprezzabili finalità ambientali,
estetiche e funzionali.
12. È noto come la Corte Costituzionale è del tutto ferma
nell’affermare che
la definizione delle categorie di
interventi edilizi a cui si collega il regime dei titoli
abilitativi costituisce principio fondamentale della materia
concorrente del «governo del territorio», vincolando la
legislazione regionale di dettaglio, cosicché, pur non
essendo precluso al legislatore regionale di esemplificare
gli interventi edilizi che rientrano nelle definizioni
statali, tale esemplificazione, per essere
costituzionalmente legittima, deve essere coerente con le
definizioni contenute nel testo unico dell’edilizia (ex multis Corte Cost. nn. 231/2015; id. 282/2016; id.
05.04.2018, n. 68 quest’ultima in riferimento proprio alla legge
regionale umbra n. 1 del 2015).
Come si è già precisato con riguardo agli interventi
sottoposti a regime di edilizia libera,
le Regioni non
possono “differenziarne il regime giuridico, dislocando
diversamente gli interventi edilizi tra le attività deformalizzate, soggette a C.I.L. e C.I.L.A.” (sentenza n.
231 del 2016).
La “omogeneità funzionale della comunicazione
preventiva [...] rispetto alle altre forme di controllo
delle costruzioni (permesso di costruire, DIA, SCIA) deve
indurre a riconoscere alla norma che la prescrive -al pari
di quelle che disciplinano i titoli abilitativi edilizi- la
natura di principio fondamentale della materia del governo
del territorio”, in quanto volto a garantire l'interesse
unitario ad un corretto uso del territorio (sentenza n. 231
del 2016).
Il legislatore regionale, che è vincolato alle categorie
edilizie tracciate dallo Stato, non può dunque restringere
il novero degli interventi edilizi liberi fissato dalla
legge statale (art. 6 T.U.) né invero introdurre fattispecie
del tutto nuove (e non ulteriori) se non travalicando
l’assetto delle competenze in subiecta materia (Corte Cost.
21.12.2016, n. 282).
12.1.
Anche poi a voler ritenere la recinzioni di che
trattasi, in considerazione delle dimensioni (seppur in
assenza di opere murarie) intervento sottoposto a C.I.L.A.
ai sensi dell’art. 6-bis del d.P.R. 380/2001, come inserito
dall'articolo 1, comma 1, lettera c), del d.Lgs. 25.11.2016,
n. 222 (c.d. S.C.I.A. 2), permarrebbe il descritto contrasto
con l’art. 117 comma 3, della Costituzione, dal momento che
alla potestà legislativa regionale è consentito di apporre
ulteriori semplificazioni ma vietata la previsione di regimi
più restrittivi.
13. Ciò, tra l’altro, suscita l’ulteriore dubbio di
costituzionalità in punto di disparità di trattamento ed
irragionevolezza (art. 3 della Costituzione) oltre che di
buon andamento (art. 97 della Costituzione) dal momento che
l’art. 118, lett. l), della stessa legge regionale n. 1 del
2015, ancorché non faccia espresso riferimento in termini di
applicabilità alle zone agricole, liberalizza invece “le
delimitazioni per le attività di protezione della fauna
selvatica e dei territori”, consentendo all’agricoltore di
realizzare liberamente recinzioni a protezione dei propri
edifici ed animali, ma non anche per impedire dall’esterno
l’ingresso involontario della fauna selvatica che, come i
cinghiali, è notoriamente causa di ingenti danni per le
coltivazioni (tanto da indurre la stessa Regione -con la
legge regionale n. 17 del 2009 e relativo regolamento di
attuazione- a prevedere indennizzi), se non
subordinatamente, come visto, alle autorizzazioni previste
nell’ambito dei piani di prevenzione predisposti dagli A.T.C..
Del resto,
con riferimento alle zone agricole, è stato
evidenziato che il divieto di recintare il fondo è non solo
antigiuridico ma anche macroscopicamente irragionevole,
essendo un elemento imprescindibile di molte coltivazioni e
degli allevamenti di bestiame, attività che possono essere
svolte anche in aree finitime alle abitazioni (TAR
Umbria, 07.04.2006, n. 218). In proposito la ricorrente
ha dedotto di coltivare frutteti sull’area di proprietà,
attività che sarebbe pressoché impossibile svolgere in
assenza di qualsivoglia recinzione.
Appare inoltre contraddittoria ed irragionevole la stessa
incentivazione contenuta nella legge regionale n. 17 del
2009 all’utilizzo degli strumenti difensivi (art. 6) per la
prevenzione del danno alle colture agricole, se raffrontata
al generale divieto di cui all’art. 89 della legge regionale
n. 1 del 2015.
14. Preme sottolineare, infine, quanto ancora al parametro
della rilevanza (Corte Cost. 17.03.2017, n. 58) in
relazione a tutti i profili di contrasto dell’art. 89 della
legge regionale n. 1 del 2015 sospettato di
incostituzionalità, l’impossibilità per questo giudice di
risolvere in via interpretativa gli ipotizzati dubbi di
compatibilità costituzionale, in relazione all’univoco
tenore letterale della legge, che segna il confine in
presenza del quale il tentativo interpretativo deve cedere
il passo al sindacato di legittimità costituzionale (ex multis Corte Cost. sent. n. 26/2010).
Anche di recente la Consulta ha affermato che la questione
di legittimità costituzionale vada esaminata anche
nell’ipotesi in cui l’interpretazione conforme sia difficile
pur se non impossibile (Corte Cost. 24.02.2017, n. 43).
In particolare, l’art. 89 della legge regionale n. 1 del
2015 e relativo regolamento attuativo nonché la “legislazione
di settore” ivi richiamata, non consentono nella
generalità delle zone agricole la realizzazione di
recinzioni a protezione dalla fauna selvatica, a prescindere
da qualsivoglia elemento dimensionale o estetico, secondo il
c.d. diritto vivente nonché l’interpretazione autentica
fornita dalla stessa Regione Umbria (come esaminato al punto
7.2).
15. Alla luce delle considerazioni sopra svolte,
deve ritenersi rilevante e non manifestamente
infondata la sollevata questione di legittimità
costituzionale del divieto di recinzioni in zona agricola di
cui all’art. 89, comma 2, della legge della Regione Umbria
n. 1 del 2015, per contrasto con gli artt. 3, 42, 97 e 117,
commi 2, lett. l) e 3 della Costituzione, nella parte in cui
prevede che “Nelle zone agricole è esclusa ogni forma di
recinzione dei terreni o interruzione di strade di uso
pubblico se non espressamente previste dalla legislazione di
settore o recinzioni da installare per motivi di sicurezza
purché strettamente necessarie a protezione di edifici ed
attrezzature funzionali, anche per attività zootecniche”
e va pertanto disposta la sospensione del presente giudizio
e la trasmissione degli atti di causa alla Corte
Costituzionale, oltre agli ulteriori adempimenti di legge
indicati in dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per
l’Umbria (Sezione Prima),
pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, visti
l’art. 134, comma 1, della Costituzione, gli artt. 1 della
legge 09.02.1948, n. 1, e 23 della legge 11.03.1953, n. 87,
solleva, ritenendola rilevante e non manifestamente
infondata in
relazione agli artt. 3, 42, 97 e 117 commi 2, lett. l) e 3
della Costituzione, la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 89, comma 2, della
legge della Regione Umbria 21.01.2015, n. 1, nella parte in
cui prevede che “Nelle zone agricole è esclusa ogni forma
di recinzione dei terreni o interruzione di strade di uso
pubblico se non espressamente previste dalla legislazione di
settore o recinzioni da installare per motivi di sicurezza
purché strettamente necessarie a protezione di edifici ed
attrezzature funzionali, anche per attività zootecniche”
e, per l’effetto, dispone la sospensione del giudizio e la
rimessione degli atti alla Corte Costituzionale. |
EDILIZIA PRIVATA: Recupero
dei sottotetti e requisiti di altezza.
L’altezza di m.
2,40 indicata dall’art. 63 della l.r.
12/2005 -ai sensi del quale il recupero
abitativo dei sottotetti è consentito purché
sia assicurata per ogni singola unità
immobiliare l’altezza media ponderale di
metri 2,40, ulteriormente ridotta a metri
2,10 per i comuni posti a quote superiori a
seicento metri di altitudine sul livello del
mare, calcolata dividendo il volume della
parte di sottotetto la cui altezza superi
metri 1,50 per la superficie relativa-
costituisce quella minima e non massima che
i sottotetti debbono avere per poter essere
utilizzati a fini abitativi (nella
fattispecie è stato ritenuto conforme alla
disciplina regionale un sottotetto di tre
metri d’altezza)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 05.10.2018 n. 2220 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
2.1. Il ricorso principale è palesemente
improcedibile, avendo il Comune proceduto
alla revoca in autotutela del provvedimento
impugnato.
2.2. Quanto al primo ricorso per motivi
aggiunti, l’annullamento parziale della
d.i.a. è giustificato con il presunto
contrasto dell’intervento per il recupero
del sottotetto (quello realizzato dal Brugi
ha un’altezza di m. 3,00) con l’art. 63,
commi 1-bis e 6, della l.r. 12/2005: la
prima disposizione definisce “sottotetti i
volumi sovrastanti l’ultimo piano degli
edifici dei quali sia stato eseguito il
rustico e completata la copertura”, la
seconda stabilisce che “Il recupero
abitativo dei sottotetti è consentito purché
sia assicurata per ogni singola unità
immobiliare l’altezza media ponderale di
metri 2,40, ulteriormente ridotta a metri
2,10 per i comuni posti a quote superiori a
seicento metri di altitudine sul livello del
mare, calcolata dividendo il volume della
parte di sottotetto la cui altezza superi
metri 1,50 per la superficie relativa”.
2.3. Il ricorso è fondato, con riferimento
al secondo motivo: all’opposto di quanto il
Comune afferma, l’altezza di m. 2,40
indicata dalla disposizione costituisce
quella minima e non massima che i sottotetti
debbono avere per poter essere utilizzati a
fini abitativi: sicché, il sottotetto di tre
metri d’altezza, su cui si controverte, è
pienamente conforme alla disciplina
regionale.
2.4. Per l’effetto, il provvedimento di
rituro in autotutela qui impugnato va
senz’altro annullato, come pure il
provvedimento 30.05.2011, PG
407598/2011, impugnato con i secondi motivi
aggiunti, in quanto affetto da invalidità
derivata.
3. Ogni ulteriore questione sollevata con i
motivi aggiunti è da ritenersi assorbita,
tanto più tenuto conto che un ipotetico
ulteriore riesame, da parte dell’Ente, della
d.i.a. in questione (in qualche modo
ventilato nelle sue difese processuali)
andrebbe compiuto in conformità alla
disciplina sull’autotutela attualmente
vigente, e alla relativa giurisprudenza.
4. Infine, nessun danno risulta aver
sofferto il ricorrente, e, pertanto, nessun
risarcimento in forma specifica o per
equivalente (richiesti peraltro del tutto
genericamente) risulta dovuto. |
EDILIZIA PRIVATA:
Per gli oneri concessori spettano gli interessi
legali dalla data della domanda (dovendosi presumere la
buona fede dell'Amministrazione percipiente, stante anche le
difficoltà interpretative nella materia in questione), ma
non la rivalutazione monetaria, trattandosi di pagamento di
indebito oggettivo, il quale genera la sola obbligazione di
restituzione con gli interessi a norma dell'art. 2033 c.c..
In altri termini, non spetta, invece, <<la rivalutazione
monetaria ("la domanda di rivalutazione monetaria avanzata
con riferimento all'indebito pagamento di oneri di
urbanizzazione deve essere respinta tenuto conto che
l'obbligazione di restituzione dell'indebito genera, ai
sensi dell'art. 2033 c.c., esclusivamente l'obbligazione
accessoria di interessi")>>.
---------------
Ne consegue che il Comune deve essere condannato alla
restituzione delle somme versate, così come risultante dalla
stessa concessione edilizia rilasciata, detratta la
rideterminazione del costo di costruzione, così come
stabilito, e richiesto in via subordinata da parte
ricorrente, dall’art. 10 della L. 10/1977.
Sono stati chiesti gli interessi e la rivalutazione.
Va condiviso l’orientamento della Giurisprudenza (TAR
Trieste, sez. I, 12/12/2013, n. 649; TAR Firenze, sez. III,
27/11/2014, n. 1902), secondo il quale per oneri concessori
spettano gli interessi legali dalla data della domanda
(dovendosi presumere la buona fede dell'Amministrazione
percipiente, stante anche le difficoltà interpretative nella
materia in questione), ma non la rivalutazione monetaria,
trattandosi di pagamento di indebito oggettivo, il quale
genera la sola obbligazione di restituzione con gli
interessi a norma dell'art. 2033 c.c..
In altri termini (cfr. TAR Milano, sez. II, 27/02/2017, n.
469), non spetta, invece, <<la rivalutazione monetaria
("la domanda di rivalutazione monetaria avanzata con
riferimento all'indebito pagamento di oneri di
urbanizzazione deve essere respinta tenuto conto che
l'obbligazione di restituzione dell'indebito genera, ai
sensi dell'art. 2033 c.c., esclusivamente l'obbligazione
accessoria di interessi", cfr. Consiglio di Stato, sez. IV,
24.07.1993, n. 799; TAR Emilia Romagna-Parma, 07.04.1998, n.
149; TAR Lombardia-Brescia, 02.11.2010, n. 4519; TAR
Piemonte, 01.12.2011, n. 1262)>> (TAR Sicilia-Catania,
Sez. I,
sentenza 05.10.2018 n. 1893 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Violazioni urbanistiche e
reati di falso materiale e ideologico e abuso d'ufficio -
Natura di atto fidefacente del permesso di costruire -
Esclusione - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Falsità ideologica
commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici - Falsità
ideologica commessa dal pubblico ufficiale in certificati o
in autorizzazioni amministrative - Assessore comunale con
delega all'urbanistica - Formazione di un falso atto di
rettifica e voltura di un permesso di costruire
originariamente emanato in favore di un diverso soggetto e
altre false attestazioni - Retrodatazione di atti necessaria
per evitare la verificazione del silenzio-rigetto - BOSCHI -
False attestazioni sulla natura non "boscata" dei terreni -
Artt. 10 e ss. 36, c. 3, d.P.R. n. 380/2001 - Artt. 476,
477,478, 479 e 480 cod. pen..
La natura di atto fidefacente fino a
querela di falso deve essere esclusa per il permesso di
costruire di cui agli artt. 10 e ss. del d.P.R. n. 380 del
2001, perché la sua funzione non è quella di accertare uno
stato di fatto, ma di garantire, attraverso un controllo
preventivo sulla sussistenza dei presupposti per l'esercizio
del diritto di edificazione, il corretto assetto del
territorio.
Esso si colloca, cioè, al di fuori della categoria degli
atti fidefacenti ai sensi degli artt. 476 e ss. cod. pen.,
perché non è espressione della ''funzione registratrice"
dello Stato o di altri enti pubblici e non rientra, perciò,
tra gli atti c.d. "probanti", che fanno fede fino ad
impugnazione di falso, come, ad esempio, gli atti notori,
dello stato civile, i verbali e le altre attestazioni,
devoluti ai pubblici ufficiali aventi ad oggetto
annotazioni, relazioni, constatazione di fatti o di
accadimenti giuridicamente significativi.
E le medesime considerazioni valgono anche per la voltura
del permesso di costruire e per l'attestazione di conformità
in sanatoria, perché anche tali atti hanno la stessa
funzione.
La voltura serve, infatti, a consentire che l'attività
edilizia originariamente assentita a favore di un soggetto
sia svolta da un diverso soggetto; mentre l'attestazione di
conformità ha l'effetto di sanare opere eventualmente
realizzate in difformità, svolgendo, ex post, la funzione
normalmente svolta ex ante dal permesso di costruire
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.10.2018 n. 44104
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Permesso di costruire - Momento consumativo del reato di
abuso d'ufficio - Condotta del pubblico ufficiale - Ingiusto
vantaggio patrimoniale per il soggetto beneficiato -
Incremento patrimoniale dell'immobile divenuto edificabile -
Giurisprudenza.
Il permesso di costruire, sebbene
effettivamente suscettibile, una volta rilasciato, di
generare un eventuale ulteriore incremento del patrimonio
del destinatario tramite l'esecuzione dei lavori autorizzati
o il trasferimento del bene immobile divenuto edificabile a
terzi, costituisce già di per sé una voce attiva nell'ambito
della situazione giuridica soggettiva dell'interessato,
perché il riconoscimento dell'edificabilità di un terreno
attribuisce a tale terreno una nuova possibilità di messa a
reddito, che ne determina un fisiologico incremento di
valore in relazione alle ampliate opportunità di suo
utilizzo (ex
plurimis, Sez. 3, n. 4140 del 13/12/2017, dep. 29/01/2018;
Sez. 6, n. 37531 del 14/06/2007; Sez. 6, n. 49554 del
22/10/2003).
Può dunque affermarsi che, rispetto
all'incremento patrimoniale che normalmente discende già
dalla semplice emanazione di un permesso ai costruire
illegittimo, l'eventuale successiva attività edificatoria
-così come l'eventuale successiva alienazione del terreno
divenuto edificabile- costituisce un post factum, che
dipende da una condotta ulteriore del titolare del bene,
rimanendo estraneo alla sfera di azione del pubblico
ufficiale che ha emanato l'atto illegittimo.
Ne consegue che il momento consumativo del reato di abuso
d'ufficio consistente nell'emanazione di un permesso ai
costruire illegittimo coincide con l'emanazione dell'atto
stesso, perché in tale momento si compie la condotta del
pubblico ufficiale e si verifica l'ingiusto vantaggio
patrimoniale per il soggetto beneficiato
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.10.2018 n. 44104
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Autorizzazione paesaggistica - Falso materiale e ideologico
- Esclusione di una sua riconducibilità alla categoria degli
atti fidefacenti - Querela di falso - Necessità.
L'autorizzazione paesaggistica oggetto
di falso materiale e ideologico è assimilabile al permesso
di costruire ai fini dell'esclusione di una sua
riconducibilità alla categoria degli atti fidefacenti fino a
querela di falso
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.10.2018 n. 44104
- link a www.ambientediritto.it). |
PATRIMONIO: Immobili da sgomberare subito. OCCUPAZIONI
ABUSIVE/CASSAZIONE: VIMINALE INDENNIZZI.
Gli immobili occupati abusivamente, appena la Procura ordina lo sgombero,
devono essere subito liberati dalle forze dell'ordine e il ministero
dell'interno non può compiere scelte "attendiste" perché altrimenti
garantirebbe "non l'ordine, ma il disordine pubblico"
Immobili occupati abusivamente da sgomberare. Subito.
Gli immobili occupati abusivamente, appena la procura ordina lo sgombero,
devono essere subito liberati dalle forze dell'ordine e il ministero
dell'interno non può compiere scelte «attendiste» perché altrimenti
garantirebbe «non l'ordine, ma il disordine pubblico» mentre «dove è più
intollerabile il sopruso, là più forte deve essere la reazione dello stato
di diritto». E qualora queste scelte attendiste siano compiute,
l'amministrazione deve indennizzare i proprietari.
Lo sottolinea la
Corte di Cassazione, Sez. III civile, con la
sentenza
04.10.2018 n. 24198, dando ragione ai
proprietari di 50 appartamenti occupati contro l'inerzia del Viminale che
per sei anni rimandò lo sgombero.
«La politica di welfare per garantire il
diritto a una casa non può compiersi a spese dei privati cittadini, i quali
già sostengono un non lieve carico tributario, specie sugli immobili, per
alimentare, attraverso la fiscalità generale, la spesa per lo stato
sociale», sottolinea la Cassazione che ha accolto il ricorso di due società
titolari di 50 appartamenti, 32 in un lotto a Firenze in via del Romito, e
18 in un lotto a Sesto Fiorentino in via Primo Maggio. Tra il dicembre 1993
e il maggio 1994, i due stabili vennero occupati da attivisti del Movimento
per la casa.
Nonostante la procura fiorentina in breve avesse dato l'ordine di sgombero,
il prefetto e il questore rinviarono per sei anni l'intervento «per evitare
disordini e tutelare l'ordine pubblico». Contestando questa scelta, gli
ermellini affermano che «se l'amministrazione intenda dare alloggio a chi
non l'abbia, la via legale è l'edificazione di alloggi o l'espropriazione di
private dimore secondo la legge e pagando il giusto indennizzo, e non certo
garantire a dei riottosi, perché di questo si è trattato, il godimento dei
beni altrui».
Per la Cassazione, le due società hanno diritto ad ottenere
dall'Interno il risarcimento dei danni patiti a causa delle scelte attendiste che hanno «violato e compresso il loro diritto di proprietà»,
garantito dalla Carta di Nizza, dalla Corte di Strasburgo e dalla
Costituzione, e ora la Corte di appello di Firenze deve calcolare i danni
prodotti da questo «incredibile ritardo».
Per il presidente di Confedilizia,
Giorgio Spaziani Testa, «dopo il tribunale di Roma, dalla Corte di
cassazione arrivano parole chiare sulle occupazioni abusive di immobili. Ora
aspettiamo il decreto sicurezza (ieri firmato dal capo dello stato, ndr) e
l'applicazione senza indugi della circolare Salvini. Forse in Italia
comincia a essere tutelato il diritto di proprietà» (articolo ItaliaOggi del 05.10.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Redazione dei criteri di valutazione delle prove di concorso
e motivazione della valutazione.
---------------
●
Concorso – Criteri di valutazione - Genericità – Esclusione.
●
Concorso – Prove – Valutazione – Voto numerico – Sufficienza
– Limiti.
●
I criteri di valutazione che la Commissione di concorso
redige nella prima riunione ai sensi dell’art. 12, d.P.R.
09.05.1994, n. 487, devono essere formulati non in termini
generici, generali o astratti riferibili a determinate
qualità e caratteristiche degli elaborati, ma dettagliati e
fungere da criteri motivazionali necessari a definire quanto
quelle qualità concorrano a determinare il punteggio
stabilito nel bando per le singole prove; occorre pertanto
che vangano formulati anche i criteri motivazionali ovvero i
pesi valutativi in base ai quali attribuire il punteggio
complessivo riservato alla singole prove (1).
●
Se è vero che il voto numerico è sufficiente ad
esprimere il giudizio sulle prove di un pubblico concorso,
allorché disposizioni specifiche e settoriali stabiliscano
invece una diversa regula iuris, sancendo la necessità che
venga allestito in aggiunta all’espressione di un voto
numerico, anche un giudizio discorsivo, quantunque
sintetico, è illegittimo l’operato della Commissione che
abbia formulato la valutazione delle prove mediante
l’espressione solo di un punteggio numerico (2).
---------------
(1)
In termini v.
Tar Lazio, sez. III-bis, 25.07.2018 n. 8426.
(2) Ha ricordato il Tar che la Corte costituzionale ha sancito da
tempo che nei concorsi pubblici la valutazione dei candidati
è sufficientemente espressa con un voto numerico, idoneo a
condensare la motivazione, avendo affermato che "il voto
numerico attribuito dalle competenti commissioni alle prove
scritte o orali di un concorso pubblico (o di un esame di
abilitazione) esprime e sintetizza il giudizio tecnico
discrezionale della commissione stessa, contenendo in sé la
sua motivazione, senza bisogno di ulteriori spiegazioni e
chiarimenti" (Cons.
St., sez. IV,19.07.2004, n. 5175; id.,
sez. VI, 02.04.2012, n. 1939; id.,
sez. III 28.09.2015 n. 4518; id.,
sez. V, 30.11.2015, n. 5407).
Tale principio è stato definito "diritto vivente"
dalla stessa Corte Costituzionale (cfr. sentenze 30.01.2009,
n. 20, e sentenza 15.06.2011, n. 175).
Ciò posto, deve tuttavia pervenirsi a diversa ed opposta
soluzione allorché disposizioni specifiche e settoriali
stabiliscano invece una diversa regula iuris,
sancendo, come nella specie, la necessità che venga
allestito in aggiunta all’espressione di un voto numerico,
anche un giudizio discorsivo, quantunque sintetico
(TAR
Lazio-Roma, Sez. III-bis,
sentenza 03.10.2018 n. 9714 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
3. Ritiene il Collegio fondata la censura.
3.1. Osserva al riguardo come sia ormai acquisito da tempo
il principio secondo cui la commissione di valutazione degli
elaborati di un concorso ovvero delle qualità di un
candidato debba predeterminare nella prima riunione i
criteri di valutazione ai quali si atterrà nello scrutinio
delle prove e che ciò debba avvenire prima che siano
conosciute le generalità di concorrenti, onde scongiurare il
ischio che la confezione dei criteri predetti avvenga su
misura in modo da poter favorire taluno dei competitors.
Stabilisce invero l’art. 12 del D.P.: b. 487/1994 che “Le
commissioni esaminatrici, alla prima riunione, stabiliscono
i criteri e le modalità di valutazione delle prove
concorsuali, da formalizzare nei relativi verbali, al fine
di assegnare i punteggi attribuiti alle singole prove.”.
La giurisprudenza ha fornito un’interpretazione conservativa
della norma, precisando che l’attività di predeterminazione
può avvenir anche dopo lo svolgimento delle prove scritte,
purché prima che si proceda alla loro correzione. Si è in
tal senso puntualizzato che “La fissazione di sub-criteri
per la valutazione delle prove concorsuali, ai sensi
dell'art. 12 del d.P.R. n. 487 del 1994, non è soggetta a
una pubblicazione antecedente allo svolgimento delle prove,
avendo una simile operazione il solo scopo di scongiurare il
sospetto di favoritismi verso singoli candidati, con la
conseguenza che si dovrà ritenere legittima la
determinazione dei predetti criteri dopo l'effettuazione
delle prove concorsuali, purché prima della loro concreta
valutazione, cioè antecedentemente all'effettiva correzione
delle prove scritte” (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I,
19.06.2015 n. 597).
Si è espresso in tal senso anche questo Tribunale (TAR
Lazio-Roma, Sez. I, 10.01.2017 n. 368; TAR Lazio-Roma, Sez. III 07.05.2014 n. 4733). L’assunto è
enunciato anche dal Giudice d’appello che ha al riguardo
precisato che “Il principio di preventiva fissazione dei
criteri e delle modalità di valutazione delle prove
concorsuali che, ai sensi dell'art. 12, d.P.R. 09.05.1994, n. 487, devono essere stabiliti dalla commissione
nella sua prima riunione (o tutt'al più prima della
correzione delle prove scritte), deve essere inquadrato
nell'ottica della trasparenza dell'attività amministrativa
perseguita dal legislatore, il quale pone l'accento sulla
necessità della determinazione e verbalizzazione dei criteri
stessi in un momento nel quale non possa sorgere il sospetto
che questi ultimi siano volti a favorire o sfavorire alcuni
concorrenti, con la conseguenza che è legittima la
determinazione dei predetti criteri di valutazione delle
prove concorsuali, anche dopo la loro effettuazione, purché
prima della loro concreta valutazione” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 19.03.2015 n. 1411).
3.2. La predeterminazione di adeguati criteri valutativi
assurge pertanto ad elemento essenziale nello svolgimento di
un concorso pubblico. La mancata predeterminazione dei
criteri nel corso della prima riunione della Commissione, di
per sé sola, rende illegittimo il procedimento di concorso
per violazione dell’art. 12 del d.P.R. n. 487/1994 (cfr.,
Consiglio di Stato, sez. V, 20.04.2016, n. 1567: “Nei
concorsi a pubblici impieghi, ai sensi dell’art. 12, d.P.R.
09.05.1994, n. 487, rientra nella competenza delle
Commissioni esaminatrici stabilire i criteri e le modalità
di valutazione delle prove concorsuali, da formalizzare nei
relativi verbali al fine di assegnare i punteggi attribuiti
alle singole prove”.
3.3. Nel caso di specie, per il vero, la commissione
esaminatrice nella seduta del 04.08.2016 ha predisposto una
serie di criteri, quali l’aderenza dell’elaborato alla
traccia scelta, la chiarezza espositiva, della capacità di
sintesi e completezza descrittiva, la capacità critica
nell’affrontare le problematiche proposte, la capacità di
valorizzazione funzionalità e applicabilità ai casi
concreti.
Trattasi tuttavia, all’evidenza, di canoni di massima e
generali, che non sono accompagnati dalla necessaria
fissazione dei relativi pesi valutativi, finendo con
l’arrestarsi a caratteristiche e qualità degli elaborati
piuttosto che a criteri motivazionali.
Non è dato in altri termini conoscere ex post quanto
ciascuna delle enucleate caratteristiche abbia pesato e
concorso nella formazione del giudizio finale di ogni
candidato.
Ha fatto infatti difetto la doverosa fissazione dei criteri
motivazionali.
Va al riguardo richiamato il recente precedente della
Sezione secondo il quale i “Criteri di valutazione [che]
ad avviso della Sezione devono essere formulati non in
termini generici, generali o astratti riferibili a
determinate qualità e caratteristiche degli elaborati, ma
dettagliati e fungere da criteri motivazionali necessari a
definire quanto quelle qualità concorrano a determinare il
punteggio stabilito nel bando per le singole prove” (TAR
Lazio–Roma, Sez. III-Bis, 25.07.2018 n. 8426).
3.4. Oltretutto va soggiunto che la necessità che i criteri
di valutazione siano corredati anche dei criteri
motivazionali, ovvero dei criteri di attribuzione dei
punteggi è sancita expressis verbis dall’art. 5, co. 4, del
Regolamento del personale ASI del 13.01.2012, il quale
dispone che “La valutazione verrà effettuata tramite
punteggi numerici e giudizi sintetici sulla base dei criteri
generali e di attribuzione di punteggi resi noti
dall’interno del bando”.
Occorreva quindi che già il bando facesse menzione specifica
dei criteri di valutazione nonché di quelli di attribuzione
dei punteggi.
Ed invero la ricorrente lamenta illegittimità anche del
bando di concorso, laddove censura al primo motivo “un bando
colpevolmente silente sul punto”.
Il primo motivo di ricorso è pertanto fondato e va accolto,
con annullamento del verbale della commissione del 04.08.2016
nonché di tutti quelli successivi e dello stesso bando di
concorso per omessa previsione dei criteri di valutazione e
dei criteri di attribuzione dei punteggi.
4. Con il secondo mezzo parte ricorrente lamenta che il voto
numerico è insufficiente a motivare le ragioni della
valutazione di un elaborato, atteso che l’art. 5 del
regolamento del personale ASI entrato in vigore a maggio
2012 stabilisce al comma 4 secondo periodo che “la
valutazione verrà effettuata tramite punteggi numerici e
giudizi sintetici sulla base dei criteri generali e di
attribuzione dei punteggi resi noti all’interno del bando”.
4.1. La sintetizzata censura si presta a positiva
considerazione e va dunque accolta.
E’ bensì noto che la giurisprudenza amministrativa,
suggellata dalla Corte Costituzionale ha in subiecta materia
sancito da tempo che nei concorsi pubblici la valutazione
dei candidati è sufficientemente espressa con un voto
numerico, idoneo a condensare la motivazione, avendo
affermato che "il voto numerico attribuito dalle competenti
commissioni alle prove scritte o orali di un concorso
pubblico (o di un esame di abilitazione) esprime e
sintetizza il giudizio tecnico discrezionale della
commissione stessa, contenendo in sé la sua motivazione,
senza bisogno di ulteriori spiegazioni e chiarimenti" (cfr.,
ex plurimis, Consiglio di Stato, sez. IV,19.07.2004, n.
5175 e Sez. VI, 02.04.2012, n. 1939, sez. III 28.09.2015 n. 4518; Consiglio di Stato, Sez. V, 30.11.2015, n. 5407).
Tale principio è stato definito
"diritto vivente" dalla stessa Corte Costituzionale (cfr.
sentenze 30.01.2009, n. 20, e sentenza 15.06.2011,
n. 175).
4.2. Ciò posto, deve tuttavia pervenirsi a diversa ed
opposta soluzione allorché disposizioni specifiche e
settoriali stabiliscano invece una diversa regula iuris,
sancendo, come nella specie, la necessità che venga
allestito in aggiunta all’espressione di un voto numerico,
anche un giudizio discorsivo, quantunque sintetico.
E’ quanto stabilisce l’art. 5, co. 4, del Regolamento per il
personale approvato dall’ASI con deliberazione del Consiglio
di amministrazione del 13.01.2012 n. CdA201XII/44/2012
(estratto dal Collegio dal Sito web dell’Amministrazione
alla Sezione “Leggi, norme e regolamenti ASI”, sottosezione
Regolamenti interni).
Tale norma dispone infatti che “La valutazione verrà
effettuata tramite punteggi numerici e giudizi sintetici
sulla base dei criteri generali e di attribuzione di
punteggi resi noti dall’interno del bando”.
Ciascun elaborato doveva essere dunque valutato sia mercé
l’assegnazione di un punteggio numerico sia mediante
l’esternazione di un giudizio ancorché sintetico.
La norma regolamentare dettante la regola del caso concreto
non è stata fatta oggetto di modifica da parte
dell’amministrazione che era dunque tenuta a seguirla.
Viceversa la mancata espressione anche di un giudizio
sintetico da parte della Commissione ha integrato un patente
violazione del disposto del riportato art. 5, co. 4, del
Regolamento del personale ASI, contribuendo a colorare di
illegittimità l’intera procedura di gara.
In definitiva, sulla scorta delle argomentazioni che
precedono il ricorso si profila fondato e va accolto,
potendosi assorbire il terzo motivo dedicato alla
composizione della commissione e non potendosi scrutinare le
censure svolte al quarto mezzo ed espressamente formulate
dalla ricorrente in via gradata, ossia per l’ipotesi di
negativo scrutinio di quelle trancianti dirette contro
l’intera procedura di concorso.
L’annullamento degli atti concorsuali importa la caducazione
del contratto di lavoro a tempo indeterminato stipulato il
22.12.2016 (produzione controinteressata del 27.07.2017
dall’ASI con la controinteressata Sa.Mi.. |
EDILIZIA PRIVATA:
Dal combinato disposto degli artt.
32, 33 e 35, l. 47 del 1985 può desumersi il principio che
non sono suscettibili di sanatoria tacita immobili siti in
aree sottoposte a vincolo paesaggistico-ambientale, essendo
all’uopo in ogni caso richiesto il parere espresso
dell'Autorità competente alla gestione del vincolo, ragione
per cui in tali ipotesi non è configurabile la formazione
del silenzio-assenso sull'istanza di condono.
---------------
Peraltro è noto –e condiviso dalla Sezione– l’orientamento
negativo dell’ammissibilità del silenzio-assenso in caso di
domande di condono edilizio relative ad abusi posti in
essere su aree sottoposte a vincolo paesaggistico (Cons.
Stato, sez. VI, 08.08.2014, n. 4226: “Al riguardo, un
consolidato –e qui condiviso- orientamento di questo
Consiglio ha stabilito che dal combinato disposto degli artt.
32, 33 e 35, l. 47 del 1985 può desumersi il principio che
non sono suscettibili di sanatoria tacita immobili siti in
aree sottoposte a vincolo paesaggistico-ambientale, essendo
all’uopo in ogni caso richiesto il parere espresso
dell'Autorità competente alla gestione del vincolo, ragione
per cui in tali ipotesi non è configurabile la formazione
del silenzio-assenso sull'istanza di condono (in tal senso
–ex plurimis -: Cons. Stato, V, 02.05.2013, n. 2395; id., IV,
18.09.2012, n. 4945; id., VI, 14.08.2012, n. 4573”) (Consiglio
di Stato, Sez. I,
parere 03.10.2018 n. 2278 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le risultanze delle aerofotogrammetrie, stante la loro
oggettiva evidenza, non sono superabili con pretese
testimonianze, come ipotizzato dal ricorrente.
Costante giurisprudenza ritiene che
l’onere della prova contraria (ossia della anteriore data di
ultimazione dei lavori) gravi, per regola generale, sul
ricorrente che contesta la documentazione fornita
dall’amministrazione, onere della prova –occorre aggiungere
e precisare- che può assumere rilevanza ed efficacia ai fini
della decisione solo se fondato su elementi che esprimano
pari o superiore certezza e oggettività probatoria rispetto
alle foto aeree del territorio fornite dall’amministrazione.
Invero, «la prova sulla
realizzazione delle opere entro la data del 31.03.2003 –trattavasi
in quella fattispecie del terzo condono edilizio, di cui al
d.l. n. 269 del 2003- grava sul richiedente la sanatoria,
che può avvalersi -se non vi è contestazione- della
dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, ma a fronte
di elementi di prova a disposizione dell'Amministrazione che
attestino il contrario -quali il rilievo aerofotogrammetrico-
il responsabile dell'abuso è gravato dall'onere di provare,
attraverso elementi certi, quali fotografie aeree, fatture,
sopralluoghi, e così via, l'effettiva realizzazione dei
lavori entro il termine previsto dalla legge per poter
usufruire del beneficio, non potendo limitarsi a contestare
i dati in possesso dell'Amministrazione senza fornire alcun
elemento di prova a corredo della propria tesi, in quanto
l'Amministrazione -in assenza di elementi di prova contrari-
non può che respingere la domanda di sanatoria».
---------------
Sotto un secondo profilo, contrariamente all’assunto di
parte ricorrente, deve considerarsi idonea a sorreggere il
diniego impugnato la motivazione imperniata sulle
aerofotogrammetrie dell’08.07.1993 e del 07.09.1994, che
comprovano la inesistenza, in quella data (il secondo
condono edilizio, del 1994, si applica alle opere abusive
che risultino ultimate entro il 31.12.1993), del manufatto
oggetto del diniego qui impugnato (pratica “B” relativa alla
costruzione della tettoia ad uso deposito artigianale).
Le risultanze delle aerofotogrammetrie, stante la loro
oggettiva evidenza, non sono superabili con pretese
testimonianze, come ipotizzato dal ricorrente.
Costante
giurisprudenza (Cons. Stato, sez. VI, 06.05.2008, n. 2010;
TAR Lecce, sez. III, 09.07.2018, n. 1132; TAR Napoli, sez.
III, 25.06.2015, n. 3388; TAR Lazio, Roma, sez. II-quater,
06.12.2010, n. 35404), condivisa dalla Sezione, ritiene che
l’onere della prova contraria (ossia della anteriore data di
ultimazione dei lavori) gravi, per regola generale, sul
ricorrente che contesta la documentazione fornita
dall’amministrazione, onere della prova –occorre aggiungere
e precisare- che può assumere rilevanza ed efficacia ai fini
della decisione solo se fondato su elementi che esprimano
pari o superiore certezza e oggettività probatoria rispetto
alle foto aeree del territorio fornite dall’amministrazione
(in tal senso TAR Lazio, sez. II-quater, n. 35404 del 06/12.2010 cit., ha condivisibilmente precisato che «la prova sulla
realizzazione delle opere entro la data del 31.03.2003 –trattavasi
in quella fattispecie del terzo condono edilizio, di cui al
d.l. n. 269 del 2003- grava sul richiedente la sanatoria,
che può avvalersi -se non vi è contestazione- della
dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, ma a fronte
di elementi di prova a disposizione dell'Amministrazione che
attestino il contrario -quali il rilievo aerofotogrammetrico-
il responsabile dell'abuso è gravato dall'onere di provare,
attraverso elementi certi, quali fotografie aeree, fatture,
sopralluoghi, e così via, l'effettiva realizzazione dei
lavori entro il termine previsto dalla legge per poter
usufruire del beneficio, non potendo limitarsi a contestare
i dati in possesso dell'Amministrazione senza fornire alcun
elemento di prova a corredo della propria tesi, in quanto
l'Amministrazione -in assenza di elementi di prova contrari-
non può che respingere la domanda di sanatoria») (Consiglio
di Stato, Sez. I,
parere 03.10.2018 n. 2278 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Legge 104: lecito andare a fare la spesa in
permesso.
L'assistenza al disabile non deve essere intesa in senso
restrittivo, ma ricomprende anche il compimento di una serie
di commissioni nell'interesse dell'assistito al di fuori del
suo domicilio.
---------------
34. che neppure può trovare accoglimento il quarto motivo
di ricorso atteso che la Corte territoriale non ha
interpretato e applicato l'art. 33, L. n. 104 del 1992 in
difformità rispetto ai principi affermati nella
giurisprudenza di legittimità;
35. che secondo l'orientamento di questa Corte, che si
condivide e a cui si intende dare continuità,
il comportamento del lavoratore subordinato che si
avvalga del permesso di cui all'art. 33, L. n. 104 del 1992
non per l'assistenza al familiare, bensì per attendere ad
altra attività, integra l'ipotesi di abuso di diritto,
giacché tale condotta si palesa nei confronti del datore di
lavoro come lesiva della buona fede, privandolo
ingiustamente della prestazione lavorativa in violazione
dell'affidamento riposto nel dipendente ed integra, nei
confronti dell'Ente di previdenza erogatore del trattamento
economico, un'indebita percezione dell'indennità ed uno
sviamento dell'intervento assistenziale
(Cass. n. 9217 del 2016; Cass. n. 4984 del 2014);
36. che è stato parimenti sottolineato il
disvalore sociale della condotta del lavoratore che
usufruisce, anche solo in parte, di permessi per
l'assistenza a portatori di handicap al fine di soddisfare
proprie esigenze personali "scaricando il costo di tali
esigenze sulla intera collettività, stante che i permessi
sono retribuiti in via anticipata dal datore di lavoro, il
quale poi viene sollevato dall'ente previdenziale del
relativo onere anche ai fini contributivi e costringe il
datore di lavoro ad organizzare ad ogni permesso
diversamente il lavoro in azienda ed i propri compagni di
lavoro, che lo devono sostituire, ad una maggiore penosità
della prestazione lavorativa"
(Cass. n. 8784 del 2015);
37. che nel caso di specie la Corte
territoriale, con valutazione in fatto non censurabile in
questa sede di legittimità, ha escluso la finalizzazione a
scopi personali delle ore di permesso di cui il sig. De Sa.
ha usufruito avendo ricollegato, in base alle prove
raccolte, le attività poste in essere dal predetto, come il
fare la spesa, l'usare lo sportello Postamat, incontrare il
geometra e l'architetto, a specifici interessi ed utilità
dei congiunti in tal modo assistiti (Corte
di cassazione, Sez. lavoro,
ordinanza
02.10.2018 n. 23891). |
APPALTI:
Nelle gare pubbliche l’incameramento della
cauzione provvisoria costituisce una conseguenza automatica
del provvedimento di esclusione, conte tale non suscettibile
di alcuna valutazione discrezionale con riguardo ai singoli
casi concreti.
Tale misura, quindi, risulta insensibile ad eventuali
valutazioni volte ad evidenziare la non imputabilità a colpa
della violazione che ha comportato l’esclusione.
---------------
In merito, poi, alla questione relativa all’escussione della
cauzione provvisoria, la Sezione osserva che, come affermato
dalla giurisprudenza (cfr., fra le altre, Cons. Stato, Sez.
VI, 15.09.2017, n. 4349, Cons. Stato Sez. V, 28.08.2017, n.
4086, TAR Umbria Perugia Sez. I, 13.06.2017, n. 452), nelle
gare pubbliche l’incameramento della cauzione provvisoria
costituisce una conseguenza automatica del provvedimento di
esclusione, conte tale non suscettibile di alcuna
valutazione discrezionale con riguardo ai singoli casi
concreti.
Tale misura, quindi, risulta insensibile ad eventuali
valutazioni volte ad evidenziare la non imputabilità a colpa
della violazione che ha comportato l’esclusione (TAR
Sicilia-Catania, Sez. III,
sentenza 02.10.2018 n. 1880 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Servizio svolto da esecutori privi del requisito purché
questo sia posseduto cumulativamente dal raggruppamento.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Raggruppamento
temporaneo di imprese - Appalto servizi – Requisiti speciali
di partecipazione – Possesso cumulativo del Raggruppamento –
Possibilità.
In relazione alle procedure di gara per l’affidamento di
servizi cui partecipino raggruppamenti temporanei di imprese
il possesso dei requisiti speciali di partecipazione “può”,
ma non “deve” attestarsi su una soglia minima, trattandosi
di scelta rimessa alla discrezionalità della stazione
appaltante, con la conseguenza che in caso di mancata
definizione della soglia minima da parte della stazione
appaltante, il servizio oggetto di gara può essere svolto da
esecutori privi del requisito purché, naturalmente, il
ridetto requisito sia posseduto cumulativamente dal
raggruppamento (1).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che in relazione alle procedure di
gara per l’affidamento di servizi cui partecipino
raggruppamenti temporanei di operatori economici, il d.lgs.
n. 50 del 2016 si limita a prescrivere che l’offerta debba
contenere l’indicazione delle specifiche parti del servizio
che saranno eseguite dai singoli operatori economici (art.
48, comma 4).
Nessuna prescrizione specifica viene dettata in merito alla
quota percentuale minima dei requisiti di qualificazione e/o
di capacità che deve essere posseduta da ciascun operatore
economico che partecipi all’appalto riunendosi in un
raggruppamento temporaneo; l’art. 83, comma 8, d.lgs. n. 50
del 2016, infatti, si limita ad imporre che la mandataria
possieda i requisiti ed esegua le prestazioni in misura
maggioritaria, ma definisce come “eventuali” le
misure in cui gli stessi requisiti debbano essere posseduti
sia singoli partecipanti, rimettendone la definizione alla
discrezionalità della stazione appaltante
(TAR Puglia-Bari,
Sezz. unite,
sentenza 01.10.2018 n. 1250 - commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Le
spese sono dimezzate se la questione è semplice.
È legittima la riduzione della liquidazione delle spese di oltre la metà
quando la controversia non presenta questioni giuridiche di particolare
rilievo: lo ha deciso la CORTE d'appello di Napoli nella sentenza n.
2266/2018.
Intervenuta sul ricorso di un legale per il recupero dei ratei relativi
all'indennità di accompagnamento dovuti dall'Inps a un cliente, la sezione
controversie di lavoro e di previdenza e assistenza del capoluogo campano ha
ricordato come il compenso del professionista sia determinato con
riferimento a parametri debitamente stabiliti e affermato che in tema di
rifusione delle spese processuali sopportate dalla parte civile,
l'abrogazione delle tariffe professionali ha svincolato il giudice dai
limiti tariffari minimi e massimi, con ciò obbligandolo, per la
determinazione del compenso, a far riferimento, con adeguata e specifica
motivazione, ai parametri concernenti «l'impegno profuso nelle diverse fasi
processuali, la natura, la complessità e la gravità del procedimento e delle
contestazioni, il pregio dell'opera prestata, il numero e l'importanza delle
questioni trattate, l'eventuale urgenza della prestazione, nonché i
risultati e i vantaggi conseguiti dal cliente».
A ciò deve aggiungersi, continua, che in caso di «scostamento apprezzabile
dai parametri medi», il giudice è tenuto a specificare i criteri di
retribuzione, fermo restando il limite della legge «il quale preclude di
liquidare somme praticamente simboliche, non consone al decoro della
professione».
Ora, nel caso di specie era emerso che il giudizio era stato definito «in
assenza di particolari questioni e che la difesa del ricorrente non era
stata onerata dalla trattazione di significative problematiche giuridiche,
né di particolari indagini di fatto, ma di questioni di carattere meramente
ripetitivo», il che rendeva la causa particolarmente semplice e consentiva
di applicare una riduzione superiore a quella del 50%.
In altre parole la fase di studio si era limitata alla mera richiesta delle
somme; quella istruttoria non aveva mostrato criticità e quella decisoria
era risultata estremamente ridotta. Per questi motivi la Corte ha confermato
la sentenza impugnata
(articolo ItaliaOggi Sette dell'01.10.2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
Cassazione: la speciale disciplina antisismica si applica a
tutte le costruzioni.
Si applica a tutte le costruzioni la cui sicurezza possa
comunque interessare la pubblica incolumità, realizzate in
zone delle quali sia dichiarata la sismicità, a prescindere
dai materiali e dalle relative strutture nonché dalla natura
precaria o permanente dell'intervento.
La speciale disciplina antisismica si
applica a tutte le costruzioni, la cui sicurezza possa
comunque interessare la pubblica incolumità, realizzate in
zone delle quali sia dichiarata la sismicità, a prescindere
dai materiali e dalle relative strutture nonché dalla natura
precaria o permanente dell'intervento, attesa la natura
formale dei relativi reati ed il fine di consentire il
controllo preventivo da parte della pubblica amministrazione
di tutte le costruzioni realizzate in zone sismiche.
Circa la fattispecie relativa a piscina prefabbricata: "Le
disposizioni antisismiche previste dagli artt. 83 e 95
d.P.R. 06.06.2001, n. 380 si applicano a tutte le
costruzioni la cui sicurezza possa interessare la pubblica
incolumità, anche quando si impieghino per la realizzazione
delle opere elementi strutturali meno solidi e duraturi
rispetto alla muratura e al cemento armato".
---------------
Ritenuto:
- che con sentenza del 02/02/2017, il Tribunale di Foggia,
all'esito del giudizio istaurato a seguito di opposizione a
decreto penale di condanna, ha condannato Ev.Pa. alla pena
di euro 700,00 di ammenda perché ritenuto responsabile dei
reati di cui al capo a) ex artt. 83 e 95 D.P.R. 380/2001 e
al capo b) ex artt. 93 e 95 D.P.R. 380/2001 (fatti accertati
in Foggia in data 02/04/2014) nonché ha ordinato la
demolizione del manufatto costruito in violazione delle
norme citate;
- che avverso tale sentenza l'imputato, per il tramite del proprio
difensore di fiducia, ha proposto appello, qui trasmesso,
perché qualificato dalla Corte di appello quale ricorso per
cassazione, chiedendo:
1) l'assoluzione dell'imputato perché il fatto non
costituisce reato, essendo la struttura de quo costruita con
materiale prefabbricato e dunque non qualificabile come
opera edilizia sottoposta alla disciplina che si adduce
violata;
2) annullare l'ordine di demolizione del manufatto, sia
perché l'odierno ricorrente ha depositato in fase
dibattimentale la richiesta di sanatoria, sia perché il
medesimo manufatto era oggetto di altro procedimento penale
nel quale è stato disposto il non luogo a procedere per
intervenuta prescrizione.
Considerato:
- che i motivi di ricorso sono manifestamente infondati in
quanto propongono violazioni di legge sostanziale per la cui
valutazione è tuttavia necessario un riesame in fatto, non
ammissibile in sede di legittimità;
- che giova, tuttavia, ribadire l'orientamento consolidato di
questa corte in base al quale la speciale disciplina
antisismica si applica a tutte le costruzioni, la cui
sicurezza possa comunque interessare la pubblica incolumità,
realizzate in zone delle quali sia dichiarata la sismicità,
a prescindere dai materiali e dalle relative strutture
nonché dalla natura precaria o permanente dell'intervento,
attesa la natura formale dei relativi reati ed il fine di
consentire il controllo preventivo da parte della pubblica
amministrazione di tutte le costruzioni realizzate in zone
sismiche (Sez. 3, n. 48950 del 04/11/2015 ud, dep.
11/12/2015, Baio, Rv. 266033 e sentenze ivi citate. Cfr. in
particolare Sez. 3, n. 6591 del 24/11/2011 Ud. (dep.
17/02/2012), D'Onofrio, Rv. 252441 (Fattispecie relativa a
piscina prefabbricata): "Le disposizioni antisismiche
previste dagli artt. 83 e 95 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 si
applicano a tutte le costruzioni la cui sicurezza possa
interessare la pubblica incolumità, anche quando si
impieghino per la realizzazione delle opere elementi
strutturali meno solidi e duraturi rispetto alla muratura e
al cemento armato");
- che la sentenza impugnata presenta un'adeguata e non illogica
motivazione circa tutti gli elementi della fattispecie
delittuosa contestata all'odierno ricorrente;
- che l'ordine di demolizione consegue alla sentenza di condanna ex
art. 31, comma 9, DPR 380/2001;
- che pertanto il ricorso va dichiarato inammissibile con la
conseguente condanna del ricorrente, ex art. 616 c.p.p., al
pagamento delle spese processuali e della somma di euro
tremila in favore della Cassa delle Ammende (Corte di
Cassazione, Sez. VII penale,
ordinanza
28.09.2018 n. 42818). |
APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Il
committente risponde dei danni durante i lavori. Per la Cassazione resta la
responsabilità del custode.
Risponde il committente in caso di danni a terzi nel corso di lavori dati in
appalto che sono stati causati dalla «cosa» su cui viene fatto l'intervento.
Il principio (riferito a un contenzioso con un Comune) è stato affermato
dalla Corte di Cassazione, Sez. III civile, con la
sentenza 28.09.2018 n. 23442.
Nel caso affrontato dalla Cassazione il Comune aveva dato in appalto i
lavori di realizzazione di una bretella stradale, provocando un allagamento
a un immobile e ai beni mobili ivi contenuti di proprietà di terzi. Il
Tribunale di Treviso ha ritenuto responsabile dei danni l'impresa
appaltatrice e la Corte di Appello di Venezia ha confermato il rigetto della
domanda nei confronti del committente.
I terzi danneggiati, allora, sono ricorsi in Cassazione, insistendo sulla
responsabilità anche del committente e la Suprema Corte ha ritenuto il
motivo fondato.
In particolare, la Corte di Appello di Venezia ha ritenuto che non potesse
riconoscersi una responsabilità del committente in base all'articolo 2051
del Codice civile (responsabilità per cosa in custodia), in quanto l'aver
affidato il cantiere all'impresa appaltatrice escludeva il rapporto di
custodia sulla cosa che ha procurato il danno. Nemmeno poteva essere
considerata una responsabilità oggettiva ai sensi dell'articolo 2050 del
Codice civile perché l'attività pericolosa era svolta dalla società
appaltatrice.
Ed è vero che di regola nei confronti dei terzi danneggiati risponde
l'appaltatore in quanto quest'ultimo svolge in autonomia la sua attività.
Ma, se i danni sono stati causati direttamente dalla cosa oggetto
dell'appalto, ne risponde il proprietario/committente in virtù del rapporto
di custodia di cui all'articolo 2051 del Codice civile, salva la prova a suo
carico del caso fortuito.
Infatti, l'autonomia dell'appaltatore riguarda l'attività da porre in essere
per l'esecuzione dell'appalto, non la disponibilità e la custodia del bene
oggetto dei lavori.
Non si può cioè consentire che il custode si liberi della sua posizione di "garante"
della cosa, affidandola a un appaltatore per l'esecuzione dei lavori. Così
facendo, si verrebbe a configurare un'ulteriore ipotesi di esonero della
responsabilità oggettiva sulla custodia, eludendo la legge che invece ne
prevede una soltanto (il caso fortuito).
In materia condominiale, la Cassazione già in passato ha ritenuto
responsabile il condominio committente quando il fatto lesivo è stato
commesso dall'appaltatore in esecuzione di un ordine impartitogli dal
direttore dei lavori o da altro rappresentante del committente stesso, tanto
che l'appaltatore aveva perso l'autonomia che normalmente gli compete.
È stata poi riconosciuta una responsabilità del condominio committente per
avere affidato il lavoro a un'impresa che palesemente difettava delle
necessarie capacità tecniche. Le dinamiche del rapporto tra l'assemblea dei
condòmini e l'amministratore fanno sì che, a seconda dei casi, la paternità
della decisione possa attribuirsi ora alla prima ora al secondo ora ad
entrambi. Si tratta, insomma, di accertare caso per caso l'ambito di
autonomia di azione ed i poteri decisionali concretamente attribuiti
all'amministratore (Cassazione penale, sentenza 42347/2013).
Con la sentenza 23442/2018 le cose si complicano ulteriormente: ora il
condominio proprietario, in qualità di custode della cosa oggetto
dell'appalto, è ritenuto direttamente responsabile dei danni cagionati a
terzi o al condomino se i danni sono causati direttamente dalla cosa (come
per esempio una perdita d'acqua dall'impianto comune mentre un'impresa ci
sta lavorando), salvo che provi il caso fortuito, ovvero dimostri che
l'attività dell'appaltatore sia riconducibile al fatto del terzo non
prevedibile e non evitabile (articolo
Il Sole 24 Ore del 16.10.2018 - tratto da www.fondazionecni.it).
---------------
MASSIMA
2.2 Va premesso, in linea generale, che è consolidato
l'indirizzo di questa Corte in base al quale, in caso di danni arrecati a
terzi nel corso di esecuzione di un appalto di lavori edili:
a) di regola risponde nei confronti dei terzi esclusivamente
l'appaltatore, in quanto questi svolge in piena autonomia la sua attività;
b) se però il danneggiato dimostra che il committente si è ingerito
con specifiche direttive che hanno limitato, sebbene non del tutto escluso,
l'autonomia dell'appaltatore, rispondono in concorso sia l'appaltatore che
il committente;
c) se le direttive e l'ingerenza del committente sono così
specifiche da rendere l'appaltatore un nudus minister, risponde
esclusivamente il committente;
d) il committente risponde infine anche per culpa in eligendo,
laddove si sia avvalso di impresa palesemente inadeguata a svolgere
l'attività affidata (cfr., in
proposito, ex multis, ad cs.: Cass., Sez. 2, Sentenza n. 1234 del
25/01/2016, Rv. 638645 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 6296 del 13/03/2013, Rv.
625507 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 17697 del 29/08/2011, Rv. 619450 - 01; Sez.
3, Sentenza n. 7356 del 26/03/2009, Rv. 607389 - 01; Sez. 3, Sentenza n.
24320 del 30/09/2008, Rv. 604765 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 13131 del
01/06/2006, Rv. 590623 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 5133 del 09/11/1978, Rv.
394885 - 01).
D'altra parte, secondo più recenti decisioni in tema di
appalti pubblici -per quanto in
affermata continuità con gli esposti principi tradizionali-
gli specifici poteri di autorizzazione, controllo ed ingerenza della
pubblica amministrazione nella esecuzione dei lavori, con la facoltà, a
mezzo del direttore, di disporre varianti e di sospendere i lavori stessi,
ove potenzialmente dannosi per i terzi, escludono ogni esenzione da
responsabilità per l'ente committente
(in proposito si vedano, tra le altre, Cass., Sez. 1, Sentenza n. 13266 del
05/10/2000, Rv. 540762 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 4591 del 22/02/2008, Rv.
601941 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 10588 del 23/04/2008, Rv. 603248 - 01; Sez.
6-3, Ordinanza n. 1263 del 27/01/2012, Rv. 620509 - 01).
Ai suddetti orientamenti va certamente data continuità.
Risultano peraltro necessarie alcune precisazioni, per coordinare gli esiti
applicativi degli stessi, non sempre consonanti. Ritiene
infatti la Corte che vadano chiaramente distinte due diverse questioni:
a) quella dell'eventuale concorso del committente nell'attività
svolta dall'appaltatore, la quale in astratto abbia causato danni a terzi e
sia quindi fonte di generica responsabilità ai sensi dell'art. 2043 c.c.;
b) quella della responsabilità per i danni causati ai terzi
direttamente dalla cosa oggetto dell'appalto, per la quale viene in rilievo
la speciale ipotesi di imputazione di responsabilità prevista dall'art. 2051
c.c..
2.2.1 La responsabilità dell'appaltatore per i danni
causati a terzi dall'attività svolta da quest'ultimo può essere affermata
esclusivamente ai sensi dell'art. 2043 c.c. (laddove non ricorrano i
presupposti di applicabilità delle disposizioni di cui all'art. 2050 c.c.):
per questa tipologia di danni la concorrente responsabilità del committente
potrebbe in teoria affermarsi ai sensi dell'art. 2049 c.c., ma essa è di
regola esclusa (secondo un
indirizzo del tutto consolidato, al quale va senz'altro data continuità)
dal carattere autonomo dell'attività svolta dall'appaltatore stesso
(salvi i casi di ingerenza totale del committente in tale attività, o
comunque la violazione di specifici obblighi di vigilanza, che peraltro
spetta al danneggiato dimostrare, ma che nel caso di specie risultano
esclusi in base ad incensurabili accertamenti di fatto svolti sul punto
dalla corte di appello, che ha ritenuto non provata la riconducibilità del
danno ad un difetto di vigilanza da parte dell'ente appaltante).
2.2.2 Invece, per i danni causati direttamente dalla cosa
oggetto dell'appalto (anche laddove essa sia stata modificata
dall'appaltatore e proprio alle modifiche sia riconducibile il danno) viene
in rilievo l'applicazione dell'art. 2051 c.c.. La questione della
responsabilità del committente (che sia possessore o proprietario, o
comunque abbia la disponibilità della cosa oggetto dei lavori commissionati
con l'appalto) va pertanto diversamente impostata. Dei danni causati da cose
risponde infatti di regola il proprietario o il possessore (o chi comunque
si trovi nella materiale disponibilità di esse), in virtù del rapporto di
custodia, salva la prova (a suo carico) del caso fortuito, ai sensi
dell'art. 2051 c.c..
Orbene, il committente, che ne sia proprietario o possessore, resta
certamente nel possesso, ed anche nella giuridica detenzione, del bene
oggetto dell'appalto (di cui abbia comunque la disponibilità materiale,
tanto da poterlo consegnare all'appaltatore per l'esecuzione dell'appalto),
e ne può disporre, sia giuridicamente che materialmente, conservando sempre
il potere di impartire direttive all'appaltatore in merito alle opere da
eseguire ed alle modificazioni da apportare allo stesso.
L'autonomia di quest'ultimo nello svolgimento della sua attività -che
costituisce la ragione per cui in taluni casi è stata esclusa la posizione
di custode da parte del committente- in realtà riguarda l'attività da porre
in essere per l'esecuzione dell'appalto, non la disponibilità e/o la
custodia della cosa oggetto dei lavori.
Il committente, anche durante lo svolgimento dell'appalto, può infatti
sempre disporre della cosa e l'appaltatore non acquista alcun diritto su di
essa. In realtà, il committente, che era e resta custode della cosa,
esercita tale custodia (che implica, ovviamente, anche l'onere di provvedere
alla sua manutenzione, così come il diritto di operare modificazioni alla
stessa, purché senza danno per i terzi) anche attraverso l'affidamento di
lavori in appalto che la riguardino: ne consegue che l'appalto non esclude
affatto la custodia, ma è, al contrario, un modo di esercizio di quest'ultima.
Inoltre, si deve considerare che la ratio che sta alla base dello
speciale regime di responsabilità di cui all'art. 2051 c.c. consiste nella
tutela dei diritti del soggetto danneggiato, posta oggettivamente a carico
del custode della cosa che ha arrecato il danno, con la sola salvezza del
fortuito, in coerenza con i valori di solidarietà di cui agli artt. 2 e 41
Cost., secondo le coordinate generali dell'interpretazione
costituzionalmente orientata del sistema della responsabilità civile.
Non si può pertanto consentire, di regola, al custode di liberarsi della sua
posizione di "garanzia" semplicemente trasferendo contrattualmente
tale posizione in capo ad un terzo, senza alcun limite (se non quello, del
tutto generico, della cd. culpa in eligendo), e ciò specie se si
tratti del proprietario di un immobile che trasferisca tale posizione di
garanzia ad un terzo che non ne è proprietario e non offra la stessa
solvibilità.
Ammettendo una siffatta possibilità, si finirebbe per eludere l'effettiva
funzione della disciplina della responsabilità per i danni causati dalle
cose, come delineata dall'art. 2051 c.c., disciplina che consente l'esonero
del custode dalla responsabilità per i danni causati dalla cosa solo laddove
egli provi il caso fortuito. Con la semplice stipula di un contratto di
appalto si verrebbe invece a configurare nella sostanza una ulteriore causa
di esonero dalla indicata responsabilità oggettiva, molto meno rigorosa
dell'unica ipotesi espressamente prevista dalla legge (e cioè il caso
fortuito), così elidendo artificiosamente il rigore della regola normativa.
Escludere automaticamente la custodia del bene consegnato all'appaltatore da
parte del proprietario o possessore committente costituirebbe d'altra parte
una petizione di principio o comunque sarebbe una conclusione fondata su un
argomento non pertinente (e cioè l'autonomia dell'appaltatore, autonomia che
riguarda la sua attività di esecuzione dei lavori, non la custodia del bene
oggetto dell'appalto).
Si consideri che neanche in caso di locazione (contratto che pure
attribuisce al conduttore la detenzione dell'immobile locato, e quindi
poteri di disponibilità materiale sullo stesso maggiori di quelli che
spettano all'appaltatore) si ritiene che il locatore cessi di essere custode
del bene locato (almeno per le strutture murarie e per gli impianti fissi
dell'immobile: cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 4737 del 30/03/2001, Rv.
545368 - 01; Sez. 2, Sentenza n. 13881 del 09/06/2010, Rv. 613244 - 01; Sez.
3, Sentenza n. 16422 del 27/07/2011, Rv. 619571 - 01; Sez. 3, Sentenza n.
21788 del 27/10/2015, Rv. 637554 - 01; Sez. 3, Sentenza n. 11815 del
09/06/2016, Rv. 640516 - 01)
Anche sotto questo profilo, si deve concludere che
l'appalto di lavori aventi ad oggetto una cosa non fa di per sé venir meno a
carico del committente l'obbligo di custodia sulla stessa e l'obbligo di
esercitare il controllo su di essa, sia pure compatibilmente con l'esistenza
del contratto di appalto, in modo da impedire che essa produca danni a
terzi.
Le vicende che riguardano l'utilizzazione della cosa, ed
anche l'affidamento ad un appaltatore dell'attività di manutenzione e/o di
esecuzione di opere di modifica sulla stessa, rientrano sempre (come è
ovvio) nell'esercizio dei poteri del custode su di essa, e quindi ne possono
escludere la responsabilità esclusivamente laddove ricorrano le rigorose
condizioni richieste dall'art. 2051 c.c., e cioè sia provato il caso
fortuito.
Naturalmente ciò non significa che il committente non potrà mai essere
esonerato dalla responsabilità per i danni arrecati a terzi dalla cosa in
seguito alle modifiche da questa apportate dall'attività svolta
dall'appaltatore, ma esclusivamente che sarà lui a dover dimostrare che
l'attività dell'appaltatore sia di fatto qualificabile come caso fortuito
(in particolare sia riconducibile al fatto del terzo rientrante nel
fortuito, cioè non prevedibile e/o non evitabile), senza potersi limitare ad
allegare genericamente che la cosa era stata a quello affidata per
l'esecuzione dell'appalto.
Va ribadito che qui non si ha riguardo ai danni causati dall'attività
dell'appaltatore, ma solo a quelli derivanti direttamente dalla cosa, e cioè
dall'immobile, eventualmente come modificato dall'appaltatore a seguito
dell'esecuzione dei lavori ad esso affidati.
In siffatta ipotesi, il committente, per essere esonerato dalla
responsabilità di cui all'art. 2051 c.c., dovrà fornire la prova liberatoria
richiesta dalla suddetta norma, e cioè quella del caso fortuito. Tale prova
potrà consistere anche nella dimostrazione che il danno è causalmente
riconducibile esclusivamente al fatto dell'appaltatore, il quale abbia
eseguito i lavori ad esso affidati in modo non conforme al contratto ed alle
norme, anche tecniche, disciplinanti la sua esecuzione, ma sarà comunque il
committente a dover dimostrare che la condotta difforme dalle regole di
diligenza nello svolgimento dell'attività oggetto di appalto posta in essere
dall'appaltatore non era ragionevolmente prevedibile ed evitabile
(nonostante le adeguate misure di cautela e sicurezza in proposito poste in
essere dal committente stesso, anche con riguardo alla scelta
dell'appaltatore, all'imposizione allo stesso dell'adozione di condotte di
cautela per i terzi, ed al controllo sulla attività da esso svolta, nei
limiti di quanto è ragionevolmente esigibile), al punto che ad essa possa
attribuirsi efficienza causale esclusiva nella verificazione dell'evento
dannoso (il tutto in coerenza con i principi di recente ribaditi da questa
stessa Corte in tema di responsabilità da cose in custodia e in particolare
di caso fortuito costituito dalla condotta di terzi e/o dello stesso
danneggiato: cfr., di recente: Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 1257 del
19/01/2018, Rv. 647356 - 01; Sez. 3, Ordinanze nn. 2477, 2480, 2481, 2482
del 01/02/2018).
Nell'ipotesi in cui terzi subiscano danni direttamente da una cosa di
proprietà o in possesso (o nella custodia) di un determinato soggetto,
interessata da un contratto di appalto, non può quindi ritenersi il
danneggiato onerato di dover dimostrare -per ottenere il risarcimento dal
proprietario o possessore- che questi avesse scelto un appaltatore
inadeguato ovvero che avesse impartito specifiche direttive sull'esecuzione
dell'appalto o che comunque disponesse di un potere di controllo assoluto
sull'attività dell'appaltatore; al contrario, sarà il committente -per
esonerarsi dalla propria responsabilità di custode della cosa, ai sensi
dell'art. 2051 c.c.- a dover dimostrare di avere scelto un appaltatore
adeguato, di avergli fornito adeguate direttive e di avere esercitato i suoi
poteri di controllo e vigilanza sull'attività dello stesso con la necessaria
diligenza, di modo che il danno possa ritenersi causato da una condotta
dell'appaltatore non prevedibile e/o evitabile (e quindi in sostanza
riconducibile all'ipotesi del caso fortuito costituito dalla condotta del
terzo).
La indicata ricostruzione, oltre ad essere conforme ai principi
costantemente affermati da questa Corte in tema di responsabilità da cose in
custodia, costituisce altresì un equo punto di equilibrio nel bilanciamento
tra la necessità di un'adeguata tutela del terzo che subisca danni derivanti
da una cosa e quella del proprietario o possessore della cosa stessa, che
abbia appaltato lavori aventi ad oggetto la suddetta cosa, laddove si
consideri che il proprietario o possessore è il soggetto in genere più
agevolmente identificabile dal danneggiato e più solvibile e che egli potrà
comunque eventualmente rivalersi sull'appaltatore da lui stesso scelto.
L'assetto del regime di responsabilità appena delineato risulta altresì
coerente con i già richiamati valori di solidarietà di cui agli artt. 2 e 41
Cost., e quindi in linea con le coordinate generali del sistema della
responsabilità civile, secondo un'interpretazione costituzionalmente
orientata dello stesso.
2.3 Nella specie, la corte di appello ha in realtà escluso la responsabilità
del comune committente ai sensi dell'art. 2051 c.c. (oltre che quella di cui
all'art. 2043 c.c., in relazione alla quale, come già osservato, le censure
dei ricorrenti non possono trovare accoglimento) sull'erroneo presupposto
per cui l'esistenza di un appalto era di per sé sufficiente a far venire
meno la custodia del bene (salva prova contraria), e non ha verificato
invece se la predetta amministrazione committente avesse fornito la prova
liberatoria del caso fortuito, su essa gravante ai sensi dell'art. 2051 c.c.
(anche eventualmente in relazione al fatto dell'appaltatore, dimostrando
cioè che il danno, riconducibile all'attività di quest'ultimo, non poteva
essere preveduto e/o evitato).
La fattispecie dovrà pertanto essere riesaminata dalla corte di appello alla
luce dei seguenti principi di diritto: «in caso di danni
subiti da terzi nel corso dell'esecuzione di un appalto, bisogna distinguere
tra i danni derivanti dalla attività dell'appaltatore e i danni derivanti
dalla cosa oggetto dell'appalto; per i primi si applica l'art. 2043
c.c. e ne risponde di regola esclusivamente l'appaltatore (in quanto la sua
autonomia impedisce di applicare l'art. 2049 c.c. al committente), salvo il
caso in cui il danneggiato provi la una concreta ingerenza del committente
nell'attività stessa e/o la violazione di specifici obblighi di vigilanza e
controllo; per i secondi (e cioè per i danni direttamente derivanti
dalla cosa oggetto dell'appalto, anche se determinati dalle modifiche e
dagli interventi su di essa posti in essere dall'appaltatore) risponde
(anche) il committente ai sensi dell'art. 2051 c.c., in quanto l'appalto e
l'autonomia dell'appaltatore non escludono la permanenza della qualità di
custode della cosa da parte del committente; in tale ultimo caso, il
committente, per essere esonerato dalla sua responsabilità nei confronti del
terzo danneggiato, non può limitarsi a provare la stipulazione dell'appalto,
ma deve fornire la prova liberatoria richiesta dall'art. 2051 c.c., e quindi
dimostrare che il danno si è verificato esclusivamente a causa del fatto
dell'appaltatore, quale fatto del terzo che egli non poteva prevedere e/o
impedire (e fatto salvo il suo diritto di agire eventualmente in manleva
contro l'appaltatore)». |
LAVORI PUBBLICI:
APPALTI - Contratto di appalto di lavori - Attività di
manutenzione e/o di esecuzione di opere - RISARCIMENTO DEL
DANNO - Responsabilità del committente per i danni arrecati
a terzi - Risarcimento - Committente obbligo di custodia e
di controllo - Posizione di "garanzia" - Trasferimento della
posizione di garanzia ad un terzo - Onere della prova
specifica - Art. 2051 c.c..
L'appalto di lavori aventi ad oggetto
una cosa non fa di per sé venir meno a carico del
committente l'obbligo di custodia sulla stessa e l'obbligo
di esercitare il controllo su di essa, sia pure
compatibilmente con l'esistenza del contratto di appalto, in
modo da impedire che essa produca danni a terzi.
Sicché, l'utilizzazione della cosa, ed anche l'affidamento
ad un appaltatore dell'attività di manutenzione e/o di
esecuzione di opere di modifica sulla stessa, rientrano
sempre (come è ovvio) nell'esercizio dei poteri del custode
su di essa, e quindi ne possono escludere la responsabilità
esclusivamente laddove ricorrano le rigorose condizioni
richieste dall'art. 2051 c.c., e cioè sia provato il caso
fortuito.
Naturalmente ciò non significa che il committente non potrà
mai essere esonerato dalla responsabilità per i danni
arrecati a terzi dalla cosa in seguito alle modifiche da
questa apportate dall'attività svolta dall'appaltatore, ma
esclusivamente che sarà lui a dover dimostrare che
l'attività dell'appaltatore sia di fatto qualificabile come
caso fortuito (in particolare sia riconducibile al fatto del
terzo rientrante nel fortuito, cioè non prevedibile e/o non
evitabile), senza potersi limitare ad allegare genericamente
che la cosa era stata a quello affidata per l'esecuzione
dell'appalto.
La ratio che sta alla base dello speciale regime di
responsabilità di cui all'art. 2051 c.c. consiste nella
tutela dei diritti del soggetto danneggiato, posta
oggettivamente a carico del custode della cosa che ha
arrecato il danno, con la sola salvezza del fortuito, in
coerenza con i valori di solidarietà di cui agli artt. 2 e
41 Cost., secondo le coordinate generali
dell'interpretazione costituzionalmente orientata del
sistema della responsabilità civile.
Non si può pertanto consentire, di regola, al custode di
liberarsi della sua posizione di "garanzia" semplicemente
trasferendo contrattualmente tale posizione in capo ad un
terzo, senza alcun limite (se non quello, del tutto
generico, della cd. culpa in eligendo), e ciò specie se si
tratti del proprietario di un immobile che trasferisca tale
posizione di garanzia ad un terzo che non ne è proprietario
e non offra la stessa solvibilità.
APPALTI - Affidamento di lavori in appalto e giuridica
detenzione del bene oggetto dell'appalto - Committente
proprietario o possessore - Custodia e onere di provvedere
alla sua manutenzione - Impresa appaltatrice e della
subappaltatrice - RISARCIMENTO DEL DANNO - Risarcimento per
danni subiti da un immobile a seguito di un allagamento
proveniente da un cantiere.
In tema di appalti, il committente, che
ne sia proprietario o possessore, resta certamente nel
possesso, ed anche nella giuridica detenzione, del bene
oggetto dell'appalto (di cui abbia comunque la disponibilità
materiale, tanto da poterlo consegnare all'appaltatore per
l'esecuzione dell'appalto), e ne può disporre, sia
giuridicamente che materialmente, conservando sempre il
potere di impartire direttive all'appaltatore in merito alle
opere da eseguire ed alle modificazioni da apportare allo
stesso.
L'autonomia di quest'ultimo nello svolgimento della sua
attività che costituisce la ragione per cui in taluni casi è
stata esclusa la posizione di custode da parte del
committente in realtà riguarda l'attività da porre in essere
per l'esecuzione dell'appalto, non la disponibilità e/o la
custodia della cosa oggetto dei lavori. Il committente,
anche durante lo svolgimento dell'appalto, può infatti
sempre disporre della cosa e l'appaltatore non acquista
alcun diritto su di essa.
In realtà, il committente, che era e resta custode della
cosa, esercita tale custodia (che implica, ovviamente, anche
l'onere di provvedere alla sua manutenzione, così come il
diritto di operare modificazioni alla stessa, purché senza
danno per i terzi) anche attraverso l'affidamento di lavori
in appalto che la riguardino: ne consegue che l'appalto non
esclude affatto la custodia, ma è, al contrario, un modo di
esercizio di quest'ultima.
APPALTI - Responsabilità dell'appaltatore per i danni
causati a terzi - Presupposti di applicabilità delle
disposizioni di cui all'art. 2050 c.c. - Responsabilità
concorrente del committente - Casi di ingerenza del
committente o violazione di specifici obblighi di vigilanza.
La responsabilità dell'appaltatore per i
danni causati a terzi dall'attività svolta da quest'ultimo
può essere affermata esclusivamente ai sensi dell'art. 2043
c.c. (laddove non ricorrano i presupposti di applicabilità
delle disposizioni di cui all'art. 2050 c.c.): per questa
tipologia di danni la concorrente responsabilità del
committente potrebbe in teoria affermarsi ai sensi dell'art.
2049 c.c., ma essa è di regola esclusa dal carattere
autonomo dell'attività svolta dall'appaltatore stesso (salvi
i casi di ingerenza totale del committente in tale attività,
o comunque la violazione di specifici obblighi di vigilanza,
che peraltro spetta al danneggiato dimostrare, ma che nel
caso di specie risultano esclusi in base ad incensurabili
accertamenti di fatto svolti sul punto dalla corte di
appello, che ha ritenuto non provata la riconducibilità del
danno ad un difetto di vigilanza da parte dell'ente
appaltante).
APPALTI - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Appalti pubblici -
Esecuzione dei lavori - Specifici poteri di autorizzazione,
controllo ed ingerenza della p.a. - Risarcimento dei danni
arrecati a terzi nel corso di esecuzione di un appalto di
lavori edili - Giurisprudenza.
In tema di appalti pubblici, gli
specifici poteri di autorizzazione, controllo ed ingerenza
della pubblica amministrazione nella esecuzione dei lavori,
con la facoltà, a mezzo del direttore, di disporre varianti
e di sospendere i lavori stessi, ove potenzialmente dannosi
per i terzi, escludono ogni esenzione da responsabilità per
l'ente committente
(in proposito si vedano, tra le altre, Cass., Sez. 1,
Sentenza n. 13266 del 05/10/2000; Sez. 3, Sentenza n. 4591
del 22/02/2008; Sez. 3, Sentenza n. 10588 del 23/04/2008;
Sez. 6-3, Ordinanza n. 1263 del 27/01/2012).
Pertanto, in caso di danni arrecati a
terzi nel corso di esecuzione di un appalto di lavori edili:
a) di regola risponde nei confronti dei terzi esclusivamente
l'appaltatore, in quanto questi svolge in piena autonomia la
sua attività;
b) se però il danneggiato dimostra che il committente si è ingerito
con specifiche direttive che hanno limitato, sebbene non del
tutto escluso, l'autonomia dell'appaltatore, rispondono in
concorso sia l'appaltatore che il committente;
c) se le direttive e l'ingerenza del committente sono così
specifiche da rendere l'appaltatore un nudus minister,
risponde esclusivamente il committente;
d) il committente risponde infine anche per culpa in eligendo,
laddove si sia avvalso di impresa palesemente inadeguata a
svolgere l'attività affidata.
APPALTI - Appaltatore inadeguato - Poteri di controllo e
vigilanza sull'attività - RISARCIMENTO DEL DANNO -
Responsabilità da cose in custodia - Danni a terzi
direttamente da una cosa di proprietà o in possesso
interessata da un contratto di appalto.
In tema di responsabilità da cose in
custodia, costituisce altresì un equo punto di equilibrio
nel bilanciamento tra la necessità di un'adeguata tutela del
terzo che subisca danni derivanti da una cosa e quella del
proprietario o possessore della cosa stessa, che abbia
appaltato lavori aventi ad oggetto la suddetta cosa, laddove
si consideri che il proprietario o possessore è il soggetto
in genere più agevolmente identificabile dal danneggiato e
più solvibile e che egli potrà comunque eventualmente
rivalersi sull'appaltatore da lui stesso scelto.
Sicché, nell'ipotesi in cui terzi subiscano danni
direttamente da una cosa di proprietà o in possesso (o nella
custodia) di un determinato soggetto, interessata da un
contratto di appalto, non può quindi ritenersi il
danneggiato onerato di dover dimostrare per ottenere il
risarcimento dal proprietario o possessore che questi avesse
scelto un appaltatore inadeguato ovvero che avesse impartito
specifiche direttive sull'esecuzione dell'appalto o che
comunque disponesse di un potere di controllo assoluto
sull'attività dell'appaltatore; al contrario, sarà il
committente per esonerarsi dalla propria responsabilità di
custode della cosa, ai sensi dell'art. 2051 c.c. a dover
dimostrare di avere scelto un appaltatore adeguato, di
avergli fornito adeguate direttive e di avere esercitato i
suoi poteri di controllo e vigilanza sull'attività dello
stesso con la necessaria diligenza, di modo che il danno
possa ritenersi causato da una condotta dell'appaltatore non
prevedibile e/o evitabile (e quindi in sostanza
riconducibile all'ipotesi del caso fortuito costituito dalla
condotta del terzo) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.09.2018 n. 23442 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Limitazioni
negoziali del diritto di costruire e
indagini istruttorie da parte della P.A.
Il TAR Brescia, con riferimento alle
limitazioni negoziali del diritto di
costruire, aderisce alla più recente
giurisprudenza che è oggi allineata nel
senso che l'Amministrazione, quando venga a
conoscenza dell'esistenza di contestazioni
sul diritto del richiedente il titolo
abilitativo, debba compiere le necessarie
indagini istruttorie per verificare la
fondatezza delle contestazioni, senza però
sostituirsi a valutazioni squisitamente
civilistiche (che appartengono alla
competenza dell’A.G.O.), arrestandosi dal
procedere solo se il richiedente non sia in
grado di fornire elementi prima facie
attendibili
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 28.09.2018 n. 924 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
2. Impregiudicato, ovviamente, l’esito del
petitorio –in ragione della ovvia
appartenenza della cognizione in ordine ad
esso all’A.G.O.– il perimetro cognitivo del
presente giudizio concerne esclusivamente la
verifica di legittimità dell’esercizio del
potere sostanziatosi nel rilascio del
contestato titolo ad aedificadum in favore
della parte controinteressata.
E, in particolare, riguarda la legittima
adozione di un permesso di costruire pur in
presenza della rappresentata contestazione
della titolarità dominicale di parte
dell’area sulla quale il titolo edificatorio
era destinato ad incidere.
Si rinvia, in proposito, ai consolidati
principi elaborati dalla giurisprudenza (cfr.
da ultimo Cons. Stato, sez. IV, 20.04.
2018 n. 2397, 19.12.2016 n. 5363, 23.05.2016 n. 2116,
07.09.2016 n.
3823, 25.09.2014 n. 4818), secondo
cui:
- premesso che, in base all'art. 11, comma
1, del T.U. edilizia di cui al D.P.R.
380/2001, il permesso di costruire è
rilasciato al proprietario dell'immobile o a
chi abbia titolo per richiederlo, la
legittimazione attiva a chiedere il rilascio
di un titolo abilitativo edilizio si
configura in capo non solo al proprietario
del terreno, ma pure al soggetto titolare di
altro diritto di godimento del fondo, che lo
autorizzi a disporne al riguardo (cfr. Cons.
Stato, sez. VI, 15.07.2010 n. 4557, 02.09.2011 n. 4968);
- vi è il contestuale onere della P.A. di
accertare con serietà e rigore siffatta
legittimazione a chiedere il titolo edilizio
(arg. ex Cons. Stato, sez. IV, 07.09.2016 n. 3823),
dovendo pertanto la P.A.
accertare che l’istante sia il proprietario
dell'immobile oggetto dell'intervento
costruttivo o che, comunque, ne abbia un
titolo di disponibilità sufficiente per
eseguire l'attività edificatoria (cfr. Cons.
Stato, sez. V, 04.04.2012 n. 1990);
- al riguardo, non si sono mai posti dubbi
in ordine ai limiti legali, i quali,
trovando applicazione generalizzata,
concorrono a formare lo statuto generale
dell'attività edilizia e non pongono
problemi di conoscibilità
all'amministrazione che è tenuta a
considerarli sempre;
- diversamente, per le limitazioni negoziali
del diritto di costruire, la giurisprudenza
in passato ha oscillato fra la soluzione che
ne esclude ogni rilevanza, nel presupposto
che all'amministrazione sia inibito
qualsiasi sindacato anche indiretto sulla
validità ed efficacia dei rapporti giuridici
dei privati (cfr. Cons. Stato, sez. V, 20.12.1993, n. 1341),
e quella opposta
che, invece, ammette che il Comune verifichi
il rispetto dei limiti privatistici, purché
siano immediatamente conoscibili,
effettivamente e legittimamente conosciuti
nonché del tutto incontestati, di guisa che
il controllo si traduca in una semplice
presa d'atto (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2007 n. 1206);
- la più recente giurisprudenza del
Consiglio di Stato, superando l'indirizzo
più risalente, è oggi allineata nel senso
che l'Amministrazione, quando venga a
conoscenza dell'esistenza di contestazioni
sul diritto del richiedente il titolo abilitativo, debba compiere le necessarie
indagini istruttorie per verificare la
fondatezza delle contestazioni, senza però
sostituirsi a valutazioni squisitamente
civilistiche (che appartengono alla
competenza dell’A.G.O.), arrestandosi dal
procedere solo se il richiedente non sia in
grado di fornire elementi prima facie
attendibili.
3. Facendo applicazione dei su menzionati
principi al caso di specie, è evidente che
il Comune resistente ha omesso anche il
minimo controllo sulla legittimazione dei
richiedenti la concessione edilizia a
disporre, in virtù di un titolo (legale,
giudiziale ovvero negoziale), dell’intera
area: compresa la porzione (insistente su
una parte del mappale 1151) oggetto di
formale e circostanziata opposizione
all’intervento costruttivo manifestata in
sede procedimentale dalla parte ricorrente.
4. In tali limiti, va dunque dato atto
dell’illegittimità dell’avversato titolo
edificatorio: impregiudicato, ovviamente,
l’esito del giudizio petitorio pendente
dinanzi alla competente A.G.O., a fronte del
quale competerà comunque all’Autorità
comunale nuovamente pronunziarsi in
conformità dell’accertata consistenza ed
estensione dominicale delle confinanti
proprietà.
5. Quanto alla sospensione del titolo,
gravata con motivi aggiunti in ragione della
pretesa esorbitanza del provvedimento
soprassessorio (concernente l’intero titolo
ad aedificandum rispetto alla portata
applicativa dell’ordinanza cautelare resa da
a fronte dell’impugnazione di cui all’atto
introduttivo del giudizio), va escluso che
parte ricorrente vanti legittimazione alla
sollecitazione del sindacato
giurisdizionale, come, del resto, osservato
con ordinanza di questa Sezione n. 288 del 04.05.2009 (con la quale si è osservato
che, “sotto il profilo processuale
l’utilizzo dei motivi aggiunti è improprio,
in quanto la nuova controversia, pur essendo
connessa a quella originaria, riguarda un
provvedimento di segno opposto a quello
impugnato dalla società ricorrente, con
inversione della legittimazione e
dell’interesse ad agire”).
I motivi aggiunti, conseguentemente, sono
inammissibili. |
EDILIZIA PRIVATA:
APPALTI - Opere edilizie - Progetto e saggi nei terreni di
fondazione - Danni e risarcimenti - Obbligo giuridico o
disposizione contrattuale di impedire l'evento dannoso -
Responsabilità - Geologo, progettista e direttore dei
lavori.
In via generale, l'obbligo giuridico di
impedire l'evento dannoso può discendere, oltre che da una
norma di legge o da una disposizione contrattuale, anche da
una specifica situazione che esiga una determinata attività
a tutela di un diritto altrui. Nella specie è indubbio che
detto obbligo giuridico gravante sul geologo e sul
progettista incombe anche su chi ricopre il ruolo di
direzione lavori, applicabile anche ai rapporti di
committenza privata.
APPALTI - Appaltatore e dovere di diligenza stabilito
dall'art. 1176 c.c. - Opere edilizie da eseguirsi su
strutture o basamenti preesistenti - Difficoltà di
esecuzione dell'opera manifestatesi in corso d'opera -
Imprevedibili - Diritto ad un equo compenso - Realizzazione
dell'opera senza difetti costruttivi - Garanzia - Art. 1664,
2° co., c.c. - Giurisprudenza.
Trattandosi di opere edilizie da
eseguirsi su strutture o basamenti preesistenti o preparati
dal committente o da terzi, l'appaltatore viola il dovere di
diligenza stabilito dall'art. 1176 c.c. se non verifica, nei
limiti delle comuni regole dell'arte, l'idoneità delle
anzidette strutture a reggere l'ulteriore opera commessagli,
e ad assicurare la buona riuscita della medesima, ovvero se,
accertata l'inidoneità di tali strutture, procede egualmente
all'esecuzione dell'opera.
Anche l'ipotesi della imprevedibilità di difficoltà di
esecuzione dell'opera manifestatesi in corso d'opera
derivanti da cause geologiche, idriche e simili,
specificamente presa in considerazione in tema di appalto
dall'art. 1664, 2° co., c.c. e legittimante se del caso il
diritto ad un equo compenso in ragione della maggiore
onerosità della prestazione, deve essere valutata sulla base
della diligenza media in relazione al tipo di attività
esercitata.
E laddove l'appaltatore svolga anche i compiti di ingegnere
progettista e di direttore dei lavori, l'obbligo di
diligenza è ancora più rigoroso, essendo egli tenuto, in
presenza di situazioni rivelatrici di possibili fattori di
rischio, ad eseguire gli opportuni interventi per accertarne
la causa ed apprestare i necessari accorgimenti tecnici
volti a garantire la realizzazione dell'opera senza difetti
costruttivi (Sez.
3, Sentenza n. 12995 del 31/05/2006) (Corte
di Cassazione, Sez. III civile,
ordinanza 27.09.2018 n. 23174 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI SERVIZI: Clausole sociali, sì se non
ledono libertà d’impresa. OBBLIGHI PER AGGIUDICATARI DI APPALTI.
L'obbligo,
in capo all'aggiudicatario di un appalto, di riassorbire i dipendenti di un
appaltatore uscente va armonizzato con l'organizzazione di impresa scelta
dal soggetto che subentra nel contratto.
Lo ha affermato il Consiglio di
Stato, Sez. III, con la
sentenza 27.09.2018 n. 5551 in una
vicenda in cui era stato previsto, per lo svolgimento dei servizi del Centro
unificato di prenotazione delle prestazioni sanitarie (Cup), l'adesione alla
cosiddetta «clausola sociale» sull'obbligo di riassorbimento del personale.
Per i giudici, la cosiddetta clausola sociale deve essere interpretata
conformemente ai principi nazionali e comunitari in materia di libertà di
iniziativa imprenditoriale e di concorrenza.
Diversamente, risulterebbe
altrimenti lesiva della concorrenza e tale da scoraggiare la partecipazione
alla gara e limitando ultroneamente la platea dei partecipanti. I giudici
hanno rilevato anche che occorre evitare che sia lesa la libertà d'impresa,
riconosciuta e garantita dall'art. 41 della Costituzione, che sta a
fondamento dell'autogoverno dei fattori di produzione e dell'autonomia di
gestione propria dell'archetipo del contratto di appalto.
Da ciò il collegio
di Palazzo Spada fa discendere che la clausola deve essere interpretata in
modo da non limitare la libertà di iniziativa economica e, comunque,
evitando di attribuirle un effetto automaticamente e rigidamente escludente.
L'obbligo di riassorbimento dei lavoratori alle dipendenze dell'appaltatore
uscente nello stesso posto di lavoro e nel contesto dello stesso appalto,
deve essere armonizzato e reso compatibile con l'organizzazione di impresa
prescelta dall'imprenditore subentrante dal momento che la clausola sociale
funge da strumento per favorire la continuità e la stabilità occupazionale
dei lavoratori.
Si rinviene prova di questa finalità, dice la sentenza, nella circostanza
che oltre alla possibilità di distrarre un lavoratore, assunto in virtù
della clausola sociale, in altra commessa, la giurisprudenza ha affermato
che i lavoratori, che non trovano spazio nell'organigramma dell'appaltatore
subentrante e che non vengano ulteriormente impiegati dall'appaltatore
uscente in altri settori, sono destinatari delle misure legislative in
materia di ammortizzatori sociali (articolo ItaliaOggi del 05.10.2018).
--------------
MASSIMA
4. Il giudice di primo grado, avendo ritenuto illegittima l’internalizzazione
del servizio CUP e avendo giudicato fondato il motivo sulla non economicità
del ricorso all’internalizzazione ha assorbito la questione relativa
all’assunzione a tempo indeterminato dei dipendenti di Ex..
Il motivo è stato riproposto però in grado di appello da Ex., con memoria
tempestivamente prodotta entro il termine per la costituzione in giudizio,
ai sensi dell’art. 101, comma 2, c.p.a..
Le modalità di assunzione del personale della Ex. non sono illegittime.
Giova premettere che la giurisprudenza di questa Sezione, che il Collegio
condivide e fa propria, ha affermato che la cd. clausola
sociale deve essere interpretata conformemente ai principi nazionali e
comunitari in materia di libertà di iniziativa imprenditoriale e di
concorrenza, risultando altrimenti essa lesiva della concorrenza,
scoraggiando la partecipazione alla gara e limitando ultroneamente la platea
dei partecipanti, nonché atta a ledere la libertà d’impresa, riconosciuta e
garantita dall’art. 41 Cost., che sta a fondamento dell’autogoverno dei
fattori di produzione e dell’autonomia di gestione propria dell’archetipo
del contratto di appalto. Corollario obbligato di questa premessa è che tale
clausola deve essere interpretata in modo da non limitare la libertà di
iniziativa economica e, comunque, evitando di attribuirle un effetto
automaticamente e rigidamente escludente; conseguentemente, l’obbligo di
riassorbimento dei lavoratori alle dipendenze dell’appaltatore uscente nello
stesso posto di lavoro e nel contesto dello stesso appalto, deve essere
armonizzato e reso compatibile con l’organizzazione di impresa prescelta
dall’imprenditore subentrante (Cons.
St., sez. III, 05.05.2017, n. 2078).
Quindi, secondo
questo condivisibile indirizzo, la clausola sociale funge
da strumento per favorire la continuità e la stabilità occupazionale dei
lavoratori (Cons. St., sez. V,
07.06.2016, n. 2433; id., sez. III, 30.03.2016, n. 1255; id. 09.12.2015, n.
5598; id. 05.04.2013, n. 1896; id., sez. V, 25.01.2016, n. 242; id., sez.
VI, 27.11.2014, n. 5890).
E che tale sia la finalità precipua della previsione, ne è
prova la circostanza che oltre alla possibilità di distrarre un lavoratore,
assunto in virtù della clausola sociale, in altra commessa, la
giurisprudenza (Cons. St., sez.
III, 05.05.2017, n. 2078) ha affermato che i lavoratori,
che non trovano spazio nell’organigramma dell’appaltatore subentrante e che
non vengano ulteriormente impiegati dall’appaltatore uscente in altri
settori, sono destinatari delle misure legislative in materia di
ammortizzatori sociali (Cons. St.,
sez. III, 30.03.2016, n. 1255).
La clausola sociale, dunque, ha come obiettivo principale la tutela dei
lavoratori della società affidataria di un appalto cessato. |
EDILIZIA PRIVATA:
Responsabilità del venditore-costruttore per
difetti dell'opera: chiarimenti dalla Cassazione.
Il venditore può essere chiamato a rispondere dei gravi
difetti dell'opera, non soltanto quando i lavori siano
eseguiti in economia, ma anche nell'ipotesi in cui la
realizzazione dell'opera è affidata a un terzo.
La II Sez. civile della Corte di Cassazione, nell'ordinanza
n. 23132/2018 depositata il 26 settembre, ha ribadito che "la
denuncia di gravi difetti di costruzione, oltre che dal
committente e suoi aventi causa, può essere fatta valere
anche dagli acquirenti dell'immobile, in base al principio
che le disposizioni di cui all'art. 1669 cod. civ. mirano a
disciplinare le conseguenze dannose di quei difetti che
incidono profondamente sugli elementi essenziali dell'opera
e che influiscono sulla durata e solidità della stessa,
compromettendone la conservazione e configurano, quindi, una
responsabilità extracontrattuale, sancita per ragioni e
finalità di interesse generale" (v. da Cass. II sez.,
4622/2002 e anche Cass. 8109/1997).
Quindi, il venditore può essere chiamato a rispondere dei
gravi difetti dell'opera, non soltanto quando i lavori siano
eseguiti in economia, ma anche nell'ipotesi in cui la
realizzazione dell'opera è affidata a un terzo, al quale non
sia stata lasciata completa autonomia tecnica e decisionale,
in quanto il venditore abbia mantenuto il potere di
impartire direttive o di sorveglianza sullo svolgimento
dell'altrui attività, sicché, anche in tali casi, la
costruzione dell'opera è a lui riferibile (v. anche Cass.
567/2005; 2238/2012).
Infatti, va considerato che, proprio questa attività di
interferenza o di controllo, così come quella di
progettazione, documentano, in generale, il coinvolgimento
del venditore committente e la sua corresponsabilità, salvo
che, in ipotesi limite, sia dimostrata la incolpevole
estraneità (commento tratto da www.casaeclima.com).
---------------
MASSIMA
1.= Con l'unico motivo di ricorso Fa.Pi. e il
Condominio Le.Te. lamentano la violazione dell'art. 1669
cod. civ. (art. 360 primo comma, n. 3 cod. proc. civ.).
Secondo i ricorrenti, la Corte distrettuale non avrebbe
tenuto conto che laddove il committente, come sarebbe
pacifico sia avvenuto nel caso di specie, nomini un
direttore dei lavori e predisponga il capitolato, verrà
considerato, ai fini dell'applicazione dell'art. 1669 cod.
civ., alla stregua dell'appaltatore. Si verificherebbe, in
questo caso, un mutamento nella qualificazione delle figure
coinvolte nell'affare; il venditore, formalmente committente
viene considerato appaltatore, l'acquirente finale viene
considerato committente e le imprese che, materialmente
realizzano l'opera, assumono il rango di sub appaltatore.
Deducono, ancora, i ricorrenti, che il costruttore venditore
risponde, eventualmente, anche in solido con altri soggetti
in tutti i casi in cui non lasci piena autonomia tecnica e
decisionale alle imprese esecutrici.
1.a) Con il secondo motivo del ricorso incidentale,
il ricorrente incidentale lamenta la violazione del disposto
di cui all'art. 1669 cod. civ. (art. 360, primo comma, n. 3
cod. proc. civ.). Il ricorrente incidentale, in via
preliminare, specifica di aderire ai rilievi svolti dal
ricorrente principale e nel sostenerli; aggiunge qualche
ulteriore considerazione.
1.1.= I motivi appena richiamati sono infondati.
La questione prospettata è stata già affrontata da questa
Corte, che ha avuto modo di chiarire, che: "la
denuncia di gravi difetti di costruzione, oltre che dal
committente e suoi aventi causa, può essere fatta valere
anche dagli acquirenti dell'immobile, in base al principio
che le disposizioni di cui all'art. 1669 cod. civ. mirano a
disciplinare le conseguenze dannose di quei difetti che
incidono profondamente sugli elementi essenziali dell'opera
e che influiscono sulla durata e solidità della stessa,
compromettendone la conservazione e configurano, quindi, una
responsabilità extracontrattuale, sancita per ragioni e
finalità di interesse generale"
(v. da Cass. II sez., 4622/2002 e anche Cass. 8109/1997).
Quindi, il venditore può essere chiamato a
rispondere dei gravi difetti dell'opera non soltanto quando
i lavori siano eseguiti in economia, ma anche nell'ipotesi
in cui la realizzazione dell'opera è affidata a un terzo, al
quale non sia stata lasciata completa autonomia tecnica e
decisionale, in quanto il venditore abbia mantenuto il
potere di impartire direttive o di sorveglianza sullo
svolgimento dell'altrui attività, sicché, anche in tali
casi, la costruzione dell'opera è a lui riferibile
(v. anche Cass. 567/2005; 2238/2012).
Infatti, va considerato che, proprio questa
attività di interferenza o di controllo, così come quella di
progettazione, documentano, in generale, il coinvolgimento
del venditore committente e la sua corresponsabilità, salvo
che, in ipotesi limite, sia dimostrata la incolpevole
estraneità.
Ora, nel caso in esame, la Corte distrettuale con proprio
giudizio di merito (e contrariamente a quanto sostenuto dai
ricorrenti) ha escluso che il venditore committente avesse
compartecipato, in modo attivo, alla realizzazione
dell'opera di cui si dice, cioè, e, al contrario, ha
accertato che il committente-venditore, nell'esecuzione
dell'opera di che trattasi, aveva lasciato piena autonomia
tecnica e decisionale all'impresa esecutrice, o, alle
imprese esecutrici.
Infatti, come afferma la Corte distrettuale "( ) non è
stato assolutamente dimostrato che l'appellante (venditore)
avesse anche assunto la veste di costruttore, ovvero, che si
fosse ingerito nella costruzione delle opere appaltate, così
da ridurre l'impresa appaltatrice alla veste di "nudus
minister" ( )".
E, di più, la Corte distrettuale ha ritenuto ininfluenti (a
dimostrare la compartecipazione del committente venditore
alla realizzazione dell'opera oggetto del giudizio), proprio
quei dati per i quali i ricorrenti ritengono che il
committente venditore abbia avuto piena compartecipazione
alla realizzazione dell'opera di cui si dice: "(.....)
l'appellante ha giustamente contestato la decisione di primo
grado che ha ritenuto di affermare la sua responsabilità ex
art. 1669 cod. civ., unicamente sul fatto che avesse
nominato un direttore dei lavori (circostanza da ritenersi
ininfluente, poiché la nomina del direttore dei lavori può
essere fatta anche dal committente) nonché nella sua
partecipazione ai sopralluoghi nel corso dei quali venivano
esaminate le denunce dei vizi ed eventuali interventi per la
loro eliminazione (...)".
E' questa, comunque, una valutazione di merito non
suscettibile di essere vagliata nel giudizio di cassazione i
essendo questo deputato a verificare la legittimità in
diritto della sentenza impugnata (Corte di Cassazione, Sez.
II civile,
ordinanza 26.09.2018 n.
23132). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ampliamento della volumetria preesistente all’esterno della
sagoma esistente - Apertura di nuove pareti finestrate -
Interventi classificabili come di “nuova costruzione” -
Permesso di costruire o altro titolo equipollente -
Necessità - Ristrutturazione cd. "minore" - Esclusione -
Artt. 3, 10, 22, 44, d.P.R. n. 380/2001 - Giurisprudenza.
Gli interventi edilizi che comportano
l'ampliamento della volumetria preesistente all'esterno
della sagoma esistente l'apertura di nuovi pareti finestrate,
possono essere realizzati solo con permesso di costruire o
altro titolo equipollente trattandosi di interventi
classificabili come di "nuova costruzione" ai sensi della
lettera e.1) dell'art. 3, d.P.R. n. 380 del 2001
(Sez. 3, n. 38632 del 31/05/2017, Molari) e
comunque non di ristrutturazione cd. "minore"
(Sez. 3, n. 30575 del 20/05/2014, Limongi, secondo cui,
l'apertura di "pareti finestrate" sulla facciata di un
edificio, senza il preventivo rilascio del permesso di
costruire, integra il reato previsto dall'art. 44 del
d.P.R.n. 380 del 2001, poiché si tratta di un intervento
edilizio comportante una modifica dei prospetti non
qualificabile come ristrutturazione edilizia "minore", e per
il quale, quindi, non è sufficiente la mera denuncia di
inizio attività; conf., Sez. 3, n. 921 del 10/10/2017, dep.
2018, Carenza; Sez. 3, n. 38853 del 05/04/2017, Zizzi) (Corte
di Cassazione, Sez. III
penale, sentenza 25.09.2018 n. 41256 - link a www.ambientediritto.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Licenziabile il dipendente pubblico che non si «astiene» in
caso di conflitto di interessi anche potenziale.
In presenza di una situazione di
conflitto di interessi, l codice di comportamento dei
dipendenti pubblici impone ai responsabili del procedimento
l'obbligo di segnalazione e rilevazione ma soprattutto il
dovere di astensione dal procedimento.
La stessa legge 241/1990 prevede espressamente che:
«Il responsabile del procedimento e i titolari
degli uffici competenti ad adottare i
pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali
e il provvedimento finale devono
astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni
situazione di conflitto, anche
potenziale».
---------------
MASSIMA
28. Il terzo e il
quarto motivo, da trattarsi
congiuntamente, presentano profili di
infondatezza e di inammissibilità.
29. Sono infondate le censure (terzo motivo) che addebitano
alla sentenza di avere
formulato il giudizio di rilevanza disciplinare delle
condotte poste a base del licenziamento con
riguardo alla sola disposizione contenuta nell'art. 6-bis
della L. n. 241 del 1990.
30. Diversamente da quanto prospetta il ricorrente, la Corte
territoriale, in coerenza con la
contestazione disciplinare, ha ricostruito il quadro
normativo che regola le situazioni di conflitto
di interesse richiamando l'obbligo di astensione, di cui
all'art. 3, c. 5, lett. p), del regolamento di disciplina,
l'art. 6-bis della L. n. 241 del 1990 e gli artt. 6 e 7 del
D.P.R. n. 62 del 2013,
recante il Codice di Comportamento dei Dipendenti Pubblici (cfr.
punto 6 di questa sentenza).
31. Quanto alla dedotta inapplicabilità della L. 07.08.1990, n. 241 alla fattispecie dedotta
in giudizio (terzo motivo), il Collegio osserva che è
innegabile che questa legge disciplini il
procedimento amministrativo e il diritto di accesso ai
documenti amministrativi.
32. E' altrettanto indubitabile, però, che l'art. 6-bis
della L. n. 241, introdotto dall'art. 1, c.
41, della L. 06.11.2012, n. 190 (Disposizioni per la
prevenzione e la repressione della
corruzione e dell'illegalità nella pubblica
amministrazione) ha imposto una precisa regola di
condotta del pubblico dipendente che rivesta il ruolo di
responsabile del procedimento, avendo
previsto che "Il responsabile del procedimento e i titolari
degli uffici competenti ad adottare i
pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali
e il provvedimento finale devono
astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni
situazione di conflitto, anche
potenziale".
33. L'obbligo di segnalazione dei conflitti di interesse
anche solo "potenziale" e il dovere di
astensione dalle attività di ufficio che possano coinvolgere
interessi privati risultano riaffermati
anche dal D.P.R. 16.04.2013, n. 62 (Regolamento recante
codice di comportamento dei
dipendenti pubblici, a norma dell'articolo 54 del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165).
34. Il D.P.R. innanzi richiamato impone (art. 6) al
pubblico dipendente "Fermi restando gli
obblighi di trasparenza previsti da leggi o regolamenti" di
informare per iscritto il dirigente
dell'ufficio di tutti i rapporti, diretti o indiretti, di
collaborazione con soggetti privati in
qualunque modo retribuiti che lo stesso abbia o abbia avuto
negli ultimi tre anni, precisando:
a) se in prima persona, o suoi parenti o affini entro il
secondo grado, il coniuge o il convivente
abbiano ancora rapporti finanziari con il soggetto con cui
ha avuto i predetti rapporti di
collaborazione;
b) se tali rapporti siano intercorsi o
intercorrano con soggetti che abbiano
interessi in attività o decisioni inerenti all'ufficio,
limitatamente alle pratiche a lui affidate e di
astenersi "dal prendere decisioni o svolgere attività
inerenti alle sue mansioni in situazioni di
conflitto, anche potenziale, di interessi con interessi
personali, del coniuge, di conviventi, di
parenti, di affini entro il secondo grado, e precisa che "il
conflitto può riguardare interessi di
qualsiasi natura, anche non patrimoniali, come quelli
derivanti dall'intento di voler assecondare
pressioni politiche, sindacali o dei superiori gerarchici".
35. Esso prescrive al pubblico dipendente (art. 7) anche di
astenersi dal partecipare
all'adozione di decisioni o ad attività che possano
coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi
parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di
conviventi, oppure di persone con le
quali abbia rapporti di frequentazione abituale, ovvero, di
soggetti od organizzazioni con cui
egli o il coniuge abbia causa pendente o grave inimicizia o
rapporti di credito o debito significativi, ovvero di
soggetti od organizzazioni di cui sia tutore, curatore,
procuratore o
agente, ovvero di enti, associazioni anche non riconosciute,
comitati, società o stabilimenti di
cui sia amministratore o gerente o dirigente e di astenersi
in ogni altro caso in cui esistano
gravi ragioni di convenienza.
36. Il D.P.R. citato obbliga (art. 9), poi, il pubblico
dipendente ad assicurare l'adempimento
degli obblighi di trasparenza previsti in capo alle
pubbliche amministrazioni secondo le
disposizioni normative vigenti, prestando la massima
collaborazione nell'elaborazione,
reperimento e trasmissione dei dati sottoposti all'obbligo
di pubblicazione sul sito istituzionale.
37. Nel contesto normativo, di fonte legale e regolamentare,
innanzi ricostruito è corretta
l'affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo
cui ciò che rileva è il conflitto che
in astratto (potenziale) può verificarsi e che è, di contro,
ininfluente che esso si sia nel
concreto realizzato, ove si consideri che gli obblighi
imposti al pubblico dipendente mirano a
garantire la trasparenza e l'imparzialità dell'azione
amministrativa e, ad un tempo, a prevenire
fenomeni di corruzione.
38. Le prospettazioni difensive (quarto motivo) che muovono
dall'assunto che l'art. 16, c. 2,
del D.P.R. n. 62 del 2013 esclude espressamente che per i
conflitti meramente potenziali l'Ente
pubblico possa adottare sanzioni espulsive sono infondate.
39. In primo luogo perché esse non si confrontano con il
dato letterale e sistematico della
norma.
40. L'art. 16, c. 1, dopo avere attribuito rilievo
disciplinare alla violazione degli obblighi
previsti Codice, prevedendo che essa integra comportamenti
contrari ai doveri d'ufficio,
dispone che, "ferme restando le ipotesi in cui la violazione
delle disposizioni contenute nel
presente Codice, nonché dei doveri e degli obblighi previsti
dal piano di prevenzione della
corruzione, dà luogo anche a responsabilità penale, civile,
amministrativa o contabile del
pubblico dipendente, essa è fonte di responsabilità
disciplinare accertata all'esito del
procedimento disciplinare, nel rispetto dei principi di
gradualità e proporzionalità delle
sanzioni".
41. L'art. 16 cit. dispone, inoltre (c. 2), che, ai fini
della determinazione del tipo e dell'entità
della sanzione disciplinare concretamente applicabile, la
violazione è valutata in ogni singolo
caso con riguardo alla gravità del comportamento e
all'entità del pregiudizio, anche morale,
derivatone al decoro o al prestigio dell'amministrazione di
appartenenza e che le sanzioni
applicabili sono quelle previste dalla legge, dai
regolamenti e dai contratti collettivi "incluse
quelle espulsive che possono essere applicate esclusivamente
nei casi, da valutare in relazione
alla gravità, di violazione delle disposizioni di cui agli
articoli 4, qualora concorrano la non
modicità del valore del regalo o delle altre utilità e
l'immediata correlazione di questi ultimi con il compimento
di un atto o di un'attività tipici dell'ufficio, 5, comma 2,
14, comma 2, primo
periodo, valutata ai sensi del primo periodo. La
disposizione di cui al secondo periodo si applica
altresì nei casi di recidiva negli illeciti di cui agli
articoli 4, comma 6, 6, comma 2, esclusi i
conflitti meramente potenziali, e 13, comma 9, primo
periodo".
42. Il richiamato art. 16, in conformità ed in coerenza con
le disposizioni contenute negli
artt. 55, c. 2, e 55-quater (nel testo applicabile "ratione
temporis" risultante dalla riforma di cui
al D.Lgs. n. 165 del 2001) ribadisce la facoltà dei
contratti collettivi di "prevedere ulteriori
criteri di individuazione delle sanzioni applicabili in
relazione alle tipologie di violazione del
presente codice" e, con norme di chiusura, fa salvi "la
comminazione del licenziamento senza
preavviso per i casi già previsti dalla legge, dai
regolamenti e dai contratti collettivi" (c. 3) e "gli
ulteriori obblighi e le conseguenti ipotesi di
responsabilità disciplinare dei pubblici dipendenti
previsti da norme di legge, di regolamento o dai contratti
collettivi".
43. Ebbene, non è in discussione che il licenziamento
dedotto in giudizio è stato fondato
anche sulla violazione del dovere di astensione imposto
dall'art. 3, c. 5, lett. p), del regolamento
di disciplina del Comune e degli obblighi di cui all'art. 3,
c. 7, lett. i), del CCNL del Comparto
Regioni ed Autonomie Locali (violazioni di doveri di
comportamento non ricomprese
specificamente nelle lettere precedenti di gravità tale da
non consentire la prosecuzione del
rapporto di lavoro).
44. In secondo luogo, perché, rispetto all'assunto, come
detto erroneo (punto 37 di questa
sentenza), che il c. 2 dell'art. 16 del citato D.P.R.
esclude l'applicabilità della sanzione
risolutiva nei casi di conflitto potenziale, è decisiva la
circostanza che la Corte territoriale ha
accertato che nella fattispecie dedotta in giudizio il
conflitto di interessi era stato concreto e
reale e non meramente potenziale.
Tanto in ragione della
responsabilità della intera attività
istruttoria che ricade per legge sul pubblico dipendente
responsabile del procedimento e del
fatto che risultava provato che il Ro. era socio unico
della Im.So. srl e
titolare della quota di partecipazione del 50% della
Ed. srl (Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 25.09.2018 n. 22683). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza considera la canna fumaria
ordinariamente un volume tecnico e, come tale, un'opera
priva di autonoma rilevanza urbanistico-funzionale, per la
cui realizzazione non è necessario il permesso di costruire,
senza essere conseguentemente soggetta alla sanzione della
demolizione, a meno che non si tratti di opere di palese
evidenza rispetto alla costruzione ed alla sagoma
dell'immobile, occorrendo solo in tal caso il permesso di
costruire.
---------------
Con il presente ricorso è stato impugnato il provvedimento del
31.10.2017 del Responsabile del Servizio demanio e
patrimonio del Comune di Anguillara con cui è stata disposta
la demolizione di una canna fumaria realizzata in assenza di
titolo abilitativo, in via del Forno 1.
Il provvedimento fa riferimento a due sopralluoghi entrambi
del 20.06.2017 (ma per il secondo potrebbe essere
erroneamente indicata la data), nei quali è stata accertata
-nel primo sopralluogo- la presenza di una canna fumaria
in acciaio alta 2.5 metri realizzata in contrasto con l’art.
47 del regolamento edilizio riguardante la distanza tra i
fabbricati ed in assenza del titolo edilizio e
paesaggistico; nel secondo sopralluogo, al posto di quella
in acciaio, la presenza di una canna fumaria “probabilmente
in eternit, diversa per altezza e diametro e materiale dalla
precedente, in assenza di titoli abilitativi”.
La canna fumaria in acciaio è stata oggetto di una
comunicazione di avvio del procedimento in data 14.07.2017.
Il ricorrente ha esposto in fatto che, a seguito della
comunicazione di avvio del procedimento, ha rimosso la canna
in acciaio il 27.07.2017 (depositando la relativa
comunicazione al Comune), sfilando la copertura di acciaio
che ricopriva la vecchia canna fumaria, mentre quest’ultima
era risalente nel tempo, essendo stato il locale destinato
ad attività di ristorazione almeno dal 1973 e l’immobile
comunque realizzato prima del 1967 ed ha depositato atti di
compravendita e dichiarazioni di successione relativi
all’immobile.
Ha dedotto, inoltre, di avere inviato il 13.11.2017
una richiesta di accesso agli atti mai evasa dal Comune e ha
formulato le seguenti censure in diritto: violazione
dell’art. 25 della legge n. 241 del 1990; del principio del
contraddittorio; degli articoli 4, 5, 6 e 47 del Regolamento
edilizio del Comune; eccesso di potere; travisamento dei
fatti; difetto di istruttoria.
Nessuno si è costituito per il Comune di Anguillara Sabazia
e per la controinteressata.
A seguito della camera di consiglio del 13.02.2018, è
stata accolta la domanda cautelare ai fini del riesame, che
non risulta successivamente effettuato dall’Amministrazione
neppure a seguito della ordinanza istruttoria del 12.06.2018 con cui sono stati chiesti chiarimenti circa tale
incombente.
Alla camera di consiglio del 12.09.2017, il ricorso è
stato trattenuto in decisione per una pronuncia in forma
semplificata.
Il ricorso è fondato.
Il provvedimento impugnato dispone la demolizione di opere
edilizie “consistenti nell’aver realizzato una canna
fumaria”; nelle premesse del provvedimento di demolizione si
fa riferimento a due sopralluoghi entrambi del 20.06.2017, che hanno accertato l’esistenza di due canne fumarie
differenti, una in acciaio (in contrasto con l’art. 47 del
Regolamento edilizio comunale per la violazione della
distanza minima dalla finestra della controinteressata e
priva di titoli edilizi e paesaggistici); successivamente
un’altra “probabilmente” in eternit, di cui si riferisce che
dalla istruttoria tecnica “emerge che il manufatto è stato
realizzato in assenza di titoli abilitativi” (senza più
riferimento né alla violazione delle distanze né alla
mancanza di titolo paesaggistico).
Il ricorrente ha affermato di avere rimosso la canna fumaria
in acciaio (evidentemente una mera copertura di quella in
eternit) a seguito della comunicazione di avvio del
procedimento del 14.07.2017 (che faceva riferimento alla
sola canna fumaria in acciaio) e di avere comunicato tale
circostanza al Comune nella nota presentata agli uffici
comunali il 27.07.2017.
Ne deriva che, alla data di adozione del provvedimento
impugnato, il 31.10.2017, la canna fumaria in acciaio
era comunque stata rimossa (non essendo stata più rilevata
anche nel secondo sopralluogo della Polizia locale);
pertanto il provvedimento, pur generico nella individuazione
dell’opera da demolire, non può che essere rivolto alla
vecchia canna fumaria.
In relazione a tale canna fumaria, il provvedimento contiene
un riferimento ad una istruttoria tecnica, di cui il Comune
non ha fornito alcuna documentazione né al ricorrente (che
ha presentato domanda di accesso il 13.11.2017) né nel
presente giudizio a seguito delle ordinanze del Tribunale.
E’, quindi, fondata la censura di difetto di istruttoria
formulata in ricorso, in quanto dal provvedimento impugnato
non risultano né le dimensioni della canna fumaria (che si
afferma essere “probabilmente” in eternit e di dimensioni
differenti da quella precedente) né la sua presumibile epoca
di realizzazione, la cui risalenza nel tempo, peraltro, deve
essere stata riconosciuta anche dal Comune che, oltre alla
indicazione del materiale, non più utilizzabile da anni, non
ha fatto più riferimento al regolamento edilizio comunale e
alla violazione delle distanze, nonché alla carenza di
titolo paesaggistico.
Si deve tenere presente, in primo luogo, che la
giurisprudenza considera la canna fumaria ordinariamente un
volume tecnico e, come tale, un'opera priva di autonoma
rilevanza urbanistico-funzionale, per la cui realizzazione
non è necessario il permesso di costruire, senza essere
conseguentemente soggetta alla sanzione della demolizione, a
meno che non si tratti di opere di palese evidenza rispetto
alla costruzione ed alla sagoma dell'immobile, occorrendo
solo in tal caso il permesso di costruire (TAR Campania-Napoli,
03.07.2015, n. 3612; 01.10.2012 n. 4005) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 25.09.2018 n. 9553 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini della corretta
individuazione dell'abuso edilizio utile a legittimare
l'intervento repressivo dell'Amministrazione anche a
distanza di anni, la disamina dell'effettiva esistenza o
meno del titolo abilitativo
prescritto dalla legge deve essere effettuata in relazione
al regime giuridico vigente -non al momento in cui il
Comune adotta il provvedimento, bensì- all'epoca in cui le
opere edilizie sono state realizzate.
Un'opera può essere, infatti, qualificata in termini di
abuso edilizio, esclusivamente a condizione che, all'epoca
in cui la stessa è stata realizzata, la normativa vigente
prescrivesse l'obbligo di chiedere ed ottenere il previo
rilascio della licenza edilizia o della concessione edilizia
o, ancora, del permesso di costruire, a seconda delle
discipline giuridiche susseguitesi nel tempo.
---------------
Dalla fotografia depositata in giudizio dalla difesa
ricorrente, la canna fumaria appare di rilevanti dimensioni,
ma sia per i materiali utilizzati che per l’aspetto
esteriore, deve ritenersi realizzata in tempi risalenti.
In materia edilizia, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di
Stato, n. 9 del 2017, ha escluso la rilevanza dell’aspetto
temporale rispetto alla legittimità del provvedimento di
demolizione; nel caso di specie, tale profilo avrebbe dovuto
essere considerato in relazione alla natura dell’opera
realizzata e alla disciplina edilizia all’epoca vigente, ai
fini della stessa qualificazione dell’abuso.
Peraltro, ai fini della corretta individuazione dell'abuso
edilizio utile a legittimare l'intervento repressivo
dell'Amministrazione anche a distanza di anni, la disamina
dell'effettiva esistenza o meno del titolo abilitativo
prescritto dalla legge deve essere effettuata in relazione
al regime giuridico vigente -non al momento in cui il
Comune adotta il provvedimento, bensì- all'epoca in cui le
opere edilizie sono state realizzate. Un'opera può essere,
infatti, qualificata in termini di abuso edilizio,
esclusivamente a condizione che, all'epoca in cui la stessa
è stata realizzata, la normativa vigente prescrivesse
l'obbligo di chiedere ed ottenere il previo rilascio della
licenza edilizia o della concessione edilizia o, ancora, del
permesso di costruire, a seconda delle discipline giuridiche
susseguitesi nel tempo (Tar Lazio, sezione II-bis, 10.05.2017, n. 5662).
Dal provvedimento impugnato non risulta alcun riferimento
alla presumibile data di realizzazione dell’opera, pur
risultando evidente sia per la natura dei materiali
utilizzati (rilevati dallo stesso Comune) che per l’aspetto
esteriore, in base alla fotografia depositata in giudizio
dal ricorrente, che si tratta di una opera risalente nel
tempo.
Inoltre, nel provvedimento impugnato non vi è alcuna
indicazione circa la disciplina edilizia anteriore al 2001.
Infatti, vengono richiamati il d.p.r. n. 380 del 2001 -in
particolare l’art. 31- la legge regionale n. 15 del 2008,
il d.lgs. n. 42 del 2004.
Il regolamento edilizio comunale approvato con delibera del
16.04.1980, all’art. 5, punto 16, richiedeva
l’autorizzazione per l’installazione di canne fumarie “che
comportano l’esecuzione di modifiche alle strutture e/o
all’architettura esterna della costruzione”; l’art. 10 della
legge n. 47 del 1985 prevedeva la sola sanzione pecuniaria
per l'esecuzione di opere in assenza dell'autorizzazione
prevista dalla normativa vigente o in difformità da essa (ma
l’opera, in base a quanto affermato dal ricorrente, sarebbe
stata realizzata anche prima del 1973 o del 1967).
In tale contesto il Comune ha completamente omesso qualsiasi
indagine, dando per scontata la misura demolitoria, senza
alcun riferimento né alla tipologia della canna fumaria né
alla disciplina edilizia applicabile al momento di
realizzazione dell’opera.
L’assoluta genericità del provvedimento impugnato sotto tali
profili conduce all’accoglimento del ricorso e
all’annullamento del provvedimento impugnato, salva la
ulteriore attività amministrativa anche relativa alla
conformità della canna fumaria esistente alle norme vigenti
sotto altri profili (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 25.09.2018 n. 9553 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Il concorrente all'appalto deve garantire trasparenza.
Con la recente
sentenza
24.09.2018 n. 5500, la sez. V
del Consiglio di stato ha affermato che «i principi di lealtà e affidabilità
professionale dell'aspirante contraente presiedono in genere ai contratti e
in specifico modo, per ragioni inerenti alle finalità pubbliche dell'appalto
e dunque a tutela di economia e qualità della realizzazione, alla formazione
dei contratti pubblici e agli inerenti rapporti con la stazione appaltante».
Infatti, ogni concorrente all'appalto deve segnalare tutti gli eventi della
propria vita professionale potenzialmente rilevanti per il giudizio della
stazione appaltante in ordine alla sua affidabilità quale futuro contraente
e ciò a prescindere dalla fondatezza, gravità e pertinenza di tali episodi.
La mendacità (o anche la mera omissione) della dichiarazione comporta
l'esclusione dalla gara ai sensi dell'art. 75, dpr n. 445/2000, e dell'art.
45, direttiva 2004/18/Ue (par. 2).
Detti principi valgono anche in caso di
vicende soggettive societarie posto che l'art. 2504-bis, comma 1 c.c.,
sancisce che la società risultante dalla fusione o quella incorporante
assume i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione,
proseguendo in tutti i loro rapporti anteriori alla fusione, per cui in capo
all'incorporante sussistono gli obblighi dichiarativi e le possibili
conseguenze espulsive previste dal dlgs n. 50/2016, anche con riferimento
alle società partecipanti alla fusione.
Il collegio, quindi, ha sentenziato
che un conto è l'ammissibilità del concorrente valutato sotto il profilo dei
suoi precedenti penali, un conto è la sua ammissibilità valutata in base
alla lealtà, all'affidabilità e al fair play con la stazione appaltante, il
cui corollario principale consiste nell'anzidetto obbligo dichiarativo.
Nel
caso di specie, poi, essendo intervenuta una transazione tra l'appellante e
il comune resistente, posto che detta transazione non conteneva alcuna
ammissione di colpa, erano impregiudicate le valutazioni del seggio di gara
(articolo ItaliaOggi del 05.10.2018).
---------------
MASSIMA
4. L’art. 38, comma 1, lett. f), stabilisce che sono esclusi, secondo
motivata valutazione della stazione appaltante, i concorrenti che hanno
commesso grave negligenza o malafede nell'esecuzione delle prestazioni
affidate dalla stazione appaltante che bandisce la gara; o che hanno
commesso un errore grave nell'esercizio della loro attività professionale,
accertato con qualsiasi mezzo di prova da parte della stazione appaltante.
La Sezione con la sentenza 11.06.2018, n. 3592, pur applicata con
riferimento all’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. n. 50 del 2016, ma
esplicante principi applicabili a maggior ragione nel sistema antecedente,
ha affermato che sussiste in capo alla stazione appaltante
un potere di apprezzamento discrezionale in ordine alla sussistenza dei
requisiti di “integrità o affidabilità” dei concorrenti: costoro, al
fine di rendere possibile il corretto esercizio di tale potere, sono tenuti
a dichiarare qualunque circostanza che possa ragionevolmente avere influenza
sul processo valutativo demandato all’Amministrazione; deve inoltre
ritenersi che le condotte significative ai fini di una possibile esclusione
non siano solo quelle poste in essere nell’ambito della gara all’interno
della quale la valutazione di “integrità o affidabilità” dev’essere
compiuta, ma anche quelle estranee a detta procedura.
5. Da ciò discende che l’odierna appellante era tenuta a dichiarare le
significative carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto
o di concessione che ne avevano causato la risoluzione anticipata,
rientrando nell'ambito dell'obbligo dichiarativo di cui si discute tutti gli
eventi che, benché oggetto di contestazione ed ancora sub iudice,
avessero dato corso ad azioni di risoluzione contrattuale ovvero ad azioni
risarcitorie ad iniziativa del committente pubblico, in ragione della
(valutata) commissione di gravi errori nell'esecuzione dell'attività
professionale.
Nel caso di specie, la notificazione, nel settembre 2005, dell’atto di
citazione da parte del Comune di Taranto, con cui era stata esercitata
l’azione di risoluzione giudiziale, presupponeva necessariamente l'avvenuta
definizione, in sede amministrativa, dell'accertamento del grave
inadempimento; pertanto, non può ritenersi che si tratti di vicende
sopravvenute e, come tali, irrilevanti a fini dichiarativi.
A nulla rileva al riguardo la circostanza che la commissione giudicatrice
abbia qualificato come definitiva la pronuncia del Tribunale Civile di
Taranto, trattandosi di espressione atecnica per significare, all’evidenza,
che si tratta di definizione del giudizio di cognizione e che non trattavasi
di pronuncia parziale o interlocutoria.
Del resto, come affermato da questa Sezione (da ultimo, con sentenza
Consiglio di Stato, sez. V, 11.12.2017, n. 5811), la
fattispecie ex art. 38, comma 1, lett. f), d.lgs. n. 163/2006 vuole
garantire la possibilità dell’Amministrazione di effettuare valutazioni e
soppesare la rilevanza del fatto storico dell’inadempimento.
La tematica, infatti, esprime gli immanenti principi di lealtà e
affidabilità e professionale dell’aspirante contraente che presiedono in
genere ai contratti e in specifico modo –per ragioni inerenti alle finalità
pubbliche dell’appalto e dunque a tutela di economia e qualità della
realizzazione- alla formazione dei contratti pubblici e agli inerenti
rapporti con la stazione appaltante. Non si rilevano validi motivi per non
effettuare una tale dichiarazione, posto che spetta comunque
all’amministrazione la valutazione dell’errore grave che può essere
accertato con qualunque mezzo di prova
(cfr. Cons. Stato, V, 26.07.2016, n. 3375).
Il concorrente è perciò tenuto a segnalare tutti i fatti
della propria vita professionale potenzialmente rilevanti per il giudizio
della stazione appaltante in ordine alla sua affidabilità quale futuro
contraente, a prescindere da considerazioni su fondatezza, gravità e
pertinenza di tali episodi.
La dichiarazione mendace su di un requisito di importanza
vitale non può che comportare l’esclusione della concorrente, la quale,
celando un importante precedente sui gravi illeciti professionali, si è così
posta al di fuori della disciplina della gara, non consentendo alla stazione
appaltante potesse svolgere un vaglio adeguato e a tutto campo.
6. Pertanto, è del tutto infondato il primo motivo di appello in cui
si sostiene che la sentenza impugnata sarebbe affetta dalla violazione
dell’art. 112 c.p.c. e dal vizio di eccesso di potere giurisdizionale,
atteso che la valutazione della stazione appaltante “si focalizza...sul
venir meno di un requisito, e non certamente sulla omessa dichiarazione di
una situazione antecedente alla partecipazione alla gara”, poiché per la
stazione appaltante l’omessa dichiarazione sarebbe stata del tutto
irrilevante ai fini dell’esclusione del concorrente.
Dalla semplice lettura del provvedimento di esclusione e dei verbali della
Commissione di gara si evince espressamente che “l’intervenuta sentenza
di risoluzione del Contratto del 07.08.1997 per gravissimi inadempimenti
contrattuali imputabili alle imprese esecutrici e la contestuale condanna al
risarcimento in favore del Comune di Taranto del danno arrecato, pronunciata
dal Tribunale di Taranto, determina una insanabile incrinatura sia in
relazione all’affidabilità professionale dell’impresa e, quindi,
sull’opportunità di aggiudicare un nuovo appalto alla stessa; inoltre,
l’assoluta mancanza di qualunque menzione/segnalazione in sede di
partecipazione alla procedura di gara in oggetto di tale procedimento
giudiziario all’epoca in corso, deteriora il rapporto fiduciario che deve
pervadere nei rapporti tra le Amministrazioni Pubbliche e le imprese
deputate all’esecuzione di appalti pubblici”.
7. Il mancato cenno alle risoluzioni contrattuali disposte
è una ragione autonoma per disporre l’esclusione dalla procedura, poiché il
combinato disposto dell’art. 38, comma 1, lett. d) e dell’art. 38, comma 2,
conduce alla obbligatorietà per i concorrenti di dichiarare a pena di
esclusione la sussistenza dei precedenti professionali dai quali la stazione
appaltante può discrezionalmente desumere l’inaffidabilità
(cfr., da ultimo, Consiglio di Stato, sez. V, 16.02.2017, n. 712).
In questa prospettiva, non rileva la gravità dell’errore
commesso: non si può soppesare la rilevanza e la qualità di un fatto che era
onere del concorrente rappresentare e che è stato invece espressamente
celato. Una dichiarazione non veridica è di per sé causa di esclusione.
La dichiarazione mendace porta all’esclusione dalla gara anche per l’art.
75, d.P.R. n. 445 del 2000, nonché per l’art. 45, Direttiva 2004/18/UE, la
quale, al paragrafo 2, espressamente statuisce che va escluso il concorrente
«che si sia reso gravemente colpevole di false dichiarazioni nel fornire
le informazioni che possono essere richieste a norma della presente sezione
o che non abbia fornito dette informazioni».
La circostanza che si tratti di dichiarazione non veritiera (e non di omessa
dichiarazione) osta al soccorso istruttorio, come emerge con chiarezza
dall’art. 38, comma 2-bis, d.lgs. n. 163 del 2006, atteso che il soccorso
istruttorio è utilizzabile solo in caso di mancanza, incompletezza o
irregolarità delle dichiarazioni e non già a fronte di dichiarazioni non
veritiere (cfr., da ultimo,
Consiglio di Stato, sez. V, 16.02.2017, n. 712).
8. In ogni caso la Stazione appaltante ha valutato, nell'esercizio della sua
discrezionalità tecnica, l'incidenza ostativa alla instaurazione del nuovo
rapporto contrattuale dei gravissimi inadempimenti in esame, anche in
ragione della citata pronuncia del 2016, che ha accertato in sede
giurisdizionale quanto già prospettato in sede amministrativa dallo stesso
Comune e la cui valutazione non è inficiata da alcun profilo di manifesta
irragionevolezza, illogicità o erroneità.
Le vicende soggettive dovute, prima alla fusione per incorporazione e,
successivamente, per affitto del ramo di azienda non esimevano l’appellante
CCC Co.Co.Co. dall’assoggettamento alla causa di esclusione in esame, attesa
la continuità nel soggetto nato dalla fusione per incorporazione che
prosegue sotto la nuova identità della società incorporante/affittante,
poiché le predette trasformazioni societarie non determinano l’estinzione
dell’originario soggetto, bensì l’integrazione reciproca delle società
partecipanti all’operazione, costituendo una vicenda meramente evolutiva del
medesimo soggetto, che conserva la propria identità pur in un nuovo assetto
organizzativo.
Infatti, l’art. 2504-bis, comma 1, c.c., nel testo modificato dal d.lgs. n.
6/2003 (Riforma del diritto societario), sancisce che la società risultante
dalla fusione o quella incorporante (nell’ipotesi di fusione per
incorporazione) assume i diritti e gli obblighi delle società partecipanti
alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti anteriori alla fusione.
Ed infatti non si determina l’estinzione della società incorporata, né
l’istituzione di un nuovo soggetto di diritto, ma si realizza una
integrazione reciproca delle società partecipanti alla fusione, dando vita
ad una vicenda meramente evolutiva- modificativa del medesimo soggetto
giuridico che conserva la propria identità, seppur in un nuovo assetto
organizzativo.
Ciò significa che in capo all’incorporante sussistono gli obblighi
dichiarativi e le possibili conseguenze espulsive di cui all’art. 38 del
Codice dei Contratti, anche con riferimento alle società partecipanti alla
fusione (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 26.05.2015, n. 3910).
9. Né è rilevante che il Comune di Taranto sarebbe stato a conoscenza del
giudizio civile citato, atteso che l'art. 38, comma 1, lett. f), d.lgs
12.04.2006, n. 163 impone un obbligo dichiarativo a prescindere dal fatto
che la stazione appaltante sia la stessa presso la quale si svolge il
procedimento di scelta del contraente, giacché tale dichiarazione attiene ai
principi di lealtà e affidabilità contrattuale e professionale che
presiedono ai rapporti dei partecipanti con la stazione appaltante (cfr.,
ex multis, Consiglio di Stato, Sez. V, 18.01.2016, n. 122 e 11.12.2014,
n. 6105). |
APPALTI: Malfunzionamento
del sistema informatico in sede di
presentazione di un’offerta in una gara
d’appalto.
Nell’ambito di una
procedura ad evidenza pubblica in cui vi è
un’unica modalità di presentazione
dell’offerta, predeterminata dalla stazione
appaltante, senza margine di scelta per il
concorrente, e il cui controllo è sottratto
al concorrente stesso, il malfunzionamento
del sistema di presentazione dell’offerta
non può andare a danno dell’offerente.
Nella logica di leale collaborazione che
informa i rapporti tra Amministrazione e
amministrato, il concorrente deve farsi
parte diligente nel presentare correttamente
e tempestivamente la propria offerta e la
stazione appaltante deve mettere l’operatore
economico in condizione di partecipare alla
gara.
Pertanto, a fronte di un
malfunzionamento del sistema telematico di
gestione della gara, deve essere data la
possibilità all’operatore economico di
presentare la propria offerta di modo da
garantire la par condicio competitorum
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 19.09.2018 n. 2109 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
Alla luce degli elementi istruttori
acquisiti in esecuzione dell’ordinanza
collegiale n. 1368/2018, il ricorso è
fondato.
ARCA S.p.A. ha, infatti, testualmente
dichiarato che «Dalle verifiche tecniche
effettuate risultano essersi verificati
malfunzionamenti della piattaforma Sintel
nella giornata del 17/01/2018 dalle ore
11:30 alle ore 11:55, durante le attività
svolte in piattaforma dall’operatore
economico RTI FA. S.p.A. - SA.CA.
S.r.l.».
Nell’ambito di una procedura ad evidenza
pubblica in cui vi è un’unica modalità di
presentazione dell’offerta, predeterminata
dalla stazione appaltante, senza margine di
scelta per il concorrente, e il cui
controllo è sottratto al concorrente stesso,
il malfunzionamento del sistema di
presentazione dell’offerta non può andare a
danno dell’offerente. Nella logica di leale
collaborazione che informa i rapporti tra
Amministrazione e amministrato, il
concorrente deve farsi parte diligente nel
presentare correttamente e tempestivamente
la propria offerta, e la stazione appaltante
deve mettere l’operatore economico in
condizione di partecipare alla gara.
Pertanto, a fronte di un malfunzionamento
del sistema telematico di gestione della
gara, deve essere data la possibilità
all’operatore economico di presentare la
propria offerta di modo da garantire la par condicio competitorum.
Né vale sostenere –secondo la tesi
propugnata dalla ASST Ovest Milanese– che
rientra nella diligenza del concorrente
avviare le procedure di caricamento a
sistema dell’offerta con congruo anticipo
rispetto alla scadenza, al fine di
minimizzare i rischi di un malfunzionamento
della piattaforma.
È infatti palese come la valutazione di
“congruità” presenti, almeno di norma, un
grado di insuperabile indeterminatezza, tale
che si giungerebbe ad una dequotazione del
termine perentorio di presentazione delle
offerte (cfr., C.d.S., Sez. V, sentenza n.
4135/2017), con una perdita di certezza
delle regole della competizione.
Aderendo a tale impostazione, il rispetto
del canone della diligenza professionale
finirebbe, infatti, per variare caso per
caso, in relazione a valutazioni non
predeterminabili a priori dall’operatore
economico, che non saprebbe quale sia la
condotta in concreto da esso esigibile e
quando incorra in negligenza.
In conclusione, il ricorso è fondato e viene
accolto.
Per l’effetto gli atti, in epigrafe
indicati, di diniego di riapertura del
termine di presentazione delle offerte sono
annullati. |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati edilizi - Mutamento di destinazione d'uso senza opere
- SCIA o permesso di costruire - Presupposti - Stessa
categoria urbanistica - Categoria omogenea - Centri storici
- Art. 44, lett. a), d.P.R. n. 380/2001 - Giurisprudenza.
In tema di reati edilizi, il mutamento
di destinazione d'uso senza opere è assoggettato a SCIA,
purché intervenga nell'ambito della stessa categoria
urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per
le modifiche di destinazione che comportino il passaggio di
categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri
storici, anche all'interno di una stessa categoria omogenea
(Sez. 3, n. 26455 del 05/04/2016 - dep. 24/06/2016, P.M. in
proc. Stellato).
Destinazione d'uso - Funzione - Organizzazione e gestione
del territorio comunale - Mutamento della destinazione d'uso
- Aggravamento del carico urbanistico - Regimi
urbanistico-contributivi diversi.
La destinazione d'uso è un elemento che
qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a
precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di
attuazione della pianificazione. Essa individua il bene
sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di
zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione
della differenziazione infrastrutturale del territorio,
prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard,
diversi per qualità e quantità proprio a seconda della
diversa destinazione di zona.
L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello
stesso vengono, infatti, realizzate attraverso il
coordinamento delle varie destinazioni d'uso in tutte le
loro possibili relazioni e le modifiche non consentite di
queste incidono negativamente sull'organizzazione dei
servizi, alterando appunto il complessivo assetto
territoriale.
Non è, perciò, sufficiente dimostrare che il mutamento della
destinazione d'uso sia stato eseguito in assenza di opere
edilizie interne, ma occorre dimostrare che il cambio della
destinazione presenti il requisito dell'omogeneità, nel
senso che sia intervenuto tra categorie urbanistiche
omogenee perché il cambio, allorquando investe categorie
urbanistiche disomogenee di utilizzazione, determina un
aggravamento del carico urbanistico esistente.
Pertanto, è giuridicamente rilevante solo il mutamento di
destinazione d'uso tra categorie funzionalmente autonome dal
punto di vista urbanistico, posto che nell'ambito delle
stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma non
diversi regimi urbanistico-contributivi stante le
sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell'ambito
della medesima categoria
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.09.2018 n. 40678 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La destinazione d'uso è un
elemento che qualifica la connotazione del bene immobile e
risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di
pianificazione o di attuazione della pianificazione. Essa
individua il bene sotto l'aspetto funzionale, specificando
le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici
in considerazione della differenziazione infrastrutturale
del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa
sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a
seconda della diversa destinazione di zona.
L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello
stesso vengono, infatti, realizzate attraverso il
coordinamento delle varie destinazioni d'uso in tutte le
loro possibili relazioni e le modifiche non consentite di
queste incidono negativamente sull'organizzazione dei
servizi, alterando appunto il complessivo assetto
territoriale.
Non è, perciò, sufficiente dimostrare che il mutamento della
destinazione d'uso sia stato eseguito in assenza di opere
edilizie interne, ma occorre dimostrare che il cambio della
destinazione presenti il requisito dell'omogeneità, nel
senso che sia intervenuto tra categorie urbanistiche
omogenee perché il cambio, allorquando investe categorie
urbanistiche disomogenee di utilizzazione, determina, come
nella specie, un aggravamento del carico urbanistico
esistente.
Pertanto, è giuridicamente rilevante solo il mutamento di
destinazione d'uso tra categorie funzionalmente autonome dal
punto di vista urbanistico, posto che nell'ambito delle
stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma non
diversi regimi urbanistico-contributivi stanti le
sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell'ambito
della medesima categoria.
Va, quindi, conclusivamente ribadito che, in tema di reati
edilizi, il mutamento di destinazione d'uso senza opere è
assoggettato a SCIA, purché intervenga nell'ambito della
stessa categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso
di costruire per le modifiche di destinazione che comportino
il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito
nei centri storici, anche all'interno di una stessa
categoria omogenea.
---------------
2. Il primo motivo è infondato, essendo
prevalentemente articolato in fatto.
Questa Corte ha chiarito che la destinazione d'uso è un
elemento che qualifica la connotazione del bene immobile e
risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di
pianificazione o di attuazione della pianificazione. Essa
individua il bene sotto l'aspetto funzionale, specificando
le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici
in considerazione della differenziazione infrastrutturale
del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa
sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a
seconda della diversa destinazione di zona (Sez. 3, n. 9894
del 20/01/2009, Tarallo).
L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello
stesso vengono, infatti, realizzate attraverso il
coordinamento delle varie destinazioni d'uso in tutte le
loro possibili relazioni e le modifiche non consentite di
queste incidono negativamente sull'organizzazione dei
servizi, alterando appunto il complessivo assetto
territoriale (Sez. 3, n. 24096 del 07/03/2008, Desimine;
Sez. 3, Sentenza n. 35177 del 12/07/2001, dep. 21/10/2002,
Cinquegrani Rv. 222740).
Non è, perciò, sufficiente dimostrare che il mutamento della
destinazione d'uso sia stato eseguito in assenza di opere
edilizie interne, ma occorre dimostrare che il cambio della
destinazione presenti il requisito dell'omogeneità, nel
senso che sia intervenuto tra categorie urbanistiche
omogenee perché il cambio, allorquando investe categorie
urbanistiche disomogenee di utilizzazione, determina, come
nella specie, un aggravamento del carico urbanistico
esistente.
Pertanto, è giuridicamente rilevante solo il mutamento di
destinazione d'uso tra categorie funzionalmente autonome dal
punto di vista urbanistico, posto che nell'ambito delle
stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma non
diversi regimi urbanistico-contributivi stanti le
sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell'ambito
della medesima categoria.
Va, quindi, conclusivamente ribadito che, in tema di reati
edilizi, il mutamento di destinazione d'uso senza opere è
assoggettato a SCIA, purché intervenga nell'ambito della
stessa categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso
di costruire per le modifiche di destinazione che comportino
il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito
nei centri storici, anche all'interno di una stessa
categoria omogenea (Sez. 3, n. 26455 del 05/04/2016 - dep.
24/06/2016, P.M. in proc. Stellato, Rv. 267106) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
13.09.2018 n. 40678). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Il primo Giudice ha condivisibilmente impostato i
termini generali della questione muovendo dalla distinzione
fra la nozione di ‘atto meramente confermativo’ e
quella di ‘atto di conferma in senso proprio’,
ma ha poi declinato tali presupposti in modo non corretto in
relazione alla vicenda per cui è causa.
Il primo Giudice ha infatti richiamato in modo corretto il
consolidato orientamento secondo cui può essere qualificato
come atto di conferma in senso proprio (e in quanto
tale suscettibile di determinare una nuova lesione nella
sfera giuridica dei destinatari e di giustificare una
autonoma impugnativa) soltanto quello adottato all'esito di
una nuova istruttoria e di una rinnovata ponderazione degli
interessi.
E’ stato osservato al riguardo che non può considerarsi
meramente confermativo di un precedente provvedimento
l'atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame
della situazione che aveva condotto al primo provvedimento,
giacché solo l'esperimento di un ulteriore adempimento
istruttorio -sia pure mediante la rivalutazione degli
interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto
e di diritto che caratterizzano la fase considerata- può
condurre a un atto propriamente confermativo, in grado, come
tale, di dare vita a un provvedimento diverso dal precedente
e quindi suscettibile di autonoma impugnazione.
Ricorre invece l’atto meramente confermativo quando
l'Amministrazione si limita a dichiarare l'esistenza di un
suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova
istruttoria e senza una nuova motivazione (ivi).
---------------
Si osserva al riguardo che il primo Giudice ha
condivisibilmente impostato i termini generali della
questione muovendo dalla distinzione fra la nozione di ‘atto
meramente confermativo’ e quella di ‘atto di
conferma in senso proprio’, ma ha poi declinato tali
presupposti in modo non corretto in relazione alla vicenda
per cui è causa.
Il primo Giudice ha infatti richiamato in modo corretto il
consolidato orientamento secondo cui può essere qualificato
come atto di conferma in senso proprio (e in quanto
tale suscettibile di determinare una nuova lesione nella
sfera giuridica dei destinatari e di giustificare una
autonoma impugnativa) soltanto quello adottato all'esito di
una nuova istruttoria e di una rinnovata ponderazione degli
interessi (sul punto –ex multis-: Cons. Stato, V,
22.06.2018, n. 3867; id., IV, 09.02.2018, n. 839; id., IV,
24.11.2017, n. 5481).
E’ stato osservato al riguardo che non può considerarsi
meramente confermativo di un precedente provvedimento
l'atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame
della situazione che aveva condotto al primo provvedimento,
giacché solo l'esperimento di un ulteriore adempimento
istruttorio -sia pure mediante la rivalutazione degli
interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto
e di diritto che caratterizzano la fase considerata- può
condurre a un atto propriamente confermativo, in grado, come
tale, di dare vita a un provvedimento diverso dal precedente
e quindi suscettibile di autonoma impugnazione (in tal
senso: Cons. Stato. V, 3807 del 2018, cit.).
Ricorre invece l’atto meramente confermativo quando
l'Amministrazione si limita a dichiarare l'esistenza di un
suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova
istruttoria e senza una nuova motivazione (ivi)
(Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 13.09.2018 n. 5364 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Esclusione dalla gara per mancata allegazione della
relazione geologica: sentenza del Consiglio di Stato.
Se l'obbligo di allegare la relazione
geologica non è previsto dalla lex specialis, la mancata
allegazione non comporta l’esclusione dalla gara.
Con la sentenza n. 5364/2018 depositata il 13 settembre, la
V Sez. del Consiglio di Stato rammenta che “il comma 1
dell’articolo 26 del d.P.R. 207 del 2010, nell’indicare le
relazioni tecniche e specialistiche da porre necessariamente
a corredo del progetto definitivo, non fissa in modo
assoluto il principio della necessità delle (dieci)
relazioni ivi contemplate, ma fa salva in modo espresso la
possibilità per il responsabile del procedimento di
escludere taluna di esse attraverso una specifica
determinazione”.
La sentenza di Palazzo Spada richiama inoltre “la più
recente giurisprudenza della Sezione secondo cui l’obbligo
di indicare un geologo tra i progettisti in sede di gara e
di corredare l’offerta tecnica con la relazione geologica
dipende, in concreto, dalla natura delle prestazioni
affidate all’appaltatore, laddove cioè queste implichino una
modificazione sostanziale delle previsioni progettuali
formulate dalla stazione appaltante e a condizioni che la
relativa necessità sia espressamente prefigurata nelle
regole operative di gara (in tal senso: Cons. Stato, V,
21.03.2018, n. 1812)”.
La giurisprudenza in questione “ha valorizzato (con
particolare riguardo alle ipotesi in cui la documentazione
posta a base di gara non contemplasse in modo espresso la
relazione geologica) l’esigenza di non introdurre –anche in
una cornice di compatibilità eurounitaria– obblighi
documentali sanzionati a pena di esclusione in assenza di
una specifica e univoca previsione nell’ambito della lex
specialis di gara (in tal senso: CGUE, sentenza 02.06.2016
in causa C-27/15 – Pippo Pizzo)”.
Nel caso in esame, “essendo ormai acclarato che la
stazione appaltante non avesse incluso fra gli allegati al
progetto definitivo posto a base di gara la relazione
geologica, non può conseguentemente ritenersi che la mancata
produzione di analoga relazione da parte del concorrente
potesse produrre l’effetto escludente invocato
dall’appellante” (commento tratto da
www.casaeclima.com).
---------------
SENTENZA
5.1 Il motivo in questione non può trovare accoglimento.
5.1.1. In punto di fatto va premesso che dall’esame degli
atti di causa emerge la sicura assenza, fra gli allegati del
progetto definitivo posto a base di gara, della relazione
geologica.
Risulta infatti che gli allegati previsti dalla stazione
appaltante fossero soltanto: i) la relazione generale al
progetto; ii) la relazione geotecnica; iii) la relazione
modellistica; iv) la relazione tecnica; v) la relazione
paesaggistica.
Non era quindi presente agli atti la relazione geologica.
Ne risulta conseguentemente chiarito un aspetto in ordine al
quale l’appellante lamenta che la stazione appaltante avesse
ingenerato dubbi di sorta.
Difettando nell’ambito del progetto definitivo posto a base
di gara la relazione geologica, non può conseguentemente
ritenersi che tale obbligo sussistesse in attuazione del
principio del c.d. ‘parallelismo’ fra i documenti tecnici
predisposti dalla stazione appaltante e quelli da allegare a
cura dei concorrenti (in tal senso i richiamati articoli 24,
26, 33 e 35 del d.P.R. 207 del 2010).
5.1.2. Non è irrilevante rammentare al riguardo che
il comma
1 dell’articolo 26 del d.P.R. 207 del 2010, nell’indicare le
relazioni tecniche e specialistiche da porre necessariamente
a corredo del progetto definitivo, non fissa in modo
assoluto il principio della necessità delle (dieci)
relazioni ivi contemplate, ma fa salva in modo espresso la
possibilità per il responsabile del procedimento di
escludere taluna di esse attraverso una specifica
determinazione
(e dall’esame dell’impugnato provvedimento in
data 25.05.2017 emerge che il responsabile del
procedimento avesse richiamato in modo espresso proprio il
comma 1 dell’articolo 26, cit. a sostegno delle proprie
determinazioni).
5.1.3. In disparte quanto appena rilevato, va qui richiamata
la più recente giurisprudenza della Sezione secondo cui
l’obbligo di indicare un geologo tra i progettisti in sede
di gara e di corredare l’offerta tecnica con la relazione
geologica dipende, in concreto, dalla natura delle
prestazioni affidate all’appaltatore, laddove cioè queste
implichino una modificazione sostanziale delle previsioni
progettuali formulate dalla stazione appaltante e a
condizioni che la relativa necessità sia espressamente
prefigurata nelle regole operative di gara
(in tal senso: Cons. Stato, V, 21.03.2018, n. 1812).
La giurisprudenza in questione ha valorizzato (con
particolare riguardo alle ipotesi in cui la documentazione
posta a base di gara non contemplasse in modo espresso la
relazione geologica) l’esigenza di non introdurre –anche in
una cornice di compatibilità eurounitaria– obblighi
documentali sanzionati a pena di esclusione in assenza di
una specifica e univoca previsione nell’ambito della lex
specialis di gara
(in tal senso: CGUE, sentenza 02.06.2016 in causa C-27/15 – Pippo Pizzo).
Essendo ormai acclarato che la stazione appaltante non
avesse incluso fra gli allegati al progetto definitivo posto
a base di gara la relazione geologica, non può
conseguentemente ritenersi che la mancata produzione di
analoga relazione da parte del concorrente potesse produrre
l’effetto escludente invocato dall’appellante (e che,
pertanto, risultasse illegittima la mancata esclusione di
tale concorrente).
5.2. Anche tale motivo di appello deve dunque essere
respinto (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 13.09.2018 n. 5364 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO: Ascensore, spese divise tra tutti. Inclusi nel riparto anche negozi e locali
del piano terra. Una pronuncia della Cassazione in
merito al rifacimento dell’impianto condominiale.
Anche
i proprietari dei negozi o dei locali siti al piano terra con accesso
diretto dalla strada sono tenuti a concorrere nelle spese di manutenzione
straordinaria o di sostituzione dell'impianto di ascensore.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con l'ordinanza
12.09.2018 n. 22157.
Il caso concreto.
Nella specie una condomina proprietaria di alcuni locali
posti al piano terra e con accesso dalla pubblica via si era rifiutata di
sostenere la quota di spese condominiali richiestale in occasione del
rifacimento dell'impianto di ascensore. La stessa era quindi stata raggiunta
da un decreto ingiuntivo ottenuto dall'amministratore, verso il quale aveva
spiegato opposizione.
La condomina, richiamato il contenuto del regolamento
condominiale (di natura contrattuale), il quale prevedeva l'appartenenza
dell'impianto di ascensore in comproprietà pro indiviso e indivisibile a
tutti i proprietari di unità immobiliari, ponendo a loro carico in
proporzione dei rispettivi valori delle singole porzioni le spese per il
rinnovamento o la manutenzione straordinaria, ed esonerando viceversa dalla
contribuzione nelle spese ordinarie e di esercizio i condomini che non
potessero servirsene, riteneva infatti che dal medesimo non si potesse
desumere l'obbligo di partecipazione alle spese anche di quei condomini
proprietari di soli locali aventi accesso dalla strada pubblica. In primo
grado l'opposizione era stata accolta, ma la sentenza era stata prontamente
appellata dal condominio, il quale era invece risultato vincitore nel
giudizio di secondo grado.
La Corte di appello, infatti, aveva ritenuto
legittima la ripartizione delle spese deliberata dall'assemblea per i lavori
di sostituzione dell'impianto e che aveva incluso fra i debitori anche la condomina opponente. Quest'ultima aveva quindi deciso di impugnare la
sentenza di secondo grado dinanzi alla Corte di cassazione.
La decisione della Suprema corte.
I giudici di legittimità, nel respingere
il ricorso in questione, confermando quindi il riparto delle spese operato
dal condominio, hanno quindi avuto modo di chiarire meglio quali siano i
criteri che presiedono alla suddivisione dei costi degli interventi
sull'impianto di ascensore.
Già prima della riformulazione dell'art. 1124 c.c. a opera della legge n.
220/2012 di riforma del condominio la giurisprudenza aveva chiaramente
distinto l'ipotesi dell'installazione ex novo di un impianto di ascensore
nell'edificio che ne fosse privo da quella della manutenzione straordinaria
e/o della sostituzione del medesimo. Mentre nella prima ipotesi la relativa
spesa andava suddivisa secondo il tradizionale criterio di cui all'art. 1123 c.c., ovvero proporzionalmente al valore dei millesimi di proprietà di
ciascun condomino, nel secondo caso essa andava ripartita secondo il
criterio indicato dall'art. 1124 c.c. per la manutenzione straordinaria
delle scale.
Ora, come si diceva, detta conclusione è stata per così dire ratificata dal
legislatore, poiché il nuovo art. 1124 c.c. fin dalla sua rubrica chiarisce
che la disposizione si applica sia alle scale che agli ascensori. La
disposizione in questione contiene quindi una deroga al criterio generale di
riparto di cui all'art. 1123 c.c., poiché dispone che la relativa spesa
debba essere ripartita per metà in base ai millesimi di proprietà e per
l'altra metà esclusivamente in ragione dell'altezza di ciascun piano dal
suolo. La medesima disposizione chiarisce che ove l'edificio condominiale
sia composto da più scale e impianti di ascensore, gli stessi debbano essere
mantenuti soltanto dai condomini al servizio dei quali gli stessi sono stati
previsti. L'art. 1124 c.c., inoltre, dispone espressamente che per piano
debbano intendersi anche le cantine, o palchi morti, le soffitte o camere a
tetto e i lastrici solari, ovviamente quando gli stessi non siano di
proprietà comune.
Nell'ordinanza in questione viene evidenziato come l'impianto di ascensore
debba quindi essere accomunato, per identità di funzione, alle scale, in
quanto anch'esso mezzo indispensabile per accedere al tetto e al terrazzo di
copertura (come anticipato, detta parificazione è ora anche di tipo
normativo). Trattasi infatti di parte indiscutibilmente comune, tanto è vero
che l'art. 1117 c.c. annovera espressamente detto impianto fra i beni e i
servizi che si presumono comuni a tutti i condomini, salvo risulti
diversamente dal titolo.
Di conseguenza l'ascensore appartiene in
comproprietà anche ai condomini proprietari di negozi o locali posti al
piano terreno e con accesso dalla via pubblica, poiché anche essi ne
fruiscono, «quanto meno», si legge nell'ordinanza, «in ordine alla
conservazione e manutenzione della copertura dell'edificio». Ne discende che
anche i predetti condomini devono concorrere alle spese di manutenzione
straordinaria e/o sostituzione dell'impianto in rapporto e in proporzione
all'utilità che possono in ipotesi trarne, salvo esista un titolo contrario.
Come si è ripetuto più volte, la regola di cui sopra può essere derogata da
un titolo contrario. «Come tutti i criteri legali di ripartizione delle
spese condominiali», si legge nell'ordinanza in questione, «anche quello di
ripartizione delle spese di manutenzione e sostituzione degli ascensori può
essere derogato, ma la relativa convenzione modificatrice della disciplina
legale deve essere contenuta o nel regolamento condominiale (che perciò si
definisce di natura contrattuale) o in una deliberazione dell'assemblea che
venga approvata all'unanimità, ovvero con il consenso di tutti i condomini».
Per questo motivo i giudici di legittimità hanno ritenuto corretta la
decisione della corte di appello, la quale aveva valutato che nel
regolamento condominiale in questione non vi era alcuna disposizione
derogatoria del regime legale di ripartizione delle spese dell'impianto di
ascensore. In altri termini, secondo la sesta sezione civile della
Cassazione, nella specie la ricorrente era caduta in una sorta di errore di
prospettiva, contestando che nel regolamento non vi fosse una disposizione
sulla quale si potesse fondare il proprio obbligo di contribuzione alle
spese, laddove quest'ultimo, come visto, discende direttamente dalla legge e
il regolamento può se mai disporre una deroga, circostanza che comunque non
ricorreva nel caso concreto.
L'opposizione al decreto ingiuntivo condominiale.
Visto che nella specie si
trattava di un procedimento di opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto
dal condominio verso un comproprietario in mora nel pagamento delle spese
comuni, i giudici di legittimità hanno avuto anche il modo di ribadire
alcuni principi validi in questo tipo di contenzioso in rapporto alla
perdurante efficacia della delibera condominiale sulla quale si fondi
l'obbligo impositivo e che non sia stata nel frattempo giudizialmente
sospesa.
In detto giudizio, infatti, il condomino che contesti l'ordine giudiziale di
pagamento non può far utilmente valere questioni attinenti alla mera
annullabilità della delibera assembleare di ripartizione della spesa. «Tale
delibera», spiega la Cassazione, «costituisce infatti titolo sufficiente del
credito del condominio e legittima non solo la concessione del decreto
ingiuntivo, ma anche la condanna del condomino a pagare le somme nel
processo oppositorio a cognizione piena ed esauriente, il cui ambito è
dunque ristretto alla verifica della (perdurante) esistenza della
deliberazione assembleare di approvazione della spesa e di ripartizione del
relativo onere». Un diverso comportamento da parte del giudice
dell'opposizione è dunque ammissibile soltanto ove si dia la prova che
l'efficacia della predetta deliberazione sia stata giudizialmente sospesa o
che la stessa sia stata addirittura annullata.
La sesta sezione civile della Suprema corte ha tuttavia a sua volta ribadito
il recente orientamento di legittimità per cui, fermo quanto sopra, il
giudice dell'opposizione può rilevare, anche d'ufficio, eventuali vizi di
legittimità della sottostante delibera assembleare ove gli stessi ne
implichino la nullità e non la semplice annullabilità, trattandosi
dell'applicazione di atti la cui validità rappresenta un elemento
costitutivo della domanda
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.09.2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
La controversia, derivante dall’impugnazione di
un permesso di costruire da parte del vicino che lamenti la
violazione delle distanze legali, costituisce una disputa
non già tra privati, ma tra privato e p.a., nella quale la posizione del primo –in correlazione
all’atto autoritativo abilitativo lesivo- si atteggia a
interesse legittimo, con conseguente spettanza della
giurisdizione al giudice amministrativo.
---------------
In materia edilizia, la vicinitas, ossia l'esistenza di uno
stabile collegamento con il terreno interessato
dall'intervento edilizio, è circostanza sufficiente a
comprovare la sussistenza sia della legittimazione che
dell'interesse a ricorrere, senza che sia necessario al
ricorrente allegare e provare di subire uno specifico
pregiudizio per effetto dell'attività edificatoria
intrapresa sul suolo limitrofo.
---------------
6. Con il primo motivo d’appello, si deduce l’errore
di giudizio in cui sarebbero incorsi i giudici di prime cure
nel respingere l’eccezione d’inammissibilità del ricorso per
difetto di giurisdizione del TAR.
L’appellante deduce che nella specie si verserebbe in
ipotesi di una mera controversia fra proprietari confinanti,
avente a oggetto la violazione degli obblighi civilistici in
tema di distanze e di costruzioni in aderenza.
7. Il motivo è infondato.
7.1 Va data continuità all’indirizzo giurisprudenziale
consolidato per il quale la controversia, derivante
dall’impugnazione di un permesso di costruire da parte del
vicino che lamenti la violazione delle distanze legali,
costituisce una disputa non già tra privati, ma tra privato
e p.a., nella quale la posizione del primo –in correlazione
all’atto autoritativo abilitativo lesivo- si atteggia a
interesse legittimo, con conseguente spettanza della
giurisdizione al giudice amministrativo (cfr. Cass. civ.,
sez. un., 10.06.2004, nr. 11023; Cons. Stato, sez. IV, 06.07.2009, nr. 4300; Id., sez. V, 28.06.2004, nr.
4759; Id., sez. V, 13.01.2004, nr. 46).
8. Ad analoga conclusione deve giungersi sul secondo motivo
d’appello, che ripropone l’eccezione d’inammissibilità per
difetto di legittimazione attiva al ricorso del ricorrente
di primo grado, parte appellata.
8.1 In materia edilizia, la vicinitas, ossia l'esistenza di
uno stabile collegamento con il terreno interessato
dall'intervento edilizio, è circostanza sufficiente a
comprovare la sussistenza sia della legittimazione che
dell'interesse a ricorrere, senza che sia necessario al
ricorrente allegare e provare di subire uno specifico
pregiudizio per effetto dell'attività edificatoria
intrapresa sul suolo limitrofo (cfr., da ultimo, Cons.
Stato, sez. VI, 06.03.2018, n. 1448).
8.2 Nel caso di specie la documentazione cartografica,
fotografica e progettuale –in particolare la relazione
tecnica del geom. Pa.– versata in atti attesta la vicinanza
e l'identità del contesto territoriale ed urbanistico fra
l’immobile del sig. Ma. e quello oggetto delle opere
contestate (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 10.09.2018 n. 5307 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In caso d'impugnazione del titolo edilizio in
sanatoria, il termine decorre dalla data in cui si abbia
conoscenza che, per una determinata opera abusiva già
esistente, è stata rilasciata la concessione edilizia in
sanatoria.
In conformità alla natura e alla modalità d’esecuzione
delle opere, in materia occorre tenere separato il regime
d’impugnazione del titolo edilizio “ordinario” da quello
applicabile al titolo edilizio “in sanatoria”.
Nel primo caso, il termine di decadenza decorre dal
completamento dei lavori, cioè dal momento in cui sia
materialmente apprezzabile la reale portata dell'intervento
in precedenza assentito;
nel secondo caso, il termine decorre dalla data in
cui si abbia conoscenza che, per una determinata opera
abusiva già esistente, è stata rilasciata la concessione
edilizia in sanatoria.
Pertanto, il termine d'impugnazione di un
titolo in sanatoria decorre dal momento in cui si conosca la
circostanza del rilascio del medesimo atto per una
determinata opera già esistente; la cui conoscenza deve
essere dimostrata in giudizio al fine di far valere la tardività
dell'impugnazione.
---------------
9. Con il terzo motivo d’appello, si deduce l’errore
di diritto in cui sarebbe incorso il TAR nel respingere
l’eccezione di tardività del ricorso di primo grado.
Limitatamente all’impugnazione dell’autorizzazione in
sanatoria n. 68 del 17.07.1998 ed agli annessi pareri
favorevoli della Soprintendenza, l’appellante ribadisce la
tardività dell’impugnazione.
10. Il motivo è infondato.
10.1 In caso d'impugnazione del titolo edilizio in
sanatoria, il termine decorre dalla data in cui si abbia
conoscenza che, per una determinata opera abusiva già
esistente, è stata rilasciata la concessione edilizia in
sanatoria.
10.2 In conformità alla natura e alla modalità d’esecuzione
delle opere, in materia occorre tenere separato il regime
d’impugnazione del titolo edilizio “ordinario” da quello
applicabile al titolo edilizio “in sanatoria”.
Nel primo caso, il termine di decadenza decorre dal
completamento dei lavori, cioè dal momento in cui sia
materialmente apprezzabile la reale portata dell'intervento
in precedenza assentito (cfr. fra le tante, Cons. St., Ad.
Plen., 29.07.2011, n. 15; Cons. St., sez. VI, 10.12.2010, n. 8705);
nel secondo caso, il termine decorre dalla data in cui si
abbia conoscenza che, per una determinata opera abusiva già
esistente, è stata rilasciata la concessione edilizia in
sanatoria (cfr., Cons. Stato, sez. VI, 27.12.2007, n. 6674).
10.3 Pertanto, in continuità all’indirizzo giurisprudenziale
consolidato, qui condiviso, il termine d'impugnazione di un
titolo in sanatoria decorre dal momento in cui si conosca la
circostanza del rilascio del medesimo atto per una
determinata opera già esistente; la cui conoscenza deve
essere dimostrata in giudizio al fine di far valere la
tardività dell'impugnazione (cfr. Consiglio di Stato, sez.
V, 21.12.2004, n. 8147; sez. IV, 26.03.2013, n.
1699).
10.4 Nel caso di specie, la parte appellante non ha fornito
specifici elementi da cui si possa desumere la piena
conoscenza in una data rispetto alla quale il ricorso
originario risulterebbe tardivo (cfr., fra le tante, Cons.
Stato, sez. VI, 12.11.2003, n. 7258).
Viceversa, risulta che l’originario ricorrente si è attivato
nei termini richiesti dalla giurisprudenza (cfr. ad es.
Cons. di Stato, sez. IV, 21.01.2013, n. 322),
impugnando l’autorizzazione entro il termine di 60 giorni
decorrente dall’ostensione degli atti (avvenuta in data 18.03.2016),
in risposta all’istanza d’accesso formulata al Comune (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 10.09.2018 n. 5307 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Alla stregua della consolidata giurisprudenza, va ribadito che:
a) il D.M. 02.04.1968, n. 1444, recante "Limiti inderogabili di
densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e
rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti
residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle
attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da
osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti
urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi
dell'art. 17 della legge 06.08.1967 n. 765", all’art. 9,
recante "limiti di distanza tra i fabbricati", prevede, tra
l'altro, che le distanze minime tra i fabbricati: "nelle
altre zone, con riferimento a "nuovi edifici"... "in tutti i
casi . . . di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di
edifici antistanti";
b) le distanze sancite dall'art. 9 cit. sono tendenzialmente
inderogabili, venendo in rilievo una norma imperativa avente
il fine specifico di garantire l'interesse pubblico ad un
ordinato sviluppo dell'edilizia ed alla protezione della
salute dei cittadini (prevenendo la formazione di
intercapedini malsane);
c) le distanze previste dall'art. 9 cit. sono dunque coerenti con
il perseguimento dell'interesse pubblico e non già con la
tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili
finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece
assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di
distanze, dal codice civile;
d) coerentemente, la disciplina imperativa sancita dall’art. 9 cit.,
predetermina in via generale ed astratta le distanze tra le
costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive
connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza.
Nello specifico, costituisce orientamento consolidato che nella verifica dell’osservanza delle
distanze ai sensi dell’art. 9 d.m. 02.04.1968, n. 1444,
vadano considerati i balconi, nonché tutte le sporgenze
destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad
ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono.
---------------
La disciplina imperativa sancita dall’art. 9 cit. è
applicabile anche nel caso in esame, laddove una sola delle
due pareti frontistanti sia finestrata e l’altra consista
nella scalettatura per una parte della facciata posta a
distanza inferiore di 10 metri.
Né la distanza è derogabile nel caso in cui –con riferimento
all’altra facciata fronteggiante– la sopraelevazione si
trovi ad un diversa altezza rispetto all’altra costruzione.
---------------
11. Con il quarto motivo d’appello, si deduce
l’errata o falsa applicazione dell’art. 9 del d.m. 1444/1968
in ragione della tipologia delle opere realizzate,
consistenti in sporti accessori, muri e balconi.
12. Il motivo d’appello è infondato.
12.1 Il fabbricato della sig.ra Am. è stato oggetto nel
corso degli anni degli ampliamenti abusivi di cui alle
istanze di sanatoria (domanda di sanatoria prot. n.
13175/1987 e prot. n. 4679/1995 nonché la pratica edilizia
in sanatoria n. 10833/1998).
L'Amministrazione ha rilasciato in data 11.02.2016
alla sig.ra Am.Cr. due distinte concessioni in
sanatoria, una ai sensi della legge n. 47/1985 e l'altra ai
sensi della legge n. 724/1994, relative agli ampliamenti ed
alle modifiche apportati all'immobile di Via ... 25.
L’immobile era già stato oggetto d’autorizzazione in
sanatoria n. 68 del 17.06.1998, concernente “la
sanatoria e il completamento delle opere relative al
fabbricato”.
Le opere realizzate e condonate con le concessioni n. 6/c e
7/c consistono in ampliamenti della sagoma dell’edificio
(chiusura di una scala, trasformazione di una tettoia
aperta), che hanno alterato le preesistenti distanze dal
confine e dal fabbricato del ricorrente.
Dalla relazione del verificatore, redatta a seguito del
sopralluogo disposto dal TAR e sulla base della
documentazione di causa, emerge l’ampliamento del nucleo
originario dell’immobile dell’appellante, in estensione fino
al muro di confine con la proprietà Massa, fino ad annullare
la distanza dell’edificio dal predetto confine.
La relazione del verificatore e la perizia di parte
dell’appellato- sostanzialmente corrispondente alle
conclusioni dal verificatore – comprovano che l’edificio
della sig.ra Am., dopo l’esecuzione dalle opere oggetto
dei provvedimenti di condono, non rispetta la distanza di 10
metri dal nucleo originario del fabbricato dell’appellato.
12.2 Alla stregua della consolidata giurisprudenza (cfr., da
ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 14.09.2017, n. 4337; id.,
23.06.2017, n. 3093; id., 08.05.2017, n. 2086; id., 03.08.2016, n. 3510; id., 29.02.2016, n. 856; Cass. civ., sez. II, 14.11.2016, n. 23136), va ribadito che:
a) il D.M. 02.04.1968, n. 1444, recante "Limiti inderogabili di
densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e
rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti
residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle
attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da
osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti
urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi
dell'art. 17 della legge 06.08.1967 n. 765", all’art. 9,
recante "limiti di distanza tra i fabbricati", prevede, tra
l'altro, che le distanze minime tra i fabbricati: "nelle
altre zone, con riferimento a "nuovi edifici"... "in tutti i
casi . . . di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di
edifici antistanti";
b) le distanze sancite dall'art. 9 cit. sono tendenzialmente
inderogabili, venendo in rilievo una norma imperativa avente
il fine specifico di garantire l'interesse pubblico ad un
ordinato sviluppo dell'edilizia ed alla protezione della
salute dei cittadini (prevenendo la formazione di
intercapedini malsane);
c) le distanze previste dall'art. 9 cit. sono dunque coerenti con
il perseguimento dell'interesse pubblico e non già con la
tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili
finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece
assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di
distanze, dal codice civile;
d) coerentemente, la disciplina imperativa sancita dall’art. 9 cit.,
predetermina in via generale ed astratta le distanze tra le
costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive
connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza.
12.3 Nello specifico, costituisce orientamento consolidato,
qui condiviso, che nella verifica dell’osservanza delle
distanze ai sensi dell’art. 9 d.m. 02.04.1968, n. 1444,
vadano considerati i balconi, nonché tutte le sporgenze
destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad
ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono (cfr.,
Cons. Stato, sez. V, 13.03.2014, n. 1272; Id, sez. IV, 21.10.2013, n. 5108).
12.4 Pertanto, la disciplina imperativa sancita dall’art. 9
cit. è applicabile anche nel caso in esame, laddove una sola
delle due pareti frontistanti sia finestrata e l’altra
consista nella scalettatura per una parte della facciata
posta a distanza inferiore di 10 metri.
12.5 Né la distanza è derogabile, come invece ha dedotto
l’appellante, nel caso in cui –con riferimento all’altra
facciata fronteggiante– la sopraelevazione si trovi ad un
diversa altezza rispetto all’altra costruzione (cfr., Cons.
St., sez. IV, 20.07.2011, n. 4374).
13. Conclusivamente l’appello deve essere respinto, con la
conseguente declaratoria d’assorbimento dei motivi di
ricorso proposti in prime cure e riproposti in appello dalla
parte appellata sig. Ma. (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 10.09.2018 n. 5307 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure
tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e
giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura
vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi
presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione
in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da
quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che
impongono la rimozione dell’abuso.
Il principio in questione non ammette deroghe neppure
nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga
a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il
titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il
trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di
ripristino.
---------------
11. I motivi aggiunti proposti contro l’ordinanza di
demolizione n. 237 del 2016 sono, invece, infondati nel
merito.
12. Non coglie nel segno, anzitutto, il primo motivo di
impugnazione, con il quale si allega l’illegittimità del
provvedimento impugnato per mancanza di motivazione in
ordine alle ragioni di interesse pubblico a sostegno
dell’adozione del provvedimento sanzionatorio.
12.1 Al riguardo, è sufficiente richiamare il principio di
diritto enunciato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di
Stato nella sentenza n. 9 del 17.10.2017, ove si è statuito
che “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure
tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e
giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura
vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi
presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione
in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da
quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che
impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione
non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui
l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo
dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia
responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti
intenti elusivi dell’onere di ripristino”.
E’, perciò, da escludere che il decorso di un lasso di tempo
più o meno lungo dalla commissione dell’abuso possa, di per
sé, condizionare l’esercizio del potere sanzionatorio, il
quale è e resta vincolato al solo riscontro dell’illecito
edilizio.
12.2 Da ciò il rigetto del motivo (TAR Lombardia-Milano,
Sez. II,
sentenza 06.09.2018 n. 2049 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'ampliamento di un balcone eccede i limiti della
manutenzione straordinaria.
L'ampliamento
di un balcone nella misura di una maggiore larghezza di 50
centimetri, per l’intera lunghezza di 4 metri del balcone,
con la conseguente realizzazione di una maggiore superficie
di 2 metri quadrati, non può qualificarsi come una mera
manutenzione straordinaria, atteso che in tale categoria
rientrano –secondo quanto previsto dall’articolo 3, comma 1,
lett. b), del d.P.R. n. 380 del 2001– i lavori necessari per
“rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli
edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi
igienico-sanitari e tecnologici”.
L’ampliamento del balcone non è invece diretto a una mera
finalità conservativa, perché non consiste nel ripristino o
rinnovamento di elementi dell’edificio, ma comporta la
formazione di ulteriore superficie utile non residenziale,
all’esterno del volume del fabbricato, rispetto a quanto
previsto dal titolo.
Tale incremento è, inoltre, di entità non trascurabile in
rapporto alle dimensioni del balcone originariamente
progettate e determina una modifica del prospetto
dell’edificio.
---------------
13. Con il secondo mezzo viene contestata la
qualificazione delle opere in termini di ristrutturazione
edilizia in totale difformità rispetto al titolo, ai sensi
dell’articolo 33 del d.P.R. n. 380 del 2001 e la conseguente
applicazione della sanzione ripristinatoria.
13.1 Per ciò che attiene all’ampliamento del balcone, deve
osservarsi che, secondo quanto risulta dal provvedimento
impugnato, le opere contestate sono consistite nella
realizzazione di una maggiore larghezza di 50 centimetri,
per l’intera lunghezza di 4 metri del balcone, con la
conseguente realizzazione di una maggiore superficie di 2
metri quadrati.
13.1.1 Contrariamente a quanto ritenuto dalla parte
ricorrente, l’opera così realizzata non può qualificarsi
come una mera manutenzione straordinaria, atteso che in tale
categoria rientrano –secondo quanto previsto dall’articolo
3, comma 1, lett. b), del d.P.R. n. 380 del 2001– i lavori
necessari per “rinnovare e sostituire parti anche
strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed
integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici...”.
L’ampliamento del balcone non è invece diretto a una mera
finalità conservativa, perché non consiste nel ripristino o
rinnovamento di elementi dell’edificio, ma comporta la
formazione di ulteriore superficie utile non residenziale,
all’esterno del volume del fabbricato, rispetto a quanto
previsto dal titolo. Tale incremento è, inoltre, di entità
non trascurabile in rapporto alle dimensioni del balcone
originariamente progettate e determina una modifica del
prospetto dell’edificio.
Si tratta, perciò, di un’opera che eccede i limiti della
manutenzione straordinaria, come correttamente ritenuto dal
Comune.
13.1.2 Non può poi accedersi alla tesi della parte
ricorrente, secondo la quale il predetto ampliamento sarebbe
irrilevante, perché rientrerebbe nel limite di tolleranza
del 2 per cento stabilito dall’articolo 34, comma 2-ter, del
d.P.R. n. 380 del 2001.
In disparte ogni altra considerazione, deve rilevarsi che la
suddetta previsione normativa si riferisce alle “violazioni
di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta”
che siano contenute nel limite del 2 per cento “per
singola unità immobiliare”.
Nella relazione tecnica della parte ricorrente si afferma
che l’incremento di 2 metri quadrati della superficie
coperta, determinato dall’ampliamento del balcone, sarebbe
irrilevante in rapporto alla superficie coperta di progetto
di 5.470 metri quadrati (v. doc. 3 della parte ricorrente,
alla p. 3).
Tuttavia, dalla stessa relazione tecnica si evince che la
superficie coperta di 5.470 metri quadrati è quella relativa
all’intero intervento di lottizzazione del quale fa parte
–tra le altre– la villetta del signor La. (v. p. 2 del
medesimo doc. 3 della parte ricorrente). Non è stato,
perciò, allegato né dimostrato che l’incremento della
superficie coperta sia contenuto nel limite del 2 per cento
avuto riguardo alla singola unità immobiliare, come
prescritto dal richiamato comma 2-ter dell’articolo 34 del
d.P.R. n. 380 del 2001.
13.1.3 Da ciò il rigetto della censura (TAR Lombardia-Milano,
Sez. II,
sentenza 06.09.2018 n. 2049 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Abuso d’ufficio - Prova del dolo
intenzionale - Accertamento - Indici fattuali - Sufficienza
- Art. 323 e 481 cod. pen. - Giurisprudenza.
La prova del dolo intenzionale, che
qualifica la fattispecie di cui all'art. 323 cod. pen.,
prescinda dall'accertamento dell'accordo collusivo con la
persona che si intende favorire, potendo essere desunta
anche dalla macroscopica illegittimità dell'atto, sempre che
tale valutazione non discenda in modo apodittico e parziale
dal comportamento non iure dell'agente, ma risulti anche da
ulteriori indici fattuali, concordemente dimostrativi
dell'intento di conseguire un vantaggio patrimoniale o di
cagionare un danno ingiusto, tra i quali assumono rilievo
l'evidenza, la reiterazione e la gravità delle violazioni,
la competenza dell'agente, i rapporti fra l'agente ed il
soggetto favorito, l'intento di sanare le illegittimità con
successive violazioni di legge, fermo restando che
l'intenzionalità del vantaggio ben può prescindere dalla
volontà di favorire specificamente il privato interessato
alla singola vicenda amministrativa
(Sez. 3, sentenza n. 57914 del 28/09/2017, Di Palma ed
altri; Sez. 6, sentenza n. 31594 del 19/04/2017, Pazzaglia;
Sez. 3, sentenza n. 35577 del 06/04/2016, Cella; Sez. 6,
sentenza n. 36179 del 15/04/2014, Dragotta; Sez. 6, sentenza
n. 21192 del 25/01/2013, Baria ed altri) (Sez. 3, sentenza
n. 29251 del 05/05/2017, Vigliar ed altro; Sez. 3, sentenza
n. 15228 del 31/01/2017, Cucino) (Corte
di Cassazione, Sez. penale feriale,
sentenza 04.09.2018 n. 39699 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Certificato amministrativo
proveniente da un pubblico ufficiale e certificati di
esercenti un servizio di pubblica necessità - Differenza.
In materia edilizia, al fine di
individuare la differenza con il certificato amministrativo
proveniente da un pubblico ufficiale, che deve essere
qualificato come certificato tutelabile a norma dell'art.
481 c.p., da qualsiasi attestazione di fatti rilevanti
nell'ambito del servizio di pubblica necessità esercitato
dall'autore dell'atto.
E perciò i certificati di esercenti un servizio di pubblica
necessità non sono certificati in senso proprio, in quanto
possono anche richiedere un accertamento di fatti
direttamente percepiti da parte dell'autore dell'atto. Sulla
scorta di detto principio è stato, ad esempio, ritenuto
integrato il reato in esame nel caso del tecnico il quale,
incaricato di predisporre la documentazione da presentare a
corredo di una domanda di concessione edilizia (ora permesso
di costruire), pur avendo indicato, nelle tavole
planimetriche, misure corrispondenti alla realtà, abbia però
scientemente alterato i calcoli volumetrici, sì da far
risultare, contrariamente al vero, la compatibilità
dell'opera progettata con il limite della volumetria
assentibile (in motivazione si è osservato che il tecnico
tenuto a disporre gli atti necessari per il rilascio di una
concessione edilizia, deve certamente considerarsi persona
esercente un servizio di pubblica necessità, a mente
dell'art. 359 n. 1), cod. pen., atteso che sia il progetto
sia la relazione ad esso allegata sono atti professionali
che per legge devono essere prodotti a corredo della domanda
di concessione edilizia -ora del permesso-, che per legge
richiedono un titolo di abilitazione e che sono vietati a
chi non sia autorizzato allo esercizio della professione
specifica).
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Reati edilizi - Falsità
ideologica in certificati commessa da persone esercenti un
servizio di pubblica necessità - Fattispecie: dichiarazione
falsa di conformità dell'intervento edilizio alle norme
urbanistiche edilizie vigenti in ambito comunale - Artt. 10,
20, 22, 36 e 37 d.p.r. 380/2001.
E' da ritenere la sussistenza del reato
di falsità ideologica in certificati commessa da persone
esercenti un servizio di pubblica necessità, anche nel caso
in cui i dati esposti o le relazioni dei tecnici riguardano
opere già eseguite, la natura di certificato dell'atto
derivando dalla funzione cui esso è deputato, di fornire
alla pubblica amministrazione una esatta informazione dello
stato dei luoghi per le determinazioni che le competono, con
la conseguenza che anche un giudizio o una previsione
possono essere ideoloqicamente falsi, al pari di un
enunciato in fatto, quando i parametri di valutazione cui si
riferiscono costituiscono 'misure' obiettivamente
verificabili, normativamente determinate o tecnicamente
accertabili, e quando tali giudizi - che si definiscono
perciò tecnici o in termini classici di misura per
distinguerli da quelli considerati di valore in senso
stretto in quanto sviluppati su parametri che non sono né
universali né esatti - provengano da soggetti cui fa legge
riconosce una determinata competenza e perizia e ai quali
per tale ragione ne riserva la formulazione. In tali casi,
fondandosi il giudizio o la previsione sulla postulazione di
criteri predeterminati, esso si risolve in una
rappresentazione della realtà analoga alla descrizione o
alla constatazione ed è nello stesso modo suscettibile di
essere considerato un falsa certificazione quando perviene a
risultati artefatti perché basati su dati predeterminati, o
predeterminabili, falsati."
Nella specie, deve ritenersi del tutto irrilevante, ai fini
della configurazione del reato di cui all'art. 481 cod. pen.,
la circostanza che la violazione edilizia abbia costituito
oggetto di separato procedimento penale, e che la relazione
si inserisse in un procedimento di accertamento in
conformità, nell'ambito del quale non è prevista come
necessaria alcuna relazione tecnica.
La condotta ascritta è consistita nell'aver dichiarato la
conformità dell'intervento edilizio alle norme urbanistiche
edilizie vigenti in ambito comunale, il che,
indiscutibilmente, rappresenta una connotazione qualificante
l'immobile, ed è destinata a fornire informazioni alla
pubblica amministrazione sulla attuale condizione
urbanistica dell'immobile rispetto al quale era stata
formulata domanda di permesso di costruire in accertamento
di conformità.
DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Falsità ideologica e bene
tutelato - Affidamento dell'immediato destinatario dell'atto
pubblico - Interesse protetto - Garanzia di veridicità -
Qualificazione giuridica della condotta.
Il bene tutelato dalle varie
disposizioni in tema di falsità ideologica non è costituito
solo dall'affidamento dell'immediato destinatario dell'atto
pubblico, che può anche essere a conoscenza della falsità o
concorrere nella medesima, o essere indotto in errore da
essa; l'interesse protetto è la fiducia che la generalità
dei consociati deve a ragione riporre negli atti provenienti
da certuni soggetti e la garanzia di veridicità degli
stessi.
Ne discende che proprio l'attività certificativa, che
sostanzia la figura professionale coinvolta, impone la
veridicità delle attestazioni provenienti dal soggetto
qualificato, a prescindere dalla tipologia di procedimento
amministrativo in cui esse si inseriscono; quest'ultimo
dato, invece, potrà rilevare ai fini della qualificazione
giuridica della condotta, individuando il reato di cui
all'art. 481 cod. pen., allorquando, come nel caso di
specie, la condotta non faccia capo ad un'attestazione
obbligatoriamente prevista dal procedimento amministrativo
di riferimento, pur avendo la funzione di fornire un'esatta
informazione alla P.A., piuttosto che il reato di cui
all'art. 483 cod. pen., ovvero quello di cui all'art. 20,
comma. 13, d.p.r. 380/2011 che, invece, sono integrati
allorquando l'atto è destinato a provare la verità di quanto
in esso rappresentato
(Sez. 3, sentenza n. 29251 del 05/05/2017, Vigliar ed altro;
Sez. 3, sentenza n. 15228 del 31/01/2017, Cucino) (Corte
di Cassazione, Sez. penale feriale,
sentenza 04.09.2018 n. 39699 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
DIRITTO DEMANIALE - Occupazione abusiva del suolo demaniale
- Opere autorizzate con un permesso di costruire stagionale,
realizzate sul demanio marittimo - Mancata rimozione - Art
1161 cod. nav. - DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA -
Trasformazione di strutture precarie in permanenti - Assenza
del permesso di costruire (non stagionale) - Reato
urbanistico e/o paesaggistico - Art. 44, c. 1, lett. e),
d.P.R. n.380/2001 - BENI CULTURALI ED AMBIENTALI -
Provvedimento abilitativo - Scaduto o inefficace - Effetti -
Art. 181, d.lgs.
n. 42/2004.
L'occupazione dello spazio demaniale
marittimo è "arbitraria" ed integra il reato di cui all'art.
1161 cod. nav. se non legittimata da un valido ed efficace
titolo concessorio, rilasciato in precedenza e non
surrogabile da altri atti, ovvero allorquando sia scaduto o
inefficace il provvedimento abilitativo
(Sez. 3, n. 4763 del 24/11/2017, dep. 2018, Pipitone),
sicché è ben possibile che l'occupazione del demanio
non sia arbitraria, perché legittimata dal prescritto
provvedimento concessorio, e che sussistano però il reato
urbanistico e/o quello paesaggistico per essere state
realizzate (o mantenute oltre il termine) opere non
autorizzate dal Comune e/o dalla competente autorità
regionale.
I relativi reati, di fatti, presidiano la tutela di beni
aventi diversa oggettività giuridica, sicché, se da un lato
possono concorrere qualora manchi qualsiasi tipo di
autorizzazione, d'altro lato la valutazione della liceità
della medesima condotta naturalistica -se autorizzata su un
versante, ma non su un altro- può condurre a conclusioni
differenti circa la sussistenza dei diversi illeciti
(cfr. Sez. 3, n. 30171 del 04/06/2015, Serafini; Sez. 3, n.
5461 del 04/12/2013, dep. 2014, Caldaroni).
Fattispecie: demanio marittimo, rimozione
delle strutture stagionale funzionali all'attività balneare
di facile amovibilità, alla scadenza dell'atto concessorio,
non rinnovato.
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - BENI CULTURALI ED
AMBIENTALI - Autorizzazione "in precario" di un manufatto -
Violazione di norme urbanistiche e paesaggistiche - Piena
equivalenza ai fini della contestazione dei reati -
Giurisprudenza.
Integra il reato di cui all'art. 44,
comma primo, lett. b) o e), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380,
la mancata rimozione, alla scadenza del termine previsto
nell'autorizzazione "in precario", di un manufatto
installato per soddisfare esigenze stagionali
(Sez. 3, n. 23645 del 12/05/2011, Frassica).
Per altro verso -con riguardo al giudizio
sulla correlazione tra accusa e sentenza- vi è piena
equivalenza ai fini della contestazione dei reati previsti
dagli artt. 44, lett. e), d.P.R. 380 del 2001 e 181 D.Lgs.
n. 42 del 2004, tra la condotta di colui che edifica un
manufatto in contrasto con le norme urbanistiche e
paesaggistiche e colui che, realizzando un'opera di tipo
precario compatibile con il territorio per un limitato
periodo di tempo, non la rimuove in spregio delle
indicazioni dell'autorità amministrativa
(Sez. 3, n. 50620 del 18/06/2014, Urso e a.) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.09.2018 n. 39679 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
DIRITTO DEMANIALE - Opere
stagionali realizzate sul demanio marittimo - Mancata
rimozione e trasformazione in strutture permanenti in
assenza del permesso di costruire - BENI CULTURALI ED
AMBIENTALI - Autorizzazione paesaggistica annuale - Art. 44,
comma 1, lett. e), d.P.R. 06.06.2001, n. 380 e 181 d.lgs.
22.01.2004, n. 42.
Integra il reato di cui all'art. 44,
comma primo, lett. b) o c), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, la
mancata rimozione, alla scadenza del termine previsto
nell'autorizzazione "in precario", di un manufatto
installato per soddisfare esigenze stagionali
(Sez. 3, n. 23645 del 12/05/2011, Frassica).
Per altro verso -con riguardo al giudizio
sulla correlazione tra accusa e sentenza- vi è piena
equivalenza ai fini della contestazione dei reati previsti
dagli artt. 44, lett. e), d.P.R. 380 del 2001 e 181 D.Lgs.
n. 42 del 2004, tra la condotta di colui che edifica un
manufatto in contrasto con le norme urbanistiche e
paesaggistiche e colui che, realizzando un'opera di tipo
precario compatibile con il territorio per un limitato
periodo di tempo, non la rimuove in spregio delle
indicazioni dell'autorità amministrativa
(Sez. 3, n. 50620 del 18/06/2014, Urso e a.) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.09.2018 n. 39677 - link a www.ambientediritto.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: La
delibera di giunta non è sufficiente per riconoscere un debito fuori
bilancio.
Con la
sentenza 03.09.2018 n. 5138, il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale,
Sez. V, ha confermato l’orientamento secondo il quale i contratti
con la Pa devono essere redatti, a pena di nullità, in forma scritta, con la
conseguenza che è da escludersi l’idoneità a costituire un impegno per
l’Ente la sola Delibera di Giunta comunale, priva del relativo impegno di
spesa, nonché dell’indicazione dei mezzi per far fronte al compenso del
professionista.
Il fatto
Il caso in esame riguarda l’atto di conferimento di un incarico tecnico,
adottato con Deliberazione di Giunta, per la redazione del progetto
esecutivo di una Caserma dell’Arma, asseritamente utilizzato
dall’Amministrazione committente ai fini della richiesta di apposito
finanziamento.
Il professionista, a seguito dell’adempimento dell’incarico, ha più volte
rivendicato, previa presentazione di rituale parcella, la corresponsione
delle competenze maturate con l’espletamento della propria attività,
diffidando l’Ente ad inserire il credito vantato nell’elenco dei debiti
fuori bilancio e richiedendo l’attivazione del potere sostitutivo, di cui
all’articolo 2, comma 9-bis, della Legge n. 241/1990.
Riscontrando l’inerzia dell’Amministrazione e il mancato riconoscimento del
debito fuori bilancio in sede consiliare, il tecnico ha presentato ricorso
al Tribunale Amministrativo Regionale per la Basilicata, la cui Sezione I,
con sentenza n. 130 del 06.02.2017, ha, tuttavia, respinto il ricorso
sull’assunto della infondatezza nel merito della pretesa creditoria.
Il professionista ha, pertanto, presentato appello chiedendo l’integrale
riforma della citata sentenza, a suo giudizio palesemente erronea e
ingiusta, per ottenere il riconoscimento, quale debito fuori bilancio, del
credito maturato con l’attività professionale dispiegata a favore dell’Ente,
per la refusione dell’indennizzo da ritardo e, in caso di ulteriore inerzia
da parte dell’Ente, per la designazione di organo commissariale sostitutivo.
Il diritto
Il Consiglio di Stato ha, tuttavia, respinto l’appello, dichiarandolo
infondato. Anzitutto, con riferimento all’asserita inerzia dell’Ente, in
ordine alla richiesta di approvazione del debito fuori bilancio, la Corte ha
condiviso il giudizio del Tar, che ha ritenuto idonea a interrompere
validamente detta inerzia la nota di riscontro trasmessa dal comune, con la
quale l’Amministrazione ha evidenziato al professionista la non ricorrenza
dei presupposti per il riconoscimento del credito vantato. Altresì, ha
condiviso l’apprezzamento fatto dal primo giudice sull’infondatezza della
pretesa azionata.
Il Consiglio di Stato ha, poi, evidenziato come, secondo l’orientamento
giurisprudenziale, i contratti con la Pubblica Amministrazione devono essere
redatti, a pena di nullità, in forma scritta, con la sottoscrizione da parte
dell’organo rappresentativo dell’Ente, che ha i poteri necessari per
vincolare l’Amministrazione, e della controparte di un unico documento,
contenente le clausole disciplinanti dettagliatamente il rapporto. Tali
regole formali sono funzionali all’attuazione del principio costituzionale
di buona amministrazione, in quanto agevolano l’esercizio dei controlli e
rispondono all’esigenza di tutela contro il pericolo di impegni finanziari
assunti senza l’adeguata copertura e senza la valutazione dell’entità delle
obbligazioni da adempiere.
In ultimo, la Corte ha chiarito che in una Convenzione per la progettazione
di un’opera pubblica, tra un Ente locale e un professionista, la clausola
con cui il pagamento del compenso per la prestazione resa è condizionato
alla concessione di un finanziamento per la realizzazione di detta opera
deve qualificarsi come “condizione potestativa mista”, il cui mancato avveramento preclude l’azionabilità del credito.
Nel caso di specie, l’Amministrazione, nel riscontrare la richiesta di
riconoscimento del debito fuori bilancio formulata dall’appellante, ha
correttamente rilevato la mancanza dei relativi presupposti, in quanto:
a) il contratto non era stato stipulato nelle forme di rito, trattandosi di
incarico conferito sulla base della sola Delibera di Giunta comunale;
b) il pagamento dell’eventuale corrispettivo era stato subordinato al
conseguimento di un finanziamento, che non era stato mai riconosciuto, con
il conseguente venir meno della relativa condizione.
Quanto rilevato appare sufficiente per confermare l’insussistenza del
credito vantato in danno dell’Amministrazione e l’inesistenza dell’obbligo
di attivare il procedimento per il riconoscimento del relativo debito fuori
bilancio
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 01.10.2018). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Reati ambientali - Inosservanza degli obblighi -
Difficoltà economiche dell'impresa - Causa di forza maggiore
- Esclusione - SICUREZZA SUL LAVORO - Inosservanza di norme
antinfortunistiche - Azione od omissione cosciente e
volontaria dell'agente - Art. 45 cod. pen..
In tema di reati ambientali, non può
rientrare tra gli eventi di forza maggiore di cui all'art.
45 cod. pen. l'inosservanza degli obblighi imposti dalla
legge in materia di inquinamento delle acque per difficoltà
economiche dell'impresa titolare degli scarichi dato che la
forza maggiore si concreta soltanto in un evento, derivante
dalla natura o da fatto dell'uomo, che non può essere
preveduto o impedito
(Sez. 3, n. 643 del 22/10/1984, dep. 1985, Bottura),
pertanto, le difficoltà economiche in cui versa il
soggetto agente non sono riconducibili al concetto di forza
maggiore che postulando la individuazione di un fatto
imponderabile, imprevisto ed imprevedibile, esula del tutto
dalla condotta dell'agente, sì da rendere ineluttabile il
verificarsi dell'evento, non potendo ricollegarsi in alcun
modo ad un'azione od omissione cosciente e volontaria
dell'agente (Sez.
1, Sentenza n. 18402 del 05/04/2013, Giro, relativa al reato
di cui all'art. 650 cod. pen. per violazione di ordinanza
sindacale in tema di smaltimento di rifiuti).
Analoghi principi sono stati affermati in
materia di violazione di norme antinfortunistiche
(Sez. 3, n. 9041 del 18/09/1997, Chiappa).
DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Causa di forza maggiore
maggiore e condotta dell'agente- Fatto imponderabile,
imprevisto ed imprevedibile - Azione od omissione volontaria
- Difficoltà economiche - Giurisprudenza.
La forza maggiore postula la
individuazione di un fatto imponderabile, imprevisto ed
imprevedibile, che esula del tutto dalla condotta
dell'agente, sì da rendere ineluttabile il verificarsi
dell'evento, non potendo ricollegarsi in alcun modo ad
un'azione od omissione cosciente e volontaria dell'agente,
sicché, è stato sempre escluso, quando la specifica
questione è stata posta, che le difficoltà economiche in cui
versa il soggetto agente possano integrare la forza maggiore
penalmente rilevante
(Sez. 3, n. 4529 del 04/12/2007, Cairone; Sez. 1, n. 18402
del 05/04/2013, Giro; Sez 3, n. 24410 del 05/04/2011,
Bolognini; Sez. 3, n. 9041 del 18/09/1997, Chiappa; Sez. 3,
n. 64.3 del 22/10/1984, Bottura; Sez. 3, n. 7779 del
07/05/1984, Anderi. Costituisce corollario di queste
affermazioni il fatto che nei reati omissivi integra la
causa di forza maggiore l'assoluta impossibilità, non la
semplice difficoltà di porre in essere il comportamento
omesso (Sez. 6, n. 10116 del 23/03/1990, Iannone; Sez. 3, n.
8352 del 24/06/2014, dep. 2015, Schirosi) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.08.2018 n. 39032 - link a www.ambientediritto.it). |
TRIBUTI: Poste, le insegne sono esentasse.
Sono esenti dall'imposta sulla pubblicità le insegne di Poste italiane
installate negli uffici postali. Le dimensioni delle diverse insegne
installate nello stesso ufficio vanno sommate e considerate un unicum ai
fini del riconoscimento dell'agevolazione fiscale, a condizione che non
superino la misura massima di 5 metri quadrati fissata dalla legge. È invece
soggetta a imposizione la pubblicità dei prodotti finanziari, quali i buoni
fruttiferi postali, le polizze vita, i titoli obbligazionari e via dicendo,
perché ha la finalità di reclamizzarli e promuoverli per acquisire
potenziali clienti.
Lo ha stabilito la Ctr Perugia, seconda sezione, con la
sentenza 09.08.2018 n. 346.
Per i giudici d'appello, le insegne di
esercizio contenente l'indicazione Poste italiane non sono soggette a
imposizione e vanno considerate in maniera unitaria. Dunque, la superficie
finale «è data dalla sommatoria delle superfici effettive di ogni singola
insegna».
La pluralità di insegne presso ogni singolo ufficio postale, che
hanno lo stesso contenuto e che identificano lo stesso soggetto passivo,
deve essere valutata come un «unicum», come se si trattasse di una sola
insegna. E non va assoggettata a imposizione se la superficie complessiva
risulta inferiore a 5 metri quadrati, poiché al di sotto del limite per il
quale ex lege deve essere riconosciuta l'esenzione.
Nella sentenza, infatti, viene richiamato l'articolo 17, comma 1-bis, del
decreto legislativo 507/1993, in base al quale l'imposta non è dovuta per le
insegne di esercizio di attività commerciali e di produzione di beni o
servizi che contraddistinguono la sede ove si svolge l'attività
dell'impresa, di superficie complessiva fino a 5 metri quadrati.
Nel caso di specie, secondo la commissione regionale, le insegne riproducono
la denominazione dell'impresa che svolge l'attività commerciale, e «indicano
la sede ove si svolge l'attività delle ricorrenti Poste». Il trattamento
agevolato va invece escluso per la pubblicità di «prodotti finanziari,
quali ad es. buoni fruttiferi postali, polizze vita, titoli obbligazionari»,
il cui fine è quello «di far conoscere e convogliare potenziali clienti
verso tali forme di investimenti»
(articolo ItaliaOggi del 28.09.2018). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Integra la diffamazione l'e-mail in molteplici copie.
Inviare un'e-mail con in copia numerosi destinatari integra il reato di
diffamazione.
Lo spiega la quinta sezione penale della Suprema corte di Cassazione, Sez. V
penale, nella
sentenza
20.07.2018 n. 34484, che ha affrontato una caso
in cui un uomo inviò a ben sei funzionari doganali in copia una e-mail
estremamente diffamatoria indirizzata ad un collega.
Da qui la querela per
ingiuria aggravata, trattandosi appunto di una e-mail plurima. Ma il
tribunale riformò la definizione di reato, assolvendo l'uomo dalle accuse
aggravate. E il funzionario chiese giustizia direttamente presso la
cassazione, chiedendo che venisse riformata la sentenza assolutoria.
I
giudici, osservando i precedenti circa il reato di diffamazione
contemporaneo, hanno accolto il motivo di ricorso del funzionario
equiparandolo, però, ad un concorso di ingiuria e diffamazione ed escludendo
quindi la fattispecie dell'aggravante. «L'invio di e-mail a contenuto
diffamatorio», spiegano gli ermellini nel dispositivo di legge, «realizzato
tramite l'utilizzo di internet, integra un'ipotesi di diffamazione aggravata
e l'eventualità che fra i fruitori del messaggio vi sia anche la persona a
cui si rivolgono le espressioni offensive, non consente di mutare il titolo
del reato nella diversa ipotesi di ingiuria».
E ancora che la missiva a
contenuto diffamatorio», proseguono i giudici di piazza Cavour, «diretta a
una pluralità di destinatari, oltre l'offeso, non integra il reato di
ingiuria aggravata dalla presenza di più persone, bensì quello di
diffamazione, stante la non contestualità del recepimento delle offese
medesime e la conseguente maggiore diffusione della stessa. Secondo questa
impostazione il reato, comunque ormai depenalizzato, di ingiuria, in tal
caso rimane assorbito».
E i giudici proseguono nell'argomentazione del principio di diritto secondo
cui «il fatto che quando la corrispondenza con più destinatari avviene
per via telematica», si legge, «se è vero che la digitazione della
missiva avviene con unica azione, la sua trasmissione si realizza attraverso
una pluralità di atti operati dal sistema e di cui l'agente è ben
consapevole; di qui la conclusione che in ogni caso il fatto contestato
integra quantomeno anche il reato di diffamazione»
(articolo ItaliaOggi Sette dell'01.10.2018).
---------------
MASSIMA
1.2. Indubbiamente con l'art. 1 del d.lgs. 7/2016 il reato di ingiuria è
stato integralmente depenalizzato, anche quanto alla forma aggravata di cui
al quarto comma.
In suo luogo, l'ordinamento ora prevede un illecito civile, di cui all'art.
4, comma 1, lett. a), del decreto 7/2016, secondo cui soggiace alla sanzione
pecuniaria civile da € 100 a € 8.000 chi offende l'onore o il decoro di una
persona presente, ovvero mediante comunicazione telegrafica, telefonica,
informatica o telematica, o con scritti o disegni, diretti alla persona
offesa. Ai sensi dell'art. 3 del decreto tali fatti previsti, se dolosi,
obbligano anche alle restituzioni e al risarcimento del danno secondo le
leggi civili.
1.3. La tesi propugnata dal Tribunale non appare convincente alla luce
dell'analisi testuale dell'art. 594 cod. pen., pur abrogato ma vigente
all'epoca del fatto.
Il primo comma riguardava l'ipotesi dell'offesa arrecata ad una persona
presente.
Il secondo comma assoggettava alla stessa sanzione l'offesa dell'onore o del
decorro, arrecata «a distanza», ossia con comunicazione telegrafica o
telefonica o con scritti e disegni diretti alla persona offesa.
Il quarto comma contemplava, infine, un'aggravante nel caso in cui l'offesa
sia commessa in presenza di più persone.
Tale aggravante, che presuppone la presenza degli spettatori, non è
riferibile in riferimento all'ipotesi di ingiuria a distanza, considerata
nel ricordato comma 2 dell'art. 594.
Il concetto di «presenza» implica necessariamente la presenza fisica, in
unità di tempo e di luogo, di offeso e spettatori o almeno una situazione ad
essa sostanzialmente equiparabile, realizzata con l'ausilio dei moderni
sistemi tecnologici (si pensi ad esempio alla call conference,
audioconferenza o videoconferenza). Non è ravvisabile invece nel mero fatto
di essere destinatari di una missiva, pur inoltrata con un mezzo, quello
telematico, infinitamente più rapido ed efficiente dell'antico sistema
postale, poiché in tale ipotesi, oltre all'insuperabile dato testuale
normativo, viene a mancare la necessaria contestualità dell'effetto
comunicativo, che caratterizza l'aggravante (Sez. 5, n. 18919 del 15/03/201,
Laganà, Rv. 266827).
1.4. Allorché l'offesa sia arrecata con una comunicazione scritta
indirizzata sia alla persona offesa, sia a più altri destinatari, che ne
vengono quindi messi a conoscenza si realizza il concorso fra il reato di
ingiuria ex art. 594, comma 2, cod. pen., ormai depenalizzato, e quello di
diffamazione ex art. 595 cod.pen., tuttora previsto dalla legge come reato.
Infatti allorché l'offesa sia arrecata a mezzo di uno scritto e sia
indirizzata all'interessato ed a terzi estranei, non può escludersi il
concorso tra ingiuria e diffamazione, nel caso in cui la concreta
fattispecie comprenda elementi costitutivi delle due distinte norme incriminatrici (Sez. 5, n. 12160 del 04/02/2002, Gaspari A, Rv. 221252):
non
è lo stesso fatto ad assumere rilievo ma due fatti ben distinti, ossia la
trasmissione della lettera al diretto interessato e la trasmissione delle
altre missive, seppur di analogo contenuto, ai terzi destinatari, per la cui
realizzazione occorre porre in essere distinte condotte, sorrette dal
correlativo coefficiente psicologico.
1.5. Tali conclusioni non mutano se alla comunicazione epistolare
tradizionale si sostituisce, per effetto dell'evoluzione tecnologica,
l'invio di una missiva per posta elettronica che includa fra i destinatari
sia la persona offesa, sia gli ulteriori soggetti portati a conoscenza
dell'offesa, trattandosi di strumento moderno che realizza, con semplicità
ed efficacia esponenziali, il medesimo risultato in passato ottenuto con
l'invio di una pluralità di lettere a più destinatari.
Ed anche in questo caso, occorre notare per chiarezza,
l'autore pone in
essere una condotta specifica rivolta a comunicare il messaggio a ciascuno
dei destinatari prescelti, digitando il suo indirizzo di posta elettronica
nell'apposita casella, e sorregge psicologicamente tale azione con coscienza
e volontà, rappresentandosi e volendo le conseguenze della condotta
realizzata.
1.5. Questa Sezione in varie occasioni ha affermato che
l'invio di e-mail a contenuto diffamatorio, realizzato tramite l'utilizzo di
internet, integra un'ipotesi di diffamazione aggravata e l'eventualità che
fra i fruitori del messaggio vi sia anche la persona a cui si rivolgono le
espressioni offensive, non consente di mutare il titolo del reato nella
diversa ipotesi di ingiuria (Sez.
5, n. 44980 del 16/10/2012, P.M. in proc. Nastro, Rv. 254044); ed ancora che
la missiva a contenuto diffamatorio diretta a una pluralità di
destinatari, oltre l'offeso, non integra il reato di ingiuria aggravata
dalla presenza di più persone, bensì quello di diffamazione, stante la non
contestualità del recepimento delle offese medesime e la conseguente
maggiore diffusione della stessa (Sez.
5, n. 18919 del 15/03/2016, Laganà, Rv. 266827); secondo questa impostazione
il reato, comunque ormai depenalizzato, di ingiuria, in tal caso rimane
assorbito.
Secondo altro orientamento più tradizionale si configurava
il concorso tra i reati di ingiuria e diffamazione qualora le lettere
offensive indirizzate a più persone fossero inviate anche alla persona
offesa (tra le altre Sez. 5, n.
48651 del 22/10/2009, Nasce', Rv. 245827; Sez. 5, n. 12160 del 04/02/2002,
Gaspari A, Rv. 221252); impostazione questa che farebbe residuare,
mutatis mutandis, il concorso fra l'illecito civile di cui all'art. 4
d.lgs. 7/2016 e il reato di diffamazione.
Di segno apparentemente contrario appare la decisione assunta da questa
Sezione 5, n. 24325 del 20/04/2015 (R. e altro, Rv. 263911) che
ha ravvisato il reato di ingiuria nell'invio a soggetti diversi
dalla persona offesa di una mail contenente espressioni offensive con la
consapevolezza che essa sarebbe stata comunicata al soggetto offeso; tale
pronuncia risulta tuttavia esclusivamente focalizzata sulla volontà
offensiva del mittente, in concreto esclusa per i pessimi rapporti fra
destinatario della lettera e persona offesa, e resa in un contesto in cui
non era prospettabile la diffamazione perché la lettera era stata
indirizzata a una sola persona.
Un recente arresto di questa Sezione (Sez. 5, n. 12603 del 02/02/2017,
Segagni) ha ribadito che la missiva a contenuto
diffamatorio diretta a una pluralità di destinatari, oltre l'offeso, integra
il reato di diffamazione, stante la non contestualità del recepimento delle
offese medesime e la conseguente maggiore diffusione della stessa, senza
prender posizione sulla concorrente persistenza o meno dell'illecito di
ingiuria.
In questa pronuncia la Corte ha posto in evidenza il fatto che quando la
corrispondenza con più destinatari avviene per via telematica, se è vero che
la digitazione della missiva avviene con unica azione, la sua trasmissione
si realizza attraverso una pluralità di atti operati dal sistema e di cui
l'agente è ben consapevole; di qui la coerente conclusione che in ogni caso
il fatto contestato integra quantomeno anche il reato di diffamazione.
Tali considerazioni appaiono condivisibili, anche se appare opportuno
precisare che il mittente, che pur digita la missiva uno actu, appone
separatamente e consapevolmente l'indirizzo telematico di ciascun
destinatario a cui vuole render nota la mail.
1.6. Le conclusioni esposte non possono essere inficiate dal fatto che la
missiva sia stata inoltrata ai Dirigenti doganali «per conoscenza»,
poiché questa connotazione soddisfa tutti i requisiti della fattispecie
incriminatrice che esige solamente che l'offesa all'altrui reputazione sia
comunicata a una pluralità di destinatari, senza ascrivere alcun rilievo al
titolo e alle ragioni per cui la comunicazione viene effettuata.
2. La difesa dell'imputato Ga.Ba. ha chiesto, per il caso in cui
fosse rilevata l'astratta sussumibilità del fatto nell'ipotesi di
diffamazione ex art. 595, comma 3, cod. pen., l'annullamento della sentenza
impugnata e la trasmissione degli atti alla Procura competente
2.1. La difesa dell'imputato osserva che la condotta in contestazione era
stata realizzata con unico messaggio trasmesso sia alla persona offesa, sia
in copia per conoscenza ai titolari di vari Uffici.
Se fosse esatta la prospettazione, il reato, a suo dire, integrerebbe
l'ipotesi di cui al terzo comma dell'art. 595, in ragione del suo
aggravamento derivante da uno strumento di pubblicità di notevole capacità
diffusiva.
Di qui la competenza residuale del Tribunale, ai sensi dell'art. 6 cod. proc.
pen., tenuto conto della limitata investitura determinata dall'art. 4 d.lgs.
274/2000 per i soli casi di diffamazione di cui commi 1 e 2 dell'art. 595
cod. pen.
2.2. La tesi non può essere condivisa: il terzo comma dell'art. 595 riguarda
il caso in cui l'offesa sia arrecata con il mezzo della stampa o comunque
con mezzo pubblicitario potenzialmente diffusivo e non può essere esteso
sino a ricomprendere il caso in cui l'offesa sia stata arrecata con uno
scritto inoltrato per conoscenza a un numero circoscritto e limitato di
destinatari, personalmente individuati e determinati, a cui la missiva è
stata diretta per renderli informati del suo contenuto, sia pure per posta
elettronica.
Questa Corte ha ritenuto che la diffusione di un messaggio diffamatorio
attraverso l'uso di una bacheca facebook integra un'ipotesi di
diffamazione aggravata ai sensi dell'art. 595, comma terzo, cod. pen., sotto
il profilo dell'offesa arrecata «con qualsiasi altro mezzo di pubblicità»
diverso dalla stampa, proprio perché la condotta in tal modo realizzata è
potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque
quantitativamente apprezzabile, di persone (Sez. 5, n. 4873 del 14/11/2016 -
dep. 2017, P.M. in proc. Manduca, Rv. 269090)
Non può invece condividersi l'apparente generalizzazione espressa dalla
massima che sintetizza la decisione di questa Sezione 5, n. 29221 del
06/04/2011, De Felice, Rv. 250459, secondo cui integra il reato di
diffamazione aggravato ai sensi dell'art. 595, comma 3, cod. pen. (offese
recate con la stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità), la
diffusione delle espressioni offensive mediante il particolare e formidabile
mezzo di pubblicità della posta elettronica, con lo strumento del forward
a pluralità di destinatari.
Non è il ricorso alla posta elettronica, che è solo uno strumento
tecnologico più agevole, comodo ed efficiente della posta tradizionale, che
configura, di per sé e automaticamente, un «mezzo pubblicitario», al
quale tuttavia può essere equiparato in concreto quando per le particolari
modalità della condotta sia stato possibile raggiungere un gruppo
indeterminato o molto elevato di destinatari: il che certamente non si è
verificato nella presente fattispecie, in cui la missiva è stata inviata ad
un numero determinato e contenuto di persone ben scelte (sei).
2.3. In ogni caso, il ricorso è stato proposto dalla parte civile e quindi
rileva ai soli effetti civili, e non si giustificherebbe i comunque la
trasmissione degli atti al Pubblico Ministero. |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Le controversie circa l'impugnazione delle note
comunali di escussione della polizza fidejussoria si inseriscono
nell’ambito di un rapporto privatistico che esula dalla
cognizione propria del giudice amministrativo.
Come è stato osservato, “la giurisdizione esclusiva del G.A.
in materia di edilizia e urbanistica non può estendersi
anche all'escussione della polizza fideiussoria relativa al
pagamento degli oneri di urbanizzazione. Ed invero,
l'obbligazione principale e quella fideiussoria, benché fra
loro collegate, mantengono una propria individualità non
soltanto soggettiva (data l'estraneità del fideiussore al
rapporto richiamato dalla garanzia) ma anche oggettiva, in
quanto la causa fideiussoria è fissa ed uniforme, mentre
l'obbligazione garantita può basarsi su qualsiasi altra
causa idonea allo scopo, con la conseguenza che la
disciplina dell'obbligazione garantita non influisce su
quella della fideiussione, per la quale continuano a valere
le normali regole, comprese quelle sulla giurisdizione”.
---------------
L’eccezione di inammissibilità per difetto di giurisdizione
dell’impugnazione dell’atto di escussione della polizza fideiussoria è fondata.
Infatti questo tipo di controversie si inseriscono
nell’ambito di un rapporto privatistico che esula dalla
cognizione propria del giudice amministrativo (ex pluribus
cfr. Tar Abruzzo, L'Aquila, Sez. I, 05.02.2018, n. 39; Tar Molise, Sez. I, 17.05.2017 n. 184; Cass., Sez. Un.
28.07.2016 n. 15666; Tar Veneto, Sez. II, 20.07.2015, n.
839).
Come è stato osservato (cfr. Tar Lombardia, Milano, Sez. II,11.05.2015, n. 1137) “la giurisdizione esclusiva del G.A.
in materia di edilizia e urbanistica non può estendersi
anche all'escussione della polizza fideiussoria relativa al
pagamento degli oneri di urbanizzazione. Ed invero,
l'obbligazione principale e quella fideiussoria, benché fra
loro collegate, mantengono una propria individualità non
soltanto soggettiva (data l'estraneità del fideiussore al
rapporto richiamato dalla garanzia) ma anche oggettiva, in
quanto la causa fideiussoria è fissa ed uniforme, mentre
l'obbligazione garantita può basarsi su qualsiasi altra
causa idonea allo scopo, con la conseguenza che la
disciplina dell'obbligazione garantita non influisce su
quella della fideiussione, per la quale continuano a valere
le normali regole, comprese quelle sulla giurisdizione”.
Pertanto l’impugnazione dell’atto prot. n. 3776 del 23.06.2014, di escussione della polizza fideiussoria deve
essere dichiarata inammissibile per difetto di
giurisdizione.
L’eccezione di inammissibilità del ricorso per l’omessa
notifica a Ge.It.Spa non può essere condivisa
perché il ricorso in realtà è stato notificato al domicilio
contrattualmente eletto nelle condizioni generali del
contratto e in ogni caso difettano i presupposti per
qualificare il garante come controinteressato in senso
sostanziale.
Infatti trattandosi di un contratto autonomo di garanzia,
l’affermazione secondo la quale il garante avrebbe dovuto
agire avanti al giudice ordinario per far valere
l’invalidità del rapporto sottostante, è priva di riscontri.
L’eccezione di inammissibilità per omessa notifica al
controinteressato deve pertanto essere respinta (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 17.07.2018 n. 764 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La fattispecie in esame, che si sostanzia nella
conclusione di due atti negoziali separati ma tra loro
collegati per la stessa volontà delle parti, ovvero l’atto
unilaterale d’obbligo e la convenzione, è riconducibile
nell’alveo degli strumenti propri della c.d. urbanistica
contrattata, che non violano il principio di legalità perché
trovano la loro copertura normativa nella previsione di
strumenti consensuali di esercizio delle potestà
amministrative di cui agli artt. 1, comma 1-bis, e 11 della legge
07.08.1990,
n. 241, ed il loro fondamento nel potere pianificatorio di
governo del territorio e nella possibilità di stipulare
accordi sostitutivi di provvedimenti ed è pertanto “la natura
facoltativa degli istituti perequativi de quibus, nel senso
che la loro applicazione è rimessa a una libera scelta degli
interessati, a escludere che negli stessi possa ravvisarsi
una forzosa ablazione della proprietà nonché, nel caso del
contributo straordinario, che si tratti di prestazione
patrimoniale imposta in violazione della riserva di legge ex
art. 23 Cost.”.
---------------
Peraltro un tale accordo non sarebbe neppure censurabile
sostenendo che il valore delle opere da realizzare eccede
quello previsto per gli oneri di urbanizzazione.
Infatti nelle convenzioni urbanistiche non è ravvisabile una
necessaria corrispondenza biunivoca e sinallagmatica tra il
valore delle prestazioni assunte, e che il privato è
pertanto obbligato ad eseguire puntualmente tutte le
prestazioni previste dalla Convenzione senza che abbia alcun
rilievo la circostanza che queste possano eccedere,
originariamente o successivamente, gli oneri di
urbanizzazione.
Sul punto sembra pertanto sufficiente richiamare i principi
espressi in proposito dalla giurisprudenza proprio con
riguardo ad una censura di nullità di una convenzione
urbanistica, ai sensi degli artt. 1325 e 1418 c.c., nella
parte in cui prevedeva a carico del soggetto attuatore opere
per un valore eccedente quello degli oneri di
urbanizzazione, laddove ha affermato che “quanto a quest’ultimo
profilo, ed in via conclusiva, può richiamarsi un breve
passaggio motivazionale contenuto in una recente decisione
della Sezione che il Collegio condivide pienamente e che ben
si attaglia alla fattispecie in esame, essendosi ivi
precisato che la giurisprudenza si è oramai orientata
nell’affermare, all’interno delle convenzioni di
urbanizzazione, la prevalenza del profilo della libera
negoziazione.
Infatti, si è affermato che, sebbene sia innegabile che la
convenzione di lottizzazione, a causa dei profili di stampo
giuspubblicistico che si accompagnano allo strumento
dichiaratamente contrattuale, rappresenti un istituto di
complessa ricostruzione, non può negarsi che in questo si
assista all’incontro di volontà delle parti contraenti
nell'esercizio dell'autonomia negoziale retta dal codice
civile.
Ne deriva che l’argomento sostenuto nel ricorso in primo
grado, ossia che le clausole convenute, in quanto aggiuntive
rispetto agli oneri di urbanizzazione, riferiti ad opere e
servizi menzionati dalla normativa, non siano consentite,
con conseguente nullità delle stesse, non può essere
sostenuto, trattandosi di determinazione pattizia rimessa
alla contrattazione tra i due diversi soggetti coinvolti”.
---------------
Così delimitato il giudizio all’esame delle censure di
nullità dell’atto unilaterale d’obbligo e della convenzione,
e di annullamento dell’elenco annuale e del programma
triennale delle opere pubbliche, nel merito il ricorso è
infondato e deve essere respinto.
In fatto è necessario premettere che dalla documentazione
versata in atti l’affermazione delle ricorrenti secondo la
quale le stesse sarebbero state in sostanza costrette dal
Comune ad accettare l’obbligo di progettare e realizzare la
piazza della frazione di Mosnigo per poter realizzare il
piano attuativo relativo alle proprie aree risulta priva di
riscontri.
Lo strumento urbanistico generale prevede un’apposita scheda
norma denominata PND16 per l’ambito di interesse delle
ricorrenti che nella versione originaria prevedeva in modo
dettagliato con apposite tavole prescrittive una
predeterminata configurazione insediativa ed
infrastrutturale.
Con deliberazione consiliare n. 11 del 06.07.2009, il
Comune, su iniziativa dei provati interessati, ha approvato
una variante con la quale a determinate condizioni è stata
ammessa la derogabilità di tali rigide previsioni ferme
restando le quantità minime e massime dei parametri
urbanistici ed edilizi.
L’art. 48 delle norme tecniche di attuazione allegate al
piano regolatore, nel testo modificato, ha previsto quindi
che “le aree indicate nelle tavole 13.3 di progetto con le
lettere PND e numerate dalla 1 alla 16 sono disciplinate
dalle norme contenute nell’allegato testo denominato:
regolamento urbanistico – progetti norma per le aree
produttive (…). Nella comprovata impossibilità tecnica di
realizzare i Progetti Norma o parte degli stessi in base
alle prescrizioni indicazioni del Regolamento Urbanistico o
qualora, in relazione ad approfondimenti connessi alla
pianificazione attuativa, ciò appaia corrispondente al
pubblico interesse, in sede di approvazione dello Strumento
Urbanistico Attuativo da parte del Consiglio Comunale, è
possibile, in deroga a tali prescrizioni indicazioni,
apportare motivate modifiche non sostanziali alla posizione
delle aree pubbliche e/o degli accessi carrabili, delle
viabilità, delle forme e del posizionamento delle sagome,
ferme restando le quantità minime e massime e tutti i
parametri urbanistici e edilizi previsti dal Progetto Norma,
secondo quanto disposto dal precedente art. 9, comma 2,
lett. c), punto 1” (cfr. doc. 5 allegato alle difese del
Comune).
Il progetto norma PND16 prevedeva che nella nuova area
produttiva dovessero trovare spazio, secondo una logica
polifunzionale, attività artigianali ed industriali con la
presenza di più sub-unità autonome e di spazi promiscui ad
uso delle realtà potenzialmente insediabili, mediante la
costruzione di più edifici con una sorta di corte interna (cfr.
la tavola C 2 di cui al doc. 4 allegato alle difese del
Comune).
La proposta progettuale presentata dalle ricorrenti prevede
invece due soli fabbricati densi e compatti a servizio delle
stesse proponenti che sono obiettivamente diverse dalle
previsioni prescrittive della specifica scheda norma, e che
possono essere realizzate solo beneficando della deroga
ammessa dal progetto norma a seguito delle modifiche
introdotte dalla variante urbanistica approvata con
deliberazione consiliare n. 11 del 06.07.2009.
Tale diverso assetto presenta dei vantaggi per le ricorrenti
sia dal punto di vista funzionale, in quanto permette di
soddisfare le esigenze di ampliamento delle attività
produttive, sia per i minori oneri necessari alla
realizzazione delle opere infrastrutturali.
Infatti, rispetto al progetto previsto dallo strumento
urbanistico che contempla una presenza articolata di aree a
verde, parcheggi e viabilità, la diversa impostazione
contenuta nel progetto presentato può beneficiare delle
infrastrutture già presenti.
Ciò premesso, può ritenersi acclarato che attraverso
l’approvazione del progetto presentato dalle ricorrenti, le
stesse hanno conseguito dei vantaggi derivanti da risparmi
nella progettazione e realizzazione delle opere di
urbanizzazione (le superfici a strade e parcheggi privati ad
uso pubblico), nel recupero, all’interno dei lotti, di
superfici in uso esclusivo privato, nell’eliminazione delle
aree private comuni originariamente ipotizzate, nei minori
costi di gestione per la razionalizzazione della gestione
delle superfici coperte.
Un preciso riscontro in questo senso è rinvenibile nella
nota del 25.03.2010 inviata dal tecnico incaricato dalle
ricorrenti al Comune, che dimostra che l’iniziativa per
ottenere i vantaggi derivanti dall’approvazione del piano
secondo il nuovo assetto progettuale è stata assunta dalle
ricorrenti, e che nel corso delle trattative intercorse tra
le parti tali vantaggi sono stati quantificati in €
829.000,00 per la differenza derivante dalle opere di
viabilità non realizzata, per l’aumento della superficie
fondiaria e per la plusvalenza del terreno (cfr. doc. 6
allegato alle difese del Comune).
Dal punto di vista documentale risulta pertanto che, come
sostiene il Comune nelle proprie difese, la proposta di
progettare e realizzare la piazza della frazione di Mosnigo
è stata avanzata dalle ricorrenti quale forma di beneficio
pubblico volta a compensare i benefici economici ritraibili
dalle stesse dall’approvazione della variante che ha
introdotto margini di flessibilità rispetto alle originarie
previsioni del piano regolatore generale, e
dall’approvazione del piano attuativo che, in deroga
all’assetto progettuale contenuto nello strumento
urbanistico generale, ha beneficiato di tali margini di
flessibilità.
Alla luce di tali premesse, il primo motivo con il quale le
ricorrenti lamentano la nullità della convenzione e degli
atti connessi nella parte in cui prevedono l’obbligo delle
lottizzanti del rifacimento della Piazza di Mosnigo per
violazione di norme imperative, per mancanza di causa e per
la contrarietà a norme urbanistiche imperative, nonché la
violazione degli artt. 1322, 1325, 1343 e 1418 c.c., in
relazione agli artt. 1 e 11 della legge 07.08.1990, n.
241, l’indebita imposizione di prestazioni patrimoniali e la
violazione dell’art. 23 della Costituzione, deve essere
respinto.
Infatti dalla documentazione versata in atti risulta che la
fattispecie in esame, che si sostanzia nella conclusione di
due atti negoziali separati ma tra loro collegati per la
stessa volontà delle parti, ovvero l’atto unilaterale
d’obbligo e la convenzione, è riconducibile nell’alveo degli
strumenti propri della c.d. urbanistica contrattata, che non
violano il principio di legalità perché trovano la loro
copertura normativa nella previsione di strumenti
consensuali di esercizio delle potestà amministrative di cui
agli artt. 1, comma 1-bis, e 11 della legge 07.08.1990,
n. 241, ed il loro fondamento nel potere pianificatorio di
governo del territorio e nella possibilità di stipulare
accordi sostitutivi di provvedimenti (cfr. Corte
Costituzionale, 17.07.2017, n. 209; Consiglio di Stato, Sez. IV, 13.07.2010, n. 4545) ed è pertanto “la natura
facoltativa degli istituti perequativi de quibus, nel senso
che la loro applicazione è rimessa a una libera scelta degli
interessati, a escludere che negli stessi possa ravvisarsi
una forzosa ablazione della proprietà nonché, nel caso del
contributo straordinario, che si tratti di prestazione
patrimoniale imposta in violazione della riserva di legge ex
art. 23 Cost.” (in questi termini la sentenza del Consiglio
di Stato, Sez. IV 13.07.2010, n. 4545; nello stesso
senso si vedano anche le sentenze del Consiglio di Stato, Sez. V, 14.10.2014, n. 5072; Consiglio di Stato, Sez.
IV, 07.03.2018, n. 1475).
La tesi della nullità dell’atto unilaterale d’obbligo e
della convenzione perché l’obbligo di progettare e
realizzare la piazza di Mosnigo sarebbe priva di causa o
priva di fondamento normativo, deve pertanto essere
respinta, in quanto dalla documentazione versata in atti
risulta che vi è stata la consensuale e consapevole
assunzione di tale obbligo per una finalità perequativa
connessa ai benefici conseguenti all’accoglimento della
nuova ipotesi progettuale che ha beneficiato dei margini di
flessibilità introdotti dalla variante urbanistica approvata
con deliberazione consiliare n. 11 del 06.07.2009, e
dell’approvazione del piano attuativo in deroga alle
previsioni del piano regolatore che originariamente avevano
un valore prescrittivo inderogabile.
Peraltro un tale accordo non sarebbe neppure censurabile
sostenendo che il valore delle opere da realizzare eccede
quello previsto per gli oneri di urbanizzazione.
Infatti nelle convenzioni urbanistiche non è ravvisabile una
necessaria corrispondenza biunivoca e sinallagmatica tra il
valore delle prestazioni assunte, e che il privato è
pertanto obbligato ad eseguire puntualmente tutte le
prestazioni previste dalla Convenzione (cfr. Tar Lombardia,
Brescia, 25.07.2005, n. 784) senza che abbia alcun
rilievo la circostanza che queste possano eccedere,
originariamente o successivamente, gli oneri di
urbanizzazione (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 10.01.2003, n. 33; Tar Sicilia, Catania, III, 14.04.2011, n.
934).
Sul punto sembra pertanto sufficiente richiamare i principi
espressi in proposito dalla giurisprudenza proprio con
riguardo ad una censura di nullità di una convenzione
urbanistica, ai sensi degli artt. 1325 e 1418 c.c., nella
parte in cui prevedeva a carico del soggetto attuatore opere
per un valore eccedente quello degli oneri di urbanizzazione
(cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 22.01.2013, n. 351),
laddove ha affermato che “quanto a quest’ultimo profilo, ed
in via conclusiva, può richiamarsi un breve passaggio
motivazionale contenuto in una recente decisione della
Sezione (n. 2040/2011) che il Collegio condivide pienamente
e che ben si attaglia alla fattispecie in esame, essendosi
ivi precisato che la giurisprudenza si è oramai orientata
nell’affermare, all’interno delle convenzioni di
urbanizzazione, la prevalenza del profilo della libera
negoziazione. Infatti, si è affermato (Consiglio di Stato,
sez. V, 10.01.2003, n. 33; Consiglio di Stato, sez. IV,
28.07.2005, n. 4015) che, sebbene sia innegabile che la
convenzione di lottizzazione, a causa dei profili di stampo giuspubblicistico che si accompagnano allo strumento
dichiaratamente contrattuale, rappresenti un istituto di
complessa ricostruzione, non può negarsi che in questo si
assista all’incontro di volontà delle parti contraenti
nell'esercizio dell'autonomia negoziale retta dal codice
civile.
Ne deriva che l’argomento sostenuto nel ricorso in primo
grado, ossia che le clausole convenute, in quanto aggiuntive
rispetto agli oneri di urbanizzazione, riferiti ad opere e
servizi menzionati dalla normativa, non siano consentite,
con conseguente nullità delle stesse, non può essere
sostenuto, trattandosi di determinazione pattizia rimessa
alla contrattazione tra i due diversi soggetti coinvolti” (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 17.07.2018 n. 764 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Reati ambientali - Nozione di rifiuto - Gestione
non autorizzata e rilevanza della condotta assolutamente
occasionale - Artt. 183 e 256 d. lgs. n. 152/2006 -
Giurisprudenza.
Ai sensi dell'art. 183, comma 1, lett.
a), d.lgs. n. 152 del 2006, per "rifiuto" si intende
"qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi
o abbia l'intenzione o abbia l'obbligo di disfarsi".
Sicché, la rilevanza della "assoluta occasionalità", ai fini
dell'esclusione della tipicità del fatto in esame, deriva
non già da una arbitraria delimitazione interpretativa della
norma, bensì dal tenore della fattispecie penale, che,
punendo la "attività" di raccolta, trasporto, recupero,
smaltimento, commercio ed intermediazione, concentra il
disvalore d'azione su un complesso di azioni, che, dunque,
non può coincidere con la condotta assolutamente occasionale
(in tal senso, già Sez. 3, n. 5031 del 17/01/2012, Granata,
secondo cui "con il termine "attività" deve intendersi ogni
condotta che non sia caratterizzata da assoluta
occasionalità, mentre la norma non richiede ulteriori
requisiti di carattere soggettivo o oggettivo perché sia
integrata la fattispecie criminosa).
È dunque la descrizione normativa ad
escludere dall'area di rilevanza penale le condotte di
assoluta occasionalità.
RIFIUTI - Gestione dei rifiuti - Assoluta occasionalità
della condotta e natura giuridica del soggetto agente
(privato, imprenditore, ecc.) - Effetti - Presupposti per la
configurabilità del reato - Valutazione di fatto rimessa al
giudice del merito.
In tema di gestione dei rifiuti,
l'assoluta occasionalità non può essere ricavata
esclusivamente dalla natura giuridica del soggetto agente
(privato, imprenditore, ecc.), dovendo, invece, ritenersi
non integrata in presenza di una serie di indici dai quali
poter desumere un minimum di organizzazione che escluda la
natura solipsistica della condotta.
In particolare, ai fini della configurabilità del reato
previsto dall'art. 256 del d.lgs. 03.04.2006 n. 152, il
carattere non occasionale della condotta di trasporto
illecito di rifiuti può essere desunto da indici
sintomatici, quali la provenienza del rifiuto da una
attività imprenditoriale esercitata da chi effettua o
dispone l'abusiva gestione, la eterogeneità dei rifiuti
gestiti, la loro quantità, le caratteristiche del rifiuto
indicative di precedenti attività preliminari di prelievo,
raggruppamento, cernita, deposito
(Sez. 3, n. 36819 del 04/07/2017 - dep. 25/07/2017,
Ricevuti; in senso conforme, Sez. 3, n. 8193 del 11/02/2016
- dep. 29/02/2016, P.M. in proc. Revello, la quale ha
escluso l'occasionalità della condotta atteso che, pur
essendo stato effettuato il trasporto in un'unica occasione,
l'ingente quantità di rifiuti denotava lo svolgimento di
un'attività commerciale implicante un minimum di
organizzazione necessaria alla preliminare raccolta e
cernita dei materiali); altri elementi
indicativi per valutare l'occasionalità o meno del trasporto
possono trarsi dal dato ponderale dei rifiuti oggetto di
gestione, dalla disponibilità di un veicolo adeguato e
funzionale al trasporto di rifiuti, dal fine di profitto
perseguito.
Evidentemente, il profilo dell'assoluta occasionalità della
condotta è oggetto precipuo della valutazione di fatto
rimessa al giudice del merito, e dunque questione
essenzialmente probatoria, che, ove congruamente motivata,
non è suscettibile di censura in sede di legittimità (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.07.2018 n. 32180 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Secondo costante e condiviso orientamento
giurisprudenziale:
a) “la condanna del proprietario del suolo agli adempimenti
previsti dall'art. 192 del D.Lgs n. 152/2006 necessita di un
serio accertamento della sua responsabilità da effettuarsi
in contraddittorio, ancorché fondato su presunzioni e nei
limiti della esigibilità ove si ravvisi il titolo colposo di
tale responsabilità, non potendosi configurare, in assenza
di una apposita previsione di legge nazionale, alla stregua
del diritto europeo, una responsabilità del proprietario da
posizione”;
b) ed invero, “in tema di abbandono di rifiuti, la
titolarità del diritto di proprietà non vale, in tali
ipotesi, a fondare una responsabilità oggettiva o per fatto
altrui del proprietario”, “con conseguente esclusione della natura
di obbligazione propter rem dell'obbligo di ripristino del
fondo a carico del titolare di un diritto di godimento sul
bene”;
c) pertanto, ai sensi dell'art. 192, comma 3, d.lgs. n. 152
del 2006, nell'individuazione degli obblighi di rimozione e
smaltimento di rifiuti abbandonati su area di proprietà, è
“necessario che la responsabilità a titolo di dolo o di
colpa, sia accertata dai soggetti istituzionalmente preposti
al controllo, in particolare dal Comune, in contraddittorio
con i soggetti interessati”;
d) “non è, quindi, consentito di ritenere automaticamente
responsabile il proprietario dell'area su cui sono stati
abbandonati i rifiuti, salvo l'emersione di una colpa dello
stesso che può anche essere vista nella trascuratezza,
superficialità o anche indifferenza dello stesso che nulla
abbia fatto e non abbia adottato alcuna cautela volta ad
evitare che vi sia in concreto l'abbandono dei rifiuti”.
---------------
V.2.1. E’ fondata, con valore assorbente, la censura
relativa al difetto di istruttoria e di motivazione viziante
l’ordinanza gravata quanto al mancato accertamento
dell’imputabilità a titolo di dolo o colpa
dell’incontrollato sversamento.
V.2.2. In primo luogo, dalla documentazione fotografica in
atti e dalla planimetria allegata, emerge che i rifiuti
risultano allocati all’esterno del fondo in proprietà della
ricorrente, in prossimità del bordo stradale, sicché
opportuno, oltre che necessario, secondo il richiamato
disposto normativo, proprio ai fini dell’individuazione
della legittimazione passiva del destinatario dell’ordine,
sarebbe stato l’accertamento in contraddittorio sulla
effettiva ubicazione dei rifiuti, sulla proprietà della
strada interpoderale e sul suo effettivo utilizzo, esclusivo
o di uso pubblico, onde definire la spettanza degli oneri di
manutenzione.
V.2.3. Nell’atto impugnato non risulta, comunque,
dimostrata, a prescindere dall’accertamento del precedente
aspetto, l’imputabilità necessaria, quanto meno sotto il
profilo della colpa, a titolo di concorso, per l’imposizione
dell’obbligo di rimozione in capo all’odierna proprietaria.
L’Amministrazione intimata si è infatti limitata a riportare
le mere circostanze fattuali secondo le quali non è stato
possibile risalire all’autore dell’illecito sversamento e
che l’attuale ricorrente risulta essere proprietaria
catastale dell’area che sarebbe interessata dallo
sversamento.
Nella parte motiva, lo stesso organo procedente
ha, per inciso, meramente specificato che non competa ad
esso ente locale, “adottare misure preclusive all'accesso,
senza le quali potranno comunque continuare gli abbandoni
dei rifiuti”, ricorrendo, però, poi, ad una mera
presunzione, in assenza dell’allegazione di qualsiasi
elemento anche di natura indiziaria, circa l’attribuibilità,
sotto il profilo psicologico, dell’abusivo abbandono dei
rifiuti de quibus, in capo all’odierna ricorrente.
Né, a tale fine, può ritenersi idonea ad integrare, per relationem, la motivazione del gravato provvedimento la
previa comunicazione di avvio del procedimento finalizzato
all’adozione della misura di natura sanzionatoria, non
contenendo nemmeno questa elementi circa l’accertamento
della responsabilità dell’odierna ricorrente, essendo
riportata la sola circostanza del deposito incontrollato dei
suddetti rifiuti (cf. nota prot. n. 78613 del 26.10.2016, con
richiamo al verbale dei VV.UU – Polizia Ambientale del
10.10.2016).
La garanzia della partecipazione procedimentale non esime,
in ogni caso, l’Amministrazione, cui compete la vigilanza
sul territorio e l’adozione delle conseguenti misure
repressive e ripristinatorie, dall’accertamento, in materia
ambientale, delle effettive responsabilità quanto
all’illegittimo abbandono dei materiali in oggetto.
V.2.4. Orbene, secondo costante e condiviso orientamento
giurisprudenziale, infatti:
a) “la condanna del proprietario del suolo agli adempimenti
previsti dall'art. 192 del D.Lgs n. 152/2006 necessita di un
serio accertamento della sua responsabilità da effettuarsi
in contraddittorio, ancorché fondato su presunzioni e nei
limiti della esigibilità ove si ravvisi il titolo colposo di
tale responsabilità, non potendosi configurare, in assenza
di una apposita previsione di legge nazionale, alla stregua
del diritto europeo, una responsabilità del proprietario da
posizione” (Cons. di St., sez. IV, 07.06.2018, n. 3430);
b) ed invero, “in tema di abbandono di rifiuti, la
titolarità del diritto di proprietà non vale, in tali
ipotesi, a fondare una responsabilità oggettiva o per fatto
altrui del proprietario” (TAR Calabria, Reggio Calabria, 05.06.2018, n. 303), “con conseguente esclusione della natura
di obbligazione propter rem dell'obbligo di ripristino del
fondo a carico del titolare di un diritto di godimento sul
bene” (TAR Campania, Napoli, sez. V, 06.02.2018, n. 752);
c) pertanto, ai sensi dell'art. 192, comma 3, d.lgs. n. 152
del 2006, nell'individuazione degli obblighi di rimozione e
smaltimento di rifiuti abbandonati su area di proprietà, è
“necessario che la responsabilità a titolo di dolo o di
colpa, sia accertata dai soggetti istituzionalmente preposti
al controllo, in particolare dal Comune, in contraddittorio
con i soggetti interessati” (TAR Sicilia, Palermo, sez.
I, 28.05.2018, n. 1203);
d) “non è, quindi, consentito di ritenere automaticamente
responsabile il proprietario dell'area su cui sono stati
abbandonati i rifiuti, salvo l'emersione di una colpa dello
stesso che può anche essere vista nella trascuratezza,
superficialità o anche indifferenza dello stesso che nulla
abbia fatto e non abbia adottato alcuna cautela volta ad
evitare che vi sia in concreto l'abbandono dei rifiuti”
(TAR Campania, Napoli, Sez. V, 06.02.2018, n. 752; TAR
Lombardia, Milano, sez. III, 08.03.2018 n. 651) (TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 11.07.2018 n. 4599 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Gestione abusiva di rifiuti (rottami ferrosi) -
Iscrizione all'albo dei gestori ambientali - Assenza -
Attività di raccolta e trasporto di rifiuti urbani e
speciali prodotti da terzi - articoli 208, 209, 211, 212,
214, 215 e 216 256 d.lgs. n. 152/2006 - Giurisprudenza.
La condotta sanzionata dall'art. 256,
comma 1, d.lgs. n. 152/2006, è riferibile a chiunque svolga,
in assenza del prescritto titolo abilitativo, una attività
rientrante tra quelle assentibili ai sensi degli articoli
208, 209, 211, 212, 214, 215 e 216 del medesimo decreto,
anche di fatto o in modo secondario o consequenziale
all'esercizio di una attività primaria diversa, che
richieda, per il suo esercizio, uno dei titoli abilitativi
indicati e che non sia caratterizzata da assoluta
occasionalità.
Pertanto, ai fini della configurabilità del reato di
gestione abusiva di rifiuti, non rileva la qualifica
soggettiva dell'agente, bensì la concreta attività posta in
essere in assenza dei prescritti titoli abilitativi, che può
essere svolta anche di fatto o in modo secondario, purché
non sia caratterizzata da assoluta occasionalità, da
escludersi in ragione dell'esistenza di una minima
organizzazione dell'attività, del quantitativo dei rifiuti
gestiti, della predisposizione di un veicolo adeguato e
funzionale al loro trasporto, dello svolgimento in più
occasioni delle operazioni preliminari di raccolta,
raggruppamento e cernita dei soli metalli, della successiva
vendita e del fine di profitto perseguito dall'imputato.
RIFIUTI - Gestione abusiva - Reato istantaneo - Elementi per
escludere l’occasionalità - Giurisprudenza.
In tema di rifiuti la violazione
dell'art. 256, comma 1, d.lgs. 152/2006, ha natura di reato
istantaneo, sicché, è sufficiente anche una sola condotta
integrante una delle ipotesi alternative previste dalla
norma, potendosi tuttavia escludere l'occasionalità della
condotta da dati significativi, quali l'ingente quantità di
rifiuti, denotanti lo svolgimento di un'attività implicante
un "minimum" di organizzazione necessaria alla preliminare
raccolta e cernita dei materiali.
Pertanto, agli elementi significativi utili per individuare
la natura non occasionale dell'attività di trasporto, vanno
considerati, anche alternativamente, altri elementi
univocamente sintomatici, quali, ad esempio, la provenienza
del rifiuto da una determinata attività imprenditoriale
esercitata da colui che effettua o dispone l'abusiva
gestione, la eterogeneità dei rifiuti gestiti, la loro
quantità. le caratteristiche del rifiuto quando risultino
indicative di precedenti attività preliminari, quali
prelievo, raggruppamento, cernita, deposito
(Cass. Sez. 3, n. 36819 del 4/7/2017, Ricevuti) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.07.2018 n. 31396 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Scarico di acque reflue di
prima pioggia e/o di dilavamento - Autorizzazione dell'ente
competente - Effetti e limiti della disciplina regionale -
Gestione delle acque di prima pioggia e di lavaggio da aree
esterne - Fattispecie: distributore carburanti, area
utilizzata come stallo o parcheggio - Artt. 137 d.lgs. n.
152/2006.
L'art. 137, comma
9 d.lgs. 152/2006 con le sanzioni stabilite dal primo comma,
punisce, chiunque non ottempera alla disciplina dettata
dalle regioni ai sensi dell'articolo 113, comma 3, il quale,
a sua volta, prevede che le regioni disciplinino i casi in
cui può essere richiesto che le acque di prima pioggia e di
lavaggio delle aree esterne siano convogliate e
opportunamente trattate in impianti di depurazione per
particolari condizioni nelle quali, in relazione alle
attività svolte, vi sia il rischio di dilavamento da
superfici impermeabili scoperte di sostanze pericolose o di
sostanze che creano pregiudizio per il raggiungimento degli
obiettivi di qualità dei corpi idrici.
Nella specie, tuttavia, il Tribunale pur dando atto del
contenuto della deliberazione, (della giunta regionale
dell'Emilia Romagna 14.02.2005, n. 286 "Direttiva
concernente indirizzi per la gestione delle acque di prima
pioggia e di lavaggio da aree esterne"), e segnatamente
delle esenzioni in essa previste, nonché della dimostrata
destinazione dell'area a mero stallo o parcheggio, perviene
poi a conclusioni che con tale disposizioni risultano porsi
in evidente contrasto, valorizzando una "destinazione a
pertinenza di altre attività principali" dell'area in
questione che non trova riscontro nelle precedenti
affermazioni nelle quali detta area si assume essere
destinata esclusivamente a parcheggio, circostanza questa,
che avrebbe comportato l'esenzione dagli obblighi ritenuti
violati (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.07.2018 n. 31389 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Gestione abusiva - Condotta sanzionata - Natura di
reato istantaneo - Presupposti che escludono l’occasionalità
del trasporto e dati indicativi della non occasionalità -
Poteri del giudice - Artt. 208, 209, 211, 212, 214, 215, 216
e 256 d.lgs. n. 152/2006 - Giurisprudenza.
La condotta sanzionata dall'art. 256,
comma 1, d.lgs. 152/2006, è riferibile a chiunque svolga, in
assenza del prescritto titolo abilitativo, una attività
rientrante tra quelle assentibili ai sensi degli articoli
208, 209, 211, 212, 214, 215 e 216 del medesimo decreto,
anche di fatto o in modo secondario o consequenziale
all'esercizio di una attività primaria diversa che richieda,
per il suo esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati e
che non sia caratterizzata da assoluta occasionalità.
Trattandosi, nel caso dell'art. 256, comma 1, d.lgs.
152/2006, di reato istantaneo, è sufficiente anche una sola
condotta integrante una delle ipotesi alternative previste
dalla norma, potendosi tuttavia escludere l'occasionalità
della condotta da dati significativi, quali l'ingente
quantità di rifiuti, denotanti lo svolgimento di un'attività
implicante un "minimum" di organizzazione necessaria alla
preliminare raccolta e cernita dei materiali
(Sez. 3, n. 8193 del 11/02/2016, P.M. in proc. Revello).
L'occasionalità è stata esclusa, oltre che
sulla base dell'esistenza di una minima organizzazione
dell'attività, anche considerando il quantitativo dei
rifiuti gestiti, la predisposizione di un veicolo adeguato e
funzionale al loro trasporto, lo svolgimento in tre distinte
occasioni delle operazioni preliminari di raccolta,
raggruppamento e cernita dei soli metalli, la successiva
vendita ed il fine di profitto perseguito dall'imputato
(Sez. 3, n. 5716 del 07/01/2016, P M. in proc. lsoardi).
Pertanto, agli elementi significativi
indicati per individuare la natura non occasionale del
trasporto vanno considerati, anche alternativamente, altri
elementi univocamente sintomatici, quali, ad esempio, la
provenienza del rifiuto da una determinata attività
imprenditoriale esercitata da colui che effettua o dispone
l'abusiva gestione, la eterogeneità dei rifiuti gestiti, la
loro quantità, le caratteristiche del rifiuto quando
risultino indicative di precedenti attività preliminari,
quali prelievo, raggruppamento, cernita, deposito
(Sez. 3, n. 36819 del 04/07/2017, Ricevuti).
L'indicazione dei dati indicativi della non
occasionalità della condotta precedentemente elencati non
sono, ovviamente, esaustivi, ben potendo il giudice far
ricorso ad altri elementi obiettivamente significativi in
relazione al caso concreto (Corte
di cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.07.2018 n. 31387 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Gli oneri di
urbanizzazione hanno natura di corrispettivo di diritto
pubblico e sono commisurati al costo delle opere da
realizzare nella zona, in quanto rappresentano un
corrispettivo delle spese che la collettività affronta per
il conferimento al soggetto privato del diritto
all'edificazione.
Tali oneri hanno, in sostanza, la funzione di recuperare le
spese sostenute dalla collettività comunale per la
trasformazione del territorio a seguito della concessione
del diritto di edificazione al privato, il quale ha l'onere
di partecipare ai costi delle opere di urbanizzazione
connessi all'edificazione, proporzionalmente all'insieme dei
benefici che la nuova costruzione ne trae.
---------------
Osserva preliminarmente il Collegio che gli oneri di
urbanizzazione hanno natura di corrispettivo di diritto
pubblico e sono commisurati al costo delle opere da
realizzare nella zona, in quanto rappresentano un
corrispettivo delle spese che la collettività affronta per
il conferimento al soggetto privato del diritto
all'edificazione; tali oneri hanno, in sostanza, la funzione
di recuperare le spese sostenute dalla collettività comunale
per la trasformazione del territorio a seguito della
concessione del diritto di edificazione al privato, il quale
ha l'onere di partecipare ai costi delle opere di
urbanizzazione connessi all'edificazione, proporzionalmente
all'insieme dei benefici che la nuova costruzione ne trae
(V. Tar Piemonte–Torino, sez. II, 04.04.2018, n. 416) (TAR
Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 09.07.2018 n. 1475 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Tanto in caso di ampliamento e ristrutturazione
edilizia quanto in caso di mutamento d'uso “urbanisticamente
rilevante” il titolare del permesso di costruire è soggetto
ad un obbligo contributivo solo “differenziale”, ossia
parametrato sul conguaglio tra gli oneri di urbanizzazione
dovuti per l'edificio preesistente e quelli dell'edificio
rinnovato ovvero (in caso di cambio d'uso) sulla differenza
tra gli oneri dovuti per la destinazione originaria e quelli
più elevati del nuovo uso.
Invero, il cambio di destinazione d'uso oggetto di
concessione edilizia, per di più se accompagnato da
interventi edilizi interni, comporta l'imposizione di oneri
integrativi di urbanizzazione. Infatti, una diversa
utilizzazione dell'area interessata, determina una
variazione quantitativa e qualitativa del carico
urbanistico.
Il “criterio differenziale” opera anche se per la
costruzione dell'immobile non venne originariamente
corrisposto alcun onere, trattandosi di costruzione (e
concessione edilizia) anteriore all’entrata in vigore della
l. n. 10/1977.
La questione è stata oggetto di più ampio approfondimento da
parte del Cons. di Stato, ove si afferma che qualora la
costruzione dell’immobile sia avvenuta in un’epoca in cui
non vigeva ancora l’istituto del contributo concessorio, “il
relativo onere deve ritenersi assolto virtualmente, giacché,
in difetto di un’imputazione virtuale del pregresso, alla
sopravvenuta disciplina impositiva verrebbe data
un’inammissibile applicazione retroattiva”.
---------------
Pur avendo gli oneri di urbanizzazione natura di
obbligazioni propter rem, il contributo afferente
all’originario permesso di costruire è dovuto
dall'intestatario del titolo edilizio, da colui al quale
esso è volturato e da chi concretamente esegue le opere di
trasformazione urbana, ma non anche dall'acquirente
dell'edificio già costruito che non abbia partecipato
all'attività edificatoria e quindi, ad avviso del Collegio,
nemmeno da colui che abbia acquisito la disponibilità
dell’immobile mediante in locazione finanziaria e abbia
ottenuto un nuovo permesso di costruire per effettuare
lavori funzionali alla modifica della destinazione d’uso
dell’immobile.
---------------
Secondo il prevalente orientamento della giurisprudenza
amministrativa, che il Collegio ritiene di condividere,
tanto in caso di ampliamento e ristrutturazione edilizia
quanto in caso di mutamento d'uso “urbanisticamente
rilevante” il titolare del permesso di costruire è
soggetto ad un obbligo contributivo solo “differenziale”,
ossia parametrato sul conguaglio tra gli oneri di
urbanizzazione dovuti per l'edificio preesistente e quelli
dell'edificio rinnovato ovvero (in caso di cambio d'uso)
sulla differenza tra gli oneri dovuti per la destinazione
originaria e quelli più elevati del nuovo uso; invero, il
cambio di destinazione d'uso oggetto di concessione
edilizia, per di più se accompagnato da interventi edilizi
interni, comporta l'imposizione di oneri integrativi di
urbanizzazione. Infatti, una diversa utilizzazione dell'area
interessata, determina una variazione quantitativa e
qualitativa del carico urbanistico (v. Cons. Stato, Sez. V,
23.05.1997 n. 529; Cons. St., Sez. V, 13.05.2014, n. 2437;
Tar Sicilia–Palermo, sez. II, 09.04.2014, n. 976; Tar Emilia
Romagna-Parma, 12.11.2013 n. 329).
D’altra parte, nel caso di specie risulta incontestato tra
le parti che l’immobile di cui trattasi è stato realizzato
anteriormente all’entrata in vigore della l. n. 10/1977 e
quindi, non è stato soggetto ad alcun onere concessorio.
Sotto tale profilo questo Tar (v. sentenza sez. I,
06.11.2015, n. 2587) ha già avuto modo di affermare che il “criterio
differenziale” opera anche se per la costruzione
dell'immobile non venne originariamente corrisposto alcun
onere, trattandosi di costruzione (e concessione edilizia)
anteriore all’entrata in vigore della l. n. 10/1977.
La questione è stata oggetto di più ampio approfondimento da
parte del Cons. di Stato (v. sentenza, sez. VI, 02.07.2015,
n. 3298), ove si afferma che qualora la costruzione
dell’immobile sia avvenuta in un’epoca in cui non vigeva
ancora l’istituto del contributo concessorio, “il
relativo onere deve ritenersi assolto virtualmente, giacché,
in difetto di un’imputazione virtuale del pregresso, alla
sopravvenuta disciplina impositiva verrebbe data
un’inammissibile applicazione retroattiva”.
Peraltro, pur avendo gli oneri di urbanizzazione natura di
obbligazioni propter rem, il contributo afferente
all’originario permesso di costruire è dovuto
dall'intestatario del titolo edilizio, da colui al quale
esso è volturato e da chi concretamente esegue le opere di
trasformazione urbana, ma non anche dall'acquirente
dell'edificio già costruito che non abbia partecipato
all'attività edificatoria (v. Tar Salerno, Campania, sez. I,
19/11/2015, n. 2453) e quindi, ad avviso del Collegio,
nemmeno da colui che, come è avvenuto nel caso di specie,
abbia acquisito la disponibilità dell’immobile mediante in
locazione finanziaria e abbia ottenuto un nuovo permesso di
costruire per effettuare lavori funzionali alla modifica
della destinazione d’uso dell’immobile (TAR Sicilia-Catania,
Sez. I,
sentenza 09.07.2018 n. 1475 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Gestione abusiva di rifiuti - Attività in concorso
di raccolta e trasporto di rifiuti non occasionale -
Partecipazione morale e materiale - Realizzazione di una
discarica non autorizzata - Fattispecie: trasporti non
occasionali di rifiuti effettuati in concorso - Art. 256
d.lgs. n. 152/2006.
Configura il reato di cui all'art. 256,
comma 1, lettera A), (e comma 3), d.lgs. 152/2006,
l'attività non occasionale di raccolta e trasporto di
rifiuti non pericolosi senza la prevista autorizzazione.
Fattispecie: trasporti effettuati in concorso, a volte dal
ricorrente e altre volte da altro soggetto con l'accordo del
ricorrente e con la spartizione del pagamento (dato fattuale
la piena partecipazione morale e materiale dell'appellante
ai trasporti effettuate dall'altro soggetto fornendo il
veicolo per gli illeciti trasporti e dividendo il prezzo del
reato commesso).
I rifiuti infatti, sono stati «trasportati in modo
permanente ed organizzato da più persone a scopo di lucro,
realizzando così una discarica non autorizzata, e dunque, in
specie, con tutta evidenza non sussiste alcuna occasionalità
nella condotta» (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.07.2018 n. 30627 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
RIFIUTI - Combustione di residui vegetali - Reato di
smaltimento non autorizzato di rifiuti speciali non
pericolosi - Onere della prova della liceità - INCENDI
BOSCHIVI - Abbruciamento in periodo vietato - Alto rischio
di incendi boschivi - Art. 182, 185, 256-bis d.lgs. n.
152/2006 - Giurisprudenza.
In tema di gestione dei rifiuti, l'onere
della prova relativa alla sussistenza delle condizioni di
liceità delle attività di raggruppamento ed incenerimento di
residui vegetali previste dall'art. 182, comma sesto bis,
primo e secondo periodo, d.lgs. 03.04.2006 n. 152 incombe su
colui che ne invoca l'applicazione»
(Sez. 3, n. 5504 del 12/01/2016 - dep. 10/02/2016, Lazzarini).
Pertanto, integra il reato di smaltimento
non autorizzato di rifiuti speciali non pericolosi, di cui
all'art. 256, comma, lett. a), d.lgs. 03.04.2006 n. 152, la
combustione di residui vegetali effettuata senza titolo
abilitativo nel luogo di produzione oppure di materiale
agricolo o forestale naturale, anche derivato da verde
pubblico o privato, se commessa al di fuori delle condizioni
previste dall'articolo 182, comma 6-bis, primo e secondo
periodo; viceversa la combustione di rifiuti urbani
vegetali, abbandonati o depositati in modo incontrollato,
provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi e aree
cimiteriali, è punita esclusivamente in via amministrativa,
ai sensi dell'art. 255 del citato d.lgs. n. 152»
(Sez. 3, n. 38658 del 15/06/2017 - dep. 02/08/2017, Pizzo).
RIFIUTI - AGRICOLTURA - Abbruciamento di materiale agricolo
forestale naturale - Nuova disciplina - Combustione di
residui vegetali - Criteri e limiti.
La normativa applicabile al settore
agricolo, con la legge 11.08.2014, n. 116, ha subito una
modifica mediante l'introduzione di ipotesi di esclusione
della punibilità, con l'aggiunta del comma 6-bis, all'art.
182 e con la modifica del comma 6, dell'art. 256-bis, d.lgs.
152/2006.
Le sanzioni penali per la combustione illecita di rifiuti
non si applicano, pertanto, all'abbruciamento di materiale
agricolo forestale naturale, anche derivato dal verde
pubblico o privato.
Le stesse costituiscono normali pratiche agricole consentite
per il reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o
ammendanti, e non attività di gestione di rifiuti, purché
relativa ad una quantità giornaliera non superiore a 3 metri
steri, per ettaro.
Inoltre, è la stessa norma dell'art. 182, comma 6-bis,
d.lgs. 152/2006 a prevedere espressamente il divieto di
combustione nei periodi di massimo rischio per gli incendi;
periodo dichiarato dalle Regioni, nel caso la regione
Campania ha determinato il periodo del divieto dal 22 luglio
al 30.09.2013, con il Decreto Presidenziale n. 157 del
18.07.2013.
INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Getto pericoloso di cose art. 674
c.p. - Presupposti ed accertamento del reato - Convincimento
del giudice fondato su qualsiasi mezzo di prova.
Il reato di cui all'articolo 674, cod.
pen. sussiste laddove le emissioni di gas, vapore o fumo
siano atte ad offendere o molestare le persone, dovendo
farsi rientrare nel concetto di molestia tutte le situazioni
di fastidio, disagio, disturbo e comunque di turbamento
della tranquillità e della quiete.
Sicché, per l'accertamento del reato di cui all'art. 674,
cod. pen. non è necessaria nessuna perizia, ma il giudice
può fondare il proprio convincimento sulla base di altre
prove, nel caso di specie le dichiarazioni testimoniali
della P.G. che ha riferito del «tanto fumo»
(Sez. 3, n. 5504 del 12/01/2016 - dep. 10/02/2016, Lazzarini) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.07.2018 n. 30625 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Realizzazione di un deposito incontrollato di
rifiuti speciali pericolosi - Abbandono di rifiuti -
Produzione e deposito di terzi all'insaputa del proprietario
- APPALTI - Contratto di appalto per lo smaltimento di
rifiuti - Ditta Inadempiente - Effetti - Responsabilità
colposa dell'appaltante - Artt. 192, 256 d.lgs. n. 152/2006
- Art. 40 c.p..
In materia di rifiuti, l'esclusione
dell'applicazione dell'art. 40, cod. pen. è relativa alla
produzione e deposito di terzi all'insaputa del
proprietario.
Pertanto, non è configurabile in forma omissiva il reato di
cui all'art. 256, comma secondo, D.Lgs. n. 152 del 2006, nei
confronti del comproprietario di un terreno sul quale il
coniuge abbia abbandonato o depositato rifiuti in modo
incontrollato, anche nel caso in cui non si attivi per la
rimozione dei rifiuti (in motivazione, la Corte ha affermato
che tale responsabilità sussiste solo in presenza di un
obbligo giuridico di impedire la realizzazione o il
mantenimento dell'evento lesivo, che il proprietario può
assumere solo ove compia atti di gestione o movimentazione
dei rifiuti e che non può invece fondarsi sull'esistenza del
rapporto di coniugio)
(Sez. 3, n. 28704 del 05/04/2017 - dep. 09/06/2017,
Andrisani e altro).
Nella specie: il fatto che l'impresa
incaricata allo smaltimento nel giugno 2009 (dunque circa
nove mesi prima l'accertamento del reato) sia stata (asseritamente)
inadempiente (circostanza questa peraltro solo dedotta, ma
non adeguatamente provata), tale inadempimento non fa in
ogni caso venir meno la responsabilità colposa del'appellante,
il quale ha evidentemente quantomeno omesso con imprudenza,
negligenza ed imperizia, di verificare per almeno nove mesi
lo smaltimento asserita mente richiesto.
Sicché, l'eventuale colpa della ditta incaricata per lo
smaltimento (inadempiente), non esenta da responsabilità il
ricorrente (appaltante) per una sua colpa (in vigilando),
pur risultando solo accessoria alla già individuata
responsabilità diretta, e comunque non illogica o errata
giuridicamente (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.07.2018 n. 30624 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Gestione abusiva di rifiuti - Qualifica soggettiva
del soggetto agente - Irrilevanza - Concreta attività posta
in essere in assenza dei prescritti titoli abilitativi -
Trasporto non autorizzato - Reato istantaneo - Elementi per
escludere l'assoluta occasionalità - Art. 256 d.lgs. n. n.
152/2006.
Ai fini della configurabilità del reato
di gestione abusiva di rifiuti, non rileva la qualifica
soggettiva del soggetto agente, bensì la concreta attività
posta in essere in assenza dei prescritti titoli
abilitativi, che può essere svolta anche di fatto o in modo
secondario, purché non sia caratterizzata da assoluta
occasionalità, da escludersi in ragione dell'esistenza di
una minima organizzazione dell'attività, del quantitativo
dei rifiuti gestiti, della predisposizione di un veicolo
adeguato e funzionale al loro trasporto, dello svolgimento
in più occasioni delle operazioni preliminari di raccolta,
raggruppamento e cernita dei soli metalli, della successiva
vendita e dal fine di profitto perseguito dall'imputato
(Sez. 3, n. 5716 del 711/2016, P.M. in proc. lsoardi).
Nel caso dell'art 256, comma 1, d.lgs. n.
152/2006, di reato istantaneo, è sufficiente anche una sola
condotta integrante una delle ipotesi alternative previste
dalla norma, potendosi tuttavia escludere l'occasionalità
della condotta da dati significativi, quali l'ingente
quantità di rifiuti, denotanti lo svolgimento di un'attività
implicante un "minimum" di organizzazione necessaria alla
preliminare raccolta e cernita dei materiali
(Sez. 3, n. 8193 del 11/02/2016, P.M. in proc. Revello).
Sicché, oltre agli elementi significativi
indicati per individuare la natura non occasionale
dell'attività di trasporto vanno considerati, anche
alternativamente, altri dati univocamente sintomatici,
quali, ad esempio, la provenienza del rifiuto da una
determinata attività imprenditoriale esercitata da colui che
effettua o dispone l'abusiva gestione, la eterogeneità dei
rifiuti gestiti, la loro quantità, le caratteristiche del
rifiuto quando risultino indicative di precedenti attività
preliminari, quali prelievo, raggruppamento, cernita,
deposito (Sez. 3,
n. 36819 del 04/07/2017, Ricevuti).
RIFIUTI - Attività di gestione di rifiuti non autorizzata -
Condotta sanzionata - Assenza del prescritto titolo
abilitativo e assoluta occasionalità - Artt. 208, 209, 211,
212, 214, 215 e 216 D.lgs. n. n. 152/2006.
Ai sensi dell'art. 256, comma 1, d.lgs.
152/2006, la condotta sanzionata è riferibile a chiunque
svolga, in assenza del prescritto titolo abilitativo, una
attività rientrante tra quelle assentibili ai sensi degli
articoli 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216 del
medesimo decreto, anche di fatto o in modo secondario o
consequenziale all'esercizio di una attività primaria
diversa che richieda, per il suo esercizio, uno dei titoli
abilitativi indicati e che non sia caratterizzata da
assoluta occasionalità
(Cass. Sez. 3, n. 29992 del 24/06/2014, P.M. in proc.
Lazzaro) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 05.07.2018 n. 30180 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Attività di raccolta e trasporto in forma
ambulante di rifiuti (pezzi di motore ed i pneumatici) -
Operabilità e limiti del regime derogatorio - Iscrizione
all'albo speciale - Artt. 181, 188, 208, 256, 266, d.lgs.
152/2006.
In tema di rifiuti, il reato di cui
all'art. 256 D.Lgs. 03.04.2006, n. 152 è configurabile anche
in relazione alle condotte non autorizzate di raccolta e
trasporto di rifiuti metallici esercitate in forma
ambulante, pur se poste in essere prima dell'entrata in
vigore del comma 1-bis dell'art. 188 del predetto D.Lgs.,
introdotto dalla L. n. 221 del 2015.
Pertanto, a seguito di tale modifica normativa -che ha
escluso l'applicabilità, per le attività ambulanti di
raccolta e trasporto di rifiuti metallici, dell'esenzione
dagli ordinari obblighi gravanti sui gestori ambientali,
prevista dall'art. 266, comma quinto, D.Lgs. n. 152- la
valutazione della rilevanza penale delle condotte anteriori
alla novella richiede tuttora l'accertamento dell'esistenza
e validità del titolo abilitativo al commercio e della
riconducibilità del rifiuto all'attività autorizzata, mentre
tale verifica non occorre per le condotte successive, avuto
riguardo all'inapplicabilità "tout court" della deroga di
cui al citato comma quinto dell'art. 266
(Cass. Sez. 3, n. 23908 del 19/04/2016 - dep. 09/06/2016,
P.M. in proc. Butera e altri; Cass. Sez. 3, n. 19209 del
16/03/2017 - dep. 21/04/2017, Tutone e altri).
Nella specie: in particolare per i pezzi di
motore ed i pneumatici, trattandosi di rifiuti
specificamente regolamentati deve escludersi la liceità
della condotta, relativamente alla sussistenza del titolo
abilitativo di commercio ambulante (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 05.07.2018 n. 30167 - link a www.ambientediritto.it). |
SICUREZZA LAVORO:
SICUREZZA SUL LAVORO - Datore di lavoro - Responsabilità -
Prevenzione delle condizioni di rischio insite nella
possibile negligenza, imprudenza o imperizia degli stessi
lavoratori - Obblighi e limiti - Oneri probatori posti a
carico del datore di lavoro - Individuazione dei presupposti
del c.d. rischio elettivo - Nesso eziologico tra prestazione
ed attività assicurata - Giurisprudenza - DIRITTO
PROCESSUALE CIVILE - Erronea intitolazione - Causa di
inammissibilità - Esclusione - Art. 2087 c.c. - Art. 360, c.1
n.3, c.p.c. - Fattispecie: infortunio mortale occorso prima
dell'orario fissato per l'intervento.
Il datore di lavoro è tenuto a prevenire
anche le condizioni di rischio insite nella possibile
negligenza, imprudenza o imperizia degli stessi lavoratori,
quali destinatari della tutela
(Cass. 04/12/2013, n. 27127; Cass. 25/02/2011, n. 4656),
dimostrando, secondo l'assetto giuridico posto
dall'art. 2087 c.c., di aver messo in atto ogni mezzo
preventivo idoneo a scongiurare che, alla base di eventi
infortunistici, possano esservi comportamenti colposi dei
lavoratori.
Unico limite, all'art. 2087 c.c., è quello del comportamento
del lavoratore -c.d. rischio elettivo- che ponga in essere
una "condotta personalissima... avulsa dall'esercizio della
prestazione lavorativa o ad essa riconducibile, esercitata
ed intrapresa volontariamente in base a ragioni e a
motivazioni del tutto personali, al di fuori dell'attività
lavorativa e prescindendo da essa, come tale idonea ad
interrompere il nesso eziologico tra prestazione ed attività
assicurata (Cass.
05/09/2014, n. 18786; Cass. 22/02/2012, n. 2642; Cass.
24/09/2010, n. 20221).
Infine, l'erronea intitolazione non è causa
di inammissibilità qualora dall'articolazione argomentativa
siano chiaramente individuabili i tipi di vizio denunciato
nei termini della denuncia di errori di diritto (art. 360,
primo comma n. 3, c.p.c.). Fattispecie: infortunio mortale
occorso al lavoratore, investito da un treno allorquando
stava operando un controllo, prima dell'orario fissato per
l'intervento, sugli scambi ferroviari che, dopo
l'interruzione della circolazione dei treni, sarebbero
dovuti servire per far passare carrelli e motoscale di una
ditta da un binario all'altro per operazioni di sostituzione
dei cavi della linea elettrica (Corte
di Cassazione, Sez. lavoro,
ordinanza 18.06.2018 n. 16026 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La
chiusura delle finestre che risulta negli elaborati grafici
e nelle fotografie allegati alla richiesta di permesso di
costruire per la realizzazione di un ascensore, costituisce
una variazione del prospetto dell’edificio, che rileva come
intervento di ristrutturazione edilizia, ai sensi della
lett. c) dell’art. 10, d.P.R. n. 380 del 2001.
Tali
interventi possono essere realizzati, in base all’art. 23,
comma 1, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001, anche mediante
SCIA, in alternativa al permesso di costruire.
Ne deriva
l’applicazione dell’art. 33 del citato d.P.R. n. 380, come
espressamente previsto dal comma 6-bis del medesimo art. 33,
con conseguente applicazione del comma 2 dell’art. 33, per
cui, qualora, sulla base di motivato accertamento
dell’Ufficio Tecnico comunale, il ripristino dello stato dei
luoghi non sia possibile, il dirigente o il responsabile
dell’ufficio irroga una sanzione pecuniaria pari al doppio
dell’aumento di valore dell’immobile, conseguente alla
realizzazione delle opere.
---------------
Le conclusioni sopra raggiunte lasciano fuori, per ciò che concerne gli
abusi riscontrati, dal Comune, al piano terra e al piano
primo dell’edificio di proprietà dei ricorrenti, soltanto la
“variazione delle aperture in prospetto” al piano terra e al
piano primo, nonché la realizzazione del balcone al piano
primo – lato strada (originariamente previsto lungo tutto il
fronte del fabbricato, ma realizzato in due porzioni,
separate tra loro); variazioni dei prospetti per le quali,
analogamente, l’Amministrazione ha ritenuto necessario –nel
provvedimento gravato– il previo rilascio del p. di c.
Relativamente a tali variazioni dei prospetti, parte
ricorrente, onde escludere la possibilità d’ordinarne la
demolizione, ha negato –nel terzo motivo di gravame– che
ci si trovi in presenza di variazioni essenziali, come sopra
delineate.
La tesi non convince.
La norma (art. 32 cpv. T.U.Ed.), che esclude dal novero
delle variazioni essenziali “quelle che incidono sulla
entità delle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla
distribuzione interna delle singole unità abitative”, non
pare, infatti, applicabile alla specie (trattandosi di
modifiche al prospetto dell’edificio).
Piuttosto, va tenuta presente la massima seguente (“La
chiusura delle finestre che risulta negli elaborati grafici
e nelle fotografie allegati alla richiesta di permesso di
costruire per la realizzazione di un ascensore, costituisce
una variazione del prospetto dell’edificio, che rileva come
intervento di ristrutturazione edilizia, ai sensi della
lett. c) dell’art. 10, d.P.R. n. 380 del 2001. Tali
interventi possono essere realizzati, in base all’art. 23,
comma 1, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001, anche mediante
SCIA, in alternativa al permesso di costruire. Ne deriva
l’applicazione dell’art. 33 del citato d.P.R. n. 380, come
espressamente previsto dal comma 6-bis del medesimo art. 33,
con conseguente applicazione del comma 2 dell’art. 33, per
cui, qualora, sulla base di motivato accertamento
dell’Ufficio Tecnico comunale, il ripristino dello stato dei
luoghi non sia possibile, il dirigente o il responsabile
dell’ufficio irroga una sanzione pecuniaria pari al doppio
dell’aumento di valore dell’immobile, conseguente alla
realizzazione delle opere” – TAR Lazio–Roma, Sez. II,
06/12/2017, n. 12096).
Pertanto, per tali variazioni prospettiche, ferma restando
la loro illegittimità nei sensi, specificati nella massima
citata, la questione si sposta sul piano applicativo,
essendo necessario, in chiave conformativa, un accertamento
dell’Ufficio Tecnico Comunale, circa la possibilità o meno
del ripristino dello stato dei luoghi, con conseguente
monetizzazione dell’illecito edilizio, ove il ripristino non
sia valutato come possibile.
L’esito della valutazione di cui sopra, del resto, senza
voler incidere su poteri amministrativi, non ancora
esercitati, pare al Tribunale piuttosto scontato, nel senso
dell’impossibilità materiale del ripristino dello stato
originario dei luoghi, se solo si pone mente alla
circostanza che le variazioni “delle aperture in prospetto”,
al piano terra e al piano primo, è conseguente (testuale)
alla “diversa distribuzione degli spazi interni”, la quale –per ammissione dello stesso Comune– è realizzabile mediante
semplice c.i.l.a.: non si vede, allora, come potrebbe
legittimarsi detta differente distribuzione degli spazi
interni, ma contestualmente ordinare il ripristino delle
(correlativamente differenti) aperture sui prospetti, che ne
sono derivate.
Quanto, invece, al balcone al piano primo, lato strada,
realizzato in due parti separate piuttosto che lungo tutto
il fronte del fabbricato, francamente non si vede cosa
potrebbe opporsi ad una monetizzazione dell’illecito
edilizio, alternativo al ripristino dello stato di progetto
(tenendo presente che, in linea generale, il più contiene il
meno)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 13.06.2018 n. 930 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La realizzazione di autorimesse
e parcheggi, ai sensi dell’art. 9, comma 1, l. n. 122 del
1989, condizionata dal fatto che questi siano realizzati nel
sottosuolo per l’intera altezza, opera solo nel caso in cui
i parcheggi da destinare a pertinenza di singole unità
immobiliari siano totalmente al di sotto dell’originario
piano naturale di campagna.
Qualora, invece, non si rispetti
tale condizione, la realizzazione di un’autorimessa non può
dirsi realizzata nel sottosuolo, per cui in tali casi si
applica la disciplina urbanistica dettata per le ordinarie
nuove costruzioni fuori terra dal P.R.G., anche per quanto
concerne il pagamento dei contributi concessori.
Tale
approdo è stato condiviso dalla uniforme giurisprudenza di
merito e non si pone alcuna problematica di interpretazione
«restrittiva della norma»
---------------
Il concetto di pertinenza, previsto dal diritto civile, va
distinto dal più ristretto concetto di pertinenza inteso in
senso edilizio e urbanistico, che non trova applicazione in
relazione a quelle costruzioni che, pur potendo essere
qualificate come beni pertinenziali secondo la normativa
privatistica, assumono tuttavia una funzione autonoma
rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro
assoggettamento al regime del permesso di costruire, come
nel caso di una tettoia in ferro di rilevanti dimensioni.
---------------
Resta, a
questo punto, soltanto da esaminare, relativamente alla
“sistemazione esterna” del fabbricato, escluse le opere per
le quali lo stesso Comune ha ritenuto non necessario il p.
di c., la sorte delle due tettoie, la prima in ferro a una
falda e la seconda, sempre in ferro, a due falde, realizzate
dai ricorrenti quali “accessori” del fabbricato principale
(così, testualmente, nell’ordinanza impugnata).
Al riguardo, i ricorrenti medesimi, pur riservandosi di
presentare istanza di sanatoria al riguardo, hanno
patrocinato –segnatamente, nella quinta censura dell’atto
introduttivo del giudizio– la riconduzione di entrambe le
tettoie de quibus alla nozione di parcheggi pertinenziali
(la prima per auto; la seconda per motorini), ex art. 9,
commi 1 e 2, della legge Tognoli (l. 122/1989), il quale
dispone: "1. I proprietari di immobili possono realizzare
nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano
terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza
delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli
strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti.
Tali parcheggi possono essere realizzati, ad uso esclusivo
dei residenti, anche nel sottosuolo di aree pertinenziali
esterne al fabbricato, purché non in contrasto con i piani
urbani del traffico, tenuto conto dell’uso della superficie
sovrastante e compatibilmente con la tutela dei corpi
idrici. Restano in ogni caso fermi i vincoli previsti dalla
legislazione in materia paesaggistica ed ambientale ed i
poteri attribuiti dalla medesima legislazione alle regioni e
ai Ministeri dell’ambiente e per i beni culturali ed
ambientali da esercitare motivatamente nel termine di 90
giorni. I parcheggi stessi, ove i piani urbani del traffico
non siano stati redatti, potranno comunque essere realizzati
nel rispetto delle indicazioni di cui al periodo precedente.
2. L’esecuzione delle opere e degli interventi previsti dal
comma 1 è soggetta a segnalazione certificata di inizio
attività”.
La tesi non può essere accolta.
La fermissima giurisprudenza dei G.A., infatti, ha
statuito, al riguardo, che: “La realizzazione di autorimesse
e parcheggi, ai sensi dell’art. 9, comma 1, l. n. 122 del
1989, condizionata dal fatto che questi siano realizzati nel
sottosuolo per l’intera altezza, opera solo nel caso in cui
i parcheggi da destinare a pertinenza di singole unità
immobiliari siano totalmente al di sotto dell’originario
piano naturale di campagna. Qualora, invece, non si rispetti
tale condizione, la realizzazione di un’autorimessa non può
dirsi realizzata nel sottosuolo, per cui in tali casi si
applica la disciplina urbanistica dettata per le ordinarie
nuove costruzioni fuori terra dal P.R.G., anche per quanto
concerne il pagamento dei contributi concessori. Tale
approdo è stato condiviso dalla uniforme giurisprudenza di
merito e non si pone alcuna problematica di interpretazione
«restrittiva della norma»” (TAR Lombardia–Milano, Sez. II, 31/01/2018, n. 274).
Nella specie, quindi, trattandosi di tettoie, edificate –evidentemente– fuori terra, e di non irrilevanti dimensioni
(la prima di mt. 4,25 per 5,80; la seconda di mt. 5,00 per
5,00), non può condividersi la ricostruzione dogmatica,
proposta dai ricorrenti, con conseguente necessità –per le
stesse– del rilascio di permesso di costruire (in
giurisprudenza: “Il concetto di pertinenza, previsto dal
diritto civile, va distinto dal più ristretto concetto di
pertinenza inteso in senso edilizio e urbanistico, che non
trova applicazione in relazione a quelle costruzioni che,
pur potendo essere qualificate come beni pertinenziali
secondo la normativa privatistica, assumono tuttavia una
funzione autonoma rispetto ad altra costruzione, con
conseguente loro assoggettamento al regime del permesso di
costruire, come nel caso di una tettoia in ferro di
rilevanti dimensioni” – TAR Campania–Napoli, Sez. II,
30/01/2015, n. 601).
Per tale parte, quindi, l’ordinanza di demolizione resta in
vigore (ferma restando, ovviamente, la possibilità, per i
ricorrenti, ove non l’abbiano già fatto, di presentare al
riguardo richiesta di sanatoria, se naturalmente ne
sussistano i presupposti)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 13.06.2018 n. 930 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Espropriazione per pubblico utilità - Determinazione
dell'indennità di espropriazione - Procedimento di
liquidazione - Fattispecie: Terreno espropriato - Inclusione
in fascia di rispetto stradale - Non edificabilità -
Fondamento - Limitazione legale della proprietà -
Giurisprudenza - Art. 37 del d.P.R. n. 327/2001.
In tema di espropriazione per pubblica
utilità, l'inclusione del terreno espropriato in una fascia
di rispetto stradale vale a qualificarlo come non
edificabile, ai fini della determinazione dell'indennità di
espropriazione, trattandosi di una limitazione legale della
proprietà, avente carattere generale, in quanto concernente,
sotto il profilo soggettivo, tutti i cittadini proprietari
di determinati beni che si trovino nella medesima situazione
e, sotto il profilo oggettivo, beni immobili individuati a
priori per categoria derivante dalla loro posizione o
localizzazione rispetto a un'opera pubblica stradale o
ferroviaria, non rilevando in senso contrario che il terreno
sia collocato all'interno di un piano di insediamento
industriale (P.I.P.) o di un piano di edilizia economica e
popolare (P.E.E.P.). Rammentando altresì che «la
determinazione dell'indennità di espropriazione deve
avvenire sulla base dell'accertamento delle possibilità
legali di edificazione al momento del decreto espropriativo
e non della contrapposizione tra vincoli conformativi ed
espropriativi.
Ove la natura edificatoria sia del tutto esclusa in
applicazione del parametro stabilito dall'art. 37 del d.P.R.
n. 327 del 2001, perché l'area risulti sottoposta ad un
vincolo di inedificabilità assoluta previsto dalla normativa
statale o regionale od alle previsioni di qualsiasi atto di
programmazione o di pianificazione del territorio che abbia
precluso il rilascio di atti abilitativi della realizzazione
di edifici manufatti di natura privata, deve essere
applicato, in virtù dello ius superveniens costituito dalla
sentenza della Corte cost. n. 181 del 2011, il criterio del
valore venale pieno considerando, a tale fine, le
possibilità di utilizzazioni intermedie tra l'agricola e
l'edificatoria -parcheggi, depositi, chioschi, ecc.-, purché
assentite dalla normativa vigente.»
(Sez. 1, 13/10/2017, n. 24150).
Espropriazione per pubblico utilità - Determinazione
dell'indennità - Potere-dovere del giudice - Individuazione
del criterio legale applicabile alla procedura ablatoria.
Nei giudizi per la determinazione
dell'indennità di esproprio, il giudice ha il potere-dovere
di individuare il criterio legale applicabile alla procedura
ablatoria sulla base delle caratteristiche del fondo
espropriato, senza essere vincolato dalle prospettazioni
delle parti, né alla quantificazione della somma contenuta
nell'atto di citazione, dovendo questa essere liquidata in
riferimento a detti criteri, con conseguente accoglimento o
rigetto della domanda a seconda che venga accertata come
dovuta un'indennità maggiore o minore di quella censurata
(Corte
di Cassazione, Sez. I civile,
ordinanza 06.06.2018 n. 14632 - link a www.ambientediritto.it). |
URBANISTICA:
Piani regolatori delle aree e dei nuclei di sviluppo
industriale (P.R. A.S.I.) - Funzione di strutture idonee per
le localizzazioni industriali e diritto di proprietà sui
suoli interessati.
I piani regolatori delle aree e dei
nuclei di sviluppo industriale, in genere, non hanno per
oggetto la disciplina del territorio in funzione di tutta la
gamma di interessi che gravitano sul territorio, ma in
funzione dell'interesse di dotarlo di strutture idonee per
le localizzazioni industriali, producendo, una volta
approvati, gli stessi effetti giuridici del piano
territoriale di coordinamento, con obbligo di adeguamento
degli strumenti urbanistici, ai quali soli peraltro -pur
vincolati all'adeguamento predetto- pertiene la
qualificazione urbanistica della zona e la conformazione
normativa del diritto di proprietà sui suoli interessati
(Corte di
Cassazione, Sez. I civile,
ordinanza 06.06.2018 n. 14632 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Prg e vincoli paesaggistici -
Qualifica di oneri non apparenti gravanti sull'immobile -
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Previsioni del piano
regolatore generale - Contenuto normativo con efficacia "erga
omnes" - Effetti - Presunzione legale di conoscenza da
parte dei destinatari - Configurabilità - Riferimenti
normativi - Art. 1489 c.c. - Giurisprudenza.
I vincoli paesaggistici, inseriti nelle
previsioni del piano regolatore generale, una volta
approvati e pubblicati, hanno valore di prescrizione di
ordine generale a contenuto normativo con efficacia "erga
omnes", come tale assistita da una presunzione legale di
conoscenza assoluta da parte dei destinatari, sicché i
vincoli così imposti, a differenza di quelli introdotti con
specifici provvedimenti amministrativi a carattere
particolare, non possono qualificarsi come oneri non
apparenti gravanti sull'immobile, ai sensi dell'art. 1489
c.c., e non sono, conseguentemente, invocabili dal
compratore quale fonte di responsabilità del venditore che
non li abbia eventualmente dichiarati nel contratto
(Massime precedenti Conformi: Sez. 2, n. 2737, 23/02/2012;
conf., Sez. 2, n. 5561, 19/03/2015).
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - DIRITTO URBANISTICO -
EDILIZIA - Presunzione assoluta di conoscenza del vincolo di
inedificabilità gravante su un immobile e certificato di
destinazione urbanistica - Vincoli imposti da specifico
provvedimento amministrativo - Differenza.
La presunzione assoluta di conoscenza
del vincolo di inedificabilità gravante su un immobile ha
efficacia "erga omnes" quando esso sia stato imposto dalla
legge o da un atto avente portata normativa, quale il piano
regolatore, nel quale il vincolo sia stato inserito.
Quando invece il vincolo risulti imposto in forza di uno
specifico provvedimento amministrativo, stante il carattere
particolare, e non generale e normativo, dell'atto
impositivo, può presumersene la conoscenza solo da parte del
proprietario del bene, che, quale soggetto interessato, può
venirne a conoscenza con l'ordinaria diligenza, ma non anche
da parte del compratore, il quale quindi può far valere nei
confronti del venditore l'obbligo di garanzia derivante
dall'art. 1489 cod. civ..
Sicché, si deve escludersi la conoscenza per presunzione di
legge, su quei vincoli apposti ai beni da provvedimenti
amministrativi specifici, privi di portata generale.
Nella specie, la circostanza che nel certificato di
destinazione urbanistica fosse segnata sommariamente
l'esistenza dei predetti, perciò solo, non ne muta la
natura: non può, invero, che trattarsi di una annotazione
pro memoria, che non può reputarsi scaturigine di fonte di
produzione (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 04.06.2018 n. 14289 - link a www.ambientediritto.it). |
VARI:
DIRITTO PROCESSUALE CIVILE - Interpretazione data dal
giudice di merito ad un contratto - Ricorso in cassazione -
Limiti.
Per sottrarsi al sindacato di
legittimità, l'interpretazione data dal giudice di merito ad
un contratto non deve essere l'unica interpretazione
possibile, o la migliore in astratto, ma una delle
possibili, e plausibili, interpretazioni; sicché, quando di
una clausola contrattuale sono possibili due o più
interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva
proposto l'interpretazione poi disattesa dal giudice di
merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse
stata privilegiata l'altra
(Sez. 3, n. 24539, 20/11/2009; conformi: Sez. 1, n. 16254,
25/09/2012; Sez. 1, n. 6125, 17/03/2014; Sez. 1, n. 27136,
15/11/2017).
In altri termini, deve affermarsi che: non
può essere in sede di legittimità censurato il risultato
opinabile, ma non implausibile, dell'interpretazione del
negozio operato dal giudice, bensì gli strumenti ermeneutici
utilizzati, i quali debbono conformarsi alle indicazioni di
legge.
DIRITTO PROCESSUALE CIVILE - Ermeneutica del negozio o
clausola contrattuale - Clausole generiche o di mero stile e
canone della buona fede - Criterio di autoresponsabilità e
principio dell'affidamento - Natura di oneri non apparenti
ex art. 1489 c.c. - Esclusione.
Il contratto d'acquisto di un bene
immobile gravato da oneri o da diritti, non solo reali, ma
anche personali, non percepibili mediante l'ordinario
esercizio sensoriale (non apparenti), <<che ne diminuiscono
il libero godimento>>, non dichiarati e non conosciuti dal
compratore, può essere risolto su domanda di quest'ultimo
(art. 1489, cod. civ.).
Pertanto, l'espressa dichiarazione del venditore che il bene
compravenduto è libero da oneri o diritti reali o personali
di godimento esonera l'acquirente dall'onere di qualsiasi
indagine, operando a suo favore il principio
dell'affidamento nell'altrui dichiarazione, con l'effetto
che se la dichiarazione è contraria al vero, il venditore è
responsabile nei confronti della controparte tanto se i pesi
sul bene erano dalla stessa facilmente conoscibili, quanto,
a maggior ragione, se essi non erano apparenti.
Di conseguenza, resta irrilevante anche la trascrizione del
vincolo non dichiarato, per conoscere il quale l'acquirente,
a dispetto della mancata contemplazione negoziale, che
dovrebbe metterlo al sicuro, si deve attivare attraverso una
specifica indagine. Di talché, ai fini della responsabilità
per garanzia ex art. 1489 c.c., è irrilevante che
l'acquirente sia stato in grado di conoscere, mediante
l'esame dei registri immobiliari, l'esistenza di
trascrizioni ed iscrizioni pregiudizievoli, quando il
venditore abbia affermato, contro il vero, l'inesistenza di
diritti altrui e di oneri sulla cosa alienata, ovvero ne
abbia taciuto l'esistenza.
Diversamente deve concludersi, nel differente caso in cui si
tratti di oneri e diritti apparenti, che risultino cioè da
opere visibili e permanenti destinate al loro esercizio,
senza che rilevi la dichiarazione del venditore della
inesistenza di pesi od oneri sul bene medesimo, non
operando, in tal caso, il principio dell'affidamento giacché
il compratore, avendo la possibilità di esaminare la cosa
prima dell'acquisto, ove abbia ignorato ciò che poteva ben
conoscere in quanto esteriormente visibile, deve subire le
conseguenze della propria negligenza, secondo il criterio di
autoresponsabilità
(Sez. 2, n. 57, 04/01/2018, Rv. 646615).
DIRITTO PROCESSUALE CIVILE - Risoluzione per inadempimento
di un contratto - Obbligazione risarcitoria e risarcimento
del danno - Onere della prova da parte richiedente.
In caso di risoluzione per inadempimento
di un contratto, le restituzioni a favore della parte
adempiente non ineriscono ad un'obbligazione risarcitoria,
derivando dal venir meno, per effetto della pronuncia
costitutiva di risoluzione, della causa delle reciproche
obbligazioni e, quando attengono a somme di danaro, danno
luogo a debiti non di valore ma di valuta, non soggetti a
rivalutazione monetaria, se non nei termini del maggior
danno rispetto a quello ristorato con gli interessi legali,
ai sensi dell'art. 1224 cod. civ.; danno che va, peraltro,
provato dalla parte richiedente (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 04.06.2018 n. 14289 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Come la giurisprudenza ha evidenziato in numerose
occasioni, già nel vigore della precedente disciplina, in caso di rinvenimento
di rifiuti depositati da parte di terzi ignoti, il
proprietario non può essere chiamato a rispondere della
fattispecie di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti
sulla propria area se non viene individuato a suo carico
l’elemento soggettivo del dolo o della colpa, per cui lo
stesso soggetto non può essere destinatario di ordinanza
sindacale di rimozione e rimessione in pristino.
Tanto perché l’art. 14 D.L.vo 05.02.1997, n. 22, in
tema di divieto di abbandono incontrollato sul suolo e nel
suolo, oltre a chiamare a rispondere dell’illecito
ambientale l’eventuale “responsabile dell’inquinamento”,
accolla in solido anche al proprietario dell’area la
rimozione, l’avvio a recupero o lo smaltimento dei rifiuti
ed il ripristino dello stato dei luoghi, ma ciò solo nel
caso in cui la violazione sia imputabile a titolo di dolo o
di colpa.
---------------
Tale rigorosa disciplina trova conferma nel sistema
normativo attualmente vigente, quale quello del D.L.vo n.
152/2006, segnatamente del disposto di cui all’art. 192, in
tema di ambiente, con la conseguente illegittimità degli
ordini di smaltimento dei rifiuti indiscriminatamente
rivolti al proprietario di un fondo in ragione della sua
mera qualità ed in mancanza di adeguata dimostrazione da
parte dell’Amministrazione procedente, sulla base di
un’istruttoria completa e di un’esauriente motivazione,
dell’imputabilità soggettiva della condotta.
In siffatto disposto normativo, tutto incentrato su una
rigorosa tipicità dell’illecito ambientale, alcun spazio v’è
per una responsabilità oggettiva, nel senso che -ai sensi
dell’art. 192 cit.- per essere ritenuti responsabili della
violazione dalla quale è scaturita la situazione di
inquinamento, occorre quantomeno la colpa. E tale regola di
imputabilità a titolo di dolo o colpa non ammette eccezioni,
anche in relazione ad un’eventuale responsabilità solidale
del proprietario dell’area ove si è verificato l’abbandono
ed il deposito incontrollato di rifiuti sul suolo e nel
suolo.
---------------
Si è altresì evidenziato che il dovere di diligenza che
fa carico al titolare del fondo, non può arrivare al punto
di richiedere un costante vigilanza, da esercitarsi giorno e
notte, per impedire ad estranei di invadere l’area e, per
quanto riguarda la fattispecie regolata dall’art. 14, comma
3, del D.L.vo n. 22 del 1997 (ora art. 192 del D.L.vo n. 152
del 2006) di abbandonarvi rifiuti. La richiesta di un
impegno di tale entità travalicherebbe oltremodo gli
ordinari canoni della diligenza media (e del buon padre di
famiglia) che è alla base della nozione di colpa.
Ne deriva che ove non sia comprovata l’esistenza di un
nesso causale tra la condotta del proprietario e l’abusiva
immissione di rifiuti nell’ambiente, un concreto obbligo di
garanzia a carico del medesimo, per la mera qualità di
proprietaria/custode, è inesigibile, in quanto riconducibile
ad una responsabilità oggettiva che, però, esula anche dal
dovere di custodia di cui all’art. 2051 cod. civ., il quale
consente sempre la prova liberatoria in presenza di caso
fortuito (da intendersi in senso ampio, comprensiva anche
del fatto del terzo e della colpa esclusiva del
danneggiato).
La responsabilità del proprietario del fondo o del titolare
di altro diritto reale o personale non è infatti una
responsabilità oggettiva, presupponendo il dolo o la colpa
del coobbligato solidale e l'accertamento in contraddittorio
con i soggetti interessati dei presupposti di questa forma
di responsabilità.
La Sezione peraltro non ignora che secondo altro
orientamento giurisprudenziale "l'art. 192 del testo unico n.
152 del 2006 attribuisca rilievo alla negligenza del
proprietario, che -a parte i casi di connivenza o di
complicità negli illeciti- si disinteressi del proprio bene
per una qualsiasi ragione e resti inerte, senza affrontare
concretamente la situazione, ovvero la affronti con misure
palesemente inadeguate”; per cui “il requisito della colpa postulato
da detta norma ben può consistere proprio nell'omissione
degli accorgimenti e delle cautele che l'ordinaria diligenza
suggerisce per realizzare un'efficace custodia e protezione
dell'area, così impedendo che possano essere in essa
indebitamente depositati rifiuti nocivi”.
Peraltro l’accertamento dell’elemento soggettivo, anche
sotto il profilo della sufficienza dell’adozione da parte
del proprietario delle normali misure di diligenza, quale ad
esempio la recinzione del fondo, profilo questo neppure
menzionato nella gravata ordinanza, presuppone, per espresso
dettato dell’art. 192, comma 3, D.lgs. 152/2006
“l’accertamento in contraddittorio”.
Ed invero, come di recente osservato, “L’obbligo di diligenza va valutato
secondo criteri di ragionevole esigibilità, con la
conseguenza che va esclusa la responsabilità per colpa anche
quando sarebbe stato possibile evitare il fatto solo
sopportando un sacrificio obiettivamente sproporzionato.
In tale ottica si è pertanto affermato che anche la mancata
recinzione del fondo -con effetto contenitivo dubitabile,
atteso che non sempre la presenza di una recinzione è di
ostacolo allo sversamento dei rifiuti- non potrebbe
comunque costituire di per sé prova della colpevolezza del
proprietario, rappresentando la recinzione una facoltà e non
un obbligo.
Insomma è ben diverso il mantenere in stato di corretta
manutenzione e di pulizia le opere gestite dal rimuovere gli
effetti prodotti sulle opere gestite da atti illeciti
commessi da terzi ignoti”.
Pertanto dai principi desumibili expressis verbis dall’art.
192 D.lgs. 152/2006 si evince, quale corollario:
a) l’insufficienza, ai fini degli obblighi di rimozione e
smaltimento, della sola titolarità del diritto reale o di
godimento sulle aree interessate dall’abbandono dei rifiuti,
atteso che la disposizione richiede la sussistenza
dell’elemento psicologico;
b) la necessità dell’accertamento della
responsabilità soggettiva, in contraddittorio con i soggetti
interessati, da parte dei soggetti preposti al controllo.
---------------
Ineludibile pertanto si rileva, nel dettato dell’art. 192,
comma 3, D.L.vo n. 152/2006, il ricorso all’accertamento in
contraddittorio, quale presupposto per l’adozione delle
relative ordinanze.
Al riguardo, mentre l’art. 7 della legge n. 241/1990, con
previsione di carattere generale, prescrive la doverosa
comunicazione dell’avvio del procedimento agli interessati,
l’art. 192, comma 3, D.L.vo n. 152/2006, nella specifica
materia ambientale, prescrive che i controlli svolti
dall’Amministrazione riguardo all’abbandono di rifiuti
debbano essere effettuati in contraddittorio con i soggetti
interessati, con la conseguente osservanza delle regole che
garantiscono la partecipazione dell’interessato
all’istruttoria amministrativa.
Pertanto, deve ritenersi la
necessità, nella specifica materia ambientale,
dell’accertamento in contraddittorio della condizione dei
luoghi, prospettato dalla legge come specifico dovere
dell'Amministrazione che si aggiunge, in subiecta materia,
al generale dovere di comunicare l'avvio del procedimento,
postulando la necessità che al proprietario o al titolare di
altro diritto reale o di godimento sull’area oggetto
dell’abbandono dei rifiuti sia data la possibilità di
partecipare attivamente alla stessa istruttoria
amministrativa e ai sopralluoghi volti ad accertare la
prospettata situazione di abbandono di rifiuti, oltre che,
più in generale, lo stato dei luoghi.
---------------
Ai fini dell’adozione dell’ordinanza ex art. 192 Dlgs.
152/2006 occorre la precisa individuazione del titolo di
responsabilità ed in particolare occorre che il soggetto
destinatario sia esattamente individuato:
- o quale soggetto responsabile dell’abbandono dei rifiuti,
- ovvero che lo stesso sia ritenuto responsabile perché
proprietario, titolare di altro diritto reale o il titolare
di un rapporto anche di fatto con il fondo, al quale
l’abbandono dei rifiuti da parte di terzi sia imputabile a
titolo di dolo (per conoscenza e connivenza nell’abbandono)
ovvero a titolo di colpa (per trascuratezza nella cura del
bene, tale da rendere possibile detto abbandono).
---------------
L’accertamento in contradditorio costituisce, ai sensi del
più volte richiamato art. 192, comma 3, Dlgs. 152/2006,
elemento costitutivo per la nascita dell’obbligo di
ripristino, in assenza della quale non può dirsi sorta
alcuna obbligazione trasmissibile iure hereditario.
---------------
8. I motivi di ricorso, in quanto strettamente connessi e
fondati sul rilievo del difetto dei presupposti per
l’adozione dell’ordinanza ex art. 192 Dlgs. 152/2006, avuto
riguardo ai profili di responsabilità individuati
nell’ordinanza in capo ai ricorrenti -in proprio e quali
eredi della proprietaria del fondo sig.ra Ad.Pi. e sia
a titolo commissivo che quale proprietaria o titolari di un
rapporto di fatto con il fondo cui l’abbandono dei rifiuti
da parte di altri sia ascrivibile per dolo e/o colpa-
possono essere esaminati congiuntamente ed in ordine logico.
9. Al riguardo si rileva che, come la giurisprudenza ha
evidenziato in numerose occasioni, già nel vigore della
precedente disciplina (ex multis, Cfr.: TAR Campania,
sez. V, 06.10.2008, n. 13004), in caso di rinvenimento
di rifiuti depositati da parte di terzi ignoti, il
proprietario non può essere chiamato a rispondere della
fattispecie di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti
sulla propria area se non viene individuato a suo carico
l’elemento soggettivo del dolo o della colpa, per cui lo
stesso soggetto non può essere destinatario di ordinanza
sindacale di rimozione e rimessione in pristino (Cfr.:
TAR Campania, Sez. I; 19.03.2004, n. 3042, TAR
Toscana, 12.05.2003, n. 1548, C. di S., IV Sez. 20.01.2003, n. 168).
Tanto perché l’art. 14 D.L.vo 05.02.1997, n. 22, in
tema di divieto di abbandono incontrollato sul suolo e nel
suolo, oltre a chiamare a rispondere dell’illecito
ambientale l’eventuale “responsabile dell’inquinamento”,
accolla in solido anche al proprietario dell’area la
rimozione, l’avvio a recupero o lo smaltimento dei rifiuti
ed il ripristino dello stato dei luoghi, ma ciò solo nel
caso in cui la violazione sia imputabile a titolo di dolo o
di colpa (Cfr.: TAR Lombardia, Sez. I, 26.01.2000,
n. 292 e TAR Umbria 10.03.2000, n. 253).
9.1. Tale rigorosa disciplina trova conferma nel sistema
normativo attualmente vigente, quale quello del D.L.vo n.
152/2006, segnatamente del disposto di cui all’art. 192, in
tema di ambiente, con la conseguente illegittimità degli
ordini di smaltimento dei rifiuti indiscriminatamente
rivolti al proprietario di un fondo in ragione della sua
mera qualità ed in mancanza di adeguata dimostrazione da
parte dell’Amministrazione procedente, sulla base di
un’istruttoria completa e di un’esauriente motivazione,
dell’imputabilità soggettiva della condotta (Cfr. C. di S.,
V, 19.03.2009, n. 1612, 25.08.2008, n. 4061).
In siffatto disposto normativo, tutto incentrato su una
rigorosa tipicità dell’illecito ambientale, alcun spazio v’è
per una responsabilità oggettiva, nel senso che -ai sensi
dell’art. 192 cit.- per essere ritenuti responsabili della
violazione dalla quale è scaturita la situazione di
inquinamento, occorre quantomeno la colpa. E tale regola di
imputabilità a titolo di dolo o colpa non ammette eccezioni,
anche in relazione ad un’eventuale responsabilità solidale
del proprietario dell’area ove si è verificato l’abbandono
ed il deposito incontrollato di rifiuti sul suolo e nel
suolo (TAR Campania, sez. V 03/03/2014 n. 1294).
9.2. Si è altresì evidenziato che il dovere di diligenza che
fa carico al titolare del fondo, non può arrivare al punto
di richiedere un costante vigilanza, da esercitarsi giorno e
notte, per impedire ad estranei di invadere l’area e, per
quanto riguarda la fattispecie regolata dall’art. 14, comma
3, del D.L.vo n. 22 del 1997 (ora art. 192 del D.L.vo n.
152 del 2006) di abbandonarvi rifiuti. La richiesta di un
impegno di tale entità travalicherebbe oltremodo gli
ordinari canoni della diligenza media (e del buon padre di
famiglia) che è alla base della nozione di colpa (Cfr., ex plurimis: C. di S., Sez. V,
08.03.2005, n. 935; TAR
Campania, Sez. V, 05.08.2008, n. 9795; TAR Campania, sez. V
03/03/2014 n. 1294 cit.).
9.3. Ne deriva che ove non sia comprovata l’esistenza di un
nesso causale tra la condotta del proprietario e l’abusiva
immissione di rifiuti nell’ambiente, un concreto obbligo di
garanzia a carico del medesimo, per la mera qualità di
proprietaria/custode, è inesigibile, in quanto riconducibile
ad una responsabilità oggettiva che, però, esula anche dal
dovere di custodia di cui all’art. 2051 cod. civ., il quale
consente sempre la prova liberatoria in presenza di caso
fortuito (da intendersi in senso ampio, comprensiva anche
del fatto del terzo e della colpa esclusiva del
danneggiato). La responsabilità del proprietario del fondo o
del titolare di altro diritto reale o personale non è
infatti una responsabilità oggettiva, presupponendo il dolo
o la colpa del coobbligato solidale e l'accertamento in
contraddittorio con i soggetti interessati dei presupposti
di questa forma di responsabilità (TAR Napoli, sez. V,
15/06/2017, n. 3307).
La Sezione peraltro non ignora che secondo altro
orientamento giurisprudenziale "l'art. 192 del testo unico n.
152 del 2006 attribuisca rilievo alla negligenza del
proprietario, che -a parte i casi di connivenza o di
complicità negli illeciti- si disinteressi del proprio bene
per una qualsiasi ragione e resti inerte, senza affrontare
concretamente la situazione, ovvero la affronti con misure
palesemente inadeguate” (Cons. di St., sez. V, 10.06.2014 n. 2977); per cui “il requisito della colpa postulato
da detta norma ben può consistere proprio nell'omissione
degli accorgimenti e delle cautele che l'ordinaria diligenza
suggerisce per realizzare un'efficace custodia e protezione
dell'area, così impedendo che possano essere in essa
indebitamente depositati rifiuti nocivi” (TAR Calabria,
Reggio Calabria, sez. I, 03.08.2015 n. 809; nello stesso
senso, TAR Campania, Napoli, Sez. V, 23.03.2015, n. 1692;
TAR Marche, Ancona, sez. I, 06.03.2015, n. 189).
Peraltro l’accertamento dell’elemento soggettivo, anche
sotto il profilo della sufficienza dell’adozione da parte
del proprietario delle normali misure di diligenza, quale ad
esempio la recinzione del fondo, profilo questo neppure
menzionato nella gravata ordinanza, presuppone, per espresso
dettato dell’art. 192, comma 3, D.lgs. 152/2006
“l’accertamento in contraddittorio”.
Ed invero, come di recente osservato (TAR Bari, sez. I,
24/03/2017, n. 287) “L’obbligo di diligenza va valutato
secondo criteri di ragionevole esigibilità, con la
conseguenza che va esclusa la responsabilità per colpa anche
quando sarebbe stato possibile evitare il fatto solo
sopportando un sacrificio obiettivamente sproporzionato.
In tale ottica si è pertanto affermato che anche la mancata
recinzione del fondo -con effetto contenitivo dubitabile,
atteso che non sempre la presenza di una recinzione è di
ostacolo allo sversamento dei rifiuti- non potrebbe
comunque costituire di per sé prova della colpevolezza del
proprietario, rappresentando la recinzione una facoltà e non
un obbligo.
Insomma è ben diverso il mantenere in stato di corretta
manutenzione e di pulizia le opere gestite dal rimuovere gli
effetti prodotti sulle opere gestite da atti illeciti
commessi da terzi ignoti (Cons. Stato n. 705/2016)”.
Pertanto dai principi desumibili expressis verbis dall’art.
192 D.lgs. 152/2006 si evince, quale corollario (TAR
Bari, sez. I, 24/03/2017, n. 287):
a) l’insufficienza, ai fini degli obblighi di rimozione e
smaltimento, della sola titolarità del diritto reale o di
godimento sulle aree interessate dall’abbandono dei rifiuti,
atteso che la disposizione richiede la sussistenza
dell’elemento psicologico;
b) la necessità dell’accertamento della responsabilità
soggettiva, in contraddittorio con i soggetti interessati,
da parte dei soggetti preposti al controllo (Cons. Stato,
Sez. V, n. 705/2016; in termini cfr. Tar Campania Napoli Sez.
V, n. 12/2016; Tar Puglia-Lecce, Sez. I, nn. 1023/2016;
945/2016; Tar Sardegna, Sez. I, n. 253/2016; Tar Toscana,
Sez. II, n. 1068/2016).
Ineludibile pertanto si rileva, nel dettato dell’art. 192,
comma 3, D.L.vo n. 152/2006, il ricorso all’accertamento in
contraddittorio, quale presupposto per l’adozione delle
relative ordinanze.
Al riguardo, mentre l’art. 7 della legge n. 241/1990, con
previsione di carattere generale, prescrive la doverosa
comunicazione dell’avvio del procedimento agli interessati,
l’art. 192, comma 3, D.L.vo n. 152/2006, nella specifica
materia ambientale, prescrive che i controlli svolti
dall’Amministrazione riguardo all’abbandono di rifiuti
debbano essere effettuati in contraddittorio con i soggetti
interessati, con la conseguente osservanza delle regole che
garantiscono la partecipazione dell’interessato
all’istruttoria amministrativa (ex multis TAR Campania,
sez. V 03/03/2014 n. 1294).
Pertanto, come osservato dal Consiglio di Stato (ordinanza,
sez. IV, n. 2000 del 12.05.2017), deve ritenersi la
necessità, nella specifica materia ambientale,
dell’accertamento in contraddittorio della condizione dei
luoghi, prospettato dalla legge come specifico dovere
dell'Amministrazione che si aggiunge, in subiecta materia,
al generale dovere di comunicare l'avvio del procedimento,
postulando la necessità che al proprietario o al titolare di
altro diritto reale o di godimento sull’area oggetto
dell’abbandono dei rifiuti sia data la possibilità di
partecipare attivamente alla stessa istruttoria
amministrativa e ai sopralluoghi volti ad accertare la
prospettata situazione di abbandono di rifiuti, oltre che,
più in generale, lo stato dei luoghi.
10. Ciò posto, i motivi di ricorso sono fondati alla stregua
di quanto di seguito precisato.
11. In primo luogo vi è da osservare che la responsabilità
dei ricorrenti, sia in proprio che quali eredi della
proprietaria del fondo, per contro mai entrato nel loro
patrimonio in quanto venduto prima del decesso dalla de cuius, viene desunta sulla base del dato -ritenuto dal
Comune come certo- che l’interramento dei rifiuti, sulla
base degli accertamenti svolti dall’ARPAC, risalirebbe al
1994 epoca in cui la disponibilità del fondo era in capo
alla proprietaria sig.ra Pi. (avendo il Comune proceduto
alla restituzione del suolo nell’anno 1991, dopo averlo
utilizzato a titolo momentaneo quale discarica dei rifiuti)
e per essa anche dei ricorrenti, in quanto conviventi con la
loro genitrice.
11.1. Sennonché vi è da evidenziare che giammai i citati
accertamenti dal quale viene desunto il dato ritenuto dal
Comune certo -interramento risalente al 1994- possono
essere opposti ai ricorrenti trattandosi di accertamenti non
svolti in contraddittorio con i medesimi, in palese
violazione del disposto dell’art. 192, comma 3, D.lgs. 152/2006
che, come innanzi evidenziato, postula non solo che ai
soggetti sia data comunicazione di avvio del procedimento,
ma un quid pluris, ovvero che gli stessi accertamenti, sulla
cui base viene desunta la responsabilità per l’adozione
dell’ordinanza di rimozione dei rifiuti, siano effettuati in
contraddittorio, laddove i ricorrenti per contro non sono
stati chiamati a partecipare al sopralluogo effettuato dall’ARPAC,
che, come desumibile dal relativo verbale, è stato svolto in
contradditorio con il solo proprietario attuale dell’area de
qua, Lu.Or., ritenuto poi estraneo alla vicenda e
quindi non destinatario dell’ordinanza impugnata nella
presente sede.
Da ciò la fondatezza di quanto evidenziato al riguardo nel
primo, nel secondo e nel quarto motivo di ricorso, circa
l’assenza di contradditorio sugli eventuali accertamenti
svolti, sia in relazione alla datazione dell’interramento
che al possesso dell’area da parte dei ricorrenti, motivi
che di per sé solo potrebbero portare all’accoglimento del
ricorso.
12. Peraltro, al di là di tali rilievi assorbenti, è da
evidenziarsi innanzitutto la contraddittorietà della gravata
ordinanza la quale si fonda sul duplice presupposto della
responsabilità, sia della genitrice dei ricorrenti,
proprietaria dell’area all’epoca dell’interramento, che dei
ricorrenti medesimi, quali soggetti aventi la disponibilità
di fatto dell’area medesima (in quanto conviventi con la
loro madre), sia per l’interramento dei rifiuti
(responsabilità a titolo commissivo) sia a titolo di dolo e
colpa, per conoscenza o conoscibilità dell’interramento da
altri effettuati, avuto riguardo alla titolarità del diritto
reale (in capo alla Pi.) e alla disponibilità di fatto
dell’area (in capo ai ricorrenti).
Ed invero ai fini dell’adozione dell’ordinanza ex art. 192
Dlgs. 152/2006 occorre la precisa individuazione del titolo di
responsabilità ed in particolare occorre che il soggetto
destinatario sia esattamente individuato o quale soggetto
responsabile dell’abbandono dei rifiuti, ovvero che lo
stesso sia ritenuto responsabile perché proprietario,
titolare di altro diritto reale o il titolare di un rapporto
anche di fatto con il fondo, al quale l’abbandono dei
rifiuti da parte di terzi sia imputabile a titolo di dolo
(per conoscenza e connivenza nell’abbandono) ovvero a titolo
di colpa (per trascuratezza nella cura del bene, tale da
rendere possibile detto abbandono).
12.1. Per contro nell’ordinanza gravata non è individuato un
preciso titolo di responsabilità, sovrapponendo i due piani
della responsabilità, quello derivante dall’abbandono
diretto dei rifiuti e quello della responsabilità a titolo
di dolo o colpa per l’abbandono compiuto da terzi, piani per
contro del tutto distinti nella disciplina dell’art. 192,
comma 3, Dlgs. 152/2006.
Da ciò anche la fondatezza del secondo motivo di ricorso
nella parte in cui si denuncia tale contraddittorietà
dell’ordinanza gravata.
12.2. Ciò senza mancare di rilevare che l’ordinanza de qua
postula che (anche in assenza della responsabilità dei
ricorrenti, sotto il duplice profilo innanzi evidenziato)
stante la (sicura) responsabilità in capo alla loro
genitrice, di cui gli stessi sarebbero eredi universali,
l’obbligazione di rimozione dei rifiuti, in quanto
obbligazione ex lege, trasmissibile iure hereditario, si
sarebbe trasferita nel loro patrimonio, profilo questo che
sarà affrontato nella disamina del terzo motivo di ricorso.
13. Parimenti fondato è il primo motivo di ricorso in
relazione a quella parte dell’ordinanza in cui si prospetta
una responsabilità diretta dei ricorrenti, sulla base del
mero rilievo che gli stessi, in quanto conviventi con la
loro genitrice, proprietaria dell’area, erano nella
disponibilità di fatto del bene.
Ed invero il presupposto di detta forma di responsabilità, a
prescindere dall’imputabilità di tipo soggettivo, implica
che il soggetto chiamato a rispondere dell’abbandono di
rifiuti effettuato da terzi sia titolare di un rapporto di
godimento e di gestione assimilabile a quello del
proprietario; nell’ipotesi di specie detto rapporto, in
quanto non ancorato alla dominicalità del bene, è stato
tratto in via meramente presuntiva, senza lo svolgimento di
alcuna indagine ed in particolare di una istruttoria svolta
in contraddittorio, in violazione come detto del disposto
dell’art. 192, comma 3, Dlgs. 152/2006.
14. Parimenti fondato è il secondo motivo di ricorso laddove
si denuncia il difetto di motivazione e di istruttoria del
gravato provvedimento nella parte in cui affermerebbe la
responsabilità dello stesso interramento dei rifiuti in capo
alla sig,ra Pi., sulla base del mero riferimento all’id
quoad plerumque accidit, tratto dal mero dato della
dominicalità del bene e del dato temporale dell’interramento
e della stessa corresponsabilità dei ricorrenti, in quanto
conviventi con la genitrice e quindi soggetti che “non
potevano non sapere”.
14.1. Vi è infatti da evidenziare come anche detta
responsabilità non sia supportata da alcun dato probatorio e
da alcun accertamento in contraddittorio -in palese
violazione come detto del disposto dell’art. 192, comma 3, Dlgs. 152/2006- e sia motivata sulla base di considerazioni
apodittiche e contraddittorie tra il piano della
responsabilità di tipo commissivo -motivata sul solo
rilievo della dominicalità del bene- che sembra postulare
una responsabilità oggettiva -in uno con l’id quoad
plerumque accidit (laddove detto elemento presuntivo
generico non può essere posto alla base di un giudizio di
responsabilità di tipo commissivo) e quello della
responsabilità rispetto all’abbandono dei rifiuti
ascrivibile ad altri, per dolo e colpa, sulla base (anche
qui) del rilievo della dominicalità del bene, quanto alla
genitrice dei ricorrenti, ovvero della disponibilità di
fatto del bene medesimo, da parte dei ricorrenti e del “non
potevano non sapere”.
14.2. Ciò senza mancare di rilevare che il profilo colposo,
lungi dall’essere individuato in una specifica e
identificata forma di incuria nella gestione del bene che
abbia agevolato l’altrui abbandono dei rifiuti, viene
individuato, tanto in capo ai ricorrenti, quanto in capo
alla Pi., nella mera conoscibilità (che potrebbe anche
essere successiva) di detto interramento laddove, secondo la
costante giurisprudenza richiamata al punto 9.3, deve
sussistere un nesso eziologico tra la condotta doloso e/o
colposa del proprietario e/o del titolare del diritto reale
e del rapporto di fatto con il fondo e l’abbandono dei
rifiuti da parte dei terzi, nesso eziologico per contro non
evincibile dalla motivazione della gravata ordinanza.
Da ciò anche la fondatezza dell’ultimo motivo di ricorso.
15. Del pari fondato è il terzo motivo di ricorso con cui si
denuncia l’illegittimità della gravata ordinanza laddove -facendo leva sulla mera responsabilità della genitrice dei
ricorrenti, cui gli stessi sarebbero succeduti iure hereditario senza succedere nella proprietà del fondo, come
più volte detto alienato prima della morte- postula la
trasmissione dell’obbligazione nascente ope legis
dall’interramento dei rifiuti, in quanto obbligazione di
carattere permanente, nel patrimonio dei ricorrenti.
15.1. Si tratta invero di profilo questo che è stato più
volte posto in luce nelle difese del Comune come punto di
forza della gravata ordinanza, che al riguardo richiama
Cons. St., Sez. II, 06.03.2013, n. 2417 e Cons. Stato,
sez. V, 25.02.2016, n. 765 evidenziando che l'ordine
di rimozione, avvio a smaltimento o recupero e ripristino
(nonché di bonifica) costituirebbe obbligazione patrimoniale
trasmissibile iure hereditario.
15.2. Sennonché il richiamo ai precedenti giurisprudenziali
evidenziati dal Comune non appare pertinente e quindi anche
detto punto di vista motivazionale dell’ordinanza deve
ritenersi illegittimo.
15.3. Ed invero, la fattispecie presa in considerazione
nella pronuncia dell’Adunanza del Consiglio di Stato,
Sezione II del 06.03.2013 n. 2417 (numero affare
00263/2013) e fatta oggetto di un mero richiamo ad opera
della sentenza Cons. Stato, sez. V, 25.02.2016, n. 765
è del tutto distinta da quella che viene qui in discussione;
in detta fattispecie, infatti, il procedimento volto alla rimessione in pristino era stato avviato già a carico del
de cuius della ricorrente (destinatario anche di un ordine di
sospensione dei lavori) che era stato presente sia ad un
primo sopralluogo, che ad un secondo sopralluogo (al secondo
sopralluogo aveva partecipato anche la ricorrente), nel
pieno rispetto pertanto del disposto dell’art. 192, comma 3, Dlgs. 152/2006, che postula che l’accertamento della
responsabilità del proprietario o del titolare del diritto
reale avvenga in contradditorio, per cui l’ordinanza in
contestazione si era limitata ad estendere alla ricorrente,
in qualità di erede, la responsabilità già accertata in
contraddittorio in capo al de cuius, già destinatario
dell’avvio del procedimento.
Pertanto è da disattendere il punto di diritto affermato
nella gravata ordinanza, che postula la possibilità di
trasmissione iure hereditario di un obbligo di ripristino,
derivante ope legis dall’abbandono dei rifiuti, laddove
presupposto per l’adozione dell’ordinanza ex art. 192, comma
3, Dlgs. 152/2006 è l’accertamento in contraddittorio della
responsabilità del proprietario o titolare di un diritto
reale, per cui in assenza di detto accertamento non può
nascere alcuna obbligazione suscettibile di essere trasmessa
nel patrimonio ereditario.
Infatti l’accertamento in contradditorio costituisce, ai
sensi del più volte richiamato art. 192, comma 3, Dlgs.
152/2006, elemento costitutivo per la nascita dell’obbligo di
ripristino, in assenza della quale non può dirsi sorta
alcuna obbligazione trasmissibile iure hereditario.
Nell’ipotesi di specie, per contro, non solo non vi è stato
alcun accertamento in contradditorio nei confronti della de cuius dei ricorrenti -il cui asserito obbligo ripristinatorio si sarebbe trasferito nel patrimonio dei
ricorrenti iure hereditario- e la sua responsabilità è
stata accertata post mortem -con la conseguente
impossibilità di trasmissione di un’obbligazione che in
mancanza del dovuto accertamento non può dirsi sorta- ma il
contraddittorio, anche a ritenere possibile l’accertamento
della responsabilità post mortem, ipotesi da escludersi - è
stato omesso anche nei confronti dei ricorrenti, che, come
detto, non sono stati partecipi al sopralluogo effettuato
dall’ARPAC.
Peraltro l’accertamento in contraddittorio con i ricorrenti,
giova rimarcarlo, sarebbe stato sufficiente solo ai fini
dell’affermazione di una loro diretta responsabilità e non
ai fini dell’accertamento post mortem della responsabilità
della loro de cuius, dovendo il contraddittorio, per ovvie
esigenze del giusto procedimento, oltre che stando al tenore
letterale del disposto dell’art. 192, comma 3, Dlgs. 152/2006,
svolgersi con il soggetto che, in quanto diretto interessato
(in qualità di proprietario o titolare di diritto reale o di
godimento), sia in grado di difendersi.
15.4. La sentenza Cons. Stato, sez. V, 25.02.2016, n.
765 dal canto suo si limita a richiamare, come detto, ad abundantiam l’indicato precedente, ma è del pari relativa a
fattispecie del tutto diversa, ovvero ad ipotesi in cui i
ricorrenti erano succeduti iure hereditario nella proprietà
del bene, per cui la loro responsabilità è stata ritenuta
iure proprio, non avendo gli stessi ostacolato, una volta
succeduti nella titolarità del bene, lo sversamento dei
rifiuti (cfr. quelle parti della sentenza nelle quali si
afferma “Tanto premesso va chiarito che nella fattispecie in
esame, contrariamente a quanto affermato dal primo giudice,
sono ravvisabili elementi di imputazione in capo agli
originari ricorrenti degli obblighi di bonifica e di
ripristino discendenti dal loro comportamento colposo”…
“Quanto, invece, agli obblighi di bonifica posto che è
accertata anche all’indomani dell’acquisizione in proprietà
del bene da parte degli odierni appellati l’attività di sversamento di rifiuti nel fondo in questione, da un lato, è
irrilevante la circostanza che sia intervenuto un contratto
di locazione…” nonché l’ultima parte della sentenza laddove
si afferma “Nella fattispecie, infatti, gli atti
amministrativi acquisiti al fascicolo di causa danno atto
del verificarsi dei fenomeni di inquinamento nell’arco di
oltre trent’anni e della loro riconducibilità agli odierni
appellati ed al loro dante causa, che in alcun modo hanno
impedito lo sversamento dei rifiuti sui loro suoli, né hanno
provveduto alla rimozione degli stessi, non attivandosi per
impedire che l’attività di devastazione delle aree oggetto
dell’ordinanza impugnata proseguisse nel corso degli anni”).
16. Il ricorso va dunque accolto, con conseguente
annullamento dell’atto gravato (TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 15.05.2018 n. 3204 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La presentazione di una
istanza di accertamento di conformità ha automatico effetto caducante sull’ordinanza di demolizione, rendendola
inefficace.
La presentazione di una domanda di accertamento di
conformità in epoca successiva all’adozione dell’ordinanza
di demolizione (o, comunque, del provvedimento di
irrogazione di altre sanzioni per abusi edilizi), produce
l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione contro
l’atto sanzionatorio per sopravvenuta carenza di interesse,
posto che il riesame dell’abusività dell’opera, provocato
dall’istanza, sia pure al fine di verificarne l’eventuale
sanabilità, comporta la necessaria formazione di un nuovo
provvedimento, esplicito o implicito (di accoglimento o di
rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento
sanzionatorio oggetto dell’impugnativa.
---------------
1) Il ricorso principale e il primo ricorso per motivi
aggiunti si rivelano improcedibili.
In particolare, in seguito all’intervenuta ordinanza
sindacale contingibile e urgente n. 23/2016, Prot. 5614 del
09.09.2016, impugnata con il secondo ricorso per motivi
aggiunti -con cui è stata ordinata la riapertura al pubblico
transito della strada vicinale- e all’intervenuta
presentazione dell’istanza di accertamento di conformità ex
art. 36 D.P.R. n. 380/2001, è venuto meno l’interesse alla
prosecuzione del ricorso nei confronti delle precedenti
impugnative della diffida prot. n. 766/2016 e dell'ordinanza
n. 2 del 09.02.2016, aventi ad oggetto la rimozione della
sbarra in acciaio di interdizione della strada e sui
relativi atti presupposti.
L’ordinanza sindacale contingibile e urgente n. 23/2016 si
pone, infatti, come successivo atto sostitutivo rispetto ai
precedenti atti di rimozione della sbarra d’acciaio per i
profili inerenti all’interdizione dell’accesso, mentre il
profilo relativo all’assenza del titolo abilitativo edilizio
-indicato nell'ordinanza n. 2 del 09.02.2016- risulta
superato dall’introduzione dell’istanza di sanatoria
presentata.
Il Collegio aderisce, infatti, all’orientamento
giurisprudenziale secondo cui la presentazione di una
istanza di accertamento di conformità ha automatico effetto
caducante sull’ordinanza di demolizione, rendendola
inefficace.
La presentazione di una domanda di accertamento di
conformità in epoca successiva all’adozione dell’ordinanza
di demolizione (o, comunque, del provvedimento di
irrogazione di altre sanzioni per abusi edilizi), produce
l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione contro
l’atto sanzionatorio per sopravvenuta carenza di interesse,
posto che il riesame dell’abusività dell’opera, provocato
dall’istanza, sia pure al fine di verificarne l’eventuale
sanabilità, comporta la necessaria formazione di un nuovo
provvedimento, esplicito o implicito (di accoglimento o di
rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento
sanzionatorio oggetto dell’impugnativa (Cons. Stato, Sez. IV,
28.11.2013, n. 5704; TAR Piemonte Torino, Sez. II,
18.01.2013, n. 48; Cons. Stato, Sez. IV, 12.05.2010, n. 2844; Cons.
Stato, 31.05.2006 n. 7884) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 06.03.2017 n. 1289 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
La dibattuta questione inerente la responsabilità
del proprietario del suolo sul quale siano stati abbandonati
rifiuti è stata rimessa alla Corte di Giustizia UE la quale ha escluso che al medesimo possano
essere addebitati obblighi di bonifica e di ripristino,
discendenti dalla mera qualifica di titolare di un diritto
reale sul bene, sancendo così l’incompatibilità comunitaria
di una disciplina nazionale che preveda una responsabilità
oggettiva, discendente dalla mera qualifica di titolare di
un diritto reale sul bene.
Ai fini della definizione della presente controversia è
pertanto necessario concretamente accertare la misura della
diligenza richiesta alla ricorrente, al fine di qualificare
o meno il suo comportamento come colposo.
Sul punto, la giurisprudenza sostiene che, “ai fini della
rimozione di rifiuti abbandonati su terreni di proprietà
privata, il requisito della colpa può consistere
nell'omissione delle cautele e degli accorgimenti che
l'ordinaria diligenza suggerisce ai fini di un'efficace
custodia a tutela della salute pubblica”, precisando tuttavia che “il dovere di
diligenza che fa capo al titolare del fondo non può
spingersi sino al punto da richiedere una costante
vigilanza, da esercitarsi giorno e notte, per impedire ad
estranei di invadere l'area e di abbandonarvi rifiuti”,
eccedendo un impegno di tale entità gli ordinari canoni
della diligenza media e del buon padre di famiglia, alla
base della stessa nozione di colpa, nei casi in cui, come
quello di specie, questa è indicata in modo generico, senza
ulteriori specificazioni.
Conseguentemente, l'obbligo di diligenza deve essere
valutato secondo criteri di ragionevole esigibilità,
dovendosi perciò circoscrivere la responsabilità colposa in
capo al proprietario non autore dello sversamento quando il
medesimo avrebbe potuto evitare il fatto sopportando un
sacrificio obiettivamente proporzionato.
---------------
II) Quanto al merito, con il secondo motivo la
ricorrente deduce la violazione dell’art. 192 del D.Lgs.
03.04.2006 n. 152, ritenendo che l’abbandono di rifiuti che
ha dato luogo al provvedimento impugnato nel presente
giudizio, non sia imputabile alla stessa a titolo di colpa,
diversamente da quanto invece richiesto dalla citata norma
che assume violata.
In via preliminare, osserva il Collegio che la dibattuta
questione inerente la responsabilità del proprietario del
suolo sul quale siano stati abbandonati rifiuti è stata
rimessa alla Corte di Giustizia UE che, con sentenza
04.03.2015, C-534/13, ha escluso che al medesimo possano
essere addebitati obblighi di bonifica e di ripristino,
discendenti dalla mera qualifica di titolare di un diritto
reale sul bene, sancendo così l’incompatibilità comunitaria
di una disciplina nazionale che preveda una responsabilità
oggettiva, discendente dalla mera qualifica di titolare di
un diritto reale sul bene.
Ai fini della definizione della presente controversia è
pertanto necessario concretamente accertare la misura della
diligenza richiesta alla ricorrente, al fine di qualificare
o meno il suo comportamento come colposo.
Sul punto, la giurisprudenza sostiene che, “ai fini della
rimozione di rifiuti abbandonati su terreni di proprietà
privata, il requisito della colpa può consistere
nell'omissione delle cautele e degli accorgimenti che
l'ordinaria diligenza suggerisce ai fini di un'efficace
custodia a tutela della salute pubblica” (C.S., Sez. V,
18.12.2015, n. 5757), precisando tuttavia che “il dovere di
diligenza che fa capo al titolare del fondo non può
spingersi sino al punto da richiedere una costante
vigilanza, da esercitarsi giorno e notte, per impedire ad
estranei di invadere l'area e di abbandonarvi rifiuti”,
eccedendo un impegno di tale entità gli ordinari canoni
della diligenza media e del buon padre di famiglia, alla
base della stessa nozione di colpa, nei casi in cui, come
quello di specie, questa è indicata in modo generico, senza
ulteriori specificazioni (TAR Lazio, Roma, Sez. II,
12.5.2014 n. 4898, TAR Campania, Napoli, Sez. V, 10.04.2012
n. 1706).
Conseguentemente, l'obbligo di diligenza deve essere
valutato secondo criteri di ragionevole esigibilità,
dovendosi perciò circoscrivere la responsabilità colposa in
capo al proprietario non autore dello sversamento quando il
medesimo avrebbe potuto evitare il fatto sopportando un
sacrificio obiettivamente proporzionato (TAR Puglia,
Lecce, Sez. I, 09.10.2014, n. 2452).
III) Venendo al caso di specie, la ricorrente ha documentato
di aver delimitato l’area di che trattasi con una rete,
sostenuta da pali metallici, ponendo sulla sua sommità filo
spinato, e di aver posto, in prossimità della porta di
accesso, una sbarra in ferro, avente una lunghezza pari
circa alla distanza intercorrente tra due pali, collegata
per l’apertura ad un lucchetto (docc. nn. 3-5).
Ritiene il Collegio che, mediante l’adozione delle sopra
descritte cautele, che hanno delimitato e protetto l’accesso
all’area di sua proprietà, la ricorrente abbia adempiuto ai
propri doveri di diligenza, non potendo la stessa essere
ritenuta oggettivamente responsabile dei comportamenti
criminali di terzi, peraltro tempestivamente denunciati alle
Forze dell’Ordine.
IV) Né in contrario rileva la giurisprudenza invocata dalla
difesa comunale, che essendo riferita ad una casistica non
analoga a quella per cui è causa, depone in realtà in favore
dell’accoglimento del ricorso.
TAR Lombardia, Milano, Sez. I, 24.02.2014 n. 571, ha infatti
ritenuto provata la “culpa in vigilando”, oltre che a fronte
della mancata predisposizione delle opportune misure per
impedire l’ingresso di soggetti intenzionati ad abbandonare
rifiuti nell’area, soprattutto, in relazione agli
inadempimenti agli obblighi che, sin dal 1989, erano stati
ritenuti necessari dall’autorità per limitare il progressivo
degrado ambientale dell’area, ciò che differenza
significativamente detta fattispecie da quella per cui è
causa.
Inoltre, nella citata sentenza n. 571/2014, il TAR
aveva ritenuto che la sbarra posta all’ingresso della
proprietà fosse “del tutto inadeguata, se non proprio
inesistente, a ciò dovendosi aggiungere che manca qualsiasi
struttura di delimitazione del confine di proprietà”, non
essendo pertanto tale precedente invocabile nel caso di
specie, in cui, come, detto, l’attuale ricorrente ha
provveduto a delimitare l’area, ed a proteggere la stessa
dagli accessi.
Parimenti, C.S., Sez. V, 10.06.2014 n. 2977, diversamente da
quanto ritenuto dalla difesa comunale, non è pertinente alla
fattispecie per cui è causa.
Detta sentenza, pur ritenendo effettivamente “inadeguato” il
“rafforzamento” di una sbarra posta sulla stradina di
accesso all'area, ha tuttavia affermato ciò tenendo conto
che la stessa, diversamente da quella per cui è causa, era
“da tempo adibita a discarica”, e soprattutto stigmatizzando
come, in quel caso, la proprietà avesse iniziato a
proteggere detta area solo “ex post”, nel corso del
giudizio, a seguito dell'ordinanza cautelare nel medesimo
emanata.
Ad abundantiam, osserva il Collegio che la fattispecie
decisa da C.S. n. 2977/2014 cit. è caratterizzata da
numerose e rilevanti peculiarità che la differenziano da
quella oggetto del presente giudizio, sia in relazione alla
natura pubblica del proprietario (Regione Campania), che dal
rilievo rivestito, in quella vicenda, dalle “realtà locali,
caratterizzate dalla perduranza di situazioni emergenziali,
dalla assenza diffusa di senso civico delle cittadinanze, da
una diffusa omertà e dalla presenza di organizzazioni
criminali proprio nel settore del trasporto e dello
smaltimento dei rifiuti”.
V) In conclusione, malgrado nell’area di che trattasi,
nell’anno 2006, erano già stati abbandonati rifiuti, ciò non
consente di ritenerla “in stato di abbandono”, come invece
erroneamente sostenuto dalla difesa comunale, essendo la
stessa delimitata e protetta, sebbene ciò non sia rivelato
sufficiente ad impedire il perpetrarsi di condotte
criminali, come detto tempestivamente denunciate dalla
ricorrente, la cui prevenzione non può tuttavia gravare
sulla stessa, mediante un ininterrotto obbligo di vigilanza
della propria area, che risulterebbe sproporzionato rispetto
agli ordinari canoni di diligenza.
Il ricorso va pertanto accolto, dovendosi per l’effetto
annullare il provvedimento in epigrafe impugnato (TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 20.01.2017 n. 144 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - VARI:
Ai fini della configurabilità della
contravvenzione prevista dall'art. 5, lett. b, della legge
30.04.1962 n. 283, che vieta l'impiego nella produzione di
alimenti, la vendita, la detenzione per la vendita, la
somministrazione, o comunque la distribuzione per il
consumo, di sostanze alimentari in cattivo stato di
conservazione, non è necessario che quest'ultimo si
riferisca alle caratteristiche intrinseche di dette
sostanze, ma è sufficiente che esso concerna le modalità
estrinseche con cui si realizza, le quali devono uniformarsi
alle prescrizioni normative, se sussistenti, ovvero, in caso
contrario, a regole di comune esperienza.
In questo senso anche la custodia in locali sporchi e quindi
igienicamente inidonei alla conservazione determina la
violazione del divieto di commercializzazione del prodotto.
---------------
1.11 sig. Gi.Ba., nei cui confronti si procede per i reati
di cui agli artt. 444 e 515, cod. pen. per aver detenuto in
luoghi non autorizzati dal punto di vista sanitario forme di
formaggio prodotte in modo non conforme ai regolamenti CEE
che disciplinano la produzione di "Fontina DOP" e in
locali dove erano presenti sostanze pericolose per la salute
quali topicidi e disinfestanti, ricorre per l'annullamento
dell'ordinanza del 21/12/2015 del G.i.p. del Tribunale di
Aosta che, all'esito di udienza camerale, ha parzialmente
accolto l'opposizione proposta avverso il decreto del
27/11/2015 del Procuratore della Repubblica presso quel
Tribunale che aveva autorizzato la distruzione di 499 forme
di formaggio sequestrate a fini probatori e custodite parte
(251) in località Pl., parte (248) in località Vayoux di Nus.
In particolare, il G.i.p. ha accolto l'opposizione
relativamente alle 248 forme di formaggio detenute in Vayoux
di Nus, respingendola per le altre.
...
2.11 ricorso è infondato.
3. L'alienazione o la distruzione di beni sottoposti a
sequestro probatorio penale costituisce forma anticipata di
ablazione dei beni stessi adottata in assenza di un
accertamento di responsabilità del loro titolare. Sicché,
quando sorga controversia sui presupposti applicativi della
norma essi devono essere valutati in maniera rigorosa, senza
sconfinare in anticipazioni sul giudizio di responsabilità
ma salvaguardando il più possibile il diritto
dell'indagato/imputato alla conservazione del bene e dunque
il suo diritto di proprietà.
3.1. Non a caso l'art. 260, comma 3-bis, cod. proc. pen.,
limita la possibilità di procedere alla distruzione delle
merci di cui sono comunque vietati la fabbricazione, il
possesso, la detenzione o la commercializzazione alle
seguenti ipotesi ben delimitate e alternative tra loro: a)
la custodia difficile o particolarmente nerosa; b) la
custodia pericolosa per la sicurezza, la salute o l'igiene
pubblica; c) l'evidente violazione dei divieti di
fabbricazione, possesso, detenzione e commercializzazione.
3.2. Nel caso in esame, il G.i.p., richiamando la relazione
del Dipartimento di Prevenzione della locale ASL, ha
autorizzato la distruzione delle forme di formaggio detenute
presso il magazzino di Pl. sul rilievo che nei relativi
locali «erano presenti notevoli quantitativi di topicida
e insetticida in prossimità dei formaggi, veleni impiegati
direttamente nell'ambiente di stagionatura, costituenti un
grave pericolo per la salute del consumatore (v. relazione
citata). L'esposizione diretta a contaminazione di veleni è
circostanza che rende assoluti il divieto di consumo
alimentare e, a fortiori, anche a prescindere dall'esistenza
della preventiva autorizzazione sanitaria».
3.3.11 Giudice ha dunque ritenuto la violazione evidente dei
divieti di possesso, detenzione e commercializzazione degli
alimenti che giustifica da sola la possibilità di
distruggerli.
3.4. Non è inopportuno al riguardo sottolineare che secondo
l'autorevole insegnamento di questa Corte, ai fini della
configurabilità della contravvenzione prevista dall'art. 5,
lett. b, della legge 30.04.1962 n. 283, che vieta l'impiego
nella produzione di alimenti, la vendita, la detenzione per
la vendita, la somministrazione, o comunque la distribuzione
per il consumo, di sostanze alimentari in cattivo stato di
conservazione, non è necessario che quest'ultimo si
riferisca alle caratteristiche intrinseche di dette
sostanze, ma è sufficiente che esso concerna le modalità
estrinseche con cui si realizza, le quali devono uniformarsi
alle prescrizioni normative, se sussistenti, ovvero, in caso
contrario, a regole di comune esperienza (Sez. U, n. 443 del
19/12/2001, dep. il 09/01/2002, Butti, Rv. 220716). In
questo senso anche la custodia in locali sporchi e quindi
igienicamente inidonei alla conservazione determina la
violazione del divieto di commercializzazione del prodotto (Sez.
3, n. 9477 del 21/01/2005, Ciccariello).
3.5. Non era dunque necessario alcun accertamento sulle
caratteristiche intrinseche degli alimenti, essendo
sufficiente l'esame visivo dei luoghi in cui essi erano
conservati, la cui descrizione non è oggetto di critica
puntuale da parte del ricorrente che, senza eccepire il
travisamento della relazione della ASL (documento pubblico
di cui non eccepisce nemmeno la falsità), si limita a
contestare in modo del tutto generico e fattuale la ritenuta
contaminazione delle forme di formaggio con il veleno e ad
escludere che, in ogni caso, essa riguardi
indiscriminatamente tutte le forme.
3.6. Questi, inoltre, si lamenta che l'accertamento non è
stato compiuto in contraddittorio ma è agevole osservare che
l'art. 260, comma 3-bis, cod. proc. pen., prevede tale
modalità solo come eventuale.
3.7. E' quindi infondata, alla luce delle considerazioni che
precedono, anche l'eccezione relativa alla mancata
motivazione avendo il Giudice indicato in modo più che
adeguato i fatti che legittimano la immediata distruzione
degli alimenti (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 25.10.2016 n. 44927). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha da
tempo evidenziato come nessuna disposizione di legge abbia
elevato il termine per la conclusione del procedimento
amministrativo a requisito di validità dell'atto
amministrativo, rimanendo dunque lo stesso confinato sul
piano dei comportamenti dell'amministrazione.
E ciò è agevolmente spiegabile ricordando che l'esercizio
della funzione pubblica è connotato dai requisiti della
doverosità e della continuità, cosicché i termini fissati
per il suo svolgimento hanno giocoforza carattere
acceleratorio, in funzione del rispetto dei principi di buon
andamento (97 Cost.), efficienza ed efficacia dell'azione
amministrativa (art. 1, comma 1, l. n. 241/1990), e non già
perentorio. Conseguentemente, la loro scadenza non priva
l'amministrazione del dovere di curare l'interesse pubblico,
né rende l'atto sopravvenuto di per sé invalido.
E, si osserva conclusivamente, il mancato esercizio delle
attribuzioni da parte dell’amministrazione entro il termine
per provvedere non comporta, per ciò solo, e in difetto di
espressa previsione, la decadenza del potere o il venir meno
dell’efficacia dell’originario vincolo.
---------------
3. Venendo al merito delle questioni sollevate dalla
ricorrente, devono essere preliminarmente disattese le
doglianze sulla tardiva rideterminazione della sanzione, con
la quale la ricorrente lamenta che il procedimento sarebbe
stato avviato dopo quattro anni della definizione del
giudizio, in tal modo contravvenendo ai principi di buon
andamento della P.A..
In proposito rileva il Collegio che l'obbligo di ottemperare
alla pronuncia giudiziale non è in sé soggetto ad alcun
termine, mentre, nella specie, per l’esercizio del potere di
rideterminare la sanzione risulta comunque rispettato il
termine di prescrizione quinquennale fissato in via generale
dall'art. 28 della legge 689/1981.
Come affermato dalla Corte di Giustizia Europea con
riferimento al corrispondente termine (quinquennale) di
prescrizione previsto dagli artt. 25 e 26 del Regolamento
(CE) n. 1/2003, qualora l'azione venga attivata entro lo
stesso termine, a nulla vale eccepire la pretesa tardività
del procedimento avviato dalla Commissione per
l'applicazione di una sanzione (Corte di Giustizia,
05.12.2013, causa C-447/11P, Caffaro).
Più in generale, la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha
da tempo evidenziato come nessuna disposizione di legge
abbia elevato il termine per la conclusione del procedimento
amministrativo a requisito di validità dell'atto
amministrativo (Cons. Stato, IV, 12.06.2012, n. 2264; id.,
10.06.2010 n. 3695; VI, 01.12.2010, n. 8371; 14.01.2009, n.
140; 25.06.2008 n. 3215), rimanendo dunque lo stesso
confinato sul piano dei comportamenti dell'amministrazione.
E ciò è agevolmente spiegabile ricordando che l'esercizio
della funzione pubblica è connotato dai requisiti della
doverosità e della continuità, cosicché i termini fissati
per il suo svolgimento hanno giocoforza carattere
acceleratorio, in funzione del rispetto dei principi di buon
andamento (97 Cost.), efficienza ed efficacia dell'azione
amministrativa (art. 1, comma 1, l. n. 241/1990), e non già
perentorio. Conseguentemente, la loro scadenza non priva
l'amministrazione del dovere di curare l'interesse pubblico,
né rende l'atto sopravvenuto di per sé invalido (Cons.
Stato, V, 11.10.2013, n. 4980).
E, si osserva conclusivamente, il mancato esercizio delle
attribuzioni da parte dell’amministrazione entro il termine
per provvedere non comporta, per ciò solo, e in difetto di
espressa previsione, la decadenza del potere o il venir meno
dell’efficacia dell’originario vincolo (Corte
Costituzionale, sentenze 23.07.1997, n. 262 e 17.06.2002, n.
355) (TAR Lazio-Roma, Sez. I,
sentenza 25.02.2015 n. 3342 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In materia di denuncia di inizio attività (DIA), come
disciplinata dall’art. 22 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, in
effetti, sussistono tuttora diversi indirizzi
giurisprudenziali, che investono sia la natura giuridica
dell’istituto, sia gli effetti del decorso del termine, che
consente al dichiarante di effettuare gli interventi edilizi
oggetto di denuncia:
●
in alcune pronunce, in particolare, si
ravvisa in esito alla procedura in questione la formazione
di un provvedimento tacito, abilitativo dell’intervento;
●
in altre decisioni si identifica la DIA come atto
privato di autocertificazione, che pur non costituendo
espressione di potestà pubblicistica resta oggetto di poteri
di controllo ed inibitori, anche dopo la scadenza del
predetto termine, sempre comunque nel rispetto degli
articoli quinquies e nonies della legge n. 241/1990.
Le esigenze di protezione
dell’affidamento del privato, cui sono finalizzati i
principi garantistici dell’autotutela, tuttavia, richiedono
la sussistenza di alcuni requisiti minimi, in assenza dei
quali la DIA deve ritenersi inefficace, con conseguente
sottoposizione delle opere realizzate –in quanto prive di
titolo abilitativo– agli ordinari poteri repressivi
dell’Amministrazione.
Detti requisiti sono precisati, oltre che nell’art. 22 sotto
il profilo oggettivo, nell’art. 23 del citato d.P.R. n.
380/2001:
- al comma n. 1 di quest’ultimo, per quanto riguarda le modalità
della domanda ed i requisiti soggettivi richiesti per la
relativa presentazione, e
- nel comma 4 in presenza di vincoli ambientali, paesaggistici o
culturali, la cui tutela non competa, come nel caso di
specie, all’Amministrazione comunale.
E’ poi chiarito al comma 5 del medesimo articolo 23 che, per
comprovare il carattere non abusivo delle opere realizzate,
gli interessati debbano esibire non solo la domanda, ma
anche “gli atti di assenso eventualmente necessari”.
E’ vero che il ricordato quarto comma dell’art. 23 prevede
la convocazione, da parte del Comune, di una conferenza di
servizi, quando non risulti allegato alla DIA il “parere
favorevole del soggetto preposto alla tutela” del bene (con
inefficacia della stessa DIA in caso di esito non favorevole
della conferenza), ma la formulazione della norma indica
chiaramente che detto parere debba essere stato quanto meno
richiesto, benché non ancora ottenuto.
L’assenza di tale fondamentale adempimento –per un’istanza
che deve riguardare interventi “conformi alle previsioni
degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della
disciplina urbanistico-edilizia vigente”– non può non
ritenersi ostativa dell’efficacia della medesima DIA alla
scadenza del termine, in astratto previsto per l’esecuzione
delle opere oggetto della domanda: non a caso, il comma 6
dell’art. 22 del più volte citato d.P.R. n. 380/2001
subordina la realizzazione degli interventi edilizi, per gli
immobili vincolati, al “preventivo rilascio del parere o
dell’autorizzazione richiesti dalle relative previsioni
normative” (con evidente riferimento alla non decorrenza del
termine, previsto per l’inizio dei lavori, in assenza di
detti pareri o autorizzazioni).
---------------
Va ricordato come –anche per le opere soggette a DIA,
specificate nel citato art. 22 del d.P.R. n. 380/2001–
l’art. 37 del medesimo d.P.R. preveda la rimessa in pristino
stato dei luoghi, in presenza di interventi effettuati su
immobili vincolati.
---------------
A diverse conclusioni si deve pervenire, invece, per quanto
riguarda la struttura in profilati metallici, destinata
secondo la parte appellante ad assicurare l’ombreggiatura e
la protezione del sottostante parcheggio. Tale struttura,
come evidenziato dalla documentazione fotografica in atti,
appariva per dimensioni e caratteristiche di sicuro e non
indifferente impatto visivo sull’area protetta, con evidente
necessità di apposito titolo abilitativo.
A tale riguardo gli appellanti sottolineano l’avvenuta
presentazione, da svariati anni, di due denunce di inizio
attività, in presenza delle quali le installazioni di cui
trattasi non avrebbero potuto ritenersi abusive, con
conseguente necessità che l’Amministrazione procedesse
–prima di emettere eventuali provvedimenti repressivi– a
rimuovere il predetto titolo abilitativo, tacitamente
formatosi, in via di autotutela. L’ordine di demolizione
impugnato, in quanto privo di qualsiasi riferimento al
riguardo, sarebbe stato quindi illegittimo.
Il Collegio non condivide tale prospettazione.
In materia di denuncia di inizio attività (DIA), come
disciplinata dall’art. 22 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, in
effetti, sussistono tuttora diversi indirizzi
giurisprudenziali, che investono sia la natura giuridica
dell’istituto, sia gli effetti del decorso del termine, che
consente al dichiarante di effettuare gli interventi edilizi
oggetto di denuncia (in alcune pronunce, in particolare, si
ravvisa in esito alla procedura in questione la formazione
di un provvedimento tacito, abilitativo dell’intervento: cfr.
in tal senso, fra le tante, Cons. St., sez. VI, 05.04.2007,
n. 1550; Cons. St., sez. IV, 12.03.2009, n. 1474 e
25.11.2008, n. 5811; Cons. St., sez. II, 28.05.2010, parere
n. 1990; in altre decisioni si identifica la DIA come atto
privato di autocertificazione, che pur non costituendo
espressione di potestà pubblicistica resta oggetto di poteri
di controllo ed inibitori, anche dopo la scadenza del
predetto termine, sempre comunque nel rispetto degli
articoli quinquies e nonies della legge n. 241/1990: cfr. in
tal senso Cons. St., sez. VI, 09.02.2009, n. 717 e
14.11.2012, n. 5751); le esigenze di protezione
dell’affidamento del privato, cui sono finalizzati i
principi garantistici dell’autotutela, tuttavia, richiedono
la sussistenza di alcuni requisiti minimi, in assenza dei
quali la DIA deve ritenersi inefficace, con conseguente
sottoposizione delle opere realizzate –in quanto prive di
titolo abilitativo– agli ordinari poteri repressivi
dell’Amministrazione.
Detti requisiti sono precisati, oltre che nell’art. 22 sotto
il profilo oggettivo, nell’art. 23 del citato d.P.R. n.
380/2001: al comma n. 1 di quest’ultimo, per quanto riguarda
le modalità della domanda ed i requisiti soggettivi
richiesti per la relativa presentazione, e nel comma 4 in
presenza di vincoli ambientali, paesaggistici o culturali,
la cui tutela non competa, come nel caso di specie,
all’Amministrazione comunale. E’ poi chiarito al comma 5 del
medesimo articolo 23 che, per comprovare il carattere non
abusivo delle opere realizzate, gli interessati debbano
esibire non solo la domanda, ma anche “gli atti di
assenso eventualmente necessari”.
E’ vero che il ricordato quarto comma dell’art. 23 prevede
la convocazione, da parte del Comune, di una conferenza di
servizi, quando non risulti allegato alla DIA il “parere
favorevole del soggetto preposto alla tutela” del bene
(con inefficacia della stessa DIA in caso di esito non
favorevole della conferenza), ma la formulazione della norma
indica chiaramente che detto parere debba essere stato
quanto meno richiesto, benché non ancora ottenuto.
L’assenza di tale fondamentale adempimento –per un’istanza
che deve riguardare interventi “conformi alle previsioni
degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della
disciplina urbanistico-edilizia vigente”– non può non
ritenersi ostativa dell’efficacia della medesima DIA alla
scadenza del termine, in astratto previsto per l’esecuzione
delle opere oggetto della domanda: non a caso, il comma 6
dell’art. 22 del più volte citato d.P.R. n. 380/2001
subordina la realizzazione degli interventi edilizi, per gli
immobili vincolati, al “preventivo rilascio del parere o
dell’autorizzazione richiesti dalle relative previsioni
normative” (con evidente riferimento alla non decorrenza
del termine, previsto per l’inizio dei lavori, in assenza di
detti pareri o autorizzazioni).
Nella situazione in esame, gli interessati hanno documentato
l’avvenuta presentazione di istanza di accertamento di
compatibilità paesistica alla Regione Lazio il 28.06.2013 e,
quindi, successivamente all’emissione dell’ordine di
demolizione impugnato (da considerare assorbente rispetto al
precedente ordine di sospensione dei lavori).
Detta istanza non può considerarsi, tuttavia, oggetto del
presente giudizio, pur potendo la stessa risultare
prodromica ad una procedura di sanatoria, incidente
sull’esecutività, ma non anche sulla legittimità della
sanzione, da valutare –quest’ultima– in base ai presupposti
di fatto e di diritto, sussistenti alla data della relativa
emanazione.
In tale ottica, l’ordine di demolizione impugnato appare
emesso, per quanto riguarda la struttura in profilati
metallici, in conformità alle disposizioni legislative, di
cui nel secondo ordine di censure si prospettava la
violazione (articoli 10, 22 e 23 del d.P.R. n. 380/2001,
legge della Regione Lazio n. 15/2008).
Ugualmente infondate appaiono le argomentazioni, che nel
medesimo ordine di censure vengono riferite alla
riconducibilità delle installazioni di cui trattasi ad
interventi non incidenti sullo stato dei luoghi, tanto da
non richiedere l’intervento dell’Autorità preposta alla
tutela del vincolo. Come già in precedenza chiarito,
infatti, dette installazioni presentano caratteristiche di
visibilità e stabilità, tali da produrre l’effettiva
trasformazione di un’area in precedenza inedificata, con
conseguente non rispondenza dell’intervento a finalità
meramente manutentive o conservative dell’assetto esistente,
tali da escludere il necessario apprezzamento di detta
Autorità.
Considerazioni analoghe inducono a respingere anche il terzo
ed ultimo motivo di gravame, riferito alla natura della
sanzione: fermo restando, infatti, che l’inefficacia della
DIA lascia comunque aperta la qualificazione dell’intervento
(non effettuato su opere preesistenti, ma in area non
edificata e soggetta a regime vincolistico), va comunque
ricordato come –anche per le opere soggette a DIA,
specificate nel citato art. 22 del d.P.R. n. 380/2001–
l’art. 37 del medesimo d.P.R. preveda la rimessa in pristino
stato dei luoghi, in presenza di interventi effettuati su
immobili vincolati (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 20.11.2013 n. 5513 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sono
considerati volumi edilizi gli spazi costituiti da almeno un piano di base e
due superfici verticali contigue, così da ottenere una superficie chiusa su
un minimo di tre lati, di modo che la chiusura del porticato, realizzato con
pareti fisse, è intervento idoneo a creare un nuovo volume all’interno del
perimetro originariamente aperto.
---------------
I nuovi volumi, realizzati in assenza di titolo edilizio, non possono
considerarsi volumi tecnici, come tali non rilevanti ai fini del computo
della volumetria dell’immobile, atteso che nella nozione di volume tecnico
rientrano, per costante giurisprudenza, esclusivamente quei volumi destinati
alla allocazione degli impianti necessari all’utilizzo della abitazione
principale e che non possono utilmente essere collocati al suo interno.
Tale natura non può ragionevolmente riconoscersi al un porticato chiuso e
destinato in parte a locale garage ed in parte a locale lavanderia perché ne
risulta evidente la destinazione a finalità differenti da quelle proprie dei
volumi tecnici come sopra descritti.
---------------
Con il provvedimento n. 9432 del
29.08.2012 il Comune di Maruggio ha rigettato la richiesta presentata dalla
sig. ra Co.Ro. volta a ottenere il permesso di costruire in relazione agli “interventi
eseguiti in assenza di Permesso di Costruire e per l’installazione di una
sbarra in metallo di delimitazione accesso alla proprietà, nonché per la
nuova realizzazione di una recinzione con relativi accessi” sulla base
delle seguenti argomentazioni:
- esaminato l’elaborato progettuale di rilievo del Piano terra con
riferimento alla parte di copertura priva di tamponamento, già autorizzata
con concessione edilizia in sanatoria n. 177/2001,
- premesso che la stessa deve considerarsi come portico, vista la
mancanza di una diversa e precisa indicazione di destinazione;
- se è vero che l’art. 18 del Regolamento Edilizio Comunale
vigente, recante norme per la misurazione delle altezze e dei volumi dei
fabbricati, prescrive che nel calcolo del volume non vengano computati i
portici, è anche vero che, nel caso in esame, gli interventi realizzati
dall’istante hanno determinato un mutamento di destinazione d’uso da
porticato-garage a cantina e lavanderia;
- mediante la realizzazione di opere murarie aggiuntive, si è
determinato un incremento della volumetria, non consentito nella zona “F4.2-
Verde pubblico e attrezzature collettive” in cui l’immobile ricade, in
quanto le norme tecniche di attuazione prescrivono che nelle aree a verde
pubblico è consentita unicamente la creazione di impianti sportivi e per lo
svago, di stazioni di servizio, campeggi, autoparcheggi, negozi, chioschi ed
altri impianti similari di uso pubblico;.
– la disposizione di cui all’art. 32 del D.P.R. n. 380/2001,
secondo cui non possono comunque ritenersi variazioni essenziali quelle che
incidono sulla entità delle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla
distribuzione interna delle singole unità abitative, non trova applicazione
al caso in esame in quanto i nuovi locali realizzati (cantina e lavanderia)
non possono qualificarsi quali volumi tecnici;
- l’apposizione della barra metallica all’ingresso della strada
privata gravata da servitù di passaggio deve qualificarsi come “opera di
recinzione” ai sensi dell’art. 49, comma 4-bis, della legge n. 122/2010
e deve considerarsi come intervento assentibile mediante Scia, la cui
mancanza determina l’applicazione della sole sanzioni previste dall’art. 37
del D.P.R. n. 380/2001;
- negli stessi termini, la realizzazione della recinzione in
muratura costituisce “opera di recinzione” assentibile mediante Scia,
per la quale, così come per la sanatoria della sbarra metallica, dovrà
pervenire all’Ufficio competente nuova e separata richiesta corredata da
tutta la documentazione tecnica prevista dalla normativa vigente a firma di
un tecnico abilitato.
Con un unico motivo di ricorso la ricorrente ha impugnato il
provvedimento denunciandone l’illegittimità per eccesso di potere,
violazione e/o falsa applicazione della legge e/o violazione e falsa
applicazione del D.P.R. n. 380/2001 e/eccesso di potere per difetto di
motivazione e/o contraddittorietà ed illogicità, violazione del giusto
procedimento e/o violazione del principio di legalità e buon andamento
dell’attività amministrativa e/o irrazionalità ed illogicità dell’azione
amministrativa e/o eccesso di potere ed erronea valutazione dei presupposti
di fatto e di diritto e/o illogicità dell’azione amministrativa.
Il provvedimento di diniego, infatti, sarebbe illegittimo in quanto, a detta
di parte ricorrente:
- la planimetria della concessione in sanatoria n. 177/2001
indicava la destinazione di utilizzo del porticato in piano garage;
- gli artt. 136 e 137 del D.P.R. 380/2001 mantengono in vigore la
legge 05.08.1978 n. 457 ad eccezione dell’art. 48;
- il porticato è stato condonato come piano garage e non è,
pertanto, applicabile l’art. 18 del Regolamento Edilizio Comunale di
Maruggio;
- l’art. 27 della citata legge non è applicabile al caso in esame
per assenza dei piani di recupero;
- la richiesta di costruire del 23.02.2012 riguarda interventi di
ristrutturazione edilizia ammissibili di cui all’art. 31 della legge n.
457/1978, trasfuso nell’art. 3 del D.P.R. n. 380/2001;
- l’art. 31 della legge n. 457/1978 prevede che sono ammissibili le
opere necessarie per realizzare ed integrare servizi igienico-sanitari e
tecnologici;
- l’uso del porticato con destinazione garage è pienamente
compatibile con l’uso a cantina e lavatoio, e che la cantina/lavanderia,
integrando mere cubature accessorie, e non volumi tecnici,
- la sbarra metallica, posta su una strada privata, così come la
recinzione in muratura costituiscono un’attività libera per la quale non è
richiesto alcun permesso di costruire e per le quali, in ogni modo, è fatta
salvo, per il privato, richiedere al Comune il permesso di costruire, con
conseguente obbligo dall’Amministrazione di accogliere siffatta richiesta.
I motivi di ricorso così proposti sono infondati.
La sig. ra Co.Ro., infatti, ha proceduto a realizzare, in assenza di valido
titolo edilizio, una serie di interventi, consistenti, in primo luogo, nella
chiusura dei due lati aperti del porticato- mediante muratura di conci
tufacei- ottenendo un vano adibito a cantina di m. 3,65 per m. 8,15 ed uno
stanzino di m. 2,00 x m. 2,50 adibito a lavanderia-bucatoio, entrambi per
una altezza di m. 2,10 ed, in secondo luogo, nella apposizione di una sbarra
metallica e nella realizzazione di una recinzione atte a delimitazione
l’area di pertinenza esclusiva del fabbricato di sua proprietà da quella
adibita a servitù di passaggio.
L’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 consente, in caso di interventi realizzati
in assenza di permesso di costruire o in sua difformità, il rilascio del
permesso in sanatoria ove l’intervento edilizio risulti conforme alla
disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della sua
realizzazione sia al momento della presentazione della domanda di
accertamento di conformità.
Ciò premesso, a differenza di quanto sostenuto dalla ricorrente -secondo la
quale i vani ottenuti mediante la chiusura del predetto porticato non
comporterebbero aumento della superficie e della volumetria già sanate con
concessione in sanatoria n. 177/2001, in quanto contenuti nella sagoma e
nella planovolumetria esistenti- deve condividersi quanto assunto dal Comune
di Maruggio nel provvedimento impugnato e rilevarsi che la realizzazione di
siffatti locali ha prodotto, nell’immobile in questione, un aumento di
volumetria.
Sono, infatti, considerati volumi edilizi gli spazi costituiti da almeno un
piano di base e due superfici verticali contigue, così da ottenere una
superficie chiusa su un minimo di tre lati, di modo che la chiusura del
porticato, realizzato con pareti fisse, è intervento idoneo a creare un
nuovo volume all’interno del perimetro originariamente aperto (TAR Liguria,
Genova, sez. I, 09.10.2008 n. 1769; TAR Liguria, Genova, sez. I, 01.02.2012
n. 238).
Nel caso di specie, l’aumento di volumetria così ottenuto non risulta
consentito dall’art. 18 del Regolamento Edilizio Comunale a mente del quale
“nel volume generalmente non vengono computati i portici, i loggiati, i
balconi aperti, la altane a giorno, gli aggetti di carattere strutturale e
ornamentale fino a cm 20, il sottotetto purché contenuto nella massima
pendenza del 35%, il torrino della scala e la sola macchina dell’impianto di
ascensore. ….Nel computo della superficie coperta va considerata la
superficie dei portici, degli aggetti scoperti che superino lo sporto i
metri 1,20 e dei bow-windows qualunque sia il loro sporto” e ricadendo,
altresì, l’immobile in questione, nella zona omogenea “F 4.2- Verde
pubblico e attrezzature collettive” per la quale il vigente P.D.F. del
Comune di Maruggio prescrive che “sono consentite unicamente impianti
sportivi e per lo svago, stazioni di servizio, campeggi, autoparcheggi,
negozi, chioschi, ed impianti similari di uso pubblico. Le attrezzature
dovranno essere circondate da spazi liberi e alberi all’intorno e non
potranno coprire più del 10% dell’area disponibile, né superare i due piani,
col massimo di mt. 8,00 di altezza…”.
Si aggiunga che i nuovi volumi, realizzati in assenza di titolo edilizio,
non possono considerarsi volumi tecnici, come tali non rilevanti ai fini del
computo della volumetria dell’immobile, atteso che nella nozione di volume
tecnico rientrano, per costante giurisprudenza, esclusivamente quei volumi
destinati alla allocazione degli impianti necessari all’utilizzo della
abitazione principale e che non possono utilmente essere collocati al suo
interno (Cons. Stato, sez. V, 04.03.2008 n. 918).
Tale natura non può ragionevolmente riconoscersi al un porticato chiuso e
destinato in parte a locale garage ed in parte a locale lavanderia perché ne
risulta evidente la destinazione a finalità differenti da quelle proprie dei
volumi tecnici come sopra descritti.
Né può valere, a legittimare l’intervento così realizzato, il pagamento di
quanto versato dalla ricorrente in sede di condono edilizio, relativo alla
concessione in sanatoria n. 177/2001, atteso che i locali a suo tempo
condonati non possono ritenersi, per ciò solo, suscettibili di produrre
nuovo volume.
Deve aggiungersi che la nuova destinazione impressa ai vani, da piano-garage
a cantina-lavatoio, ha determinato un cambio di destinazione d’uso
dell’originario locale non compatibile con la sua destinazione primaria,
conferendo al manufatto caratteristiche diverse rispetto a quelle già
oggetto di condono edilizio
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 27.08.2013 n. 1801 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza è costante nel negare che possa configurarsi un
affidamento alla conservazione di una situazione di fatto illecita, oppure
un effetto sanante, in ragione del tempo trascorso dal momento della
commissione dell'abuso.
---------------
Parimenti, va respinta la collegata censura di carenza di motivazione delle
ingiunzioni impugnate, in violazione dell'art. 3 l. n. 241/1990 e dell'art.
4 l.p. n. 23/1992.
Viene lamentato che se l'abuso si colloca a notevole distanza di tempo
dall'intervento repressivo dell'amministrazione, occorrerebbe una
motivazione “rafforzata”, cioè non esclusivamente fondata sull'accertato
illecito ma che dia conto anche delle ragioni di interesse pubblico al
ripristino ed alla loro prevalenza rispetto all'interesse del privato alla
conservazione dell'opera.
Tale assunto non può essere condiviso: il decorso del tempo non può elidere
l'obbligo di motivazione, ma neppure aggravarlo. Essendo infatti l'ordinanza
di demolizione un atto vincolato all'accertamento dei relativi presupposti,
non sono richieste valutazioni (e pertanto nemmeno motivazioni) di natura
comparativa in ordine ai contrapposti interessi in gioco o giudizi circa la
sussistenza di un interesse pubblico all'eliminazione dell'opera abusiva.
Non sussistendo nessun legittimo affidamento del privato che possa dirsi
tutelato, non è necessario individuare un interesse pubblico prevalente che
possa giustificarne il sacrificio.
---------------
La ricorrente, insieme agli altri destinatari dei provvedimenti repressivi
impugnati (non costituiti in giudizio), sono proprietari di fondi rustici
con annessi fabbricati situati in C.C. Daone (pp.ff. nn. 2193/4 e 2193/1,
2201, 2210/2, 2210/08 e 2210/2, nonché 2450/1) asserviti da una vecchia
strada che li attraversa, costeggiando il fiume Chiese, utilizzata anche dal
Servizio Forestale della PAT per i necessari interventi di polizia
idraulica.
Col ricorso in epigrafe la ricorrente espone che il Sindaco di Daone, con
due distinti provvedimenti, ha ingiunto ad essa, congiuntamente agli altri
proprietari, la rimessa in pristino dello stato dei luoghi sul presupposto
che, come risulta dal sopralluogo effettuato in data 30.05.2012, la suddetta
strada fosse stata oggetto di interventi abusivi consistenti
nell'installazione di una sbarra in metallo all'ingresso e di riporto di
materiale stabilizzato (ord. n. 22/12) e di ampliamento mediante
realizzazione di un nuovo tratto, con modifica del tracciato preesistente (ord.
n. 23/12) in assenza dei prescritti titoli edilizi.
...
A sostegno del presente ricorso viene dedotto:
a) che non è stato comunicato l'avvio del procedimento, in violazione
dell'art. 7 della l. n. 241 del 1990;
b) che non vi sarebbe stato un sufficiente accertamento circa la
consistenza quantitativa e/o qualitativa dell'abuso realizzato,
concretandosi così il difetto di istruttoria e la violazione degli artt. 1,
3, 6 della l. n. 241/1990;
c) che mancherebbero i presupposti di emanazione delle ordinanze
gravate, stante il carattere non abusivo degli interventi realizzati che, in
quanto di mero ripristino e non comportanti rilevante alterazione dello
stato dei luoghi, non avrebbero abbisognato di titolo edilizio (terzo e
quarto motivo di ricorso);
d) che dette ordinanze sarebbero illegittime in quanto emanate in
aperta lesione del legittimo affidamento che si sarebbe ingenerato nella
ricorrente a fronte dell'inerzia e dei ritardi dell'amministrazione
nell'accertare gli abusi, non colpiti dalle ord. nn. 64 e 71 del 2004,
sebbene all'epoca già realizzati, e che comunque i provvedimenti gravati
sarebbero privi della motivazione “rafforzata” necessaria, a detta
della ricorrente, per perseguire abusi risalenti nel tempo, in violazione
dell'art. 3 l. n. 241/1990 e del corrispondente art. 4 l. n. 23/1992;
e) che sarebbe ravvisabile sviamento di potere nel fatto che la
reiterata attività di vigilanza dell'Amministrazione sarebbe stata motivata,
non dalle esigenze di repressione degli abusi edilizi ed urbanistici ma
dall'intento di favorire la controinteressata, autrice della denuncia che ha
determinato il sopralluogo del 30.05.2012.
...
Con il quinto motivo, la ricorrente lamenta che entrambe le ordinanze
gravate sarebbero state emanate in aperta lesione del principio del
legittimo affidamento, che sarebbe stato ingenerato dal fatto che
l'Amministrazione non avrebbe, nelle precedenti ordinanze del 2004,
contestato gli abusi relativi all'installazione della sbarra ed
all'ampliamento del tracciato sulle pp.ff. nn. 2210/8 e 2210/2 di sua
proprietà, anch'essi risalenti agli anni ottanta.
Anche tale motivo è infondato.
La giurisprudenza, infatti, è costante nel negare che possa configurarsi un
affidamento alla conservazione di una situazione di fatto illecita, oppure
un effetto sanante, in ragione del tempo trascorso dal momento della
commissione dell'abuso (cfr., ad es.: Cons. Stato, sez. VI, n. 496/2013).
Parimenti, va respinta la collegata censura di carenza di motivazione delle
ingiunzioni impugnate, in violazione dell'art. 3 l. n. 241/1990 e dell'art.
4 l.p. n. 23/1992. Viene lamentato che se l'abuso si colloca a notevole
distanza di tempo dall'intervento repressivo dell'amministrazione,
occorrerebbe una motivazione “rafforzata”, cioè non esclusivamente
fondata sull'accertato illecito ma che dia conto anche delle ragioni di
interesse pubblico al ripristino ed alla loro prevalenza rispetto
all'interesse del privato alla conservazione dell'opera.
Tale assunto non può essere condiviso: il decorso del tempo non può elidere
l'obbligo di motivazione, ma neppure aggravarlo. Essendo infatti l'ordinanza
di demolizione un atto vincolato all'accertamento dei relativi presupposti,
non sono richieste valutazioni (e pertanto nemmeno motivazioni) di natura
comparativa in ordine ai contrapposti interessi in gioco o giudizi circa la
sussistenza di un interesse pubblico all'eliminazione dell'opera abusiva.
Non sussistendo nessun legittimo affidamento del privato che possa dirsi
tutelato, non è necessario individuare un interesse pubblico prevalente che
possa giustificarne il sacrificio (cfr., ad es.: Cons. Stato, sez. VI, n.
1268/2013)
(TRGA Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 20.06.2013 n. 210 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini del conseguimento della sanatoria per
costruzioni abusive, l’onere di fornire la prova in ordine
alla ricorrenza del presupposto temporale richiesto per la
concessione del beneficio in questione incombe sul soggetto
che ha compiuto l’abuso edilizio, mentre
sull’Amministrazione grava l’onere di controllare
l’attendibilità dei fatti dedotti ex adverso, compiendo ogni
opportuna verifica istruttoria ed, eventualmente,
contrapponendo ad essi le risultanze di proprie verifiche ed
accertamenti d’ufficio.
La dichiarazione sostitutiva di notorietà dell’intervenuta
ultimazione delle opere entro la data di scadenza non ha
alcuna valenza privilegiata. Ai fini della condonabilità
delle opere abusive la stessa rappresenta solo un principio
di prova potenzialmente idoneo e sufficiente a dimostrare la
data di ultimazione delle opere; detta dichiarazione
sostitutiva non preclude all’Amministrazione, in sede di
esame della stessa, la possibilità di raccogliere nel corso
del procedimento elementi a contrario e pervenire a
risultanze diverse, senza che ciò faccia ricadere su quest’ultima
l’onere di fornire la prova dell’ultimazione dei lavori in
data successiva a quella dichiarata dall’interessato.
E’ stato quindi ritenuto in giurisprudenza che “la
dichiarazione sostitutiva di atto notorio può essere posta a
fondamento dell'istanza di condono quale principio di prova
idoneo e sufficiente a dimostrare la data di ultimazione
della costruzione ciò non esclude che, a contrastare tale
valenza probatoria, possa essere posto qualsiasi altro
elemento in possesso dell'Amministrazione e tale da
inficiare la valenza suddetta tra cui le risultanze
provenienti da terzi e specificamente il rilievo
aerofotogrammetrico che comprovi lo stato di inedificazione
del suolo ove è stata poi realizzata la costruzione”.
In estrema sintesi, quindi, la prova sulla realizzazione
delle opere entro la data del 31.03.2003 grava sul
richiedente la sanatoria, che può avvalersi –se non vi è
contestazione– della dichiarazione sostitutiva di atto di
notorietà, ma a fronte di elementi di prova a disposizione
dell’Amministrazione che attestino il contrario –quali il
rilievo aerofotogrammetrico- il responsabile dell’abuso è
gravato dall’onere di provare, attraverso elementi certi,
quali fotografie aeree, fatture, sopralluoghi, e così via,
l’effettiva realizzazione dei lavori entro il termine
previsto dalla legge per poter usufruire del beneficio, non
potendo limitarsi a contestare i dati in possesso
dell’Amministrazione senza fornire alcun elemento di prova a
corredo della propria tesi, in quanto l’Amministrazione -in
assenza di elementi di prova contrari- non può che
respingere la domanda di sanatoria.
---------------
La censura è infondata.
Occorre innanzitutto rilevare che ai fini del conseguimento
della sanatoria per costruzioni abusive, l’onere di fornire
la prova in ordine alla ricorrenza del presupposto temporale
richiesto per la concessione del beneficio in questione
incombe sul soggetto che ha compiuto l’abuso edilizio,
mentre sull’Amministrazione grava l’onere di controllare
l’attendibilità dei fatti dedotti ex adverso,
compiendo ogni opportuna verifica istruttoria ed,
eventualmente, contrapponendo ad essi le risultanze di
proprie verifiche ed accertamenti d’ufficio (TAR Marche
11/03/1995 n. 118).
La dichiarazione sostitutiva di notorietà dell’intervenuta
ultimazione delle opere entro la data di scadenza non ha
alcuna valenza privilegiata. Ai fini della condonabilità
delle opere abusive la stessa rappresenta solo un principio
di prova potenzialmente idoneo e sufficiente a dimostrare la
data di ultimazione delle opere (TAR Campania Napoli Sez. VI
02/01/2006 n. 7); detta dichiarazione sostitutiva non
preclude all’Amministrazione, in sede di esame della stessa,
la possibilità di raccogliere nel corso del procedimento
elementi a contrario e pervenire a risultanze diverse, senza
che ciò faccia ricadere su quest’ultima l’onere di fornire
la prova dell’ultimazione dei lavori in data successiva a
quella dichiarata dall’interessato (TAR Lazio Sez. Latina
29/07/2003 n. 675).
E’ stato quindi ritenuto in giurisprudenza che “la
dichiarazione sostitutiva di atto notorio può essere posta a
fondamento dell'istanza di condono quale principio di prova
idoneo e sufficiente a dimostrare la data di ultimazione
della costruzione ciò non esclude che, a contrastare tale
valenza probatoria, possa essere posto qualsiasi altro
elemento in possesso dell'Amministrazione e tale da
inficiare la valenza suddetta tra cui le risultanze
provenienti da terzi e specificamente il rilievo
aerofotogrammetrico che comprovi lo stato di inedificazione
del suolo ove è stata poi realizzata la costruzione”
(TAR Puglia Bari, sez. II, 10.09.2003, n. 3248).
In estrema sintesi, quindi, la prova sulla realizzazione
delle opere entro la data del 31.03.2003 grava sul
richiedente la sanatoria, che può avvalersi –se non vi è
contestazione– della dichiarazione sostitutiva di atto di
notorietà, ma a fronte di elementi di prova a disposizione
dell’Amministrazione che attestino il contrario –quali il
rilievo aerofotogrammetrico- il responsabile dell’abuso è
gravato dall’onere di provare, attraverso elementi certi,
quali fotografie aeree, fatture, sopralluoghi, e così via,
l’effettiva realizzazione dei lavori entro il termine
previsto dalla legge per poter usufruire del beneficio, non
potendo limitarsi a contestare i dati in possesso
dell’Amministrazione senza fornire alcun elemento di prova a
corredo della propria tesi, in quanto l’Amministrazione -in
assenza di elementi di prova contrari- non può che
respingere la domanda di sanatoria.
Nel caso di specie, la ricorrente non ha prodotto né in sede
procedimentale, né processuale, alcun elemento di prova in
merito al rispetto del termine di scadenza del 31.03.2003,
limitandosi a sostenere che i rilievi della Compagnia
Generale Riprese Aree non avrebbero alcun valore probatorio.
Peraltro, la tesi della ricorrente diretta a sostenere
l’irrilevanza delle riprese aeree, è destituita di
fondamento in quanto la Compagnia Generale Riprese Aeree è
munita di autorizzazione ENAC e di licenza da parte del
Ministero dei Trasporti che le consente di effettuare
riprese aeree per tutti gli Enti istituzionali, ivi compresi
quelli Cartografici (Istituto Geografico Militare, Agenzia
per il Territorio, Istituto Idrografico della Marina, ecc).,
e la stessa Compagnia Generale Riprese Aeree ha certificato
di aver effettuato la ripresa in questione (nella quale il
manufatto non è presente) il giorno 12/07/2003 (il manufatto
è invece visibile in riprese effettuate in data più
recente); in ogni caso –in presenza di risultanze
istruttorie attestanti la realizzazione del fabbricato oltre
il termine del 31/03/2003 e la totale assenza di elementi di
prova contrari– il diniego di condono appare pienamente
legittimo, tenuto conto del mancato adempimento all’onere
probatorio gravante sul richiedente.
Il ricorso avverso il diniego di condono deve essere quindi
respinto tenuto conto che non è ravvisabile neppure la
violazione procedimentale, atteso che l’Amministrazione ha
inviato il preavviso di diniego ex art. 10-bis della L.
241/1990 ed ha esaminato le osservazioni presentate dalla
ricorrente premurandosi anche di acquisire ulteriori
chiarimenti da parte della società che ha effettuato i
rilievi aerofotogrammetrici (cfr. doc. n. 8 fascicolo del
Comune) al fine di fugare eventuali dubbi nascenti proprio
dalle osservazioni svolte in sede procedimentale, il che
consente di respingere anche il terzo motivo di impugnazione (TAR
Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 06.12.2010 n. 35404 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
In presenza di un
provvedimento sostenuto da più motivi, ciascuno
autonomamente idoneo a darne giustificazione, è sufficiente
che sia verificata la legittimità di uno di essi per
escludere che l'atto possa essere annullato in sede
giurisdizionale.
---------------
Il provvedimento di diniego risulta quindi legittimamente
adottato sulla base del primo presupposto sul quale si fonda
(mancata realizzazione delle opere entro il termine del
31/03/2003).
In presenza di un provvedimento sostenuto da più motivi,
ciascuno autonomamente idoneo a darne giustificazione, è
sufficiente che sia verificata la legittimità di uno di essi
per escludere che l'atto possa essere annullato in sede
giurisdizionale (TAR Campania Napoli, sez. IV, 29.07.2010,
n. 17066); il giudicante, in tal caso, è esonerato
dall'onere di esaminare le censure residue (TAR Lazio Roma,
sez. II, 15.07.2010, n. 26067).
Il Collegio può quindi esimersi dall’esaminare il secondo
motivo di impugnazione (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 06.12.2010 n. 35404 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
A fronte del diniego di sanatoria l’ordinanza di
demolizione si appalesa come atto meramente consequenziale
al diniego.
L'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e,
quindi, non richiede una specifica valutazione delle ragioni
di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo
con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione. Non può ammettersi
alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva che il tempo non può avere
legittimato.
---------------
La mancata comunicazione di avvio del procedimento volto
all'adozione di un provvedimento di demolizione, ai sensi
dell'art. 21-octies, l. n. 241 del 1990, non determina
l'annullamento del provvedimento impugnato relativamente
all'ordine di demolizione, rispetto al quale assurge a mero
vizio formale, non potendo sovvertire l’esito del
procedimento.
---------------
In presenza di un atto vincolato qualunque violazione
procedimentale deve considerarsi vizio meramente formale
tale da non poter comportare l’annullamento dell’atto.
---------------
Nell'ordinanza di demolizione è sufficiente che sia
riportata l'indicazione delle conseguenze della mancata
demolizione, mentre la misura dell'area da acquisire deve
reputarsi meramente indicativa, in quanto la corretta
determinazione potrà avvenire soltanto dopo il rituale
accertamento, da parte del Comune, dell'inottemperanza
all'ingiunzione; allorché sarà avviato, nell'ambito del
procedimento sanzionatorio di cui all'art. 31 del Testo
Unico, un sub-procedimento specificamente finalizzato alla
precisa individuazione delle aree da acquisirsi
gratuitamente ai sensi del comma 3.
----------------
Devono essere invece esaminati i motivi aggiunti proposti
avverso l’ordinanza di demolizione.
Occorre preventivamente rilevare che a fronte del diniego di
sanatoria l’ordinanza di demolizione si appalesa come atto
meramente consequenziale al diniego (TAR Toscana Sez. III
06/02/2008 n. 102).
“L'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e,
quindi, non richiede una specifica valutazione delle ragioni
di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo
con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione. Non può ammettersi
alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva che il tempo non può avere
legittimato” (cfr., tra le tante, Consiglio Stato , sez.
IV, 31.08.2010, n. 3955; TAR Campania Napoli, sez. VI,
26.08.2010, n. 17238; 29.07.2010 n. 17066).
Occorre poi rilevare, sempre in via preliminare, prima della
disamina delle singole censure, che la mancata comunicazione
di avvio del procedimento volto all'adozione di un
provvedimento di demolizione, ai sensi dell'art. 21-octies,
l. n. 241 del 1990, non determina l'annullamento del
provvedimento impugnato relativamente all'ordine di
demolizione, rispetto al quale assurge a mero vizio formale,
non potendo sovvertire l’esito del procedimento (TAR Lazio
Roma, sez. I, 03.08.2010, n. 2967; TAR Campania Napoli, sez.
VI, 26.08.2010 , n. 17238).
Completate queste premesse, possono esaminarsi i motivi
aggiunti.
Con la prima censura lamenta la ricorrente la mancata
valutazione del suo apporto procedimentale.
La censura è infondata.
Innanzitutto –come già rilevato- in presenza di un atto
vincolato qualunque violazione procedimentale deve
considerarsi vizio meramente formale tale da non poter
comportare l’annullamento dell’atto; inoltre, nel caso di
specie, l’osservazione della ricorrente non avrebbe mai
potuto sovvertire l’esito del procedimento, trattandosi di
mero rilievo sulla pendenza dinanzi al TAR Lazio del ricorso
avverso il diniego di condono (questione peraltro già nota
all’Amministrazione), elemento, questo, che contrariamente a
quanto ritenuto dalla ricorrente, non impedisce di certo al
Comune di adottare i provvedimenti sanzionatori
consequenziali al diniego di condono.
Altrettanto infondato è vizio di difetto di motivazione,
atteso che l’Amministrazione aveva già esaminato le
osservazioni della ricorrente prima di adottare il
provvedimento di diniego di condono, e non era tenuta a
rivalutarle in sede di adozione dell’ordinanza di
demolizione, atto meramente consequenziale al diniego di
sanatoria.
Con il terzo motivo la ricorrente lamenta l’omessa
indicazione dei criteri utilizzati dal comune per la
determinazione dell’area oggetto di acquisizione gratuita al
patrimonio del Comune.
La censura è infondata.
Nell'ordinanza di demolizione è sufficiente che sia
riportata l'indicazione delle conseguenze della mancata
demolizione, mentre la misura dell'area da acquisire deve
reputarsi meramente indicativa, in quanto la corretta
determinazione potrà avvenire soltanto dopo il rituale
accertamento, da parte del Comune, dell'inottemperanza
all'ingiunzione; allorché sarà avviato, nell'ambito del
procedimento sanzionatorio di cui all'art. 31 del Testo
Unico, un sub-procedimento specificamente finalizzato alla
precisa individuazione delle aree da acquisirsi
gratuitamente ai sensi del comma 3 (TAR Lombardia Milano,
sez. II, 26.01.2010, n. 175).
Correttamente, quindi, il comune si è limitato a richiamare
i criteri previsti dalla legge (art. 31, comma 3, D.P.R.
380/2001) (cfr. TAR Toscana Firenze, sez. III, 18.01.2010,
n. 35) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 06.12.2010 n. 35404 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO ALL'08.10.2018 |
ã |
Non
è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante il cambio
di destinazione d'uso di un garage, di un magazzino o di una
soffitta in un locale abitabile (anche senza opere
edilizie). |
EDILIZIA PRIVATA:
Cambio di destinazione d’uso senza permesso, demolizione
solo in caso di lavori «pesanti». Sulla necessità del
permesso di costruire in caso di mutamento di destinazione
d'uso di rilevanza urbanistica.
Sulla demolizione di opere edilizie abusive che hanno
comportato il mutamento della destinazione d'uso di una
soffitta-lavatoio–stenditoio ad uso abitativo residenziale.
Non
è controversa l’avvenuta destinazione del complesso
soffitta-lavatoio-stenditoio ad uso abitativo, Si tratta,
con ogni evidenza, di un mutamento di destinazione d’uso con
opere, in quanto anche la semplice realizzazione degli
impianti tecnologici e sanitari è sufficiente, per costante
giurisprudenza, a tal fine.
---------------
La disposta demolizione presuppone la classificazione del
mutamento di destinazione d’uso con opere nell’ambito della
ristrutturazione edilizia cd. “pesante” o “maggiore”,
alla quale fanno riferimento l’art. 33 del D.P.R. n.
380/2001 e l’art. 16 della L.R. n. 15/2008.
Tale classificazione è stata adottata dalla giurisprudenza
della Corte di cassazione in numerose sentenze.
Invero, la Suprema Corte ha avuto modo di
precisare, per quanto qui interessa, quanto segue:
- “la destinazione d'uso è un elemento che qualifica la
connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di
interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della
pianificazione.
Essa individua il bene sotto l'aspetto funzionale,
specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti
urbanistici in considerazione della differenziazione
infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata
dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e
quantità proprio a seconda della diversa destinazione di
zona. L'organizzazione del territorio comunale e la gestione
dello stesso vengono realizzate attraverso il coordinamento
delle varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili
relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono
negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando
appunto il complessivo assetto territoriale”;
- “quanto al mutamento di destinazione di uso di un immobile
attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie, deve
ricordarsi che, qualora esso venga realizzato dopo
l'ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza…. si
configura in ogni caso un'ipotesi di ristrutturazione
edilizia secondo la definizione fornita dal D.P.R. n. 380
del 2001, art. 3, comma 1, lett. d), in quanto l'esecuzione
dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre
alla creazione di "un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente".
L'intervento rimane assoggettato, pertanto, al previo
rilascio del permesso di costruire con pagamento del
contributo di costruzione dovuto per la diversa destinazione”;
- “un delicato problema di coordinamento interpretativo si
correla alla disposizione del D.P.R. n. 380 del 2001, art.
10, comma 1, lett. c), secondo la quale sono subordinati a
permesso di costruire "gli interventi di ristrutturazione
edilizia che ..., limitatamente agli immobili compresi nelle
zone omogenee A), comportino mutamenti della destinazione
d'uso". Il che potrebbe portare ad affermare che, fuori
delle zone omogenee A), la ristrutturazione edilizia (purché
non comporti aumento di unità immobiliari, modifiche del
volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici)
sarebbe sottratta al regime del permesso di costruire e
realizzabile mediante denuncia di inizio dell'attività anche
se si accompagni alla modifica della destinazione d'uso.
Una conclusione siffatta, però, si porrebbe in contrasto con
l'assoggettamento al permesso di costruire, anche fuori dei
centri storici, delle opere di manutenzione straordinaria e
di restauro e risanamento conservativo (interventi di minore
portata rispetto alla ristrutturazione edilizia) qualora
comportino modifiche delle destinazioni d'uso.
Un'interpretazione coerente della disposizione […],
conseguentemente, può aversi soltanto allorché si ritenga
che in essa il legislatore si è riferito alle "destinazioni
d'uso compatibili" già considerate dallo stesso D.P.R., art.
3, comma 1, lett. c) (nella descrizione della tipologia del
restauro e risanamento conservativo).
Gli interventi di ristrutturazione edilizia, in sostanza,
alla stessa stregua degli interventi di manutenzione
straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo:
- necessitano sempre di permesso di costruire, qualora comportino
mutamento di destinazione d'uso tra categorie funzionalmente
autonome dal punto di vista urbanistico;
- fuori dei centri storici sono realizzabili mediante denunzia di
attività qualora comportino il mutamento della destinazione
d'uso all'interno di una stessa categoria omogenea;
- nei centri storici non possono essere realizzati mediante
denunzia di attività neppure qualora comportino il mero
mutamento della destinazione d'uso all'interno di una stessa
categoria omogenea”.
Tale linea interpretativa è stata confermata dalla
successiva giurisprudenza.
In particolare, ha precisato che la “imprescindibile
necessità di mantenere l'originaria destinazione d'uso
caratterizza ancor oggi gli "interventi di manutenzione
straordinaria", non avendo alcun rilievo il fatto che, in
conseguenza delle modifiche introdotte dal D.L. 12.09.2014,
n. 133, art. 17, comma 1, lett. a), nn. 1 e 2, convertito,
con modificazioni, dalla L. 11.11.2014, n. 164, sia oggi
consentito nell'ambito di detti interventi procedere al
frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari con
esecuzione di opere anche se comportanti la variazione delle
superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico
urbanistico”.
---------------
Nel caso di trasformazione di vani accessori in vani
abitabili in un edificio residenziale, è da ritenersi
-in generale- che non vi sia il rispetto degli elementi
formali/strutturali dell’organismo edilizio.
La Corte di cassazione ritiene che gli "elementi
formali" attengono alla disposizione dei volumi,
elementi architettonici che distinguono in modo peculiare il
manufatto, configurando la sua immagine caratteristica;
mentre gli "elementi strutturali"
sono quelli che materialmente compongono la struttura
dell'organismo edilizio.
Ad avviso del Collegio, detti requisiti non vanno
giustapposti, bensì considerati sinteticamente come
espressivi dell’identità dell’edificio residenziale, che è
connotato non solo tipologicamente, ma anche come
individualità che include una determinata proporzione di
elementi accessori, la cui eliminazione trascende l’ambito
della mera conservazione, sia pur intesa dinamicamente.
Inoltre, il Collegio ritiene decisivo osservare che la
qualificazione dell’intervento in questione quale restauro e
risanamento conservativo è radicalmente preclusa dal testo
dell’art. 16, comma 1, della L.R. 11.08.2008, n. 15
(applicato nella fattispecie dall’Amministrazione), il quale
accomuna espressamente agli interventi di ristrutturazione
edilizia di cui all’art. 10, comma 1, lett. c) del D.P.R. n.
380/2001 i “cambi di destinazione d’uso da una categoria
generale ad un’altra…in assenza di permesso di costruire o
di denuncia di inizio attività nei casi previsti dall’art.
22, comma 3, lett. a), del D.P.R. n. 380/2001”, senza
limitarne la portata applicativa alle Zone A.
---------------
La questione è connessa a quella del carattere
urbanisticamente rilevante di questo tipo di mutamento (da
locale accessorio o pertinenza a vano abitabile).
Si tratta, in realtà, di un mutamento del tutto assimilabile
a un cambio di categoria rilevante ai sensi dell’art.
23-ter, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001 e come tale avente
rilevanza urbanistica ai sensi del
punto 38 della
Tabella A
- Edilizia allegata al decreto SCIA 2 (D.Lgs. 222/2016).
Questo Tribunale ha affermato al riguardo che “nell’ambito
di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono
distinguersi i locali abitabili in senso stretto
dagli spazi “accessori” o adibiti a servizi che,
secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno valore
di superficie edificabile e non sono presi in considerazione
come superficie residenziale all’atto del rilascio del
permesso di costruire: autorimesse, cantine, soffitte e
locali di servizio rientrano, di norma, in questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante
la trasformazione di un garage, di un magazzino o di una
soffitta in un locale abitabile; senza considerare i profili
igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni caso si
configura, infatti, un ampliamento della superficie
residenziale e della relativa volumetria autorizzate con
l’originario permesso di costruire”.
---------------
1. La società ricorrente impugna l'ordinanza prot. n. 1954
n. 9/2017 del 01.02.2017 del Comune di Rignano Flaminio
avente ad oggetto la demolizione opere edilizie abusive ai
sensi dell’art. 31 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, unitamente
al presupposto verbale di sopralluogo della Polizia Locale.
Le opere in questione riguardano una unità immobiliare
collocata nell'immobile censito nel N.C.E.U. al Foglio 4,
Particella 1014, Subalterno 568, edificato sul terreno in
Catasto al Foglio 4, Particella 1014 (edificio B) e situato
in Zona B di P.R.G., in area non vincolata
paesaggisticamente.
Esse hanno comportato il mutamento della destinazione d'uso
a soffitta-lavatoio-stenditoio, risultante dagli elaborati
progettuali dei Permessi di Costruire, in destinazione
residenziale, a seguito di un insieme sistematico di opere
accessorie realizzate per rendere i vari ambienti dell'unità
immobiliare adatti ad un uso abitativo, le quali sono così
descritte:
- Installazione di un termosifone e fornitura del gas nel vano
denominato "soffitta C1" adibito a cucina con gli appositi
arredi.
- Installazione di due termosifoni, realizzazione di una presa TV e
telefono nonché di prese della corrente nel vano principale
denominato "soffitta C" ora adibito a soggiorno.
- Installazione di un termosifone, realizzazione di una presa TV
nonché di prese della corrente, nel vano denominato
"Soffitta C2" ora adibito a camera da letto matrimoniale con
armadio.
- Installazione di un termosifone, realizzazione di un wc, doccia e
prese della corrente nel vano denominato “lavatoio” ora
adibito a bagno.
- Realizzazione di una presa TV e della corrente nello stenditoio
scoperto lato sud.
- Realizzazione di un vano caldaia nello stenditoio scoperto lato
est.
...
6. Il terzo motivo di ricorso attiene alla disciplina
del mutamento di destinazione d'uso, che necessita di
permesso di costruire soltanto in caso di rilevanza
urbanistica.
Secondo il ricorrrente, ove non si verifichi il passaggio da
una categoria all’altra, di cui all’art. 23-bis del T.U. Ed.,
è sufficiente una semplice DIA (ora SCIA), la cui omissione
non è passibile di ordinanza di demolizione, ma solamente
della sanzione pecuniaria di cui all’art. 37 T.U. cit., che
fa salve le ipotesi, qui non ricorrenti, degli interventi
eseguiti su beni culturali ovvero in zona tipizzata come “A”
dallo strumento urbanistico.
6.1 Il motivo è infondato.
6.1.1 In punto di fatto, non è controversa l’avvenuta
destinazione del complesso soffitta-lavatoio-stenditoio ad
uso abitativo, come risulta anche dai rilievi fotografici
acquisiti agli atti del giudizio.
Si tratta inoltre, con ogni evidenza, di un mutamento di
destinazione d’uso con opere, in quanto anche la semplice
realizzazione degli impianti tecnologici e sanitari è
sufficiente, per costante giurisprudenza, a tal fine.
6.1.2 In punto di diritto, va anzitutto osservato che la
disposta demolizione presuppone la classificazione del
mutamento di destinazione d’uso con opere nell’ambito della
ristrutturazione edilizia cd. “pesante” o “maggiore”,
alla quale fanno riferimento l’art. 33 del D.P.R. n.
380/2001 e l’art. 16 della L.R. n. 15/2008.
Tale classificazione è stata adottata dalla giurisprudenza
della Corte di cassazione in numerose sentenze.
Già con la
sentenza
05.03.2009 n. 9894
della III sezione penale, la Suprema Corte ha avuto modo di
precisare, per quanto qui interessa, quanto segue:
- “la destinazione d'uso è un elemento che qualifica la
connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di
interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della
pianificazione.
Essa individua il bene sotto l'aspetto funzionale,
specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti
urbanistici in considerazione della differenziazione
infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata
dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e
quantità proprio a seconda della diversa destinazione di
zona. L'organizzazione del territorio comunale e la gestione
dello stesso vengono realizzate attraverso il coordinamento
delle varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili
relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono
negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando
appunto il complessivo assetto territoriale”;
- “quanto al mutamento di destinazione di uso di un immobile
attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie, deve
ricordarsi che, qualora esso venga realizzato dopo
l'ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza…. si
configura in ogni caso un'ipotesi di ristrutturazione
edilizia secondo la definizione fornita dal D.P.R. n. 380
del 2001, art. 3, comma 1, lett. d), in quanto l'esecuzione
dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre
alla creazione di "un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente".
L'intervento rimane assoggettato, pertanto, al previo
rilascio del permesso di costruire con pagamento del
contributo di costruzione dovuto per la diversa destinazione”;
- “un delicato problema di coordinamento interpretativo si
correla alla disposizione del D.P.R. n. 380 del 2001, art.
10, comma 1, lett. c), secondo la quale sono subordinati a
permesso di costruire "gli interventi di ristrutturazione
edilizia che ..., limitatamente agli immobili compresi nelle
zone omogenee A), comportino mutamenti della destinazione
d'uso". Il che potrebbe portare ad affermare che, fuori
delle zone omogenee A), la ristrutturazione edilizia (purché
non comporti aumento di unità immobiliari, modifiche del
volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici)
sarebbe sottratta al regime del permesso di costruire e
realizzabile mediante denuncia di inizio dell'attività anche
se si accompagni alla modifica della destinazione d'uso.
Una conclusione siffatta, però, si porrebbe in contrasto con
l'assoggettamento al permesso di costruire, anche fuori dei
centri storici, delle opere di manutenzione straordinaria e
di restauro e risanamento conservativo (interventi di minore
portata rispetto alla ristrutturazione edilizia) qualora
comportino modifiche delle destinazioni d'uso.
Un'interpretazione coerente della disposizione […],
conseguentemente, può aversi soltanto allorché si ritenga
che in essa il legislatore si è riferito alle "destinazioni
d'uso compatibili" già considerate dallo stesso D.P.R., art.
3, comma 1, lett. c) (nella descrizione della tipologia del
restauro e risanamento conservativo).
Gli interventi di ristrutturazione edilizia, in sostanza,
alla stessa stregua degli interventi di manutenzione
straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo:
- necessitano sempre di permesso di costruire, qualora comportino
mutamento di destinazione d'uso tra categorie funzionalmente
autonome dal punto di vista urbanistico;
- fuori dei centri storici sono realizzabili mediante denunzia di
attività qualora comportino il mutamento della destinazione
d'uso all'interno di una stessa categoria omogenea;
- nei centri storici non possono essere realizzati mediante
denunzia di attività neppure qualora comportino il mero
mutamento della destinazione d'uso all'interno di una stessa
categoria omogenea”.
Tale linea interpretativa è stata confermata dalla
successiva giurisprudenza (cfr. ex multis
Cass. pen, sez. III, 28.01.2015, n. 3953).
In particolare,
Cass. pen, sez. III,
14.02.2017, n. 6873, ha precisato che la “imprescindibile
necessità di mantenere l'originaria destinazione d'uso
caratterizza ancor oggi gli "interventi di manutenzione
straordinaria", non avendo alcun rilievo il fatto che, in
conseguenza delle modifiche introdotte dal D.L. 12.09.2014,
n. 133, art. 17, comma 1, lett. a), nn. 1 e 2, convertito,
con modificazioni, dalla L. 11.11.2014, n. 164, sia oggi
consentito nell'ambito di detti interventi procedere al
frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari con
esecuzione di opere anche se comportanti la variazione delle
superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico
urbanistico”.
Dalla ricostruzione della disciplina normativa successiva
alle riforme del 2014-2017 potrebbe trarsi, secondo una
diversa ipotesi, anche l'interpretazione per cui il
mutamento di destinazione d’uso potrebbe essere ricompreso
-almeno in alcuni casi- nella definizione di restauro e
risanamento conservativo (secondo la linea interpretativa
adottata da TAR Toscana, sez. III, 28.07.2017, n. 1009).
Ad avviso del Collegio, tuttavia, questa classificazione (la
quale comporterebbe un diverso regime sanzionatorio
edilizio, conformemente alla prospettazione della parte
ricorrente) non può essere recepita.
In realtà la sentenza della Cassazione da ultimo menzionata,
richiamando la giurisprudenza anteriore, ha anche precisato
sul punto che nella categoria del restauro e risanamento
conservativo “possono essere annoverate soltanto le opere
di recupero abitativo, che mantengono in essere le
preesistenti strutture, alle quali apportano un
consolidamento, un rinnovo o l'inserimento di nuovi elementi
costitutivi, a condizione che siano complessivamente
rispettate tipologia, forma e struttura dell'edificio”.
La diversa opinione fa leva, oggi, sulla nuova definizione
di restauro e risanamento conservativo introdotta nell’art.
3, comma 1, lett. c), del D.P.R. n. 380/2001, ad opera
dell’art. 65-bis della L. n. 96/2017: “gli interventi
edilizi rivolti a conservare l'organismo edilizio e ad
assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico
di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici,
formali e strutturali dell'organismo stesso, ne consentano
anche il mutamento delle destinazioni d'uso purché con tali
elementi compatibili, nonché conformi a quelle previste
dallo strumento urbanistico generale e dai relativi piani
attuativi. Tali interventi comprendono il consolidamento, il
ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi
dell'edificio, l'inserimento degli elementi accessori e
degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso,
l'eliminazione degli elementi estranei all'organismo
edilizio”.
Pur tuttavia, anche questa versione della norma prevede
sempre il requisito della compatibilità con gli elementi
tipologici, formali e strutturali dell'organismo edilizio
(su cui cfr.
Consiglio di Stato, sez. IV, 30.09.2013, n. 4851).
Ora, nel caso di trasformazione di vani accessori in vani
abitabili in un edificio residenziale, è da ritenersi -in
generale- che non vi sia il rispetto degli elementi
formali/strutturali dell’organismo edilizio.
La Corte di cassazione ritiene che gli "elementi
formali" attengono alla disposizione dei volumi,
elementi architettonici che distinguono in modo peculiare il
manufatto, configurando la sua immagine caratteristica;
mentre gli "elementi strutturali" sono quelli
che materialmente compongono la struttura dell'organismo
edilizio (Cass.
pen., sez. III, 26.11.2014, n. 49221).
Ad avviso del Collegio, detti requisiti non vanno
giustapposti, bensì considerati sinteticamente come
espressivi dell’identità dell’edificio residenziale, che è
connotato non solo tipologicamente, ma anche come
individualità che include una determinata proporzione di
elementi accessori, la cui eliminazione trascende l’ambito
della mera conservazione, sia pur intesa dinamicamente.
Inoltre, il Collegio ritiene decisivo osservare che la
qualificazione dell’intervento in questione quale restauro e
risanamento conservativo è radicalmente preclusa dal testo
dell’art. 16, comma 1, della L.R. 11.08.2008, n. 15
(applicato nella fattispecie dall’Amministrazione), il quale
accomuna espressamente agli interventi di ristrutturazione
edilizia di cui all’art. 10, comma 1, lett. c) del D.P.R. n.
380/2001 i “cambi di destinazione d’uso da una categoria
generale ad un’altra…in assenza di permesso di costruire o
di denuncia di inizio attività nei casi previsti dall’art.
22, comma 3, lett. a), del D.P.R. n. 380/2001”, senza
limitarne la portata applicativa alle Zone A.
In piena continuità con questa impostazione si colloca, da
ultimo, la recente L.R. 18.07.2017, n. 7 (“Disposizioni
per la rigenerazione urbana e il recupero edilizio”), la
quale così dispone all’art. 4, comma 1: “I comuni, con
apposita deliberazione di consiglio comunale da approvare
mediante le procedure di cui all'articolo 1, comma 3, della
L.R. n. 36/1987, possono prevedere nei propri strumenti
urbanistici generali, previa acquisizione di idoneo titolo
abilitativo di cui al D.P.R. n. 380/2001, l'ammissibilità di
interventi di ristrutturazione edilizia, compresa la
demolizione e ricostruzione, di singoli edifici aventi una
superficie lorda complessiva fino ad un massimo di 10.000
mq, con mutamento della destinazione d'uso tra le categorie
funzionali individuate all'articolo 23-ter del D.P.R.
380/2001 con esclusione di quella rurale”.
La questione è connessa a quella del carattere
urbanisticamente rilevante di questo tipo di mutamento (da
locale accessorio o pertinenza a vano abitabile).
Si tratta, in realtà, di un mutamento del tutto assimilabile
a un cambio di categoria rilevante ai sensi dell’art.
23-ter, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001 e come tale avente
rilevanza urbanistica ai sensi del
punto 38 della
Tabella A
- Edilizia allegata al decreto SCIA 2 (D.Lgs. 222/2016).
Questo Tribunale ha affermato al riguardo che “nell’ambito
di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono
distinguersi i locali abitabili in senso stretto
dagli spazi “accessori” o adibiti a servizi che,
secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno valore
di superficie edificabile e non sono presi in considerazione
come superficie residenziale all’atto del rilascio del
permesso di costruire: autorimesse, cantine, soffitte e
locali di servizio rientrano, di norma, in questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante
la trasformazione di un garage, di un magazzino o di una
soffitta in un locale abitabile; senza considerare i profili
igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni caso si
configura, infatti, un ampliamento della superficie
residenziale e della relativa volumetria autorizzate con
l’originario permesso di costruire” (cfr.
TAR Lazio, sez. II-bis, 11.07.2018, n. 7739; cfr.
altresì
sez. II-bis, 04.04.2017, n. 4225;
sez. II-bis, 30.01.2017, n. 1439; nonché
Cass. pen., sez. fer., 05.10.2015, n.
39907).
Per mera completezza va anche osservato che nessun rilievo
riveste, nella specie, il profilo di cui all’art. 23-ter,
comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 (“La destinazione d'uso
di un fabbricato o di una unità immobiliare è quella
prevalente in termini di superficie utile”): secondo la
Cassazione penale, sez. III, 29.11.2016, n. 50503,
l’accertamento sulla prevalenza della destinazione d'uso del
fondo riguarda solamente il caso di una destinazione mista,
allo scopo di stabilire quale sia la destinazione d'uso da
considerare prevalente, per verificare se vi sia stato un
mutamento rispetto ad essa; mentre nel caso dei locali
accessori non si discute della destinazione residenziale
complessiva dell’opera, che è certa ed è unitaria, ma della
diversa questione della ripartizione dei volumi principali e
accessori, secondo le considerazioni poc’anzi esposte.
...
9. Conclusivamente il ricorso va respinto (TAR Lazio-Roma,
Sez. II-quater,
sentenza 30.08.2018 n. 9074 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulle
opere realizzate volte a trasformare i locali adibiti a servizi (soffitta,
lavatoio, stenditoio ed essiccatoio) in abitazione.
Le opere realizzate dalla ricorrente, volte a trasformare
i locali adibiti a servizi (soffitta, lavatoio, stenditoio ed essiccatoio)
in abitazione, con la modifica dei prospetti, sono, in verità, idonee a
mutare radicalmente la destinazione d’uso dell’immobile in questione in
locale residenziale, incidendo in modo determinate sul carico urbanistico e
non appaiono legittimate dalla presentata DIA.
Per la normativa edilizia [art. 3, comma 1, lett. a) e c), del Testo
Unico numero 380 del 2001, in combinato disposto con l’art. 10, comma 1,
lett. c), e con l’art. 23-ter dello stesso Testo Unico] le opere interne
e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di
manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo,
necessitano, infatti, del preventivo rilascio del permesso di costruire, e
non di semplice DIA, ogni qual volta comportino mutamento di destinazione
d'uso tra due categorie funzionalmente autonome.
Sono, dunque, errate le deduzioni della ricorrente circa la valenza solo
interna e “neutra” della modificazione dell’uso del terzo piano del
fabbricato -originariamente destinato a soffitta- che, ai fini dell’art. 23-ter T.U. Edilizia non poteva considerarsi semplicemente già tutto a
destinazione abitativa.
In realtà, nell’ambito di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono
distinguersi i locali abitabili in senso stretto dagli spazi “accessori” o
adibiti a servizi che, secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno
valore di superficie edificabile e non sono presi in considerazione come
superficie residenziale all’atto del rilascio del permesso di costruire:
autorimesse, cantine, soffitte e locali di servizio rientrano, di norma, in
questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante la
trasformazione di un garage, di un magazzino o di una soffitta in un locale
abitabile; senza considerare i profili igienico-sanitari di abitabilità del
vano, in ogni caso si configura, infatti, un ampliamento della superficie
residenziale e della relativa volumetria autorizzate con l’originario
permesso di costruire.
Aderendo, quindi, al costante orientamento della giurisprudenza, deve ritenersi che “solo il
cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee non necessita
di permesso di costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico)
mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie edilizie funzionalmente
autonome e non omogenee, così come tra locali accessori e vani ad uso
residenziale, ciò integra una modificazione edilizia con effetti incidenti
sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del
permesso di costruire, indipendentemente dall'esecuzione di opere che,
comunque, nel caso in esame sono presenti”.
---------------
Il provvedimento di demolizione delle
opere abusive si rivela frutto di una sufficiente istruttoria e congruamente
motivato con il richiamo alle risultanze dell’accertamento del 27.11.2017,
nonché del tutto vincolato, senza che la partecipazione della ricorrente,
volta a rappresentare elementi, in realtà, ininfluenti sui fatti di causa,
potesse apportare alcun elemento utile ad una diversa determinazione
dell’Amministrazione.
Come evidenziato, del resto, dalla giurisprudenza amministrativa prevalente,
“è legittima l'ordinanza di demolizione che non sia stata preceduta dalla
comunicazione di avvio del procedimento, sia per la natura vincolata
dell'attività amministrativa volta alla repressione degli abusi edilizi, sia
per l'operatività dell'art. 21-octies, l. 07.08.1990, n. 241 atteso che,
in base a tale ultima disposizione, l'omissione non comporta comunque
conseguenze sul piano della legittimità dei provvedimenti adottati, qualora
il contenuto dispositivo di essi non avrebbe potuto essere diverso, anche a
fronte della partecipazione degli interessati".
---------------
Con il ricorso in epigrafe la Ed.Pe. s.r.l. ha chiesto al Tribunale
di annullare, previa sospensione dell’efficacia, la determinazione
dirigenziale di Roma Capitale dell’11.01.2018, avente ad oggetto
“Ingiunzione a rimuovere o demolire gli interventi di ristrutturazione
edilizia abusivamente realizzati in via del Pergolato n. 84 (art. 16 Legge
Regione Lazio n. 15/2008 e s.m.i.) fasc. UDE 117/17” e qualsiasi altro atto
presupposto e/o conseguente del procedimento.
...
Il ricorso non è fondato e deve essere respinto.
Le opere realizzate dalla ricorrente, volte, come anticipato, a trasformare
i locali adibiti a servizi (soffitta, lavatoio, stenditoio ed essiccatoio)
in abitazione, con la modifica dei prospetti, sono, in verità, idonee a
mutare radicalmente la destinazione d’uso dell’immobile in questione in
locale residenziale, incidendo in modo determinate sul carico urbanistico e
non appaiono legittimate dalla DIA del 16.05.2006.
Per la normativa edilizia [articolo 3, comma 1, lettere a) e c), del Testo
Unico numero 380 del 2001, in combinato disposto con l’articolo 10, comma 1,
lettera c), e con l’articolo 23-ter dello stesso Testo Unico] le opere interne
e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di
manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo,
necessitano, infatti, del preventivo rilascio del permesso di costruire, e
non di semplice DIA, ogni qual volta comportino mutamento di destinazione
d'uso tra due categorie funzionalmente autonome.
Sono, dunque, errate le deduzioni della ricorrente circa la valenza solo
interna e “neutra” della modificazione dell’uso del terzo piano del
fabbricato -originariamente destinato a soffitta- che, ai fini dell’art. 23-ter T.U. Edilizia non poteva considerarsi semplicemente già tutto a
destinazione abitativa.
In realtà, nell’ambito di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono
distinguersi i locali abitabili in senso stretto dagli spazi “accessori” o
adibiti a servizi che, secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno
valore di superficie edificabile e non sono presi in considerazione come
superficie residenziale all’atto del rilascio del permesso di costruire:
autorimesse, cantine, soffitte e locali di servizio rientrano, di norma, in
questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante la
trasformazione di un garage, di un magazzino o di una soffitta in un locale
abitabile; senza considerare i profili igienico-sanitari di abitabilità del
vano, in ogni caso si configura, infatti, un ampliamento della superficie
residenziale e della relativa volumetria autorizzate con l’originario
permesso di costruire.
Aderendo, quindi, al costante orientamento della giurisprudenza, di recente
ribadito da questa stessa Sezione (cfr. da ultimo TAR Lazio, Roma, Sez. II-bis,
04.04.2017 n. 4225 e 30.01.2017 n. 1439) deve ritenersi che “solo il
cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee non necessita
di permesso di costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico)
mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie edilizie funzionalmente
autonome e non omogenee, così come tra locali accessori e vani ad uso
residenziale, ciò integra una modificazione edilizia con effetti incidenti
sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del
permesso di costruire, indipendentemente dall'esecuzione di opere che,
comunque, nel caso in esame sono presenti”.
Alla luce di tali argomentazioni, il provvedimento di demolizione delle
opere abusive si rivela frutto di una sufficiente istruttoria e congruamente
motivato con il richiamo alle risultanze dell’accertamento del 27.11.2017,
nonché del tutto vincolato, senza che la partecipazione della ricorrente,
volta a rappresentare elementi, in realtà, ininfluenti sui fatti di causa,
potesse apportare alcun elemento utile ad una diversa determinazione
dell’Amministrazione.
Come evidenziato, del resto, dalla giurisprudenza amministrativa prevalente,
“è legittima l'ordinanza di demolizione che non sia stata preceduta dalla
comunicazione di avvio del procedimento, sia per la natura vincolata
dell'attività amministrativa volta alla repressione degli abusi edilizi, sia
per l'operatività dell'art. 21-octies, l. 07.08.1990, n. 241 atteso che,
in base a tale ultima disposizione, l'omissione non comporta comunque
conseguenze sul piano della legittimità dei provvedimenti adottati, qualora
il contenuto dispositivo di essi non avrebbe potuto essere diverso, anche a
fronte della partecipazione degli interessati” (cfr. ex multis, TAR
Marche, Sez. I, 28.09.2017 n. 750 TAR Campania, Napoli, Sez. III, 12.02.2018 n. 898).
In conclusione, il ricorso non può, come detto, che essere integralmente
rigettato
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 11.07.2018 n. 7739 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sul mutamento di
destinazione d'uso (senza esecuzione di opere o aumento di
volumi) del fabbricato posto in zona classificata come D2,
ricomprendente aree commerciali e terziarie di
completamento, in attività di preghiera o di culto.
La destinazione d'uso è un elemento che
qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a
precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di
attuazione della pianificazione. Essa individua il bene
sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di
zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione
della differenziazione infrastrutturale del territorio,
prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard,
diversi per qualità e quantità proprio a seconda della
diversa destinazione di zona.
L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello
stesso vengono realizzate attraverso il coordinamento delle
varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili
relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono
negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando
appunto il complessivo assetto territoriale.
Il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante
è dunque solo quello tra categorie funzionalmente autonome
dal punto di vista urbanistico, tenuto conto che nell'ambito
delle stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma
non diversi regimi urbanistico-contributivi, stanti le
sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell'ambito
della medesima categoria.
Il Consiglio di Stato ha affermato, al riguardo, che "la
richiesta di cambio della destinazione d'uso di un
fabbricato, qualora non inerisca all'ambito delle
modificazioni astrattamente possibili in una determinata
zona urbanistica, ma sia volta a realizzare un uso del tutto
difforme da quelli ammessi, si pone in insanabile contrasto
con lo strumento urbanistico, posto che, in tal caso, si
tratta non di una mera modificazione formale destinata a
muoversi tra i possibili usi del territorio consentiti dal
piano, bensì in un'alternazione idonea ad incidere
significativamente sulla destinazione funzionale ammessa dal
piano regolatore e tale, quindi, da alterare gli equilibri
prefigurati in quella sede".
---------------
Quanto al mutamento di destinazione d'uso realizzato, come
nel caso in esame, senza l'esecuzione di opere edilizie, è
stato chiarito che il mutamento di destinazione d'uso senza
opere è attualmente assoggettato a S.C.I.A., purché
intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica,
mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche
di destinazione che comportino il passaggio di categoria
o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici,
anche all'interno di una stessa categoria omogenea.
Dunque deve ritenersi consentita la modifica di destinazione
d'uso funzionale che non comporti una oggettiva
modificazione dell'assetto urbanistico ed edilizio del
territorio e non incida sugli indici di edificabilità, che
non determini, cioè, un aggravio del carico urbanistico,
inteso come maggiore richiesta di servizi cosiddetti
secondari, come ad esempio gli spazi pubblici destinati a
parcheggio e le esigenze di trasporto, smaltimento di
rifiuti e viabilità, derivante dalla diversa destinazione
impressa al bene.
---------------
Per quanto riguarda la destinazione a luogo di culto, la
stessa non è astrattamente incompatibile con le categorie
funzionali di cui all'art. 23-ter d.P.R. n. 380 del 2001, e
cioè quella residenziale, quella turistico-ricettiva, quella
produttiva e direzionale, quella commerciale e quella
rurale, in quanto può coesistere con tali destinazioni, a
condizione che non determini l'assegnazione dell'immobile a
una diversa categoria funzionale tra quelle suddette e non
comporti, ancorché tale destinazione non sia accompagnata
dalla esecuzione di opere edilizie, un aggravio del carico
urbanistico nel senso anzidetto.
L'attività di culto non rientra in alcuna delle suddette
categorie funzionali, sicché il suo svolgimento, di per sé,
non determina l'assegnazione dell'immobile a una di esse
diversa da quella originaria, salvo che ciò venga in
concreto accertato, unitamente, ai fini della
configurabilità del reato di cui all'art. 44, lett. a),
d.P.R. n. 380 del 2001, all'aggravio del carico urbanistico.
---------------
1. Il ricorso, come peraltro sottolineato anche dal
Procuratore Generale nella sua requisitoria scritta, è
fondato in relazione al primo e al terzo motivo,
essendo del tutto mancante la motivazione riguardo
all'aggravio del carico urbanistico conseguente alla diversa
destinazione d'uso impressa all'immobile senza esecuzione di
opere o aumento di volumi.
2. Il sequestro oggetto delle censure proposte dal
ricorrente è stato disposto in relazione al mutamento di
destinazione d'uso del fabbricato condotto in locazione
dallo stesso Da., nella sua veste di Presidente di una
associazione culturale, posto in zona classificata come D2,
ricomprendente aree commerciali e terziarie di
completamento, sulla base del rilievo che all'interno di
tale fabbricato sarebbe stata svolta attività di preghiera o
di culto, determinante mutamento della destinazione d'uso
del bene.
Al riguardo va dunque ricordato che questa Corte ha già
chiarito (cfr. Sez. 3, n. 9894 del 20/01/2009, Tarallo, Rv.
243102; conf. Sez. 3, n. 5712 del 13/12/2013, Tortora, Rv.
258686; Sez. 3, n. 39897 del 24/06/2014, Filippi, Rv.
260422; Sez. 3, n. 26455 del 05/04/2016, Stellato, Rv.
267106) che la destinazione d'uso è un elemento che
qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a
precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di
attuazione della pianificazione. Essa individua il bene
sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di
zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione
della differenziazione infrastrutturale del territorio,
prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard,
diversi per qualità e quantità proprio a seconda della
diversa destinazione di zona.
L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello
stesso vengono realizzate attraverso il coordinamento delle
varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili
relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono
negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando
appunto il complessivo assetto territoriale.
Il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante
è dunque solo quello tra categorie funzionalmente autonome
dal punto di vista urbanistico, tenuto conto che nell'ambito
delle stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma
non diversi regimi urbanistico-contributivi, stanti le
sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell'ambito
della medesima categoria.
Il Consiglio di Stato (Sez. 5, n. 24 del 03/01/1998, Comune
di Ostuni c. Mo. S.r.l.) ha affermato, al riguardo, che "la
richiesta di cambio della destinazione d'uso di un
fabbricato, qualora non inerisca all'ambito delle
modificazioni astrattamente possibili in una determinata
zona urbanistica, ma sia volta a realizzare un uso del tutto
difforme da quelli ammessi, si pone in insanabile contrasto
con lo strumento urbanistico, posto che, in tal caso, si
tratta non di una mera modificazione formale destinata a
muoversi tra i possibili usi del territorio consentiti dal
piano, bensì in un'alternazione idonea ad incidere
significativamente sulla destinazione funzionale ammessa dal
piano regolatore e tale, quindi, da alterare gli equilibri
prefigurati in quella sede".
Quanto al mutamento di destinazione d'uso realizzato, come
nel caso in esame, senza l'esecuzione di opere edilizie, è
stato chiarito (cfr. Sez. 3, n. 5712 del 13/12/2013, cit., e
successive conformi, tra cui Sez. 3, n. 39897 del
24/06/2014, e Sez. 3, n. 26455 del 05/04/2016, citate) che
il mutamento di destinazione d'uso senza opere è attualmente
assoggettato a S.C.I.A., purché intervenga nell'ambito della
stessa categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso
di costruire per le modifiche di destinazione che comportino
il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito
nei centri storici, anche all'interno di una stessa
categoria omogenea. Dunque deve ritenersi consentita la
modifica di destinazione d'uso funzionale che non comporti
una oggettiva modificazione dell'assetto urbanistico ed
edilizio del territorio e non incida sugli indici di
edificabilità, che non determini, cioè, un aggravio del
carico urbanistico, inteso come maggiore richiesta di
servizi cosiddetti secondari, come ad esempio gli spazi
pubblici destinati a parcheggio e le esigenze di trasporto,
smaltimento di rifiuti e viabilità (cfr., Sez. 3, n. 24852
del 08/05/2013, Pace, non massimata), derivante dalla
diversa destinazione impressa al bene.
3. Per quanto riguarda la destinazione a luogo di culto, la
stessa non è astrattamente incompatibile con le categorie
funzionali di cui all'art. 23-ter d.P.R. n. 380 del 2001, e
cioè quella residenziale, quella turistico-ricettiva, quella
produttiva e direzionale, quella commerciale e quella
rurale, in quanto può coesistere con tali destinazioni, a
condizione che non determini l'assegnazione dell'immobile a
una diversa categoria funzionale tra quelle suddette e non
comporti, ancorché tale destinazione non sia accompagnata
dalla esecuzione di opere edilizie, un aggravio del carico
urbanistico nel senso anzidetto.
L'attività di culto non rientra in alcuna delle suddette
categorie funzionali, sicché il suo svolgimento, di per sé,
non determina l'assegnazione dell'immobile a una di esse
diversa da quella originaria, salvo che ciò venga in
concreto accertato, unitamente, ai fini della
configurabilità del reato di cui all'art. 44, lett. a),
d.P.R. n. 380 del 2001, all'aggravio del carico urbanistico
(cfr., in proposito, Sez. 3, n. 4943 del 17/01/2012,
Bittesini, Rv. 251984; Sez. 3, n. 19378 del 15/03/2002,
Catalano, Rv. 221951; Sez. 3, n. 26209 del 30/04/2003,
Censullo, Rv. 225515).
4. Ora, nella vicenda in esame, il Tribunale ha fondato il
rigetto della richiesta di riesame sulle dichiarazioni rese
a una dipendente del Comune di Coccaglio dalla figlia di uno
dei partecipanti alla associazione culturale di cui il
ricorrente è il presidente, che avrebbe riferito che
nell'immobile condotto in locazione da detta associazione i
fedeli si trovano quotidianamente a pregare; il Tribunale
ha, però, omesso, oltre a qualsiasi riferimento alla
imputazione di cui all'art. 681 cod. pen. (essendo stato
disposto il sequestro anche in relazione a essa, che il
Tribunale non ha, tuttavia, considerato), anche di accertare
l'entità e l'incidenza di tale attività di culto, il suo
riflesso sulla destinazione del bene e, soprattutto, sul
carico urbanistico nel senso anzidetto: non è stato, in
particolare, analizzato in alcun modo, nonostante la
formulazione di una espressa censura sul punto da parte del
richiedente, il mutamento, conseguente allo svolgimento di
tale attività, dell'insieme delle esigenze urbanistiche
valutate in sede di pianificazione, con particolare
riferimento agli standard fissati dal D.M. 1444/1968 (cfr.
Sez. 3, n. 36104 del 22/09/2011, Armelaní, Rv. 251251; Sez.
3, n. 6599 del 24/11/2011 (dep. 2012), Susinno, Rv. 252016),
né accertato se tale eventuale mutamento abbia determinato
anche un aggravio del carico urbanistico, inteso come
maggiore richiesta di servizi cosiddetti secondari, come ad
esempio gli spazi pubblici destinati a parcheggio e le
esigenze di trasporto, smaltimento di rifiuti e viabilità (cfr.,
Sez. 3, n. 24852 del 08/05/2013, Pace, non massimata).
Ne consegue la sussistenza del vizio di violazione di legge
denunciato dal ricorrente con il primo e il terzo motivo,
risultando del tutto mancante l'accertamento in fatto e la
relativa motivazione a proposito della entità della attività
svolta nell'immobile condotto in locazione e oggetto del
provvedimento di sequestro (se tale, cioè, da determinare un
mutamento di destinazione da una categoria funzionale
all'altra tra quelle indicate nell'art. 23-ter d.P.R. n. 380
del 2001), e riguardo alla incidenza della stessa sugli
standard urbanistici (in misura tale da determinare un
aggravio del carico urbanistico e quindi da consentire di
ritenere configurabile il reato di cui all'art. 44 d.P.R.
380 del 2001): a tale ultimo riguardo la motivazione
dell'ordinanza impugnata risulta priva di riferimenti
concreti, in quanto è sganciata da qualsiasi riferimento
alla attività svolta nell'immobile, a quella precedente, al
raffronto tra esse, e alla incidenza di quella da ultimo
svolta sui servizi cosiddetti secondari, in guisa tale da
determinare un aggravio del carico urbanistico.
5. L'ordinanza impugnata deve, pertanto, essere annullata,
con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Brescia,
rimanendo con ciò assorbiti gli altri motivi di ricorso
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.07.2017 n. 34812). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla trasformare da autorimessa e magazzino in abitazione.
Sono errate le deduzioni circa la
valenza solo interna e “neutra” della modificazione dell’uso
del piano terra - originariamente destinato ad autorimessa e
a magazzino, che, ai fini dell’art. 23-ter T.U. Edilizia non
può considerarsi semplicemente già tutto a destinazione
abitativa in quanto “pertinenza” di un edificio
residenziale.
In realtà, nell’ambito di una unità immobiliare ad uso
residenziale, devono distinguersi i locali abitabili in
senso stretto dagli spazi “accessori” che, secondo lo
strumento urbanistico vigente, non hanno valore di
superficie edificabile e non sono presi in considerazione
come superficie residenziale all’atto del rilascio del
permesso di costruire: autorimesse, cantine e locali di
servizio rientrano, di norma, in questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante
la trasformazione di un garage, di un magazzino o di una
soffitta in un locale abitabile; senza considerare i profili
igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni caso si
configura, infatti, un ampliamento della superficie
residenziale e della relativa volumetria autorizzate con
l’originario permesso di costruire.
Sicché, deve ritenersi che “solo il cambio di destinazione
d'uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di
permesso di costruire (in quanto non incide sul carico
urbanistico) mentre, allorché lo stesso intervenga tra
categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee,
così come tra locali accessori e vani ad uso residenziale,
integra una modificazione edilizia con effetti incidenti sul
carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al
regime del permesso di costruire e ciò indipendentemente
dall'esecuzione di opere che, comunque, nel caso in esame
sono presenti”.
---------------
Il ricorso non è fondato e deve essere respinto.
Le opere di cui alla DIA del 19.07.2016, volte, come
anticipato, a trasformare autorimessa e magazzino in
abitazione con la modifica dei prospetti e la realizzazione
di “n. 4 U.I. di SUL maggiore di mq 45” sono, in
verità, idonee a mutare radicalmente la destinazione d’uso
degli immobili in questione in locali residenziali,
incidendo in modo determinate sul carico urbanistico.
Per la normativa edilizia [articolo 3, comma 1, lettere a) e
c) del Testo Unico numero 380 del 2001, in combinato
disposto con l’articolo 10, comma 1, lettera c e con
l’articolo 23-ter dello stesso Testo Unico] le opere interne
e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure
quelli di manutenzione straordinaria, di restauro e di
risanamento conservativo, necessitano del preventivo
rilascio del permesso di costruire, e non di semplice DIA,
ogni qual volta comportino mutamento di destinazione d'uso
tra due categorie funzionalmente autonome.
Sono, dunque, errate le deduzioni del ricorrente circa la
valenza solo interna e “neutra” della modificazione
dell’uso del piano terra - originariamente destinato ad
autorimessa e a magazzino, che, ai fini dell’art. 23-ter
T.U. Edilizia non può considerarsi semplicemente già tutto a
destinazione abitativa in quanto “pertinenza” di un
edificio residenziale.
In realtà, nell’ambito di una unità immobiliare ad uso
residenziale, devono distinguersi i locali abitabili in
senso stretto dagli spazi “accessori” che, secondo lo
strumento urbanistico vigente, non hanno valore di
superficie edificabile e non sono presi in considerazione
come superficie residenziale all’atto del rilascio del
permesso di costruire: autorimesse, cantine e locali di
servizio rientrano, di norma, in questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante
la trasformazione di un garage, di un magazzino o di una
soffitta in un locale abitabile; senza considerare i profili
igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni caso si
configura, infatti, un ampliamento della superficie
residenziale e della relativa volumetria autorizzate con
l’originario permesso di costruire.
Aderendo, quindi, al costante orientamento della
giurisprudenza, di recente ribadito da questa stessa Sezione
(cfr. da ultimo TAR Lazio, Roma, Sez. II-bis, 4.04.2017 n.
4225 e 30.01.2017 n. 1439) deve ritenersi che “solo il
cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee
non necessita di permesso di costruire (in quanto non incide
sul carico urbanistico) mentre, allorché lo stesso
intervenga tra categorie edilizie funzionalmente autonome e
non omogenee, così come tra locali accessori e vani ad uso
residenziale, integra una modificazione edilizia con effetti
incidenti sul carico urbanistico, con conseguente
assoggettamento al regime del permesso di costruire e ciò
indipendentemente dall'esecuzione di opere che, comunque,
nel caso in esame sono presenti” (TAR Lazio-Roma, Sez.
II-bis,
sentenza 13.04.2017 n. 4577 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulle
opere eseguite idonee a trasformare il piano interrato originariamente
costituito da cantina e garage, in un locale abitabile, con cucina, sala
studio e bagno.
Per la normativa edilizia [art. 3, comma 1, lett. a) e c), del Testo
Unico numero 380 del 2001, in combinato disposto con l’art. 10, comma 1,
lett. c) e con l’art. 23-ter dello stesso Testo Unico] le opere interne
e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di
manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo,
necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qual
volta comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie
funzionalmente autonome.
Nella fattispecie, non può essere negato che le opere eseguite siano
risultate idonee a trasformare il piano interrato (peraltro oggetto di
ampliamento senza titolo) originariamente costituito da cantina e garage, in
un locale abitabile, con cucina, sala studio e bagno, incidendo, in misura
lieve ma rilevante, sul carico urbanistico dell’immobile.
Sono, dunque, errate le deduzioni della ricorrente circa la valenza solo
interna e “neutra” della modificazione dell’uso del piano seminterrato, che,
potendosi considerare tutta ricompresa nelle categorie funzionali omogenee
di cui all’art. 23-ter T.U. Edilizia finirebbe per risultare
“urbanisticamente irrilevante”.
In realtà, nell’ambito di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono
distinguersi i locali abitabili in senso stretto dagli spazi “accessori”
che, secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno valore di
superficie edificabile e non sono presi in considerazione come superficie
residenziale all’atto del rilascio del permesso di costruire: autorimesse,
cantine e locali di servizio rientrano, di norma, in questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante la
trasformazione di un garage o di una soffitta in un locale abitabile; senza
considerare i profili igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni
caso si configura, infatti, un ampliamento della superficie residenziale e
della relativa volumetria autorizzate con l’originario permesso di
costruire.
Aderendo, quindi, al costante orientamento della giurisprudenza, deve ritenersi che “solo il cambio di
destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso
di costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico) mentre, allorché
lo stesso intervenga tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non
omogenee, così come tra locali accessori e vani ad uso residenziale, integra
una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con
conseguente assoggettamento al regime del permesso di costruire e ciò
indipendentemente dall'esecuzione di opere che, comunque, nel caso in esame
sono presenti”.
----------------
Con il ricorso in epigrafe la sig.ra Zu.El. ha chiesto al Tribunale di
annullare la determinazione dirigenziale di Roma Capitale n. 551 del
19.09.2013 con cui era stata respinta la sua domanda di condono del
09.12.2004 per l’avvenuta realizzazione al piano seminterrato dell’immobile
di via ... n. 70 di un locale non residenziale (cantina) annesso al
fabbricato principale per una superficie complessiva di mq 30, nonché tutti
gli atti presupposti, conseguenti o comunque connessi e, in particolare, la
circolare della Regione Lazio n. 65993/2S/02 del 19.04.2006, il parere della
Regione Lazio n. 5224 del 30.04.2010 in merito al condono nelle aree
vincolate e la d.d. di Roma Capitale n. 14 del 29.03.2012, richiamate nel
provvedimento n. 551/2013.
...
Con i motivi aggiunti la ricorrente ha, inoltre, dedotto, come
anticipato, l’illegittimità dell’ordine di ripristino asserendo che nel
caso in questione le opere realizzate non avrebbero integrato una
ristrutturazione edilizia, bensì di un mero cambio di destinazione d’uso,
consentito dalla novella legislativa recata dal cosiddetto “Decreto Sblocca
Italia”, mediante l’inserimento dell’articolo 23-ter nel Testo Unico
dell’edilizia; con tale intervento normativo il legislatore avrebbe
introdotto nel sistema il concetto di “mutamento d’uso urbanisticamente
rilevante”, tale solo in caso di passaggio tra le diverse categorie
funzionali, espressamente individuate dalla norma; ne conseguirebbe che,
essendo il mutamento di destinazione d’uso interno alle categorie funzionali
omogenee consentito, nella fattispecie in questione non si sarebbe
verificato, quindi, alcun abuso, essendo stata modificata solo la
distribuzione interna degli spazi.
Anche tale doglianza non può essere condivisa.
Per la normativa edilizia [articolo 3, comma 1, lettere a) e c), del Testo
Unico numero 380 del 2001, in combinato disposto con l’articolo 10, comma 1,
lettera c) e con l’articolo 23-ter dello stesso Testo Unico] le opere interne
e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di
manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo,
necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qual
volta comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie
funzionalmente autonome.
Nella fattispecie, non può essere negato che le opere eseguite siano
risultate idonee a trasformare il piano interrato (peraltro oggetto di
ampliamento senza titolo) originariamente costituito da cantina e garage, in
un locale abitabile, con cucina, sala studio e bagno, incidendo, in misura
lieve ma rilevante, sul carico urbanistico dell’immobile.
Sono, dunque, errate le deduzioni della ricorrente circa la valenza solo
interna e “neutra” della modificazione dell’uso del piano seminterrato, che,
potendosi considerare tutta ricompresa nelle categorie funzionali omogenee
di cui all’art. 23-ter T.U. Edilizia finirebbe per risultare
“urbanisticamente irrilevante”.
In realtà, nell’ambito di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono
distinguersi i locali abitabili in senso stretto dagli spazi “accessori”
che, secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno valore di
superficie edificabile e non sono presi in considerazione come superficie
residenziale all’atto del rilascio del permesso di costruire: autorimesse,
cantine e locali di servizio rientrano, di norma, in questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante la
trasformazione di un garage o di una soffitta in un locale abitabile; senza
considerare i profili igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni
caso si configura, infatti, un ampliamento della superficie residenziale e
della relativa volumetria autorizzate con l’originario permesso di
costruire.
Aderendo, quindi, al costante orientamento della giurisprudenza, di recente
ribadito da questa stessa Sezione (cfr. da ultimo TAR Lazio, Roma, Sez. II-bis, 30.01.2017 n. 1439) deve ritenersi che “solo il cambio di
destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso
di costruire (in quanto non incide sul carico urbanistico) mentre, allorché
lo stesso intervenga tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non
omogenee, così come tra locali accessori e vani ad uso residenziale, integra
una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con
conseguente assoggettamento al regime del permesso di costruire e ciò
indipendentemente dall'esecuzione di opere che, comunque, nel caso in esame
sono presenti”
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 04.04.2017 n. 4225 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
materia urbanistica ed edilizia, quando sia contestata l'esecuzione di opere
in assenza di un valido titolo edilizio, il giudice deve prima di ogni altra
cosa accertare l'intervento nella sua integrale sussistenza e consistenza,
qualificarlo ai sensi degli artt. 3 e 6, d.P.R. n. 380 del 2001, verificare di conseguenza
se per esso è necessario un titolo edilizio e, in caso positivo, individuare
quale (permesso di costruire o d.i.a. sostitutiva, ovvero una semplice
d.i.a.).
Alla fine di questo percorso ricostruttivo, se accerta che per
l'opera, così come realizzata, è necessario il permesso di costruire il
giudice non deve "disapplicare" la dichiarazione di inizio attività,
perché non è di questo che si tratta; è sufficiente che prenda atto del
fatto che l'intervento è stato realizzato in assenza dell'unico titolo che
lo consente.
Né rileva l'eventualità che l'opera, così come realizzata, possa esser
conforme a quella oggetto della dichiarazione di inizio attività. Allo
stesso modo, eventuali mancate osservazioni dei tecnici comunali o di altre
autorità non possono escludere la natura illecita della costruzione che in
sede penale solo il giudice può e deve autonomamente accertare; eventuali
silenzi possono costituire argomento d'accusa per concorsi dolosi o colposi,
ma non possono rendere lecito quel che tale non è.
Sicché le numerose pagine della sentenza dedicate alla possibilità per
il giudice di disapplicare il permesso di costruire e all'incidenza del
rilascio del permesso stesso sulla consapevolezza della natura abusiva
dell'opera da parte dei privati, sono del tutto irrilevanti.
---------------
Questa Suprema Corte ha avuto
modo di pronunciare alcuni principi -che devono essere qui ribaditi perché in linea con il
consolidato orientamento della S.C.- che
possono essere così riassunti:
- «La realizzazione di opere edilizie
necessita di titolo abilitativo riferito all'intervento complessivo e non
può essere autorizzata con artificiosa parcellizzazione. Il regime dei
titoli abilitativi edilizi non può essere eluso, infatti attraverso la
suddivisione dell'attività edificatoria finale nelle singole opere che
concorrono a realizzarla, astrattamente suscettibili di forme di controllo
preventivo più limitate per la loro più modesta incisività sull'assetto
territoriale. L'opera deve essere considerata unitariamente nel suo
complesso, senza che sia consentito scindere e considerare separatamente i
suoi singoli componenti (...) mentre non risulta che, nella specie, la
To. s.r.l., si sia lecitamente determinata, in tempi successivi, ad
eseguire singole opere, non programmate sin dall'inizio»;
- «La categoria "ristrutturazione
edilizia" a fronte del più ristretto ambito di quelle del "risanamento
conservativo" e del "restauro" come configurate dal D.P.R. n. 380 del 2001 e
dal D.Lgs. n. 42 del 2004, [comporta] la radicale ed integrale
trasformazione dei componenti dell'intero edificio, con mutamento della
qualificazione tipologica e degli elementi formali di esso, comportanti
l'aumento delle unità immobiliari nonché l'alterazione dell'originale
impianto tipologico - distributivo e dei caratteri architettonici»;
- «Quanto al mutamento di destinazione di
uso di un immobile attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie,
deve ricordarsi che, qualora esso venga realizzato dopo l'ultimazione del
fabbricato e durante la sua esistenza (ipotesi ricorrente nella vicenda in
esame), si configura in ogni caso un'ipotesi di ristrutturazione edilizia
secondo la definizione fornita dall'art. 3, comma 1, lett. d), del cit. T.U.,
in quanto l'esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur
sempre alla creazione di "un organismo edilizio in tutto o in parte diverso
dal precedente". L'intervento rimane assoggettato, pertanto, al previo
rilascio del permesso di costruire con pagamento del contributo di
costruzione dovuto per la diversa destinazione»;
- «Non ha rilievo l'entità delle opere
eseguite, allorché si consideri che la necessità del permesso di costruire
permane per gli interventi:
- di manutenzione straordinaria, qualora comportino modifiche delle
destinazioni d'uso (art. 3, comma 1, lett. b, del cit. T.U.);
- di restauro e risanamento conservativo, qualora comportino il mutamento
degli "elementi tipologia" dell'edificio, cioè di quei caratteri non
soltanto architettonici ma anche funzionali che ne consentano la
qualificazione in base alle tipologie edilizie (art. 3, comma 1, lett. c,
cit. T.U.).
Gli interventi anzidetti, invero, devono considerarsi "di nuova
costruzione", ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. e, cit. T.U.. Ove il
necessario permesso di costruire non sia stato rilasciato, sono applicabili
le sanzioni amministrative di cui all'art. 31, cit. T.U. e quella
penale di cui all'art. 44, lett. b)»;
- «Ai fini della individuazione della
destinazione turistico-alberghiera di una struttura immobiliare non si deve
tenere conto della titolarità della proprietà della stessa, che
indifferentemente può appartenere ad un solo soggetto proprietario oppure ad
una pluralità di soggetti. Ciò che rileva, invece, è la configurazione della
struttura (anche se appartenente a più proprietari) come albergo o residenza
turistico-ricettiva».
---------------
Il palazzo, come detto, è immobile di rilevante interesse storico-artistico, soggetto a vincolo per i suoi rilevanti caratteri
tipologici e perché di particolare interesse documentario ed ambientale.
L'area di sedime ricade in zona omogenea A del Comune, centro
storico, di interesse culturale ed ambientale.
Le varie D.i.a. che si sono
succedute nel tempo (ben 18), hanno comportato la modifica di destinazione
d'uso di gran parte dell'imponente immobile (che occupa un intero isolato)
da "residenziale e direzionale" a "commerciale, direzionale,
residenziale".
Il che comportava senz'altro la necessità, ai sensi dell'art. 10,
comma 1, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001, del rilascio del permesso di
costruire o, in alternativa, della d.i.a. sostitutiva di cui all'art. 22,
comma 3, lett. a), stesso d.P.R..
L'ulteriore errore nel quale cade il Tribunale è di ritenere
sostanzialmente fungibili la d.i.a. di cui all'art. 22, comma 1, d.P.R. n.
380, cit., con quella sostitutiva del permesso di costruire di cui al
successivo comma 3 (dal quale quest'ultima ripete natura e funzione).
La cd.
Superdia è fungibile ed alternativa al permesso di costruire, non alla
semplice DIA (oggi SCIA), rispetto alla quale si pone in rapporto di totale
diversità, che ai fini della sussistenza del reato ipotizzato. Seguendo il
ragionamento del Tribunale, infatti, il reato di cui all'art. 44, comma 1,
lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001 non sarebbe per assurdo mai configurabile
in caso di opere soggette a permesso di costruire realizzate in costanza di
d.i.a. non sostitutiva, ancor più non lo sarebbe quello di cui cui al
successivo comma 2-bis, che richiama espressamente ed esclusivamente la
denuncia di inizio attività di cui all'art. 22, comma 3, d.P.R. n. 380 del
2001.
---------------
6. Tanto premesso, i primi tre motivi, in essi assorbito il quarto,
sono fondati.
6.1. Il caso in esame ha ad oggetto il Palazzo Tornabuoni-Corsi-Sestini di
Firenze (dichiarato di rilevante interesse storico artistico dal Ministro
della Pubblica Istruzione il 03/04/1918) e si segnala per il fatto che le
opere in contestazione sono state effettuate in base ad titoli edilizi (D.i.a.)
che, secondo l'impostazione accusatoria, non lo consentivano.
6.2. Il Tribunale, invertendo completamente i poli del ragionamento ed
utilizzando principi di diritto elaborati da questa Suprema Corte in tema,
tutt'affatto diverso, di illegittimità del permesso di costruire (titolo del
quale invece è contestata proprio la mancanza), trascurando inoltre
completamente la sentenza di questa Sezione, n. 8495 del 2012 (di cui oltre
si dirà), compie un inammissibile atto di fede nei confronti degli imputati
(ma anche degli organismi preposti al controllo della regolarità urbanistica
e ambientale degli interventi progettati ed eseguiti) ed abdicando
all'irrinunciabile dovere del giudice di controllare la legalità degli atti
amministrativi, giunge sostanzialmente ad affermare che le opere potevano
essere realizzate in base a semplice d.i.a. sol perché così sostanzialmente
avevano attestato i professionisti che avevano redatto gli elaborati tecnici
ad essa allegati, con l'autorevole avallo del Comune di Firenze (i cui
tecnici, però, sono stati chiamati a rispondere del concorso nel reato ai
sensi dell'art. 40, cpv., cod. pen.) e della Soprintendenza che avevano
condiviso la qualificazione come "restauro" dei singoli interventi
oggetto delle varie dichiarazioni.
6.3. Metodo, come detto, totalmente errato perché, in materia urbanistica ed
edilizia, quando sia contestata l'esecuzione di opere in assenza di un
valido titolo edilizio, il giudice deve prima di ogni altra cosa accertare
l'intervento nella sua integrale sussistenza e consistenza, qualificarlo ai
sensi degli artt. 3 e 6, d.P.R. n. 380 del 2001, verificare di conseguenza
se per esso è necessario un titolo edilizio e, in caso positivo, individuare
quale (permesso di costruire o d.i.a. sostitutiva, ovvero una semplice
d.i.a.). Alla fine di questo percorso ricostruttivo, se accerta che per
l'opera, così come realizzata, è necessario il permesso di costruire il
giudice non deve "disapplicare" la dichiarazione di inizio attività,
perché non è di questo che si tratta; è sufficiente che prenda atto del
fatto che l'intervento è stato realizzato in assenza dell'unico titolo che
lo consente.
Né rileva l'eventualità che l'opera, così come realizzata, possa esser
conforme a quella oggetto della dichiarazione di inizio attività. Allo
stesso modo, eventuali mancate osservazioni dei tecnici comunali o di altre
autorità non possono escludere la natura illecita della costruzione che in
sede penale solo il giudice può e deve autonomamente accertare; eventuali
silenzi possono costituire argomento d'accusa per concorsi dolosi o colposi,
ma non possono rendere lecito quel che tale non è.
6.4. Sicché le numerose pagine della sentenza dedicate alla possibilità per
il giudice di disapplicare il permesso di costruire e all'incidenza del
rilascio del permesso stesso sulla consapevolezza della natura abusiva
dell'opera da parte dei privati, sono del tutto irrilevanti.
6.5. Quanto
alla qualificazione dell'intervento è francamente singolare che il Tribunale
non accenni nemmeno, quantomeno per confutarli motivatamente, ai principi
che, in relazione al medesimo immobile e al medesimo intervento, questa
Suprema Corte, investita in sede cautelare dal medesimo PM, pronunciò con la
citata sentenza n. 8945 del 20/10/2011 (dep. il 07/03/2012).
6.6. Tali principi -che devono essere qui ribaditi perché in linea con il
consolidato orientamento della S.C., totalmente negletto dal Tribunale-
possono essere così riassunti:
6.6.1. <<La realizzazione di opere edilizie
necessita di titolo abilitativo riferito all'intervento complessivo e non
può essere autorizzata con artificiosa parcellizzazione. Il regime dei
titoli abilitativi edilizi non può essere eluso, infatti attraverso la
suddivisione dell'attività edificatoria finale nelle singole opere che
concorrono a realizzarla, astrattamente suscettibili di forme di controllo
preventivo più limitate per la loro più modesta incisività sull'assetto
territoriale. L'opera deve essere considerata unitariamente nel suo
complesso, senza che sia consentito scindere e considerare separatamente i
suoi singoli componenti (...) mentre non risulta che, nella specie, la
To. s.r.l., si sia lecitamente determinata, in tempi successivi, ad
eseguire singole opere, non programmate sin dall'inizio»;
6.6.2. «La categoria "ristrutturazione
edilizia" a fronte del più ristretto ambito di quelle del "risanamento
conservativo" e del "restauro" come configurate dal D.P.R. n. 380 del 2001 e
dal D.Lgs. n. 42 del 2004, [comporta] la radicale ed integrale
trasformazione dei componenti dell'intero edificio, con mutamento della
qualificazione tipologica e degli elementi formali di esso, comportanti
l'aumento delle unità immobiliari nonché l'alterazione dell'originale
impianto tipologico - distributivo e dei caratteri architettonici»;
6.6.3. <<Quanto al mutamento di destinazione di
uso di un immobile attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie,
deve ricordarsi che, qualora esso venga realizzato dopo l'ultimazione del
fabbricato e durante la sua esistenza (ipotesi ricorrente nella vicenda in
esame), si configura in ogni caso un'ipotesi di ristrutturazione edilizia
secondo la definizione fornita dall'art. 3, comma 1, lett. d), del cit. T.U.,
in quanto l'esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur
sempre alla creazione di "un organismo edilizio in tutto o in parte diverso
dal precedente". L'intervento rimane assoggettato, pertanto, al previo
rilascio del permesso di costruire con pagamento del contributo di
costruzione dovuto per la diversa destinazione»;
6.6.4. «Non ha rilievo l'entità delle opere
eseguite, allorché si consideri che la necessità del permesso di costruire
permane per gli interventi:
- di manutenzione straordinaria, qualora comportino modifiche delle
destinazioni d'uso (art. 3, comma 1, lett. b, del cit. T.U.);
- di restauro e risanamento conservativo, qualora comportino il mutamento
degli "elementi tipologia" dell'edificio, cioè di quei caratteri non
soltanto architettonici ma anche funzionali che ne consentano la
qualificazione in base alle tipologie edilizie (art. 3, comma 1, lett. c,
cit. T.U.).
Gli interventi anzidetti, invero, devono considerarsi "di nuova
costruzione", ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. e, cit. T.U.. Ove il
necessario permesso di costruire non sia stato rilasciato, sono applicabili
le sanzioni amministrative di cui all'art. 31, cit. T.U. e quella
penale di cui all'art. 44, lett. b)»;
6.6.5. <<Ai fini della individuazione della
destinazione turistico-alberghiera di una struttura immobiliare non si deve
tenere conto della titolarità della proprietà della stessa, che
indifferentemente può appartenere ad un solo soggetto proprietario oppure ad
una pluralità di soggetti. Ciò che rileva, invece, è la configurazione della
struttura (anche se appartenente a più proprietari) come albergo o residenza
turistico-ricettiva».
6.7. La imprescindibile necessità di mantenere l'originaria destinazione
d'uso caratterizza ancor oggi gli "interventi di manutenzione
straordinaria", non avendo alcun rilievo il fatto che, in conseguenza
delle modifiche introdotte dall'art. 17, comma 1, lett. a), nn. 1 e 2, d.l.
12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge
11.11.2014, n. 164, sia oggi consentito nell'ambito di detti interventi
procedere al frazionamento o accorpamento delle unità immobiliari con
esecuzione di opere anche se comportanti la variazione delle superfici delle
singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico.
6.8. Altrettanto si dica per gli interventi di "restauro e risanamento
conservativo".
6.9. Sorvolando sulle personali opinioni del Tribunale in ordine al concetto
di restauro, rileva innanzitutto l'errore di diritto che il Giudice compie
allorquando, nello sforzo di supportare giuridicamente tali opinioni, trae
dal contenuto dell'art. 21, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 42 del 2004,
argomento sistematico per affermare che il "restauro", così come
definito dal successivo art. 29, comma 4, consente la rimozione o la
demolizione, anche con successiva ricostituzione, dei beni culturali,
sminuendone però la funzione essenzialmente conservativa e ripristinatoria
del bene da restaurare (cfr., sul punto, Sez. 3, n. 1978 del 18/06/2014,
Sgalannbro, Rv. 262002, secondo cui nella categoria degli "interventi di
restauro o di risanamento conservativo", per i quali non occorre il
permesso di costruire, possono essere annoverate soltanto le opere di
recupero abitativo, che mantengono in essere le preesistenti strutture, alle
quali apportano un consolidamento, un rinnovo o l'inserimento di nuovi
elementi costitutivi, a condizione che siano complessivamente rispettate
tipologia, forma e struttura dell'edificio).
Resta, in ogni caso, il fatto
che gli interventi di restauro e risanamento conservativo richiedono sempre
il permesso di costruire quando riguardano immobili ricadenti in zona
omogenea A dei quali venga mutata la destinazione d'uso anche all'interno
della medesima categoria funzionale.
6.10. Il tema accusatorio, articolato e complesso, imponeva dunque al
Giudice di spingere l'indagine ben oltre la semplice conformità delle opere
alle d.i.a di volta in volta presentate per il (formale) restauro e
risanamento dell'immobile, non mancando mai di perdere di vista il risultato
finale, nella sua interezza.
6.11. Il Palazzo Tornabuoni, come detto, è immobile di rilevante interesse
storico-artistico, soggetto a vincolo per i suoi rilevanti caratteri
tipologici e perché di particolare interesse documentario ed ambientale.
L'area di sedime ricade in zona omogenea A del Comune di Firenze, centro
storico, di interesse culturale ed ambientale.
6.12. Come riconosce lo stesso Tribunale, le varie D.i.a. che si sono
succedute nel tempo (ben 18), hanno comportato la modifica di destinazione
d'uso di gran parte dell'imponente immobile (che occupa un intero isolato)
da "residenziale e direzionale" a "commerciale, direzionale,
residenziale".
6.13. Il che comportava senz'altro la necessità, ai sensi dell'art. 10,
comma 1, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001, del rilascio del permesso di
costruire o, in alternativa, della d.i.a. sostitutiva di cui all'art. 22,
comma 3, lett. a), stesso d.P.R..
6.14. L'ulteriore errore nel quale cade il Tribunale è di ritenere
sostanzialmente fungibili la d.i.a. di cui all'art. 22, comma 1, d.P.R. n.
380, cit., con quella sostitutiva del permesso di costruire di cui al
successivo comma 3 (dal quale quest'ultima ripete natura e funzione). La cd.
Superdia è fungibile ed alternativa al permesso di costruire, non alla
semplice DIA (oggi SCIA), rispetto alla quale si pone in rapporto di totale
diversità, che ai fini della sussistenza del reato ipotizzato. Seguendo il
ragionamento del Tribunale, infatti, il reato di cui all'art. 44, comma 1,
lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001 non sarebbe per assurdo mai configurabile
in caso di opere soggette a permesso di costruire realizzate in costanza di
d.i.a. non sostitutiva, ancor più non lo sarebbe quello di cui cui al
successivo comma 2-bis, che richiama espressamente ed esclusivamente la
denuncia di inizio attività di cui all'art. 22, comma 3, d.P.R. n. 380 del
2001.
6.15. La sentenza deve perciò essere annullata in relazione al capo A della
rubrica
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
14.02.2017 n. 6873). |
EDILIZIA PRIVATA:
Questa Corte ha già avuto
modo di definire la destinazione d'uso quale elemento che
qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a
precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di
attuazione della pianificazione, precisando, altresì, che
essa individua il bene sotto l'aspetto funzionale,
specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti
urbanistici in considerazione della differenziazione
infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata
dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e
quantità proprio a seconda della diversa destinazione di
zona. L'organizzazione del territorio comunale e la gestione
dello stesso vengono realizzate attraverso il coordinamento
delle varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili
relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono
negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando,
appunto, il complessivo assetto territoriale.
E' dunque evidente quale sia l'impatto sul carico
urbanistico determinato dalla modifica della destinazione
d'uso degli edifici.
Il d.P.R. 380/2001, nell'articolo 10, comma 2, attribuisce
alle Regioni il potere di stabilire con legge quali
mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche,
dell'uso di immobili o di loro parti, sono subordinate a
permesso di costruire o a segnalazione certificata di inizio
attività, pur dovendo tali enti territoriali tenere conto
delle disposizioni di principio poste dalla legge statale.
Si è ulteriormente precisato che assume rilevanza, sotto il
profilo giuridico, il solo mutamento di destinazione d'uso
tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista
urbanistico, in quanto nell'ambito delle stesse categorie si
possono riscontrare mutamenti di fatto, ma non diversi
regimi urbanistico-contributivi, in considerazione delle
sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell'ambito
della medesima categoria.
Va altresì tenuto conto di quanto disposto dall'art. 23-ter
del d.P.R. 380/2001 (introdotto dalla legge n. 164 del
2014), che individua, quale mutamento rilevante della
destinazione d'uso, ogni forma di utilizzo di un immobile o
di una singola unità immobiliare diversa da quella
originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di
opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione
dell'immobile o dell'unità immobiliare ad una diversa
categoria funzionale tra quelle elencate nella medesima
disposizione: residenziale; turistico-ricettiva; produttiva
e direzionale; commerciale e rurale.
Lo stesso articolo chiarisce che la destinazione d'uso di un
fabbricato o di una unità immobiliare è quella prevalente in
termini di superficie utile e che, salva diversa previsione
da parte delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici
comunali, il mutamento della destinazione d'uso all'interno
della stessa categoria funzionale è sempre consentito.
Quanto alle modalità di attuazione, la modifica della
destinazione d'uso può essere effettuata mediante
l'esecuzione di opere (modificazione materiale) o
senza esecuzione di opere (modificazione funzionale).
Essa, inoltre, può intervenire nella fase di costruzione del
manufatto, ovvero su un manufatto già esistente, con
conseguenze diverse sotto il profilo sanzionatorio.
---------------
L'art. 23-ter DPR 380/2001 individua come autonoma la
categoria "commerciale" rispetto a quella
"produttiva—direzionale" nella quale rientrano, oltre,
ovviamente, agli insediamenti produttivi propriamente detti,
anche gli edifici destinati ad uffici, sedi di enti e simili
e non anche le attività prettamente commerciali, perché
altrimenti la specifica categoria non avrebbe ragione di
esistere.
Tra queste ultime si ritiene debba rientrare quella di
"fiera" o "fiera espositiva" in quanto, sebbene nel caso in
esame non sia stato specificato in cosa essa effettivamente
consista, considerando il significato letterale
dell'espressione, quale incontro abituale di venditori e
comparatori finalizzati alla vendita o alla pubblicizzazione
di eventuali prodotti, essa indubbiamente si colloca
nell'ambito delle attività commerciali e non anche in quelle
produttive o di prestazione di servizi in genere.
Soccorre in tal senso anche l'opinione espressa dalla
giurisprudenza amministrativa, seppure in tema di oneri
concessori, laddove ha osservato che "(...) l'attività
fieristica espositiva è autonoma e non strettamente
asservita o connessa a specifici edifici destinati alla
produzione; la medesima attività ha una connotazione
prettamente "commerciale" per l'incidenza che determina sul
carico urbanistico complessivo in ragione delle conseguenze
che comporta la sua presenza sul tessuto urbano in
connessione ai flussi di traffico e clientela generati, che
sono diversi da quelli propri di un'attività industriale e
del tutto corrispondenti a quelli di un'attività
commerciale; anche nella disciplina sul commercio la
superficie espositiva è a tutti gli effetti equiparata a
quella commerciale nell'evidente considerazione dell'assimilabilità
tra le superfici sulle quali si svolge l'attività di vendita
vera e propria e quelle utilizzate invece a fini espositivi
(l'art. 4, comma 7, lett. f), del Dlgs. 31.03.1998, n. 114,
reca una definizione completa di superficie di vendita, in
quanto ne viene espresso, in positivo l'ambito come "area
destinata alla vendita, compresa quella occupata da banchi,
scaffalature e simili", ma anche, in negativo, ciò che non
costituisce superficie di vendita, ovvero "quella destinata
a magazzini, depositi, locali di lavorazione, uffici e
servizi", con la conseguenza che anche "la zona di
esposizione dei prodotti commercializzati dall'esercizio va
inclusa nella superfici di vendita"..
Tali affermazioni vanno pienamente condivise, dovendosi
conseguentemente affermare che, ai fini della individuazione
della relativa categoria funzionale di cui all'art. 23-ter
d.P.R. 380/2001 l'attività fieristica va individuata quale
attività commerciale, con la conseguenza che la modifica di
destinazione d'uso, mediante opere, di un preesistente
complesso immobiliare desinato ad insediamento produttivo
richiede il preventivo rilascio del permesso di costruire.
---------------
Riguardo al momento consumativo del reato urbanistico, se ci
si riferisce, in generale, all'esecuzione di opere, può
certamente affermarsi che esso ha natura permanente e la sua
consumazione ha inizio con l'avvio dei lavori di
costruzione, che assumono rilevanza, indipendentemente dal
tipo ed entità delle opere, per l'oggettiva destinazione
alla realizzazione di un manufatto e perdura fino alla
cessazione dell'attività edificatoria abusiva o con la
sospensione dei lavori volontaria o imposta (ad esempio,
mediante sequestro penale), con la sentenza di primo grado,
se i lavori continuano dopo l'accertamento del reato e sino
alla data del giudizio.
Con specifico riferimento alla modifica della destinazione
d'uso può dirsi, sempre in linea generale, che la
consumazione del reato cessa, nel caso in cui non sia
attuata mediante l'esecuzione di opere, con il completamento
funzionale dell'intervento, quando, cioè, l'immobile è
pienamente utilizzabile secondo a nuova destinazione
attribuitagli.
Non può invece essere condivisa l'affermazione del Tribunale
laddove sembra voglia sostenere che la permanenza del reato
è correlata alla sua successiva utilizzazione.
Invero, non costituiscono nuova autonoma manifestazione
antigiuridica di mutamento di destinazione, penalmente
rilevante, la utilizzazione o gli atti di disposizione del
manufatto già realizzato in modo difforme o in assenza di
concessione. Tali atti rientrano nella sfera del "post
factum" impunibile e degli effetti permanenti di una
condotta antigiuridica o consumazione conclusa.
Al contrario, l'utilizzazione dell'immobile successiva alla
consumazione del reato assume rilievo ai fini cautelari
reali laddove comporti un aggravio del carico urbanistico
che deve essere considerata con riferimento all'aspetto
strutturale e funzionale dell'opera ed è rilevabile anche
nel caso di una concreta alterazione della originaria
consistenza sostanziale di un manufatto in relazione alla
volumetria, alla destinazione o alla effettiva utilizzazione
tale da determinare un mutamento dell'insieme delle esigenze
urbanistiche valutate in sede di pianificazione con
particolare riferimento agli standard fissati dal D.M.
1444/1968.
Tale orientamento si conforma alla nota decisione delle
Sezioni Unite nella quale, ammettendosi la possibilità del
sequestro anche a reato urbanistico ormai perfezionato
-"purché il pericolo della libera disponibilità della cosa
stessa -che va accertato dal giudice con adeguata
motivazione- presenti i requisiti della concretezza e
dell'attualità e le conseguenze del reato, ulteriori
rispetto alla sua consumazione, abbiano connotazione di
antigiuridicità, consistano nel volontario aggravarsi o
protrarsi dell'offesa al bene protetto che sia in rapporto
di stretta connessione con la condotta penalmente illecita e
possano essere definitivamente rimosse con l'accertamento
irrevocabile del reato"- si individuano, a titolo
esemplificativo, quali conseguenze determinate dalla libera
disponibilità del manufatto illecitamente edificato, oltre
all'aggravio del carico urbanistico, la perpetrazione
dell'illecito amministrativo prevista dall'articolo 221
Testo unico leggi sanitarie che, pur depenalizzato,
costituisce una situazione illecita ulteriore prodotta dalla
libera utilizzazione della cosa che il provvedimento
cautelare è finalizzato ad inibire ed il pregiudizio
arrecato alle esigenze di vigilanza e controllo del
territorio mediante l'adeguato governo pubblico degli usi e
delle trasformazioni dello stesso a causa delle alterazioni
dell'ordinato ed equilibrato assetto e sviluppo territoriale
in danno del benessere complessivo della collettività e
della sua attività, il cui parametro di legalità è dato
dalla disciplina degli strumenti urbanistici e dalla
normativa vigente.
---------------
2. Ciò posto, va ricordato, con riferimento al primo
motivo di ricorso che questa Corte ha già avuto modo di
definire la destinazione d'uso quale elemento che qualifica
la connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi
di interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione
della pianificazione, precisando, altresì, che essa
individua il bene sotto l'aspetto funzionale, specificando
le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici
in considerazione della differenziazione infrastrutturale
del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa
sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a
seconda della diversa destinazione di zona. L'organizzazione
del territorio comunale e la gestione dello stesso vengono
realizzate attraverso il coordinamento delle varie
destinazioni d'uso in tutte le loro possibili relazioni e le
modifiche non consentite di queste incidono negativamente
sull'organizzazione dei servizi, alterando, appunto, il
complessivo assetto territoriale (così, testualmente, Sez.
3, n. 9894 del 20/01/2009, Tarallo, Rv. 24310001).
E' dunque evidente quale sia l'impatto sul carico
urbanistico determinato dalla modifica della destinazione
d'uso degli edifici.
Il d.P.R. 380/2001, nell'articolo 10, comma 2, attribuisce
alle Regioni il potere di stabilire con legge quali
mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche,
dell'uso di immobili o di loro parti, sono subordinate a
permesso di costruire o a segnalazione certificata di inizio
attività, pur dovendo tali enti territoriali tenere conto
delle disposizioni di principio poste dalla legge statale (cfr.
Sez. 3, n. 43807 del 05/11/2008, Pollone, non massimata).
Si è ulteriormente precisato (Sez. 3 n. 9894/2009, cit.) che
assume rilevanza, sotto il profilo giuridico, il solo
mutamento di destinazione d'uso tra categorie funzionalmente
autonome dal punto di vista urbanistico, in quanto
nell'ambito delle stesse categorie si possono riscontrare
mutamenti di fatto, ma non diversi regimi
urbanistico-contributivi, in considerazione delle
sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell'ambito
della medesima categoria.
Va altresì tenuto conto di quanto disposto dall'art. 23-ter
del d.P.R. 380/2001 (introdotto dalla legge n. 164 del
2014), che individua, quale mutamento rilevante della
destinazione d'uso, ogni forma di utilizzo di un immobile o
di una singola unità immobiliare diversa da quella
originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di
opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione
dell'immobile o dell'unità immobiliare ad una diversa
categoria funzionale tra quelle elencate nella medesima
disposizione: residenziale; turistico-ricettiva; produttiva
e direzionale; commerciale e rurale.
Lo stesso articolo chiarisce che la destinazione d'uso di un
fabbricato o di una unità immobiliare è quella prevalente in
termini di superficie utile e che, salva diversa previsione
da parte delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici
comunali, il mutamento della destinazione d'uso all'interno
della stessa categoria funzionale è sempre consentito.
Quanto alle modalità di attuazione, la modifica della
destinazione d'uso può essere effettuata mediante
l'esecuzione di opere (modificazione materiale) o
senza esecuzione di opere (modificazione funzionale).
Essa, inoltre, può intervenire nella fase di costruzione del
manufatto, ovvero su un manufatto già esistente, con
conseguenze diverse sotto il profilo sanzionatorio.
...
5. L'ordinanza impugnata risulta però cogliere nel segno
laddove qualifica la modifica di destinazione come operata
tra categorie tra loro autonome.
Va a tale proposito rilevato che tale affermazione non viene
smentita dal richiamo, operato in ricorso, all'art. 25 del
Regolamento Edilizio del Comune di Pastorano, e,
segnatamente, alla frase, evidenziata in neretto dalla
ricorrente, che con riferimento alla "Zona D industriale
ed esistente di progetto" specifica "(...) in tale
zona è altresì consentita la costruzione di complessi
produttivi di varia natura, di edifici destinati ad uffici
amministrativi o commerciali e di edifici per abitazioni
purché utilizzati dal solo personale di custodia (...)"
risultando, dal tenore letterale della disposizione, che
l'aggettivo "commerciali" è chiaramente riferito agli
edifici destinati ad uffici, come l'altro "amministrativi",
con funzione evidentemente complementare al complesso
produttivo, così come le abitazioni, pure realizzabili se
destinate al solo personale di custodia.
Neppure risulta condivisibile l'altra affermazione della
ricorrente, secondo la quale l'intervento realizzato
andrebbe collocato nella categoria produttiva-direzionale
prevista dall'art. 23-ter d.P.R. 380/2001, con la
conseguenza che non vi sarebbe stata alcuna modificazione
penalmente rilevante.
Invero l'art. 23-ter, come si è detto, individua come
autonoma la categoria "commerciale" rispetto a quella
"produttiva—direzionale" nella quale rientrano,
oltre, ovviamente, agli insediamenti produttivi propriamente
detti, anche gli edifici destinati ad uffici, sedi di enti e
simili e non anche le attività prettamente commerciali,
perché altrimenti la specifica categoria non avrebbe ragione
di esistere.
Tra queste ultime si ritiene debba rientrare quella di "fiera"
o "fiera espositiva" in quanto, sebbene nel caso in
esame non sia stato specificato in cosa essa effettivamente
consista, considerando il significato letterale
dell'espressione, quale incontro abituale di venditori e
comparatori finalizzati alla vendita o alla pubblicizzazione
di eventuali prodotti, essa indubbiamente si colloca
nell'ambito delle attività commerciali e non anche in quelle
produttive o di prestazione di servizi in genere.
Soccorre in tal senso anche l'opinione espressa dalla
giurisprudenza amministrativa, seppure in tema di oneri
concessori, laddove ha osservato che "(...) l'attività
fieristica espositiva è autonoma e non strettamente
asservita o connessa a specifici edifici destinati alla
produzione; la medesima attività ha una connotazione
prettamente "commerciale" per l'incidenza che determina sul
carico urbanistico complessivo in ragione delle conseguenze
che comporta la sua presenza sul tessuto urbano in
connessione ai flussi di traffico e clientela generati, che
sono diversi da quelli propri di un'attività industriale e
del tutto corrispondenti a quelli di un'attività
commerciale; anche nella disciplina sul commercio la
superficie espositiva è a tutti gli effetti equiparata a
quella commerciale nell'evidente considerazione dell'assimilabilità
tra le superfici sulle quali si svolge l'attività di vendita
vera e propria e quelle utilizzate invece a fini espositivi
(l'art. 4, comma 7, lett. f), del Dlgs. 31.03.1998, n. 114,
reca una definizione completa di superficie di vendita, in
quanto ne viene espresso, in positivo l'ambito come "area
destinata alla vendita, compresa quella occupata da banchi,
scaffalature e simili", ma anche, in negativo, ciò che non
costituisce superficie di vendita, ovvero "quella destinata
a magazzini, depositi, locali di lavorazione, uffici e
servizi", con la conseguenza che anche "la zona di
esposizione dei prodotti commercializzati dall'esercizio va
inclusa nella superfici di vendita: cfr. Tar Abruzzo,
Pescara, 09.04.2008, n. 387; Tar Veneto, Sez. III,
03.11.2004 n. 3825 (...)" (TAR Veneto, Sez. II,
13/05/2016, n. 479).
6. Tali affermazioni vanno pienamente condivise, dovendosi
conseguentemente affermare che, ai fini della individuazione
della relativa categoria funzionale di cui all'art. 23-ter
d.P.R. 380/2001 l'attività fieristica va individuata quale
attività commerciale, con la conseguenza che la modifica di
destinazione d'uso, mediante opere, di un preesistente
complesso immobiliare desinato ad insediamento produttivo
richiede il preventivo rilascio del permesso di costruire.
Il motivo di ricorso è, pertanto infondato.
7. Per ciò che
concerne, invece, il secondo motivo di ricorso la
ricorrente, come si è detto, incentra la sua censura sul
fatto che il Tribunale non avrebbe accertato l'incidenza
dell'intervento sul carico urbanistico, incidenza che si
assume irrilevante, considerata l'originaria destinazione
dei fabbricati che, in alcuni periodi, avevano visto la
presenza quotidiana di tremila persone tra operai ed
impiegati, secondo quanto rilevato dallo stesso Tribunale.
In effetti tale valutazione manca, avendo il Tribunale
ritenuto la sussistenza del periculum in mora in
considerazione della natura permanente del reato e della
conseguente situazione di illiceità "(...) legata alla
diversa destinazione attribuita all'area che permane e
rivive ogni volta si organizzi una fiera a nulla rilevando
che le opere siano ultimate (...)".
Tale affermazione impone alcune considerazioni, anche in
considerazione di quanto prospettato nei motivi nuovi.
8. Riguardo al momento consumativo del reato urbanistico, se
ci si riferisce, in generale, all'esecuzione di opere, può
certamente affermarsi che esso ha natura permanente e la sua
consumazione ha inizio con l'avvio dei lavori di
costruzione, che assumono rilevanza, indipendentemente dal
tipo ed entità delle opere, per l'oggettiva destinazione
alla realizzazione di un manufatto e perdura fino alla
cessazione dell'attività edificatoria abusiva o con la
sospensione dei lavori volontaria o imposta (ad esempio,
mediante sequestro penale), con la sentenza di primo grado,
se i lavori continuano dopo l'accertamento del reato e sino
alla data del giudizio.
Con specifico riferimento alla modifica della destinazione
d'uso può dirsi, sempre in linea generale, che la
consumazione del reato cessa, nel caso in cui non sia
attuata mediante l'esecuzione di opere, con il completamento
funzionale dell'intervento, quando, cioè, l'immobile è
pienamente utilizzabile secondo a nuova destinazione
attribuitagli.
9. Non può invece essere condivisa l'affermazione del
Tribunale laddove sembra voglia sostenere che la permanenza
del reato è correlata alla sua successiva utilizzazione.
Invero, come questa Corte ha avuto modo di affermare,
seppure in un unica pronuncia ormai risalente nel tempo, non
costituiscono nuova autonoma manifestazione antigiuridica di
mutamento di destinazione, penalmente rilevante, la
utilizzazione o gli atti di disposizione del manufatto già
realizzato in modo difforme o in assenza di concessione.
Tali atti rientrano nella sfera del "post factum"
impunibile e degli effetti permanenti di una condotta
antigiuridica o consumazione conclusa (Sez. 3, n. 4179 del
20/02/1985, Sciacca, Rv. 16896501).
Al contrario, l'utilizzazione dell'immobile successiva alla
consumazione del reato assume rilievo ai fini cautelari
reali laddove comporti un aggravio del carico urbanistico
che, come questa Corte ha già avuto modo di osservare, deve
essere considerata con riferimento all'aspetto strutturale e
funzionale dell'opera ed è rilevabile anche nel caso di una
concreta alterazione della originaria consistenza
sostanziale di un manufatto in relazione alla volumetria,
alla destinazione o alla effettiva utilizzazione tale da
determinare un mutamento dell'insieme delle esigenze
urbanistiche valutate in sede di pianificazione con
particolare riferimento agli standard fissati dal D.M.
1444/1968 (Sez. 3, n. 36104 del 22/09/2011, P.M. in proc.
Armelani, Rv. 25125101. Conf. Sez. 3, n. 6599 del 24/11/2011
(dep. 2012), Susinno, Rv. 25201601).
Tale orientamento, che va qui ribadito, si conforma alla
nota decisione delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 12878 del
29/01/2003, P.M. in proc. Innocenti, Rv. 22372101) nella
quale, ammettendosi la possibilità del sequestro anche a
reato urbanistico ormai perfezionato -"purché il pericolo
della libera disponibilità della cosa stessa -che va
accertato dal giudice con adeguata motivazione- presenti i
requisiti della concretezza e dell'attualità e le
conseguenze del reato, ulteriori rispetto alla sua
consumazione, abbiano connotazione di antigiuridicità,
consistano nel volontario aggravarsi o protrarsi dell'offesa
al bene protetto che sia in rapporto di stretta connessione
con la condotta penalmente illecita e possano essere
definitivamente rimosse con l'accertamento irrevocabile del
reato"- si individuano, a titolo esemplificativo, quali
conseguenze determinate dalla libera disponibilità del
manufatto illecitamente edificato, oltre all'aggravio del
carico urbanistico, la perpetrazione dell'illecito
amministrativo prevista dall'articolo 221 Testo unico leggi
sanitarie che, pur depenalizzato, costituisce una situazione
illecita ulteriore prodotta dalla libera utilizzazione della
cosa che il provvedimento cautelare è finalizzato ad inibire
ed il pregiudizio arrecato alle esigenze di vigilanza e
controllo del territorio mediante l'adeguato governo
pubblico degli usi e delle trasformazioni dello stesso a
causa delle alterazioni dell'ordinato ed equilibrato assetto
e sviluppo territoriale in danno del benessere complessivo
della collettività e della sua attività, il cui parametro di
legalità è dato dalla disciplina degli strumenti urbanistici
e dalla normativa vigente.
Entro tale ambito avrebbe dovuto quindi orientarsi il
giudizio del Tribunale, verificando, in primo luogo, se le
opere ritenute abusive erano ancora in corso di esecuzione,
il che avrebbe, di per sé, giustificato la misura reale al
fine di interrompere la consumazione del reato ancora in
atto e, in caso di ultimazione delle opere, se
l'utilizzazione delle stesse determini le conseguenze
indicate nelle pronunce in precedenza richiamate, fatta
salva l'ipotesi dell'intervenuta prescrizione del reato
ipotizzata nei motivi nuovi (Corte
di cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.02.2017 n. 6060). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
trasformazione del piano soffitta in
superficie residenziale, formata da una camera con bagno, rifiniti e
abitati, collegati all’abitazione sottostante mediante una scala interna.
Per la normativa edilizia [art. 3, comma 1, lett. b) e c), del Testo
Unico numero 380 del 2001, in combinato disposto con l’art. 10, comma 1,
lett. c) e con l’art. 23-ter dello stesso Testo Unico] le opere interne
e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di
manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo,
necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qual
volta comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie
funzionalmente autonome.
Nella fattispecie, non può essere negato che le opere eseguite siano
risultate idonee a trasformare la soffitta in un locale abitabile, con
camera da letto e bagno, incidendo, in misura lieve ma rilevante, sul carico
urbanistico dell’immobile.
---------------
Sono errate le deduzioni dei ricorrenti secondo cui la modificazione
dell’uso della soffitta sarebbe interna alle categorie funzionali omogenee
di cui all’art. 23-ter T.U. Edilizia e quindi urbanisticamente irrilevante.
In realtà, nell’ambito di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono
distinguersi i locali abitabili in senso stretto dagli spazi “accessori”
che, secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno valore di
superficie edificabile e non sono presi in considerazione come superficie
residenziale all’atto del rilascio del permesso di costruire: autorimesse,
cantine e locali di servizio rientrano, di norma, in questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante la
trasformazione di un garage o di una soffitta in un locale abitabile; senza
considerare i profili igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni
caso si configura un ampliamento della superficie residenziale e della
relativa volumetria autorizzate con l’originario permesso di costruire.
Aderendo quindi al costante orientamento della giurisprudenza, deve
ritenersi che solo il cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie
omogenee non necessita di permesso di costruire (in quanto non incide
sul carico urbanistico) mentre, allorché lo stesso intervenga tra
categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, così come tra
locali accessori e vani ad uso residenziale, integra una modificazione
edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico, con conseguente
assoggettamento al regime del permesso di costruire e ciò indipendentemente
dall'esecuzione di opere che, comunque, nel caso in esame sono presenti.
---------------
Con ricorso notificato a Roma Capitale il 17.03.2016 e depositato il 01.04.2016 i ricorrenti impugnano la determinazione dirigenziale del
municipio 6º di Roma numero 2625 del 2015, notificata il 28.01.2016,
con cui è stata disposta la rimozione o demolizione delle opere abusive di
ristrutturazione edilizia e cambio di destinazione d’uso da una categoria
all’altra, eseguite in assenza del titolo abilitativo.
I ricorrenti espongono di aver acquistato nel 2013 la proprietà di una villa
con giardino, composta da un piano terra e un locale sopraelevato dove già
era presente un lavatoio con sanitari.
Essi si sono visti notificare la comunicazione di avvio di un procedimento
amministrativo in quanto il piano soffitta era stato trasformato in
superficie residenziale, formata da una camera con bagno, rifiniti e
abitati, collegati all’abitazione mediante una scala interna.
Il procedimento veniva definito con D.D. del 15.04.2015, notificata il
27.04.2015, mediante la quale veniva ingiunta la demolizione degli
interventi edilizi abusivi.
...
Il provvedimento impugnato è stato adottato in esito all’accertamento, in
data 13.10.2015, da parte di agenti della polizia municipale, della
inottemperanza alla ingiunzione di demolizione numero 74 del 15.04.2015,
notificata il 27.04.2015, riferita a interventi edilizi abusivi
consistenti in una ristrutturazione eseguita in assenza del necessario
titolo abilitativo.
Si trattava, ad avviso dell’Amministrazione procedente, di un cambio di
destinazione d’uso tra diverse categorie generali di cui all’articolo 7, III
comma, della legge regionale del Lazio numero 36 del 1987.
In particolare, risulta che nell’unità immobiliare distinta in catasto al
foglio 1018, particella 742, subalterno 507, il piano soffitta è stato
trasformato in superficie residenziale, formata da una camera, da un bagno,
il tutto rifinito e abitato, collegata all’abitazione sottostante mediante
una scala interna.
Con il provvedimento impugnato, quindi, è stata disposta la demolizione
d’ufficio delle opere di ristrutturazione edilizia abusivamente realizzate,
con spese a carico dei proprietari.
...
Con il 2º motivo i ricorrenti deducono la illegittimità del procedimento
amministrativo ripristinatorio perché non si tratterebbe di ristrutturazione
edilizia, bensì di un mero cambio di destinazione d’uso, consentito dalla
novella legislativa recata dal cosiddetto “decreto sblocca Italia”, mediante
l’inserimento dell’articolo 23-ter nel Testo Unico dell’edilizia, con cui è
stato introdotto il concetto di mutamento d’uso urbanisticamente rilevante,
tale solo in caso di passaggio tra le diverse categorie funzionali,
espressamente individuate dalla norma; ne conseguirebbe che il mutamento di
destinazione d’uso interno alle categorie funzionali omogenee sarebbe
consentito; il comma 3 del citato articolo di legge, inoltre, dispone che le
Regioni adeguino la propria legislazione ai principi recati dall’articolo 23-ter entro 90 giorni; decorso tale termine trovano applicazione diretta le
disposizioni dell’articolo 23-ter; non avendo la regione Lazio legiferato al
riguardo, il cambio di destinazione d’uso all’interno della stessa categoria
funzionale sarebbe ammesso.
Nella fattispecie, quindi, non si sarebbe
verificato alcun abuso, essendo stata modificata solo la distribuzione
interna degli spazi, illegittimamente contestata con un provvedimento,
oltretutto, carente di motivazione.
Anche il 2º motivo è infondato.
Per la normativa edilizia [articolo 3, comma 1, lettere b) e c), del Testo
Unico numero 380 del 2001, in combinato disposto con l’articolo 10, comma 1,
lettera c) e con l’articolo 23-ter dello stesso Testo Unico] le opere interne
e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di
manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo,
necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qual
volta comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie
funzionalmente autonome.
Nella fattispecie, non può essere negato che le opere eseguite siano
risultate idonee a trasformare la soffitta in un locale abitabile, con
camera da letto e bagno, incidendo, in misura lieve ma rilevante, sul carico
urbanistico dell’immobile.
Sono errate le deduzioni dei ricorrenti secondo cui la modificazione
dell’uso della soffitta sarebbe interna alle categorie funzionali omogenee
di cui all’art. 23-ter T.U. Edilizia e quindi urbanisticamente irrilevante.
In realtà, nell’ambito di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono
distinguersi i locali abitabili in senso stretto dagli spazi “accessori”
che, secondo lo strumento urbanistico vigente, non hanno valore di
superficie edificabile e non sono presi in considerazione come superficie
residenziale all’atto del rilascio del permesso di costruire: autorimesse,
cantine e locali di servizio rientrano, di norma, in questa categoria.
Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante la
trasformazione di un garage o di una soffitta in un locale abitabile; senza
considerare i profili igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni
caso si configura un ampliamento della superficie residenziale e della
relativa volumetria autorizzate con l’originario permesso di costruire.
Aderendo quindi al costante orientamento della giurisprudenza, di recente
espresso da questo stesso Tribunale amministrativo regionale, deve ritenersi
che solo il cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie omogenee non
necessita di permesso di costruire (in quanto non incide sul carico
urbanistico) mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie edilizie
funzionalmente autonome e non omogenee, così come tra locali accessori e
vani ad uso residenziale, integra una modificazione edilizia con effetti
incidenti sul carico urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime
del permesso di costruire e ciò indipendentemente dall'esecuzione di opere
che, comunque, nel caso in esame sono presenti (cfr. TAR Lazio, sez. I,
11/09/2015, n. 11216).
Anche il secondo motivo di impugnazione, quindi, è privo di fondamento.
Ne deriva la reiezione del ricorso, fermo restando che l’Amministrazione,
prima di eseguire il provvedimento di demolizione d’ufficio, dovrà valutare
se le operazioni di ripristino eseguite dagli interessati siano sufficienti
a restituire al locale soffitta la destinazione d’uso originaria
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 30.01.2017 n. 1439 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il mutamento di destinazione d'uso senza opere è assoggettato a D.I.A. (ora
SCIA), ma a condizione che intervenga nell'ambito della stessa categoria
urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di
destinazione che comportino, come nel caso in esame, il passaggio di
categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche
all'interno di una stessa categoria omogenea.
---------------
1. Il ricorso è infondato.
2. Per quanto riguarda il primo motivo, mediante il quale è stata
denunciata violazione dell'art. 23-ter d.P.R. 380/2001, per l'erronea
affermazione da parte del Tribunale della prevalenza del mutamento di
destinazione impresso al fondo agricolo del ricorrente destinandolo a
deposito ed esposizione di automobili in mancanza del permesso di costruire,
in quanto ad avviso del ricorrente il Tribunale avrebbe dovuto considerare
l'estensione complessiva dell'appezzamento di terreno di sua proprietà, e
non la singola particella catastale destinata a deposito ed esposizione di
autoveicoli, con la conseguente esclusione del necessario requisito della
prevalenza del mutamento, va osservato che l'art. 23-ter d.P.R. 380/2001
stabilisce in proposito che "1. Salva diversa previsione da parte delle
leggi regionali, costituisce mutamento rilevante della destinazione d'uso
ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare
diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di
opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o
dell'unita' immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra
quelle sotto elencate: a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b)
produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale.
2. La destinazione d'uso di un fabbricato o di una unità immobiliare è
quella prevalente in termini di superficie utile.
3. Le regioni adeguano la propria legislazione ai principi di cui al
presente articolo entro novanta giorni dalla data della sua entrata in
vigore. Decorso tale termine, trovano applicazione diretta le disposizioni
del presente articolo. Salva diversa previsione da parte delle leggi
regionali e degli strumenti urbanistici comunali, il mutamento della
destinazione d'uso all'interno della stessa categoria funzionale è sempre
consentito".
Ne consegue l'irrilevanza, nella specie, della indagine sulla prevalenza
della destinazione d'uso del fondo, giacché tale accertamento deve essere
eseguito solamente in caso di destinazione mista, allo scopo di stabilire
quale sia la destinazione d'uso da considerare prevalente, per verificare se
vi sia stato un mutamento rispetto ad essa.
Allorquando (come nel caso di
specie, nel quale, pacificamente, tutti i fondi di proprietà del ricorrente,
avevano destinazione agricola) si sia verificato un mutamento rilevante
della originaria univoca destinazione d'uso, in conseguenza di un utilizzo
del fondo diverso rispetto a quello originario, tale da assegnare l'immobile
ad una diversa categoria funzionale tra quelle elencate nel primo comma
dell'art. 23-ter d.P.R. 380/2001, non occorre compiere alcuna indagine sulla
prevalenza della destinazione d'uso dell'immobile, essendo sufficiente, in
presenza di destinazione univoca, l'utilizzo diverso del fondo.
Poiché nella vicenda in esame tale mutamento vi è stato, in quanto una
porzione, corrispondente a quella sottoposta a sequestro, dei fondi a
destinazione agricola di proprietà del ricorrente è stata da questi
destinata a deposito ed esposizione di autoveicoli, comportante,
evidentemente, l'assegnazione di tale porzione di fondo alla categoria
funzionale commerciale, non sussiste la violazione di legge lamentata dal
ricorrente, essendo per effetto di tale condotta configurabile il reato di
cui all'art. 44, lett. a), d.P.R. 380/2001, in conseguenza del suddetto
mutamento della destinazione di fondi solo agricoli, tale da assegnarli ad
una diversa categoria funzionale (nella specie quella commerciale), in
mancanza del permesso di costruire.
Il mutamento di destinazione d'uso senza opere è assoggettato a D.I.A. (ora
SCIA), ma a condizione che intervenga nell'ambito della stessa categoria
urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di
destinazione che comportino, come nel caso in esame, il passaggio di
categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche
all'interno di una stessa categoria omogenea (Sez. 3, n. 26455 del
24/06/2016, Stellato, Rv. 267106; Sez. 3, n. 39897 del 24/06/2014, Filippi,
Rv. 260422; Sez. 3, n. 5712 del 13/12/2013, Tortora, Rv. 258686) (Corte di
cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.11.2016 n.
50503). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sul cambio di destinazione
d'uso da cantina-garage ad abitazione.
Nel caso di specie si è verificato un
cambio di destinazione d'uso, realizzato mediante opere
edilizie, di alcuni locali da cantina-garage ad abitazione,
ovvero dalla categoria d'uso non residenziale alla
diversa categoria d'uso residenziale.
Un tale cambio di destinazione, pacificamente realizzato in
difformità rispetto alla d.i.a. presentata, configura il
reato contestato -ex art. 44, comma 1, lett. b), del
d.P.R. n. 380/2001- trattandosi di
un'opera di ristrutturazione edilizia presa in
considerazione dalla legislazione della Regione Lazio ai
sensi del comma 2 dell'art. 10 del d.P.R n. 380 del 2001.
Tale ultima disposizione prevede, infatti, che «le regioni
stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o non
connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di
loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a
segnalazione certificata di inizio attività».
---------------
Il mutamento di destinazione d'uso senza opere è
assoggettato a d.i.a. (ora SCIA), purché intervenga
nell'ambito della stessa categoria urbanistica,
mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche
di destinazione che comportino il passaggio di categoria o,
se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche
all'interno di una stessa categoria omogenea.
E, come sottolineato dalla richiamata giurisprudenza di
questa Corte, le sanzioni previste per il cambio di
destinazione d'uso risultano giustificate dall'esigenza di
scongiurare il pericolo di compromissione degli equilibri
prefigurati dagli strumenti urbanistici in relazione al
corretto e ordinato assetto del territorio.
Ne deriva, quanto al caso in esame, che l'intervento
edilizio oggetto dell'imputazione avrebbe dovuto essere
eseguito con permesso di costruire.
---------------
1. - Con ordinanza del 07.10.2015, il Tribunale di Roma ha
annullato il decreto di sequestro preventivo emesso dal Gip
dello stesso Tribunale ed avente ad oggetto un immobile, in
relazione al reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b),
del d.P.R. n. 380 del 2001.
Il Tribunale ha rilevato, in particolare, che le opere
edilizie realizzate in difformità dalla d.i.a. presentata,
consistenti nel cambio di destinazione d'uso di due locali,
rientrano tra quelle per le quali è richiesta la sola d.i.a.
Ad avviso dello stesso Tribunale, il permesso di costruire è
necessario per il cambio di destinazione d'uso solo se gli
immobili sono ricompresi nelle zone omogenee A, mentre
l'immobile in questione è sito in località non sottoposta a
vincoli è inserita in zona O dallo strumento urbanistico.
2. - Avverso l'ordinanza ha proposto ricorso per cassazione
il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma.
Ad avviso del ricorrente, il Tribunale avrebbe omesso di
considerare che il cambio di destinazione d'uso da
cantina-garage ad abitazione è avvenuto tra due categorie
diverse, da non residenziale a residenziale, ed è dunque
inquadrabile tra le ristrutturazioni edilizie "pesanti",
tuttora soggetti alla disciplina del permesso di costruire.
...
3. - Il ricorso è fondato.
Nel caso di specie si è verificato un cambio di destinazione
d'uso, realizzato mediante opere edilizie, di alcuni locali
da cantina-garage ad abitazione, ovvero dalla categoria
d'uso non residenziale alla diversa categoria d'uso
residenziale. Un tale cambio di destinazione,
pacificamente realizzato in difformità rispetto alla d.i.a.
presentata dall'interessata, configura il reato contestato,
trattandosi di un'opera di ristrutturazione edilizia
presa in considerazione dalla legislazione della Regione
Lazio ai sensi del comma 2 dell'art. 10 del d.P.R n. 380 del
2001. Tale ultima disposizione prevede, infatti, che «le
regioni stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o
non connessi a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili
o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o
a segnalazione certificata di inizio attività».
E la Regione Lazio, con l'art. 7, terzo comma, della legge
regionale n. 36 del 1987, nella sua formulazione attualmente
vigente, ha stabilito che «le modifiche di destinazione
d'uso con o senza opere a ciò preordinate, quando hanno per
oggetto le categorie stabilite dallo strumento urbanistico
generale, sono subordinate al rilascio di apposita permesso
di costruire, mentre quando riguardano gli ambiti di una
stessa categoria sono soggette a denuncia di inizio attività
da parte del sindaco».
La disciplina regionale, adottata ai sensi del richiamato
comma 2 dell'art. 10 del d.P.R. n. 380 del 2001, nel
richiedere il permesso di costruire per il mutamento di
destinazione d'uso con passaggio dall'una all'altra
categoria urbanistica, non fa alcun riferimento alla
necessaria inclusione degli immobili in una particolare zona
omogenea dello strumento urbanistico. Ed essa prevale, in
ogni caso, sulla disciplina generale di cui al precedente
comma 1, lett. c), del richiamato art. 10 del d.pr. n. 380
del 2001, a norma del quale sono subordinati al permesso di
costruire gli interventi di ristrutturazione edilizia
che comportino mutamenti della destinazione d'uso,
limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A.
Si tratta di una disciplina che, nel suo complesso, si pone
in armonia con quanto costantemente affermato dalla
giurisprudenza di questa Corte in tema di reati edilizi, nel
senso che il mutamento di destinazione d'uso senza opere è
assoggettato a d.i.a. (ora SCIA), purché intervenga
nell'ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è
richiesto il permesso di costruire per le modifiche di
destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se
il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche
all'interno di una stessa categoria omogenea (sez. 3,
24.06.2014, n. 39897, rv. 260422; sez. 3, 13.12.2013, rv.
258686; in senso analogo, sez. 3, 07.05.2015, n. 42453, rv.
265191; sez. 3, 16.10.2014, n. 3953, rv. 262018).
E, come sottolineato dalla richiamata giurisprudenza di
questa Corte, le sanzioni previste per il cambio di
destinazione d'uso risultano giustificate dall'esigenza di
scongiurare il pericolo di compromissione degli equilibri
prefigurati dagli strumenti urbanistici in relazione al
corretto e ordinato assetto del territorio.
Ne deriva, quanto al caso in esame, che l'intervento
edilizio oggetto dell'imputazione avrebbe dovuto essere
eseguito con permesso di costruire (Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 24.06.2016 n. 26455). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sul mutamento di destinazione
d'uso del sottotetto.
In tema di reati edilizi, la modifica di
destinazione d'uso è integrata anche dalla realizzazione di sole opere
interne.
Il principio è stato successivamente ribadito sul rilievo che le cosiddette
"opere interne" non sono più previste nel d.P.R. 06.06.2001, n. 380,
come categoria autonoma di intervento edilizio sugli edifici esistenti, e
rientrano negli interventi di ristrutturazione edilizia quando comportino
aumento di unità immobiliari o modifiche dei volumi, dei prospetti e delle
superfici ovvero mutamento di destinazione d'uso, precisando che
l'esecuzione di opere di aumento della superficie e dei volumi o comunque di
realizzazione di impianti tecnologici comportanti una modifica della
destinazione d'uso richiede il permesso di costruire.
La ragione di ciò risiede nel fatto che la destinazione d'uso è un elemento
che caratterizza il bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse
pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione,
individuando il bene sotto l'aspetto funzionale e specificando le singole
destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici.
Quando il mutamento della destinazione d'uso viene realizzato dopo
l'ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza, si configura un'ipotesi di
ristrutturazione edilizia secondo la definizione fornita
dall'art. 3, comma 1, d.p.r. 06.06.2001, n. 380 in quanto l'esecuzione
dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione di "un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente".
Sotto tale profilo, non ha rilievo l'entità delle opere eseguite allorché si
consideri che la necessità del permesso di costruire permane tanto per gli
interventi di manutenzione straordinaria, qualora comportino modifiche delle
destinazioni d'uso (articolo 3, comma 1, lettera b), d.p.r. n. 380 del
2001), quanto per gli interventi di restauro e risanamento conservativo,
qualora comportino il mutamento degli "elementi tipologici"
dell'edificio, cioè di quei caratteri non soltanto architettonici ma anche
funzionali che ne consentano la qualificazione in base alle tipologie
edilizie (art. 3, comma 1, lett. c), d.p.r. n. 380 del 2001).
Ne consegue che gli interventi anzidetti devono considerarsi "di nuova
costruzione", ai sensi dell'arti. 3, comma 1, lett. e), d.p.r. n.
380 del 2001.
Perciò, il mutamento di destinazione d'uso di un immobile attuato attraverso
l'esecuzione di opere edilizie e realizzato dopo la sua ultimazione
configura un'ipotesi di ristrutturazione edilizia che integra il reato di
esecuzione di lavori in assenza di permesso di costruire (art. 44, lett. b), d.P.R.
06.06.2001, n. 380), in quanto l'esecuzione di lavori, anche se di modesta
entità, porta alla creazione di un organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente.
In particolare, la trasformazione di un sottotetto in mansarda, che è
caratterizzata per sua naturale destinazione ad abitazione, costituisce
mutamento della destinazione d'uso dell'immobile per il quale è necessario
il rilascio del permesso di costruire, in assenza della quale il fatto
integra l'ipotesi di reato di cui all'art. 44, lett. b), d.p.r. n. 380 del
2001.
----------------
In tema di reati urbanistici, non ricorrono gli estremi della buona fede,
idonea ad integrare la condizione soggettiva d'ignoranza inevitabile della
legge penale (Corte cost. n. 364 del 1988), quando l'imputato abbia eseguito
un intervento edilizio in assenza del necessario permesso di costruire in
conseguenza di una erronea interpretazione di una pur chiara disposizione di
legge ed omettendo di consultare il competente ufficio.
---------------
3.2. A prescindere, poi, dalla novità della doglianza sollevata dal Ma., il
tema centrale e risolutivo, al quale sfuggono i ricorrenti, è costituito dal
mutamento di destinazione d'uso del sottotetto in conseguenza dei lavori
abusivi eseguiti e delle difformità realizzate, in ordine alle quali, nella
loro storicità, non vi è neppure contestazione.
Questa Corte ha affermato che, in tema di reati edilizi, la modifica di
destinazione d'uso è integrata anche dalla realizzazione di sole opere
interne (Sez. 3, n. 27713 del 20/05/2010, P.M. in proc. Olivieri ed altri,
Rv. 247919).
Il principio è stato successivamente ribadito sul rilievo che le cosiddette
"opere interne" non sono più previste nel d.P.R. 06.06.2001, n. 380,
come categoria autonoma di intervento edilizio sugli edifici esistenti, e
rientrano negli interventi di ristrutturazione edilizia quando comportino
aumento di unità immobiliari o modifiche dei volumi, dei prospetti e delle
superfici ovvero mutamento di destinazione d'uso (Sez. 3, n. 47438 del
24/11/2011, Truppi, Rv. 251637), precisando che l'esecuzione di opere di
aumento della superficie e dei volumi o comunque di realizzazione di
impianti tecnologici comportanti una modifica della destinazione d'uso
richiede il permesso di costruire (Sez. 3, n. 37862 del 16/06/2014, PMT in
proc. Duranti ed altri, non mass.).
La ragione di ciò risiede nel fatto che la destinazione d'uso è un elemento
che caratterizza il bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse
pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione,
individuando il bene sotto l'aspetto funzionale e specificando le singole
destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici.
Quando il mutamento della destinazione d'uso viene realizzato dopo
l'ultimazione del fabbricato e durante la sua esistenza, si configura un'ipotesi di
ristrutturazione edilizia secondo la definizione fornita
dall'articolo 3, comma 1, d.p.r. 06.06.2001, n. 380 in quanto l'esecuzione
dei lavori, anche se di entità modesta, porta pur sempre alla creazione di "un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente".
Sotto tale profilo, non ha rilievo l'entità delle opere eseguite allorché si
consideri che la necessità del permesso di costruire permane tanto per gli
interventi di manutenzione straordinaria, qualora comportino modifiche delle
destinazioni d'uso (articolo 3, comma 1, lett. b), d.p.r. n. 380 del
2001), quanto per gli interventi di restauro e risanamento conservativo,
qualora comportino il mutamento degli "elementi tipologici"
dell'edificio, cioè di quei caratteri non soltanto architettonici ma anche
funzionali che ne consentano la qualificazione in base alle tipologie
edilizie (articolo 3, comma 1, lettera c), d.p.r. n. 380 del 2001).
Ne consegue che gli interventi anzidetti devono considerarsi "di nuova
costruzione", ai sensi dell'articolo 3, comma 1, lett. e), d.p.r. n.
380 del 2001.
Perciò, il mutamento di destinazione d'uso di un immobile attuato attraverso
l'esecuzione di opere edilizie e realizzato dopo la sua ultimazione
configura un'ipotesi di ristrutturazione edilizia che integra il reato di
esecuzione di lavori in assenza di permesso di costruire (art. 44, lett. b), d.P.R. 06.06.2001, n. 380), in quanto l'esecuzione di lavori, anche se di
modesta entità, porta alla creazione di un organismo edilizio in tutto o in
parte diverso dal precedente (Sez. 3, n. 9894 del 20/01/2009, Tarallo, Rv.
243101).
In particolare, secondo giurisprudenza costante di questa Corte, la
trasformazione di un sottotetto in mansarda, che è caratterizzata per sua
naturale destinazione ad abitazione, costituisce mutamento della
destinazione d'uso dell'immobile per il quale è necessario il rilascio del
permesso di costruire, in assenza della quale il fatto integra l'ipotesi di
reato di cui all'art. 44, lett. b), d.p.r. n. 380 del 2001 (Sez. 3, n. 6581
del 19/12/2000, dep. 19/02/2001, Muccio, Rv. 218702; Sez. 3, n. 17359 del
08/03/2007, P.M. in proc. Vazza, Rv. 236493).
I ricorrenti obiettano come tale destinazione non si fosse in concreto
realizzata, in quanto non voluta, ma a parte l'istanza di sanatoria tendente
a regolarizzare il pregresso abuso, dimostrativa della perpetrazione di esso
ed anche della direzione finalistica della condotta, la destinazione della
soffitta ad uso abitativo è stata desunta dalla divisione del locale in
stanze mediante tre metrature, dall'inserimento di un bagno di grandi
dimensioni e munito addirittura vasca idromassaggio e di finiture di pregio,
inidonee per un locale di sgombero, dall'apertura di finestre che ne
aumentavano la luminosità, dalla modifica dell'impianto elettrico e di
quello idrico preesistenti, dall'inserimento addirittura di termosifoni per
il riscaldamento, dalla realizzazione di una scala di ampie dimensioni per
accedervi, sicché non si comprende cosa altro occorra per dedurre, sulla
base di massime di esperienze generalizzate, l'esecuzione di lavori diretti
ad assegnare all'immobile una destinazione d'uso diversa da quella
originaria.
Né poteva ipotizzarsi la presentazione di qualsiasi variante posto che, al
cospetto di una modifica della destinazione d'uso dell'immobile, non sono
ammesse varianti stante la chiara preclusione in tal senso desumibile
dall'art. 22, comma 2, d.p.r. n. 380 del 2001.
I Giudici del merito hanno pertanto correttamente applicato la normativa
urbanistica pervenendo alla conclusione di ritenere ampiamente configurati i
reati ascritti anche con riferimento alle altre ipotesi di abuso edilizio
indicate nel capo di imputazione e tutte sostanzialmente finalizzate alla
modifica della destinazione d'uso del sottotetto, violazione già di per sé
autosufficiente per l'affermazione della responsabilità penale e compiuta
nell'esclusivo interesse della proprietaria dell'immobile, circostanza che
esclude, come sarà più chiaro in seguito, la sua buona fede.
3.2. I ricorrenti hanno eccepito che la responsabilità penale non poteva
essere affermata per difetto dell'elemento soggettivo del reato e la
proprietaria, committente dei lavori, ha in particolare sostenuto di aver
agito in assenza di colpa perché inconsapevole di commettere gli abusi,
avendola il direttore dei lavori sempre rassicurata in merito alla
esecuzione delle opere non previste nella Dia, dicendole che si trattava di
lavori legittimi e regolarizzabili mediante una variante finale, ma tale
asserzione non è stata convalidata dalla Corte territoriale che ha osservato
che l'imputata, se anche avesse agito fidandosi delle assicurazioni del
direttore dei lavori, aveva comunque l'onere di accertare, con la necessaria
diligenza, se davvero le opere difformi e non previste nella Dia, di cui
ella era ampiamente consapevole, stante la loro macroscopica diversità
rispetto al progetto allegato alla Dia stessa, fossero legittime e
assentibili.
Dalla testimonianza della figlia della ricorrente si è appreso infatti che
la Ra. chiedeva spiegazioni al direttore dei lavori circa le difformità
riscontrate sentendosi rispondere che in effetti si trattava di lavori non
regolari che però sarebbero stati regolarizzati in seguito.
L'imputata, di fronte alla palese violazione dell'atto abilitativo
presentato in Comune (violazioni apprese proprio dal direttore dei lavori),
aveva allora il dovere e la concreta possibilità di verificare la
correttezza di quanto veniva eseguito rivolgendosi direttamente ai tecnici
comunali preposti al controllo dell'attività edilizia.
La Corte distrettuale ha perciò ritenuto provato che l'imputata ha agito in
modo negligente anche se il coimputato l'aveva rassicurata ed il fatto che
quest'ultimo, a dibattimento, abbia confermato di aver tranquillizzato la Ra.
circa la regolarità della procedura che aveva deciso di intraprendere, cioè
eseguire delle opere non previste dalla Dia confidando di poterle
regolarizzare con una variante finale, non esonera la ricorrente da
responsabilità per colpa ed esclude che si sia potuto verificare, in capo ad
entrambi i ricorrenti, qualsiasi errore di fatto o errore sulla violazione
di norme extrapenali, essendo entrambi perfettamente consapevoli della
difformità dei lavori eseguiti rispetto alla Dia presentata.
Questa Corte ha stabilito che, in tema di reati urbanistici, non ricorrono
gli estremi della buona fede, idonea ad integrare la condizione soggettiva
d'ignoranza inevitabile della legge penale (Corte cost. n. 364 del 1988),
quando l'imputato abbia eseguito un intervento edilizio in assenza del
necessario permesso di costruire in conseguenza di una erronea
interpretazione di una pur chiara disposizione di legge ed omettendo di
consultare il competente ufficio (Sez. 3, n. 36852 del 10/06/2014, Messina,
Rv. 259950).
Nel caso di specie, entrambi i ricorrenti erano consapevoli
dell'illegittimità dei lavori eseguiti e la Ra. ha inosservato l'obbligo di
richiedere un'adeguata informazione per conseguire la conoscenza della
legislazione vigente in materia
(Corte di Cassazione, Sez. penale feriale,
sentenza
05.10.2015 n. 39907). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
serie di opere sistematicamente volte a determinare il cambio di
destinazione d’uso da soffitta ad abitativo.
La realizzazione di un abbaino, munito di finestra sul
tetto del fabbricato, oltre a determinare un aumento di volumetria, incide
sulla sagoma dell'edificio e rientra quindi nella tipologia della
ristrutturazione con mutamento di sagoma, che è subordinata a permesso di
costruire, giusta quanto dispone l'art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R.
06.06.2001 n. 380.
---------------
Le opere eseguite e in corso di esecuzione (quanto alla parte impiantistica)
sono idonee a modificare radicalmente la destinazione d’uso della soffitta
in locale abitabile, incidendo in modo determinate sul carico urbanistico.
Sicché, in materia edilizia le opere interne e gli interventi di
ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di manutenzione
straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo,
necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qual
volta comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie
funzionalmente autonome (mutamento d'uso che nella specie si deduce
dall’approntamento di opere tese a rendere abitabile uno spazio destinato a
soffitta).
Ed invero, solo il cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie
omogenee non necessita di permesso di costruire (in quanto non incide
sul carico urbanistico), mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie
edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, si integra in questa
ipotesi una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico
urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del permesso di
costruire, e ciò, indipendentemente dall'esecuzione di opere (che, invece,
nel caso in esame sono presenti).
---------------
La sig.ra Ta., proprietaria di un immobile sito in Roma, via ... n. 14,
impugna l’ordinanza n. 1316 del 24.10.2007, notificata il successivo 30
ottobre, recante l’ingiunzione a demolire le seguenti opere eseguite senza
permesso di costruire: “Modifica delle quote d’imposta sia al colmo, sia
alla gronda, per m. 0,35 circa. Realizzazione, in epoca imprecisata, di un
solaio a forma di “L” delle dimensioni di m. 5,00x1,20 e m. 1,00x1,20.
Lavori d’impiantistica in corso, Chiusura porta d’accesso dal pianerottolo e
apertura nuova porta all’interno della soffitta. Apertura finestra-abbaino
di m. 0,30x1,80”.
Premesso che le opere in questione riguardano il piano di copertura,
consistente in un locale soffitta di mq. 29 sempre di esclusiva proprietà
della ricorrente, espone in fatto che le opere oggetto dell’ordine di
demolizione sono consistite in riparazioni per infiltrazioni idriche
provocate dalla preesistenza in loco di un manufatto–lucernaio e, in specie,
nella sostituzione dello stesso con una finestra–abbaino, a bocca di lupo e
con l’installazione di tegole in guaina isolante e sostituzione di travi in
legno.
Contesta, pertanto, che sia stata realizzata una sopraelevazione e che
l’opera comprenda l’installazione di impianti idrici, non essendo intenzione
della ricorrente di destinare il bene ad uso abitativo.
...
Come accennato in narrativa, è oggetto di controversia la determinazione
dirigenziale con cui il Comune di Roma ha ordinato la demolizione di talune
opere eseguita senza permesso di costruire su immobile di proprietà della
ricorrente, comportanti modifiche delle quote di imposta (sia al colmo che
alla gronda), realizzazione di un solaio a forma di “L”, chiusura di porta
d’accesso dal pianerottolo, con contestuale apertura di una nuova porta
all’interno della soffitta, apertura di finestra–abbaino, lavori di
impiantistica.
Sostiene la ricorrente che, essendosi limitata ad eseguire meri interventi
di risanamento, tesi alla conservazione del manufatto deterioratosi nel
tempo, è illegittimo il provvedimento repressivo, emanato senza tenere in
debita considerazione della sufficienza, quale titolo abilitativo,
l’avvenuta presentazione di DIA.
Il ricorso è infondato.
Il provvedimento in esame è stato emesso sulla base di accertamenti tecnici
eseguiti dal resistente Comune a seguito della presentazione di DIA per
l’esecuzione di lavori edili in locale con destinazione d’uso soffitta, nel
corso dei quali è emerso che, oltre ai dichiarati interventi di sostituzione
della copertura, senza modifica delle quote d’imposta, di posa in opera di
una rampa di scale di accesso alla soffitta e di diversa distribuzione
interna, sono state eseguite una serie di opere sistematicamente volte a
determinare in cambio di destinazione d’uso da soffitta ad abitativo, e
comunque determinanti, anche singolarmente considerate, aumento volumetrico
e modifica della sagoma dell’edificio.
Ed invero, è la stessa relazione tecnica di parte, depositata in atti dalla
ricorrente, che evidenzia come a seguito degli interventi ulteriori si sia
determinato un incremento volumetrico, con la conseguenza che non può essere
qualificato quale opera di ristrutturazione quella parte di interventi
edilizi, realizzata in difformità dalla DIA e, dunque, in assenza del
prescritto permesso di costruire, avendo comportato un maggiore ingombro a
terra e maggiore altezza al piano, con conseguente aumento di volumetria.
Per altrettanto, non è inquadrabile nelle suddette opere di ristrutturazione
la realizzazione dell’abbaino munito di finestra sul tetto del fabbricato in
quanto, oltre a determinare un aumento di volumetria, incide sulla sagoma
dell'edificio e rientra quindi nella tipologia della ristrutturazione con
mutamento di sagoma, che è subordinata a permesso di costruire, giusta
quanto dispone l'art. 10, comma 1, lett. c). d.P.R. 06.06.2001 n. 380.
In ogni caso, non può sottacersi che le opere eseguite e in corso di
esecuzione (quanto alla parte impiantistica) sono idonee a modificare
radicalmente la destinazione d’uso della soffitta in locale abitabile,
incidendo in modo determinate sul carico urbanistico.
Ritiene il Collegio che, in materia edilizia, le opere interne e gli
interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di
manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo,
necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qual
volta comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie
funzionalmente autonome (mutamento d'uso che nella specie si deduce
dall’approntamento di opere tese a rendere abitabile uno spazio destinato a
soffitta).
Ed invero, solo il cambio di destinazione d'uso fra categorie edilizie
omogenee non necessita di permesso di costruire (in quanto non incide sul
carico urbanistico), mentre, allorché lo stesso intervenga tra categorie
edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, si integra in questa
ipotesi una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico
urbanistico, con conseguente assoggettamento al regime del permesso di
costruire, e ciò, indipendentemente dall'esecuzione di opere (che, invece,
nel caso in esame sono presenti).
In conclusione, è legittimo il provvedimento impugnato con cui, in
applicazione dell’art. 33, comma 1, d.p.r. n. 380/2001, è stata ordinata la
demolizione delle opere di ristrutturazione edilizia di cui all’articolo 10,
comma 1, lett. c), siccome eseguite in assenza di permesso di costruire, ed
il ricorso deve essere respinto
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 11.09.2015 n. 11216 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
APPALTI - ATTI
AMMINISTRATIVI:
Le procedure informatiche, finanche ove pervengano al loro
maggior grado di precisione e addirittura alla perfezione,
non possano mai soppiantare, sostituendola davvero appieno,
l’attività cognitiva, acquisitiva e di giudizio che solo
un’istruttoria affidata ad un funzionario persona fisica è
in grado di svolgere.
Gli istituti di partecipazione, di trasparenza e di accesso,
in sintesi, di relazione del privato con i pubblici poteri
non possono essere legittimamente mortificate e compresse
soppiantando l’attività umana con quella impersonale, che
poi non è attività, ossia prodotto delle azioni dell’uomo,
che può essere svolta in applicazione di regole o procedure
informatiche o matematiche.
Ad essere inoltre vulnerato non è solo il canone di
trasparenza e di partecipazione procedimentale, ma anche
l’obbligo di motivazione delle decisioni amministrative, con
il risultato di una frustrazione anche delle correlate
garanzie processuali che declinano sul versante del diritto
di azione e difesa in giudizio di cui all’art. 24 Cost.,
diritto che risulta compromesso tutte le volte in cui
l’assenza della motivazione non permette inizialmente
all’interessato e successivamente, su impulso di questi, al
Giudice, di percepire l’iter logico–giuridico seguito
dall’amministrazione per giungere ad un determinato approdo
provvedimentale.
---------------
In proposito può utilmente essere richiamato e si ritiene di
proporre per analogia alla soggetta questione, quanto di
recente è stato affermato dalla giurisprudenza, sia pure nel
caso esiziale di esclusione da una procedura concorsuale per
problematiche discendenti dall’impiego della modalità
informatica prescritta dalla lex specialis per la
presentazione della domanda di partecipazione.
Si è condivisibilmente precisato sul punto che “nel caso di
specie, si è giunti invece ad un sostanziale provvedimento
di esclusione, senza alcun procedimento, senza alcuna
motivazione, senza alcun funzionario della Pubblica
Amministrazione che abbia valutato il caso in esame ed abbia
correttamente esternato le relative determinazioni
provvedimentali potendosi inoltre rinviare alle motivazioni
espresse dallo specifico precedente conforme di questa
sezione, con cui si è evidenziata “la manifesta
irragionevolezza, ingiustizia ed irrazionalità di un sistema
di presentazione delle domande di partecipazione ad un
concorso che, a causa di meri malfunzionamenti tecnici,
giunga ad esercitare impersonalmente attività amministrativa
sostanziale, disponendo esclusioni de facto riconducibili a
mere anomalie informatiche” e che “pro futuro ed in
un’ottica conformativa del potere, l’Amministrazione debba
predisporre, unitamente a strumenti telematici di
semplificazione dei flussi documentali in caso di procedure
concorsuali di massa, altresì procedure amministrative
parallele di tipo tradizionale ed attivabili in via di
emergenza, in caso di non corretto funzionamento dei sistemi
informatici predisposti per il fisiologico inoltro della
domanda”.
Più di recente questa Sezione in chiave più generale ha
riproposto, in materia di azione avverso il silenzio serbato
sulla pretesa di ammissione al completamento di una
procedura di concessione di finanziamenti pubblici inibita
per anomalie della piattaforma informatica contemplata quale
esclusiva modalità di confezionamento e inoltro
dell’istanza, l’ermeneusi già espressa nei medesimi sensi
con il precedente di cui a TAR Lazio–Roma, Sez. III-bis, n.
8312/2016, affermando che: “Va al riguardo ribadito, invero,
quanto già sancito dalla giurisprudenza della Sezione in
tema di ruolo conferibile all’impiego dello strumento
informatico in seno al procedimento, ossia il principio
generale secondo il quale “le procedure informatiche
applicate ai procedimenti amministrativi devono collocarsi
in una posizione necessariamente servente rispetto agli
stessi, non essendo concepibile che, per problematiche di
tipo tecnico, sia ostacolato l’ordinato svolgimento dei
rapporti tra privato e Pubblica Amministrazione e fra
Pubbliche Amministrazioni nei reciproci rapporti".
---------------
Il Collegio è del parere che le procedure informatiche,
finanche ove pervengano al loro maggior grado di precisione
e addirittura alla perfezione, non possano mai soppiantare,
sostituendola davvero appieno, l’attività cognitiva,
acquisitiva e di giudizio che solo un’istruttoria affidata
ad un funzionario persona fisica è in grado di svolgere e
che pertanto, al fine di assicurare l’osservanza degli
istituti di partecipazione, di interlocuzione procedimentale, di acquisizione degli apporti collaborativi
del privato e degli interessi coinvolti nel procedimento,
deve seguitare ad essere il dominus del procedimento stesso,
all’uopo dominando le stesse procedure informatiche
predisposte in funzione servente e alle quali va dunque
riservato tutt’oggi un ruolo strumentale e meramente
ausiliario in seno al procedimento amministrativo e giammai
dominante o surrogatorio dell’attività dell’uomo.
Ostando
alla deleteria prospettiva orwelliana di dismissione delle
redini della funzione istruttoria e di abdicazione a quella
provvedimentale, il presidio costituito dal baluardo dei
valori costituzionali scolpiti negli artt. 3, 24, 97 della
Costituzione oltre che all’art. 6 della Convezione europea
dei diritti dell’uomo.
---------------
3.1. Dirimente si profila in punto di diritto l’argomento
secondo cui è mancata nella fattispecie una vera e propria
attività amministrativa, essendosi demandato ad un
impersonale algoritmo lo svolgimento dell’intera procedura
di assegnazione dei docenti alle sedi disponibili
nell’organico dell’autonomia della scuola.
Al riguardo ritiene la Sezione che alcuna complicatezza o
ampiezza, in termini di numero di soggetti coinvolti ed
ambiti territoriali interessati, di una procedura
amministrativa, può legittimare la sua devoluzione ad un
meccanismo informatico o matematico del tutto impersonale e
orfano di capacità valutazionali delle singole fattispecie
concrete, tipiche invece della tradizionale e garantistica
istruttoria procedimentale che deve informare l’attività
amministrativa, specie ove sfociante in atti provvedimentali
incisivi di posizioni giuridiche soggettive di soggetti
privati e di conseguenziali ovvie ricadute anche sugli
apparati e gli assetti della pubblica amministrazione.
Un algoritmo, quantunque, preimpostato in guisa da tener
conto di posizioni personali, di titoli e punteggi, giammai
può assicurare la salvaguardia delle guarentigie
procedimentali che gli artt. 2, 6, 7, 8, 9, 10 della legge
07.08.1990 n. 241 hanno apprestato, tra l’altro in
recepimento di un inveterato percorso giurisprudenziale e
dottrinario.
3.2. Invero, anticipando conclusioni cui a breve si perverrà
seguendo l’iter argomentativo di seguito sviluppato, può sin
da ora affermarsi che gli istituti di partecipazione, di
trasparenza e di accesso, in sintesi, di relazione del
privato con i pubblici poteri non possono essere
legittimamente mortificate e compresse soppiantando
l’attività umana con quella impersonale, che poi non è
attività, ossia prodotto delle azioni dell’uomo, che può
essere svolta in applicazione di regole o procedure
informatiche o matematiche.
Ad essere inoltre vulnerato non è solo il canone di
trasparenza e di partecipazione procedimentale, ma anche
l’obbligo di motivazione delle decisioni amministrative, con
il risultato di una frustrazione anche delle correlate
garanzie processuali che declinano sul versante del diritto
di azione e difesa in giudizio di cui all’art. 24 Cost.,
diritto che risulta compromesso tutte le volte in cui
l’assenza della motivazione non permette inizialmente
all’interessato e successivamente, su impulso di questi, al
Giudice, di percepire l’iter logico–giuridico seguito
dall’amministrazione per giungere ad un determinato approdo
provvedimentale.
4. In proposito può utilmente essere richiamato e si ritiene
di proporre per analogia alla soggetta questione, quanto di
recente è stato affermato dalla giurisprudenza, sia pure nel
caso esiziale di esclusione da una procedura concorsuale per
problematiche discendenti dall’impiego della modalità
informatica prescritta dalla lex specialis per la
presentazione della domanda di partecipazione.
Si è condivisibilmente precisato sul punto che “nel caso di
specie, si è giunti invece ad un sostanziale provvedimento
di esclusione, senza alcun procedimento, senza alcuna
motivazione, senza alcun funzionario della Pubblica
Amministrazione che abbia valutato il caso in esame ed abbia
correttamente esternato le relative determinazioni provvedimentali potendosi inoltre rinviare alle motivazioni
espresse dallo specifico precedente conforme di questa
sezione del 27.06.2016, n. 806/2016, con cui si è
evidenziata “la manifesta irragionevolezza, ingiustizia
ed irrazionalità di un sistema di presentazione delle
domande di partecipazione ad un concorso che, a causa di
meri malfunzionamenti tecnici, giunga ad esercitare
impersonalmente attività amministrativa sostanziale,
disponendo esclusioni de facto riconducibili a mere anomalie
informatiche” e che “pro futuro ed in un’ottica
conformativa del potere, l’Amministrazione debba
predisporre, unitamente a strumenti telematici di
semplificazione dei flussi documentali in caso di procedure
concorsuali di massa, altresì procedure amministrative
parallele di tipo tradizionale ed attivabili in via di
emergenza, in caso di non corretto funzionamento dei sistemi
informatici predisposti per il fisiologico inoltro della
domanda” (TAR Puglia-Bari, n. 896/2016).
4.1. Più di recente questa Sezione in chiave più generale ha
riproposto, in materia di azione avverso il silenzio serbato
sulla pretesa di ammissione al completamento di una
procedura di concessione di finanziamenti pubblici inibita
per anomalie della piattaforma informatica contemplata quale
esclusiva modalità di confezionamento e inoltro
dell’istanza, l’ermeneusi già espressa nei medesimi sensi
con il precedente di cui a TAR Lazio–Roma, Sez. III-bis, n.
8312/2016, affermando che: “3.2.1. Va al riguardo
ribadito, invero, quanto già sancito dalla giurisprudenza
della Sezione in tema di ruolo conferibile all’impiego dello
strumento informatico in seno al procedimento, ossia il
principio generale secondo il quale “le procedure
informatiche applicate ai procedimenti amministrativi devono
collocarsi in una posizione necessariamente servente
rispetto agli stessi, non essendo concepibile che, per
problematiche di tipo tecnico, sia ostacolato l’ordinato
svolgimento dei rapporti tra privato e Pubblica
Amministrazione e fra Pubbliche Amministrazioni nei
reciproci rapporti (TAR Lazio–Roma, Sez. III-bis, n.
8312/2016; in termini cfr. anche Cons. Stato, Sez. VI,
07.11.2017 n. 5136” (TAR Lazio–Roma, Sez. III-bis,
08.08.2018, n. 8902).
4.2. Si segnala inoltre che con la decisione d’appello
richiamata in quest’ultima pronuncia della Sezione, il
Consiglio ha annullato un diniego di incentivo per la
realizzazione di un impianto fotovoltaico assunto dal G.S.E.
perché l’istanza, per il cui inoltro il relativo D.M. del
2007 stabiliva l’impiego unicamente della piattaforma
informatica (ai sensi dell’art. 5, comma 10, del d.m.
19.02.2007 «Il soggetto attuatore predispone una
piattaforma informatica per le comunicazioni tra i soggetti
responsabili e lo stesso soggetto attuatore»)
era stata inviata correttamente qualche giorno dopo la
scadenza del termine ultimo, entro il quale l’aspirante
aveva tentato di inoltrarla tempestivamente, tuttavia non
riuscendoci a causa di un malfunzionamento, comprovato in
giudizio, del sistema informatico.
Il Consiglio di Stato ha annullato il diniego opposto per
l’illustrata violazione del temine di invio telematico
dell’istanza sancendo che “Ne consegue l’illegittimità,
per violazione dei principi di correttezza e di buon
andamento dell’azione amministrativa, del diniego opposto
dal GSE, essendo l’inoltro tardivo della domanda (peraltro,
solo di pochi giorni) imputabile alla sfera di
responsabilità dello stesso GSE, ed avendo la richiedente
assolto a tutte le incombenze da essa esigibili in una
situazione di malfunzionamento della piattaforma telematica
del GSE” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 07.11.2017, n.
5136).
5. Rammentati i segnalati precedenti, resi peraltro in
fattispecie afferenti all’illegittima esclusione da
procedure concorsuali in dipendenza dell’intempestiva
presentazione delle domande di partecipazione cagionata da
malfunzionamenti o anomalie delle piattaforme telematiche
all’uopo allestite, ma espressivi di principi estensibili
all’odierna controversia, con riguardo al ruolo che lo
strumento informatico può legittimamente rivestire
nell’ambito di procedimenti amministrativi, il Collegio è
più in particolare del meditato avviso secondo cui non è
conforme al vigente plesso normativo complessivo e ai
dettami dell’art. 97 della Costituzione, ai principi ad esso
sottesi, agli istituti di partecipazione procedimentale
definiti agli artt. 7, 8, 10 e 10–bis della L. 07.08.1990,
n. 241, all’obbligo di motivazione dei provvedimenti
amministrativi sancito dall’art. 3, stessa legge, al
principio ineludibile dell’interlocuzione personale
intessuto nell’art. 6 della legge sul procedimento e a
quello ad esso presupposto di istituzione della figura del
responsabile del procedimento, affidare all’attivazione di
meccanismi e sistemi informatici e al conseguente loro
impersonale funzionamento, il dipanarsi di procedimenti
amministrativi, sovente incidenti su interessi, se non
diritti, di rilievo costituzionale, che invece postulano,
onde approdare al corretto esito provvedimentale conclusivo,
il disimpegno di attività istruttoria, acquisitiva di
rappresentazioni di circostanze di fatto e situazioni
personali degli interessati destinatari del provvedimento
finale, attività, talora ponderativa e comparativa di
interessi e conseguentemente necessariamente motivazionale,
che solo l’opera e l’attività dianoetica dell’uomo può
svolgere.
5.1. Invero Il Collegio è del parere che le procedure
informatiche, finanche ove pervengano al loro maggior grado
di precisione e addirittura alla perfezione, non possano mai
soppiantare, sostituendola davvero appieno, l’attività
cognitiva, acquisitiva e di giudizio che solo un’istruttoria
affidata ad un funzionario persona fisica è in grado di
svolgere e che pertanto, al fine di assicurare l’osservanza
degli istituti di partecipazione, di interlocuzione
procedimentale, di acquisizione degli apporti collaborativi
del privato e degli interessi coinvolti nel procedimento,
deve seguitare ad essere il dominus del procedimento stesso,
all’uopo dominando le stesse procedure informatiche
predisposte in funzione servente e alle quali va dunque
riservato tutt’oggi un ruolo strumentale e meramente
ausiliario in seno al procedimento amministrativo e giammai
dominante o surrogatorio dell’attività dell’uomo; ostando
alla deleteria prospettiva orwelliana di dismissione delle
redini della funzione istruttoria e di abdicazione a quella
provvedimentale, il presidio costituito dal baluardo dei
valori costituzionali scolpiti negli artt. 3, 24, 97 della
Costituzione oltre che all’art. 6 della Convezione europea
dei diritti dell’uomo (TAR
Lazio-Roma, Sez. III-bis,
sentenza 10.09.2018 n. 9230 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI:
A a fronte di procedimenti amministrativi interamente
telematizzati, specie quando la presentazione della domanda
sia ancorata a rigidi termini di decadenza e la compilazione
della stessa si riveli di particolare complessità,
l’amministrazione, anche a non voler prevedere modalità
ulteriori di presentazione della stessa, non può prescindere
dal c.d. soccorso istruttorio ex art. 6 l. n. 241/1990.
Nell’ambito di un procedimento tenuto con modalità
telematiche la scadenza del termine di presentazione della
domanda non può essere considerata alla stessa stregua della
scadenza del termine di presentazione nell’ambito di un
tradizionale procedimento cartaceo, in cui eventuali
problematiche (ad esempio, scioperi aerei, incidenti etc.) vanno ricondotte nella
comune sfera di diligenza dell’interessato.
Nel caso di domande telematiche, invece, il rispetto del
termine di presentazione della domanda dipende da variabili
assolutamente imprevedibili e non “quantificabili” in
termini di tempo, e cioè dalle concrete modalità di
configurazione del Sistema Informativo, anche qualora, come
nel caso in esame, la compilazione sia affidata a soggetti
più che competenti.
Va al riguardo ribadito, invero, quanto già sancito
dalla giurisprudenza della Sezione in tema di ruolo
conferibile all’impiego dello strumento informatico in seno
al procedimento, ossia il principio generale secondo il
quale “le procedure informatiche applicate ai
procedimenti amministrativi devono collocarsi in una
posizione necessariamente servente rispetto agli stessi, non
essendo concepibile che, per problematiche di tipo tecnico,
sia ostacolato l’ordinato svolgimento dei rapporti tra
privato e Pubblica Amministrazione e fra Pubbliche
Amministrazioni nei reciproci rapporti”.
In sensi analoghi ed anzi maggiormente pertinenti al
caso all’esame vertendosi in fattispecie di non ammissione a
o esclusione da procedure ad evidenza amministrativa, si è
espresso anche il TAR Puglia, secondo cui “nel caso di
specie, si è giunti invece ad un sostanziale provvedimento
di esclusione, senza alcun procedimento, senza alcuna
motivazione, senza alcun funzionario della Pubblica
Amministrazione che abbia valutato il caso in esame ed abbia
correttamente esternato le relative determinazioni
provvedimentali potendosi inoltre rinviare alle motivazioni
espresse dallo specifico precedente conforme di questa
sezione, con cui si è
evidenziata “la manifesta irragionevolezza, ingiustizia ed
irrazionalità di un sistema di presentazione delle domande
di partecipazione ad un concorso che, a causa di meri
malfunzionamenti tecnici, giunga ad esercitare
impersonalmente attività amministrativa sostanziale,
disponendo esclusioni de facto riconducibili a mere anomalie
informatiche” e che “pro futuro ed in un’ottica conformativa
del potere, l’Amministrazione debba predisporre, unitamente
a strumenti telematici di semplificazione dei flussi
documentali in caso di procedure concorsuali di massa,
altresì procedure amministrative parallele di tipo
tradizionale ed attivabili in via di emergenza, in caso di
non corretto funzionamento dei sistemi informatici
predisposti per il fisiologico inoltro della domanda”.
Ne deriva che, pur a fronte di procedimenti
amministrativi interamente telematizzati, specie quando la
presentazione della domanda sia ancorata a rigidi termini di
decadenza e la compilazione della stessa si riveli di
particolare complessità, l’amministrazione, anche a non
voler prevedere modalità ulteriori di presentazione della
stessa, non può prescindere dal c.d. soccorso istruttorio ex
art. 6 l. n. 241/1990.
---------------
3. Sintetizzando quanto dianzi precisato, può esporsi che la
ricorrente argomenta di avere intrapreso l’iter telematico
necessario a presentare domanda di partecipazione alla
procedura di selezione, ma che la procedura di
perfezionamento e invio informatico della domanda non poteva
essere completata nel termine previsto per via dei
malfunzionamenti della piattaforma telematica SIRIO, eletta
dall’Avviso come unica modalità di presentazione e invio
delle domande.
3.1. Tanto premesso, il ricorso deve essere accolto, in
considerazione dell’illegittimo diniego della riapertura dei
termini per completare la domanda telematicamente o comunque
consentire la presentazione della domanda con modalità
cartacea, in attivazione del c.d. “dovere di soccorso
procedimentale” di cui all’art. 6 della L. n. 241/1990,
avuto riguardo alla previsione dell’avviso (art. 16) secondo
cui la domanda doveva essere presentata, a pena di
esclusione “esclusivamente” con modalità telematica tramite
i servizi dello sportello telematico SIRIO e all’acclarato
riscontro di malfunzionamenti, o comunque rallentamenti, del
Sistema Sirio in prossimità della scadenza del termine di
presentazione della domanda –senza che alle segnalazioni
dell’utente abbia fatto riscontro l’intervento del CINECA al
fine di assicurare un tempestivo superamento delle
problematiche tecniche- che hanno impedito il completamento
delle domande nel termine previsto dall’Avviso.
3.2. Osserva, in proposito, il Collegio che nell’ambito di
un procedimento tenuto con modalità telematiche la scadenza
del termine di presentazione della domanda non può essere
considerata alla stessa stregua della scadenza del termine
di presentazione nell’ambito di un tradizionale procedimento
cartaceo, in cui eventuali problematiche (ad esempio,
scioperi aerei, incidenti etc.) vanno ricondotte nella
comune sfera di diligenza dell’interessato.
Nel caso di domande telematiche, invece, il rispetto del
termine di presentazione della domanda dipende da variabili
assolutamente imprevedibili e non “quantificabili” in
termini di tempo, e cioè dalle concrete modalità di
configurazione del Sistema Informativo, anche qualora, come
nel caso in esame, la compilazione sia affidata a soggetti
più che competenti.
3.2.1. Va al riguardo ribadito, invero, quanto già sancito
dalla giurisprudenza della Sezione in tema di ruolo
conferibile all’impiego dello strumento informatico in seno
al procedimento, ossia il principio generale secondo il
quale “le procedure informatiche applicate ai
procedimenti amministrativi devono collocarsi in una
posizione necessariamente servente rispetto agli stessi, non
essendo concepibile che, per problematiche di tipo tecnico,
sia ostacolato l’ordinato svolgimento dei rapporti tra
privato e Pubblica Amministrazione e fra Pubbliche
Amministrazioni nei reciproci rapporti” (TAR Lazio–Roma,
Sez. III-bis, n. 8312/2016; in termini cfr. anche Cons.
Stato, Sez. VI, 07.11.2017 n. 5136).
3.2.2. In sensi analoghi ed anzi maggiormente pertinenti al
caso all’esame vertendosi in fattispecie di non ammissione a
o esclusione da procedure ad evidenza amministrativa, si è
espresso anche il TAR Puglia, secondo cui “nel caso di
specie, si è giunti invece ad un sostanziale provvedimento
di esclusione, senza alcun procedimento, senza alcuna
motivazione, senza alcun funzionario della Pubblica
Amministrazione che abbia valutato il caso in esame ed abbia
correttamente esternato le relative determinazioni
provvedimentali potendosi inoltre rinviare alle motivazioni
espresse dallo specifico precedente conforme di questa
sezione del 27.06.2016, n. 806/2016, con cui si è
evidenziata “la manifesta irragionevolezza, ingiustizia ed
irrazionalità di un sistema di presentazione delle domande
di partecipazione ad un concorso che, a causa di meri
malfunzionamenti tecnici, giunga ad esercitare
impersonalmente attività amministrativa sostanziale,
disponendo esclusioni de facto riconducibili a mere anomalie
informatiche” e che “pro futuro ed in un’ottica conformativa
del potere, l’Amministrazione debba predisporre, unitamente
a strumenti telematici di semplificazione dei flussi
documentali in caso di procedure concorsuali di massa,
altresì procedure amministrative parallele di tipo
tradizionale ed attivabili in via di emergenza, in caso di
non corretto funzionamento dei sistemi informatici
predisposti per il fisiologico inoltro della domanda” (cfr.
TAR Puglia-Bari, n. 896/2016).
3.3. Ne deriva che, pur a fronte di procedimenti
amministrativi interamente telematizzati, specie quando la
presentazione della domanda sia ancorata a rigidi termini di
decadenza e la compilazione della stessa si riveli di
particolare complessità, l’amministrazione, anche a non
voler prevedere modalità ulteriori di presentazione della
stessa, non può prescindere dal c.d. soccorso istruttorio ex
art. 6 l. n. 241/1990.
In conclusione, il ricorso deve essere accolto al fine di
consentire alla ricorrente il completamento della propria
domanda (TAR
Lazio-Roma, Sez. III-bis,
sentenza 08.08.2018 n. 8902 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Per aversi una pergotenda occorre che l’opera
principale sia costituita non dalla struttura in sé, ma
dalla tenda, quale elemento di protezione dal sole o dagli
agenti atmosferici, con la conseguenza che la struttura deve
qualificarsi in termini di mero elemento accessorio,
necessario al sostegno e all’estensione della tenda.
---------------
3. L’appello è infondato e va respinto.
In base alla foto-documentazione dimessa
dall’Amministrazione, nella specie, non ci si trova di
fronte a due pergotende, bensì a vere e proprie tettoie,
come tali interventi di ristrutturazione edilizia non
rientranti nell’edilizia libera.
Per aversi una pergotenda occorrerebbe, infatti che l’opera
principale sia costituita non dalla struttura in sé, ma
dalla tenda, quale elemento di protezione dal sole o dagli
agenti atmosferici, con la conseguenza che la struttura deve
qualificarsi in termini di mero elemento accessorio,
necessario al sostegno e all’estensione della tenda.
Nel caso in esame, infatti, trattasi di struttura con
travetti lignei di una certa consistenza che sorreggono una
tenda, struttura che può essere senz’altro definita solida e
permanente e, soprattutto, tale da determinare una evidente
variazione di sagoma e prospetto dell’edificio.
Contrariamente a quanto affermato dagli appellanti,
l’elemento principale non è quindi la tenda sorretta dalla
struttura in travi di legno, ma, invece, quest’ultima.
Non trattandosi nel caso in esame di pergotende non può
nemmeno, diversamente da come affermato dagli appellanti,
trovare applicazione l’art. 17, comma 2°, del D.P.R. n.
31/2017 che stabilisce: “Non può disporsi la rimessione
in pristino nel caso di interventi e opere ricompresi
nell’ambito di applicazione dell’articolo 2 del presente
decreto e realizzati anteriormente alla data di entrata in
vigore del presente regolamento non soggette ad altro titolo
abilitativo all’infuori dell’autorizzazione paesaggistica”.
Nella specie, infatti, non si è in presenza di un intervento
riconducibile nella cd. edilizia libera, per cui non è
soddisfatto il presupposto per cui la struttura non
necessita di alcuna autorizzazione all’infuori del vincolo
paesaggistico. In base all’art. 17 del DPR 31/2017 poteva
quindi essere ben emessa la determinazione dirigenziale di
demolizione.
4. Conclusivamente, il gravame va respinto e la sentenza
impugnata va confermata (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 05.10.2018 n. 5737 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Circa la misurazione
dell’altezza del sottotetto, il computo di tale grandezza
deve riferirsi, secondo appropriata regola tecnica, alle
distanze tra gli elementi strutturali dell’edificio, quali
solai e copertura, non assumendo alcun rilievo gli elementi
architettonici di finitura, quali controsoffittatura, camera
d’aria e massetto delle pendenze, che sono meramente
eventuali e di dimensioni assolutamente non predeterminabili
in ragione delle svariate esigenze della committenza.
---------------
3. Perimetrato l’ambito del giudizio al suindicato
provvedimento di demolizione, si può dare corso allo
scrutinio delle censure articolate avverso quest’ultimo, le
quali sono così riassumibili:
a) non è ravvisabile la sussistenza di alcun abuso edilizio,
essendo le difformità di altezza del sottotetto state
erroneamente calcolate al netto di alcune opere di
rifinitura ancora da realizzare, quali la controsoffittatura,
la camera d’aria per l’isolamento termico ed il massetto
delle pendenze, Inoltre, l’altezza al colmo è stata
indebitamente misurata “all’intradosso delle travi
portanti, anziché al di sotto delle stesse così come
previsto dal regolamento edilizio” ed è, comunque,
inferiore di 10 cm. rispetto a quella autorizzata con il
permesso di costruire;
b) il provvedimento demolitorio è affetto da difetto di motivazione
non solo in relazione alla normativa urbanistico-edilizia
concretamente violata e alla qualificazione giuridica
dell’intervento posto in essere, ma anche con riguardo alla
prevalenza dello specifico interesse pubblico alla
demolizione sul contrapposto interesse privato, tenuto conto
dello scarso rilievo urbanistico dell’opera realizzata;
c) l’amministrazione comunale è incorsa nella violazione dell’art.
36 del d.P.R. n. 380/2001, non avendo anteposto
all’emissione dell’ordine demolitorio alcuna verifica in
ordine all’eventuale sanabilità dell’intervento effettuato;
d) l’ordinanza di demolizione non è stata preceduta dalla
comunicazione di avvio del procedimento, in violazione delle
prerogative partecipative garantite dall’art. 7 della legge
n. 241/1990.
Tutte le prefate censure non meritano condivisione per le
ragioni di seguito esplicitate.
4. Non emerge alcun palese errore di calcolo nella
misurazione dell’altezza del sottotetto, dovendo il computo
di tale grandezza riferirsi, come avvenuto nella specie
secondo appropriata regola tecnica, alle distanze tra gli
elementi strutturali dell’edificio, quali solai e copertura,
non assumendo alcun rilievo gli elementi architettonici di
finitura, quali controsoffittatura, camera d’aria e massetto
delle pendenze, che sono meramente eventuali e di dimensioni
assolutamente non predeterminabili in ragione delle svariate
esigenze della committenza (cfr. in tal senso TAR Sardegna,
Sez. II, 17.06.2015 n. 876) (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 03.10.2018 n. 5768 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La legittimità della
cessione di cubatura richiede non solo l’omogeneità d’area
territoriale, ma anche la contiguità dei fondi, e che, se la
giurisprudenza ha riconosciuto utilizzabili asservimenti
riferiti ad aree anche se non contigue sul piano fisico,
purché vicine in modo significativo, in concreto essa ha
chiarito che deve ritenersi significativa già una distanza
tra loro di oltre 300 metri, derivandone la non idoneità e,
in definitiva, l’irrilevanza dell’atto di asservimento.
---------------
Con un unico complesso motivo di censura la società
ricorrente sostiene:
- quanto al primo punto, di aver asservito all'area interessata,
per sanare l'incremento di volumetria realizzato, fondi
limitrofi con l’identica destinazione urbanistica G3
generando una superficie utile edificabile di mq. 14.554
(per effetto dall'intervenuto asservimento alle p.lle n.
2900, n. 2902 e n. 475 delle particelle n. 2042, n. 2044, n.
2050 e n. 2051, per una superficie edificatoria totale
rideterminata in mq. 14.754, cui sottrarre mq 200 previsti
per viabilità di progetto); a questo riguardo, l’assenza di
contiguità fisica non ne impedirebbe l'accorpamento
urbanistico, non essendo richiesta la diretta ed immediata
vicinanza, ma l'appartenenza alla medesima zona omogenea,
così come definita dalla disciplina urbanistica vigente.
- quanto al secondo punto, di non aver affatto chiesto di sanare un
cambio di destinazione d'uso mai attuato (posto che dagli
atti di vendita risulterebbe che gli immobili sono stati
alienati con la destinazione originaria impressa dal
permesso di costruire, cioè residence), ma solo di sanare,
grazie all’accorpamento urbanistico, l'incremento di
volumetria determinatosi in fase costruttiva.
Il ricorso non merita accoglimento.
La società ricorrente non contesta la circostanza di fatto
che i fondi asserviti distano tra loro qualche chilometro,
ma ne sostiene l’irrilevanza opinando sufficiente che tra
gli stessi vi sia omogeneità di destinazione urbanistica.
In senso contrario, però, va osservato che per condiviso
indirizzo interpretativo la legittimità della cessione di
cubatura richiede non solo l’omogeneità d’area territoriale,
ma anche la contiguità dei fondi, e che, se la
giurisprudenza ha riconosciuto utilizzabili asservimenti
riferiti ad aree anche se non contigue sul piano fisico,
purché vicine in modo significativo, in concreto essa ha
chiarito che deve ritenersi significativa già una distanza
tra loro di oltre 300 metri, derivandone la non idoneità e,
in definitiva, l’irrilevanza dell’atto di asservimento (cfr.
C.d.S., sez. VI, 14.04.2016, n. 1515).
Applicando tali principi al caso in esame, dunque, è
dirimente che i fondi asserviti, pur situati nello stesso
contesto territoriale, sono distanti tra loro qualche
chilometro e, pertanto, privi del requisito della contiguità (TAR
Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 03.10.2018 n. 5737 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La previsione di cui all’articolo 21-nonies
della l. 241/1990 segna il definitivo superamento
dell’originaria teorica dell’inconsumabilità del potere di
autotutela (o di quella che un risalente orientamento
definisce “la perennità della potestà amministrativa di
annullare in via di autotutela gli atti invalidi”), invero, già ampiamente rivisitata dall’evoluzione
dell’ordinamento pubblicistico che, come evidenziato da
Consiglio di Stato, ad. plen. 17.10.2017, n. 8, si
muove in chiave di maggiore protezione per i soggetti incisi
dall’esplicazione del potere di autotutela temperando il
richiamato principio di perennità e predicando, invece, la
necessità che l’annullamento e la revoca intervengano entro
un termine ragionevole.
---------------
Con specifico riferimento ai titoli edilizi, la
giurisprudenza declina il dato normativo sopra riportato
evidenziando come i presupposti per l’esercizio del potere
di annullamento d'ufficio devono individuarsi
nell'illegittimità originaria del titolo e nell'interesse
pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione, diverso dal
mero ripristino della legalità, da compararsi con i
contrapposti interessi dei privati, entro un termine
ragionevole (che l’articolo 6 della l. 07.08.2015, n. 124
fissa, da ultimo, in diciotto mesi).
---------------
In relazione alla questione relativa al termine di 18
mesi in ultimo richiamato si pone una questione di diritto
intertemporale atteso che il provvedimento di annullamento
in autotutela –adottato nella vigenza della nuova
disposizione- si riferisce a due permessi emessi nella
vigenza della precedente disposizione.
Sul punto, si evidenzia che, secondo un primo
orientamento giurisprudenziale, la norma introdotta dalla
legge 07.08.2015, n. 124 è applicabile in ogni caso in
cui il provvedimento di autotutela sia intervenuto
successivamente alla novella legislativa, ancorché riguardi
un titolo abilitativo rilasciato sotto il regime precedente.
Secondo un indirizzo di segno opposto, ai fini
dell’applicazione della regola del tempus regit actum (art.
11 delle preleggi), l’atto di autotutela dovrebbe
considerarsi non un provvedimento autonomo bensì un atto
rientrante nel procedimento aperto dall’atto di primo grado,
con conseguente insensibilità del procedimento
amministrativo alle norme giuridiche nel frattempo
sopravvenute.
A sostegno della tesi in esame si osserva che
la “modifica non ha carattere interpretativo dell’inciso che
precede (“entro un termine ragionevole”) perché, se così
fosse, si dovrebbe considerare comunque e sempre
“ragionevole” l’autoannullamento effettuato
dall’amministrazione entro 18 mesi: mentre, invece, nulla
vieta di ritenere irragionevole anche un provvedimento in
autotutela adottato entro il predetto termine. Ma nemmeno
può attribuirsi ad esso carattere sanante dei provvedimenti
illegittimi rilasciati precedentemente ai 18 mesi
antecedenti all’entrata in vigore della norma, giacché un
tale obiettivo mal si concilia con la dichiarata finalità di
semplificazione procedimentale della norma in questione (cfr.
il titolo del capo I della l. n. 124 del 2015).
La norma in
esame ha, dunque, sicuramente carattere innovativo, sicché
si applica solo ai provvedimenti adottati successivamente
alla sua entrata in vigore: ora, tenendo conto che la
disposizione riguarda soltanto provvedimenti di secondo
grado e che, come evidenziato, non ha valenza sanante dei
provvedimenti (di primo grado) emessi antecedentemente ai 18
mesi precedenti alla sua entrata in vigore, tale
disposizione –che introduce un regime temporale rigido di
annullabilità dell’atto amministrativo– non può che
riferirsi ai provvedimenti in autotutela di provvedimenti di
primo grado adottati successivamente alla vigenza della
legge.
Depone in favore di tale interpretazione la stessa
lettera della norma che, assumendo che l’annullamento in autotutela deve disporsi entro un termine “comunque non
superiore a diciotto mesi dal momento dell’adozione dei
provvedimenti di autorizzazione”, afferma, in buona
sostanza, che l’atto di secondo grado non potrà essere
emanato dopo diciotto mesi dal momento dell’adozione –momento che, attesa l’innovatività della norma, non può che
essere successivo alla sua entrata in vigore– del
provvedimento di autorizzazione (di primo grado)”.
La prevalente giurisprudenza del Consiglio di Stato -inaugurata dalla sentenza della V sezione, del 19.01.2017, n. 250– evidenzia che il termine dei diciotto mesi
non può applicarsi in via retroattiva, nel senso di
computare anche il tempo decorso anteriormente all’entrata
in vigore della legge n. 124 del 2015, atteso che tale
esegesi, oltre a porsi in contrasto con il generale
principio di irretroattività della legge (art. 11 preleggi),
finirebbe per limitare in maniera eccessiva ed irragionevole
l’esercizio del potere di autotutela amministrativa.
Si
arriverebbe infatti all’irragionevole conseguenza per cui,
con riguardo ai provvedimenti adottati diciotto mesi prima
dell’entrata in vigore della nuova norma, l’annullamento
d’ufficio sarebbe, per ciò solo, precluso. Ne consegue che,
rispetto ai provvedimenti illegittimi (di primo grado)
adottati anteriormente all’attuale versione dell’art.
21-nonies della l. n. 241 del 1990, il termine dei diciotto
mesi non può che cominciare a decorrere dalla data di
entrata in vigore della nuova disposizione.
---------------
Il Collegio ritiene di aderire all’orientamento secondo
cui le nuove disposizioni trovano applicazione “solo ai
provvedimenti di annullamento in autotutela che abbiano ad
oggetto provvedimenti che siano, anch'essi, successivi
all'entrata in vigore della nuova disposizione”.
Va, infatti, considerato che la nuova disposizione
àncora l’esercizio del potere al momento di emanazione del
primo atto ponendo, quindi, una limitazione temporale
calibrata proprio sul provvedimento che l’atto di secondo
grado rimuove.
La generalizzata applicazione del termine
dalla data di entrata in vigore della legge 124 del 2015
muta il presupposto fondante su cui poggia la previsione
imponendo, in ogni caso, l’adozione dell’atto di autotutela
–per i provvedimenti già emessi prima del 28.08.2015–
necessariamente entro i 18 mesi decorrenti da tale data. In
tal modo, però, si altera la ratio della norma nella sua
applicazione nella dinamica intertemporale, trasformando la
stessa in un termine generale di definizione di tutti i
provvedimenti di secondo grado, relativi ad atti già
adottati prima della novella.
Aderendo alla tesi pur
autorevolmente patrocinata da parte della giurisprudenza,
l’Amministrazione risulterebbe, in sostanza, onerata di una
verifica di tutti i provvedimenti già adottati da consumarsi
entro un generale termine di 18 mesi onde non vedersi
precludere la possibilità di successiva rimozione. In tal
modo, però, per gli atti adottati prima della novella il
termine di decorrenza dei 18 mesi non risulta più fondarsi
sulla data di emanazione del singolo atto –come
espressamente disposto dalla norma– ma, al contrario, sulla
data di entrata in vigore della legge.
Si perviene, così, al
risultato di negare la ratio della previsione che, come
detto, intende calibrare temporalmente l’atto di esercizio
del potere sul provvedimento da rimuovere. L’interpretazione
che appare, pertanto, maggiormente acconcia al dato
letterale e alla specifica ratio legis è quella che ancora
le nuove disposizioni all’esercizio del potere su atti
emanati dopo l’entrata in vigore della nuova legge.
Conclusione che, del resto, appare confermata dalla
circostanza che il legislatore non ha voluto approntare una
disciplina di diritto transitorio, l’unica che in tale
quadro avrebbe potuto medio tempore derogare al rigido
parametro temporale di riferimento ora previsto
dall’ordinamento (ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit).
---------------
3. Venendo al merito del ricorso deve procedersi
all’esame del primo motivo con il quale i ricorrenti
ritengono che il potere amministrativo di annullamento degli
atti debba ritenersi precluso dal decorso del termine di 18
mesi di cui all’articolo 21-nonies l. 241/1990 nella
versione attuale, ritenuta vigente ratione temporis anche in
considerazione dell’impossibilità di far decorrente il dies
a quo dalla data di emanazione dell’ultimo permesso in
variante.
Replica il Comune osservando che il termine in
esame non decorre in caso di falsa rappresentazione delle
circostanze di fatto poste a fondamento del titolo, da
individuarsi nel fatto che “le domande presentate per
ottenere i titoli edilizi rilasciati […] evidenzia[no]
circostanze non coerenti con quanto effettivamente
progettato, non fosse altro per il fatto che l’altezza
dell’edificio in progetto era indicata in mt. 8 (oppure non
era neppure indicata)”.
3.1. Entrando in medias res, il Collegio osserva, in primo
luogo, come la previsione di cui all’articolo 21-nonies
della l. 241/1990 segni il definitivo superamento
dell’originaria teorica dell’inconsumabilità del potere di
autotutela (o di quella che un risalente orientamento
definisce “la perennità della potestà amministrativa di
annullare in via di autotutela gli atti invalidi” – in tal
senso: Consiglio di Stato, sez. II, 07.06.1995, n.
2917/94), invero, già ampiamente rivisitata dall’evoluzione
dell’ordinamento pubblicistico che, come evidenziato da
Consiglio di Stato, ad. plen. 17.10.2017, n. 8, si
muove in chiave di maggiore protezione per i soggetti incisi
dall’esplicazione del potere di autotutela temperando il
richiamato principio di perennità e predicando, invece, la
necessità che l’annullamento e la revoca intervengano entro
un termine ragionevole (cfr., ex multis, Consiglio di Stato,
sez. VI, 15.11.1999, n. 1812; id., sez. V, 20.08.1996, n. 939).
3.2. La previsione normativa che, come spiegato, recepisce
in parte le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza,
prevede testualmente:
“1. Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi
dell'articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo
articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d'ufficio,
sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un
termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi
dal momento dell'adozione dei provvedimenti di
autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici,
inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai
sensi dell'articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei
destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha
emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge.
Rimangono ferme le responsabilità connesse all'adozione e al
mancato annullamento del provvedimento illegittimo.
2. È fatta salva la possibilità di convalida del
provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di
interesse pubblico ed entro un termine ragionevole.
2-bis. I provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base
di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni
sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false
o mendaci per effetto di condotte costituenti reato,
accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere
annullati dall'amministrazione anche dopo la scadenza del
termine di diciotto mesi di cui al comma 1, fatta salva
l'applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni
previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del
Presidente della Repubblica 28.12.2000, n. 445”.
3.3. Con specifico riferimento ai titoli edilizi, la
giurisprudenza declina il dato normativo sopra riportato
evidenziando come i presupposti per l’esercizio del potere
di annullamento d'ufficio devono individuarsi
nell'illegittimità originaria del titolo e nell'interesse
pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione, diverso dal
mero ripristino della legalità, da compararsi con i
contrapposti interessi dei privati, entro un termine
ragionevole (che l’articolo 6 della l. 07.08.2015, n. 124
fissa, da ultimo, in diciotto mesi) (TAR per la Campania
– sede di Napoli, sez. VIII, 28.08.2018, n. 5276).
3.4. In relazione alla questione relativa al termine di 18
mesi in ultimo richiamato si pone una questione di diritto
intertemporale atteso che il provvedimento di annullamento
in autotutela –adottato nella vigenza della nuova
disposizione- si riferisce a due permessi emessi nella
vigenza della precedente disposizione.
In particolare, sia
il permesso di costruire n. 143/2014 che il permesso n.
4272015 sono adottati prima dell’entrata in vigore della
modifica apportata dall’articolo 6, comma 1, lettera d),
numero 1), della legge 07.08.2015, n. 124. E’, invece,
emanato dopo l’entrata in vigore della modifica normativa in
esame il permesso di costruire n. 92/2015 del 23.09.2015, anch’esso annullato dal provvedimento in esame.
3.5. Sul punto, si evidenzia che, secondo un primo
orientamento giurisprudenziale, la norma introdotta dalla
legge 07.08.2015, n. 124 è applicabile in ogni caso in
cui il provvedimento di autotutela sia intervenuto
successivamente alla novella legislativa, ancorché riguardi
un titolo abilitativo rilasciato sotto il regime precedente
(ex plurimis: TAR per la Puglia, sede di Bari, Sez. III,
17.03.2016, n. 351; TAR per la Campania, sede di
Napoli, Sez. III, 22.09.2016, n. 4373; TAR per la
Campania, sede di Napoli, Sez. VIII, 04.01.2017, n. 65;
TAR per il Lazio, sede di Roma, Sez. I-bis, 21.02.2017, n. 2670; TAR per la Sardegna, Sez. I,
07.02.2017, n. 92).
3.6. Secondo un indirizzo di segno opposto, ai fini
dell’applicazione della regola del tempus regit actum (art.
11 delle preleggi), l’atto di autotutela dovrebbe
considerarsi non un provvedimento autonomo bensì un atto
rientrante nel procedimento aperto dall’atto di primo grado,
con conseguente insensibilità del procedimento
amministrativo alle norme giuridiche nel frattempo
sopravvenute.
A sostegno della tesi in esame si osserva che
la “modifica non ha carattere interpretativo dell’inciso che
precede (“entro un termine ragionevole”) perché, se così
fosse, si dovrebbe considerare comunque e sempre
“ragionevole” l’autoannullamento effettuato
dall’amministrazione entro 18 mesi: mentre, invece, nulla
vieta di ritenere irragionevole anche un provvedimento in
autotutela adottato entro il predetto termine. Ma nemmeno
può attribuirsi ad esso carattere sanante dei provvedimenti
illegittimi rilasciati precedentemente ai 18 mesi
antecedenti all’entrata in vigore della norma, giacché un
tale obiettivo mal si concilia con la dichiarata finalità di
semplificazione procedimentale della norma in questione (cfr.
il titolo del capo I della l. n. 124 del 2015).
La norma in
esame ha, dunque, sicuramente carattere innovativo, sicché
si applica solo ai provvedimenti adottati successivamente
alla sua entrata in vigore: ora, tenendo conto che la
disposizione riguarda soltanto provvedimenti di secondo
grado e che, come evidenziato, non ha valenza sanante dei
provvedimenti (di primo grado) emessi antecedentemente ai 18
mesi precedenti alla sua entrata in vigore, tale
disposizione –che introduce un regime temporale rigido di
annullabilità dell’atto amministrativo– non può che
riferirsi ai provvedimenti in autotutela di provvedimenti di
primo grado adottati successivamente alla vigenza della
legge.
Depone in favore di tale interpretazione la stessa
lettera della norma che, assumendo che l’annullamento in autotutela deve disporsi entro un termine “comunque non
superiore a diciotto mesi dal momento dell’adozione dei
provvedimenti di autorizzazione”, afferma, in buona
sostanza, che l’atto di secondo grado non potrà essere
emanato dopo diciotto mesi dal momento dell’adozione –momento che, attesa l’innovatività della norma, non può che
essere successivo alla sua entrata in vigore– del
provvedimento di autorizzazione (di primo grado)” (TAR per
la Campania – sede di Napoli, sez. II, 12.09.2016, n.
4229).
3.7. La prevalente giurisprudenza del Consiglio di Stato -inaugurata dalla sentenza della V sezione, del 19.01.2017, n. 250– evidenzia che il termine dei diciotto mesi
non può applicarsi in via retroattiva, nel senso di
computare anche il tempo decorso anteriormente all’entrata
in vigore della legge n. 124 del 2015, atteso che tale
esegesi, oltre a porsi in contrasto con il generale
principio di irretroattività della legge (art. 11 preleggi),
finirebbe per limitare in maniera eccessiva ed irragionevole
l’esercizio del potere di autotutela amministrativa.
Si
arriverebbe infatti all’irragionevole conseguenza per cui,
con riguardo ai provvedimenti adottati diciotto mesi prima
dell’entrata in vigore della nuova norma, l’annullamento
d’ufficio sarebbe, per ciò solo, precluso. Ne consegue che,
rispetto ai provvedimenti illegittimi (di primo grado)
adottati anteriormente all’attuale versione dell’art.
21-nonies della l. n. 241 del 1990, il termine dei diciotto
mesi non può che cominciare a decorrere dalla data di
entrata in vigore della nuova disposizione.
3.7. Il Collegio ritiene di aderire all’orientamento secondo
cui le nuove disposizioni trovano applicazione “solo ai
provvedimenti di annullamento in autotutela che abbiano ad
oggetto provvedimenti che siano, anch'essi, successivi
all'entrata in vigore della nuova disposizione” (TAR per
il Lazio – sede di Roma, sez. I-bis, 02.07.2018, n.
7272).
Va, infatti, considerato che la nuova disposizione
ancora l’esercizio del potere al momento di emanazione del
primo atto ponendo, quindi, una limitazione temporale
calibrata proprio sul provvedimento che l’atto di secondo
grado rimuove. La generalizzata applicazione del termine
dalla data di entrata in vigore della legge 124 del 2015
muta il presupposto fondante su cui poggia la previsione
imponendo, in ogni caso, l’adozione dell’atto di autotutela
–per i provvedimenti già emessi prima del 28.08.2015–
necessariamente entro i 18 mesi decorrenti da tale data. In
tal modo, però, si altera la ratio della norma nella sua
applicazione nella dinamica intertemporale, trasformando la
stessa in un termine generale di definizione di tutti i
provvedimenti di secondo grado, relativi ad atti già
adottati prima della novella.
Aderendo alla tesi pur
autorevolmente patrocinata da parte della giurisprudenza,
l’Amministrazione risulterebbe, in sostanza, onerata di una
verifica di tutti i provvedimenti già adottati da consumarsi
entro un generale termine di 18 mesi onde non vedersi
precludere la possibilità di successiva rimozione. In tal
modo, però, per gli atti adottati prima della novella il
termine di decorrenza dei 18 mesi non risulta più fondarsi
sulla data di emanazione del singolo atto –come
espressamente disposto dalla norma– ma, al contrario, sulla
data di entrata in vigore della legge.
Si perviene, così, al
risultato di negare la ratio della previsione che, come
detto, intende calibrare temporalmente l’atto di esercizio
del potere sul provvedimento da rimuovere. L’interpretazione
che appare, pertanto, maggiormente acconcia al dato
letterale e alla specifica ratio legis è quella che ancora
le nuove disposizioni all’esercizio del potere su atti
emanati dopo l’entrata in vigore della nuova legge.
Conclusione che, del resto, appare confermata dalla
circostanza che il legislatore non ha voluto approntare una
disciplina di diritto transitorio, l’unica che in tale
quadro avrebbe potuto medio tempore derogare al rigido
parametro temporale di riferimento ora previsto
dall’ordinamento (ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit).
3.8. Declinando il principio esposto al caso di specie, deve
ritenersi che l’atto di annullamento in autotutela relativo
al primo permesso di costruire non può ritenersi illegittimo
per intervenuto superamento del termine di 18 mesi, non
potendosi applicare, per le ragioni spiegate, la previsione
introdotta dalla legge 124 del 2015.
3.9. Permane, ovviamente, la necessità che l’atto di
annullamento sia adottato in un termine ragionevole.
Circostanza, invero, non contestata da parte dei ricorrenti
che fondano il primo motivo esclusivamente sulla ritenuta
violazione del termine di 18 mesi.
In ogni caso, osserva il
Collegio che il richiamo alla ragionevolezza del termine,
non comporta che, decorso un considerevole lasso di tempo
dal rilascio del titolo edilizio, sia eliso il potere di
annullamento, ma si traduce nella necessità di verificare
con peculiare attenzione se l’annullamento risponda ancora a
un effettivo e prevalente interesse pubblico di carattere
concreto e attuale anche in considerazione al complesso
delle circostanze e degli interessi rilevanti.
Inoltre, come
autorevolmente insegna l’Adunanza plenaria del Consiglio di
Stato n. 8 del 2017, la locuzione “termine ragionevole”
richiama evidentemente un concetto non parametrico ma
relazionale, riferito al complesso delle circostanze
rilevanti nel caso di specie. Si intende con ciò
rappresentare che la nozione di ragionevolezza del termine è
strettamente connessa a quella di esigibilità in capo
all’amministrazione, ragione per cui è del tutto congruo che
il termine in questione (nella sua dimensione “ragionevole”)
decorra soltanto dal momento in cui l’amministrazione è
venuta concretamente a conoscenza dei profili di
illegittimità dell’atto.
3.9. Nel caso di specie, l’intervento dell’Amministrazione
può ritenersi esercitato in tempo ragionevole tenuto conto
dell’opacità delle richieste di permesso di costruire e
della documentazione ivi allegata che non chiariscono, in
modo inequivoco, come l’intervento consista effettivamente
nel superamento dell’altezza di 8 metri. Infatti, che
l’altezza dell’edificio esistente sia pari già ad 8 metri è
un dato indicato esclusivamente nella tavola n. 3 con
l’apposizione di un rigo di misura accanto alla sagoma
dell’edificio.
Non si espone, invece, nulla nella relazione
tecnica al progetto non chiarendo, pertanto,
all’Amministrazione che l’intervento che si intende
realizzare comporta un’altezza complessiva superiore a tale
limite. Si affida, così, ad una deduzione
dell’Amministrazione l’individuazione dell’effettiva
consistenza dell’intervento, da effettuarsi sulla base, come
detto, di un’indicazione accennata accanto al disegno della
sagoma.
Circostanze che rendono, quindi, “esigibile”
l’intervento dell’Amministrazione solo all’esito di
un’analitica verifica non agevolata dalla parte privata che,
al contrario, omette di chiarire in modo espresso (come
sarebbe imposto da quei doveri di buona fede e correttezza
che permeano i rapporti con l’Amministrazione anche dal lato
del privato) l’altezza che l’edifico complessivo raggiunge
in caso di accoglimento delle proprie istanze.
3.10. In conclusione, il primo motivo di ricorso deve
rigettarsi in quanto infondato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 03.10.2018 n. 2200 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Gli atti volti a
sanzionare gli abusi di edilizi non debbono essere preceduti
dall’avviso di avvio del procedimento, e ciò in quanto
l’attività di repressione di tali abusi si caratterizza per
essere urgente e strettamente vincolata.
---------------
4.2. Parimenti infondata è la seconda censura ove si tenga
conto che il provvedimento sanzionatorio è consequenziale
alla rimozione parziale del titolo.
Opera, pertanto, il
consolidato principio giurisprudenziale secondo cui gli atti
volti a sanzionare gli abusi di edilizi non debbono essere
preceduti dall’avviso di avvio del procedimento, e ciò in
quanto l’attività di repressione di tali abusi si
caratterizza per essere urgente e strettamente vincolata (cfr.,
ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI, 18.01.2018, n.
289; TAR per la Campania – sede di Napoli, sez. IV, 03.05.2017, n. 2320; nella giurisprudenza di questa sezione
v., da ultimo, TAR Lombardia, sede di Milano, sez. II, 15.03.2018, n. 732) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 03.10.2018 n. 2200 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Per costante
giurisprudenza, l’obbligo di esame delle memorie e dei
documenti difensivi presentati dagli interessati nel corso
dell’iter procedimentale, non impone all’amministrazione una
formale ed analitica confutazione di ogni argomento
utilizzato, essendo sufficiente, alla luce dell’art. 3 della
l. 241/1990, un’esternazione motivazionale che renda nella
sostanza percepibile la ragione del mancato adeguamento
dell’azione amministrativa alle deduzioni partecipative dei
privati, come puntualmente avvenuto nella fattispecie.
---------------
5.3. Inammissibile e, comunque, infondata risulta la
deduzione secondo cui l’Amministrazione avrebbe omesso di
considerare le memorie presentate dai danti causa degli
attuali ricorrenti. Infatti, una simile censura pare
proponibile esclusivamente da coloro che hanno presentato le
osservazioni, non potendosi lamentare della loro omessa
considerazione una parte estranea alla formazione delle
stesse.
In ogni caso, si evidenzia come, per costante
giurisprudenza, l’obbligo di esame delle memorie e dei
documenti difensivi presentati dagli interessati nel corso
dell’iter procedimentale, non impone all’amministrazione una
formale ed analitica confutazione di ogni argomento
utilizzato, essendo sufficiente, alla luce dell’art. 3 della
l. 241/1990, un’esternazione motivazionale che renda nella
sostanza percepibile la ragione del mancato adeguamento
dell’azione amministrativa alle deduzioni partecipative dei
privati, come puntualmente avvenuto nella fattispecie (cfr.,
ex multis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 29.05.2012, n.
3210; Consiglio di Stato, Sez. V, 13.10.2010, n. 7472;
TAR per la Campania, sede di Napoli, Sez. III, 08.06.2016. n. 2885; TAR per la Campania, sede di Napoli, Sez.
IV, 15.09.2011, n. 4402) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 03.10.2018 n. 2200 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’uso di un sigillo in ceralacca
non può ritenersi strumento esclusivo indispensabile per
impedirne la manomissione (apertura + richiusura) a plico
inalterato, costituendo invero l’apposizione dei timbri e la
controfirma sul lembo di chiusura –da intendersi quale
imboccatura della busta soggetta ad operazione di chiusura a
sé stante, talché è sufficiente che l’adempimento formale
imposto alle imprese concorrenti venga limitato ai lembi
della busta chiusi dall’utilizzatore, con esclusione di
quelli preincollati dal fabbricante– una modalità di
sigillatura di per sé idonea a prevenire eventuali
manomissioni.
Soccorre al riguardo anche il principio di tassatività delle
cause di esclusione dalla gara, oggi formulato nell’art. 83,
comma 8, codice appalti, ed in precedenza esplicitato
dall'articolo 46, comma 1-bis, del codice dei contratti che,
per quanto qui interessa, nell’ipotesi di irregolare
chiusura dei plichi contenenti le offerte o le domande di
partecipazione, prevedeva che “(…) la stazione appaltante
esclude i candidati o i concorrenti (…) in caso di non
integrità del plico contenente l'offerta o la domanda di
partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura
dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze
concrete, che sia stato violato il principio di segretezza
delle offerte (…)".
Anche il giudice di appello ha avuto modo di affermare che
la clausola della lex specialis va letta alla luce del
criterio valutativo introdotto dal comma 1-bis dell'art. 46
del Codice dei contratti, in maniera non formalistica al
fine di garantire la massima partecipazione alla gara, per
cui ha ritenuto necessaria e sufficiente una modalità di
sigillatura del plico tale da impedire che il plico possa
essere aperto e manomesso senza che ne resti traccia
visibile.
Ne deriva che, anche in caso di mancata osservanza
pedissequa e cumulativa di ciascuna delle singole modalità
di chiusura contemplate dal disciplinare di gara, deve
ritenersi preclusa l'esclusione di un'impresa concorrente in
presenza di una modalità di sigillatura comunque idonea a
garantire l'ermetica e inalterabile chiusura del plico.
A tal fine, l'uso di un sigillo in ceralacca non può
ritenersi strumento esclusivo indispensabile per impedirne
la manomissione (apertura + richiusura) a plico inalterato,
costituendo invero l'apposizione dei timbri e la controfirma
sul lembo di chiusura - una modalità di sigillatura di per
sé idonea a prevenire eventuali manomissioni.
Tra l’altro anche l'Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici di lavori, servizi e forniture con il parere n. 54
del 04/04/2012 era già intervenuta sull'argomento precisando
che “la previsione da parte dell'atto di indizione di un
qualsiasi procedimento di evidenza pubblica, che impone la
presentazione da parte dei concorrenti del plico e/o delle
buste sigillati, risponde alla ratio di garantire, oltre
ogni ragionevole dubbio, la genuinità e/o integrità
dell'offerta, cioè la possibilità di evitare eventuali
sostituzioni dell'offerta, che può essere assicurata
soltanto se la sigillatura sia tale da impedire che il plico
possa essere aperto, senza che ne resti traccia visibile, e
possa essere anche solo teoricamente manomesso.
La disposizione di cui all’art. 83, co. 8, codice appalti
vigente va letta pertanto in continuità ermeneutica con la
norma di cui all’art. 46, comma 1-bis, d.lgs. n. 163 del 2006
ove si esplicitava che le irregolarità relative alla
chiusura dei plichi, diverse dalla non integrità del plico
contenente l’offerta o la domanda di partecipazione, sono
causa di esclusione solo se sono tali da far ritenere,
secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il
principio di segretezza delle offerte (nel caso di specie,
non risulta che tale valutazione in concreto sia stata fatta
ma anzi risulta che la busta sia sostanzialmente integra)".
La disposizione precitata in realtà codifica l’orientamento
sostanzialista già invalso nella più recente giurisprudenza
amministrativa, per cui le cause di esclusione dalla gara,
in quanto limitative della libertà di concorrenza, devono
essere ritenute di stretta interpretazione, senza
possibilità di estensione analogica, con la conseguenza che, in caso di
equivocità delle disposizioni che regolano lo svolgimento
della gara, deve essere preferita quell’interpretazione che,
in aderenza ai criteri di proporzionalità e ragionevolezza,
eviti eccessivi formalismi e illegittime restrizioni alla
partecipazione.
Infatti l’art. 83, co. 8, secondo e terzo periodo, del D.Lgs.
n. 50/2016 non sembra voler introdurre una disciplina
innovativa del principio di tassatività delle cause di
esclusione già enunciato dall’art. 46, co. 1-bis, del D.Lgs.
n. 163/2006, del quale costituisce la sostanziale
riproduzione.
In riferimento al principio di tassatività delle cause di
esclusione, sancito dal comma 8 dell’articolo 83 del D.Lgs.
n. 50/2016, il Collegio ribadisce che la finalità di tale
principio è quella di ridurre gli oneri formali gravanti
sulle imprese partecipanti alle procedure di affidamento,
così privando di rilievo giuridico tutte le ragioni di
esclusione dalle gare incentrate non sugli aspetti
qualitativi della dichiarazione negoziale, ma sulle forme
con cui questa viene esternata, in quanto non ritenute
conformi a quelle previste dalla stazione appaltante nella
lex specialis.
Dal tenore della citata disposizione si evince che il
Legislatore ha inteso con essa evitare esclusioni per
violazioni meramente formali, costituendo “cause di
esclusione” soltanto i vizi radicali ritenuti tali da
espresse previsioni di legge, così consentendo che si possa
escludere una concorrente dalla gara pubblica, solo nel caso
in cui le irregolarità accertate riguardo alla chiusura dei
plichi e delle buste in esso contenute siano “…tali da far
ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato
violato il principio di segretezza delle offerte…”, con
conseguente previsione, nei casi che si pongono al di fuori
dell’ambito descritto dalla norma, di nullità delle clausole
dei bandi di gara che dispongono diversamente da essa.
Ove peraltro la clausola del disciplinare dovesse intendersi
tale da richiedere, a pena di esclusione, che tanto il plico
esterno che le buste interne debbano essere sigillati con
ceralacca, o nastro adesivo e controfirmati e timbrati su
tutti i lembi di chiusura, la stessa andrebbe ritenuta nulla
e da disapplicare, dovendosi intendere nel senso conforme a
legge ossia nel senso che le irregolarità considerate
possono determinare l’esclusione solo qualora le modalità di
chiusura adoperate dal concorrente siano concretamente
idonee a rendere possibile la manomissione del contenuto.
---------------
Nella specie, ove non è contestato che l’irregolarità
commessa dalla ricorrente (chiusura della busta contenente
la documentazione con colla anziché mediante ceralacca o
altra striscia plasticata incollata) non abbia dato adito,
in concreto, a ritenere che sia stato violato il principio
di segretezza delle offerte, atteso che, nelle motivazioni
dell’esclusione, la stessa stazione appaltante ha rilevato
che l’irregolarità accertata consiste unicamente nella
chiusura della busta della ricorrente mediante incollaggio,
deve ritenersi conseguito il sostanziale riscontro, a
contrario, in ordine all’effettiva chiusura ed integrità
della busta.
La soluzione sostanzialistica della questione espressamente
prevista dall’art. 46, comma 1-bis, del D.Lgs. n. 163 del
2006, e in linea di continuità ricavabile in via ermeneutica
in seno all’art. 83, comma 8, nuovo codice appalti, richiede
affinché possa considerarsi legittima la statuizione di
esclusione dalla gara pubblica, in presenza di irregolarità
riguardanti la chiusura dei plichi e delle buste da
presentare alla stazione appaltante, la sussistenza di
“circostanze concrete”, tali da far ritenere possibile la
manomissione dell’involucro cartaceo (quali sono, ad
esempio, segni tangibili di tale fatto abrasioni,
lacerazioni, piegature anomale della busta).
Le considerazioni dianzi svolte risultano inoltre confermate
da autorevole giurisprudenza che si è pronunciata in un caso
similare, secondo cui: “…deve ritenersi necessaria e
sufficiente una modalità di sigillatura del plico tale da
impedire che il plico potesse essere aperto e manomesso
senza che ne restasse traccia visibile. Ne deriva che, anche
in caso di mancata osservanza pedissequa e cumulativa di
ciascuna delle singole modalità di chiusura contemplate dal
disciplinare di gara, deve ritenersi preclusa l’esclusione
di un’impresa concorrente in presenza di una modalità di
sigillatura comunque idonea a garantire l’ermetica e
inalterabile chiusura del plico…”.
Ed ancora si è stabilito che “Il principio di tassatività
delle cause di esclusione, di cui all’art. 46 D.Lgs. n. 163
del 2006, che rappresenta la specificazione dei principi di
proporzionalità e del favor partecipationis, propri delle
procedure ad evidenza pubblica, ha carattere cogente, con
conseguente illegittimità delle clausole della lex specialis
con esso contrastante".
---------------
Come specificato nella memoria della ricorrente
depositata il 22.09.2018, sussiste un interesse attuale e
concreto alla decisione del presente ricorso, in quanto il
verbale di gara del 11.09.2018, depositato dalla stessa in
atti, ha ammesso la ricorrente con riserva al prosieguo
delle operazioni di gara, in considerazione della ordinanza
cautelare di questo TAR.
Peraltro detto verbale di gara contiene rilievo di ulteriori
carenze della documentazione di gara prodotta dalla
ricorrente, per cui attiva in proposito il meccanismo del
soccorso istruttorio.
E’ appena il caso di rilevare che la presente pronuncia
afferisce unicamente alla esclusione disposta in ragione
della mancata sigillatura del plico esterno contenente la
documentazione di gara, per cui sono salvi gli ulteriori
provvedimenti che la stazione appaltante riterrà di adottare
all’esito della attivazione del meccanismo del soccorso
istruttorio in ragione di quanto rilevato all’esito
dell’esame della documentazione contenuta nella busta A-
documentazione amministrativa.
Nel merito, e nei sensi sopra chiariti, il ricorso è fondato
e merita accoglimento, ritenendo il Collegio che vada
confermato l’impianto motivazionale della ordinanza
cautelare.
Deve rilevarsi come le irregolarità sulla produzione del
plico esterno della ricorrente, ovvero le modalità di
chiusura, come risultanti dal verbale della commissione del
31.05.2018, pur non conformi a quanto richiesto dal bando
in termini di sigillatura, non sono apparse nel caso
concreto tali da escludere l’integrità e la non manomissione
del plico stesso.
A tal fine occorre procedere ad attenta ermeneutica
dell’art. 12 del disciplinare di gara a mente del quale:
“il plico contenente l’offerta, a pena di esclusione, deve
essere sigillato e trasmesso a mezzo raccomandata… si
precisa che per <<sigillatura>> deve intendersi una chiusura
ermetica recante un qualsiasi segno o impronta, apposto su
materiale plastico come striscia incollata o ceralacca o
piombo, tale da rendere chiusi il plico e le buste,
attestare l’autenticità della chiusura originaria
proveniente dal mittente, nonché garantire l’integrità e la
non manomissione del plico e delle buste”.
Siffatta disposizione, pur specificando le modalità della
sigillatura richiesta, a pena di esclusione, va letta in una
interpretazione teleologica, che pone l’accento sulla
ermeticità della chiusura, ove la apposizione di segno o
impronta su materiale plastico quale striscia incollata o
ceralacca sono indicate quali modalità esemplificative, ma
sempre finalizzate alla realizzazione dello scopo, ovvero
tale da rendere chiusi il plico e le buste in modo da: ”
…garantire l’integrità e la non manomissione del plico e
delle buste”.
Va quindi condiviso il principio, enunciato in
giurisprudenza, per cui “l’uso di un sigillo in ceralacca
non può ritenersi strumento esclusivo indispensabile per
impedirne la manomissione (apertura + richiusura) a plico
inalterato, costituendo invero l’apposizione dei timbri e la
controfirma sul lembo di chiusura –da intendersi quale
imboccatura della busta soggetta ad operazione di chiusura a
sé stante, talché è sufficiente che l’adempimento formale
imposto alle imprese concorrenti venga limitato ai lembi
della busta chiusi dall’utilizzatore, con esclusione di
quelli preincollati dal fabbricante– una modalità di
sigillatura di per sé idonea a prevenire eventuali
manomissioni”.
Soccorre al riguardo anche il principio di tassatività delle
cause di esclusione dalla gara, oggi formulato nell’art. 83,
comma 8, codice appalti, ed in precedenza esplicitato
dall'articolo 46, comma 1-bis, del codice dei contratti che,
per quanto qui interessa, nell’ipotesi di irregolare
chiusura dei plichi contenenti le offerte o le domande di
partecipazione, prevedeva che “(…) la stazione appaltante
esclude i candidati o i concorrenti (…) in caso di non
integrità del plico contenente l'offerta o la domanda di
partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura
dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze
concrete, che sia stato violato il principio di segretezza
delle offerte (…)".
Anche il giudice di appello ha avuto modo di affermare che
la clausola della lex specialis va letta alla luce del
criterio valutativo introdotto dal comma 1-bis dell'art. 46
del Codice dei contratti, in maniera non formalistica al
fine di garantire la massima partecipazione alla gara, per
cui ha ritenuto necessaria e sufficiente una modalità di
sigillatura del plico tale da impedire che il plico possa
essere aperto e manomesso senza che ne resti traccia
visibile.
Ne deriva che, anche in caso di mancata osservanza
pedissequa e cumulativa di ciascuna delle singole modalità
di chiusura contemplate dal disciplinare di gara, deve
ritenersi preclusa l'esclusione di un'impresa concorrente in
presenza di una modalità di sigillatura comunque idonea a
garantire l'ermetica e inalterabile chiusura del plico.
A tal fine, l'uso di un sigillo in ceralacca non può
ritenersi strumento esclusivo indispensabile per impedirne
la manomissione (apertura + richiusura) a plico inalterato,
costituendo invero l'apposizione dei timbri e la controfirma
sul lembo di chiusura - una modalità di sigillatura di per
sé idonea a prevenire eventuali manomissioni (Consiglio di
Stato, sez. IV, n. 319 del 21.01.2013).
Tra l’altro anche l'Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici di lavori, servizi e forniture con il parere n. 54
del 04/04/2012 era già intervenuta sull'argomento precisando
che “la previsione da parte dell'atto di indizione di un
qualsiasi procedimento di evidenza pubblica, che impone la
presentazione da parte dei concorrenti del plico e/o delle
buste sigillati, risponde alla ratio di garantire, oltre
ogni ragionevole dubbio, la genuinità e/o integrità
dell'offerta, cioè la possibilità di evitare eventuali
sostituzioni dell'offerta, che può essere assicurata
soltanto se la sigillatura sia tale da impedire che il plico
possa essere aperto, senza che ne resti traccia visibile, e
possa essere anche solo teoricamente manomesso.
La disposizione di cui all’art. 83, co. 8, codice appalti
vigente va letta pertanto in continuità ermeneutica con la
norma di cui all’art. 46, comma 1-bis, d.lgs. n. 163 del 2006
ove si esplicitava che le irregolarità relative alla
chiusura dei plichi, diverse dalla non integrità del plico
contenente l’offerta o la domanda di partecipazione, sono
causa di esclusione solo se sono tali da far ritenere,
secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il
principio di segretezza delle offerte (nel caso di specie,
non risulta che tale valutazione in concreto sia stata fatta
ma anzi risulta che la busta sia sostanzialmente integra)” (TAR Milano Sez. III,
02/04/2015, n. 880).
La disposizione precitata in realtà codifica l’orientamento
sostanzialista già invalso nella più recente giurisprudenza
amministrativa, per cui le cause di esclusione dalla gara,
in quanto limitative della libertà di concorrenza, devono
essere ritenute di stretta interpretazione, senza
possibilità di estensione analogica (cfr., C.d.S., Sez. V,
sentenza n. 2064/2013), con la conseguenza che, in caso di
equivocità delle disposizioni che regolano lo svolgimento
della gara, deve essere preferita quell’interpretazione che,
in aderenza ai criteri di proporzionalità e ragionevolezza,
eviti eccessivi formalismi e illegittime restrizioni alla
partecipazione (cfr., TAR Lombardia–Milano, Sez. IV,
sentenza n. 208/2017).
Infatti l’art. 83, co. 8, secondo e terzo periodo, del D.Lgs.
n. 50/2016 non sembra voler introdurre una disciplina
innovativa del principio di tassatività delle cause di
esclusione già enunciato dall’art. 46, co. 1-bis, del D.Lgs.
n. 163/2006, del quale costituisce la sostanziale
riproduzione (secondo quanto ritenuto anche dalle
indicazioni della commissione speciale CdS Parere 855 del
01.04.2016).
In riferimento al principio di tassatività delle cause di
esclusione, sancito dal comma 8 dell’articolo 83 del D.Lgs.
n. 50/2016, il Collegio ribadisce che la finalità di tale
principio è quella di ridurre gli oneri formali gravanti
sulle imprese partecipanti alle procedure di affidamento,
così privando di rilievo giuridico tutte le ragioni di
esclusione dalle gare incentrate non sugli aspetti
qualitativi della dichiarazione negoziale, ma sulle forme
con cui questa viene esternata, in quanto non ritenute
conformi a quelle previste dalla stazione appaltante nella
lex specialis (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 15/09/2017,
n. 4350).
Dal tenore della citata disposizione si evince che il
Legislatore ha inteso con essa evitare esclusioni per
violazioni meramente formali, costituendo “cause di
esclusione” soltanto i vizi radicali ritenuti tali da
espresse previsioni di legge, così consentendo che si possa
escludere una concorrente dalla gara pubblica, solo nel caso
in cui le irregolarità accertate riguardo alla chiusura dei
plichi e delle buste in esso contenute siano “…tali da far
ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato
violato il principio di segretezza delle offerte…”, con
conseguente previsione, nei casi che si pongono al di fuori
dell’ambito descritto dalla norma, di nullità delle clausole
dei bandi di gara che dispongono diversamente da essa.
Ove peraltro la clausola del disciplinare dovesse intendersi
tale da richiedere, a pena di esclusione, che tanto il plico
esterno che le buste interne debbano essere sigillati con
ceralacca, o nastro adesivo e controfirmati e timbrati su
tutti i lembi di chiusura, la stessa andrebbe ritenuta nulla
e da disapplicare, dovendosi intendere nel senso conforme a
legge ossia nel senso che le irregolarità considerate
possono determinare l’esclusione solo qualora le modalità di
chiusura adoperate dal concorrente siano concretamente
idonee a rendere possibile la manomissione del contenuto (cfr,
in termini TAR L’Aquila (Abruzzo), Sez. I, 05/07/2013,
n. 647).
Nella specie, pertanto, ove non è contestato che
l’irregolarità commessa dalla ricorrente (chiusura della
busta contenente la documentazione con colla anziché
mediante ceralacca o altra striscia plasticata incollata)
non abbia dato adito, in concreto, a ritenere che sia stato
violato il principio di segretezza delle offerte, atteso
che, nelle motivazioni dell’esclusione, la stessa stazione
appaltante ha rilevato che l’irregolarità accertata consiste
unicamente nella chiusura della busta della ricorrente
mediante incollaggio, deve ritenersi conseguito il
sostanziale riscontro, a contrario, in ordine all’effettiva
chiusura ed integrità della busta.
La soluzione sostanzialistica della questione espressamente
prevista dall’art. 46, comma 1-bis, del D.Lgs. n. 163 del
2006, e in linea di continuità ricavabile in via ermeneutica
in seno all’art. 83, comma 8, nuovo codice appalti, richiede
affinché possa considerarsi legittima la statuizione di
esclusione dalla gara pubblica, in presenza di irregolarità
riguardanti la chiusura dei plichi e delle buste da
presentare alla stazione appaltante, la sussistenza di
“circostanze concrete”, tali da far ritenere possibile la
manomissione dell’involucro cartaceo (quali sono, ad
esempio, segni tangibili di tale fatto abrasioni,
lacerazioni, piegature anomale della busta) il che, come
sopra rilevato, non è stato contestato.
Le considerazioni dianzi svolte risultano inoltre confermate
da autorevole giurisprudenza che si è pronunciata in un caso
similare, secondo cui: “…deve ritenersi necessaria e
sufficiente una modalità di sigillatura del plico tale da
impedire che il plico potesse essere aperto e manomesso
senza che ne restasse traccia visibile. Ne deriva che, anche
in caso di mancata osservanza pedissequa e cumulativa di
ciascuna delle singole modalità di chiusura contemplate dal
disciplinare di gara, deve ritenersi preclusa l’esclusione
di un’impresa concorrente in presenza di una modalità di
sigillatura comunque idonea a garantire l’ermetica e
inalterabile chiusura del plico…” (v. Cons. Stato sez. VI,
22/01/2013 n. 319).
Ed ancora si è stabilito che “Il
principio di tassatività delle cause di esclusione, di cui
all’art. 46 D.Lgs. n. 163 del 2006, che rappresenta la
specificazione dei principi di proporzionalità e del favor
partecipationis, propri delle procedure ad evidenza
pubblica, ha carattere cogente, con conseguente
illegittimità delle clausole della lex specialis con esso
contrastante" (Cons, St., sez. V, 24.10.2013, n. 5155; 09.09.2013, n. 4471).
La integrità della busta nella specie non è stata in alcun
modo posta in discussione in punto di fatto, atteso che la
commissione di gara, pur rilevando la mancata sigillatura
del plico in violazione del paragrafo 12 del disciplinare di
gara, ha proceduto alla apertura del plico stesso -dichiaratamente per mero errore materiale, secondo quanto
attestato nel verbale del 31.05.2018- e solo successivamente
ha rilevato il mancato rispetto della prescrizione formale
del bando.
Pertanto le circostanze del caso specifico denotano da un
lato la mancanza di segni prima facie tali da indurre a
dubitare della integrità del plico e dall’altro hanno
determinato una irreversibile apertura del plico in sede di
gara, tale da rendere impraticabile una eventuale
istruttoria in proposito, sì che non può predicarsi con
certezza una violazione dell’obbligo di segretezza di per sé
idonea a giustificare l’esclusione, e deve prevalere il
principio del favor participationis.
Sussiste inoltre la lamentata violazione dell’art. 3 legge
241/1990, con riferimento al il provvedimento prot. 4076 del
14.06.2018 di rigetto del preavviso di ricorso, in quanto
contenente una integrazione postuma della esclusione, con il
rilievo che sul plico dell’offerta fosse stato indicato il
solo nominativo della capogruppo.
Inoltre detta ulteriore motivazione, oltre ad essere
illegittima in ragione della sua natura postuma, urta
egualmente contro il principio di tassatività delle cause di
esclusione, atteso che la prescrizione circa la necessità di
indicazione dei nominativi di tutti i singoli partecipanti
associati non può comportare esclusione in caso di sua
inosservanza.
Il ricorso va conclusivamente accolto con annullamento della
gravata esclusione (TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 02.10.2018 n. 5766 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PATRIMONIO:
Sull'atto di diniego della
voltura del contratto locatizio.
“In tema di
riparto di giurisdizione nelle controversie concernenti gli
alloggi di edilizia economica e popolare, sussiste la
giurisdizione del giudice amministrativo quando si controverta dell'annullamento dell'assegnazione per vizi
incidenti sulla fase del procedimento amministrativo, fase
strumentale all'assegnazione medesima e caratterizzata
dall'assenza di diritti soggettivi in capo all'aspirante al
provvedimento, mentre sussiste la giurisdizione del giudice
ordinario quando siano in discussione cause sopravvenute di
estinzione o risoluzione del rapporto locatizio, sottratte
al discrezionale apprezzamento dell'amministrazione. Ne
consegue che spetta al giudice ordinario la controversia
promossa dal familiare dell'assegnatario, deceduto, di
alloggio di edilizia economica e popolare, al fine di far
accertare il proprio diritto a succedere nel rapporto
locatizio” atteso che in tale fase del rapporto sussistono
unicamente diritti soggettivi.
---------------
Allorquando si fa riferimento alla fase del rapporto
locatizio già insorto dunque dopo la fase pubblicistica
questo Tribunale ha sovente declinato la giurisdizione come
nel caso di decadenza dalla assegnazione, di subentro, di
rilascio e come osservato nella sentenza 26.02.2014,
n. 2248 dove è ben chiarito che “… -in base alla disciplina
di cui all'art. 33 del d.lgs. 31.03.1998 n. 80, nel
testo sostituito dall'art. 7 della legge n. 205 del 2000,
come risulta a seguito della sentenza di illegittimità
costituzionale parziale n. 204 del 2004- nella materia
dell'edilizia residenziale pubblica (pure ricompresa per la
finalità sociale che la connota in quella dei servizi
pubblici) la giurisdizione del giudice amministrativo non è
configurabile nella fase successiva al provvedimento di
assegnazione nella quale l'amministrazione opera nell'ambito
di un rapporto privatistico di locazione e non esercita
poteri autoritativi”.
Nelle sentenze più recenti è stato pure
chiarito che tale impostazione non è in contraddizione con
l’espressa attribuzione della materia dell’edilizia
residenziale pubblica alla giurisdizione del giudice
amministrativo, in virtù del sottostante rapporto concessorio ai sensi dell’art. 133 comma 1, lett. b) c.p.a.,
sol se si ponga mente alla sentenza della Corte
Costituzionale 06.07.2004, n. 204 che nel ritenere
costituzionalmente illegittimo il riparto di giurisdizione
fondato sulla attribuzione al giudice amministrativo di
interi settori di materie, anziché sulla distinzione tra le
posizioni giuridiche soggettive dell’interesse legittimo e
del diritto soggettivo, anche nella materia di servizi
pubblici rientranti nella giurisdizione esclusiva del TAR ha
ripristinato il riparto di giurisdizione tra giudice
amministrativo e giudice ordinario stabilito dalla
Costituzione sulla base della posizione giuridica soggettiva
lesa.
E’ stato anche approfondito il tema del rapporto che nasce
tra un privato che aspira ad un alloggio pubblico ed il
Comune che ne è proprietario e si è pervenuti alla
conclusione che vada ricondotto alla discussa figura
giuridica della concessione-contratto, nella cui tutela però
i poteri del giudice amministrativo sono radicati soltanto
nella prima fase della individuazione del soggetto con cui
l’Amministrazione dovrà stipulare il contratto, a fronte dei
quali nascono posizioni di interesse legittimo e che è
caratterizzata da atti amministrativi pubblici (quali il
bando recante i requisiti per l’assegnazione, la graduatoria
e l’assegnazione), laddove una volta stipulato lo stesso
sorgono posizioni di diritto soggettivo, con conseguente
incardinamento della giurisdizione del giudice ordinario in
ordine a tutte le vicende che si verificano quali il
rilascio dell’alloggio, lo sgombero, la decadenza, o come
nel caso in esame, il subentro.
---------------
1. Con ricorso notificato il 12.9.2005 e depositato l’11.10.2005,
parte ricorrente espone di avere presentato, in data
24.09.2002, istanza di voltura del contratto di locazione per
l’immobile sito nel Comune di Roma in via ... n. 86, Ed. 5,
scala 1, interno 9, di proprietà comunale, a seguito del
decesso dell’originario assegnatario, ossia il nonno, Signor
Fr. Di Fr., avvenuto in data 22.12.2001 e con lo
stesso convivente nell’immobile dal 20.02.1999.
2. L’amministrazione avrebbe adottato il provvedimento
impugnato senza un’adeguata istruttoria, sarebbe incorsa in
difetto di motivazione, e avrebbe desunto la mancanza dei
requisiti previsti per il subentro dall’art. 3, comma 1,
lett. B) della Legge Regionale del Lazio 26.06.1987 n. 33, ma
considerato che la legge individua quale requisito la
“residenza anagrafica” avrebbe erroneamente dichiarato
insussistente tale requisito in capo al ricorrente.
3. Il ricorrente afferma di essere residente fin dalla
nascita nel Comune di Roma e, con decorrenza dal 20.02.1999,
nello stesso immobile di via ... n. 86, scala 1, int. n. 9,
in relazione al quale ha presentato la richiesta di voltura.
...
7. Il ricorso, in accoglimento dell’eccezione della difesa
comunale, è da dichiarare inammissibile per difetto di
giurisdizione del Giudice amministrativo.
8. Il Tribunale si è già occupato numerose volte della
questione e specificatamente del diniego di voltura: (TAR
Lazio III-quater, 23.03.2016 n. 3592, 24.02.2016 n. 2560,
29.11.2013 n. 10232, 31.10.2013 n. 9333, 24.04.2018 n.
4480/2018).
Anche la Corte di Cassazione ha chiarito che: “In tema di
riparto di giurisdizione nelle controversie concernenti gli
alloggi di edilizia economica e popolare, sussiste la
giurisdizione del giudice amministrativo quando si controverta dell'annullamento dell'assegnazione per vizi
incidenti sulla fase del procedimento amministrativo, fase
strumentale all'assegnazione medesima e caratterizzata
dall'assenza di diritti soggettivi in capo all'aspirante al
provvedimento, mentre sussiste la giurisdizione del giudice
ordinario quando siano in discussione cause sopravvenute di
estinzione o risoluzione del rapporto locatizio, sottratte
al discrezionale apprezzamento dell'amministrazione. Ne
consegue che spetta al giudice ordinario la controversia
promossa dal familiare dell'assegnatario, deceduto, di
alloggio di edilizia economica e popolare, al fine di far
accertare il proprio diritto a succedere nel rapporto
locatizio” (Cassazione, Sezioni Unite, ord. 09.10.2013, n.
22957) atteso che in tale fase del rapporto sussistono
unicamente diritti soggettivi.
Allorquando si fa riferimento alla fase del rapporto
locatizio già insorto dunque dopo la fase pubblicistica
questo Tribunale ha sovente declinato la giurisdizione come
nel caso di decadenza dalla assegnazione, di subentro, di
rilascio e come osservato nella sentenza 26.02.2014,
n. 2248 dove è ben chiarito che “… -in base alla disciplina
di cui all'art. 33 del d.lgs. 31.03.1998 n. 80, nel
testo sostituito dall'art. 7 della legge n. 205 del 2000,
come risulta a seguito della sentenza di illegittimità
costituzionale parziale n. 204 del 2004- nella materia
dell'edilizia residenziale pubblica (pure ricompresa per la
finalità sociale che la connota in quella dei servizi
pubblici) la giurisdizione del giudice amministrativo non è
configurabile nella fase successiva al provvedimento di
assegnazione nella quale l'amministrazione opera nell'ambito
di un rapporto privatistico di locazione e non esercita
poteri autoritativi” (TAR Lazio, sez. III-quater, n.
2248/2014 ed anche del tutto analoga: TAR Lazio, sezione III-quater, 26.02.2014, n. 2265 e tutta la giurisprudenza
ivi citata: Cons. St., sez. V, 16.05.2011, n. 2949; 11.08.2010, n. 5617;
02.10.2009, n. 5140; sez. IV, 31.03.2009, n. 2001; Cass. civ., S.U.,
02.06.1997, n.
4908).
Nelle sentenze più recenti sopra citate è stato pure
chiarito che tale impostazione non è in contraddizione con
l’espressa attribuzione della materia dell’edilizia
residenziale pubblica alla giurisdizione del giudice
amministrativo, in virtù del sottostante rapporto
concessorio ai sensi dell’art. 133 comma 1, lett. b) c.p.a.,
sol se si ponga mente alla sentenza della Corte
Costituzionale 06.07.2004, n. 204 che nel ritenere
costituzionalmente illegittimo il riparto di giurisdizione
fondato sulla attribuzione al giudice amministrativo di
interi settori di materie, anziché sulla distinzione tra le
posizioni giuridiche soggettive dell’interesse legittimo e
del diritto soggettivo, anche nella materia di servizi
pubblici rientranti nella giurisdizione esclusiva del TAR ha
ripristinato il riparto di giurisdizione tra giudice
amministrativo e giudice ordinario stabilito dalla
Costituzione sulla base della posizione giuridica soggettiva
lesa.
E’ stato anche approfondito il tema del rapporto che nasce
tra un privato che aspira ad un alloggio pubblico ed il
Comune che ne è proprietario e si è pervenuti alla
conclusione che vada ricondotto alla discussa figura
giuridica della concessione-contratto, nella cui tutela però
i poteri del giudice amministrativo sono radicati soltanto
nella prima fase della individuazione del soggetto con cui
l’Amministrazione dovrà stipulare il contratto, a fronte dei
quali nascono posizioni di interesse legittimo e che è
caratterizzata da atti amministrativi pubblici (quali il
bando recante i requisiti per l’assegnazione, la graduatoria
e l’assegnazione), laddove una volta stipulato lo stesso
sorgono posizioni di diritto soggettivo, con conseguente
incardinamento della giurisdizione del giudice ordinario in
ordine a tutte le vicende che si verificano quali il
rilascio dell’alloggio, lo sgombero, la decadenza, o come
nel caso in esame, il subentro.
Nel caso in esame, si verte su un atto di diniego della
voltura, che va, dunque, a incidere sulla fase contrattuale
regolativa del rapporto intrattenuto dal dante causa del
ricorrente con l’amministrazione comunale e non piuttosto
sulla fase prodromica all’assegnazione dell’alloggio che
incardinerebbe la giurisdizione del giudice amministrativo,
atteso che in essa sono spesi poteri discrezionali
dell’Amministrazione generativi di interessi legittimi.
Pertanto, ai sensi dell’art. 11 del Codice del Processo
Amministrativo, il ricorso va dichiarato inammissibile per
difetto di giurisdizione del giudice adito e va ritenuta la
giurisdizione del giudice ordinario dinanzi al quale la
controversia andrà riassunta nel termine perentorio di tre
mesi da passaggio in giudicato della presente sentenza,
fatti salvi gli effetti processuali e sostanziali della
domanda (TAR Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza 28.09.2018 n. 9648 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Nel caso di impugnazione di strumenti
urbanistici, anche particolareggiati, o di loro varianti, il
semplice rapporto di vicinitas, se dimostra la sussistenza
di una generica legitimatio ad causam, non è però
sufficiente a fondare anche l'interesse a ricorrere,
occorrendo l'allegazione e la prova di uno specifico e
concreto pregiudizio riveniente ai suoli in proprietà degli
istanti per effetto degli atti di pianificazione impugnati,
dai quali, per definizione, quei suoli non sono incisi
direttamente.
Tale pregiudizio non può risolversi nel generico pregiudizio
all'ordinato assetto del territorio, alla salubrità
dell'ambiente e ad altri valori la cui fruizione potrebbe
essere rivendicata da qualsiasi soggetto residente, anche
non stabilmente, nella zona interessata dalla
pianificazione.
Oltre tutto, porrebbe l'ulteriore problema di individuare il
limite al di là del quale non si sia più in presenza di una
lesione specifica e differenziata, ma di un pregiudizio
assimilabile a quello che qualsiasi cittadino potrebbe
lamentare.
---------------
La giurisprudenza è costante nel ritenere che la decorrenza
del termine per l'impugnazione delle delibere di adozione e
di approvazione d'un Piano urbanistico decorra dalla
conoscenza di tali provvedimenti, che si presume avvenuta
mediante la pubblicazione di essi nelle forme di legge.
---------------
8. In primo luogo ritiene il Collegio di dovere
esaminare la rinuncia al ricorso di Ma. e Se.Gr.. L’atto di rinuncia ha ad oggetto solo il ricorso e
non espressamente anche gli atti di motivi aggiunti.
Risulta, inoltre, notificato al Comune costituito in
giudizio e alla Regione Lazio, non all’ulteriore
controinteressato evocato in giudizio in tutti gli atti
introduttivi (Ca.Fe.) né all’Ed.Fi. a
cui è stato notificato il secondo atto di motivi aggiunti.
Tale atto di rinuncia non corrisponde integralmente alle
previsioni dell’art. 84 c.p.a., in particolare del comma 3
dell’art. 84 per cui “La rinuncia deve essere notificata
alle altre parti almeno dieci giorni prima dell'udienza. Se
le parti che hanno interesse alla prosecuzione non si
oppongono, il processo si estingue”.
Deve dunque essere
considerata, ai sensi dell’art. 84, comma 4, per cui, “anche
in assenza delle formalità di cui ai commi precedenti il
giudice può desumere dall'intervento di fatti o atti univoci
dopo la proposizione del ricorso ed altresì dal
comportamento delle parti argomenti di prova della
sopravvenuta carenza d'interesse alla decisione della
causa”.
Sulla base di tale disposizione deve esser dunque dichiarata
la improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse per
i ricorrenti Ma. e Se.Gr. per il ricorso
introduttivo e per i due atti di motivi aggiunti.
9. In via preliminare, devono essere esaminate la varie
eccezioni di irricevibilità e inammissibilità proposte dalla
difesa comunale avverso il ricorso introduttivo e i due atti
di motivi aggiunti.
Si può prescindere dall’esame del concreto ed attuale
interesse dei ricorrenti alle impugnazioni, avendo gli
stessi, anche in relazione alla genericità delle censure,
sostanzialmente fatto valere nel presente giudizio il
medesimo interesse che li legittimava alla presentazione
delle osservazioni nel corso del procedimento (cfr.
Consiglio di Stato, sez. IV, 12.05.2014, n. 2403,
secondo cui nel caso di impugnazione di strumenti
urbanistici, anche particolareggiati, o di loro varianti, il
semplice rapporto di vicinitas, se dimostra la sussistenza
di una generica legitimatio ad causam, non è però
sufficiente a fondare anche l'interesse a ricorrere,
occorrendo l'allegazione e la prova di uno specifico e
concreto pregiudizio riveniente ai suoli in proprietà degli
istanti per effetto degli atti di pianificazione impugnati,
dai quali, per definizione, quei suoli non sono incisi
direttamente; tale pregiudizio -si è aggiunto- non può
risolversi nel generico pregiudizio all'ordinato assetto del
territorio, alla salubrità dell'ambiente e ad altri valori
la cui fruizione potrebbe essere rivendicata da qualsiasi
soggetto residente, anche non stabilmente, nella zona
interessata dalla pianificazione, e che, oltre tutto,
porrebbe l'ulteriore problema di individuare il limite al di
là del quale non si sia più in presenza di una lesione
specifica e differenziata, ma di un pregiudizio assimilabile
a quello che qualsiasi cittadino potrebbe lamentare).
Ciò posto, deve essere comunque dichiarata irricevibile
l’impugnazione proposta con il secondo atto di motivi
aggiunti avverso la delibera della Regione Lazio n. 436 del
2016, con cui è stato approvato il piano, ai sensi della
legge regionale n. 36 del 1987.
La delibera è stata pubblicata sul bollettino ufficiale
della Regione Lazio l’11.08.2016; il secondo atto di
motivi aggiunti è stato notificato al Comune e alla Regione
il 02.05.2017, più di otto mesi dopo la pubblicazione sul
bollettino ufficiale della Regione.
La giurisprudenza è costante nel ritenere che la decorrenza
del termine per l'impugnazione delle delibere di adozione e
di approvazione d'un Piano urbanistico decorra dalla
conoscenza di tali provvedimenti, che si presume avvenuta
mediante la pubblicazione di essi nelle forme di legge
(Consiglio di Stato, sez. IV, 15.04.2016, 10.02.2010, n. 663).
Nel caso di specie, inoltre, risulta agli atti del giudizio
anche la prova effettiva della conoscenza di tale delibera;
infatti, la stessa parte ricorrente ha depositato in
giudizio la nota del 07.11.2016 (documento n. 35),
indirizzata al Comune, in cui il difensore sollecita il recepimento delle prescrizioni regionali richiamando
espressamente la delibera n. 436 del 2016.
Ne deriva la tardività della impugnazione del piano
approvato dalla Regione Lazio (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 28.09.2018 n. 9643 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La deliberazione di controdeduzione alle
osservazioni presentate, per costante giurisprudenza, non è un atto
autonomamente impugnabile, trattandosi di un atto endoprocedimentale relativo alla fase delle osservazioni
all’interno del procedimento di adozione ed approvazione del
piano.
La fase delle controdeduzioni del Comune alle
osservazioni dei privati è meramente interna al procedimento
di adozione dello strumento urbanistico e priva di effetti
immediati, con la conseguenza che l'impugnativa degli atti
di questa fase risulta inammissibile, dovendo eventuali
doglianze essere fatte valere solo nei confronti della
delibera di approvazione del piano urbanistico generale.
Nel
sistema della legislazione urbanistica statale ed in quello
regionale i soli atti del procedimento di formazione del PRG
dotati di rilevanza esterna, e come tali autonomamente
impugnabili, sono la deliberazione comunale di adozione ed
il provvedimento regionale di approvazione e non, invece,
l'atto con cui il Comune controdeduce alle osservazioni,
trattandosi di atto privo di contenuto provvedimentale, che
assolve ad una mera funzione endoprocedimentale, ad un tempo
consultiva e propositiva nei confronti della Regione, cui
compete la pronunzia definitiva sulle osservazioni in sede
di approvazione del piano e ciò anche quando nuove
determinazioni siano state assunte in tale fase, quale
risultato dell'esame delle osservazioni presentate, essendo
le stesse idonee ad acquisire contenuto precettivo solo
all'esito della loro assunzione nel piano definitivamente
approvato dalla Regione.
Ne consegue che l'impugnazione
della delibera di reiezione delle osservazioni ad una
variante del PRG è inammissibile, potendo le relative
doglianze essere fatte valere solo nei confronti della
delibera di approvazione del piano stesso.
---------------
10. Deve essere dichiarata inammissibile l’impugnazione
proposta con il primo atto di motivi aggiunti e riproposta
con nuove censure nel secondo atto di motivi aggiunti della
delibera n. 7 del 17.03.2014 con cui il Consiglio
comunale ha approvato le controdeduzioni alle osservazioni.
Tale delibera, per costante giurisprudenza, non è un atto
autonomamente impugnabile, trattandosi di un atto
endoprocedimentale relativo alla fase delle osservazioni
all’interno del procedimento di adozione ed approvazione del
piano. La fase delle controdeduzioni del Comune alle
osservazioni dei privati è meramente interna al procedimento
di adozione dello strumento urbanistico e priva di effetti
immediati, con la conseguenza che l'impugnativa degli atti
di questa fase risulta inammissibile, dovendo eventuali
doglianze essere fatte valere solo nei confronti della
delibera di approvazione del piano urbanistico generale.
Nel
sistema della legislazione urbanistica statale ed in quello
regionale i soli atti del procedimento di formazione del PRG
dotati di rilevanza esterna, e come tali autonomamente
impugnabili, sono la deliberazione comunale di adozione ed
il provvedimento regionale di approvazione e non, invece,
l'atto con cui il Comune controdeduce alle osservazioni,
trattandosi di atto privo di contenuto provvedimentale, che
assolve ad una mera funzione endoprocedimentale, ad un tempo
consultiva e propositiva nei confronti della Regione, cui
compete la pronunzia definitiva sulle osservazioni in sede
di approvazione del piano e ciò anche quando nuove
determinazioni siano state assunte in tale fase, quale
risultato dell'esame delle osservazioni presentate, essendo
le stesse idonee ad acquisire contenuto precettivo solo
all'esito della loro assunzione nel piano definitivamente
approvato dalla Regione.
Ne consegue che l'impugnazione
della delibera di reiezione delle osservazioni ad una
variante del PRG -come nel caso di specie- è
inammissibile, potendo le relative doglianze essere fatte
valere solo nei confronti della delibera di approvazione del
piano stesso (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 21.08.2009, n. 5002; di recente TAR Campania-Napoli,
05.07.2016, n. 3321; TAR Lazio-Latina, 21.11.2016 n.
736, con particolare riferimento alla legge regionale n. 36
del 1987).
Le censure proposte avverso la reiezione e l’accoglimento
delle osservazioni avrebbero dovuto eventualmente essere
proposte al momento della tempestiva impugnazione della
delibera di approvazione, mentre la delibera regionale è
stata impugnata tardivamente (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 28.09.2018 n. 9643 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
La presenza di un controinteressato all'interno
del procedimento amministrativo impone l'onere di notifica
del ricorso a pena di inammissibilità, ai sensi del citato
art. 41, comma 2, c.p.a., trattandosi di un onere minimo
imprescindibile per la stessa costituzione del rapporto
processuale.
---------------
11. Nel secondo atto di motivi aggiunti vengono, poi,
impugnati quali atti conseguenziali anche la delibera del
Consiglio comunale n. 34 del 28.07.2015, che ha dato
seguito al procedimento di approvazione del piano a seguito
delle valutazioni emerse nel corso della VAS, con la
redazione del rapporto ambientale e la conclusione della
procedura di VAS; la delibera di giunta comunale del 13.12.2016 di approvazione dello schema di convenzione
per il permesso di costruire convenzionato alla società MD.
Tali gravami, a prescindere dall’esame della tardività degli
stessi per la conoscenza da parte dei ricorrenti prima del 02.03.2017 (sessanta giorni prima della notifica del
gravame), sono comunque inammissibili.
La delibera del consiglio comunale n. 34 del 28.07.2015
è infatti atto meramente interno al procedimento di
approvazione del piano attuativo, avendo il Comune con tale
atto deliberato di adeguarsi a quanto emerso nel corso del
procedimento di VAS, di predisporre il rapporto ambientale e
di concludere il procedimento VAS richiesto dalla Regione
Lazio per l’approvazione del piano.
L’impugnazione della delibera della giunta comunale del 13.12.2016 è inammissibile, non essendo stato notificato
tale atto alla società richiedente il permesso di costruire, controinteressato direttamente individuato dal provvedimento
impugnato. La presenza di un controinteressato all'interno
del procedimento amministrativo impone l'onere di notifica
del ricorso a pena di inammissibilità, ai sensi del citato
art. 41, comma 2, c.p.a., trattandosi di un onere minimo
imprescindibile per la stessa costituzione del rapporto
processuale (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 27.01.2015, n. 360; 11.02.2016, n. 594, Tar Lazio, II-ter 17.10.2016,
n. 10346) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 28.09.2018 n. 9643 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
In via generale,
l'omessa impugnazione della deliberazione approvativa della
variante di un piano regolatore generale non determina l'improcedibilità
del ricorso proposto contro la delibera comunale di
adozione, in quanto l'eventuale annullamento di quest'ultima
esplica effetti automaticamente caducanti, e non meramente
vizianti, sul successivo provvedimento di approvazione
“nella parte in cui lo stesso ha confermato le previsioni
già contenute nel piano adottato e fatto oggetto di
impugnativa”.
L'omessa impugnazione della deliberazione approvativa
della variante di un piano regolatore generale non determina
l'improcedibilità del ricorso proposto contro la delibera
comunale di adozione, in quanto l'eventuale annullamento di
quest'ultima esplica effetti automaticamente caducanti, e
non meramente vizianti, sul successivo provvedimento di
approvazione. Ciò però, soltanto nella parte in cui lo
stesso ha confermato le previsioni già contenute nel piano
adottato e fatto oggetto di impugnativa.
Ove dette
previsioni fossero state modificate, è evidente che detto
effetto caducante non può verificarsi. Il principio ha una
portata più generale, e si estende ad ogni fattispecie in
cui, nel corso di un procedimento giurisdizionale già
avviato, sopravvenga una nuova statuizione amministrativa.
Ove quest'ultima in nulla abbia modificato/innovato con
riferimento alla fattispecie controversa, sarebbe inutile e
senza ragione onerare il ricorrente della impugnazione
dell’atto sopravvenuto, che in nulla immuta la res
controversa: e di converso la sentenza intervenuta è idonea
a produrre effetti anche in pregiudizio della nuova
statuizione amministrativa, in parte qua rimasta immutata.
A specularmente diverse conclusioni, deve giungersi allorché,
invece, l'atto sopravvenuto muti il preesistente regime
giuridico che aveva dato atto al contenzioso: il mezzo
originario dovrebbe essere dichiarato improcedibile, in
ipotesi di omessa tempestiva impugnazione di quello
superveniens che ha determinato un assetto di interessi
diverso, ed in ogni caso la sentenza pronunciata in
relazione all'atto pregresso, superato da quello successivo
non potrebbe spiegare effetti nei confronti di quest'ultimo.
La improcedibilità insomma, non discende dal miglioramento
della situazione dell'originario ricorrente (miglioramento
che potrebbe anche mancare) ma dalla rivalutazione della
situazione.
---------------
Quanto al ricorso introduttivo avverso la delibera comunale
di adozione del piano e alle censure successivamente
proposte avverso tale delibera di adozione negli atti di
motivi aggiunti (queste ultime anche tardive essendo stata
pubblicata la delibera all’albo pretorio fino al 31.07.2013, mentre i motivi aggiunti sono stati inviati alla
notifica il 03.06.2014), ritiene il Collegio che si possa
prescindere dall’esame della eccezione relativa
all’ammissibilità di tale immediata impugnazione (per
costante giurisprudenza i piani urbanistici adottati e non
approvati sono impugnabili nella misura in cui siano
suscettibili di immediata applicazione e immediatamente
lesivi della posizione dei ricorrenti, circostanze che non
ricorrono nella specie anche in relazione alla genericità
delle censure proposte nel ricorso introduttivo), in quanto
la mancata tempestiva impugnazione della delibera regionale
che ha approvato il piano con specifiche “prescrizioni
condizioni e raccomandazioni” nonché la modifica dello
stesso piano adottato nel corso del procedimento di
approvazione rendono improcedibile il ricorso introduttivo e
la censura proposta avverso la delibera di adozione nel
primo atto di motivi aggiunti, irricevibile quella formulata
nel secondo atto di motivi aggiunti.
Deve infatti, essere richiamato il costante orientamento
giurisprudenziale, per cui, in via generale,
l'omessa impugnazione della deliberazione approvativa della
variante di un piano regolatore generale non determina l'improcedibilità
del ricorso proposto contro la delibera comunale di
adozione, in quanto l'eventuale annullamento di quest'ultima
esplica effetti automaticamente caducanti, e non meramente
vizianti, sul successivo provvedimento di approvazione
“nella parte in cui lo stesso ha confermato le previsioni
già contenute nel piano adottato e fatto oggetto di
impugnativa” (Consiglio di Stato sez. IV, 14.07.2014 n.
3654; Consiglio di Stato, sez. IV, 15.02.2013, n.
921).
L'omessa impugnazione della deliberazione approvativa
della variante di un piano regolatore generale non determina
l'improcedibilità del ricorso proposto contro la delibera
comunale di adozione, in quanto l'eventuale annullamento di
quest'ultima esplica effetti automaticamente caducanti, e
non meramente vizianti, sul successivo provvedimento di
approvazione. Ciò però, soltanto nella parte in cui lo
stesso ha confermato le previsioni già contenute nel piano
adottato e fatto oggetto di impugnativa.
Ove dette
previsioni fossero state modificate, è evidente che detto
effetto caducante non può verificarsi. Il principio ha una
portata più generale, e si estende ad ogni fattispecie in
cui, nel corso di un procedimento giurisdizionale già
avviato, sopravvenga una nuova statuizione amministrativa.
Ove quest'ultima in nulla abbia modificato/innovato con
riferimento alla fattispecie controversa, sarebbe inutile e
senza ragione onerare il ricorrente della impugnazione
dell’atto sopravvenuto, che in nulla immuta la res
controversa: e di converso la sentenza intervenuta è idonea
a produrre effetti anche in pregiudizio della nuova
statuizione amministrativa, in parte qua rimasta immutata.
A specularmente diverse conclusioni, deve giungersi allorché,
invece, l'atto sopravvenuto muti il preesistente regime
giuridico che aveva dato atto al contenzioso: il mezzo
originario dovrebbe essere dichiarato improcedibile, in
ipotesi di omessa tempestiva impugnazione di quello
superveniens che ha determinato un assetto di interessi
diverso, ed in ogni caso la sentenza pronunciata in
relazione all'atto pregresso, superato da quello successivo
non potrebbe spiegare effetti nei confronti di quest'ultimo.
La improcedibilità insomma, non discende dal miglioramento
della situazione dell'originario ricorrente (miglioramento
che potrebbe anche mancare) ma dalla rivalutazione della
situazione (Consiglio di Stato, sez. IV, 14.05.2014, n.
2499).
Nel caso di specie, il piano è stato modificato nel corso
dell’approvazione, in particolare nel corso del procedimento
di VAS, come risulta già dalla determina del 28.04.2014
con cui la direzione infrastrutture e ambiente della Regione
Lazio ha richiesto che il piano fosse soggetto alla
Valutazione ambientale strategica, in relazione alla
risultanze dell’istruttoria, che aveva rilevato alcune
criticità (carico urbanistico rispetto alle componenti
risorse idriche, aria, rifiuti; tutela dei beni
paesaggistici), anche sui punti indicati dai ricorrenti
nelle osservazioni presentate a seguito dell’adozione e (pur
genericamente) nel ricorso introduttivo.
Il Comune, come risulta dagli stessi documenti depositati in
giudizio dalla difesa ricorrente, ha modificato gli
elaborati del piano, secondo le indicazioni fornite dalla
Regione in sede di VAS. La VAS si è, infatti, conclusa il 01.04.2016 con un parere condizionato. Il Comune, con la
delibera del consiglio comunale n. 63 del 21.04.2016
(depositata in giudizio dalla stessa difesa ricorrente), ha
preso atto dei nuovi elaborati considerandoli congruenti con
il recepimento delle condizioni espresse nel parere motivato
VAS e ha trasmesso alla Regione i nuovi elaborati per
l’approvazione.
La delibera regionale ha approvato il piano
“con raccomandazioni, prescrizioni e condizioni”, riportando
integralmente anche le condizioni del parere della VAS
nonché le prescrizioni del parere della Direzione
territorio, urbanistica, mobilità e rifiuti della Regione
del 20.07.2016, con modifiche delle NTA (risultanti
dall’articolato allegato al parere della direzione regionale
territorio, urbanistica e mobilità del 20.07.2016
richiamato nella delibera di approvazione).
Anzi la stessa difesa ricorrente nella già citata nota del 07.11.2016 inviata al Comune (depositata in giudizio) fa
riferimento al recepimento delle prescrizioni della
Direzione regionale territorio, urbanistica, mobilità e
rifiuti con la revisione degli elaborati grafici da parte
del Comune e alla circostanza che le raccomandazioni e
prescrizioni della Regione Lazio, parte integrante della
delibera n. 436 del 2016, “di fatto coincidono proprio con i
rilievi mossi al piano dai cittadini che lo hanno impugnato
dinanzi al Tar Lazio”.
Ne deriva che la delibera di adozione impugnata con il
ricorso introduttivo, nel caso di specie, è stata superata
dalla successiva attività procedimentale svolta sia dal
Comune che dagli uffici regionali, con conseguente
sopravvenuta carenza di interesse alla impugnazione, non
essendo stata tempestivamente impugnata la delibera di
approvazione del piano da parte della Regione Lazio.
Né, anche a prescindere dalla tardività della impugnazione
della delibera regionale, sono state comunque formulate
specifiche censure nei confronti del procedimento di
approvazione regionale o delle prescrizioni contenute nella
delibera di approvazione (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 28.09.2018 n. 9643 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo una consolidata giurisprudenza il
proprietario confinante, nella cui sfera giuridica incida
dannosamente il mancato esercizio dei poteri repressivi
degli abusi edilizi da parte dell'organo preposto, è
titolare di un interesse legittimo all'esercizio di detti
poteri e può quindi ricorrere avverso l'inerzia dell'organo
preposto alla repressione di tali abusi edilizi.
Quindi, a fronte della persistenza in capo
all'ente preposto alla vigilanza sul territorio del generale
potere repressivo degli abusi edilizi, il vicino che -in
ragione dello stabile collegamento con il territorio oggetto
dell'intervento- gode di una posizione differenziata, ben
può chiedere al Comune di porre in essere i provvedimenti sanzionatori previsti dall'ordinamento, facendo ricorso, in
caso di inerzia, alla procedura del silenzio-inadempimento.
Da ciò deriva che il Comune è tenuto, in ogni caso, a
rispondere alla domanda con la quale i proprietari di
terreni limitrofi a quello interessato da un abuso edilizio
chiedono ad esso di adottare atti di accertamento delle
violazioni ed i conseguenti provvedimenti repressivi e, ove
sussistano le condizioni, anche ad adottare gli stessi.
Alla luce delle argomentazioni che precedono deve, dunque,
essere riconosciuta l'illegittimità del silenzio serbato dal
Comune sulla diffida inoltrata dal
ricorrente, atteso l’obbligo dell’ente locale di concludere
il procedimento, in considerazione delle numerose pronunce
giurisprudenziali che attribuiscono al proprietario
confinante la legittimazione a sollecitare l’adozione di
provvedimenti sanzionatori relativi ad opere abusive
realizzate nella vicinanza della sua proprietà.
---------------
Il ricorso è in parte improcedibile e in parte fondato.
Stante quanto dichiarato dallo stesso ricorrente non vi è
più interesse al ricorso con riferimento dalla domanda di
accesso; per la restante parte il ricorso è fondato.
Il ricorrente ha inoltrato al Comune di Casalnuovo di Napoli
un atto di diffida con il quale ha chiesto l’adozione degli
opportuni provvedimenti sanzionatori nei confronti dei
controinteressati.
In tale diffida il ricorrente ha rilevato che i suddetti,
rispettivamente proprietario dell’immobile e occupante una
porzione dello stesso ove viene svolta attività commerciale
analoga alla sua, avrebbero illegittimamente realizzato un
soppalco in cemento armato abitabile.
In particolare, tale
opera non potrebbe trovare legittimazione nei grafici
allegati alla SCIA n. 123 del 02.082012; a tale riguardo
anche la DIA del 2001 (nella quale si riferisce di un
soppalco per allocare impianti tecnologici e, dunque, non
abitabile) non costituirebbe un titolo idoneo dal momento
che farebbe a sua volta riferimento a dei permessi di
costruire (le autorizzazioni n. 20 del 13.07.2001 e n.
41 dell’11.10.2001) andati smarriti (cfr. denuncia di
smarrimento depositata in data 26.07.2018 dal Comune di Casalnuovo di Napoli).
Il Comune nelle proprie difese sostiene che non vi sarebbe
alcun obbligo di provvedere sulla diffida del 15.12.2017 in quanto in data 14.09.2015 l’amministrazione
avrebbe effettuato tutti i necessari accertamenti.
Osserva di contro il Collegio che, da un lato, alla diffida
del 15.12.2017 (successiva all’accertamento degli
organi tecnici) il Comune non ha dato alcun riscontro,
dall’altro lato, al verbale di accertamento del 14.09.2015 non è seguito alcun provvedimento. Come, peraltro,
evidenziato dal ricorrente la legittimità edilizia del
soppalco in cemento armato abitabile non emerge dagli atti
di causa visto che i permessi di costruire del 2001 sono
andati smarriti e sia nella DIA del 2001 sia nella SCIA del
2012 si fa riferimento a un soppalco per allocare impianti
tecnologici e non di un soppalco abitabile con un soffitto
di circa 3 metri.
Deve aggiungersi che, secondo una consolidata giurisprudenza
il proprietario confinante, nella cui sfera giuridica incida
dannosamente il mancato esercizio dei poteri repressivi
degli abusi edilizi da parte dell'organo preposto, è
titolare di un interesse legittimo all'esercizio di detti
poteri e può quindi ricorrere avverso l'inerzia dell'organo
preposto alla repressione di tali abusi edilizi (ex multis
TAR Brescia, sez. I, n. 1205 del 27.07.2011; Cons. St.,
Sez. IV, 05.01.2011, n. 18; TAR Lazio, Roma, sez. II, n.
6260 del 26.06.2009; Cons. St. Sez. IV, 19.10.2007
n. 5466).
Quindi, a fronte della persistenza in capo
all'ente preposto alla vigilanza sul territorio del generale
potere repressivo degli abusi edilizi, il vicino che -in
ragione dello stabile collegamento con il territorio oggetto
dell'intervento- gode di una posizione differenziata, ben
può chiedere al Comune di porre in essere i provvedimenti sanzionatori previsti dall'ordinamento, facendo ricorso, in
caso di inerzia, alla procedura del silenzio-inadempimento. Da ciò deriva che il Comune è tenuto, in ogni
caso, a rispondere alla domanda con la quale i proprietari
di terreni limitrofi a quello interessato da un abuso
edilizio chiedono ad esso di adottare atti di accertamento
delle violazioni ed i conseguenti provvedimenti repressivi
e, ove sussistano le condizioni, anche ad adottare gli
stessi (TAR Lazio Latina, 24.10.2003, n. 876).
Alla luce delle argomentazioni che precedono deve, dunque,
essere riconosciuta l'illegittimità del silenzio serbato dal
Comune di Casalnuovo di Napoli sulla diffida inoltrata dal
ricorrente, atteso l’obbligo dell’ente locale di concludere
il procedimento, in considerazione delle numerose pronunce
giurisprudenziali che attribuiscono al proprietario
confinante la legittimazione a sollecitare l’adozione di
provvedimenti sanzionatori relativi ad opere abusive
realizzate nella vicinanza della sua proprietà (ex multis
TAR Campania, sez. VIII, 24.04.2009, n. 2166).
Il Collegio ritiene di non dover esercitare la facoltà di
pronunciarsi sulla fondatezza nel merito dell'istanza la
quale richiede l’effettuazione di accertamenti tecnici da
parte del Comune.
L’amministrazione comunale dovrà pertanto concludere il
procedimento con l’adozione di un provvedimento espresso nel
termine di sessanta giorni dalla notifica o dalla
comunicazione in via amministrativa della presente sentenza.
Nel caso di inadempienza si nomina sin da ora, quale
commissario ad acta, il Prefetto di Napoli od un funzionario
del suo Ufficio all’uopo da lui delegato, che si attiverà su
specifica richiesta del ricorrente.
Il commissario, prima del suo insediamento, accerterà se
nelle more è stato adottato il provvedimento finale e, in
caso di perdurante inadempimento, lo adotterà in
sostituzione; le spese relative all’eventuale compenso del
commissario, da liquidarsi con separato decreto, devono
essere poste a carico del Comune (TAR Campania-Napoli, Sez.
VI,
sentenza 28.09.2018 n. 5666 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La condizione di estraneità alla commissione
dell'illecito, riguardata in termini di buona fede
soggettiva, può assumere rilievo unicamente ai fini
dell'acquisizione gratuita al patrimonio comunale, che non è
stata però disposta con il provvedimento impugnato con il
ricorso introduttivo.
Invero, si afferma in giurisprudenza
che "ai sensi dell'art. 31, commi 2 e 3, D.P.R. n. 380 del
2001, l'ordine di demolizione va ingiunto al proprietario e
al responsabile dell'abuso, sicché il proprietario è
passivamente legittimato rispetto al provvedimento di
demolizione, essendo tenuto alla sua esecuzione
indipendentemente dall'aver materialmente concorso alla
perpetrazione dell'illecito. Ne consegue che l'estraneità
del proprietario agli abusi edilizi commessi sul bene da un
soggetto che ne abbia la piena ed esclusiva disponibilità
non implica l'illegittimità dell'ordinanza di demolizione o
di riduzione in pristino dello stato dei luoghi, emessa nei
suoi confronti, ma solo l'inidoneità –al ricorrere di
specifici presupposti– del provvedimento repressivo a
costituire titolo per l'acquisizione gratuita al patrimonio
comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene".
---------------
Poiché l’adozione dell’ingiunzione di demolizione non può
ascriversi al genus dell’autotutela decisoria, si deve
escludere che l’ordinanza di demolizione di opere abusive
debba essere motivata con riferimento alla sussistenza di un
interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della
legalità violata.
Ciò in quanto giammai il decorso del tempo può incidere
sull’ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire
l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione.
Allo stesso modo, il decorso del tempo non può radicare, di
per sé considerato, un affidamento di carattere “legittimo”
in capo ai proprietari dell’abuso.
Ed invero, la tutela del legittimo affidamento -qualificato
come ‘principio fondamentale’ dell'Unione Europea dalla
stessa Corte di Giustizia UE– è quello ingenerato nel
privato da provvedimenti amministrativi, ed è correlato
all'interesse pubblico alla certezza dei rapporti giuridici
costituiti dall'atto amministrativo, nonché più in generale
alla stabilità dei provvedimenti amministrativi, ipotesi,
questa, che –all’evidenza- non ricorre nella fattispecie in
esame, in cui non sussiste alcun provvedimento favorevole
sulla cui base siano state realizzate le opere in questione,
che risultano, quindi, essere prive dei prescritti titoli.
Ne consegue che nessun onere di motivazione rafforzata in
ordine alla sussistenza di un interesse pubblico e attuale
alla demolizione delle opere grava sull’amministrazione
procedente.
---------------
Con riguardo alla dedotta mancata indicazione dell’area
oggetto di acquisizione gratuita al patrimonio comunale in
ipotesi di inottemperanza, il Collegio rileva che l’omessa o
imprecisa indicazione non costituisce motivo di
illegittimità dell’ordinanza di demolizione, atteso che, con
il contenuto dispositivo di quest’ultima si commina la
sanzione della demolizione del manufatto abusivo, mentre
l’indicazione dell’area rappresenta piuttosto un presupposto
accertativo ai fini della distinta misura sanzionatoria
dell’acquisizione.
---------------
Come affermato dall’univoca giurisprudenza (il che esime da
citazioni specifiche), la funzione dell’ingiunzione a
demolire è quella di provocare il tempestivo abbattimento
del manufatto abusivo, rendendo noto ai destinatari che il
mancato adeguamento spontaneo determina sanzioni più onerose
della semplice demolizione.
A tale scopo è quindi sufficiente che l’atto indichi il tipo
di sanzione che la legge collega all’abuso senza
puntualizzare le aree eventualmente destinate a passare nel
patrimonio comunale (che ben potranno, in termini sintetici
e conclusivi, essere esattamente definite al momento della
effettiva operatività del procedimento acquisitivo).
---------------
3.1. Doverosamente e legittimamente l’amministrazione
comunale ha proceduto all’adozione del provvedimento di
irrogazione della sanzione demolitoria, individuando quale
soggetto legittimato passivo anche la proprietaria attuale
del bene.
3.2. Contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa di parte
ricorrente, infatti, la condizione di estraneità alla
commissione dell'illecito, riguardata in termini di buona
fede soggettiva, può assumere rilievo unicamente ai fini
dell'acquisizione gratuita al patrimonio comunale (v. TAR
Bari Puglia sez. III, 10.05.2013, n. 710) che non è
stata però disposta con il provvedimento impugnato con il
ricorso introduttivo.
Invero, si afferma in giurisprudenza
che "ai sensi dell'art. 31, commi 2 e 3, D.P.R. n. 380 del
2001, l'ordine di demolizione va ingiunto al proprietario e
al responsabile dell'abuso, sicché il proprietario è
passivamente legittimato rispetto al provvedimento di
demolizione, essendo tenuto alla sua esecuzione
indipendentemente dall'aver materialmente concorso alla
perpetrazione dell'illecito. Ne consegue che l'estraneità
del proprietario agli abusi edilizi commessi sul bene da un
soggetto che ne abbia la piena ed esclusiva disponibilità
non implica l'illegittimità dell'ordinanza di demolizione o
di riduzione in pristino dello stato dei luoghi, emessa nei
suoi confronti, ma solo l'inidoneità –al ricorrere di
specifici presupposti– del provvedimento repressivo a
costituire titolo per l'acquisizione gratuita al patrimonio
comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene" (cfr.
TAR Napoli Campania sez. VIII, 26.04.2013, n. 2180).
4. Non meritano accoglimento neanche le deduzioni dirette a
contestare la carenza di un adeguato substrato motivazionale
del provvedimento impugnato, avendo l’amministrazione
indicato puntualmente i presupposti alla base della
irrogazione della sanzione demolitoria, costituiti dall’abusività
delle opere, adeguatamente descritte, in quanto edificate in
assenza del permesso di costruire.
4.1. Come chiarito, inoltre, dalla giurisprudenza (con
orientamento che ha ottenuto l’autorevole avallo
dall’Adunanza Plenaria con la sentenza n. 8 del 2017),
poiché l’adozione dell’ingiunzione di demolizione non può
ascriversi al genus dell’autotutela decisoria, si deve
escludere che l’ordinanza di demolizione di opere abusive
debba essere motivata con riferimento alla sussistenza di un
interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della
legalità violata.
Ciò in quanto giammai il decorso del tempo
può incidere sull’ineludibile doverosità degli atti volti a
perseguire l’illecito attraverso l’adozione della relativa
sanzione. Allo stesso modo, il decorso del tempo non può
radicare, di per sé considerato, un affidamento di carattere
“legittimo” in capo ai proprietari dell’abuso.
4.2. Ed invero, la tutela del legittimo affidamento -qualificato come ‘principio fondamentale’ dell'Unione
Europea dalla stessa Corte di Giustizia UE– è quello
ingenerato nel privato da provvedimenti amministrativi, ed è
correlato all'interesse pubblico alla certezza dei rapporti
giuridici costituiti dall'atto amministrativo, nonché più in
generale alla stabilità dei provvedimenti amministrativi,
ipotesi, questa, che –all’evidenza- non ricorre nella
fattispecie in esame, in cui non sussiste alcun
provvedimento favorevole sulla cui base siano state
realizzate le opere in questione, che risultano, quindi,
essere prive dei prescritti titoli (cfr. TAR Lazio, Roma,
sez. II-bis, n. 6520 del 2018).
4.3. Ne consegue che nessun onere di motivazione rafforzata
in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico e
attuale alla demolizione delle opere grava
sull’amministrazione procedente, fermo restando che, nella
fattispecie, la descrizione delle opere contestate ed i
giustificativi alla base dell’irrogazione della sanzione
demolitoria emergono puntualmente ed inequivocabilmente dal
provvedimento impugnato.
5. Infine, con riguardo alla dedotta mancata indicazione
dell’area oggetto di acquisizione gratuita al patrimonio
comunale in ipotesi di inottemperanza, il Collegio rileva
che l’omessa o imprecisa indicazione non costituisce motivo
di illegittimità dell’ordinanza di demolizione, atteso che,
con il contenuto dispositivo di quest’ultima si commina la
sanzione della demolizione del manufatto abusivo, mentre
l’indicazione dell’area rappresenta piuttosto un presupposto
accertativo ai fini della distinta misura sanzionatoria
dell’acquisizione (cfr. Cons. Stato, VI, 05.01.2015, n. 13).
5.1. Inoltre, come affermato dall’univoca giurisprudenza (il
che esime da citazioni specifiche), la funzione
dell’ingiunzione a demolire è quella di provocare il
tempestivo abbattimento del manufatto abusivo, rendendo noto
ai destinatari che il mancato adeguamento spontaneo
determina sanzioni più onerose della semplice demolizione. A
tale scopo è quindi sufficiente che l’atto indichi il tipo
di sanzione che la legge collega all’abuso senza
puntualizzare le aree eventualmente destinate a passare nel
patrimonio comunale (che ben potranno, in termini sintetici
e conclusivi, essere esattamente definite al momento della
effettiva operatività del procedimento acquisitivo).
6. Per tutte le suesposte considerazioni il ricorso deve
essere respinto (TAR Campania-Napli, Sez. II,
sentenza 28.09.2018 n. 5661 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Idoneità della pubblicazione telematica di un atto a far
decorrere il termine decadenziale di impugnazione.
---------------
Processo amministrativo – Termine per l’impugnazione –
Pubblicazione telematica dell’atto – Decorrenza del termine
decadenziale di impugnazione – Condizione.
La pubblicazione telematica di un
atto solo quando sia prevista e prescritta da specifiche
determinazioni normative costituisce una forma di pubblicità
in grado di integrare di per sé gli estremi della conoscenza
erga omnes dell’atto pubblicato e di far decorrere il
termine decadenziale di impugnazione (1).
---------------
(1) Con riguardo al tema dell’integrazione di una efficace
pubblicità dichiarativa valida ai fini della valutazione di
piena conoscenza di un atto, come conseguenza della sua
pubblicazione sul sito web dell’amministrazione, ha chiarito
la Sezione che l’effetto conoscitivo opponibile erga
omnes deve poggiare su una specifica disciplina di legge
– sicché la pubblicazione sul sito istituzionale on line
dell’ente che adotta l’atto, in mancanza di una disposizione
normativa che attribuisca valore ufficiale a tale forma di
ostensione, non può fondare alcuna presunzione legale di
conoscenza.
In questo senso viene inteso il disposto dell’art. 32, l. n.
69 del 2009 (Cons.
St., sez. V, 08.05.2018, n. 2757 e
27.08.2014, n. 4384) e del tutto conforme è la
previsione generale contenuta all’articolo 54, comma 4-bis,
del Codice dell’amministrazione digitale n. 82 del 2005
secondo cui “la pubblicazione telematica produce effetti
di pubblicità legale nei casi e nei modi espressamente
previsti dall’ordinamento”.
Ha aggiunto la Sezione che i concetti di esecutività e
conoscenza legale dell’atto amministrativo non sono
coincidenti e automaticamente sovrapponibili (Cons.
St., sez. V, 17.11.2009, n. 7151) – il che induce
a ritenere che la pubblicità funzionale all’acquisizione di
esecutività dell’atto non debba necessariamente assolvere
anche alla funzione di rendere opponibili ai terzi, ai fini
della decorrenza del termine per impugnare, i fatti per i
quali cui essa è prevista.
Le norme in tema di pubblicazione telematica degli atti
devono essere applicate con particolare cautela e, quindi,
sottostare ad un canone di interpretazione restrittiva, in
particolare modo nel momento in cui si tratta di determinare
(in via interpretativa) gli effetti di conoscenza legale
associabili o meno a siffatta tipologia di esternazione
comunicativa.
A favore di una regola di cautela depongono plurime
considerazioni, riconducibili, essenzialmente:
a) alla mancanza di una disposizione di carattere generale in grado
di equiparare, nella loro efficacia giuridica, tutte le
variegate forme di pubblicità degli atti;
b) alla esigenza di garantire, con regole chiare e uniformi,
standard tecnici di adeguata e omogenea visibilità dei dati
pubblicizzati sui siti telematici, nei diversi settori e
ambiti operativi dell’azione pubblica;
c) alla constatazione di una diversa propensione al mezzo
telematico che si riscontra nei differenti ambiti del
diritto pubblico, anche in ragione dell’eterogeneo grado di
specializzazione professionale dei soggetti che vi operano e
agiscono;
d) alla notevole rilevanza degli interessi implicati nella materia
in esame, in particolar modo per quanto concerne l’incidenza
che la conoscenza legale dell’atto assume ai fini della
decorrenza del termine utile per l’impugnazione degli atti
soggetti a pubblicità;
e) alla conseguenza necessità di privilegiare, in presenza di dubbi
esegetici aventi effetti sul regime decadenziale dall’azione
impugnatoria, l’opzione meno sfavorevole per l’esercizio del
diritto di difesa e, quindi, maggiormente conforme ai
principi costituzionali espressi dagli artt. 24, 111 e 113
Cost., nonché al principio di effettività della tutela
giurisdizionale (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 28.09.2018 n. 5570 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
2. Il motivo è fondato, in relazione al primo dei
rilievi in esso contenuti.
2.1. Con riguardo al tema dell’integrazione di una efficace
pubblicità dichiarativa valida ai fini della valutazione di
piena conoscenza dell’atto, come conseguenza della
pubblicazione della delibera n. 19/2016 sul sito web
dell’amministrazione (avvenuta dal 21 gennaio al 05.02.2016) il Collegio conviene, innanzitutto, sulla premessa
generale secondo la quale l’effetto conoscitivo opponibile
erga omnes deve poggiare su una specifica disciplina
di legge – sicché la pubblicazione sul sito istituzionale on
line dell’ente che adotta l’atto, in mancanza di una
disposizione normativa che attribuisca valore ufficiale a
tale forma di ostensione, non può fondare alcuna presunzione
legale di conoscenza.
2.2. In questo senso viene inteso il disposto dell’art. 32
L. 69/2009 (cfr. Cons. Stato, sez. V, 08.05.2018, n.
2757 e 27.08.2014, n. 4384), e del tutto conforme è la
previsione generale contenuta all’articolo 54, comma 4-bis,
del Codice dell’amministrazione digitale 82 del 2005 secondo
cui “la pubblicazione telematica produce effetti di
pubblicità legale nei casi e nei modi espressamente previsti
dall’ordinamento”.
2.3. Dunque, la pubblicazione telematica dell'atto solo
quando sia prevista e prescritta da specifiche
determinazioni normative costituisce una forma di pubblicità
in grado di integrare di per sé gli estremi della conoscenza
erga omnes dell’atto pubblicato e di far decorrere il
termine decadenziale di impugnazione (Cons. Stato, sez. V,
30.11.2015, n. 5398; Id., sez. IV, 26.04.2006, n.
2287).
2.4. Nel caso di specie, il regime di pubblicità dei
provvedimenti del Direttore generale dell’Azienda
ospedaliera rinviene la sua fonte nell’art. 42 della l.r. n.
40 del 2005, il quale, al comma 2, afferma l’obbligo
generale di pubblicazione nell’Albo dell’azienda sanitaria
di tutti gli atti dirigenziali; mentre, al comma 4, prevede
-per i soli provvedimenti non sottoposti al Controllo della
Giunta regionale- che la relativa esecutività consegua alla
pubblicazione per almeno quindici giorni consecutivi, salva
la “immediata eseguibilità dichiarata per motivi di
urgenza”.
2.5. Al conseguente rilievo della parte appellata secondo
cui l’effetto conoscitivo legale si fonderebbe nel caso in
esame su una specifica previsione normativa, si obietta da
parte appellante che la pubblicazione disciplinata dall’art.
42 avrebbe rilevanza unicamente come pubblicità notizia e ai
fini del conferimento dell’esecutività all’atto pubblicato,
ma non varrebbe a determinarne la conoscenza erga omnes.
2.6. L’assunto da ultimo richiamato merita condivisione.
Importa considerare, innanzitutto, che i concetti di
esecutività e conoscenza legale dell’atto amministrativo non
sono coincidenti e automaticamente sovrapponibili (Cons.
Stato, sez. V, 17.11.2009, n. 7151) – il che induce a
ritenere che la pubblicità funzionale all’acquisizione di
esecutività dell’atto non debba necessariamente assolvere
anche alla funzione di rendere opponibili ai terzi, ai fini
della decorrenza del termine per impugnare, i fatti per i
quali cui essa è prevista.
2.7. A ciò aggiungasi che
le norme in tema di pubblicazione
telematica degli atti devono essere applicate con
particolare cautela e, quindi, sottostare ad un canone di
interpretazione restrittiva, in particolare modo nel momento
in cui si tratta di determinare (in via interpretativa) gli
effetti di conoscenza legale associabili o meno a siffatta
tipologia di esternazione comunicativa.
A favore di una
regola di cautela depongono plurime considerazioni,
riconducibili, essenzialmente:
a) alla mancanza di una
disposizione di carattere generale in grado di equiparare,
nella loro efficacia giuridica, tutte le variegate forme di
pubblicità degli atti;
b) alla esigenza di garantire, con
regole chiare e uniformi, standard tecnici di adeguata e
omogenea visibilità dei dati pubblicizzati sui siti telematici, nei diversi settori e ambiti operativi
dell’azione pubblica;
c) alla constatazione di una diversa
propensione al mezzo telematico che si riscontra nei
differenti ambiti del diritto pubblico, anche in ragione
dell’eterogeneo grado di specializzazione professionale dei
soggetti che vi operano e agiscono;
d) alla notevole
rilevanza degli interessi implicati nella materia in esame,
in particolar modo per quanto concerne l’incidenza che la
conoscenza legale dell’atto assume ai fini della decorrenza
del termine utile per l’impugnazione degli atti soggetti a
pubblicità;
e) alla conseguenza necessità di privilegiare,
in presenza di dubbi esegetici aventi effetti sul regime decadenziale dall’azione impugnatoria, l’opzione meno
sfavorevole per l’esercizio del diritto di difesa e, quindi,
maggiormente conforme ai principi costituzionali espressi
dagli artt. 24, 111 e 113 Cost., nonché al principio di
effettività della tutela giurisdizionale.
2.8. L’insieme di considerazioni sin qui richiamate fa
percepire la razionalità dell’orientamento normativo inteso
ad incrementare in modo selettivo l’accesso a forme
innovative di pubblicità, mediante disposizioni ad hoc
(quale quelle che si rinvengono, ad esempio, nella materia
degli appalti pubblici), variamente calibrate in relazione
allo specifico contesto disciplinare di volta in volta
considerato. |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Sussiste l’obbligo dell’Amministrazione comunale
di provvedere sull’istanza di repressione di abusi edilizi
realizzati sul terreno confinante, formulatagli dal relativo
proprietario, il quale, appunto per tale aspetto che si invera nel concetto di vicinitas, gode di una legittimazione
differenziata rispetto alla collettività subendo gli effetti
nocivi immediati e diretti della commissione dell’eventuale
illecito edilizio non represso nell’area limitrofa alla sua
proprietà, onde egli è titolare di una posizione di
interesse legittimo all’esercizio di tali poteri di
vigilanza e, quindi, può proporre l’azione a seguito del
silenzio ai sensi dell'art. 31 cod. proc. amm..
Pertanto, il proprietario di un’area o di un fabbricato,
nella cui sfera giuridica incide dannosamente il mancato
esercizio dei poteri ripristinatori e repressivi relativi ad
abusi edilizi da parte dell’organo preposto, può pretendere,
se non vengono adottate le misure richieste, un
provvedimento che ne spieghi esplicitamente le ragioni, con
il risultato che il silenzio serbato sull’istanza integra
gli estremi del silenzio-rifiuto, sindacabile in sede
giurisdizionale quanto al mancato adempimento dell’obbligo
di provvedere in modo espresso.
Del resto, ai sensi dell’art. 2 della legge n. 241 del 1990,
la pubblica Amministrazione ha in generale il dovere di
concludere il procedimento conseguente in modo obbligatorio
ad un’istanza di parte mediante l’adozione di un
provvedimento espresso.
Inoltre, è principio consolidato quello secondo cui
l’obbligo di provvedere può discendere non solo da puntuali
previsioni legislative o regolamentari ma anche dalla
peculiarità della fattispecie, nella quale ragioni di
giustizia o equità impongano l’adozione di provvedimenti
espliciti, alla stregua del generale dovere di correttezza e
di buona amministrazione della parte pubblica, ai sensi
dell’art. 97 Cost., con conseguente sorgere in capo al
privato di una legittima aspettativa a conoscere il
contenuto e le ragioni delle determinazioni amministrative,
quali che esse siano.
---------------
In ipotesi di segnalazioni circostanziate e
documentate, l’Amministrazione ha comunque l’obbligo di
attivare un procedimento di controllo e verifica dell’abuso
della cui conclusione deve restare traccia, sia essa nel
senso dell’esercizio dei poteri sanzionatori, che in quella
della motivata archiviazione, dovendosi in particolare
escludere che la ritenuta mancanza dei presupposti per
l’esercizio dei poteri sanzionatori possa giustificare un
comportamento meramente silente.
In ragione di ciò, è da dichiarare fondata la domanda
giudiziale dei ricorrenti, non avendo il Comune
concluso il procedimento con l’adozione del “provvedimento
espresso” richiesto dall’art. 2 della legge n. 241 del 1990,
così da precludere agli istanti di valutare, alla luce dei
riscontri forniti dall’Amministrazione, la fondatezza o meno
delle proprie doglianze e di eventualmente impugnare il
provvedimento sfavorevole.
---------------
Indipendentemente da ogni questione circa i limiti temporali
per l’esercizio del relativo potere inibitorio, i ricorrenti
assumono il manufatto difforme dall’opera che ne costituiva
oggetto, sicché anche questo aspetto rientra nell’àmbito di
indagine che compete all’ente, il cui potere di repressione
degli illeciti edilizi –come è noto– può ben essere
esercitato a distanza di tempo dalla violazione, in
considerazione della natura permanente di simili illeciti.
---------------
Ritenuto:
- che, come rilevato dalla giurisprudenza,
sussiste l’obbligo dell’Amministrazione comunale di
provvedere sull’istanza di repressione di abusi edilizi
realizzati sul terreno confinante, formulatagli dal relativo
proprietario, il quale, appunto per tale aspetto che si invera nel concetto di
vicinitas, gode di una legittimazione
differenziata rispetto alla collettività subendo gli effetti
nocivi immediati e diretti della commissione dell’eventuale
illecito edilizio non represso nell’area limitrofa alla sua
proprietà, onde egli è titolare di una posizione di
interesse legittimo all’esercizio di tali poteri di
vigilanza e, quindi, può proporre l’azione a seguito del
silenzio ai sensi dell'art. 31 cod. proc. amm. (v. Cons.
Stato, Sez. IV, 09.11.2015 n. 5087; e, da ultimo, Sez.
VI, 07.06.2018 n. 3460);
-
che, pertanto, il proprietario di un’area o di un
fabbricato, nella cui sfera giuridica incide dannosamente il
mancato esercizio dei poteri ripristinatori e repressivi
relativi ad abusi edilizi da parte dell’organo preposto, può
pretendere, se non vengono adottate le misure richieste, un
provvedimento che ne spieghi esplicitamente le ragioni, con
il risultato che il silenzio serbato sull’istanza integra
gli estremi del silenzio-rifiuto, sindacabile in sede
giurisdizionale quanto al mancato adempimento dell’obbligo
di provvedere in modo espresso;
-
che, del resto, ai sensi dell’art. 2 della legge n. 241 del
1990, la pubblica Amministrazione ha in generale il dovere
di concludere il procedimento conseguente in modo
obbligatorio ad un’istanza di parte mediante l’adozione di
un provvedimento espresso;
-
che, inoltre, è principio consolidato quello secondo cui
l’obbligo di provvedere può discendere non solo da puntuali
previsioni legislative o regolamentari ma anche dalla
peculiarità della fattispecie, nella quale ragioni di
giustizia o equità impongano l’adozione di provvedimenti
espliciti, alla stregua del generale dovere di correttezza e
di buona amministrazione della parte pubblica, ai sensi
dell’art. 97 Cost., con conseguente sorgere in capo al
privato di una legittima aspettativa a conoscere il
contenuto e le ragioni delle determinazioni amministrative,
quali che esse siano (v., tra le altre, TAR Lazio, Sez. I,
11.05.2018 n. 5233);
-
che nella fattispecie, in qualità di proprietari confinanti
con l’area in cui è stato realizzato il contestato “muro”, i
ricorrenti avevano addotto circostanziati profili di
perplessità circa la regolarità edilizia del manufatto,
sicché il Comune di Argegno aveva l’obbligo di provvedere
sulla loro argomentata richiesta, effettuando le dovute
verifiche e determinandosi quindi esplicitamente e
motivatamente sull’istanza, in senso positivo o negativo che
fosse;
-
che, al contrario, pur procedendosi ad un sopralluogo in
presenza dei soggetti interessati, alla redazione del
relativo verbale (riassuntivo dei rilievi effettuati) non ha
fatto poi séguito l’adozione di determinazioni conclusive
dell’ente che di quelle operazioni costituissero il
risultato, neppure dopo che i ricorrenti avevano segnalato
in modo analitico le questioni rimaste irrisolte all’esito
del sopralluogo e invocato le conseguenti misure repressive,
posto che, in ipotesi di segnalazioni circostanziate e
documentate, l’Amministrazione ha comunque l’obbligo di
attivare un procedimento di controllo e verifica dell’abuso
della cui conclusione deve restare traccia, sia essa nel
senso dell’esercizio dei poteri sanzionatori, che in quella
della motivata archiviazione, dovendosi in particolare
escludere che la ritenuta mancanza dei presupposti per
l’esercizio dei poteri sanzionatori possa giustificare un
comportamento meramente silente (v. Cons. Stato, Sez. IV, 04.05.2012 n. 2592);
-
che, in ragione di ciò, è da dichiarare fondata la domanda
giudiziale dei ricorrenti, non avendo il Comune di Argegno
concluso il procedimento con l’adozione del “provvedimento
espresso” richiesto dall’art. 2 della legge n. 241 del 1990,
così da precludere agli istanti di valutare, alla luce dei
riscontri forniti dall’Amministrazione, la fondatezza o meno
delle proprie doglianze e di eventualmente impugnare il
provvedimento sfavorevole (v. Cons. Stato, Sez. VI, 07.06.2018 n. 3460);
-
che va invece disattesa l’eccezione di inammissibilità del
ricorso per intervenuto consolidamento della d.i.a. del 2005
(v. memoria difensiva della controinteressata), in quanto,
indipendentemente da ogni questione circa i limiti temporali
per l’esercizio del relativo potere inibitorio, i ricorrenti
assumono il manufatto difforme dall’opera che ne costituiva
oggetto, sicché anche questo aspetto rientra nell’àmbito di
indagine che compete all’ente, il cui potere di repressione
degli illeciti edilizi –come è noto– può ben essere
esercitato a distanza di tempo dalla violazione, in
considerazione della natura permanente di simili illeciti
(v., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, n. 3460/2018 cit.);
-
che, in conclusione, va assegnato al Comune di Argegno un
termine di trenta giorni dalla comunicazione o notificazione
della presente sentenza affinché lo stesso provveda sulla
richiesta degli interessati con atto puntualmente motivato,
essendo evidente che, per l’esigenza di accertamenti
istruttori di competenza dell’ente locale, il presente
dictum giudiziale è circoscritto alla statuizione della
sussistenza dell’obbligo di provvedere in capo
all’Amministrazione e non è anche esteso all’accertamento
della fondatezza della pretesa sostanziale dedotta in
giudizio;
-
che, in caso di inerzia e su documentata richiesta dei
ricorrenti, provvederà in via sostitutiva, nei successivi
sessanta giorni, un Commissario ad acta che viene sin d’ora
nominato nella persona del Prefetto di Como, con facoltà di
delega ad un funzionario del medesimo ufficio;
Considerato, pertanto,
- che il ricorso va accolto, con
conseguente obbligo dell’Amministrazione comunale (e, in via
sostitutiva, del Commissario ad acta) di provvedere nei
termini suindicati;
-
che le spese di lite seguono la soccombenza del Comune di
Argegno, mentre le stesse appaiono suscettibili di
compensazione nei confronti della controinteressata
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia
(Sezione Seconda), pronunciando sul ricorso in epigrafe,
così provvede:
- lo accoglie quanto alla pretesa formazione del
silenzio-rifiuto sull’istanza in data 05.03.2018 e, per
l’effetto, dichiarata l’illegittimità del silenzio, ordina
all’Amministrazione comunale (e, in via sostitutiva, al
Commissario ad acta) di provvedere nei termini indicati in
motivazione;
- nomina, quale Commissario ad acta, il Prefetto di Como –con facoltà di delega ad un funzionario del medesimo ufficio–, che interverrà su richiesta dei ricorrenti solo dopo
l’inutile decorso del termine assegnato all’Amministrazione
comunale.
Condanna il Comune di Argegno al pagamento delle spese del
presente giudizio, che liquida in complessivi € 2.000,00
(duemila/00), oltre agli accessori di legge e alla rifusione
del contributo unificato (nella misura effettivamente
versata). Compensa le spese nei confronti della sig.ra
Mo.Ge..
Manda alla Segreteria per la trasmissione della presente
pronuncia –una volta passata in giudicato– alla Corte dei
conti, Procura Regionale presso la Sezione Giurisdizionale
per la Regione Lombardia, ai sensi dell’art. 2, comma 8,
della legge n. 241 del 1990 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 28.09.2018 n. 2171 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Un terreno soggetto a vincolo di inedificabilità assoluta, perché soggetto a
fascia cimiteriale, può comunque astrattamente cedere la
relativa cubatura purché l’immobile destinatario del
beneficio sia compatibile con le finalità sottese al stesso
vincolo, ossia “garantire la futura espansione del cimitero;
garantire il decoro di un luogo di culto; assicurare una
cintura sanitaria attorno a luoghi per loro natura
insalubri”.
---------------
Certamente dirimente è, nella fattispecie, l’accertamento della
intervenuta violazione delle regole procedimentali, in
specie quella prevista dal citato art. 10-bis in tema di
preavviso di rigetto dell’istanza di concessione in
sanatoria, tenuto conto che la questione giuridica sottesa –ossia l’ammissibilità della cessione dell’indice di cubatura
da parte di terreno soggetto a vincolo di inedificabilità
assoluta perché ricadente nella c.d. fascia di rispetto
cimiteriale– risulta non univoca, per cui un
contraddittorio pieno con la parte ricorrente avrebbe
garantito un’istruttoria completa soprattutto alla luce
degli orientamenti giurisprudenziali riportati da
controparte, quali:
1) TAR Liguria, Genova, sentenza n. 1388/2008, secondo cui
“le finalità perseguite dalla normativa di tutela del
vincolo cimiteriale sono sostanzialmente tre:
- garantire la
futura espansione del cimitero;
- garantire il decoro di un
luogo di culto;
- assicurare una cintura sanitaria attorno a
luoghi per loro natura insalubri (cfr. TAR Liguria, 1^,
25.03.2004 n. 290; id., 09.07.1998 n. 373; id., 06.11.1995 n. 320; da ultimo Cons. Stato, V,
03.05.2007 n. 1933). […]
Quindi l'Amministrazione è tenuta a
valutare se ed in quale misura l'opera in questione venga
effettivamente a concretizzare una lesione per il vincolo
cimiteriale di inedificabilità e, più in particolare, se le
opere da sanare possano aggravare il peso insediativo
dell'area con la realizzazione di volumi edilizi tali da
considerarsi nuove costruzioni”;
2) TAR Umbria, Perugia, sentenza n. 534/2002, secondo cui
“Il vincolo cimiteriale consiste e si esaurisce
nell'impedire che il suolo gravato venga direttamente
edificato, ma, una volta osservato questo divieto, non
impedisce che venga utilizzato in conformità alla
destinazione urbanistica di zona: ad es., dandosene il caso,
come area scoperta pertinenziale ad un fabbricato realizzato
nella residua parte del lotto, e utile ai fini del calcolo
della volumetria complessivamente realizzabile sul lotto
stesso.
Allo stesso modo, la destinazione urbanistica
edificatoria non esclude che talune porzioni del lotto siano inedificabili per effetto delle regole in materia di
distanze tra fabbricati; mentre, per converso, l'inedificabilità
de facto di quelle porzioni non esclude che la volumetria
astrattamente loro spettante sia utilizzata nella residua
parte del lotto”.
Orientamenti giurisprudenziali dai quali si ricava, in
combinato disposto, il principio per cui un terreno soggetto
a vincolo di inedificabilità assoluta, perché soggetto a
fascia cimiteriale, può comunque astrattamente cedere la
relativa cubatura purché l’immobile destinatario del
beneficio sia compatibile con le finalità sottese al stesso
vincolo, ossia “garantire la futura espansione del cimitero;
garantire il decoro di un luogo di culto; assicurare una
cintura sanitaria attorno a luoghi per loro natura
insalubri”.
Nel caso di specie, quindi, non coinvolgendo l’abuso tutto
l’edificio ma essendo piuttosto risultata abusiva solo la
maggiore ampiezza accertata rispetto alla originaria
concessione, l’amministrazione avrebbe dovuto, sul piano
procedimentale, sia coinvolgere l’interessato in sede di
preavviso di rigetto dell’istanza di sanatoria, di cui al
citato art. 10-bis; sia dare conto funditus delle ragioni
motivazionali ostative al rilascio del citato provvedimento,
esponendo il perché della ritenuta incompatibilità tra la
maggiore volumetria e le rationes del vincolo cimiteriale,
eventualmente tali da non consentire, in concreto, alcuna
cessione di cubatura.
Il primo vulnus procedimentale ha ovviamente comportato,
come è noto, una carenza del provvedimento di rigetto anche
riguardo il secondo dei citati profili.
In definitiva, quindi, entrambi i ricorsi devono essere
accolti perché fondati (TAR Sicilia-Catania, Sez. II,
sentenza 28.09.2018 n. 1826 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 35 Testo Unico dell’edilizia prevede un
potere repressivo di competenza del Comune in materia di
repressione di interventi abusivi su suolo demaniale il
quale concorre, ma è comunque distinto rispetto a quello
spettante all’Autorità marittima ai sensi dell’art. 54 Cod. Nav., approvato con r.d. 30.03.1942
n. 327.
---------------
Come più volte affermato in giurisprudenza, posto che il
demanio marittimo presenta una conformazione variabile nel
corso del tempo in considerazione della mutevole azione del
mare sulle coste le aree demaniali marittime, per intrinseca
natura, possono risultare di incerta perimetrazione, in quanto
possono intervenire, con un certo margine di probabilità,
modificazioni del territorio costiero che rendano non più
affidabili le mappe redatte dagli uffici catastali.
L’oggettiva incertezza, in ordine all’esatto tracciato della
linea di confine, rende illegittimo un procedimento
istruttorio e quindi il provvedimento di demolizione reso
senza la partecipazione al procedimento stesso del privato,
in quanto in contrasto con le prescrizioni di cui all’art.
32 cod. nav. mentre “Le mappe
catastali, avendo portata ricognitiva, sono inidonee a
costituire strumento di certa definizione dei confini tra
demanio marittimo e proprietà privata, infatti le mappe
catastali non possono costituire uno strumento sicuro per
determinare la linea di confine del demanio marittimo, che
per eventi naturali è soggetta a notevoli variazioni nel
corso del tempo”.
---------------
1. Con il provvedimento del impugnato l’ente locale ordinò, ai
sensi dell’art. 35 TUE la demolizione della recinzione
con muro di contenimento in pietra alto mt. 4.2 circa sul
presupposto della sua realizzazione su suolo demaniale
marittimo per 146 mq.
Le doglianze relative all’illegittimo ed erroneo uso del
potere di cui all’art. 35 d.P.R. 380/2001 hanno fondamento.
Ai sensi del primo comma dell’art. 35, intitolato interventi
abusivi realizzati su suoli di proprietà dello Stato o di
enti pubblici, “Qualora sia accertata la realizzazione, da
parte di soggetti diversi da quelli di cui all’articolo 28,
di interventi in assenza di permesso di costruire, ovvero in
totale o parziale difformità dal medesimo, su suoli del
demanio o del patrimonio dello Stato o di enti pubblici, il
dirigente o il responsabile dell’ufficio, previa diffida non
rinnovabile, ordina al responsabile dell’abuso la
demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi, dandone
comunicazione all’ente proprietario del suolo”: la norma,
quindi, consente l’emanazione del provvedimento comunale di
demolizione per occupazione di suolo demaniale marittimo in
quanto abusiva e dunque realizzata in assenza di permesso di
costruire, ovvero in totale o parziale difformità dal
medesimo.
Ha dimostrato parte ricorrente che la realizzazione del
fabbricato è avvenuta pur essendoci titolo edilizio e
concessione demaniale marittima emanate negli anni settanta
sicché il potere esercitato per repressione degli abusi
edilizi è stato utilizzato per il diverso fine della
violazione delle norme che regolano l’uso dei beni demaniali
da parte dei privati.
Va rammentato, infatti, che l’art. 35 Testo Unico
dell’edilizia prevede un potere repressivo di competenza del
Comune in materia di repressione di interventi abusivi su
suolo demaniale il quale concorre, ma è comunque distinto
rispetto a quello spettante all’Autorità marittima ai sensi
dell’art. 54 Cod. Nav., approvato con r.d. 30.03.1942 n.
327 (in tal senso TAR Napoli, sez. III, 16.01.2012
n. 195; TAR Latina, sez. I, 23.09.2009, n. 834; Tar Napoli, 24/05/2016, n. 2638).
2. Sebbene il riscontro del primo motivo di censura sia
dirimente ritiene il Collegio di affrontare anche gli
ulteriori motivi
Ha lamentato, in particolare, parte ricorrente che il
provvedimento sia fondato sull’erroneo presupposto in fatto
della demanialità dell’area, nonché la violazione
dell’obbligo partecipativo al procedimento, rilevando la
contraddittorietà con atto abilitativo del Comune nella
costruzione dell’abitazione e, soprattutto, con
l’autorizzazione prescritta a sensi dell’art. 55 del Codice
della Navigazione Capitaneria di Porto di Crotone.
Ebbene, dagli atti acquisiti risulta:
- che “il terreno è
situato all’ingresso di Soverato in una zona con notevole
sviluppo urbano. Tale situazione ha determinato uno stato di
fatto in cui parecchi fabbricati hanno eseguito delle
recinzioni con muri in cemento armato, sconfinando nella
proprietà demaniale” (verbale di ispezione 11.05.2004),
- che
la ricorrente ha proceduto ad occupazione abusiva di suolo
demaniale marittimo, in loc. “Ippocampo” del Comune di Soverato, di mq. 146 circa mediante un muro di contenimento
realizzato in pietra alto mt. 4,2 occupata per mq. 117 circa
da un terrazzo praticabile e per mq. 98,40 da giardino.
Lateralmente al muro vi è un’area di mq. 12 circa occupata
da gradini e battuto di cemento; su detta area esistono due
superfici facenti parte del fabbricato adibito a civile
abitazione che si estendono per ulteriori piani 4, per una
superficie totale di mq 33,00 circa. Ai tre piani superiori
del fabbricato vi è l’aggetto di altrettanti balconi per
una superficie complessiva di mq. 10,80 circa. La rimanente
area pari a mq. 29 circa risulta occupata ad uso giardino ed
in parte risulta pavimentata.
Nella parte centrale di quest’ultima
area esiste un cancello in ferro dal quale si accede al
–predetto giardino- (verbale di ispezione del 29.11.2005 ed
accertamento tecnico della medesima data). Dunque l’adozione
del provvedimento risulta essere effettivamente avvenuta sul
presupposto della demanialità dell’area occupata.
In punto di partecipazione, inoltre, si riscontra la
violazione delle garanzie partecipative previste dall’art. 7
della Legge 241/1990 posto che parte ricorrente è stata resa
edotta di un sopralluogo condotto dalla Capitaneria di
Porto, diretto all’accertamento di un abuso demaniale,
nell’esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria. Non vi
è stata però alcuna comunicazione da parte del Comune
resistente circa l’avvio del relativo procedimento
amministrativo sanzionatorio per abuso edilizio.
Orbene la partecipazione, pur trattandosi di provvedimento
vincolato, risultava essenziale proprio a fronte della
delicatezza della verifica della demanialità e dell’avvenuta
contestazione da parte del privato non superata da deduzioni
dell’amministrazione ai sensi dell’art. 21-octies l. n.
241/1990.
Va, infatti, in proposito rammentato, come più volte
affermato in giurisprudenza, che posto che il demanio
marittimo presenta una conformazione variabile nel corso del
tempo in considerazione della mutevole azione del mare sulle
coste le aree demaniali marittime, per intrinseca natura,
possono risultare di incerta perimetrazione, in quanto
possono intervenire, con un certo margine di probabilità,
modificazioni del territorio costiero che rendano non più
affidabili le mappe redatte dagli uffici catastali.
L’oggettiva incertezza, in ordine all’esatto tracciato della
linea di confine, rende illegittimo un procedimento
istruttorio e quindi il provvedimento di demolizione reso
senza la partecipazione al procedimento stesso del privato,
in quanto in contrasto con le prescrizioni di cui all’art.
32 cod. nav. (v. Tar Calabria 10.07.2014, n. 1105, TAR
Sardegna, sez. I 12.07.2017 n. 469; TAR Catania,
(Sicilia), sez. III, 22/07/2015, n. 1970) mentre “Le mappe
catastali, avendo portata ricognitiva, sono inidonee a
costituire strumento di certa definizione dei confini tra
demanio marittimo e proprietà privata, infatti le mappe
catastali non possono costituire uno strumento sicuro per
determinare la linea di confine del demanio marittimo, che
per eventi naturali è soggetta a notevoli variazioni nel
corso del tempo” (v. TAR Sicilia (Catania) sez. III 20.02.2008 n. 309 e Cons. St. n. 5587/2006).
Ciò premesso nel caso di specie parte ricorrente ha allegato
e documentato che fin dalla data della concessione demaniale
marittima l’area occupata non ricadeva nella zona demaniale,
mentre l’amministrazione resistente non ha indicato il
carattere sopravvenuto della modifica o il momento nel quale
si sarebbe verificata la violazione rispetto alla normativa
edilizia.
Ne discende che in tale ipotesi il vizio partecipativo
risulta aver inciso sul procedimento ed, eventualmente,
anche sul contenuto del provvedimento, non avendo
l’amministrazione resistente provato nel provvedimento
impugnato né negli atti depositati in seguito all’ordinanza
istruttoria una diversa indicazione della linea del confine
demaniale da quella allegata dal ricorrente, una modifica
rispetto alla situazione di fatto preesistente ovvero altri
elementi idonei a provare il carattere demaniale dell’area
occupata.
Ne consegue l’accoglimento del ricorso con annullamento del
provvedimento impugnato, fatti salvi gli eventuali ulteriori
provvedimenti dell’amministrazione competente (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 28.09.2018 n. 1666 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Rilascio titolo edilizio e mancata preliminare verifica
comunale della legittimazione a richiederlo.
In presenza di contestazione della
titolarità dominicale dell’area sulla quale il titolo
edificatorio è destinato ad incidere, si rinvia ai
consolidati principi elaborati dalla giurisprudenza secondo
cui:
- premesso che, in base all'art. 11, comma 1, del T.U. edilizia di
cui al D.P.R. 380/2001, il permesso di costruire è
rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia
titolo per richiederlo, la legittimazione attiva a chiedere
il rilascio di un titolo abilitativo edilizio si configura
in capo non solo al proprietario del terreno, ma pure al
soggetto titolare di altro diritto di godimento del fondo,
che lo autorizzi a disporne al riguardo;
- vi è il contestuale onere della P.A. di accertare con serietà e
rigore siffatta legittimazione a chiedere il titolo
edilizio, dovendo pertanto la P.A. accertare che l’istante
sia il proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento
costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di
disponibilità sufficiente per eseguire l'attività
edificatoria;
- al riguardo, non si sono mai posti dubbi in ordine ai limiti
legali, i quali, trovando applicazione generalizzata,
concorrono a formare lo statuto generale dell'attività
edilizia e non pongono problemi di conoscibilità
all'amministrazione che è tenuta a considerarli sempre;
- diversamente, per le limitazioni negoziali del diritto di
costruire, la giurisprudenza in passato ha oscillato fra la
soluzione che ne esclude ogni rilevanza, nel presupposto che
all'amministrazione sia inibito qualsiasi sindacato anche
indiretto sulla validità ed efficacia dei rapporti giuridici
dei privati, e quella opposta che, invece, ammette che il
Comune verifichi il rispetto dei limiti privatistici, purché
siano immediatamente conoscibili, effettivamente e
legittimamente conosciuti nonché del tutto incontestati, di
guisa che il controllo si traduca in una semplice presa
d'atto;
- la più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, superando
l'indirizzo più risalente, è oggi allineata nel senso che
l'Amministrazione, quando venga a conoscenza dell'esistenza
di contestazioni sul diritto del richiedente il titolo
abilitativo, debba compiere le necessarie indagini
istruttorie per verificare la fondatezza delle
contestazioni, senza però sostituirsi a valutazioni
squisitamente civilistiche (che appartengono alla competenza
dell’A.G.O.), arrestandosi dal procedere solo se il
richiedente non sia in grado di fornire elementi prima facie
attendibili.
---------------
1. Con unico argomento di censura, parte ricorrente lamenta
che l’intimata Amministrazione comunale, nel rilasciare alla
controinteressata Sa.Gi.Va. il titolo edificatorio n.
182/2008, abbia omesso di verificare l’effettiva
disponibilità, in capo a quest’ultima, delle aree
interessate dall’attività di trasformazione; in particolare,
lamentando che una porzione di esse –con estensione di mq.
10 circa; e sulla quale insistono il muro e il cancello del
finitimo villaggio turistico- ricadrebbe su parte del
mappale 1151, di proprietà Br.–Du.Gi..
Pur a fronte delle sollecitazioni dalla parte ricorrente
indirizzate all’Amministrazione comunale –e volte a
promuovere una verifica del reale assetto dominicale
dell’area interessata; con conseguente esercizio del potere
di autotutela– l’Amministrazione non provvedeva nel senso
auspicato da Br..
Come osservato da questo Tribunale in sede cautelare –e
ribadito anche dalla controinteressata (cfr. memoria
depositata in atti il 19.06.2018)– la titolarità dell’area
de qua è, allo stato, controversa.
Quest’ultima, nel suindicato scritto difensivo, ha
precisato:
- di aver “arretrato il proprio cancello arretrato rispetto alla
posizione autorizzata in prime cure, su un’area che
pacificamente è di sua proprietà” (come accertato in
sede civile dal CTU nominato Arch. Pa. nel ricorso per
accertamento tecnico preventivo promosso dai proprietari
dell’area fratelli Ta. e dalla loro madre Co.Is.);
- che risulta essere stato promosso giudizio petitorio per
l’accertamento dei confini, lungo tutta la proprietà, e non
riguardante il solo ingresso oggetto delle opere edilizie
qui contestate: il relativo giudizio risultando tuttora
pendente innanzi alla Corte d’Appello di Brescia, iscritto a
ruolo con il n. 1139/2015 (l’udienza di precisazione delle
conclusioni si è tenuta in data 09.05.2018).
2. Impregiudicato, ovviamente, l’esito del petitorio –in
ragione della ovvia appartenenza della cognizione in ordine
ad esso all’A.G.O.– il perimetro cognitivo del presente
giudizio concerne esclusivamente la verifica di legittimità
dell’esercizio del potere sostanziatosi nel rilascio del
contestato titolo ad aedificadum in favore della
parte controinteressata.
E, in particolare, riguarda la legittima adozione di un
permesso di costruire pur in presenza della rappresentata
contestazione della titolarità dominicale di parte dell’area
sulla quale il titolo edificatorio era destinato ad
incidere.
Si rinvia, in proposito, ai consolidati principi elaborati
dalla giurisprudenza (cfr. da ultimo Cons. Stato, sez. IV,
20.04.2018 n. 2397, 19.12.2016 n. 5363, 23.05.2016 n. 2116,
07.09.2016 n. 3823, 25.09.2014 n. 4818), secondo cui:
- premesso che, in base all'art. 11, comma 1, del T.U. edilizia di
cui al D.P.R. 380/2001, il permesso di costruire è
rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia
titolo per richiederlo, la legittimazione attiva a chiedere
il rilascio di un titolo abilitativo edilizio si configura
in capo non solo al proprietario del terreno, ma pure al
soggetto titolare di altro diritto di godimento del fondo,
che lo autorizzi a disporne al riguardo (cfr. Cons. Stato,
sez. VI, 15.07.2010 n. 4557, 02.09.2011 n. 4968);
- vi è il contestuale onere della P.A. di accertare con serietà e
rigore siffatta legittimazione a chiedere il titolo edilizio
(arg. ex Cons. Stato, sez. IV, 07.09.2016 n. 3823), dovendo
pertanto la P.A. accertare che l’istante sia il proprietario
dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o che,
comunque, ne abbia un titolo di disponibilità sufficiente
per eseguire l'attività edificatoria (cfr. Cons. Stato, sez.
V, 04.04.2012 n. 1990);
- al riguardo, non si sono mai posti dubbi in ordine ai limiti
legali, i quali, trovando applicazione generalizzata,
concorrono a formare lo statuto generale dell'attività
edilizia e non pongono problemi di conoscibilità
all'amministrazione che è tenuta a considerarli sempre;
- diversamente, per le limitazioni negoziali del diritto di
costruire, la giurisprudenza in passato ha oscillato fra la
soluzione che ne esclude ogni rilevanza, nel presupposto che
all'amministrazione sia inibito qualsiasi sindacato anche
indiretto sulla validità ed efficacia dei rapporti giuridici
dei privati (cfr. Cons. Stato, sez. V, 20.12.1993, n. 1341),
e quella opposta che, invece, ammette che il Comune
verifichi il rispetto dei limiti privatistici, purché siano
immediatamente conoscibili, effettivamente e legittimamente
conosciuti nonché del tutto incontestati, di guisa che il
controllo si traduca in una semplice presa d'atto (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2007 n. 1206);
- la più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, superando
l'indirizzo più risalente, è oggi allineata nel senso che
l'Amministrazione, quando venga a conoscenza dell'esistenza
di contestazioni sul diritto del richiedente il titolo
abilitativo, debba compiere le necessarie indagini
istruttorie per verificare la fondatezza delle
contestazioni, senza però sostituirsi a valutazioni
squisitamente civilistiche (che appartengono alla competenza
dell’A.G.O.), arrestandosi dal procedere solo se il
richiedente non sia in grado di fornire elementi prima
facie attendibili.
3. Facendo applicazione dei su menzionati principi al caso
di specie, è evidente che il Comune resistente ha omesso
anche il minimo controllo sulla legittimazione dei
richiedenti la concessione edilizia a disporre, in virtù di
un titolo (legale, giudiziale ovvero negoziale), dell’intera
area: compresa la porzione (insistente su una parte del
mappale 1151) oggetto di formale e circostanziata
opposizione all’intervento costruttivo manifestata in sede
procedimentale dalla parte ricorrente.
4. In tali limiti, va dunque dato atto dell’illegittimità
dell’avversato titolo edificatorio: impregiudicato,
ovviamente, l’esito del giudizio petitorio pendente dinanzi
alla competente A.G.O., a fronte del quale competerà
comunque all’Autorità comunale nuovamente pronunziarsi in
conformità dell’accertata consistenza ed estensione
dominicale delle confinanti proprietà.
5. Quanto alla sospensione del titolo, gravata con motivi
aggiunti in ragione della pretesa esorbitanza del
provvedimento soprassessorio (concernente l’intero titolo
ad aedificandum rispetto alla portata applicativa
dell’ordinanza cautelare resa da a fronte dell’impugnazione
di cui all’atto introduttivo del giudizio), va escluso che
parte ricorrente vanti legittimazione alla sollecitazione
del sindacato giurisdizionale, come, del resto, osservato
con ordinanza di questa Sezione n. 288 del 04.05.2009 (con
la quale si è osservato che, “sotto il profilo
processuale l’utilizzo dei motivi aggiunti è improprio, in
quanto la nuova controversia, pur essendo connessa a quella
originaria, riguarda un provvedimento di segno opposto a
quello impugnato dalla società ricorrente, con inversione
della legittimazione e dell’interesse ad agire”).
I motivi aggiunti, conseguentemente, sono inammissibili (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 28.09.2018 n. 924 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla demolizione
di un chiosco realizzato su suolo demaniale.
La disciplina di cui all'art. 35 del d.P.R. n. 380 del 2001
presenta diverse peculiarità rispetto a quella per così dire
“ordinaria” dettata dall'art. 31 del medesimo T.U.
dell'edilizia: e ciò in
ragione della peculiare gravità della condotta sanzionata,
che riguarda la costruzione di opere abusive su suoli
pubblici.
In particolare, nei casi indicati dall’art. 35 il Comune non
ha spazio per alcun tipo di valutazione discrezionale, nel
senso che una volta accertata la realizzazione di interventi
eseguiti in assenza o in totale difformità dal permesso di
costruire su suoli demaniali, deve ordinarne la demolizione
al relativo responsabile. Non è ammessa la possibilità che
l’immobile possa essere mantenuto e non demolito; non è
ammesso altresì che l’abuso possa essere sanato.
Legittimato passivo della sanzione è unicamente “il
responsabile dell’abuso”, a differenza di quanto
previsto dall’art. 31 in base al quale la demolizione può
essere legittimamente comminata anche al proprietario non
responsabile dell’abuso.
La differenza tra l’art. 31 e l’art. 35 del T.U., circa la
possibilità di sanzionare il proprietario non responsabile
dell’abuso, trova la sua giustificazione nelle diverse
conseguenze che discendono sul piano sanzionatorio ed
esecutivo dalla mancata ottemperanza all’ordine di
demolizione.
L’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001 riguarda le opere
realizzate in assenza di permesso di costruire, in totale
difformità o con variazioni essenziali rispetto allo stesso,
su suoli privati e le sanziona con la demolizione nonché con
la previsione che, in caso di mancata esecuzione dell’ordine
di demolizione, si determina ex lege l’acquisizione gratuita
al patrimonio comunale delle opere, dell’area di sedime e di
un’area pertinenziale sino a dieci volte la superficie
abusivamente edificata.
La possibilità di essere spossessato, oltre che della
titolarità dell’immobile, anche dell’area di sedime e
dell’area pertinenziale, è la principale ragione che
giustifica l’inclusione del proprietario, anche nel caso in
cui questi non sia responsabile delle violazioni accertate,
tra i soggetti passivi dell’illecito urbanistico-edilizio.
Tale coinvolgimento non ha, invece, ragion d’essere nei casi
contemplati dall’art. 35 del T.U. in cui l’abuso è
realizzato su suoli pubblici, considerato che l’area di
sedime dell’opera non è di proprietà privata, ma della P.A.
e atteso che quest’ultima è comunque destinata ad assumere
la titolarità di quanto edificato al di sopra dell’area
stessa, secondo la regola generale dell’accessione di cui
all’art. 934 cod. civ..
Per tale ragione l’art. 35 del d.P.R. 380/2001 ha previsto
come unico legittimato passivo il responsabile dell'abuso e
non anche il proprietario.
---------------
L’ordinanza di demolizione da cui origina la vertenza è stata
legittimamente adottata e notificata nei confronti del solo
responsabile dell'abuso (nella specie il concessionario,
signor St.Ga.), ovvero di colui che ha realizzato
le opere senza i necessari titoli edilizi o in difformità
dagli stessi.
La demolizione del chiosco ottagonale per cui è causa,
realizzato su suolo demaniale, è stata, invero, disposta dal
Comune ai sensi dell’art. 35 del d.P.R. n. 380 del 2001:
tale norma, che disciplina gli interventi abusivi realizzati
su suoli di proprietà dello Stato o di enti pubblici,
prevede che qualora sia accertata la realizzazione di
interventi in assenza di permesso di costruire o di denuncia
di inizio attività, ovvero in totale o parziale difformità
dai medesimo, su suoli del demanio o del patrimonio dello
Stato o di enti pubblici, debba essere ordinata al
“responsabile dell'abuso” la demolizione ed il ripristino
dello stato dei luoghi.
La disciplina di cui all'art. 35 del d.P.R. n. 380 del 2001
presenta diverse peculiarità rispetto a quella per così dire
“ordinaria” dettata dall'art. 31 del medesimo T.U.
dell'edilizia, richiamata dall’odierna ricorrente: e ciò in
ragione della peculiare gravità della condotta sanzionata,
che riguarda la costruzione di opere abusive su suoli
pubblici.
In particolare, nei casi indicati dall’art. 35 il Comune non
ha spazio per alcun tipo di valutazione discrezionale, nel
senso che una volta accertata la realizzazione di interventi
eseguiti in assenza o in totale difformità dal permesso di
costruire su suoli demaniali, deve ordinarne la demolizione
al relativo responsabile. Non è ammessa la possibilità che
l’immobile possa essere mantenuto e non demolito; non è
ammesso altresì che l’abuso possa essere sanato.
Legittimato passivo della sanzione è unicamente “il
responsabile dell’abuso”, a differenza di quanto previsto
dall’art. 31 in base al quale la demolizione può essere
legittimamente comminata anche al proprietario non
responsabile dell’abuso (cfr. TAR Napoli sez. IV n.
3935/2012; TAR Salerno 1820/2013; TAR Puglia Bari 678/2014).
La differenza tra l’art. 31 e l’art. 35 del T.U., circa la
possibilità di sanzionare il proprietario non responsabile
dell’abuso, trova la sua giustificazione nelle diverse
conseguenze che discendono sul piano sanzionatorio ed
esecutivo dalla mancata ottemperanza all’ordine di
demolizione.
L’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001 riguarda le opere
realizzate in assenza di permesso di costruire, in totale
difformità o con variazioni essenziali rispetto allo stesso,
su suoli privati e le sanziona con la demolizione nonché con
la previsione che, in caso di mancata esecuzione dell’ordine
di demolizione, si determina ex lege l’acquisizione gratuita
al patrimonio comunale delle opere, dell’area di sedime e di
un’area pertinenziale sino a dieci volte la superficie
abusivamente edificata.
La possibilità di essere spossessato, oltre che della
titolarità dell’immobile, anche dell’area di sedime e
dell’area pertinenziale, è la principale ragione che
giustifica l’inclusione del proprietario, anche nel caso in
cui questi non sia responsabile delle violazioni accertate,
tra i soggetti passivi dell’illecito urbanistico-edilizio.
Tale coinvolgimento non ha, invece, ragion d’essere nei casi
contemplati dall’art. 35 del T.U. in cui l’abuso è
realizzato su suoli pubblici, considerato che l’area di
sedime dell’opera non è di proprietà privata, ma della P.A.
e atteso che quest’ultima è comunque destinata ad assumere
la titolarità di quanto edificato al di sopra dell’area
stessa, secondo la regola generale dell’accessione di cui
all’art. 934 cod. civ..
Per tale ragione l’art. 35 del d.P.R. 380/2001 ha previsto
come unico legittimato passivo il responsabile dell'abuso e
non anche il proprietario.
Nel caso di specie il responsabile dell’abuso è
pacificamente il sig. St.Ga., concessionario
demaniale e titolare delle autorizzazioni edilizie in
precario, come accertato dal Comune e ammesso dalla stessa
ricorrente che, nel corso del sopralluogo del 2007,
dichiarava alla Polizia Municipale che committente ed
esecutore materiale del nuovo chiosco era proprio il sig.
Ga.: il procedimento sanzionatorio si è, pertanto,
legittimamente svolto nei suoi confronti, senza che si
rendesse necessario il coinvolgimento dell’odierna
ricorrente.
Ferme le considerazioni che precedono, la domanda
risarcitoria è comunque infondata in quanto la ricorrente
non ha provato l'ingiustizia (lesività) sostanziale
dell’ordinanza di demolizione, cioè l’impossibilità per la
P.A. di adottare un atto di contenuto analogo a quello
affetto dal supposto vizio formale o procedimentale,
dovendosi ritenere necessario per l’ammissione a
risarcimento il giudizio prognostico circa la non
reiterabilità dell’atto che si assume viziato da un vizio
formale o procedimentale.
Risulta, inoltre, dagli atti di causa che la ricorrente è di
fatto comunque venuta a conoscenza della possibilità di
recuperare gli arredi del chiosco (arg. in base a doc. 49 P.A.:
avviso di sgombero del chiosco da eventuali arredi,
suppellettili, etc. notificato dal Comune al Ga. il
25.11.2010 e ricevuto a mani dall’odierna ricorrente, La
Ro.An., convivente, prot. notifiche n. 2741; v. anche
doc. 59 e 51 P.A., lettera avv. Ca., in cui si afferma
che la ricorrente è di fatto venuta a conoscenza della
comunicazione circa la possibilità di recuperare entro il 26.06.2011 i beni mobili presenti nel chiosco, notificata
dal Comune al Ga. e ricevuta dalla figlia della
ricorrente, sig.ra Al.Fe.).
La mancata tempestiva attivazione della ricorrente per il
recupero dei beni mobili presenti nel chiosco, pur a fronte
dell’intervenuta conoscenza delle diffide inviate dal
Comune, preclude l’ammissione a risarcimento, dovendosi
escludere, in base agli artt. 30 c.p.a. e 1227 cod. civ., la
risarcibilità dei danni evitabili con l’ordinaria diligenza
(art. 30, comma 3, c.p.a. “Il giudice valuta tutte le
circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle
parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si
sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza...”;
art. 1227, comma 2, cod. civ.. “Il risarcimento non è dovuto
per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando
l'ordinaria diligenza”).
Per tutto quanto sin qui esposto, il ricorso deve essere
respinto (TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 28.09.2018 n. 308 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il lotto
edificabile è uno spazio fisico che prescinde dal profilo
dominicale (ben può, cioè, il lotto edificabile essere
formato da appezzamenti di terreno appartenenti a diversi
proprietari e perfino tra loro non contigui), individuandosi
esclusivamente sulla base degli indici edificatori previsti
dalla normativa urbanistica.
Solo con il rilascio della
concessione edilizia il lotto edificabile viene ad essere
concretamente delimitato, con definizione delle potenzialità
edificatorie del fondo, unitariamente considerato, e
determinazione della cubatura ivi assentibile in relazione
ai limiti imposti dalla normativa urbanistica.
---------------
B.1 Il primo motivo di ricorso è infondato.
La giurisprudenza (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza
13.09.2013 n. 4531) ha affermato che “il lotto
edificabile è uno spazio fisico che prescinde dal profilo
dominicale (ben può, cioè, il lotto edificabile essere
formato da appezzamenti di terreno appartenenti a diversi
proprietari e perfino tra loro non contigui), individuandosi
esclusivamente sulla base degli indici edificatori previsti
dalla normativa urbanistica. Solo con il rilascio della
concessione edilizia il lotto edificabile viene ad essere
concretamente delimitato, con definizione delle potenzialità
edificatorie del fondo, unitariamente considerato, e
determinazione della cubatura ivi assentibile in relazione
ai limiti imposti dalla normativa urbanistica”.
Inoltre la L.R. 12/2005 ha favorito il passaggio da una
urbanistica del piano ad una urbanistica del progetto, per
cui molte norme attribuiscono ai piani attuativi
l’individuazione dei lotti (art. 27 e 93 L.R. 12/2005). A
ciò si aggiunge che l’art. 10 della legge regionale
attribuisce al Piano delle regole solo l’individuazione dei
lotti liberi (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 27.09.2018 n. 2163 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
E' legittimo che il PGT introduca dei limiti ai contenuti
dei PII.
Invero, i Piani integrati di intervento sono stati definiti “come
strumenti urbanistici di secondo livello rispetto al p.r.g.,
con finalità di riqualificare il tessuto urbanistico,
edilizio ed ambientale del territorio, e sono caratterizzati
tra l’altro, dall’integrazione di differenti tipologie di
intervento, ivi comprese le opere di urbanizzazione. In
particolare, essi mirano ad obiettivi di riqualificazione
dei tessuti urbani, anche in relazione all’aspetto
ambientale, mediante un insieme coordinato di interventi e
risorse, pubblici e privati”. E secondo l’art. 91 della legge urbanistica
lombarda i PII
sono presentati “in attuazione dei contenuti del
documento di piano di cui all’articolo 8”.
---------------
B.2 Il secondo motivo è infondato.
I Piani integrati di intervento sono stati definiti “come
strumenti urbanistici di secondo livello rispetto al p.r.g.,
con finalità di riqualificare il tessuto urbanistico,
edilizio ed ambientale del territorio, e sono caratterizzati
tra l’altro, dall’integrazione di differenti tipologie di
intervento, ivi comprese le opere di urbanizzazione. In
particolare, essi mirano ad obiettivi di riqualificazione
dei tessuti urbani, anche in relazione all’aspetto
ambientale, mediante un insieme coordinato di interventi e
risorse, pubblici e privati” (Tar Lombardia, Milano, II,
28.03.2007, n. 1241).
Secondo l’art. 91 della legge urbanistica regionale i PII
sono presentati “in attuazione dei contenuti del
documento di piano di cui all’articolo 8”. Da ciò deriva
che è legittimo che il PGT introduca dei limiti ai contenuti
dei PII (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 27.09.2018 n. 2163 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Il Consiglio di stato, dopo avere evidenziato che la
Valutazione ambientale strategica (Vas) non è configurata
come un procedimento o un sub procedimento autonomo rispetto
alla procedura di pianificazione, ha affermato che è
legittima, e anzi quasi fisiologica l'evenienza che
l'Autorità competente alla Valutazione ambientale strategica
(Vas) sia identificata in un organo o ufficio interno alla
stessa Autorità procedente.
---------------
B.5 Il quinto motivo è infondato.
Il Tribunale regionale amministrativo (Tar) Lombardia,
Milano, Sezione II, con la sentenza numero 188, del
27.01.2010, aveva riconosciuto al ricorrente portatore di un
interesse strumentale all'impugnazione di uno strumento
urbanistico al fine di una riedizione del potere
amministrativo pianificatorio detto interesse strumentale.
Detta decisione teneva presente il precedente pronunciamento
del Consiglio di stato, sezione V, espresso con la sentenza
del 15.11.2001, n. 5839.
Ora, il Consiglio di stato, sezione IV, con la sentenza del
12.01.2011, numero 133, dopo avere evidenziato che la
Valutazione ambientale strategica (Vas) non è configurata
come un procedimento o un sub procedimento autonomo rispetto
alla procedura di pianificazione, ha affermato che è
legittima, e anzi quasi fisiologica l'evenienza che
l'Autorità competente alla Valutazione ambientale strategica
(Vas) sia identificata in un organo o ufficio interno alla
stessa Autorità procedente (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 27.09.2018 n. 2163 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sussiste l’obbligo del Comune di provvedere sull’istanza di
repressione di abusi edilizi realizzati sul terreno
confinante, formulatagli dal relativo proprietario, il
quale, proprio per tal aspetto che s’invera nel concetto di
vicinitas, gode d’una legittimazione differenziata rispetto
alla collettività subendo gli effetti (nocivi) immediati e
diretti della commissione dell’eventuale illecito edilizio
non represso nell’area limitrofa alla sua proprietà, onde
egli è titolare d’un interesse legittimo all’esercizio di
tali poteri di vigilanza e, quindi, può proporre l’azione a
seguito del silenzio ai sensi dell’art. 31 d.lgs. n.
104/2010 (CPA), che segue il rito di cui ai successivi artt.
112 e ss. c.p.a..
---------------
S’osserva che il presente giudizio ha ad oggetto l’impugnativa
del silenzio, serbato dal Comune di San Marzano sul Sarno,
che si sarebbe concretizzato non riscontrando, l’ente, la
diffida del ricorrente del 15.06.2017, prot. 8980 e non
emanando gli atti, conseguenti all’ordinanza di demolizione
degli abusi edilizi, riscontrati presso l’abitazione della
controinteressata, ex art. 31 e ss. d.P.R. 380/2001, mercé
l’attivazione del procedimento d’esecuzione d’ufficio
dell’ordinanza in questione, rimasta inottemperata; tanto,
come esplicitato nel testo della diffida in questione,
stante l’intervenuto rigetto, per silentium, ex art. 36,
comma 3, d.P.R. 380/2001, dell’istanza d’accertamento di
conformità, relativa agli abusi suddetti, presentata
dall’interessata.
Ciò posto, vanno esaminate le eccezioni d’inammissibilità
del ricorso, variamente sollevate dalle difese delle
resistenti Amministrazione Comunale e controinteressata.
La prima eccezione, sollevata dalla difesa di quest’ultima,
è imperniata sul preteso difetto d’interesse ad agire del
ricorrente, il quale alcun concreto pregiudizio subirebbe,
in tesi, per effetto della mancata eliminazione delle opere
edilizie abusive de quibus, per di più “interne
all’abitazione della Sc.”.
L’eccezione è infondata.
Come affermato, di recente, dalla Sezione, infatti:
“Sussiste l’obbligo del Comune di provvedere sull’istanza di
repressione di abusi edilizi realizzati sul terreno
confinante, formulatagli dal relativo proprietario, il
quale, proprio per tal aspetto che s’invera nel concetto di
vicinitas, gode d’una legittimazione differenziata rispetto
alla collettività subendo gli effetti (nocivi) immediati e
diretti della commissione dell’eventuale illecito edilizio
non represso nell’area limitrofa alla sua proprietà, onde
egli è titolare d’un interesse legittimo all’esercizio di
tali poteri di vigilanza e, quindi, può proporre l’azione a
seguito del silenzio ai sensi dell’art. 31 d.lgs. n.
104/2010 (CPA), che segue il rito di cui ai successivi artt.
112 e ss. c.p.a.” (TAR Campania–Salerno, Sez. II,
12/04/2018, n. 546) (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 27.09.2018 n. 1333 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La presentazione della
domanda di accertamento di conformità, ex art. 36 d.P.R.
n. 380/2001, non comporta alcuna paralisi dei poteri sanzionatori già esercitati dal Comune e, dunque, non
determina l’inefficacia sopravvenuta dell’ingiunzione di
demolizione emessa.
L’esecuzione di tale sanzione, infatti,
in pendenza del termine di decisione della domanda di
sanatoria, viene solo temporaneamente sospesa, pertanto, in
mancanza di tempestiva impugnazione del diniego taciuto,
maturato per decorso del termine di 60 giorni dalla
presentazione dell’istanza, l’ingiunzione di demolizione può
essere eseguita e non è necessaria da parte
dell’amministrazione comunale l’emanazione di ulteriori atti sanzionatori.
---------------
L’ulteriore eccezione d’inammissibilità del gravame,
sollevata dalla difesa della Sc., è poi fondata sul
dedotto obbligo del Comune, una volta respinta l’istanza di
sanatoria presentata dall’interessata, di riattivare il
procedimento, volto alla repressione degli abusi edilizi,
mercé l’emissione di una nuova ordinanza di demolizione dei
medesimi.
Anche tale eccezione è priva di pregio, posto che la Sezione
ha aderito alla diversa opzione ermeneutica, espressa, da
ultimo, nella massima che segue: “La presentazione della
domanda di accertamento di conformità, ex art. 36 d.P.R.
n. 380/2001, non comporta alcuna paralisi dei poteri sanzionatori già esercitati dal Comune e, dunque, non
determina l’inefficacia sopravvenuta dell’ingiunzione di
demolizione emessa. L’esecuzione di tale sanzione, infatti,
in pendenza del termine di decisione della domanda di
sanatoria, viene solo temporaneamente sospesa, pertanto, in
mancanza di tempestiva impugnazione del diniego taciuto,
maturato per decorso del termine di 60 giorni dalla
presentazione dell’istanza, l’ingiunzione di demolizione può
essere eseguita e non è necessaria da parte
dell’amministrazione comunale l’emanazione di ulteriori atti
sanzionatori” (Consiglio di Stato, sez. VI, 06/06/2018, n.
3417).
Vero è che, nella specie, il Comune di San Marzano sul Sarno
–dopo la concretizzazione del rigetto per silentium
dell’istanza di accertamento di conformità– licenziava
anche diniego espresso circa la stessa (provvedimento di
diniego definitivo, prot. n. 1114 del 22.01.2018, notificato
alla Sc. in data 24.01.2018); diniego definitivo che
era gravato di ricorso, innanzi a questo Tribunale (R. G. n.
604/2018).
La circostanza, peraltro, non sposta evidentemente i termini
della questione, non potendosi evidentemente ravvisare, in
detta circostanza, alcuna inammissibilità del presente
ricorso (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 27.09.2018 n. 1333 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Rilevazione automatica delle presenze per gli avvocati di
una Azienda sanitaria, attuato mediante l’uso del cd. badge.
---------------
Pubblico impiego privatizzato – Avvocati di Enti pubblici
- Rilevazione automatica delle presenze mediante l’uso del
cd. badge – Legittimità.
E’ legittima la delibera del
Direttore generale del personale di una Azienda sanitaria
che impone anche agli avvocati dell’Azienda di marcare con
il badge l’entrata e l’uscita dal posto di lavoro, pena
l’adozione di misure disciplinari (1).
---------------
(1) Ha chiarito la sezione che l’autonomia e l’indipendenza
qualificanti l’esercizio di una determinata attività
lavorativa, quale quella degli Avvocati di enti pubblici,
possono assumere –e concretamente assumono– contenuti e
modalità di estrinsecazione diverse, in relazione alla
tipologia di prestazione che viene in rilievo ed alla
connessa esigenza, avvertita e tutelata dall’ordinamento, di
evitare che le stesse risultino compromesse da scelte
organizzative con esse confliggenti, promananti
dall’Amministrazione di appartenenza.
In particolare, con riguardo alla posizione dei cd. avvocati
pubblici, ovvero quelli che sono incardinati
organizzativamente presso un determinato ente pubblico ed ai
quali è affidato lo ius postulandi nell’interesse
dell’ente di appartenenza, deve osservarsi che le loro
prerogative di indipendenza ed autonomia, proprio perché
affidatari dell’interesse di una parte, attengono
essenzialmente al “modo” in cui perseguire quell’interesse,
ovvero alle scelte difensive da mettere in pratica per la
sua migliore tutela, con la conseguenza che non rischiano di
essere pregiudicate, anche nella percezione ab externo,
da forme di controllo, circa le modalità anche temporali di
svolgimento della loro prestazione, che con quelle scelte
non siano, direttamente o indirettamente, interferenti.
Non può escludersi, tuttavia, che determinate forme di
controllo, pur rivolte in via diretta a verificare le
modalità temporali di assolvimento della prestazione
professionale dell’avvocato pubblico, quindi attinenti agli
aspetti “estrinseci” della stessa, si rivelino
oggettivamente idonee ad intaccare il “nucleo essenziale”
dei requisiti di indipendenza ed autonomia della sua
attività lavorativa: si pensi, con riguardo al meccanismo
oggetto di controversia, all’ipotesi in cui l’autorizzazione
all’uscita dalla sede di servizio, per recarsi presso un
ufficio giudiziario, debba essere rilasciata da un Settore
dell’Amministrazione diverso da quello di inquadramento
dell’avvocato
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 26.09.2018 n. 5538 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Circa le immagini
presenti sul programma Google Earth, i relativi fotogrammi
costituiscono prove documentali pienamente utilizzabili
anche in sede penale.
---------------
I due ricorsi sono connessi e devono essere riuniti.
Risulta in atti che, nel 1987, Cr.An. ha presentato al
Comune di Catanzaro un’istanza di condono ai sensi della L.
47/1985, al fine di sanare l’immobile realizzato
abusivamente alla via ... n. 135, identificato catastalmente
al fl. 5, part. 333, sub. 10.
Al riguardo, il Comune ha dapprima rilasciato la concessione
edilizia in sanatoria in data 27.10.2008 n. 94087, che poi
ha però annullato in autotutela, con ordinanza dirigenziale
28.11.2012. n. 90422, a seguito di accertamenti successivi,
effettuati a seguito di denuncia presentata da Fu.Sa..
Quindi, con ordinanza n. 44 del 12.12.2012, impugnata con
motivi aggiunti, è stato fatto divieto a Cr.Al. (che nel
frattempo ha acquistato l’immobile oggetto di causa) di
proseguire l’attività commerciale svolta nello stesso
immobile, in quanto privo di titolo edilizio.
Poiché quest’ultimo atto è stato impugnato per vizi derivati
dall’illegittimità dell’annullamento in autotutela della
concessione in sanatoria e del certificato di agibilità, ai
fini della valutazione del merito del complessivo gravame, è
preminente la trattazione sulla legittimità dell’ordinanza
n. 90422/2012 (di annullamento della concessione edilizia in
sanatoria), poiché la legittimità, o meno, di quest’ultima
comporta la legittimità, o meno, dell’ordinanza n. 44/2012.
A tal proposito, va osservato che la domanda di condono
presentata da Cr.An., per poter essere accolta, deve avere
ad oggetto un’opera ultimata, sia pure abusivamente, entro
la data del 01.10.1983, come prescritto dall’art. 31 della
L. 47/1985, con la precisazione che “si intendono
ultimati gli edifici nei quali sia stato eseguito il rustico
e completata la copertura, ovvero, quanto alle opere interne
agli edifici già esistenti e a quelle non destinate alla
residenza, quando esse siano state completate funzionalmente”.
Dunque, il presupposto indispensabile per potersi avvalere
dei benefici della legge suddetta è ravvisabile
nell’ultimazione dei lavori di costruzione entro la data del
01.10.1983.
Detta circostanza è stata però confutata, con argomentazioni
condivisibili, dal verificatore ing. An.Dr., il quale ha
attestato che l’opera è stata realizzata addirittura dopo la
presentazione della domanda di sanatoria e comunque
successivamente all’anno 2001 e che l’immobile, a quell’epoca,
era di dimensione differente rispetto allo stato
rappresentato in progetto.
Questo, sulla scorta delle aerofotogrammetrie acquisite
presso l’Amministrazione e delle immagini presenti sul
programma Google Earth, i cui fotogrammi costituiscono prove
documentali pienamente utilizzabili anche in sede penale (cfr.
Cass. pen., Sez. III, 15.09.2017 n. 48178).
Per altro, a fronte di ciò, parte ricorrente non ha fornito
alcuna dimostrazione contraria, almeno in ordine alle
effettive dimensioni dell’immobile ed all’epoca del suo
completamento, lamentando soltanto l’inattendibilità della
verificazione suddetta; quando invece incombe sul
ricorrente, che agisce e afferma, la prova documentata
dell'anteriorità, rispetto alla data finale prevista dalla
legge sul condono edilizio, dell'ultimazione dei lavori
abusivi. In mancanza di tale prova, la tesi
dell’amministrazione sorregge adeguatamente la legittimità
del diniego di condono impugnato (cfr. TAR Campania Napoli,
Sez. III, 20.11.2012 n. 4638).
Opera, quindi, nella fattispecie, il pacifico principio
secondo cui, allorquando una concessione edilizia in
sanatoria sia stata ottenuta in base ad una falsa, o
comunque erronea, rappresentazione della realtà materiale, è
consentito alla P.A. esercitare il proprio potere di
autotutela, ritirando l’atto, senza necessità di esternare
alcuna particolare ragione di pubblico interesse che, in
tale ipotesi, deve ritenersi sussistente in re ipsa (cfr.
Cons. Stato, Sez. IV, 08.01.2013 n. 39).
Donde, l’annullamento anche del certificato di agibilità,
che non può essere rilasciato per fabbricati abusivi e non
condonati (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 07.03.2018
n. 1458).
La definizione sfavorevole del ricorso principale n.
1377/2012 determina, infine, anche il rigetto del ricorso n.
1388/2014 (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 25.09.2018 n. 1604 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
SICUREZZA LAVORO:
APPALTI - SICUREZZA SUL LAVORO - Appalto di lavori di tipo
domestico, quali ristrutturazioni, pitturazione, ecc. -
Responsabilità del committente dei lavori - Onere di
vigilanza - Dovere di sicurezza gravante sul datore di
lavoro - Assenza della redazione di un documento di
valutazione dei rischi o della nomina di un responsabile dei
lavori - Configurabilità della responsabilità - Valutazione
dei rischi e organizzazione delle opere - Committente
corresponsabile con l'appaltatore - Giurisprudenza - Art. 26
e 90 d.lgs. 81/2008.
In tema di sicurezza sul lavoro, dal
committente non può esigersi un controllo pressante,
continuo e capillare sull'organizzazione e sull'andamento
dei lavori con la conseguenza che ai fini della
configurazione della responsabilità del committente, occorre
verificare in concreto quale sia stata l'incidenza della sua
condotta nell'eziologia dell'evento, a fronte delle capacità
organizzative della ditta scelta per l'esecuzione dei
lavori, avuto riguardo alla specificità dei lavori da
eseguire, ai criteri seguiti dallo stesso committente per la
scelta dell'appaltatore o del prestatore d'opera, alla sua
ingerenza nell'esecuzione dei lavori oggetto di appalto o
del contratto di prestazione d'opera, nonché alla agevole ed
immediata percepibilità da parte del committente di
situazioni di pericolo
(Cass. Sez. 4, n. 3563 del 18/01/2012 - dep. 30/01/2012,
Marangio e altri; nel medesimo senso Sez. 4, Sentenza n.
44131 del 15/07/2015 Ud. (dep. 02/11/2015); Sez. 4, n. 27296
del 02/12/2016 - dep. 31/05/2017, Vettor).
Pertanto, pur dovendosi escludere che
incomba sul committente -ed ancor di più su un committente
che può, in qualche modo, definirsi 'non professionale',
come quello che appalta lavori di tipo domestico, quali
ristrutturazioni, pitturazione, ecc.- un onere di vigilanza
continua sullo svolgimento delle opere, deve affermarsi che
il medesimo, in assenza della redazione di un documento di
valutazione dei rischi o della nomina di un responsabile dei
lavori, cui sia conferito anche il compito di realizzare la
sicurezza del cantiere prima della realizzazione delle
opere, ha l'onere generalissimo di mettere l'appaltatore
nella condizione di operare in sicurezza.
E ciò, non solo segnalando i pericoli, ma provvedendo alla
loro eliminazione prima dell'inizio dell'attività, così da
consentire a colui al quale siano affidati i lavori di
assumere, anche in qualità di datore di lavoro (quando non
operi come artigiano) i rischi proprii delle lavorazioni e
non i rischi derivanti dalla conformazione dei luoghi.
Solo, infatti, nell'ipotesi in cui l'oggetto dell'incarico
-dei pur minimi interventi consistenti nella pitturazione di
un'abitazione- includa la messa in sicurezza dei luoghi sui
quali insisterà il cantiere, così da consegnarlo agli
esecutori scevro da ogni pericolo, è possibile per il
committente andare esente da responsabilità, che, al
contrario, resta in capo a lui quando l'incarico o gli
incarichi siano conferiti per la sola esecuzione delle
opere, non estendendosi espressamente all'eliminazione dei
rischi preesistenti, al fine della consegna dei luoghi in
piena sicurezza (Corte
di Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza 24.09.2018 n. 40922 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 19, comma 4, della legge n. 241/1990 –il quale
prevede che “decorso il termine per l’adozione dei
provvedimenti (inibitori, ndr.) di cui al comma 3, primo
periodo, ovvero di cui al comma 6-bis, l’amministrazione
competente adotta comunque i provvedimenti previsti dal
medesimo comma 3 in presenza delle condizioni previste
dall’art. 21-nonies”– deve essere interpretato
conformemente ai principi generali vigenti in materia di autotutela decisoria e, pertanto, quale fattispecie
normativa che estende ai titoli abilitativi privati, come la
DIA e la SCIA, il regime generale dell’annullamento
d’ufficio, beninteso incidente sugli effetti discendenti da
tali titoli e non sull’atto amministrativo da rimuovere, di
per sé inesistente.
Del resto, non si ravvisano alcun
fondamento normativo né ragioni dogmatiche che inducano a
ritenere i titoli abilitativi privati, a differenza dei
titoli abilitativi rilasciati dalla p.a., non soggetti al
potere di annullamento in autotutela, non potendosi
riconoscere all’affidamento riposto nella legittimità di una
DIA o di una SCIA una tutela maggiore di quella che
l’ordinamento riconosce ad analogo affidamento suscitato da
un titolo di fonte provvedimentale.
---------------
3.2 Ebbene, con una prima censura, parte ricorrente sostiene che la
DIA, avendo natura di atto privato volto a comunicare
l’intenzione di intraprendere un’attività direttamente
ammessa dalla legge, non è assoggettabile al potere di
annullamento in autotutela, che riguarderebbe solo formali
provvedimenti amministrativi.
La doglianza non merita condivisione.
L’art. 19, comma 4, della legge n. 241/1990 –il quale
prevede che “decorso il termine per l’adozione dei
provvedimenti (inibitori, ndr.) di cui al comma 3, primo
periodo, ovvero di cui al comma 6-bis, l’amministrazione
competente adotta comunque i provvedimenti previsti dal
medesimo comma 3 in presenza delle condizioni previste
dall’art. 21-nonies”– deve essere interpretato
conformemente ai principi generali vigenti in materia di autotutela decisoria e, pertanto, quale fattispecie
normativa che estende ai titoli abilitativi privati, come la
DIA e la SCIA, il regime generale dell’annullamento
d’ufficio, beninteso incidente sugli effetti discendenti da
tali titoli e non sull’atto amministrativo da rimuovere, di
per sé inesistente.
Del resto, non si ravvisano alcun
fondamento normativo né ragioni dogmatiche che inducano a
ritenere i titoli abilitativi privati, a differenza dei
titoli abilitativi rilasciati dalla p.a., non soggetti al
potere di annullamento in autotutela, non potendosi
riconoscere all’affidamento riposto nella legittimità di una
DIA o di una SCIA una tutela maggiore di quella che
l’ordinamento riconosce ad analogo affidamento suscitato da
un titolo di fonte provvedimentale (cfr. TAR Puglia Bari,
Sez. II, 20.02.2017 n. 158) (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 24.09.2018 n. 5574 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il fattore tempo
preso in considerazione dall’art. 21-nonies della legge n.
241/1990 è da intendere in un’ottica non parametrica ma
relazionale, riferita al complesso delle circostanze
rilevanti nella singola situazione di fatto.
E' sicuramente vero che il termine
ridotto di 18 mesi si applica a tutti gli atti aventi
funzione ampliativo/abilitativa della sfera giuridica
privata, inclusa la DIA, e che rispetto agli atti adottati
anteriormente all’attuale versione dell’art. 21-nonies della
legge n. 241/1990, il termine di 18 mesi va computato con
decorrenza dalla data di entrata in vigore della novella
introdotta dalla legge n. 124/2015 (28.08.2015) e salva,
comunque, l’operatività del “termine ragionevole” già
previsto dall’originaria versione dell’art. 21-nonies cit..
E’ parimenti vero ed incontrovertibile che il provvedimento
di autotutela in questione è intervenuto (nel caso di
specie) abbondantemente oltre sia il termine di 18 mesi
dall’entrata in vigore della legge n. 124/2015 sia il
termine ragionevole dall’adozione dell’atto, individuabile
in 10 anni con riferimento al termine ordinario di
prescrizione.
Tuttavia, lo sforamento di entrambi i suddetti termini di
legge, con conseguente irragionevolezza delle modalità
temporali di intervento, non implica di per sé
l’illegittimità del provvedimento di autotutela, ma impone
all’amministrazione procedente di munire tale provvedimento
di una motivazione rafforzata circa la persistente
concretezza e attualità dell’interesse pubblico alla
rimozione dell’atto di primo grado.
Invero, come ha avuto modo di chiarire l’Adunanza Plenaria
del Consiglio di Stato in una recente pronuncia resa proprio
in materia di autotutela in ambito edilizio, il fattore
tempo preso in considerazione dall’art. 21-nonies della
legge n. 241/1990 è da intendere in un’ottica non
parametrica ma relazionale, riferita al complesso delle
circostanze rilevanti nella singola situazione di fatto.
Ne discende, secondo tale pronuncia, che il decorso di un
considerevole lasso di tempo dal rilascio del titolo
edilizio, laddove comporti la violazione del criterio di
ragionevolezza del termine (prefissato o meno dal
legislatore nella sua misura), non esaurisce il potere di
annullare in autotutela il titolo medesimo, ma piuttosto
“onera l’amministrazione del compito di valutare
motivatamente se l’annullamento risponda ancora a un
effettivo e prevalente interesse pubblico di carattere
concreto e attuale”.
---------------
4. Con una seconda articolata censura, la ricorrente
stigmatizza la tardività del provvedimento di autotutela,
intervenuto a distanza di 15 anni dal perfezionamento della
DIA e, quindi, oltre il termine di 18 mesi dall’entrata in
vigore della legge n. 124/2015, e comunque ben dopo il
termine ragionevole dall’adozione dell’atto, in violazione
della tempistica fissata dall’art. 21-nonies della legge n.
241/1990.
La censura, così come formulata, non convince.
L’art. 21-nonies, comma 1, della legge n. 241/1990 così
recita (per la parte di odierno interesse): “Il
provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi
dell’articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo
articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d’ufficio,
sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un
termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi
dal momento dell’adozione dei provvedimenti di
autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici
(periodo introdotto dalla legge n. 124/2015, ndr.), inclusi
i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi
dell’articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei
destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha
emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge.”.
Orbene, è sicuramente vero, in virtù di ormai consolidati
orientamenti, che il termine ridotto di 18 mesi si applica a
tutti gli atti aventi funzione ampliativo/abilitativa della
sfera giuridica privata, inclusa la DIA, e che rispetto agli
atti adottati anteriormente all’attuale versione dell’art.
21-nonies della legge n. 241/1990 (come quello di specie),
il termine di 18 mesi va computato con decorrenza dalla data
di entrata in vigore della novella introdotta dalla legge n.
124/2015 (28.08.2015) e salva, comunque, l’operatività
del “termine ragionevole” già previsto dall’originaria
versione dell’art. 21-nonies cit. (cfr. Consiglio di Stato,
Sez. VI, 13.07.2017 n. 3462; Consiglio di Stato, Sez. V,
19.01.2017 n. 250; Consiglio di Stato, Sez. VI, 31.08.2016 n. 3762).
E’ parimenti vero ed incontrovertibile che il provvedimento
di autotutela in questione è intervenuto abbondantemente
oltre sia il termine di 18 mesi dall’entrata in vigore della
legge n. 124/2015 sia il termine ragionevole dall’adozione
dell’atto, individuabile in 10 anni con riferimento al
termine ordinario di prescrizione.
Tuttavia, lo sforamento di entrambi i suddetti termini di
legge, con conseguente irragionevolezza delle modalità
temporali di intervento, non implica di per sé
l’illegittimità del provvedimento di autotutela, ma impone
all’amministrazione procedente di munire tale provvedimento
di una motivazione rafforzata circa la persistente
concretezza e attualità dell’interesse pubblico alla
rimozione dell’atto di primo grado.
Invero, come ha avuto modo di chiarire l’Adunanza Plenaria
del Consiglio di Stato in una recente pronuncia resa proprio
in materia di autotutela in ambito edilizio (sentenza n. 8
del 17.10.2017), perfettamente estensibile al caso di
specie, il fattore tempo preso in considerazione dall’art.
21-nonies della legge n. 241/1990 è da intendere in
un’ottica non parametrica ma relazionale, riferita al
complesso delle circostanze rilevanti nella singola
situazione di fatto.
Ne discende, secondo tale pronuncia,
che il decorso di un considerevole lasso di tempo dal
rilascio del titolo edilizio, laddove comporti la violazione
del criterio di ragionevolezza del termine (prefissato o
meno dal legislatore nella sua misura), non esaurisce il
potere di annullare in autotutela il titolo medesimo, ma
piuttosto “onera l’amministrazione del compito di valutare
motivatamente se l’annullamento risponda ancora a un
effettivo e prevalente interesse pubblico di carattere
concreto e attuale” (nello stesso senso cfr. Consiglio di
Stato, Sez. VI, n. 3462/2017 cit.).
In definitiva, proprio facendo tesoro del superiore
insegnamento, si deve concludere che la violazione della
tempistica di intervento prevista dalla disposizione
legislativa in commento non costituisce di per sé causa di
illegittimità del provvedimento di annullamento in
autotutela (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 24.09.2018 n. 5574 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
E' principio inveterato che nel caso di contrasto
tra planimetrie/grafici e relazioni descrittive di un piano
o di un titolo edilizio, deve essere accordata preminenza ai
primi, dal momento che la volontà precettiva
dell’amministrazione deve intendersi racchiusa nella
planimetria o nel grafico, che fissano le caratteristiche
tecniche dell’intervento pianificatorio o edilizio
progettato, mentre la relazione descrittiva riveste solo
funzione illustrativa ed integrativa dell’opera da
realizzare, perché possa essere correttamente eseguita.
---------------
5. Con altra censura, meglio sviluppata nei successivi
scritti difensivi, la società ricorrente denuncia la carenza
di istruttoria in cui sarebbe incorsa l’amministrazione nel
qualificare la DIA come atto fondato su una falsa
rappresentazione dei fatti, giacché, a suo dire, in entrambi
i casi rilevati (cambio di destinazione d’uso e maggiore
volumetria) non si tratterebbe di una falsa rappresentazione
ma, al più, di un contrasto tra parte analitica e parte
grafica del titolo edilizio.
Ad ogni modo, secondo la sua prospettazione, nemmeno sarebbe individuabile un contrasto,
e ciò per le due seguenti ragioni:
1) quanto alla
destinazione d’uso alberghiera, essa era chiaramente
evincibile, nonostante qualche imprecisione della relazione
descrittiva, dagli elaborati grafici, tanto vero che
l’amministrazione comunale non ha mai messo in discussione,
nel rilascio dei successivi provvedimenti attinenti
all’immobile, quali il certificato di agibilità e
l’autorizzazione alberghiera, che i lavori assentiti con la
DIA fossero finalizzati alla creazione di una struttura
ricettiva;
2) quanto ai dati volumetrici, gli elaborati
grafici danno conto che è stata rispettata l’altezza interna
originaria del piano terra pari a 3,30 metri, mentre
l’altezza di 4,50 metri individuata dal Comune è quella
relativa all’estradosso del piano terra stesso.
La doglianza, come complessivamente dedotta, è fondata e
merita accoglimento.
Il Collegio condivide i rilievi attorei sulla insussistenza
in concreto di una falsa rappresentazione dei fatti,
ritenendo al riguardo dirimenti le seguenti osservazioni:
i)
l’incongruenza tra parte analitica e parte grafica della DIA
–giustificabile sulla scorta della considerazione che nel
2002, prima dell’introduzione dell’art. 23-ter del d.P.R. n.
380/2001 ad opera del decreto legge n. 133/2014 (convertito
nella legge n. 164/2014), non era stato ancora
legislativamente sancito che la categoria funzionale
turistico-ricettiva fosse distinta da quella residenziale e
non costituisse una sua specificazione– era agevolmente
superabile dando prevalenza agli elaborati grafici, i quali
senza alcun dubbio rappresentavano una struttura alberghiera
(e ciò per stessa ammissione dell’amministrazione comunale).
Invero, è principio inveterato che nel caso di contrasto tra
planimetrie/grafici e relazioni descrittive di un piano o di
un titolo edilizio, deve essere accordata preminenza ai
primi, dal momento che la volontà precettiva
dell’amministrazione deve intendersi racchiusa nella
planimetria o nel grafico, che fissano le caratteristiche
tecniche dell’intervento pianificatorio o edilizio
progettato, mentre la relazione descrittiva riveste solo
funzione illustrativa ed integrativa dell’opera da
realizzare, perché possa essere correttamente eseguita (cfr.
Cass. Civ., Sez. II, 04.05.1994 n. 4280; Consiglio di
Stato, Sez. V, 02.04.1966 n. 563 e 26.05.1962 n.
460).
Ne discende che l’incongruenza era solo apparente e
che la DIA in questione non poteva non configurarsi come
finalizzata ad assentire, attraverso le opere di risistemazione previste, il cambio di destinazione d’uso da
edificio residenziale in struttura ricettiva. D’altronde, lo
stesso comportamento successivo dell’amministrazione
comunale conferma l’irrilevanza del contrasto tra parte
grafica e parte descrittiva e la circostanza, pacifica anche
per l’autorità pubblica, che la DIA ricomprendesse la
trasformazione del fabbricato in albergo: è a tal riguardo
significativo il rilascio, nel corso del 2004, del
certificato di agibilità per edificio “con destinazione
d’uso ricettivo-alberghiera” e della stessa autorizzazione
alberghiera;
ii) come irrefutabilmente emerge dalla semplice
visione degli elaborati grafici acclusi alla DIA e come è
suffragato dalla perizia tecnica di parte depositata in
atti, rimasta nello specifico incontestata, l’altezza
interna del piano terra si attesta a 3,30 metri, mentre è
pari a 4,55 metri (e non a 4,50, come rilevato dal Comune)
l’altezza dell’estradosso del medesimo piano terra, con il
che resta sconfessato per tabulas il riscontrato aumento
volumetrico;
iii) nell’inconcessa ipotesi di insuperabilità
dell’incongruenza tra parte analitica e parte grafica della
DIA, in ogni caso si tratterebbe di contrasto tra elaborati
costitutivi di un titolo edilizio, con conseguente
incertezza/contraddittorietà della portata abilitativa di
quest’ultimo, contrasto giammai equiparabile alla falsa
rappresentazione dei fatti, che presuppone piuttosto la
coerenza intrinseca degli elaborati progettuali e la loro
non conformità alla situazione reale esistente.
In definitiva, è destinato a perdere consistenza, sotto ogni
punto di vista, l’assunto dell’amministrazione che la DIA in
questione travisasse fraudolentemente la realtà dei fatti (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 24.09.2018 n. 5574 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Qualificazione
di una sostanza o un oggetto quale rifiuto - Verifica dei
dati obiettivi - Condotta del detentore o obblighi -
Riutilizzazione economica - Ininfluenza - Sequestro
preventivo - Artt. 183 e 256, comma 2 d.lgs.152/2006.
In tema di rifiuti, la qualificazione di
una sostanza o un oggetto quale rifiuto consegue a dati
obiettivi che definiscano la condotta del detentore o un
obbligo al quale lo stesso è comunque tenuto, quello,
appunto, di disfarsene, con conseguente esclusione della
rilevanza di valutazioni soggettive ed indipendentemente da
una eventuale riutilizzazione economica, potendosi tali dati
ricavare anche dalla natura della sostanza o dell'oggetto,
dalla sua origine, dalle condizioni, dalla conseguente
necessità di successive attività di gestione e da ogni altro
elemento idoneo a ricondurlo nell'ambito della definizione
datane dall'art. 183, comma 1, lett. a), d.lgs. 152/2006.
RIFIUTI - Natura di rifiuto di un determinato materiale -
Effetti dell'accordo di cessione a terzi - La
riutilizzazione economica non esclude necessariamente la
natura di rifiuto - Giurisprudenza.
Secondo la definizione fornita dall'art.
183, comma 1, lett. a), d.lgs. 152/2006, nell'attuale
formulazione, deve ritenersi rifiuto «qualsiasi sostanza od
oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione o
abbia l'obbligo di disfarsi». Inoltre, il fatto che una
sostanza o un oggetto siano suscettibili di riutilizzazione
economica non esclude necessariamente la loro natura di
rifiuto.
Pertanto, la natura di rifiuto di un determinato materiale
non viene meno in ragione di un accordo di cessione a terzi,
né del valore economico dei beni stessi riconosciuto nel
medesimo accordo, occorrendo fare riferimento alla condotta
e volontà del cedente di disfarsi dei beni, e non
all'utilità che potrebbe ritrarne il cessionario
(Sez. 3, n. 5442 del 15/12/2016 (dep. 2017), P.M. in proc.
Zantonello).
Inoltre, nel verificare la natura di
rifiuto di un determinato materiale, si deve evitare di
porsi nella sola ottica del cessionario del prodotto e della
valenza economica che allo stesso egli attribuisce (sì da
esser disposto a pagare per ottenerlo), occorrendo, per
contro, verificare "a monte" il rapporto tra il prodotto
medesimo ed il suo produttore e, soprattutto, la
volontà/necessità di questi di disfarsi del bene, poiché, si
è aggiunto, ponendosi in un ottica diversa, verrebbero
facilmente a crearsi pericolose aree di impunità, nelle
quali numerose condotte, oggettivamente integranti una
fattispecie di reato, ben potrebbero esser dissimulate da
accordi -dolosamente preordinati- volti a privare il bene di
una particolare qualità, ex se rilevante sotto il profilo
penale, invero già "a monte" acquisita ed insuscettibile di
essere cancellata
(Sez. 3, n. 15447 del 20/01/2015, Napolitano) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.09.2018 n. 40687 - link a www.ambientediritto.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Sopraelevazioni e decoro architettonico: chiarimenti dalla
Cassazione.
Sulla distinzione tra aspetto architettonico e decoro
architettonico.
Con l'ordinanza
12.09.2018 n. 22156, la Corte di
Cassazione (VI Sez. civile) ricorda che “l'art. 1127
c.c. sottopone il diritto di sopraelevazione del
proprietario dell'ultimo piano dell'edificio ai limiti
dettati dalle condizioni statiche dell'edificio che non la
consentono, ovvero dall'aspetto architettonico dell'edificio
stesso, oppure dalla conseguente notevole diminuzione di
aria e luce per i piani sottostanti”.
L'aspetto architettonico, cui si riferisce l'art. 1127,
comma 3, c.c., quale limite alle sopraelevazioni, “sottende,
peraltro, una nozione sicuramente diversa da quella di
decoro architettonico, contemplata dagli artt. 1120, comma
4, 1122, comma 1, e 1122-bis c.c., dovendo l'intervento
edificatorio in sopraelevazione comunque rispettare lo stile
del fabbricato e non rappresentare una rilevante disarmonia
in rapporto al preesistente complesso, tale da pregiudicarne
l'originaria fisionomia ed alterare le linee impresse dal
progettista, in modo percepibile da qualunque osservatore.
Il giudizio relativo all'impatto della sopraelevazione
sull'aspetto architettonico dell'edificio va condotto, in
ogni modo, esclusivamente in base alle caratteristiche
stilistiche visivamente percepibili dell'immobile
condominiale, e verificando l'esistenza di un danno
economico valutabile, mediante indagine di fattodemandata al
giudice del merito, il cui apprezzamento sfugge al sindacato
di legittimità, se, come nel caso in esame, congruamente
motivato”.
“D'altro canto”, ricorda la Cassazione, “questa Corte ha
anche affermato che le nozioni di aspetto architettonico ex
art. 1127 c.c. e di decoro architettonico ex art. 1120 c.c.,
pur differenti, sono strettamente complementari e non
possono prescindere l'una dall'altra, sicché anche
l'intervento edificatorio in sopraelevazione deve rispettare
lo stile del fabbricato, senza recare una rilevante
disarmonia al complesso preesistente, sì da pregiudicarne
l'originaria fisionomia ed alterarne le linee impresse dal
progettista”.
Ora, “perché rilevi la tutela dell'aspetto architettonico di
un fabbricato, agli effetti, come nella specie, dell'art.
1127, comma 3, c.c., non occorre che l'edificio abbia un
particolare pregio artistico, ma soltanto che questo sia
dotato di una propria fisionomia, sicché la sopraelevazione
realizzata induca in chi guardi una chiara sensazione di
disarmonia. Perciò deve considerarsi illecita ogni
alterazione produttiva di tale conseguenza, anche se la
fisionomia dello stabile risulti già in parte lesa da altre
preesistenti modifiche, salvo che lo stesso, per le modalità
costruttive o le modificazioni apportate, non si presenti in
uno stato di tale degrado complessivo da rendere ininfluente
allo sguardo ogni ulteriore intervento” (commento tratto da
www.casaeclima.com).
---------------
MASSIMA
E' noto come l'art. 1127 c.c. sottopone il diritto di
sopraelevazione del proprietario dell'ultimo piano
dell'edificio ai limiti dettati dalle condizioni statiche
dell'edificio che non la consentono, ovvero dall'aspetto
architettonico dell'edificio stesso, oppure dalla
conseguente notevole diminuzione di aria e luce per i piani
sottostanti.
L'aspetto architettonico, cui si
riferisce l'art. 1127, comma 3, c.c., quale limite alle
sopraelevazioni, sottende, peraltro, una nozione sicuramente
diversa da quella di decoro architettonico,
contemplata dagli artt. 1120, comma 4, 1122, comma 1, e
1122-bis c.c., dovendo l'intervento edificatorio in
sopraelevazione comunque rispettare lo stile del fabbricato
e non rappresentare una rilevante disarmonia in rapporto al
preesistente complesso, tale da pregiudicarne l'originaria
fisionomia ed alterare le linee impresse dal progettista, in
modo percepibile da qualunque osservatore.
Il giudizio relativo all'impatto della sopraelevazione
sull'aspetto architettonico dell'edificio va condotto, in
ogni modo, esclusivamente in base alle caratteristiche
stilistiche visivamente percepibili dell'immobile
condominiale, e verificando l'esistenza di un danno
economico valutabile, mediante indagine di fatto demandata
al giudice del merito, il cui apprezzamento sfugge al
sindacato di legittimità, se, come nel caso in esame,
congruamente motivato
(cfr. Cass. Sez. 6-2, 28/06/2017, n. 16258; Cass. Sez. 2,
15/11/2016, n. 23256; Cass. Sez. 2, 24/04/2013, n. 10048;
Cass. Sez. 2, 07/02/2008, n. 2865; Cass. Sez. 2, 22/01/2004,
n. 1025; Cass. Sez. 2, 27/04/1989, n. 1947).
D'altro canto, questa Corte ha anche affermato che
le nozioni di aspetto architettonico ex art.
1127 c.c. e di decoro architettonico ex art. 1120 c.c.,
pur differenti, sono strettamente complementari e non
possono prescindere l'una dall'altra, sicché anche
l'intervento edificatorio in sopraelevazione deve rispettare
lo stile del fabbricato, senza recare una rilevante
disarmonia al complesso preesistente, sì da pregiudicarne
l'originaria fisionomia ed alterarne le linee impresse dal
progettista (Cass.
Sez. 6 - 2, 25/08/2016, n. 17350).
Ora, perché rilevi la tutela dell'aspetto
architettonico di un fabbricato, agli effetti, come nella
specie, dell'art. 1127, comma 3, c.c., non occorre che
l'edificio abbia un particolare pregio artistico, ma
soltanto che questo sia dotato di una propria fisionomia,
sicché la sopraelevazione realizzata induca in chi guardi
una chiara sensazione di disarmonia.
Perciò deve considerarsi illecita ogni alterazione
produttiva di tale conseguenza, anche se la fisionomia dello
stabile risulti già in parte lesa da altre preesistenti
modifiche, salvo che lo stesso, per le modalità costruttive
o le modificazioni apportate, non si presenti in uno stato
di tale degrado complessivo da rendere ininfluente allo
sguardo ogni ulteriore intervento
(Corte di Cassazione, Sez. VI civile,
ordinanza
12.09.2018 n. 22156). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Tutela dell'aspetto architettonico di un fabbricato -
Nozioni di aspetto architettonico e di decoro architettonico
- Diversità e complementarietà
- Qualifiche e limiti alle sopraelevazioni - Distonia con i
ritmi architettonici del fabbricato - Fattispecie:
Demolizione di una veranda costruita sul terrazzo di
copertura - Giurisprudenza - Artt. 1120 e 1127 c.c..
Le nozioni di aspetto architettonico ex
art. 1127 c.c. e di decoro architettonico ex art. 1120 c.c.,
pur differenti, sono strettamente complementari e non
possono prescindere l'una dall'altra, sicché anche
l'intervento edificatorio in sopraelevazione deve rispettare
lo stile del fabbricato, senza recare una rilevante
disarmonia al complesso preesistente, sì da pregiudicarne
l'originaria fisionomia ed alterarne le linee impresse dal
progettista (Cass.
Sez. 6 - 2, 25/08/2016, n. 17350).
Pertanto, l'aspetto architettonico, cui si
riferisce l'art. 1127, comma 3, c.c., quale limite alle
sopraelevazioni, sottende, peraltro, una nozione sicuramente
diversa da quella di decoro architettonico, contemplata
dagli artt. 1120, comma 4, 1122, comma 1, e 1122-bis c.c.,
dovendo l'intervento edificatorio in sopraelevazione
comunque rispettare lo stile del fabbricato e non
rappresentare una rilevante disarmonia in rapporto al
preesistente complesso, tale da pregiudicarne l'originaria
fisionomia ed alterare le linee impresse dal progettista, in
modo percepibile da qualunque osservatore.
Il giudizio relativo all'impatto della sopraelevazione
sull'aspetto architettonico dell'edificio va condotto, in
ogni modo, esclusivamente in base alle caratteristiche
stilistiche visivamente percepibili dell'immobile
condominiale, e verificando l'esistenza di un danno
economico valutabile, mediante indagine di fatto demandata
al giudice del merito, il cui apprezzamento sfugge al
sindacato di legittimità, se, come nel caso in esame,
congruamente motivato
(cfr. Cass. Sez. 6-2, 28/06/2017, n. 16258; Cass. Sez. 2,
15/11/2016, n. 23256; Cass. Sez. 2, 24/04/2013, n. 10048;
Cass. Sez. 2, 07/02/2008, n. 2865; Cass. Sez. 2, 22/01/2004,
n. 1025; Cass. Sez. 2, 27/04/1989, n. 1947).
Ora, perché rilevi la tutela dell'aspetto
architettonico di un fabbricato, agli effetti, come nella
specie, dell'art. 1127, comma 3, c.c., non occorre che
l'edificio abbia un particolare pregio artistico, ma
soltanto che questo sia dotato di una propria fisionomia,
sicché la sopraelevazione realizzata induca in chi guardi
una chiara sensazione di disarmonia. Perciò deve
considerarsi illecita ogni alterazione produttiva di tale
conseguenza, anche se la fisionomia dello stabile risulti
già in parte lesa da altre preesistenti modifiche, salvo che
lo stesso, per le modalità costruttive o le modificazioni
apportate, non si presenti in uno stato di tale degrado
complessivo da rendere ininfluente allo sguardo ogni
ulteriore intervento (Corte
di Cassazione, Sez. VI civile,
ordinanza 12.09.2018 n. 22156 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini dell'applicazione della normativa
codicistica e regolamentare in materia di distanze tra
edifici, per nuova costruzione deve intendere non solo la
realizzazione a fundamentis di un fabbricato ma anche
qualsiasi modificazione nella volumetria di un fabbricato
precedente che ne comporti l'aumento della sagoma
d'ingombro, in tal guisa direttamente incidendo sulla
situazione degli spazi tra gli edifici esistenti, e ciò
anche indipendentemente dalla realizzazione o meno d'una
maggior volumetria e/o dall'utilizzabilità della stessa a
fini abitativi.
Per il che si è ripetutamente ritenuto che la
sopraelevazione, appunto, costituisca, a tutti gli effetti,
nuova costruzione.
---------------
Anche il secondo motivo di ricorso (con il quale è
lamentata la violazione e la falsa applicazione degli artt.
9, comma 2, D.M. 02.04.1968 n. 1444 e 21 delle NTA del PRG
del Comune di Aquilonia, oltre ad omessa, insufficiente e
contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della
controversia costituito dalla transazione conclusa fra le
parti il 30.11.1994, per avere la Corte di appello
erroneamente qualificato come nuova la costruzione in
questione, trattandosi in realtà -come emergerebbe da tutti
gli elaborati tecnici, di parte e di ufficio in atti- di
ricostruzione con adeguamento sismico funzionale ex legge n.
219 del 1981, per essere stata realizzata attraverso un iter
particolarmente elaborato sulla scorta delle concessioni n.
13/1987, n. 16/1993, n. 4/1994 e n. 10/1995, quest'ultima in
particolare avrebbe recepito in toto la transazione
intervenuta fra le parti. Prosegue il ricorrente criticando
la sentenza per avere svilito il valore e la portata della
transazione) è in parte infondato e in parte inammissibile.
Questa Corte ha in più occasioni evidenziato come, ai fini
dell'applicazione della normativa codicistica e
regolamentare in materia di distanze tra edifici, per nuova
costruzione debbasi intendere non solo la realizzazione a
fundamentis di un fabbricato ma anche qualsiasi
modificazione nella volumetria di un fabbricato precedente
che ne comporti l'aumento della sagoma d'ingombro, in tal
guisa direttamente incidendo sulla situazione degli spazi
tra gli edifici esistenti, e ciò anche indipendentemente
dalla realizzazione o meno d'una maggior volumetria e/o
dall'utilizzabilità della stessa a fini abitativi; per il
che si è ripetutamente ritenuto che la sopraelevazione,
appunto, costituisca, a tutti gli effetti, nuova costruzione
(Cass. 18.05.2011 n. 10909; Cass. 11.06.1997 n. 5246; Cass.
15.06.1996 n. 5517), così come anche il solo rifacimento di
un tetto quando comporti l'aumento delle superfici esterne e
dei volumi interni, pur se dei piani sottostanti (Cass.
06.12.1995 n. 12582) (Corte di cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 13.08.2018 n. 20718). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non appaiono sufficienti
a comprovare in modo dirimente l’effettiva data di
ultimazione delle opere di realizzazione del capannone le
sole dichiarazioni rese da terzi in mancanza di altri
elementi precisi e concordanti che nel caso all’esame non
sono allegati.
---------------
La tesi secondo la quale il regolamento
edilizio comunale (che
subordinava espressamente al rilascio di specifica
autorizzazione l’esecuzione di interventi edilizi) dovrebbe ritenersi
abrogato dall’entrata in vigore della legge 17.08.1942,
n. 1150, non è corretta perché, come è stato condivisibilmente
affermato, non può fondatamente sostenersi
●
“che tale regolamento
fosse divenuto illegittimo e non più applicabile una volta
entrata in vigore la L. n. 1150/1942, che, all’art. 31,
limitava la necessità della licenza edilizia all’attività
edificatoria svolta all’interno dei centri abitati e nelle
zone di espansione previste dai piani. Infatti, la
previsione di una pianificazione e di un controllo
obbligatori limitata ai centri abitati, certamente non
impediva ai Comuni di estendere all’intero territorio
comunale (anticipando il contenuto della L. n. 765 del 1967)
il potere di pianificazione e controllo dell’attività
edilizia, con il conseguente obbligo di licenza, trattandosi
di una tipica prerogativa ad essi spettante”
ovvero, in altre parole, come è stato evidenziato
●
“nella detta
materia, a fronte di opinione minoritaria, che ritiene una
valenza abrogatrice svolta dalla legge 1150 del 1942 sui
precedenti regolamenti edilizi, la giurisprudenza
maggioritaria, negando tale portata abrogante o
disapplicativa della normativa edilizia, ha evidenziato
l’assoggettamento alla sanzione della demolizione per le
costruzioni realizzate in assenza del titolo edilizio, anche
se eseguite al di fuori del centro abitato o delle zone di
espansione, ove l’obbligo sia previsto dai regolamenti
edilizi comunali”.
---------------
Il ricorso è infondato e deve essere respinto.
Con il primo motivo l’Associazione ricorrente contesta il
diniego impugnato valorizzando la circostanza che il
capannone sarebbe stato costruito negli anni ’50 quando non
era necessario il rilascio di un titolo edilizio.
La censura non merita accoglimento.
Infatti va in primo luogo evidenziato che non appaiono
sufficienti a comprovare in modo dirimente l’effettiva data
di ultimazione delle opere di realizzazione del capannone le
sole dichiarazioni rese da terzi in mancanza di altri
elementi precisi e concordanti che nel caso all’esame non
sono allegati (cfr. Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 09.01.2017, n. 37; Consiglio di Stato, Sez. VI, 24.05.2016, n. 2179).
In secondo luogo va osservato che correttamente
l’Amministrazione comunale è giunta alla conclusione secondo
la quale, quand’anche il manufatto fosse stato
effettivamente realizzato in quegli anni, sarebbe stato
comunque necessario il rilascio di un titolo edilizio.
Infatti è vero che l’art. 31 della legge 17.08.1942, n.
1150, nel testo antecedente alle modifiche ad esso apportate
dall’articolo 10, della legge 06.08.1967, n. 765, in
linea generale prevedeva l’obbligo del previo rilascio della
licenza edilizia solo per interventi da eseguire nei centri
abitati.
Tuttavia, come controdedotto dal Comune e chiarito dalla
giurisprudenza (cfr. Tar Veneto, Sez. II, 21.03.2018, n.
326; id. 07.12.2015, n. 1296; id. 16.10.2015, n.
1058; id. 22.06.2015, n. 694; id. 24.03.2015, n. 342;
id. 30.01.2014, n. 121) è necessario tener conto che
quando il manufatto è stato realizzato era comunque in
vigore il regolamento edilizio comunale approvato
dall’Amministrazione Comunale con le determinazioni 12.11.1929 n. 50859 e 10.07.1930 n. 29512, il quale
all’art. 2 subordinava espressamente al rilascio di
specifica autorizzazione l’esecuzione di interventi edilizi
(sul punto della valenza del regolamento comunale si vedano
la pronunce Consiglio di Stato, Sez. VI, 28.07.2017, n.
3789; id. 28.01.2014, n. 435; Tar Lombardia, Milano,
Sez. II, 14.06.2017 n. 1354).
La tesi secondo la quale tale regolamento dovrebbe ritenersi
abrogato dall’entrata in vigore della legge 17.08.1942,
n. 1150, non è corretta perché, come è stato condivisibilmente affermato (cfr. la già citata sentenza Tar
Veneto, Sez. II, 30.01.2014, n. 121, confermata dalla
sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI, 26.07.2016, n.
3389) non può fondatamente sostenersi “che tale regolamento
fosse divenuto illegittimo e non più applicabile una volta
entrata in vigore la L. n. 1150/1942, che, all’art. 31,
limitava la necessità della licenza edilizia all’attività
edificatoria svolta all’interno dei centri abitati e nelle
zone di espansione previste dai piani. Infatti, la
previsione di una pianificazione e di un controllo
obbligatori limitata ai centri abitati, certamente non
impediva ai Comuni di estendere all’intero territorio
comunale (anticipando il contenuto della L. n. 765 del 1967)
il potere di pianificazione e controllo dell’attività
edilizia, con il conseguente obbligo di licenza, trattandosi
di una tipica prerogativa ad essi spettante” ovvero, in
altre parole, come è stato evidenziato (cfr. Consiglio di
Stato, Sez. VI, 07.08.2015, n. 3899) “nella detta
materia, a fronte di opinione minoritaria, che ritiene una
valenza abrogatrice svolta dalla legge 1150 del 1942 sui
precedenti regolamenti edilizi, la giurisprudenza
maggioritaria, negando tale portata abrogante o
disapplicativa della normativa edilizia, ha evidenziato
l’assoggettamento alla sanzione della demolizione per le
costruzioni realizzate in assenza del titolo edilizio, anche
se eseguite al di fuori del centro abitato o delle zone di
espansione, ove l’obbligo sia previsto dai regolamenti
edilizi comunali” (nello stesso senso della perdurante
efficacia dei regolamenti adottati prima della legge 17.08.1942, n. 1150, sulla base della legislazione
antecedente cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 05.01.2015, n. 13; Tar Liguria, Sez. I, 30.12.2014, n. 1975;
Consiglio di Stato, Sez. IV, 08.07.2008, n. 5141;
Consiglio di Stato, Sez. V, 14.03.1980, n. 287).
Infine per completezza va anche rilevato che in ogni caso il
piano regolatore del Comune di Venezia è stato adottato con
delibera Commissariale n. 15429 del 20.03.1959 in data
verosimilmente antecedente alla data dichiarata come quella
di realizzazione del manufatto quando il piano era efficace
perché in regime di salvaguardia nelle more
dell’approvazione in seguito avvenuta con DPR del 17.12.1962.
Pertanto, poiché non può ritenersi provata la data di
realizzazione dell’immobile dichiarata, e in ogni caso,
quand’anche provata, non verrebbe meno la necessità di
dimostrare l’esistenza di un titolo edilizio al fine di
dimostrarne la legittimità perché il Comune era dotato del
regolamento edilizio del 1929 e del piano regolatore del
1959, il primo motivo deve essere respinto (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 20.07.2018 n. 790 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO -
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - P.R.G. - Convenzioni di
lottizzazione e perfezionamento
del procedimento amministrativo - Modi di attuazione della
disciplina urbanistica - Potestà pubblicistica del Comune e
facoltà di liberarsi dal vincolo contrattuale.
Le convenzioni di lottizzazione non
costituiscono un vero e proprio contratto a prestazioni
corrispettive, mancando una <<vera e propria corrispondenza
di tipo contrattuale tra cessioni immobiliari, opere di
urbanizzazione, prestazioni e contributi vari, con cui si
attuano gli obblighi convenzionali, e il perfezionamento del
procedimento amministrativo finalizzato alla legittimazione
dell'attività lottizzatoria, atteso che tali convenzioni
addirittura «lasciano integra ... la potestà pubblicistica
del Comune in materia di disciplina del territorio e di
regolamentazione urbanistica, ivi compresa la facoltà di
liberarsi dal vincolo contrattuale, alla stregua di esigenze
sopravvenute».>> (Cass.,
sent. n. 15660 del 2014, che riporta a sua volta Cass., sent.
n. 6482 del 1995).
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - PIANI REGOLATORI
COMUNALI - Attuazione dei piani regolatori - Lottizzazione
di aree fabbricabili - Convenzioni di lottizzazione - Natura
- Rapporti tra le reciproche prestazioni - Compensazione -
Esclusione - "Datio in solutum" - Configurabilità -
Conseguenze - Riferimenti normativi: Cod. Civ. art. 1197,
Cod. Civ. art. 1242, Cod. Civ. art. 1443, Legge 17/08/1942
num. 1150 art. 28 CORTE COST., Legge 06/08/1967 num. 765,
DPR 26/10/1972 num. 633, art. 6, com. 3.
La convenzione di lottizzazione è un
accordo endoprocedimentale di diritto pubblico, volto al
conseguimento dell'autorizzazione urbanistica o edilizia,
sicché non costituisce un contratto a prestazioni
corrispettive, mancando tra le stesse una corrispondenza di
natura negoziale, con l'ulteriore conseguenza che è
inapplicabile l'istituto della compensazione, mentre può
operare la "datio in solutum", atteso che l'obbligazione
relativa all'esecuzione delle opere concordate con l'ente
territoriale si estingue solo al momento della realizzazione
delle medesime
(Cass. n. 6482/1995; Cass. n. 15660/2014).
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Qualificazione giuridica
delle convenzioni di urbanizzazione - Contratti con oggetto
pubblico - Negoziazione conclusa in condizioni di disparità
- Convenzione urbanistica ed esclusione di parità formale
tra i contraenti - Dottrina e giurisprudenza.
In ordine alla qualificazione giuridica
delle convenzioni di urbanizzazione è stato evidenziato, in
dottrina e giurisprudenza
(Cass., sent. n. 1366 del 1999 a proposito delle convenzioni
di lottizzazione con cessione di terreni per la
realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e
secondaria), che queste trovano
collocazione tra i contratti con oggetto pubblico.
Con esse l'Amministrazione dal suo canto realizza
determinate finalità istituzionali, solo strumentalmente
alle quali si originano a proprio favore diritti ed
obbligazioni a contenuto patrimoniale; per altro verso, ma
alle predette finalità asservite, sono precisati gli
obblighi che il privato assume, sicché si sostiene che le
convenzioni iscritte nella normativa pubblicistica relativa
alle opere di urbanizzazione, e, può aggiungersi, più in
generale nell'alveo dell'art. 11 della L. n. 241/1990, si
configurano quali accordi endoprocedimentali dal contenuto
vincolante, al fine dell'ottenimento di autorizzazioni
urbanistico-edilizie
(Cass., sent. n. 9314 del 2013).
In tal senso si è pertanto sostenuto che
tali negozi sono conclusi in condizioni di disparità,
laddove gli obblighi per la parte privata configurano atti
dovuti, prestazioni patrimoniali aventi natura di
obbligazioni propter rem
(cfr. Cass., sent. 16401 del 2013; sent. n. 11196 del 2007),
e di prestazione patrimoniale imposta, seguendo la
titolarità del bene, anziché il soggetto originario
contraente.
La sommatoria di queste considerazioni porta alla
conclusione secondo cui non è ravvisabile un rapporto
strettamente sinallagmatico tra soggetti stipulanti
convenzioni urbanistiche, ossia la natura del rapporto,
almeno in parte impositivo rinveniente dalla convenzione
urbanistica, esclude il piano di parità formale tra i
contraenti (cfr.
TAR-Lombardia, Sez. Brescia, sent. n. 784 del 2005; TAR
Marche, sent. n. 939 del 2003; TAR Sicilia, sez. Catania,
sent. n. 934 del 2011)
(Corte di Cassazione, Sez. V civile,
sentenza 22.06.2018 n. 16533 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI:
APPALTI - Obbligazione del
committente di pagare il corrispettivo - Appalti di opere
pubbliche soltanto all'esito del collaudo dell'opera -
Fattispecie: disciplina sull'IVA e limiti alla disciplina
sanzionatoria.
In tema di appalto l'obbligazione del
committente di pagare il corrispettivo sorge, a mente
dell'art. 1665, ult. co., c.c., soltanto all'esito
dell'accettazione dell'opera che, negli appalti di opere
pubbliche, può ritenersi avvenuta soltanto all'esito del
collaudo dell'opera stessa
(Cass., sent. n. 13075 del 2000).
Ancor più interessante, per quanto qui
rileva, è che nell'appalto il diritto dell'appaltatore al
corrispettivo sorge con l'accettazione dell'opera da parte
del committente, ai sensi dell'art. 1665, ult. co., c.c. , e
non già al momento stesso della stipulazione del contratto.
È certo che la disciplina sull'Iva segua i suoi peculiari
principi, ma nel caso di specie è significativo il supporto
interpretativo che proviene da settori distinti del diritto.
Infatti, la sottoscrizione della convenzione non definiva
assolutamente nulla se non l'assunzione di obblighi
endoprocedimentali, restando ancora incerto l'oggetto della
prestazione. (Era anzi addirittura prospettata l'ipotesi di
dover versare in moneta la differenza risultante tra gli
oneri computati e le opere edili pubbliche realizzate).
L'Agenzia ha censurato la sentenza affermando al contrario
che la disciplina sanzionatoria trovi indifferente
applicazione agli omessi o tardivi versamenti come agli
indebiti rimborsi. La questione trova soluzione proprio
nell'esito del giudizio relativo all'obbligo di
fatturazione. Non essendovi infatti obbligo di fatturazione
al momento della sottoscrizione, l'Amministrazione ha
erroneamente assoggettato ad Iva l'importo
(Corte di Cassazione, Sez. V civile,
sentenza 22.06.2018 n. 16533 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI:
Tra i “sopravvenuti motivi di pubblico interesse”
che giustificano la revoca dell’aggiudicazione e, quindi, la
caducazione del contratto, ben possono rientrare anche
comportamenti scorretti dell’aggiudicatario che si siano
manifestati successivamente all’aggiudicazione definitiva
(fattispecie già conosciuta in giurisprudenza, cfr. Cons.
Stato, 2804/2017, avente ad oggetto il
mancato assolvimento agli obblighi contributivi emerso
successivamente all’aggiudicazione; Cons. Stato, 3054/2016, ove la revoca era giustificata dal
rifiuto dell’aggiudicatario di stipulare il contratto prima
che fossero modificate talune clausole contenute nel
capitolato di gara; Cons. Stato, 143/2015, revoca giustificata per violazione delle clausole dei
Protocolli di legalità; e TAR Liguria, 55/2017), nel cui ambito può agevolmente rientrare anche
l’inosservanza dell’obbligo di assunzione dei disabili, una
volta che si siano ripristinate le condizioni per la sua
operatività.
---------------
2.- Nell’odierno giudizio parte ricorrente si duole
dell’illegittima esclusione dalla procedura di gara cui ha
preso parte, risultando essere l’unica offerente rimasta in
gara.
In base alle censure dedotte, il ricorso è fondato e merita
accoglimento, con obbligo per l’Amministrazione di
concludere il procedimento di gara e determinarsi in ordine
all’aggiudicazione dell’appalto alla odierna ricorrente, con
salvezza di nuovi e motivati provvedimenti nei limiti che
saranno esposti a seguire.
Il Collegio reputa necessario muovere dalla disamina
dell’ordito normativo di riferimento, atteso che l’impugnato
provvedimento di esclusione si fonda sul presupposto che
l’On. non abbia ottemperato alle norme sull'assunzione dei
disabili.
La stazione appaltante, in particolare, ha sostenuto che, ai
fini dell'adempimento degli obblighi di legge relativi
all’assunzione di personale disabile, la mera stipulazione
della convenzione, laddove di fatto inadempiute, non fosse
sufficiente a ritenere adempiuto il corrispondente obbligo.
A suo, avviso, infatti, la ratio della norma posta a
tutela dei disabili è quella di funzionalizzare gli appalti
pubblici ad esigenze sociali che non possono dirsi
realizzate con la semplice stipula della convenzione con cui
un datore di lavoro/operatore economico si impegni sic et
simpliciter all'assunzione dei disabili oggetto di
convenzione, necessitandosi anche l'effettivo adempimento
alla predetta obbligazione.
Tale interpretazione, a parere del Collegio, non può essere
condivisa.
L’art. 80, co. 5, lett. i), d.lgs. n. 50/2016 s.m.i.,
prevede tra i motivi di esclusione l’ipotesi in cui “l’operatore
economico non presenti la certificazione di cui all’art. 17
della l. 12.03.1999 n. 68 ovvero non autocertifichi la
sussistenza del medesimo requisito”, ponendosi così nel
solco già tracciato dall’art. 38 comma 1, lett. l), del
previgente codice (D.Lgs 163/2006) che, sotto la rubrica "Requisiti
di ordine generale", disponeva: "Sono esclusi dalla
partecipazione alle procedure di affidamento delle
concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi,
né possono essere affidatari di subappalti, e non possono
stipulare i relativi contratti i soggetti .... che non
presentino la certificazione di cui all'articolo 17 della
legge 12.03.1999, n. 68, salvo il disposto del comma 2".
Il citato art. 17, rubricato "Obbligo di certificazione",
statuisce che "Le imprese, sia pubbliche sia private,
qualora partecipino a bandi per appalti pubblici o
intrattengano rapporti convenzionali o di concessione con
pubbliche amministrazioni, sono tenute a presentare
preventivamente alle stesse la dichiarazione del legale
rappresentante che attesti di essere in regola con le norme
che disciplinano il diritto al lavoro dei disabili, pena
l'esclusione".
Ciò in quanto, ai sensi dell'art. 11, comma 1, della 1. n.
68/1999, "Al fine di favorire l'inserimento lavorativo
dei disabili, gli uffici competenti, sentito l'organismo di
cui all'articolo 6, comma 3, del decreto legislativo
23.12.1997, n. 469, come modificato dall'articolo 6 della
presente legge, possono stipulare con il datore di lavoro
convenzioni aventi ad oggetto la determinazione di un
programma mirante al conseguimento degli obiettivi
occupazionali di cui alla presente legge".
La stipula di tali convenzioni costituisce adempimento degli
obblighi imposti dalla legge: infatti, l'art. 7, co. 1,
stabilisce che "1. Ai fini dell'adempimento dell'obbligo
previsto dall'articolo 3 (assunzioni obbligatorie di
disabili in imprese in bonis di grosse dimensioni), i datori
di lavoro privati e gli enti pubblici economici assumono i
lavoratori mediante richiesta nominativa di avviamento agli
uffici competenti o mediante la stipula delle convenzioni di
cui all'articolo 11".
Orbene, anteriormente alla formulazione dell’offerta,
l’odierna ricorrente, in data 28.06.2017, stante l’avvenuto
superamento nell’anno 2016 del numero di 15 dipendenti,
aveva stipulato la Convenzione di cui all’art. 11 cit, con
il Centro per l’impiego di Catania, obbligandosi
all’assunzione, entro il 31.12.2017, all’assunzione di un
lavoratore disabile.
Tuttavia, l’art. 15 della predetta convenzione espressamente
contemplava la sospensione dell’obbligo in questione,
qualora, nell’arco temporale di validità, fossero venute
meno le condizioni cui era subordinato il dovere assunzione.
In ragione di tale previsione, essendo il livello
occupazionale della società ricorrente contrattosi al di
sotto della soglia prevista, il Centro dell’Impiego di
Catania, interpellato dalla stazione appaltante, con nota
del 01.02.2018, escludeva la sussistenza, in capo all’On.
S.r.l., di obblighi di assunzione ex lege 68/1999.
Tale disamina del dato normativo induce, unitamente a quanto
certificato dall’amministrazione competente, a ritenere che
alcuna violazione degli obblighi di assunzione sia
ascrivibile all’odierna ricorrente, atteso che, al momento
della verifica della sussistenza dei requisiti di
partecipazione, l’operatività della su riportata clausola
convenzione ne aveva sospeso la vincolatività, non potendosi
ritenere, alla luce del suo chiaro tenore letterale, che la
sospensione automatica ivi prevista, come sostenuto dalla
resistente, si riferisse a quella contemplata dall’art. 3,
comma 5, della medesima legge, considerando quest’ultima
un’ipotesi peculiare e specifica, e cioè la sottoposizione
dell’impresa a procedura di mobilità.
Né può sostenersi che una simile interpretazione possa
condurre ad eludere la portata cogente del dato normativo,
dovendosi rammentare che tra i “sopravvenuti motivi di
pubblico interesse” che giustificano la revoca
dell’aggiudicazione e, quindi, la caducazione del contratto,
ben possono rientrare anche comportamenti scorretti
dell’aggiudicatario che si siano manifestati successivamente
all’aggiudicazione definitiva (fattispecie già conosciuta in
giurisprudenza, cfr. Cons. Stato, sez. V, 12.06.2017, n.
2804 avente ad oggetto il mancato assolvimento agli obblighi
contributivi emerso successivamente all’aggiudicazione;
Cons. Stato, sez. V, 11.07.2016, n. 3054, ove la revoca era
giustificata dal rifiuto dell’aggiudicatario di stipulare il
contratto prima che fossero modificate talune clausole
contenute nel capitolato di gara; Cons. Stato, sez. IV,
20.01.2015, n. 143, revoca giustificata per violazione delle
clausole dei Protocolli di legalità; e TAR Liguria, sez. II,
27.01.2017, n. 55), nel cui ambito può agevolmente rientrare
anche l’inosservanza dell’obbligo di assunzione de quo, una
volta che si siano ripristinate le condizioni per la sua
operatività (cfr.: Consiglio di Stato, sez. V, 11/01/2018,
n. 120).
In definitiva, alla luce di tutte le superiori
argomentazioni l’impugnato provvedimento di esclusione deve
essere annullato, al pari della lettera d’invito con cui
l’amministrazione resistente ha indetto una nuova procedura
concorsuale per il medesimo servizio (TAR Campania-Salerno,
Sez. I,
sentenza 05.06.2018 n. 884 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non è possibile affermare
in assoluto che la tettoia richiede, o non richiede, il
titolo edilizio maggiore e assoggettarla, o non
assoggettarla, alla relativa sanzione senza considerare
nello specifico come essa è realizzata.
---------------
Con la determinazione 18.10.2011 meglio indicata in
epigrafe, l’amministrazione intimata appellata ha ordinato
ai ricorrenti appellanti, il primo quale usufruttuario
responsabile e la seconda quale nuda proprietaria, di
rimuovere in quanto abusiva, perché realizzata senza titolo
alcuno, una copertura con tenda in tessuto sorretta da una
struttura principale e secondaria di legno installata sulla
terrazza a livello del locale soffitta al sesto piano
dell’immobile situato in via ... 201 (doc. s.n. in I grado
ricorrenti appellanti, atto impugnato, allegato al ricorso
introduttivo).
Con la sentenza a sua volta meglio indicata in epigrafe, il
TAR ha respinto il ricorso proposto dagli interessati contro
tale provvedimento, ritenendo che l’opera integrasse
ristrutturazione soggetta al necessario rilascio di un
permesso di costruire, e non di un titolo edilizio minore,
in quanto struttura stabile modificatrice della sagoma
dell’edificio, e che quindi in mancanza del permesso stesso
ne fosse stata correttamente ingiunta la demolizione.
...
1. L’appello è fondato e va accolto, per le ragioni di
seguito precisate.
2. L’abuso contestato ai ricorrenti appellanti consiste
nella realizzazione di una tettoia, ovvero di un manufatto
la cui disciplina non è definita in modo univoco né nella
normativa né in giurisprudenza.
2.1 Dal punto di vista normativo, va considerato anzitutto
l’art. 6 del T.U. 06.06.2001 n. 380, che contiene l’elenco
delle opere di cd edilizia libera, le quali non necessitano
di alcun titolo abilitativo; a prescindere dalla natura
esemplificativa o tassativa che si voglia riconoscere a tale
elenco, va poi osservato che esso comprende voci di per sé
abbastanza generiche, tali da poter ricomprendere anche
opere non espressamente nominate.
Con riferimento alle tettoie, rileva in particolare la voce
di cui all’art. 6, comma 1, lettera e)-quinquies, che
considera opere di edilizia libera gli “elementi di
arredo delle aree pertinenziali degli edifici”, concetto
nel quale può sicuramente rientrare una tettoia
genericamente intesa, come copertura comunque realizzata di
un’area pertinenziale, come il terrazzo.
La norma è stata introdotta dall’art. 3 del d.lgs.
25.11.2016 n. 222, ma si deve considerare applicabile anche
alle costruzioni precedenti, come quella per cui è causa,
per due ragioni.
In primo luogo, nel diritto delle sanzioni è
principio generale e notorio, e come tale non richiede
puntuali citazioni, che non si possano subire conseguenze
sfavorevoli per un comportamento in ipotesi illecito nel
momento in cui è stato realizzato, che più non lo sia quando
si tratti di applicare le sanzioni stesse.
In secondo luogo, la giurisprudenza di cui subito si
dirà, anche in epoca anteriore alla modifica legislativa di
cui s’è detto, distingueva all’interno della categoria in
esame costruzione da costruzione assoggettandola a regime
diverso a seconda delle sue caratteristiche.
2.2 In materia, è poi intervenuto di recente un chiarimento
da parte del legislatore, ovvero il recente D.M. 02.03.2018,
pubblicato nella G.U. 07.04.2018 n. 81, di “Approvazione
del glossario contenente l'elenco non esaustivo delle
principali opere edilizie realizzabili in regime di attività
edilizia libera”, ai sensi dell'articolo 1, comma 2, del
citato d.lgs. 222/2016.
A sua volta, la norma dell’art. 1, comma 2, prevede che “Con
riferimento alla materia edilizia, al fine di garantire
omogeneità di regime giuridico in tutto il territorio
nazionale, con decreto del Ministro delle infrastrutture e
dei trasporti di concerto con il Ministro delegato per la
semplificazione e la pubblica amministrazione, da emanare
entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del
presente decreto, previa intesa con la Conferenza unificata
di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28.08.1997, n.
281, è adottato un glossario unico, che contiene l'elenco
delle principali opere edilizie, con l'individuazione della
categoria di intervento a cui le stesse appartengono e del
conseguente regime giuridico a cui sono sottoposte, ai sensi
della tabella A di cui all'articolo 2 del presente decreto”.
Il decreto ministeriale attuativo di cui s’è detto
comprende, al n. 50 del glossario delle opere realizzabili
senza titolo edilizio alcuno, in particolare le cd.
pergotende, ovvero, per comune esperienza, strutture di
copertura di terrazzi e lastrici solari, di superficie anche
non modesta, formate da montanti ed elementi orizzontali di
raccordo e sormontate da una copertura fissa o ripiegabile
formata da tessuto o altro materiale impermeabile, che
ripara dal sole, ma anche dalla pioggia, aumentando la
fruibilità della struttura. Si tratta quindi di un manufatto
molto simile alla tettoia, che se ne distingue secondo
logica solo per presentare una struttura più leggera.
2.3 Al polo opposto, v’è l’art. 10, comma 1, lettera a), del
T.U. 380/2001, che assoggetta invece al titolo edilizio
maggiore, ovvero al permesso di costruire, “gli
interventi di nuova costruzione”. Come subito si vedrà,
la giurisprudenza si fonda su tale norma per richiedere
appunto il permesso di costruire nel caso di tettoie di
particolari dimensioni e caratteristiche.
Si afferma infatti in via generale che tale struttura
costituisce intervento di nuova costruzione e richiede il
permesso di costruire nel momento in cui difetta dei
requisiti richiesti per le pertinenze e gli interventi
precari, ovvero quando modifica la sagoma dell’edificio: fra
le molte, C.d.S. sez. IV 08.01.2018 n. 12 e sez. VI
16.02.2017 n. 694.
3. Da tutto ciò, emerge chiara una conseguenza: non è
possibile affermare in assoluto che la tettoia richiede, o
non richiede, il titolo edilizio maggiore e assoggettarla, o
non assoggettarla, alla relativa sanzione senza considerare
nello specifico come essa è realizzata. In proposito,
quindi, l’amministrazione ha l’onere di motivare in modo
esaustivo, attraverso una corretta e completa istruttoria
che rilevi esattamente le opere compiute e spieghi per quale
ragione esse superano i limiti entro i quali si può trattare
di una copertura realizzabile in regime di edilizia libera.
4. Tutto ciò non si ritrova nel provvedimento impugnato, che
come detto in narrativa si limita ad una descrizione
generica di quanto rilevato, a fronte della quale, si noti,
la difesa dei ricorrenti appellanti (già nel ricorso di I
grado a p. 4) è nel senso che si tratterebbe di una tenda da
sole scorrevole su binari, ovvero proprio di una delle
pergotende di cui si è detto.
Il provvedimento stesso va allora annullato, con salvezza
com’è ovvio di eventuali successivi provvedimenti
dell’amministrazione, conseguenti a un congruo riesame della
fattispecie concreta (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 07.05.2018 n. 2715 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’abuso edilizio costituisce –sotto il profilo
amministrativo– un illecito a carattere permanente e
pertanto non rileva che l’addizione abusiva sia stata
realizzata dal precedente proprietario dell’immobile”.
Ne deriva che “rispetto all’esercizio del potere
sanzionatorio (e salva la normativa sulla nullità del
contratto in presenza dei relativi presupposti), sono
infatti irrilevanti le alienazioni del manufatto (in tutto o
in parte abusivo) sotto il profilo privatistico.
L’acquirente, infatti, subentra nella situazione giuridica
del dante causa che –consapevolmente o meno- ha violato la
normativa urbanistica ed edilizia e poiché, se ignaro
dell’abuso al momento della alienazione, può agire nei
confronti del dante causa anche prima dell’esercizio dei
poteri repressivi da parte del Comune, a maggior ragione
quando riceva (…) un pregiudizio in conseguenza dei doverosi
atti amministrativi repressivi, può agire sia nei confronti
del notaio che in ipotesi non abbia rilevato l’assenza del
titolo edilizio, sia nei confronti del dante causa e
dell’autore dell’abuso (secondo un principio, ab antiquo
affermato dalla giurisprudenza amministrativa e da quella
civile)”.
Tale prospettiva trova conforto nella piana formulazione
dell’art. 31 del DPR 380/2001, secondo cui “il dirigente o
il responsabile del competente ufficio comunale, accertata
l'esecuzione di interventi in assenza di permesso (…)
ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso la
rimozione o la demolizione”.
---------------
Il ricorso è infondato e va, pertanto, respinto.
Non coglie nel segno il primo motivo, tenuto conto
che “l’abuso edilizio costituisce –sotto il profilo
amministrativo– un illecito a carattere permanente e
pertanto non rileva che l’addizione abusiva sia stata
realizzata dal precedente proprietario dell’immobile” (cfr.
Consiglio di Stato, sez. VI, 05.04.2013, n. 1886).
Ne deriva che “rispetto all’esercizio del potere
sanzionatorio (e salva la normativa sulla nullità del
contratto in presenza dei relativi presupposti), sono
infatti irrilevanti le alienazioni del manufatto (in tutto o
in parte abusivo) sotto il profilo privatistico.
L’acquirente, infatti, subentra nella situazione giuridica
del dante causa che –consapevolmente o meno- ha violato la
normativa urbanistica ed edilizia e poiché, se ignaro
dell’abuso al momento della alienazione, può agire nei
confronti del dante causa anche prima dell’esercizio dei
poteri repressivi da parte del Comune, a maggior ragione
quando riceva (…) un pregiudizio in conseguenza dei doverosi
atti amministrativi repressivi, può agire sia nei confronti
del notaio che in ipotesi non abbia rilevato l’assenza del
titolo edilizio, sia nei confronti del dante causa e
dell’autore dell’abuso (secondo un principio, ab antiquo
affermato dalla giurisprudenza amministrativa e da quella
civile)” (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 30.04.2013,
n. 2363).
Tale prospettiva trova conforto nella piana formulazione
dell’art. 31 del DPR 380/2001, secondo cui “il dirigente
o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata
l'esecuzione di interventi in assenza di permesso (…)
ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso la
rimozione o la demolizione” (TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 01.03.2018 n. 611 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La legittimità di un provvedimento va valutata al
momento della sua adozione, irrilevanti essendo fatti
successivi.
---------------
Parimenti infondato è il terzo motivo, con cui si è
dedotta l’irresponsabilità della ricorrente per effetto
della nullità del contratto di compravendita, mancando, a
tal fine, una pronuncia dichiarativa al momento
dell’emissione dell’impugnato provvedimento.
Sul punto, il Collegio non può, pertanto, prescindere dal
richiamo al principio in forza del quale “la legittimità
di un provvedimento va valutata al momento della sua
adozione, irrilevanti essendo fatti successivi” (cfr.
Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 04.05.2012, n. 8) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 01.03.2018 n. 611 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La superficie lorda di pavimento è da intendersi
come “la somma delle superfici lorde di un fabbricato
comprese entro il perimetro esterno delle murature di tutti
i livelli abitabili o agibili, fuori o dentro terra degli
edifici qualunque sia la loro destinazione d’uso, compresa
la proiezione orizzontale dei muri delle scale fisse e
mobili e dei vani ascensori”.
---------------
Sono, inoltre, infondati il quarto, quinto e
sesto motivo, connotati da stretta dipendenza e
quindi esaminabili in modo congiunto, con cui la ricorrente
ha contestato, nel merito, che nella specie siano stati
commessi degli abusi edilizi.
Un’analisi dei puntuali rilievi esplicitati nell’impugnato
provvedimento evidenzia, infatti, che si tratta di opere che
hanno determinato un ampliamento della superficie lorda di
pavimento (collegamento tra terrazzo e abitazione;
soppalco), quest’ultima da intendersi come “la somma
delle superfici lorde di un fabbricato comprese entro il
perimetro esterno delle murature di tutti i livelli
abitabili o agibili, fuori o dentro terra degli edifici
qualunque sia la loro destinazione d’uso, compresa la
proiezione orizzontale dei muri delle scale fisse e mobili e
dei vani ascensori” (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV,
07.06.2012, n. 3385) e, che, inoltre, vi è stato un
incremento significativo (60 cm) dell’altezza del
sottotetto.
Fermo restando che tali opere sono estranee alla pratica di
condono, come puntualmente rilevato dalla Sezione
nell’ordinanza n. 412 del 12.03.2008, è agevole concludere
che l’immobile controverso è stato oggetto di un
ristrutturazione edilizia (ai sensi dell’art. 27, comma 1,
lett. d), della legge regionale 12/2005), neppure
lontanamente paragonabile alla manutenzione (ordinaria o
straordinaria che sia) sostanzialmente prospettata dalla
ricorrente.
La pacifica assenza di conformità edilizia rende, perciò,
implausibile l’assunto secondo cui, nella specie, il
fondamento dell’azione repressiva sarebbe da rinvenire nella
tutela dell’igiene pubblica (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 01.03.2018 n. 611 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non v’è necessaria identità di disciplina tra
titolo abilitativo edilizio e certificato di agibilità: i
detti diversi provvedimenti (…) sono collegati a presupposti
diversi e danno vita a conseguenze disciplinari non
sovrapponibili.
Infatti, il certificato di agibilità ha la funzione di
accertare che l’immobile al quale si riferisce è stato
realizzato nel rispetto delle norme tecniche vigenti in
materia di sicurezza, salubrità, igiene, risparmio
energetico degli edifici e degli impianti (come
espressamente recita l’art. 24 del Testo unico
dell’edilizia), mentre il rispetto delle norme edilizie ed
urbanistiche è oggetto della specifica funzione del titolo
edilizio.
Il che comporta che i diversi piani ben possano convivere
sia nella forma fisiologica della conformità dell’edificio
ad entrambe le tipologie normative, sia in quella patologica
di una loro divergenza (si ricordano episodi
giurisprudenziali in cui si è affermata l’illegittimità del
diniego della agibilità motivato unicamente con la
difformità dell’immobile dal progetto approvato oppure, in
senso opposto, l’irrilevanza del rilascio del certificato di
agibilità come fatto ostativo al potere del sindaco di
reprimere abusi edilizi o alla revoca di un eventuale
precedente ordine di demolizione delle opere).
---------------
Come ha, in più occasioni, ribadito la giurisprudenza, “non
v’è necessaria identità di disciplina tra titolo abilitativo
edilizio e certificato di agibilità: i detti diversi
provvedimenti (…) sono collegati a presupposti diversi e
danno vita a conseguenze disciplinari non sovrapponibili.
Infatti, il certificato di agibilità ha la funzione di
accertare che l’immobile al quale si riferisce è stato
realizzato nel rispetto delle norme tecniche vigenti in
materia di sicurezza, salubrità, igiene, risparmio
energetico degli edifici e degli impianti (come
espressamente recita l’art. 24 del Testo unico
dell’edilizia), mentre il rispetto delle norme edilizie ed
urbanistiche è oggetto della specifica funzione del titolo
edilizio. Il che comporta che i diversi piani ben possano
convivere sia nella forma fisiologica della conformità
dell’edificio ad entrambe le tipologie normative, sia in
quella patologica di una loro divergenza (si ricordano
episodi giurisprudenziali in cui si è affermata
l’illegittimità del diniego della agibilità motivato
unicamente con la difformità dell’immobile dal progetto
approvato –Consiglio di Stato, sez. V, 06.07.1979 n. 479–
oppure, in senso opposto, l’irrilevanza del rilascio del
certificato di agibilità come fatto ostativo al potere del
sindaco di reprimere abusi edilizi –id., 03.02.1992 n. 87– o
alla revoca di un eventuale precedente ordine di demolizione
delle opere – id., 15.04.1977 n. 335)” (cfr. Consiglio
di Stato, sez. IV, 26.08.2014, n. 4309) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 01.03.2018 n. 611 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
L’art. 2, comma 1, della legge n. 241 del 1990
stabilisce che “ove il procedimento consegua
obbligatoriamente ad un’istanza, ovvero debba essere
iniziato d’ufficio, le pubbliche amministrazioni hanno il
dovere di concluderlo mediante l’adozione di un
provvedimento espresso. Se ravvisano la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o
infondatezza della domanda, le pubbliche amministrazioni
concludono il procedimento con un provvedimento espresso
redatto in forma semplificata, la cui motivazione può
consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o
di diritto ritenuto risolutivo”. I commi 9-bis e seguenti
individuano i rimedi per superare l’inerzia
dell’Amministrazione e attivare i poteri sostitutivi al fine
di ottenere comunque un provvedimento espresso.
Le disposizioni normative richiamate in precedenza vanno
interpretate nel senso che il legislatore ha voluto imporre
all’Amministrazione, senza eccezione alcuna, l’obbligo di
provvedere sulle istanze dei privati, indipendentemente dal
loro grado di fondatezza o addirittura di ammissibilità o di
ricevibilità. Pertanto, anche a fronte di istanze del tutto
abnormi sorge in capo all’Amministrazione il dovere di
provvedere con un atto espresso. A bilanciare una tale
soluzione –potenzialmente gravosa per lo svolgimento
dell’attività amministrativa– è stata appunto prevista la
possibilità di motivare in maniera semplificata laddove
l’istanza risulti manifestamente irricevibile,
inammissibile, improcedibile o infondata.
A supporto della predetta conclusione, ovvero in ordine ad
un generalizzato obbligo di provvedere, si possono
richiamare anche i principi affermati in relazione alla
risarcibilità del danno da mero ritardo, secondo quanto
previsto dall’art. 2-bis della legge n. 241 del 1990, che
assegna rilievo al tempo perduto e all’incertezza prodottasi
a causa dell’inosservanza, dolosa o colposa, del termine di
conclusione del procedimento, “sul presupposto che la
certezza ed il rispetto dei tempi dell’azione
amministrazione costituiscano un autonomo bene della vita,
sul quale il privato, tanto più se operatore economico,
debba poter fare ragionevole affidamento al fine di autodeterminarsi ed orientare la propria libertà economica”.
In ogni caso, si configura un silenzio-inadempimento tutte
le volte in cui l’Amministrazione contravvenga ad un preciso
obbligo di provvedere sia in base ad espresse previsioni di
legge, sia nelle ipotesi che discendono dai principi
generali o dalla peculiarità del caso concreto.
---------------
1. Il ricorso è fondato.
2. In data 12.07.2017, il ricorrente ha formulato agli
Uffici comunali una “istanza di rettifica di errore
materiale del PGT – Comune di Lainate ai sensi dell’art. 13,
comma 14-bis, l.r. 11.03.2005 n. 12”, chiedendo di procedere
alla corretta assegnazione della destinazione d’uso
dell’area, nonché di procedere alle correzioni all’uopo
occorrenti nei diversi elaborati afferenti agli atti
costituenti il P.G.T. e relativi allegati (all. 1 al
ricorso). Tale istanza non è stata affatto riscontrata, come
emerge anche dalle difese comunali.
2.1. L’art. 2, comma 1, della legge n. 241 del 1990
stabilisce che “ove il procedimento consegua
obbligatoriamente ad un’istanza, ovvero debba essere
iniziato d’ufficio, le pubbliche amministrazioni hanno il
dovere di concluderlo mediante l’adozione di un
provvedimento espresso. Se ravvisano la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o
infondatezza della domanda, le pubbliche amministrazioni
concludono il procedimento con un provvedimento espresso
redatto in forma semplificata, la cui motivazione può
consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o
di diritto ritenuto risolutivo”. I commi 9-bis e seguenti
individuano i rimedi per superare l’inerzia
dell’Amministrazione e attivare i poteri sostitutivi al fine
di ottenere comunque un provvedimento espresso.
Le disposizioni normative richiamate in precedenza vanno
interpretate nel senso che il legislatore ha voluto imporre
all’Amministrazione, senza eccezione alcuna, l’obbligo di
provvedere sulle istanze dei privati, indipendentemente dal
loro grado di fondatezza o addirittura di ammissibilità o di
ricevibilità. Pertanto, anche a fronte di istanze del tutto
abnormi sorge in capo all’Amministrazione il dovere di
provvedere con un atto espresso. A bilanciare una tale
soluzione –potenzialmente gravosa per lo svolgimento
dell’attività amministrativa– è stata appunto prevista la
possibilità di motivare in maniera semplificata laddove
l’istanza risulti manifestamente irricevibile,
inammissibile, improcedibile o infondata (TAR Valle
d’Aosta, 11.11.2016, n. 53; TAR Lombardia, Milano, III, 04.06.2014, n. 1412).
A supporto della predetta conclusione, ovvero in ordine ad
un generalizzato obbligo di provvedere, si possono
richiamare anche i principi affermati in relazione alla
risarcibilità del danno da mero ritardo, secondo quanto
previsto dall’art. 2-bis della legge n. 241 del 1990, che
assegna rilievo al tempo perduto e all’incertezza prodottasi
a causa dell’inosservanza, dolosa o colposa, del termine di
conclusione del procedimento, “sul presupposto che la
certezza ed il rispetto dei tempi dell’azione
amministrazione costituiscano un autonomo bene della vita,
sul quale il privato, tanto più se operatore economico,
debba poter fare ragionevole affidamento al fine di autodeterminarsi ed orientare la propria libertà economica”
(cfr. Consiglio di Stato, III, 03.08.2011, n. 4639).
2.2. In ogni caso, si configura un silenzio-inadempimento
tutte le volte in cui l’Amministrazione contravvenga ad un
preciso obbligo di provvedere sia in base ad espresse
previsioni di legge, sia nelle ipotesi che discendono dai
principi generali o dalla peculiarità del caso concreto (cfr.
Consiglio di Stato, III, 02.05.2016, n. 1660) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 06.02.2018 n. 348 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
inizio
home-page |
|